Scarica seconda parte del riassunto sulle istituzioni, fonti e competenze giudiziarie dell'UE. e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! Non è imputabile neppure un atto che, sebbene adottato nell’ambito del consiglio, debba qualificarsi come atto collettivo degli stati membri. Qualora invece, l’atto costituisca una decisione sia del consiglio, sia dei rappresentanti degli stati membri riuniti in sede di consiglio, sebbene essa appaia un atto ibrido, in quanto adottata dal consiglio è impugnabile. Oltre all’imputabilità all’unione europea, l’imputabilità di un atto richiede che esso sia un atto legislativo, cioè adottato con una procedura legislativa, ordinaria o speciale o che sia produttivo di effetti giuridici obbligatori. L’art.263 tfue esclude l’imputabilità delle raccomandazioni e dei pareri. Ciò non significa che sia imputabili solo gli atti tipici (diversi da raccomandazioni e pareri) e quindi regolamenti, direttive e decisioni. Accanto a questi atti vanno considerati imputabili tutti gli atti dell’unione che, a prescindere dalla loro denominazione, sia idonei a produrre effetti obbligatori. L’impugnazione è destinata a garantire il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del trattato. La corte segue un’impostazione sostanzialistica, per la quale è irrilevante la denominazione o la forma dell’atto, mentre è decisivo, ai fini della sua impugnabilità, che esso sia suscettibile di creare obblighi o diritti per i terzi. Questo requisito è espressamente sancito dall’art.263 tfue per gli atti del parlamento europeo e del consiglio europeo, per quelli degli organi e organismi dell’unione, ma alla luce della giurisprudenza, può riferirsi a tutti gli atti delle istituzioni europee. Tale impostazione ha il risultato di estendere al massimo il controllo di legalità sugli atti dell’unione e, in corrispondenza di garantire il più possibile la tutela giurisdizionale dei soggetti. Alla stregua di detta impostazione sostanzialistica, sono stati considerati imputabili numerosi atti atipici, quali comunicazioni, codici di condotta o semplici lettere della commissione. Si tratta di atti talvolta apparentemente non offensivi, tenuto conto della loro denominazione, ma che potrebbero invece pregiudicare posizioni giuridiche e contro i quali è particolarmente necessario apprestare una tutela giudiziaria, poiché essi, non avendo una veste giuridica tipica, tendono a sfuggire al controllo giudiziario. La corte no ha mancato di ammettere l’impugnabilità di atti che non sembravano produttivi di diritti e di obblighi verso determinati soggetti, ma solo di effetti giuridici di carattere obiettivo. La condizione di impugnabilità consistente nell’idoneità dell’atto a produrre effetti giuridici obbligatori implica che sono imputabili solo atti definitivi non anche quelli meramente preparatori di altri atti, la cui invalidità potrà essere fatta valere in sede di impugnazione dell’atto finale del procedimento. Non impugnabili sono pure gli atti meramente confermativi di atti precedenti. L’impugnazione è esclusa anche per gli atti dell’Unione che si limitano a prendere atto di provvedimento nazionali, i quali costituiscono la reale fonte di effetti giuridici. Riguardo gli atti impugnabili va ricordata la disposizione contenuta nell’art.14 dello statuto della banca centrale europea, la quale ammette il ricorso alla corte di giustizia, per violazione dei trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, contro la decisione di uno stato membro di sollevare dall’incarico il governatore della propria banca centrale. La legittimazione all’impugnazione Per quanto riguarda la legittimazione a impugnare atti dell’Unione, dall’art.263 tfue discende una distinzione tra ricorrenti cd privilegiati e ricorrenti cd non privilegiati. La distinzione risiede che i primi possono impugnare l’atto anche se non li riguardi specificatamente, senza bisogno cioè di allegare un loro interesse ad agire. I secondi, al contrario, possono impugnare solo un atto che leda le proprie prerogative o i loro individuali interessi. Sono legittimati a proporre tale ricorso tutti gli stati membri e 3 istituzioni europee: parlamento europeo, commissione e consiglio. Il loro ricorso non è subordinato ad alcuna condizione soggettiva, né a un interesse ad agire. Per quanto concerne gli stati, va precisato che la legittimazione spetto solo allo stato quale rappresentato dal suo governo, non anche ad altri enti pubblici, come enti locali, in specie regioni. Ciò non esclude che le regioni hanno la possibilità di impugnare atti dell’unione nella loro qualità di persone giuridiche. (questi sono i ricorrenti privilegiati). I ricorrenti non privilegiati sono la corte dei conti, la banca centrale europea e il comitato delle regioni. La loro legittimazione è subordinata all’interesse a tutelare le loro prerogative, ritenute pregiudicate dall’atto impugnato. La legittimazione a impugnare atti dell’unione è riconosciuta, ma sempre a condizione che sussista un loro interesse ad agire, anche ai singoli persone fisiche e giuridiche, le quali sono considerate ricorrenti non privilegiati. Riguardo all’interesse ad agire, secondo una giurisprudenza consolidata, esso deve permanere fino alla pronuncia della decisione giudiziaria, il che presuppone che il ricorso possa, con il suo risultato, procurare beneficio alla parte che lo ha proposto. Gli atti istitutivi di organi e organismi dell’unione possono prevedere una specifica disciplina relativa ai ricorsi individuali nei confronti di atti emanati da tali organi e organismi. Analizzando l’art.263 comma 4° i ricorrenti in questione comprendono anche le persone giuridiche di diritto pubblico, come regioni, comuni o altri enti locali. La legittimazione delle regioni è ammessa quando le loro competenze non possono ritenersi assorbite da quello dello stato cui appartengono, ma presentano una propria autonomia. I singoli possono agire solo per l’annullamento di atti pregiudizievoli per i