Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Sintesi Lessico della storia culturale, Sintesi del corso di Metodologia della ricerca

Riassunto del libro Lessico della storia culturale

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 17/01/2024

ssss.
ssss. 🇮🇹

4.6

(11)

23 documenti

1 / 20

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Sintesi Lessico della storia culturale e più Sintesi del corso in PDF di Metodologia della ricerca solo su Docsity! LESSICO DELLA STORIA CULTURALE INTRODUZIONE La storia culturale non ha avuto vita facile in Italia. Molte le ragioni possibili:  Da un lato il peso di una lunga e importante tradizione di storia delle idee e di storia della culta. ra, in versione sia liberale che gramsciana, che invece di favolire l'imporsi di quella svolta culturale che andava affermandosi nella storiografia internazionale pareva poco interessata a comprenderne le novità;  Dall'altro l'arrivo tardivo, della storia sociale, su cui a lungo parevano concentrarsi tutti gli sforzi di rinnovamento di una storiografia nazionale L’imporsi di nuovi approcci culturali sul passato diveniva così difficile, a trovare propri spazi e un vero riconoscimento. L'età d'oro della storia culturale in Francia, si concentrava negli anni Novanta, nel momento in cui una serie di convegni, di bilanci, accompagnava la creazione nel 1999 dell'Association pour le développement de Phistoire culturelle (ADIC). Nell'anno accademico 2005-2006 si inaugurava a Pisa un primo ciclo di seminari di storia culturale che rompeva il ghiaccio con l'uso stesso del termine, fino ad allora generalmente utilizzato nella sua traduzione inglese - cultural history. Da queste occasioni, oltre che da una serie di primi studi, nasceva tra Pisa e Padova l'idea di costituire un luogo in cui le ricerche e le riflessioni ancora episodiche e disperse potessero convergere in un progetto collettivo di maggiore valorizzazione e visibilità. Sarebbe stato il Centro universitario di storia culturale (CSC) che viene creato nel 2009 da una convenzione tra 4 diversi atenei. Si trattava di un piccolo gruppo di studiosi a cui si aggiunsero presto altri partner istituzionali. In questi primi passi è un piacere ricordare Silvio Lanaro che avere a presto manifestato una sensibilità acuta per la svolta linguistica. Va detto, perché certamente è poco noto, che un centro interu- niversitario è un luogo dalla fisionomia istituzionale tutt'altro che consueta, visto che si propone di tenere insieme e di creare sinergie tra una rete di spazi accademici separati e distinti, Per il nuovo Centro si trattava di promuovere, organizzare e coordinare sia attività di ricerca che attività di formazione per giovani ricercatori nel campo della storia culturale, 1. CIBO DI ILARIA PORCIANI: Alle origini: tra antropologia e sociologia: A cavallo tra Otto e Novecento la storiografia accademica tagliava il cordone ombelicale con una produzione erudita onnivora e attenta alla cultura materiale e alla vita quotidiana. Furono due discipline nuove e perciò meno codificate a concentrarsi sui molteplici significati del cibo in ambito culturale: l'antropologia e la sociologia. Da queste e non dalla storia nacque la curiosità per questo grande tema. Proprio grazie a tali inizi precoci ed eccentrici la storia del cibo ha prediletto approcci di taglio culturale, si è aperta alla comparazione e alle connessioni e ha cercato di cogliere ibridi e intrecci. Nel 1888 Garrick Mallery scriveva su Manners and Meals, Frank Hamilton Cushing analizzava le forme del pane e Franz Boas prima e Helen Code-re poi studiavano le first nations. Furono antropologi del calibro di Bronislaw Malinowski a voler includere il cibo, un tema che percepivano come ancora universalmente ignorato. Nel 1932 fu Audrey Richard, a sottolineare il ruolo della ricerca del cibo nel dar forma alle istituzioni umane. Si può indicare una data certa per la nascita di un approccio di tipo culturale alla storia del cibo: il 1938, quando Arnold Van Genne dedicò un capitolo del suo Manuel du folklore français contemporain agli usi connessi agli alimenti e alla tavola. In Francia nel 1950 anche Marcel Mauss, insisteva sul ruolo cruciale che hanno i 2 gesti speculari dell’offrire il cibo e dell’accettarlo. Tra gli anni 1910 e 1930 in Germania Georg Simmel si concentrava sulla sociologia dei pranzi borghesi e suggeriva ai lettori di osservare come proprio a tavola si trasmettano di generazione in generazione atteggiamenti e orientamenti mentali. Chi si interessi oggi alla storia culturale del cibo può difficilmente prescindere dalla Civiltà delle buone maniere di Norbert Elías che nel 1969 metteva in risalto l'importanza dell'etichetta a tavola ed elaborava riflessioni importanti sugli slittamenti del senso di disgusto verso certi alimenti e sui divieti sociali. Elias richiamava testi dell'età moderna che rilevavano anche specificità e differenze, percepibili ad esempio nel diverso modo di masticare dei vari popoli europei. Partendo da uno sguardo non occidentale il grande studioso sottolineava come attraverso il cibo si cristallizzino le opposizioni tra noi e gli altri. Venti anni dopo il sociologo Stephen Mennell ha esplicitamente dichiarato il suo tributo nei confronti dei grande studioso tedesco. Sono stati gli antropologi e le antropologhe a mettere in luce ad esempio la struttura di fondamentali interdetti alimentari legati alla religione. Nel 1966 Mary Douglas ha sottolineato il carattere profondamente culturale dei divieti e della abomination del Levitico. Nel 1935 Marvin Harris ha sottolineato il carattere profondamente culturale di interdizioni legate ad altre religioni. Storici, luoghi e istituzioni: Nel prender forma di nuovi campi disciplinari i luoghi sono centrali: per capire come e perché si sia radicata una prospettiva culturale negli studi sull'alimentazione si deve cercare là dove è cresciuto l'interesse per il ruolo delle forme simboliche della vita umana. Parigi dell'EHESS