Scarica Seneca: Vita Contemplativa e Dialoghi Consolatorii e più Appunti in PDF di Latino solo su Docsity! S E N E C A Lucio Anneo Seneca apparteneva a una ricca famiglia provinciale di rango equestre. Nacque in Spagna, forse nel 4 a.C. Fu condotto molto presto a Roma, dove si svolse la sua istruzione retorica e filosofica. Pur avendo fatto con entusiasmo e convinzione la scelta della vita contemplativa, Seneca l'abbandonò per non dispiacere a suo padre; intraprese infatti il cursus honorum e rivestì la questura. Le sue eccezionali qualità oratorie, subito riconosciute e ammirate, lo destinavano a una brillante carriera. Tuttavia i suoi rapporti con gli imperatori furono difficili fin dall'inizio. Caligola gli fu ostile al punto di progettare di farlo uccidere e di desistere dal suo proposito soltanto perché convinto da una donna, potente a corte, che Seneca era malato gravemente e che sarebbe morto in breve tempo. Più gravi conseguenze ebbe per lui l'ostilità dell'imperatore successivo, Claudio che lo accusò di adulterio con Giulia Livilla e lo condannò all'esilio in Corsica. Qui Seneca rimase fino al 49, quando fu richiamato a Roma da Agrippina, che lo volle come precettore del figlio Nerone. Seneca entrava così nel palazzo imperiale e cominciava un lungo periodo di servizio al potere e anche di esercizio di esso. Ma la speranza, concepita da Seneca in quegli anni di fare del giovane principe un sovrano esemplare si rivelò ben presto un'illusione. Nel 59 Nerone, già da tempo in rotta con Agrippina, ordinò l'assassinio della madre e Seneca nonostante ciò rimase al fianco di Nerone. La posizione di Seneca si fece sempre più debole per l'insofferenza di ogni freno da parte del principe e divenne insostenibile dopo che, nel 62, Burro morì e fu sostituito dal nuovo prefetto del pretorio, Tigellino. A questo punto Seneca, per ragioni di età e di salute, chiese a Nerone il permesso di abbandonare l'attività pubblica e di ritirarsi a vita privata, per dedicarsi esclusivamente ai suoi studi. Dal 62, l'anno del ritiro che Seneca chiama secessus, al 65, l'anno della morte, egli realizzò finalmente quella vita contemplativa cui aspirava fin dalla giovinezza e che tante volte aveva lodato e raccomandato nei suoi scritti, e si dedicò interamente alla riflessione, alla lettura, allo studio e alla composizione delle sue opere. Non riuscì tuttavia a mettersi al riparo dall'ostilità di Nerone. Quando infatti, nella primavera del 65, fu scoperta la congiura pisoniana, il filosofo fu considerato tra i complici e costretto a togliersi la vita. Egli affrontò la morte, secondo il racconto di Tacito, con coraggio, serenità e nobiltà d'animo. LE OPERE I DIALOGI I Dialogi non sono veri e propri "dialoghi", ma opere in cui l'autore, parlando in prima persona e rivolgendosi a un destinatario, affronta temi di filosofia morale. Questi Dialogi sono un gruppo di dieci opere di argomento filosofico, nove sono in un libro solo; il De ira, è in tre libri. L'impianto dei Dialogi di Seneca risente dell'influsso della tradizione della diàtriba cinico-stoica, con cui condivide l'impostazione discorsiva, la tendenza a rivolgersi direttamente al destinatario, immaginando di avviare con lui una discussione caratterizzata da frequenti domande e obiezioni di un interlocutore fittizio, portavoce delle opinioni comuni o di posizioni diverse da quelle dell'autore. I dialogi vengono suddivisi in due parti: i dialogi di genere consolatorio e quelli trattati. I DIALOGI DI GENERE CONSOLATORIO CONSOLATIO AD MARCIAM, PRIMA DELL’ESILIO L'opera più antica dei dialogi di genere consolatorio è la Consolatio ad Marciam, scritta prima dell'esilio, dove Seneca si propone di consolare Marcia, donna dell'alta società romana, sofferente già da tre anni per la perdita del giovane figlio Metilio. Il testo si inserisce nella tradizione della "consolazione" filosofica