loro interessi giuridicamente tutelati. L’ipotesi tipica è quella, contemplata art.263,4°, del ricorso proposto dal destinatario dell’atto, per esempio, di una decisione o di un atto che, quale che sia la denominazione, abbia comunque carattere individuale. La stessa disposizione amplia la legittimazione delle persone fisiche e giuridiche a impugnare anche gli atti che, pur non adottati nei loro confronti, le riguardino direttamente e individualmente. Alla luce della giurisprudenza formatasi nel vigore della disciplina anteriore al trattato di lisbona, può dirsi che una prima ipotesi di atti del genere è riferibile anzitutto ai regolamenti, ma anche ad altri atti a portata generale, come le direttive, sempreché riguardino direttamente e individualmente il ricorrente o decisioni che non designino i destinatari. Il termine d’impugnazione L’impugnazione degli atti dell’unione è sottoposta al termine di 2 mesi ai sensi dell’art.263 tfue a decorrere dalla pubblicazione dell’atto, dalla sua notificazione al ricorrente o dal giorno in cui il ricorrente ne ha avuto conoscenza. Il termine di 2 mesi decorre dalla data della effettiva conoscenza dell’atto da parte del ricorrente solo se esso non sia stato pubblicato o notificato. In caso contrario, il termine decorre sempre dalla pubblicazione o dalla notificazione, anche se il ricorrente ne aveva avuto conoscenza in precedenza. In realtà il termine è prolungato rispetto ai 2 mesi poiché termini aggiuntivi sono previsti dal regolamento di procedura in ragione della distanza del ricorrente. Ai sensi dello statuto della corte, la decadenza dal diritto di impugnazione non può essere eccepita ove il ricorrente provi l’esistenza di un caso fortuito o di forza maggiore. In mancanza di tali eventi, la scadenza del termine rende il ricorso irricevibile, assicura la definitività dell’atto e produce l’impossibilità di contestarne la legittimità anche dinanzi ai giudici nazionali. La violazione del termine d’impugnazione è rilevata d’ufficio dal giudice. I motivi d’impugnazione I vizi d’impugnazione si identificano con i vizi dell’atto che, ove esistenti, conducono al suo annullamento. Essi sono stabiliti nell’art.263 tfue e consistono nell’incompetenza, violazione delle forme sostanziali, violazione dei trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, sviamento di potere. Tali motivi, modellati sul sistema di giustizia amministrativa, si riferiscono tutti alla legittimità dell’atto, cioè alla sua conformità alle norme giuridiche che ne disciplinano la formazione. Il controllo della corte non si estende al merito, cioè al contenuto dell’atto e alla sua opportunità. I vizi di incompetenza e di violazione delle forme sostanziali comportano una violazione dei trattati, i quali disciplinano la competenza dell’unione e delle sue istituzioni, così come i requisiti formali degli atti. Il vizio della violazione dei trattati finisce per avere un valore residuale rispetto ai primi due e consiste nel contrasto dell’atto con le norme e i principi materiali dei trattati. La distinzione può avere una sua rilevanza. Dalla giurisprudenza sembra emergere che solo i vizi di incompetenza e di violazione delle forme sostanziali sono di ordine pubblico e rilevabili d’ufficio dal giudice, anche se non invocati dal ricorrente, mentre gli altri due possono essere esaminati dal giudice solo su domanda del ricorrente. Per la violazione delle forme sostanziali la corte ha affermato la sua rilevabilità d’ufficio, anche se tale violazione non arrechi alcun danno alle parti. Esaminando i singoli motivi dell’art.263, l’incompetenza consiste nell’assenza del potere di emanare l’atto in questione. Essa può essere assoluta, quando l’unione in quanto tale sia priva del suddetto potere o relativa, quando riguardi la singola istituzione o organo. Essa può articolarsi nella incompetenza per materia, con riferimento al tempo di emanazione dell’atto o con riguardo al luogo di efficacia. La violazione delle forme sostanziali si concretizza nella violazione delle regole giuridiche che riguardano il procedimento di adozione dell’atto. Alla luce della giurisprudenza europea possono farsi numerosi esempi: costituiscono vizi del genere la mancata consultazione di un’istituzione o di un organo dell’Unione, se obbligatoria o la mancata o insufficiente motivazione dell’atto. Il carattere sostanziali delle forme violate mette in luce che, ai fini dell’annullamento, non è sufficiente una qualsiasi violazione, ma deve trattarsi di una violazione di adeguata gravità, cioè che, tramite la forma, finisca x colpire principi sostanziali, quali la certezza del diritto, il rapporto tra le varie istituzioni, l’equilibrio interistituzionale o gli stessi principi democratici. L’ipotesi della violazione dei trattati e di ogni regola di diritto relativa alla loro applicazione comprende la norme e i principi dei trattati istitutivi, le altre fonti del diritto dell’unione a essi assimilabili, quali i trattati di adesione, i principi generali del diritto dell’unione, in particolare quelli relativi ai diritti fondamentali, le fonti che devono ritenersi sovraordinate gerarchicamente al diritto derivato, quali le norme di diritto internazionale generale e gli accordi internazionali conclusi dall’unione. Tuttavia, affinché un atto dell’unione sia annullato x una violazione dei principi di diritto internazionale di natura consuetudinaria o analoghi, occorre che la violazione sia manifesta poiché un principio di diritto internazionale consuetudinario non presenta lo stesso grado di precisione di un accordo internazionale, il controllo giurisdizionale deve necessariamente limitarsi a stabilire se, nell’adottare l’atto in questione, le istituzioni dell’unione abbiano commesso manifesti errori di valutazione riguardo ai presupposti di applicazione dei principi di cui trattasi. Quanto agli accordi internazionali dell’Unione, l’art.216 tfue, espressamente dichiara che essi son vincolanti x le istituzioni dell’Unione, sicché