e della Maison des Sciences de l'Homme dove si sprigionava la forza innovativa delle “Annales”. Qui etnologi e antropologi come Marcel Detienne e Jean Pierre Ver-nant studiavano il valore rituale del cibo nel mondo greco, e qui l’alimentazione e la cucina sono entrate a far parte della storia sociale delle rappresentazioni, delle mentalità e della cultura. Qui prima che altrove veniva recepita e condivisa la proposta di Ro-land Barthes di guardare alla semiotica della vita quotidiana e di individuare nel cibo un metalinguaggio, un sistema di comunicazione, volto a riflettere gli stili di vita e capace anche di trasformarli in pratiche pervasive. Nel 1961 dalle pagine delle “Annales” Fernand Braudel invitava gli storici a confrontarsi con lo studio dell'alimentazione. Nello stesso anno un numero spciale della rivista registrava già un iniziale interesse della storiografia: il tema cominciava a prendere forma. Già il magistrale capitolo di Civiltà materiale, sviluppo e capitalismo di Braudel dedicato al pane quotidiano non guardava solo ai traffici intercontinentali di cercali ma faceva emergere anche il modo in cui il cibo poteva riflettere e connotare il rango sociale. Nel 1975 sempre sulle “Annales” Mau-rice Aymard notava il perdurante prevalere di approcci quantitativi. Anche l’istituto Datini di Prato si apriva alla storia qualitativa dell’alimentazione nel Medioevo, alla quale guardavano prmai in Italia e in Francia numerosi studiosi: emblematico il caso di Massimo Montanari, che nel 1979 pubblicava uno studio sull’alimentazione dei contadini nel medioevo. A partire dalla fine degli anni 70 gli studiosi di storia dell'alimentazione hanno cominciato a riconoscersi e ad organizzare importanti convegni sulle pratiche e i discorsi sull'alimentazione. In Gran Bretagna Jack Goody, avviava con Theodore Zeldin gli Oxford Symposia on Food and Cookery. A questi incontri partecipavano in primo luogo studiosi indipendenti quali si univano inizialmente pochi studiosi affermati e radicati nell'accademia. Si cominciava a capire che le spezie nel Medioevo non servivano a mascherare odori e sapori di alimenti mal conservati. Esse avevano una funzione precisa nel segnalare status sociale, ricchezza e rango di chi le acquistava e le utilizzava nei banchetti. Mentre in Italia si segnalavano le indagini di Piero Camporesi, dedicava un capitolo della sua storia della vita privata del 1999 proprio alla distinzione attraverso il gusto: così come si può parlare di gusto artistico - sosteneva - esiste un gusto alimentare complesso, che va ben oltre l'elementare percezione sensoriale. Gli studiosi cominciavano a studiare il passaggio dall'età d'oro delle spezie all'introduzione di regimi alimentari in cui - a partire dal Rinascimento - si facevano strada le verdure. anche la diffusione di pomodori e patate non era avvenuta in modo automatico dato che era stata a lungo ostacolata da disgusto e diffidenza. Essa fu in realtà segnata da profondi elementi di ordine culturale. Ad una lettura più attenta su questi temi è emerso anche il ruolo di pratiche specifiche, note soprattutto alle donne del Messico colombiano. Emergeva inoltre come dalla metà del Seicento all'antica nozione di regime alimentare se ne fosse progressivamente sostituita un'altra: regime cominciava a designare un insieme di abitudini alimentari che era partecipe della nuova visione del mondo e che al tempo stesso sapeva tradurla in pratiche. I libri di cucina, diventavano fonti importanti per capire scelte alimentari, trasformazioni del gusto, funzione simbolica degli alimenti. Si apriva così anche una stagione di maggiore attenzione alle collezioni di testi conservati in varie biblioteche del mondo. Furono Jean-Louis Flandrin (2007), Maurice Aymard, Claude Grignon e Francoise Sabban (1993) a suggerire di indagare anche i tempi dei pasti, lo slittamento delle tipologie dei pasti in rapporto alle esigenze imposte dalle nuove condizioni di lavoro. Questo approccio ha consentito di cogliere la dialettica tra tempo tradizionale e tempo moderno, e di capire delle ricerche in questo campo è stato senz'altro Theodor Adorno: filosofo di formazione, si trasferisce negli USA solo nel 1938, invitato da Horkheimer a partecipare a un progetto di ricerca sulle modalità di ascolto della radio, diretto da Paul Lazarsfeld. Adorno, si dedica così a una brillante riflessione sulla popular music per poi affrontare il tema dell’”industria culturale, ambizioso tentativo di spiegare la seduzione totalitaria vissuta dalla civiltà occidentale contemporanea. Adorno toccherà molte altre volte, il tema della cultura di massa, che tuttavia ha modo di illustrare, in saggi dedicati all'ascolto musicale contemporaneo sia di musica popular, che di musica “seria”. Peraltro, a parere suo e di Horkheimer, la popular music non è che una componente della più vasta costellazione della cultura di massa, che ha la caratteristica di un sistema integrato e internamente coerente. Il punto analitico è che le caratteristiche fondamentali che Adorno ritiene siano proprie delle pop song di successo sono anche le caratteristiche della cultura di massa nel suo complesso. Ciò che gli sembra connotare la popular music è, dunque, una sistematica standardizzazione, che riguarda sia la musica che il testo; nelle pop song la struttura musicale è articolata in una sequenza essenziale e sempre ripetuta di strofe, ritornello e bridge; il testo è affidato a un baby talk, nel quale, si raccontano quasi esclusivamente delle banali storie d'amore. Questo è come la popular music promuove riflessi condizionati. La ragione per la quale si è imposto il modello della standardizzazione ha a che fare con l'imitazione, essa stessa imposta dagli obiettivi commerciali della popular music. Risolvere questo problema è compito di una tattica commerciale-compositiva che Adorno chiama “pseudondividualizzazione” si tratta dell'inserimento costante di varianti. che serve a differenziare un prodotto dall'altro. Altra