nella quale Seneca riprende il repertorio topico degli argomenti filosofici per consolare chi ha subito un lutto e si impegna nella dimostrazione che la morte non è un male, svolgendo sia la tesi della morte come fine di tutto sia quella della morte come passaggio ad una vita migliore. Conclude l'ampia trattazione con l'elogio di Metilio e con la sua apoteosi (assunzione al cielo di un mortale), immaginando che il nonno Cremuzio lo accolga in cielo, nella sede riservata alle anime degli uomini grandi. CONSOLATIO AD HELVIAM MATREM, ESILIO Abbiamo poi la Consolatio ad Helviam matrem, scritta nel periodo dell’esilio in Corsica, ha come destinataria la madre dell'autore, che soffre per la sua condanna e per la sua lontananza. Seneca vi sviluppa i temi caratteristici delle consolazioni della filosofica greca riguardo all'esilio, proponendosi di dimostrare che esso, nonostante le apparenze, non è un male, ma un semplice mutamento di luogo, che non può togliere all'uomo l'unico vero bene, la virtù; del resto il sapiente, secondo la dottrina del cosmopolitismo stoico, ha come patria il mondo intero. CONSOLATIO AD POLYBIUM, ESILIO Al periodo dell'esilio in Corsica appartiene anche la Consolatio ad Polybium. In quest'opera è ben diverso l'atteggiamento dell'autore, che si rivolge a un potente liberto dell'imperatore Claudio, in occasione della morte di un fratello. Trattandosi di una consolatio mortis, la parte argomentativa ricalca i luoghi comuni della letteratura consolatoria già sviluppati precedentemente: l'ineluttabilità del destino e la dimostrazione razionale che la morte non è un male e che è insensato compiangere chi non è più in vita. I DIALOGI-TRATTATI DE IRA, 3 LIBRI Come primo dialogo trattato abbiamo il De ira che si sviluppa in tre libri, in cui il filosofo si propone di combattere l'ira, passione tra le più odiose, pericolose e funeste. Dove Seneca afferma, in coerenza con le posizioni stoiche, che l'ira non è mai accettabile né utile, in quanto è prodotta da un impulso che offusca la ragione, e infatti ha manifestazioni molto simili a quelle della follia. Indica poi i rimedi a essa, cioè i mezzi per prevenirla e per placarla. Tra i numerosi esempi spicca quello di Caligola, l'imperatore ormai defunto su cui l'autore sfoga il suo odio, adducendo numerose prove della sua ira furiosa e descrivendolo come una belva assetata di sangue. DE BREVITATE VITAE, TORNATO DALL’ESILIO, PAOLINO Probabilmente all’anno in cui Seneca tornò dall'esilio risale il De brevitate vitae dedicato all'amico Paolino. Il filosofo vi sostiene che gli uomini hanno torto a lamentarsi per la brevità del tempo assegnato dalla natura alla loro esistenza perché in realtà la vita, se si sa farne buon uso, è lunga. Il fatto è che la stragrande maggioranza degli uomini la spreca, dissipandola in occupazioni frivole e vane: sono quelli che il filosofo chiama occupati, contrapposti al sapiente, l'unico che sfrutta bene il tempo ricercando la verità e la saggezza. Chi pone infatti i suoi obiettivi in oggetti e in circostanze indipendenti da lui, si priva della possibilità di assicurarsi l'autárkeia, ossia l'autosufficienza, la libertà da ogni condizionamento esteriore, che sola può assicurare la pace e la serenità. DE VITA BEATA, ERA AL POTERE Al periodo in cui il filosofo era al potere, al fianco di Nerone, appartiene il De vita beata. L'opera è divisa in due parti. Nella prima Seneca espone la dottrina morale stoica, che fa consistere la felicità nella vita secondo natura, ossia, per l'uomo, secondo ragione, e che indica il sommo bene nella virtù; inoltre polemizza vivacemente con gli epicurei che identificano il sommo bene con il piacere. Nella seconda parte Seneca respinge le critiche di chi accusa i filosofi di incoerenza, rinfacciando loro di non vivere secondo i precetti che professano. Anche se l'autore parla genericamente di