esse sono tenute a rispettarli al momento di emanare propri atti. La contrarietà di un atto a un accordo internazionale dell’Unione comporta la violazione dell’art.216 e la conseguente invalidità dell’atto. La giurisprudenza della corte non ha assunto questo orientamento. Essa ha limitato l’invalidità degli atti in contrasto con accordi dell’Unione all’ipotesi in cui tali accordi siano provvisti di effetti diretti, cioè abbiano quei caratteri di completezza, precisione e incondizionata obbligatorietà in presenza dei quali i singoli possono invocarli in giudizio. La corte ha escluso tali caratteri sia nel GATT del 1947 che nell’Accordo sull’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) del 94, astenendosi dall’annullare atti delle istituzioni che apparivano in contrasto con tali accordi. Le uniche ipotesi nelle quali la violazione di detti accordi determina invalidità di un atto dell’Unione sono quelle in cui tale atto sia stato emanato precisamente x dare esecuzione a un obbligo derivante dagli stessi o in cui l’atto rinvii espressamente ai suddetti accordi. Quanto all’espressione concernete “qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione”, essa riguarda le ipotesi in cui un atto violi un altro atto dell’Unione al quale sia gerarchicamente subordinato. Per esempio, un atto non legislativo di portata generale, adottato dalla commissione in base a una delega disposta in un atto legislativo, che sia in contrasto con la disciplina degli elementi essenziali contenuta nell’atto di delega. Infine, per quanto riguarda lo sviamento di potere, tale vizio si configura quando, a differenza dell’incompetenza, l’organo ha il potere di emanare l’atto, ma quest’ultimo è adottato x un fine diverso da quello in vista del quale il potere è stato attribuito. Una variante di tale vizio è lo sviamento di procedura, che si presenta ove una certa procedura sia utilizzata x uno scopo diverso da quello x il quale è stata istituita. Entrambe le ipotesi vanno accertate in maniera rigorosa e sicura. Un esempio classico di sviamento del potere è dato dal provvedimento con il quale l’Unione trasferisca un dipendente non x interesse del servizio, ma per una finalità sanzionatoria. La sentenza della corte Il ricorso per annullamento non ha effetti sospensivi sull’atto impugnato. Lo stesso trattato sul funzionamento dell’unione europea attribuisce alla corte il potere di sospendere la sua esecuzione. Art.278 tfue: i ricorsi proposti alla corte non hanno effetto sospensivo. Tuttavia la corte può quando reputi che le circostanze lo richiedano, ordinare la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato. Art.279 tfue: la corte di giustizia, negli affari che le sono proposti, può ordinare i provvedimenti provvisori necessari. Tali disposizioni attribuiscono una tutela cautelare nel processo europeo, tesa a evitare che la durata del giudizio pregiudichi in maniera irreparabile i diritti in causa. Alla luce dello statuto della corte e del suo regolamento di procedura, la sospensione dell’atto impugnato è disposta con ordinanza tenendo conto della presumibile fondatezza dei motivi di ricorsi e dei motivi di urgenza, cioè di un rischio di danno grave ed irreparabile per il ricorrente. Per quanto riguarda la decisione del ricorso: art.264 tfue: se il ricorso è fondato, la corte di giustizia dichiara nullo e non avvenuto l’atto impugnato. Art.266 tfue: l’istituzione, l’organo o l’organismo da cui emana l’atto annullato, sono tenuti a prendere provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della corte comporta. La decisione che accerta l’esistenza del vizio dell’atto impugnato ha i caratteri del giudicato. L’effetto di giudicato, nel caso di un atto di portata generale quale un regolamento, si produce erga omnes, in quanto l’atto è dichiarato nullo e non avvenuto. Per gli atti particolari come decisioni che stabiliscano il destinatario, l’effetto di annullamento è limitato allo specifico atto impugnato e alla persona del ricorrente e non può estendersi a terzi estranei. Pertanto, le persone che si trovino in una situazione analoga al ricorrente non hanno titolo a ottenere dall’istituzione che ha emanato gli atti in questione un riesame o una revoca degli atti emanati nei loro confronti. Da un lato, l’art.266 tfue obbliga l’istituzione ad adottare i provvedimenti necessari x l’esecuzione della sentenza, dall’altro, un riesame a favore di altre persone sarebbe precluso dal carattere definitivo che acquista un atto non impugnato al termine di due mesi. invalidità che possa essere fatta valere in un processo di infrazione x la mancata attuazione di una direttiva. I vizi dell’atto sui quali può fondarsi l’eccezione sono gli stessi contemplati nell’art.263. per quanto riguarda la contrarietà di un atto a un accordo internazionale dell’unione, anche l’eccezione di invalidità è considerata proponibile solo se le disposizioni di tale accorso appaiono incondizionate e sufficientemente precise. L’eccezione, se accolta dalla corte, non implica l’annullamento dell’atto in questione, ma la sua inapplicabilità nel processo in corso. Ciò determinerà l’annullamento della decisione fondata su tale atto. Il ricorso in carenza Il ricorso in carenza è previsto dall’art.265 tfue. In questo caso il ricorso dinanzi alla corte o al tribunale è diretto far constatare una omissione da parte di una istituzione, organo o organismo nell’adozione di un atto che questi hanno l’obbligo di emanare. Tale ricorso è diretto, al pari di quella ex art.263, a sindacare la legittimità del comportamento delle istituzioni europee, per i cui i due ricorsi sono l’espressione di uno stesso rimedio giuridico. Essi sono autonomi e distinti. Per quello in carenza l’art.265 prevede: qualora, in violazione dei trattati, parlamento eu, consiglio, consiglio eu, commissione e BCE si astengano dal pronunciarsi, gli stati membri e le altre istituzioni dell’unione possono adire la corte per constatare tale violazione. (applicabile