tecnica di “pseudoindividualizzazione” consiste nella creazione di sottogeneri, che è una questione che riguarda la musica come altri prodotti della cultura di massa. In tutto ciò, fondamentale è anche il plugging, ovvero la promozione del prodotto, affidata a una costante ripetizione auditiva o visiva, finché il prodotto in questione non viene accettato dal pubblico. In tal modo, nella ricezione dei prodotti della cultura di massa il pubblico è soggiogato dal meccanismo della strandardizzazione e del plugging, ed è indotto a far proprio ciò che si impone presso una prima sezione di pubblico. Il prodotto finale di questo sistema culturale è - secondo Adorno - una evidente regressione infantilizzante del pubblico, che ha effetti alienanti dai gravi risvolti politici. La cultura di massa offre relax, pacificazione mentale. Per Adorno e per Horkheimer, ha come effetto la destrutturazione dell'opinione pubblica, composta da soggetti passivi, inclini al conformi-smo, radicalmente privi di ogni autonomia intellettuale. La prospettiva analitica aperta da Adorno ha avuto una grande popolarità presso l'accademia e il pubblico italiani ed europei negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Poi ha perso di attrattiva, per due ragioni: da un lato un limite molto evidente, ovvero l'ostinazione con la quale Adorno si è rifiutato di ricono-scere, all'interno della cultura di massa, l'esistenza di produzioni che non hanno le caratteristiche regressive che lui ha individuato. Dall'altro lato, la proposta analitica di Adorno, definita come “apocalittica” da Eco è stata sopravanzata da un'altra prospettiva che pure prende spunto dal lavoro di un altro studioso, Walter Benjamin. Da Benjamin a Jekins: studi sulla ricezione: Benjamin dal 1933 è esule in Francia. Dalla metà degli anni Itenta collabora stabilmente con l'incarnazione newyorchese dell'Istituto per la ricerca sociale. Al momento dell'occupazione della Francia da parte dei nazisti, tenta di fuggire in Spagna per imbarcarsi per gli USA; fermato alla Frontiera, a Portbou, si suicida nella notte del 26 settembre 1940. Nel 1936, sulla rivista dell'Istituto, Benjamin ha pubblicato un breve saggio, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica in cui ha esaminato gli effetti della comunicazione artistica in un'epoca di massa. Nella contemporaneità, scrive Benjamin, l'opera d'arte perde la sua aura, perché perde la sua unicità. La perdita dell'aura e la maggiore accessibilità dell'arte si accompagna a un processo che potrebbe essere definito di “democratizzazione” della fruizione: l’opera d'arte non è più patrimonio esclusivo di un'unica persona. Attraverso la possibilità della illimitata sua riproduzione, l'arte diventa - almeno potenzialmente - patrimonio di tutti. Ora - osserva Benjamin - la fruizione di un'opera d'arte nel contesto contemporaneo avviene spesso in ambienti “non rituali”, cioè la ricezione può essere anche distratta. L'analisi compiuta da Benjamin è brillante, ma è anche appena abbozzata; nonostante ciò, essa è stata egualmente molto importante perché ha prospettato una lettura della cultura di massa molto meno pessimistica rispetto a quella pensata da Adorno e da Horkheimer. Le elaborazioni concettuali più importanti che, hanno sviluppato le intuizioni di Benj, sono state 2: gli studi sulle subculture giovanili compiuti nell’ambito del Centre for Contemporany Cultural Studies di Birmingham; e le analisi teoriche e pratiche dedicate alla ricezione della popular culture. A Birmingham ha studiato le subculture giovanili britanniche degli anni Cinquanta-Settanta. Ciò che gli studiosi di Birmingham vogliono capire è come i giovani della classe operaia britannica abbiano reagito alle trasformazioni economiche e sociali che hanno avuto luogo in Gran Bretagna dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il gruppo di Birmingham ha descritto le subculture giovanili osservando che le pratiche sociali di questi gruppi sono nate come reazione alla discrasia. Piuttosto, i giovani che si sono riuniti nelle subculture giovanili hanno cercato di esprimere una propria radicale disaffiliazione costruendo spazi spazi liminali simbolici in cui elaborare nuove identità, definite attraversa specifici “stili”. Gli stili subculturali nascono nel tempo libero e nello spazio delle scelte di consumo per mezzo di un'operazione di “bricolage”, grazie alla quale si de costruiscono e ri-semantizzano determinati oggetti: in tal modo vengono sottratte al loro ambito di appartenenza per essere sottoposte a un processo di ricollocazione in un contesto simbolico del tutto nuovo. E così per esempio, i teddy boys che sono ragazzi che vengono dagli ambienti più disagiati delle classi operaie britanniche, tagliati fuori dalla prima ondata di sviluppo economico, perché privi di una buona educazione scolastica, cercabo di uscire a tutti i costi dal ghetto sociale nel quale sono rinchiusii: per farlo creano uno stile inedito basato sui canoni della moda vigente nel periodo edoardiano. La natura dissonante degli stili subculturali spesso ha perfino provocato reazioni istericamente negative da parte degli opinion makers portavoce della visione sociale e culturale mainstream. Ciò che vale per oggetti di consumo di uso quotidiano, vale anche per le scelte culturali. Gli studi del gruppo di Birmingham, dunque, hanno dato un grande rilievo alle pratiche collettive di ricezione dei prodotti del la cultura di massa; tuttavia da un lato non hanno approfondito la dimensione rituale che appartiene agli stati di disaffiliazione giovanile; dall’altro non hanno poi elaborato in profondità gli aspetti teorici relativi alle forme della ricezione dei prodotti culturali. Si tratta di una descrizione che allude espressamente al percorso tracciato soprattutto da Michel de Certeau, uno storico che in L'invenzione del quotidiano. si è fatto teorico di un'analisi in grado di valorizzare le capacità creative e interpretative delle persone comuni che si trovano