filosofi e non esplicitamente di se stesso, riconosciamo le accuse che gli muovevano i suoi nemici nel periodo della sua massima potenza, ossia il fatto di possedere enormi e sempre crescenti ricchezze e di condurre una vita dispendiosa e lussuosa, in clamoroso contrasto con la semplicità e l'austerità prescritte dallo stoicismo. Il filosofo non nega la fondatezza delle accuse, ma si difende ammettendo di non essere ancora riuscito a raggiungere gli obiettivi che tuttavia ha il merito di proporsi. Seneca elabora la sua difesa con eloquenza e con vigore, sviluppando soprattutto il tema delle ricchezze e sostenendo che il filosofo non le ama e non soffre quando ne è privato, ma preferisce possederle, perché gli dispiegano un più vasto campo in cui esercitare la virtù. DE TRANQUILLITATE ANIMI, CON NERONE, ANNEO SERENO Un'altra opera che risale a quando l'autore era collaboratore di Nerone, è il De tranquillitate animi. È dedicata al caro amico Anneo Sereno, che Seneca introduce a parlare immaginando che chieda a lui consiglio ed aiuto, trovandosi in una condizione di insicurezza e instabilità spirituali, spinto in direzioni diverse da impulsi contrastanti. Il filosofo, dopo aver fatto una descrizione dell’animo inquieto e insoddisfatto, indica alcuni rimedi pratici che aiutano a raggiungere la "tranquillità dell'animo": l'impegno nella vita attiva per il bene comune, l'amicizia dei buoni, la chi non ha ancora fatto una decisa scelta in quella direzione, compiacendosi dei progressi del suo allievo, abbandona l'ammaestramento adatto ai principianti per passare a metodi di insegnamento più impegnativi. Ma i progressi di Lucilio non sono soltanto di tipo intellettuale: ciò che più conta per Seneca è il perfezionamento morale, che coincide con la scelta dell'otium. Il filosofo infatti esorta ripetutamente Lucilio a lasciare le occupazioni politiche e i relativi doveri sociali per dedicarsi allo studio e alla pratica della sapientia. L'esortazione all'otium e l'invito al secessus sono tra i temi conduttori dell'epistolario e costituiscono alcuni degli elementi essenziali del messaggio morale che l'autore vuole trasmettere. Seneca qui si presenta come un uomo che ha fatto quella scelta troppo tardi, dopo aver molto errato, e che cerca di recuperare il tempo perduto. Seneca ha capito infatti che solo nella sapientia risiedono la vera gioia e i veri valori, e che essa si può realizzare soltanto impegnandosi totalmente nella lotta contro le "passioni", gli impulsi e i desideri irrazionali che aggrediscono e minacciano l'uomo, privandolo della pace dell'anima. I temi dominanti, insieme con quello dell'otium, sono il tempo e la morte, presenti fin dalla lettera d'apertura e poi continuamente ricorrenti. Avvicinandosi alla fine della vita, Seneca si prepara a morire, convinto che liberarsi della paura della morte sia compito specifico del filosofo: chi ha realizzato il vero scopo dell'esistenza, ossia la virtù, è pronto a morire in qualsiasi momento, senza rimpianti né timori; egli infatti ha raggiunto la perfetta libertà da ogni condizionamento esteriore, ha conquistato l'autárkeia propria del sapiente. Alla valutazione quantitativa del tempo, tipica di chi ha una visione errata dell'esistenza, se ne deve sostituire una esclusivamente qualitativa: non conta quanto, ma come si vive. La morte poi non è temibile per nessuno: essa infatti, sia che costituisca il passaggio ad una vita migliore sia che ci riporti nel nulla in cui eravamo prima di nascere, è sempre la liberazione dai mali dell'esistenza; e come suprema scelta di libertà può anche essere cercata volontariamente dal sapiente. LE TRAGEDIE Ce ne sono pervenute dieci e hanno finalità pedagogiche e morali. Incerta è la cronologia e l'ipotesi più probabile è che siano stati scritti quando Seneca era accanto a Nerone per mettere dinanzi agli occhi del giovane principe