anche agli organi e organismi). Prescindendo dai soggetti legittimati a proporre il ricorso, notiamo che il ricorso è proponibile solo nel caso d’inerzia dell’istituzione, organo o organismo, non anche quando esso emani un atto diverso da quello richiesto o rifiuti l’atto che gli era stato richiesto. In caso di atto diverso o di rifiuto, un atto, pur dal contenuto negativo, esiste e ove illegittimo, sarà impugnabile solo con un ricorso di annullamento ai sensi dell’art.263. La mancata emanazione dell’atto deve avvenire in violazione dei trattati, deve rappresentare la violazione di un preciso obbligo giuridico dell’istituzione, organo o organismo di emanare un atto. Tale obbligo può derivare, oltre che dai trattati, dai principi generali del diritto dell’unione, o da atti che creino un obbligo di agire per l’istituzione, organo o organismo. Il ricorso in carenza costituisce il mezzo appropriato x far accertare la mancata adozione, da parte di una istituzione, dei provvedimenti che l’esecuzione di una sentenza comporta. L’astensione può configurarsi non solo rispetto a uno specifico atto, ma anche rispetto a uno complesso di atti da adottare, purché tali atti siano determinabili con sufficiente grado di precisione. Non è ammissibile il ricorso in esame qualora l’istituzione, organo o organismo abbiano una discrezionalità in merito all’emanazione o meno dell’atto. Diverso appare il caso in cui questi godano di discrezionalità circa il contenuto dell’atto, pur essendo obbligato ad emanarlo. L’inerzia in questo caso è impugnabile. Tale circostanza induce a ritenere impugnabili omissioni delle istituzioni, organi o organismi rispetto a qualsiasi tipo di atto, anche se non vincolante e pur se non definitivo, sempre che l’istituzione, organo o organismo siano tenuti giuridicamente ad adottarlo. Ciò è confermato dall’osservazione che, a differenza dell’art.263 tfue, l’art.265 non pone alcune limitazioni sulla tipologia degli atti la cui mancata adozione giustifica l’azione in carenza. Un ricorso in carenza non può essere utilizzato per aggirare il termine di due mesi, prescritto dall’art.263 per l’impugnazione di atti illegittimi, o le condizioni di legittimazione richieste da tale articolo. Rispetto ai soggetti legittimati a proporre il ricorso in oggetto, si ripresenta la distinzione tra ricorrenti privilegiati e non privilegiati desumibile dall’art.263 per l’azione di annullamento. L’art.265 dichiara che il ricorso può essere presentato, senza alcuna condizione soggettiva, dagli stati membri e dalle istituzioni dell’unione, che sono i ricorrenti privilegiati. Il riferimento alle istituzioni conduce a ricomprendere tra questi ricorrenti anche il consiglio europeo, che non è contemplato dall’art.263, nonché la corte dei conti e la BCE, le quali, in base all’art.263, possono impugnare atti dell’unione solo per salvaguardare le proprie prerogative. Ricorrenti non privilegiati sono i singoli. La legittimazione a ricorrere delle persone fisiche e giuridiche risulta limitata sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo. Sotto il primo, il ricorso è escluso per le raccomandazioni e i pareri e riguarda la mancata adozione solo di atti suscettibili di produrre effetti giuridicamente vincolanti. Sotto il profilo soggettivo, i singoli devono essere destinatari dell’atto che l’istituzione, organo o organismo ha omesso di adottare. L’ipotesi tipica è quella della mancata emanazione di una decisione nei confronti del ricorrente. Originariamente, la giurisprudenza della corta ha limitato al solo destinatario dell’atto il diritto di ricorrere in carenza. Successivamente a corte ha assunto un atteggiamento più generoso riconoscendo la legittimazione dei singoli a impugnare l’omessa emanazione di un atto che, pur non essendo diretto al ricorrente, lo riguardi in maniera diretta e individuale. Il trattato di Lisbona ha accentuato le differenze tra i due rimedi giudiziali. La legittimazione dei singoli nei riguardi di atti regolamentari, alle condizioni dell’art.263, è limitata alla sola azione di annullamento e non si estende al ricorso in carenza. La ricevibilità del ricorso è subordinata al previo svolgimento di una fase (messa in mora), che può denominarsi precontenziosa o amministrativa, volta a fare emergere con chiarezza l’inerzia dell’istituzione, organo organismo: il ricorso è ricevibile soltanto quando l’istituzione, organo o organismo in causa siano stati preventivamente richiesti di agire. Se, allo scadere di un termine di due mesi da tale richiesta, l’istituzione, l’organo o l’organismo non hanno preso posizione, il ricorso può essere proposto entro un nuovo termine di due mesi. Il primo atto di tale fase consiste quindi nell’intimazione ad agire. Tale intimazione dovrebbe essere fatta entro un termine ragionevole dal momento in cui appare evidente l’inerzia dell’istituzione, organo o organismo. Pur non essendo soggetta a particolari requisiti, la richiesta deve indicare con chiarezza sufficiente l’atto di cui si chiede l’adozione e la volontà di costringere l’istituzione , organo o organismo a prendere posizione. Essa rappresenta una condizione imprescindibile di ricevibilità del ricorso, in quanto, da un lato fissa il termine dal quale decorrono i due mesi entro i quali l’istituzione… devono prendere posizione, dall’altro definisce l’oggetto dell’eventuale giudizio dinanzi alla corte. Ai fini della proponibilità del ricorso occorre, che nei due mesi successivi l’istituzione, organo o organismo richiesti non abbiano preso posizione. Quindi che essi non abbiano dato seguito alla richiesta, mantenendo un atteggiamento di inerzia. Qualora al contrario l’istituzione, organo o organismo respingano formalmente la richiesta o adottino un atto diverso da quello richiesto, non è possibile un ricorso in carenza, ma in tal caso un ricorso di annullamento contro l’atto ex art.263. tuttavia, non può ritenersi che l’istituzione, organo o organismo abbiano preso posizione ove si siano limitati