di fronte alle produzioni della popular culture. In questo libro, de Certeau ha contestato l'idea che anima le analisi top-down. de Certeau ha visto all'opera le “tattiche soggettive” che le persone comuni oppongono alla pianificazione comunicativa dei più potenti gruppi di decisione. Tra di esse vi sono le pratiche di «bracconaggio», che consistono nel prendere oggetti o figure dalla cultura circostante, reimpiegandole per costruire controsistemi simbolici; tale bracconaggio può essere libero, cioè dettato da forme di reinterpretazione radicale degli oggetti o delle figure o delle narrazioni di riferimento; oppure omologo, cioè dettato da una coerenza tra oggetti, figure, narrazioni, e finalità attribuite alle pratiche dei soggetti. Accanto alle tattiche di bracconaggio, poi, ci sono quelle di «bricolage”, tratto dai lavori di Lévi- Strauss, per descrivere il processo di rimontaggio degli spezzoni di discorsi o di narrazioni che le persone sono in grado di captare. Attraverso queste soluzioni tattiche, in definitiva secondo de Certeau, si aprono spazi di libertà individuale nella lettura, nelle visioni cine-televisive, nelle pratiche di consumo. FIenry Jenkins, che ha teorizzato l'importanza di pratiche creative dal basso sollecitate dai protocolli comportamentali resi possibili dal carattere interattivo dei new media e del web. Tali pratiche creative vanno dai blog di discussione dedicati a format televisivi di successo, al fenomeno delle fan fictions derivate da successi della popular culture in campo letterario. Quando Tenkins ha pubblicato Cultura convergente (2006), il libro in cui La sviluppato in modo compiuto questa interpretazione, ha ritenuto di vedere in queste e in altre simili pratiche l'annuncio di un processo che avrebbe condotto al formarsi di una nuova «intel- ligenza collettiva dal basso”. Da Bourdieu a Aggies: studi sugli apparati produttivi: Il quadro teorico di riferimento per questi studi è stato disegnato con coerente rigore soprattutto da Pierre Bour-dieu, sociologo francese che si è impegnato in una critica serrata al marxismo, che lo ha condotto a rilanciare, in forme più sofisticate, una nuova lettura materialista dei fenomeni sociali e culturali: la sua impostazione ha però finito spesso per proporre una sorta di nuovo determinismo che ha fatto dipendere piuttosto rigidamente le scelte dei singoli dalla loro collocazione all'interno dello spazio sociale. Tra i numerosi lavori di sociologia della cultura, spicca Le regole dell'arte, un saggio nel quale - come spiega il sottotitolo - Bourdieu ha voluto illustrare il funzionamento del “campo letterario” come modello per esaminare anche altri “campi” di produzione culturale. Il saggio muove dalla definizione di “campo” culturale, concepito come uno spazio fisico e intellettuale in cui specifici soggetti entrano in relazione tra di loro; ciascuno di questi soggetti, possiede un suo variegato “capitale”, che può essere un capitale economico, culturale, simbolico. All’interno del “campo” culturale si delinea un reticolo di relazioni tra i diversi soggetti che lo popolano è che possono descrivere una variegata tipologia: le relazioni possono essere gerarchiche (editore-autore, star letteraria-editore); concorrenziali (autori ed editori che si muovono competitivamente sul mercato); conflittuali (autori che si fanno portatori di differenti progetti artistici). Il quadro delineato da Bordieu è sistematico è ambizioso. Nessuno di questi lavori dice niente di veramente significativo sui contenuti specifici delle produzioni culturali: cioè, nessuno di questi autori si interroga su quali siano gli universi immaginari costruiti dalle narrazioni, dalle figurazioni, dalle costruzioni simboliche prodotte dagli editori. Lawrence e Jewett: macroanalisi strutturale: Le ricche metodologie dell'anali testuale, iconografica, retori- ca, linguistica, possono essere applicate anche ai prodotti della cultura di massa. E proprio in questo ha consistito la grande novità degli studi compiuti negli anni 60 da Umberto Eco. La debordante quantità dei prodotti della cultura di massa sembra scoraggiare ogni possibile indagine in profondità. Tuttavia la preoccupazione risulta infondata, se agli studi settoriali si da il valore di una micoranalisi strutturale, che riveli, da un lato modalità comunicative, dall’altro ne indaghi la posizione all’interno di una rete di relazioni intertestuali con altre produzioni precedenti. Ál lato opposto, altri studiosi hanno ripreso suggestioni che vengono dalla tradizione analitica strutturalista, e sono andati in cerca di forme di macro-regolarità nelle modalità narrative che attraversano le produzioni popular. studiosi come John Shelton Lawrence e Robert Jewett (2002) hanno esaminato in dettaglio le strutture narrative di una quantità di produzioni statunitensi osservando la persistenza costante di figure supereroiche; infatti, secondo Lawrence e Jewett, in molti prodotti della cultura di massa, riemerge uno specifico mito dell’eroe. Secondo i due studiosi nel corso del XX secolo negli USA si è imposto un modello mitico elementare significativamente diverso da quello classico. Quest'ultimo, grosso modo, ha la forma della quest:un eore deve avventurarsi in un territorio estraneo e soprannaturale; deve combattere contro forze avverse e vincerle; dopo che le ha vinte può tornare per portare i benefici che ne ha tratto alla sua gente. Il mito americano x eccellenza è diverso: un’armoniosa comunità è minacciata da una qualche forza maligna; le istituzioni vigenti non sono in gradi di contrastarla; un supereroe altruista emerge e adempie al compito di liberare la comunità del manle; la comunità torna all’originario stato di armonia mentre l’eroe scompare nell’ombra. 