gli effetti deleteri del potere dispotico e delle passioni sregolate non dominate dalla ragione. Da un lato vi è la ragione, di cui si fanno portavoce personaggi secondari; dall'altra vi è il furor, cioè l'impulso irrazionale che in accordo con la dottrina morale stoica coincide con la "pazzia", in quanto sconvolge l'animo umano e lo travolge. In questa lotta tra il furor e la razionalità, lo spazio dato al primo è senza dubbio preponderante e va ben oltre le esigenze imposte dal genere tragico. L'interesse per la psicologia delle passioni sembra a volte far dimenticare al poeta le esigenze filosofico-morali. Inoltre è caratteristica delle tragedie senecane l'accentuazione degli aspetti più truci e sinistri, dei particolari più atroci, macabri e raccapriccianti. In realtà la visione pessimistica e l'insistenza sugli elementi cupi sono mezzi di cui l'autore si serve per raggiungere più efficacemente il suo principale obiettivo consistente nell'ammaestramento morale. Un'altra caratteristica vistosa delle tragedie senecane è l'interesse prevalentemente concentrato sulla parola a scapito dell'azione. Il poeta rivolge scarsa cura all'articolazione organica della trama e dà grande spazio ad elementi privi di funzionalità drammatica, come lunghissime tirate moralistiche e ampie ed erudite digressioni mitologiche. Le vicende mitiche per il poeta sono occasioni per sviluppare tópoi letterari e per dibattere una serie di argomenti morali e politici, come quelli della colpa, del delitto, del regnum, della fides. Anche i personaggi, più che figure propriamente drammatiche sono portatori di determinati temi affidati loro dal poeta. Ne deriva un tono declamatorio che costituisce indubbiamente un ostacolo per il lettore moderno, infastidito dalla sovrabbondanza e dalla ripetitività connesse con la tecnica della variazione sul tema e dalla cospicua presenza delle apostrofi, delle esclamative, delle interrogative retoriche. L’APOKOLOKYNTOSIS Occupa un posto a sé nella produzione senecana un'operetta appartenente al genere della satira menippea, importante e interessante anche perché è l'unico esemplare di questa forma letteraria che possiamo leggere per intero. La satira menippea, così chiamata dall'iniziatore del genere, Menippo di Gàdara, era caratterizzata a livello formale dalla mescolanza di versi e di prosa, a livello contenutistico dalla commistione di serio e di scherzoso. Essa era stata introdotta a Roma da Varrone Reatino, che l'aveva usata per svolgere temi diatribici, d'argomento morale. L'operetta senecana è invece un caustico pamphlet senza alcuna implicazione filosofica, scritto in occasione della morte di Claudio: in esso Seneca dà libero sfogo al suo odio e al suo disprezzo per colui che lo aveva perseguitato e condannato all'esilio. Il titolo latino che compare in alcuni codici è Ludus de morte Claudi, dove ludus ha il significato di "gioco" o "scherzo" letterario. Il titolo greco Apokolokúntosis è di interpretazione incerta e discussa. Poiché kolokjnte in greco significa "zucca", il termine è stato inteso da alcuni studiosi come "trasformazione in zucca", con implicito riferimento e contrapposizione ad apothéosis, "trasformazione in dio". Tuttavia nell'opera Claudio non subisce alcuna trasformazione; perciò altri hanno supposto che il senso sia piuttosto " deificazione di una zucca", "divinizzazione di quello zuccone di Claudio". Altri ancora hanno pensato a un'espressione idiomatica (non altrimenti attestata) corrispondente alla nostra "infinocchiatura", nel senso di "fregatura", e non sono mancate altre ipotesi, tutte indimostrabili. L'autore promette all'inizio che riferirà fedelmente gli avvenimenti successivi alla morte dell'imperatore. Il racconto comincia dal momento in cui le Parche recidono finalmente il filo della sua vita e Apollo intona un canto di gioia per l'inizio del regno felice di