una risposta vaga e generica, che non riveli il loro atteggiamento sulla richiesta o che si limiti a informare il richiedente che la questione è allo studio. Secondo la corte, anche l’emanazione tardiva dell’atto, addirittura nel corso del processo, va parificata alla presa di posizione e preclude la prosecuzione del giudizio, in quanto il ricorso è privo di oggetto così. Il ricorso può poi essere presentato entro un ulteriore termine di due mesi, decorrenti dalla scadenza del primo termine di due mesi. Se la corte constati l’illegittima omissione da parte dell’istituzione, organo o organismo in questione, non possono essere condannati a emanare l’atto richiesto. La sentenza della corte è di mero accertamento. Tuttavia, ex art.266 tfue, l’istituzione, organo o organismo sono tenuti a eseguire la sentenza prendendo i necessari provvedimenti. Essi dovranno adottare l’atto la cui omissione è stata dichiarata contrario a un obbligo previsto ai trattati. Ciò non significa che l’atto debba soddisfare le pretese del ricorrente, poiché l’illegittimità consiste nella mancata adozione dell’atto, mentre il suo contenuto potrà dipendere dal margine di discrezionalità di cui dispongono. L’azione di responsabilità contro l’unione Un ulteriore controllo giudiziario sull’operato dell’unione è istituito dall’art.268 tfue in materia di responsabilità extracontrattuale: la corte di giustizia è competente a conoscere delle controversie relative al risarcimento dei danni di cui art.340,2° e 3° comma. Art.340 tfue: in materia di responsabilità extracontrattuale, l’unione deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. In deroga al secondo comma, la BCE deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli stati membri, i danni cagionati da essa stessa o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni. A parte il secondo comma che imputa direttamente alla banca centrale europea l’obbligo risarcitorio, l’art.268 ha la funzione di istituire la competenza della corte in materia di responsabilità extracontrattuale. Mentre la disciplina applicabile va ricavata dai principi generali comuni degli stati membri, richiamati tramite al rinvio operato all’art.340. Il ricorso previsto da tali norme è diretto ad ottenere il risarcimento dei danni provocati al ricorrente dall’unione europea per un proprio illecito. Si tratta di responsabilità aquiliana disciplinata dall’art.2043 c.c. che sorga in un processo nazionale, relativa all’interpretazione di una disposizione del diritto dell’unione o alla validità di un atto dell’unione, la cui soluzione sia necessaria affinché il giudice nazionale possa decidere la causa. In casi del genere, nei quali si ponga una questione, interpretativo o di validità, pregiudiziale, determinante, ai fini della sentenza del giudice interno, l’art.267 tfue prevede che il giudice nazionale sospenda il processo e rinvii all’esame della corte la questione relativa al diritto dell’unione. Una volta emanata la sentenza della corte, il processo interno viene riassunto ed è il giudice nazionale che, conformandosi alla sentenza della corte, decide il caso con propria sentenza. L’attribuzione della competenza in esame alla corte si fonda sull’osservazione che il giudice nazionale è il giudice comune o naturale del diritto dell’unione, poiché questo, in ragione del suo contenuto, è rivolto essenzialmente ai privati, persone fisiche e giuridiche ed è quindi destinato ad applicarsi nei processi, nazionali, coinvolgenti loro diritti e interessi. Tenuto conto di ciò, la competenza in via pregiudiziale risponde al duplice obiettivo, da un lato, di scongiurare il rischio che il carattere uniforme del diritto dell’unione sia pregiudicato da interpretazioni difformi dei giudici nazionali, dall’altro, si evita che questi giudici applicano atti dell’unione che presentano vizi implicanti la loro illegittimità. per quanto riguarda l’art.267 tfue, risulta che la questione pregiudiziale può avere ad oggetto o l’interpretazione sia di disposizione dei trattati che di atti dell’unione o la validità di tali atti. Risulta inoltre, che se una questione pregiudiziale si pone dinanzi a un giudice le cui sentenze sono impugnabili, tale giudice ha la facoltà (può, non ha il dovere) di rinviarla alla corte di giustizia. Se si pone davanti a un giudice di ultimo grado , questi è tenuto a rivolgersi alla corte. Il potere di attivare la corte di giustizia non compete alle parte del processo nazionale, che possono sollecitare al giudice nazionale il rinvio della questione alla corte e possono presentare a quest’ultima osservazioni, ma nei limiti dell’oggetto della questione prospettata dal giudice nazionale. Per quanto riguarda la competenza pregiudiziale interpretativa del diritto dell’unione, può dirsi che essa è centralizzata nella corte di giustizia, mentre l’applicazione di tale diritto è riservata al giudice nazionale. Ciò non toglie che anche il giudice nazionale, se non di ultimo grado, ha il potere di interpretare il diritto dell’unione senza rivolgersi alla corte e che spetta al giudice nazionale accertare l’esistenza della questione, cioè del problema interpretativo e la rilevanza della stessa al fine di emanare la sua sentenza. Per altro verso, la stessa corte non decide la questione interpretativa in vacuo: l’applicazione al caso concreto, cioè, non le è indifferente, tanto che i giudici nazionali devono inviare alla corte tutti gli elementi occorrenti x illustrare i fatti in causa. Per quanto riguarda la competenza del giudice nazionale a valutare la rilevanza della questione concernente il diritto dell’unione ai fini della sua decisione, va notato che non è assoluta, né si sottrae a una verifica della corte, tesa ad accertare una manifesta rilevanza, implicante l’irricevibilità della domanda del giudice nazionale. La corte aggiunge che le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’unione godono di una presunzione di rilevanza. La corte ha sottolineato che, qualora il giudice