3. FAMIGLIA: DI ENRICA ASQUER: La storia della famiglia si è delineata come filone storiografico a partire dal secondo dopoguerra e, ha assunto come presupposto la storicità del suo oggetto. Quest'ultimo è stato posto al di fuori di un orizzonte esclusivamente dettato da una natura biologica dei legami familiari, o da una naturalità giuridica di questi legami. La storia della famiglia ha da sempre fatto i conti con la pluralità di modelli e di esperienze familiari nei diversi contesti spazio-temporali e socio-culturali, e con la molteplicità dei fattori della dinamica storica, l'ambiente, l'economia, il dirit-to, la biologia, le emozioni, la politica. Ha da sempre fatto i conti anche con la polisemia del concetto di famiglia. In tale ambito di studi, l'elemento “culturale” ha assunto principalmente due declinazioni:  La prima ha a che fare con i temi e le questioni metodologiche che emergono nel clima intellettuale delineatosi tra anni Settanta e Ottanta del Novecento, quando la storia della famiglia conosce il suo momento d'oro e, parallelamente, emerge complessivamente nella storiografia l'esigenza di un ripensamento radicale del peso giocato dalla cultura nella dinamica storica; Famiglia e nazione: Da un'ottica di storia culturale e di genere è venuta anche la spinta a indagare la centralità dei nuovi modelli familiari nel quadro dei processi di state building. Nell'ambito di quello che è stato uno dei cantieri più importanti della nuova storia culturale, le ricerche hanno lavorato indagando l'intreccio tra, da un lato, il ripensamento dei principi che innervano le relazioni politiche e definiscono il potere nelle nuove configurazioni statuali fondate sulla sovranità popolare (e non più sull'assolutismo), e, dall'altro, la riscrittura delle relazioni familiari, in nome di un modello coniugale intimo. Lynn Hunt ha indagato il “modello familiare della politica”. La ricerca di un nuovo modello di relazioni familiari tra padri e figli e tra mariti e mogli viene posto dall'autrice al centro di quell'” immaginazione collettiva”, storicamente specifica, che presiede alla fondazione dell'ordine politico-sociale rivoluzionario. Del resto, come ha notato Ilaria Porciani si avvia “una pratica discorsiva che organizza, nuovi modi di percepire il sé e gli altri in termini non soltanto di genere, struttura familiare, classe sociale, spazi pubblici, ma anche in termini di identità nazionale”. Nei processi di nazionalizzazione, la famiglia appare come “metafora, simbolo, ma anche origine della nazione”. Significativamente, in tale contesto, il discorso sulla nazione, prende forma parallelamente al discorso sulla famiglia coniugale intima, all'interno della quale i coniugi sono chiamati innanzitutto a svolgere una funzione educativa nei confronti dei figli, crescendoli nel rispetto dei valori della nazione. La coppia madre-bambino: In questo schema, è alle mogli-madri che spetta il compito di preservare la purezza dei legami di sangue che uniscono i mariti-padri ai figli legittimi. Su questo snodo del corpo materno come “luogo pubblico” (Duden, 1994) si innesta l'eredità di un filone importante della storia delle donne e di genere, innescando tanto dinamiche emancipative quanto nuove forme di esclusione. L’analisi del dibattito scientifico e teolologico sulla fecondazione e sviluppo dell’embrione che porta alla formulazione della teoria “ovista”, rivela il campo di tensione che si apre tra i poteri e diritti della madre e poteri e diritti del bimbo. Si tratta di un nodo importante, che si connette con il tema della centralità dei diritti e del benessere dell’infanzia che attraversa come un fil rouge l’età contemporanea. Sviluppi novecenteschi: Il nesso fondativo tra famiglia e ordine politico emerge nelle ricerche sulle culture di guerra del Novecento e sugli effetti nel dopoguerra. L'osmosi tra pubblico e privato, tra famiglia, Stato e società, è molto evidente anche nelle politiche sessuali e familiari dei totalitarismi novecenteschi. I lavori di Paul Ginsborg, in questo senso, sono molto indicativi: a partire da una cornice teorica che, sottolinea criticamente l'assenza di un'efficace riflessione su “la connessione tra famiglia e politica” (Ginsborg, 1993), lo storico inglese persegue un progetto comparativo che mette a confronto l'esperienza di sistemi politici diversi ed evidenzia in particolare la centralità della famiglia in tutti i passaggi storici di ridefinizione dell'ordine politico. Ricerche recenti, sensibili al tema dei consumi, hanno sottolineato come, all'indomani della Seconda guerra mondiale, l'intera ricostruzione materiale e immateriale si intrecci con una cultura dell'intimità familiare e domestica che risponde, da un lato, al bisogno di elaborare il trauma collettivo della guerra e dei fascismi, e dall'altro a un'ulteriore fase di politicizzazione del quotidiano. Su questa linea, le ricerche sulle culture domestiche, innovano di fatto profondamente la storia politica, mettendo in rilievo anche il “romanzo familiare” degli universi cattolico, socialdemocratico e comunista. A partire da una diffusa rilettura degli anni Cinquanta, la cultura commerciale dei consumi di massa viene posta in sinergia con il ruolo delle agenzie culturali, che entrano nello studio e nella definizione della famiglia e ne guidano il cambiamento verso orizzonti socialmente legittimi. In tali ricerche, è da segnalare soprattutto una significativa innovazione nella scelta delle fonti, che punta a superare le criticità tradizionalmente addebitate alla storia culturale, ossia la sua presunta eccessiva focalizzazione sulle “rappresentazioni” e non sulla “realtà”; si fa strada anche per il secondo Novecento l'uso delle fonti giudiziarie allo scopo di penetrare all'interno del black box familiare, i conflitti, le negoziazioni. Nuovi stimoli, infine, vengono dall'oggi. Specialmente in Europa e negli Stati Uniti, ci troviamo di fronte a una fase particolarmente interessante del dibattito pubblico sulla famiglia, in cui si evidenziano delle forti spinte a una “ri-naturalizzazione”di questo oggetto. 