Nerone. Mentre sulla Terra tutti esultano, Claudio si reca in cielo e si presenta a Giove, ma non viene riconosciuto perché parla in modo incomprensibile (allusione alla balbuzie di cui l'imperatore soffriva); la somma divinità affida dunque a Ercole l'incarico di capire chi sia e l'eroe, spaventato dall'aspetto mostruoso di quel grottesco personaggio, si prepara alla sua tredicesima fatica. Dopo una lacuna del testo, troviamo gli dèi a concilio per discutere la proposta di divinizzare Claudio; nella discussione interviene il divo Augusto che pronuncia una violenta requisitoria contro il nipote, accusandolo di aver assassinato numerosi membri della sua famiglia e chiedendo una severa punizione. Claudio viene dunque trascinato agli Inferi; passando per la via Sacra, assiste al suo funerale e soltanto allora capisce di essere morto; vede Roma in festa e ascolta un ironico canto funebre in suo onore. Agli Inferi gli si fa incontro la folta schiera delle sue vittime; sottoposto a un processo sommario come quelli che era solito fare sulla Terra, è condannato a giocare eternamente ai dadi con un bussolotto forato. Compare poi Caligola che lo reclama come suo schiavo; infine viene consegnato al liberto Menandro perché gli faccia da aiutante. L'operetta è notevole per la perfetta padronanza con cui l'autore si muove tra livelli linguistici e stilistici diversi, dal colloquiale "basso" alla parodia dello stile "alto" e solenne dell'epica, dal tono leggero, ironicamente scanzonato e umoristico, al sarcasmo più feroce. LO STOICISMO È IN OPPOSIZIONE! SUICIDIO È UN ATTO DI LIBERTÀ Tacito racconta il suicidio di seneca. LINGUAGGIO COLLOQUIALE E CONFIDENZIALE. • LO STILE È INCENTRATO SULL’USO DELLA SENTENTIA OVVERO FRASI A EFFETTO MOLTO BREVI MA RICCHE • DI SIGNIFICATO. NUCLEO CENTRALE DELL’ORGANIZZAZIONE FONICO-RITMICA e SINTATTICA È LA FRASE E NON IL PERIODO. • RICORRE A ASINDETI, ANAFORE, EPIFORE e ALTRE FIGURE DI RIPETIZIONE. • LARGO USO DELLA CONCINNITAS: ANTITESI, PARALLELISMO, OMOTELEUTO etc (minimo delle parole, • massimo significato). La Lex Iulia maiestatis o Lex Iulia de maiestate è una legge emanata nell'8 a.C. per volere dell'imperatore Augusto, il quale riordinò l'intera materia circa il crimine di lesa maestà, cioè di qualunque offesa o minaccia arrecata alla figura dell'imperatore e quindi alla sua auctoritas. IL VALORE DEL TEMPO Nel De brevitate vitae, in cui il filosofo esorta Paolino a lasciare i suoi impegni di funzionario imperiale e a rivolgersi interamente allo studio e alla pratica della sapienza. Il tempo è un dono della natura, il solo di cui l'uomo possa servirsi liberamente; è necessario pertanto non disperdere le proprie energie in occupazioni vane, ma rivolgere ogni cura al dominio del tempo e al corretto uso di esso. Tale esortazione non poggia sulla contrapposizione tra il godimento delle gioie presenti e la fugacità della vita, ma investe l'intera esistenza: la valorizzazione di ogni suo attimo permette di superare le debolezze della condizione umana e di raggiungere la saggezza. La meditazione sulle azioni passate, divenute una realtà immutabile, reca vantaggio soltanto al sapiente, che può riflettere sul suo operato virtuoso e trarne spunti di perfezionamento; le persone stoltamente occupate in attività inutili, al contrario, non si soffermano mai a riflettere sul passato, per mancanza di tempo e di volontà. Dopo il ritiro dalla vita politica, la meditazione sul trascorrere del tempo si arricchisce di una nota autobiografica: Seneca avverte l' insensatezza della sua vita passata e percepisce chiaramente di aver anch'egli sciupato il suo tempo. Nelle Epistulae ad Lucilium, con un'esperienza e un'autorità morale accresciute, rivolge allora a se stesso i rimproveri che muoveva a Paolino e invita l'amico e discepolo Lucilio al ritiro dagli affari e dalla politica. LA VITA È DAVVERO