nazionale non fornisca alcun chiarimento sulla rilevanza delle norme di cui chiede l’interpretazione ai fini della soluzione della controversia, la questione sottoposta alla corte è irricevibile, quindi la stessa corte non è tenuto a fornire l’interpretazione di dette norme. Per altro verso, la competenza della corte di giustizia non è limitata all’interpretazione delle norme espressamente richiamate dal giudice nazionale, ben potendo la corte esaminare anche le altre disposizioni che possono riguardare il problema sollevato da detto giudice e riformulare a tal fine la questione da lui proposta. La corte di giustizia nel potere di riformulare la questione sottoposta dal giudice, è giunta ad ampliare un rinvio di interpretazione in un rinvio concernente anche la legittimità di un atto dell’unione. Nella giurisprudenza la competenza interpretativa della corte è impiegata frequentemente per accertare la compatibilità con il diritto dell’unione della condotta di stati membri, risultante da leggi, atti amministrativi, prassi ecc. Questo impiego della competenza pregiudiziale che appare alternativo rispetto all’impiego normale, teso a ottenere l’interpretazione di una disposizione del diritto dell’unione, si giustifica presentando come oggetto della questione l’interpretazione di una tale disposizione al fine di stabilire se sia conforme o meno a tale interpretazione una legge, un atto amministrativo, una prassi statale. La condotta statale viene in rilievo solo indirettamente, ma nella sostanza, è essa l’oggetto reale della pronuncia della corte. Per tale via, quindi, viene ad aggiungersi un ulteriore strumento di controllo sull’osservanza da parte degli stati membri dei propri obblighi. Strumento particolarmente prezioso per i singoli, quali privi di una legittimazione a promuovere una procedura d’infrazione, possono ottenere una pronuncia della corte sollevando in un processo interno la questione, sotto il profilo dell’interpretazione della disposizione europea che si presume violata. La corte di giustizia ha considerato ricevibili questioni del genere sottopostele dal giudice nazionale. Si noti che la corte evita di pronunciarsi sulla condotta dello stato, dichiarando che una siffatta valutazione non rientra nella sua competenza ex art267 e provvedendo anche a riformulare il quesito posto dal giudice nazionale, ove questo richieda una giudizio su una legge o un atto statale. La corte dichiara quale è la corretta interpretazione della disposizione europea, aggiungendo che questa osta o non osta alla legge, o all’atto di uno stato, che è esattamente quello considerato da parte del giudice interno. L’art.267 tfue attribuisce alla corte anche la competenza a decidere, su rinvio di un giudice nazionale, in merito alla legittimità di un atto dell’unione (regolamento, direttiva o atto amministrativo). Tale competenza è assimilabile a quella prevista dall’art.263 tfue per quanto riguarda i vizi dell’atto (2° comma) che ne comportano l’invalidità. Va segnalato che, fermo restando la competenza del giudice nazionale a decidere sulla rilevanza della questione ai fini del processo in corso, secondo la consolidata giurisprudenza della corte solo quest’ultima ha la competenza a pronunciare l’invalidità dell’atto, mentre il giudice nazionale ha solo il potere di confermare la validità dell’atto respingendo gli addebiti di illegittimità. La competenza esclusiva della corte a decretare l’invalidità di un atto dell’unione non appare pienamente conforme all’art.267: questo attribuisce al giudice non di ultima istanza la facoltà, non l’obbligo, di rinviare la questione alla corte, ciò presuppone infatti il suo potere di stabilire anche l’illegittimità dell’atto con effetti limitati al processo in corso. La corte tuttavia ha costantemente affermato la propria competenza esclusiva al riguardo x esigenze di certezza di diritto, che sarebbe compressa ove i singoli giudici potessero di volta in volta dichiarare illegittimo o invalido l’atto. La corte riconosce al giudice nazionale il potere di emanare provvedimenti provvisori a tutela dei diritti delle parti, ove sospetti l’invalidità di un atto dell’unione. Tali provvedimenti possono consistere nella sospensione di un atto amministrativo adottato in base a un atto dell’unione o persino in un provvedimento cautelare che sospenda l’applicazione dello stesso atto dell’unione. Detta possibilità è sottoposta a rigorose condizioni: occorre che il giudice abbia gravi dubbi sulla validità dell’atto, provveda a rinviare la questione di validità alla corte di giustizia, ricorrano gli estremi di urgenza, in quanto incomba sul richiedente il rischio di un pregiudizio grave e irreparabile, e il giudice tenga pianamente conto dell’interesse dell’unione, verificando se l’atto non venga privato di ogni pratica efficacia in mancanza di un applicazione immediata. Il rinvio pregiudiziale di legittimità arricchisce la tutela del singolo, in quanto gli consente, tramite il rinvio del giudice nazionale, di promuovere una pronuncia di invalidità della corte rispetto ad atti che non lo riguardano direttamente e individualmente e che egli non può impugnare ex dell’art.263,4°. Secondo una giurisprudenza costante, la corte esclude che possono esserle sottoposte questioni di validità di atti che il singolo, parte della causa nazionale, avrebbe potuto impugnare ai sensi dell’art.263,4° ma che non abbia impugnato nel termine di decadenza di 2 mesi. Esigenze di certezza del diritto escludono che possa essere rimessa in questione la validità di un atto dell’unione da parte di chi, potendolo impugnare ex dell’art.263,4° abbia lasciato decorrere il termine all’uopo prescritto. Si noti che, sempre che la questione di legittimità interessi, in un processo nazionale, una parte che avrebbe potuto impugnare l’atto dinanzi alla corte , il giudice nazionale non può rinviare la questione alla corte neppure d’ufficio e resta anch’egli vincolati dall’atto in questione. La corte ha affermato che