4. GENERE DI ELISABETTA BINI Nel 1989, in una raccolta di saggi sulla "nuova storia culturale", Lynn Hunt sosteneva che “nessuna analisi intorno a unità e differenza culturale poteva essere completa senza una qualche discussione sul genere”. E continuava che “gli studi di storia delle donne hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo dei metodi della storia culturale più in generale”. Numerosi studi hanno posto l'accento sull'importanza di indagare i significati culturali delle gerarchie di genere. Questo saggio ricostruisce i dibatuiti che hanno caratterizzato l'intreccio tra storia culturale e storia di genere, focalizzandosi su alcuni percorsi tematici e storiografici. Tra storia sociale e storia culturale: L'interesse della storia delle donne e di genere per la storia culturale risale almeno alla prima metà degli anni 70. Com'è noto, in una prima fase le storiche femministe, hanno dedicato gran parte della loro attenzione a ricostruire l'esperienza delle donne nel passato. Molte delle ricerche si sono focalizzate, sull'analisi del rapporto tra capitalismo e patriarcato, attraverso un'attenzione al ruolo delle donne nel processo di industrializzazione, alle forme di discriminazione nel mondo del lavoro e all'importanza del lavoro domestico femminile nella riproduzione della classe operaia. In quel passaggio l'adozione della categoria di genere è risultata fondamentale per comprendere la trasformazione dei significati attribuiti nel corso del tempo al maschile e al femminile. Una delle prime storiche a utilizzare la categoria di genere è stata Natalie Zemon Davis, nel saggio La storia delle donne in transizione: il caso europeo, pubblicato in inglese nel 1976 e tradotto in italiano l'anno successivo. In esso, la studiosa sottolineava la necessità di occuparsi non solo di storia delle donne, ma anche di storia degli uomini e di “comprendere il significato dei sessi, dei gruppi di genere nel passato stotico”. A suo parere, lo scopo della ricerca storica doveva essere quello di “scoprire la gamma dei ruoli e del simbolismo sessuale in società e periodi diversi”. Zemon Davis è stata tra le prime a evidenziare l'importanza di adottare un approccio culturale allo studio della storia di genere. La studiosa ha criticato la storia sociale di stampo marxista e la sua attenzione al ruolo primario delle forze socio-economiche. La sua ricerca si collocava all'interno di un più ampio progetto politico volto a ridare voce a coloro che erano stati esclusi dalla storia. Come molti della sua generazione, la storica mirava infatti a mostrare il ruolo attivo che soggetti come le classi popolari e le donne avevano avuto nel costruire la propria identità culturale. Zemon Davis ha messo in discussione l'idea che i loro comportamenti seguissero unicamente logiche economiche o di classe. Un altro filone storiografico rilevante è stato quello legato al femminismo radicale che, a partire dalla seconda metà degli anni 70, ha evidenziato la necessità di porre al centro dell'attenzione l'analisi del patriarcato, inteso come un fenomeno universale. A partire dall'assunto che il genere sia un fattore primario di oppressione sociale, gran parte dell'attenzione è stata così dedicata all'analisi della sfera domestica. Non a caso, molti studi si sono focalizzati sulla storia dell'Ottocento, nel tentativo di comprendere il processo attraverso cui si è affermata la dicotomia pubblico/privato. Proprio gli studi sull'Ottocento, inoltre, hanno ricostruito quella che è stata chiamata la women's culture, ossia l'affermarsi di una specifica cultura femminile all'interno della sfera domestica, di forme di solidarietà tra donne e di attività di riforma. Negli anni 80 la storia delle donne e di genere ha in parte messo in discussione il modello delle sfere separate, evidenziando la complessità del modo di operare del genere. In questo passaggio è stato fondamentale il contributo delle storiche afroamericane, che hanno posto l'accento sulla necessità di differenziare la categoria "donna" lungo le linee di classe, ma hanno sottolineato l'importanza che la wbite womanhood ha avuto nella costruzione del potere coloniale e razziale. Nel caso degli Stati Uniti, libri come quello di Jacqueline Jones, hanno ricostruito la specificità dell'esperienza delle donne afro-americane. Uno dei contributi più importanti è stato quello della sociologa americana, formatasi in Gran Bretagna, Leonore Davidoff; ha introdotto l'uso della categoria di genere, intesa come la costruzione sociale della mascolinità e della femminilità e un elemento fondamentale - come ha scritto Paola Di Cori - “per condizionare e spiegare il funzionamento di una determinata società”. Davidoff ha focalizzato gran parte della propria ricerca sullo studio del rapporto tra classe e genere in età vittoriana. Uno dei suoi lavori più rilevanti è stato il libro scritto assieme alla storica Catherine Hall, Family Fortunes: Men and Women of the English Middle Class, 1780- 1850, che ha influenzato profondamente il dibattito sulla storia culturale. Il libro analizza il costituirsi della classe media in Inghilterra tra il Settecento e l'Ottocento, attraverso il processo di separazione tra la sfera pubblica/maschile e quella privata/femminile. Il tema viene affrontato con strumenti analitici del tutto originali, facendo dialogare tra loro l'approccio proprio della storia sociale di stampo marxista con quello delle sfere separate. Davidoff e Hall hanno evidenziato come la separazione tra pubblico e privato, tra una sfera maschile fondata sulla competizione e una sfera femminile basata sull'amore, abbia tratto le sue origini dalla cultura evangelica protestante. Uno dei contributi più rilevanti di Family Fortunes è stato senz'altro quello di spingere la storiografia ad interrogarsi sul ruolo che sia le donne che gli uomini hanno ricoperto nella sfera domestica. Inoltre, hanno promosso una serie di studi sulla centralità delle donne non solo nel lavoro di riproduzio-ne, ma anche all'interno delle imprese familiari e nella costruzione della posizione sociale della propria famiglia. Gli stimoli interpretativi avanzati