BREVE? Nei capitoli iniziali del De brevitate vita Seneca introduce l'argomento del trattato: contrariamente a quanto afferma la maggior parte degli individui, il tempo a disposizione di ogni uomo non è di breve durata, ma è reso tale dagli impegni superflui. Anche uomini illustri, quali Ippocrate e Aristotele, hanno aderito nei loro scritti a tale falsa opinione: il sapiente, al contrario, conosce la natura profonda della vita e sa adattarsi ai suoi ritmi, acquisendo il dominio su di sé e sulle cose. Il valore dell'esistenza umana si deve calcolare, quindi, non sulla durata, ma sulla qualità, ossia sulla capacità di chi la vive di non disperdersi in attività o in passioni prive di senso. LA GALLERIA DEGLI OCCUPATI Il numero delle persone che sprecano il tempo in inutili occupazioni è più ampio di quanto si possa immaginare. Gli "affaccendati" non sono solo coloro che dedicano tutta la vita agli impegni lavorativi e della vita civile, senza concedersi uno spazio da dedicare alla riflessione interiore, ma anche di quanti fanno del proprio tempo libero un uso insulso. A costoro, la cui vita Seneca definisce desidiosa occupatio, "un ozioso affaccendarsi". IL COLLEZIONISTA, L’APPASSIONATO DI SPORT, IL VANITOSO Il De Brevitate vitae occupa il decimo libro dei Dialoghi di Seneca. Dedicato a Paolino, il breve scritto, ruota intorno all’opposizione tra tempo e saggezza, alla quale corrisponde la contrapposizione fra gli occupati, oppressi che sprecano il loro tempo in occupazioni frivole vivendo nella fiducia inconscia di poter fruire eternamente della vita e il sapiens, “vincitore assoluto” che come un dio, ha la piena gestione e consapevolezza del tempo. La vita pertanto non è breve, ma lo diviene a causa dell’incapacità degli uomini di utilizzare in maniera proficua il bene più prezioso: il tempo. Seneca ce li presenta in rassegna: collezionisti, appassionati di sport, maniaci del canto, pigri e vanitosi che passano ore dal parrucchiere. I saggi invece non corrono questi pericoli e trovano rifugio nei maestri, filosofi del passato. Aggiungono alla loro vita i secoli passati, dominano il presente e il futuro. La saggezza, porto sicuro nel mare in tempesta, insegna come usare ogni istante nel modo più valido. Non conta la durata, ma l’uso che facciamo del nostro tempo. LA VISITA DI UN PODERE SUBURBANO Il trascorrere del tempo, che conduce alla vecchiaia e alla morte, prende forma tangibile davanti agli occhi di Seneca in occasione di una visita presso una sua tenuta suburbana: l'edificio pericolante e i platani morenti hanno la medesima età del filosofo, così come il portinaio, suo coetaneo e compagno di giochi in gioventù, che appare ormai decrepito. Tali osservazioni inducono il filosofo a prendere coscienza della propria vecchiaia e ad accettarla. I piaceri, infatti, giungono al colmo dell'intensità proprio quando stanno per terminare: la condizione dell'anziano è dunque un'esperienza non priva d'attrattiva, che merita d'essere vissuta purché se ne faccia buon uso. A chi nega poi l'esistenza di gioie nella vecchiaia, Seneca ribatte che la mancanza di desiderio è di per se stessa un vantaggio. UNA PAZZIA DI BREVE DURATA Prendendo spunto dall'esortazione rivoltagli dal fratello Novato perché scriva come si possa porre rimedio all'ira, passione violenta che induce a desiderare la rovina altrui anche a costo della propria, Seneca inizia descrivendone minuziosamente le manifestazioni esteriori. Paragonata a una follia di breve durata, essa cancella ogni remora morale e rende ostinati e ciechi nei confronti della ragione e della verità. L'aspetto degli iracondi appare sconvolto dalla veemenza di tale sentimento: sguardo minaccioso, movimenti rapidi e bruschi, occhi fiammeggianti, volto sfigurato, respiro affannoso, corpo irrequieto. Il vizio, così come si presenta nella fisionomia di chi ne è schiavo, può forse dirsi