la propria competenza pregiudiziale di legittimità si estende agli atti emanati nell’ambito della PESC, limitatamente al rispetto dell’art.40 TUE e alle decisioni che prevedono misure restrittive a carico di persone fisiche o giuridiche. Tale disposizione si fonda sul principio della tutela giurisdizionale effettiva, ribadito dall’art.47 della carta dei diritti fondamentali, il quale implica che l’esclusione della competenza della corte in materia di PESC sia interpretata in maniera restrittiva. L’oggetto della competenza pregiudiziale Per quanto riguarda l’oggetto della competenza pregiudiziale occorre distinguere quella interpretativa dalla competenza di legittimità. La prima riguarda qualsiasi disposizione del diritto dell’unione, cioè il suo intero ordinamento giuridico. Essa può quindi esercitarsi su norme dei trattati, sugli accordi di adesione, accordi internazionali conclusi dall’unione con stati terzi o organizzazioni internazionali, sui principi generali del diritto dell’unione, sugli atti emanati dalle sue istituzioni e sulle sentenze della corte stessa. Per quanto riguarda gli accordi internazionali la corte ha dichiarato che la propria competenza si estende agli accordi misti, conclusi sia dall’unione che dagli stati membri i virtù di una competenza ripartita. Quanto agli atti dell’unione, la corte ricomprende tra quelli oggetto della sua competenza interpretativa anche gli atti non vincolanti, decreto con la direttiva. La corte costituzionale ha sottolineato che un siffatto giudice ha la facoltà, non l’obbligo, di operare il rinvio alla corte di giustizia e che, in ogni caso, tale rinvio presuppone che egli abbia un dubbio sull’interpretazione del diritto dell’unione. In tale sentenza, la corte cost. non solo ha limitato all’ipotesi di un dubbio, cioè di una questione sul diritto dell’unione, il dovere del giudice comune di adire in via prioritaria la corte di giustizia, ben potendo promuovere direttamente l’incidente di costituzionalità in assenza di dubbi. Ha aperto anche uno spiraglio sulla possibilità di rinviare essa stessa (pur nel ruolo di giudice delle leggi) una questione di diritto dell’unione alla corte di giustizia. Sembrerebbe che quando la corte costituzionale abbia un dubbio interpretativo, cioè quando nel giudizio di costituzionalità di una legge si presenti una questione interpretativa del diritto dell’unione, essa debba sottoporla in via pregiudiziale alla corte di giustizia. Infatti, nella successiva ordinanza 207/2013, la corte costituzionale, in merito alla questione di costituzionalità sollevata dai giudici comuni riguardo a una normativa nazionale ritenuta sicuramente in contrasto con una direttiva comunicazione, sulla cui interpretazione essi non avevano alcun dubbio, ha chiesto alla corte di giustizia l’interpretazione della norma comunitaria in questione. Più di recente, con ordinanza n.24/2017, la corte costituzionale ha nuovamente sottoposto alcune questioni interpretative alla corte di giustizia al fine non di una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge italiana, ma di impedire l’ingresso nell’ordinamento italiano di una disposizione del diritto dell’unione che risultasse in contrasto con un principio supremo di tale ordinamento. Sui rapporti tra la competenza pregiudiziale della corte di giustizia e quella dei giudici costituzionali, nell’ipotesi in cui un giudice nazionale, investito di una controversia concernente il diritto dell’unione, dubiti che una norma nazionale sia contraria non solo a tale diritto, ma alla propria costituzione, si è più volte pronunciata anche la corte di giustizia. Essa ha affermato che l’art.267 tfue osta a una normativa statale che obblighi il giudice a rivolgersi in via prioritaria alla corte costituzionale al fine dell’annullamento della norma nazionale, qualora il carattere prioritario di siffatto procedimento abbia l’effetto di impedire a tutti gli organi giurisdizionali nazionali di esercitare la loro facoltà o di adempiere il loro obbligo di sottoporre questioni pregiudiziali alla corte. Non si pone invece un contrasto con il diritto dell’unione ove i giudici nazionali restino liberi di sottoporre alla corte di giustizia, eventualmente anche al termine del procedimento di controllo della legittimità costituzionale, qualsiasi questione pregiudiziale che essi ritengano necessaria. Così come nessun contrasto sussiste con l’art.267 TFUE qualora la stessa corte cost. sia competente ad adire in via pregiudiziale la corte di giustizia: il rinvio a quest’ultima consente al meccanismo dell’art.267 di svolgere appieno le proprie funzioni. È opportuno precisare che, quando la corte costituzionale sia legittimata al rinvio alla corte di giustizia, essa ha il dovere, non la mera facoltà, di operare tale rinvio, trattandosi di un organo giurisdizionale “avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno”, ai sensi del 3° comma dell’art.267. I commi 2° e 3° stabiliscono una facoltà, oppure un obbligo di rinvio alla corte di giustizia, a seconda che il giudice nazionale sia un giudice le cui decisioni possano essere impugnate con un ricorso giurisdizionale di diritto interno o, al contrario, si tratti di un giudice di ultima istanza. La ratio della diversa disciplina è ravvisabile in ciò, che un eventuale errore di un giudice non di ultima istanza, ben può essere riparato tramite un successivo ricorso avverso la sua sentenza, al contrario, un errore relativo all’interpretazione del diritto dell’unione o alla validità di un suo atto commesso da un giudice di ultima istanza on è suscettibile di alcuna riforma e acquista la forma del giudicato. Si aggiunga che le sentenze di giudici di ultima istanza sono dotate di una maggiore autorevolezza e tendono a orientare la giurisprudenza del proprio paese in senso conforme. Per queste ragioni la competenza interpretativa e di validità non può essere lasciata a tali giudici, i quali hanno l’obbligo di deferire la questione alla competenza (esclusiva) della