da Davidoff e Hall sono stati ripresi da numerosi studi, che hanno analizzato la costruzione delle identità di genere in vari contesti storici e sociali. La pubblicazione di Family Fortunes si collocava all'interno di un più ampio dibattito storiografico sulla storia dei consumi e sulle forme di trasformazione sociale e culturale da essi apportate. Uno dei contributi più rilevanti apportati dalla storiografia è stato quello di mettere in discussione il paradigma delle sfere separate. Storiche come Lisa Tiersten e Erika Rappaport hanno evidenziato come la spettacolarizzazione e teatralità interna ai grandi magazzini abbia costituito per le donne di classe media un veicolo di affermazione della propria creatività. Nel contesto anglosassone, l'emergere di una sfera commerciale dedicata alle donne fu accompagnato da un intenso dibattito, in cui diverse definizioni di femminilità, moralità ed emancipazione si confrontarono e scontrarono tra di loro. In Francia, invece, la cultura dei consumi, venne associata alla negazione dei valori civici repubblicani. La presenza delle donne nella sfera commerciale si trasformò così in un segno del declino della nazione. Nel caso degli Stati Uniti, libri come quello di Kathy e di Nan Enstad, hanno sottolineato l'importanza che l'accesso ai consumi di massa ha avuto nel trasformare le identità sociali e culturali di molte donne alla fine dell'Ottocento. L'accesso ai cinema e alle dance halls, così come l'acquisto di vestiti permise alle più giovani di prendere le distanze dalla comunità di origine e, al tempo stesso, sperimentare nuove attività sessuali al di fuori del matrimonio. Tali trasformazioni furono particolarmente evidenti nel caso dell'industria dei cosmetici, che ridefinì profondamente le nozioni di bellezza femminile. Già nella seconda metà degli anni 70, soprattutto in Francia, vari studi avevano iniziato ad adottare gli strumenti concettuali delle “Annales” e le suggestioni teoriche di Michel Foucault sulla storia della sessualità per analizzare la costruzione sociale e culturale della mascolinità, in modo da “storicizzare l'immagine apparentemente unitaria e metastorica del cosiddetto uomo normale, ritenuto un essere monolitico, non problematico e immutabile”. Gli studi di John Tosh sono stati pionieristici, aprendo un nuovo campo di studi attento all'analisi del processo di costruzione dell'identità maschile borghese. Tosh ha analizzato l'importanza ricoperta dalla masculine domesticity nell'Inghilterra dell'età vittoriana. Secondo egli la stera domestica fu vista come fondamentale per l'affermazione dell'identità maschile borghese. Fu solo alla fine dell'Ottocento che si affermò un'idea di mascolinità maggiormente aggressiva, nel momento in cui gli uomini furono chiamati a partecipare alla conquista imperiale. Lo studio di Tosh si distingue per la sua capacità di cogliere la complessità della costruzione delle differenze di genere. Queste, infatti, vengono intese come una molteplicità di definizioni di mascolinità e femminilità. Il tema del rapporto tra identità maschile e identità borghese è stato al centro di numerosi altri lavori storiografici, tra cui quello di Robert Nye che ha analizzato l'importanza dell'istituto medievale e militare del duello nella costruzione della mascolinità alto-borghese. Nell'opera, l'autore interpreta i codici d'onore come una nuova forma di regolamentazione del comportamento maschile. Inoltre, utilizza un approccio foucaultiano per mettere in evidenza l'importanza che i discorsi sull'onore ebbero nel disciplinare la sessualità maschile. Tali politiche giunsero al culmine alla fine 800, quando emerse una sempre maggiore preoccupazione per la salute sessuale degli uomini, associata alla paura declino dei tassi di natalità e, con esso, della potenza della nazione. Studi come quello di Nye hanno contribuito a mettere in discussione la dicotomia pubblico/ privato, evidenziando come nel corso dell'Ottocento la sessualità maschile sia stata oggetto di un forte intervento pubblico e politico da parte dello Stato. È stata però l'opera di George Mosse a sottolineare con maggior forza il nesso tra mascolinità, identità borghese e processo di costruzione della nazione. Egli ha analizzato le origini di una lunga durata della declinazione abbia spinto a individuare nuovi strumenti per combattere il proprio nemico. In questo quadro, la storiografia ha dedicato una notevole attenzione allo studio dell'importanza acquisita dalla domesticità e dai consumi femminili nella guerra fredda culturale. La Cold War domesticity fu anche centrale nella propaganda delle due superpotenze. 5. MEMORIA DI SIMON LEVIS SULLAM: La memoria è un'attività presumibilmente innata negli individui e nelle collettività, che ha conosciuto fin dall'antichità e poi nell'età moderna momenti di sviluppo. Essa è studiata qui nel contesto dell'Occidente e del XX secolo, nelle fasi in cui fu posta al centro degli studi della nascente psicologia e poi della sociologia e sul piano collettivo, culturale e politico, dopo i due conflitti mondiali. Questa esperienza e il riferimento alla memoria hanno acquisito influenza nel discorso pubblico degli ultimi decenni, assumendo come paradigma centrale la memoria della Shoah. Nel corso del 900 si sono sviluppate indagini e teorie sulla memoria individuale e collettiva, rappresentazioni della memoria attraverso nuovi approcci letterari, nuovi media come la fotografia, il cinema, gli strumenti digitali. Nella sua rilevanza e centralità la memoria del secolo è stata riaffermata per legge; è stata oggetto di trasformazioni nella trasmissione tra generazioni ed epoche e di rivendicazioni di gruppo; ma anche di collisioni ed intrecci tra memorie nazionali, internazionali, postcoloniali. L’immenso edificio del ricordo: tra Freud, Proust e Bergson: nel 1895, nel saggio Progetto di una psicologia, Freud scriveva che qualsiasi teoria psicologica degna di considerazione doveva fornire una spiegazione della "memoria". La