corte di giustizia. La corte di giustizia ha precisato che, in presenza di divergenti decisioni giudiziarie, è da escludere che una data interpretazione di una norma europea si imponga senza lasciare adito alcun ragionevole dubbio. La giurisprudenza della corte di giustizia è stata recepita anche dalla nostra corte costituzionale, la quale nella sentenza 28/2010 ha dichiarato che il rinvio pregiudiziale non è necessario quando il significato della norma comunitaria sia evidente, anche per essere stato chiarito dalla giurisprudenza della corte di giustizia, e si impone soltanto quando occorra risolvere un dubbio interpretativo. Tali eccezioni all’obbligo di rinvio non escludono la facoltà dei giudici di ultimo grado di adire egualmente la corte di giustizia, se lo ritengano opportuno. Per quanto riguarda gli altri giudici, essi godono della più ampia facoltà di adire in qualsiasi momento la corte di giustizia quando ritengano che, nel processo pendente dinanzi a essi, siano sorte questioni relative all’interpretazione o alla validità di disposizioni del diritto dell’unione che siano essenziali ai fini della decisione nel merito della causa. Tale facoltà non può essere esclusa da una norma nazionale che imponga a un giudice di conformarsi alle valutazioni giuridiche formulate da un organo giudiziario di grado superiore. Nella stessa logica si muovono le sentenze concernenti i rapporti tra la competenza pregiudiziale della corte di giustizia e quella dei giudici costituzionali nazionali. Qualora un giudice non di ultima istanza si sia rivolto alla corte di giustizia egli deve conformarsi alla sentenza della stessa corte e deve discostarsi dalle valutazioni dell’organo giurisdizionale superiore, ove ritenga, alla luce della sentenza della corte di giustizia, che tali valutazioni siano in contrasto con il diritto dell’unione. Affinché la corte di giustizia possa esercitare la competenza pregiudiziale occorre che sussistano anche talune condizioni oggettive, concernenti il contesto processuale nazionale nel quale si ponga la questione interpretativa o di validità. È vero che tale contesto sfugga alla competenza della corte, poiché spetta al giudice nazionale valutare la necessità della pronuncia pregiudiziale e la rilevanza della questione ai fini della decisione della causa. Sicché, se il giudice nazionale avverte il bisogno della pronuncia della corte, di regola quest’ultima è tenuta a statuire sulle questione sollevata dal giudice nazionale. Essa ha più volte sottolineato la necessità che la sua pronuncia sia utile x il giudice nazionale, così contribuendo all’amministrazione della giustizia negli stati membri. La corte ha negato, sia pure in via eccezionale, la propria competenza quando il giudice nazionale non le abbia dato gli elementi di fatto o di diritto necessari per fornire una soluzione utile alla questione sottoposta, nonché quando risulti in maniera manifesta che la questione non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto della causa principale. Essa inoltre, sempre sul presupposto che la propria sentenza deve essere utile ai fini della decisione di una causa in atto in uno stato membro, ha escluso la propria competenza quando le questione proposte siano puramente ipotetiche e non siano concretamente collegate alla cuasa in corso, nonché nel caso di controversie fittizie. Gli effetti della sentenza della corte La sentenza della corte di giustizia emanata a seguito di un rinvio pregiudiziale è obbligatoria x il giudice a quo, il quale è tenuto a decidere il caso in conformità dell’interpretazione fornita dalla corte o della sua sentenza sulla validità, quindi applicando l’atto dell’unione, se giudicato legittimo,o prescindendo da tale atto x la decisione del caso, se dichiarato illegittimo. Quindi tale sentenza ha effetti di giudicato x il suddetto giudice. La corte ha dichiarato che il giudice richiedente potrebbe nuovamente rivolgersi alla corte, per sottoporle una questione diversa o, al limite, nuovi elementi di valutazione. L’efficacia delle sentenze della corte di giustizia tende ad assumere una portata generalizzata nei confronti dei giudici dei paesi membri. Si osserva che alla luce della giurisprudenza della corte di giustizia, i giudici nazionali di ultima istanza non sono obbligati a rivolgersi alla corte stessa quando la questione interpretativa sorta in un processo nazionale sia identica o analoga ad altra già decisa dalla corte, o possa risolversi alla luce di una giurisprudenza costante della corte. La corte costituzionale italiana ha riconosciuto alle sentenze interpretative della corte di giustizia un’efficacia sostanzialmente erga omnes, dichiarando la loro prevalenza sul diritto nazionale incompatibile. La corte ha precisato che il giudice nazionale, se lo ritiene necessario, può sollevare nuovamente una questione di validità dello stesso atto (già dichiarato invalido a seguito di altro rinvio), in particolare qualora sussistano questioni relative ai motivi, alla portata o alle conseguenze dell’invalidità precedentemente accertata. La mancata applicazione di un atto dell’unione dichiarato invalido dalla corte non può estendersi ad atti analoghi. La corte di giustizia ha espressamente escluso che la giurisprudenza ricordata in materia di interpretazione possa applicarsi alle questioni di legittimità. La sentenza che dichiari l’invalidità dell’atto impone anche alle istituzione europee di uniformarvisi. Può dedursi che le istituzioni che hanno emanato l’atto devono provvedere a revocarlo, emanando, se del caso, un nuovo atto che elimini i motivi d’invalidità, o a modificarlo, secondo le indicazioni desumibili dalla sentenza. Ove la corte abbia invece dichiarato l’atto legittimo, l’efficacia della sentenza è limitata al giudice richiedente, che deve decidere la lite applicando tale atto, e ai motivi d’invalidità sui quali la corte si è pronunciata. La questione di legittimità potrà essere sollevata da altri giudici e per motivi differenti.