memoria individuale, secondo egli, dava accesso a elementi e funzionamenti fondamentali della psicologia e si collocava a diversi livelli della coscienza. La memoria, sosteneva Freud, poteva essere rievocata attraverso il ricordo o rimossa nell'inconscio. Secondo il clinico viennese la memoria degli individui poteva essere suscitata attraverso catene associative in delle "scene" le quali venivano sia riprodotte che create. Molte delle categorie di Freud, tra cui sogno, associazione, repressione, ripe-tizione, lo stesso inconscio, agivano come funzioni o disfunzioni della memoria. Lo scopo di Freud fu scoprire il modo in cui il nostro passato, mantenesse il potere della sua presenza. Nell'Interpretazione dei sogni, pubblicato nel 1899 con data 1900, Freud esaminò il modo in cui ricordiamo o dimentichiamo i sogni. Essi apparentemente si dissolvono al risveglio e ne ricordiamo solo frammenti: possono apparire disordinati e incoerenti. Se nei sogni si manifestano i nostri desideri inconsci, la fonte dei contenuti di essi è spesso rappresentata dalle memoria delle nostre attività recenti. Nel caso clinico dell'Uomo dei lupi, egli notò che “anche sognare è un modo di ricordare, anche se un ricordare soggetto alle leggi della notte”. Alcuni anni più tardi questa intermittenza dei ricordi sarebbe stata posta da Marcel Proust al centro della propria grande creazione letteraria. Sono molte le memorie evocate per associazione involontaria nell'opera proustiana, concentrate soprattutto nell'ultimo volume, Il tempo ritrovato. Visono tre tipi di memoria involontaria in Proust. Una "memoria onirica”, che opera in stato di completa o parziale sonnolenza e in cui i sensi e l'immaginazione seguono un corso incontrollato dalla ragione o dalla volontà: in questo caso i ricordi sono vaghi e di breve durata. Vi è una "memoria sentimentale", che evoca persone un tempo amate dal narratore, che in un certo senso re. suscita quelle persone e genera un senso di acuto e prolungato dolore. Vi è infine una "memoria estetica", che richiama in vita interi mondi connessi con un periodo come quello di Combray. Paesaggi della memoria della Grande Guerra: La Grande guerra rappresentò in questo senso una frattura nelle società europee e mondiali e diede forma a una memoria collettiva estesa degli eventi ad essa collegati. La morte violenta in pochi anni produsse 3 milioni di vedove e 6 di orfani. Famiglie, amici, commilitoni, reduci, si impegnarono nel corso stesso del conflitto e subito dopo a diverse forme di ricordo e commemorazione. I rituali attorno ai soldati caduti diedero forma a una religione civile che univa ricordi personali. Il primo di questi rituali collettivi della memoria fu quello di nominare i caduti. Parallelamente si onorarono singoli morti anonimi assurti a livello di simbolo: cioè i “militi ignoti”, i cui funerali vennero celebrati da tutti gli Stati belligeranti. a parigi, nel novembre 1929, la bara di un soldato anonimo giunse dai campi di battaglia di Verdun, fu intitolata al colonello eroe della guerra franco-tedesca del 1870-1871; infine sepolta, nel gennaio 1921 ai piedi dell’arco di Trionfo. In Italia, il 4 novembre 1921 fu traslato e inumato all'Altare della patria il milite ignoto e, successivamente, la sua memoria e mobilitazione simbolica avrebbero costituito uno dei miti fondativi del fascismo. I monumenti ai caduti contribuirono alla ricerca di senso rispetto alla carneficina, sostenendo il ricordo familiare e collettivo dei caduti. L’immaginario relogioso divenne pervasivo in Europa, con motivi ispirati alla Crocefissione, il frequente utilizzo del tema della Pietà. Assieme alla memoria soggettiva che riemerge da diari, lettere, ma anche resti umani, hanno costituito nuovi ambiti di interesse da parte degli storici attorno alla memoria materiale della guerra. Questa è costituita oggi anche da indagini archeologiche, restauri e visite turistiche sui campi di battaglia, che sostengono, anche sul piano di un turismo commerciale, gli attuali paesaggi della memoria del primo conflitto mondiale. La memoria sociale: Maurice Halbwachs: Negli anni e nei decenni successivi alla guerra la riflessione fondatrice negli studi sulla memoria in ambito sociologico fu quella di Maurice Hallwachs, con la sua trilogia di opere. Fondatore della sociologia della memoria, egli è ancora oggi autore di riferimento per l’analisi della memoria collettiva. Allievo di Bergson, fu influenzato anche dagli storici della rivista “Les An-nales”, in particolare Marc Bloch con cui entrò in contatto all'Università di Strasburgo dove entrambi insegnavano. Il sociologo non rifletteva sulla memoria in modo isolato, se parallelamente Benjamin analizzava il rapporto con la memoria delle narrazioni, immagini.. Lo storico dell’arte Aby Warburg aveva avviato un’analisi e raccolta di immagini che documentavano la sopravvivenza dell’antico, l’iconografia rinascimentale e il carisma delle rappresentazioni del potere politico. Fu tuttavia Maurice Hallwachs a sostenere per primo che la memoria è un fatto individuale ma socialmente costituito e influenzato: essa è la ricostruzione del passato in funzione di un sistema di rappresentazioni collettivamente condizionate nel presente. Dapprima, nelle sue riflessioni, il veicolo sociale principale della memoria è per egli il linguaggio; più tardi, nelle sue teorie prevale la dimensione del tempo. Uno degli più originale nelle indagini di egli riguarda il rapporto tra la memoria e lo spazio. Influenti, secondo egli, sono la funzione economica negli spazi, quella giuridica (che definisce il godimento dei diritti) e quella religiosa (es i luoghi sacri): esse contribuiscono a determinare il modo in cui i gruppi interpretano gli spazi. Memoria e Shoah: fotografie, monumenti, testimoni, memoriali: Attraverso il ricordo collettivo della Shoah, il 900 è divenuto, negli ultimi decenni, il secolo per eccellenza della memoria. Questa memoria, è divenuta anche spazio di rimozione e del ricordo e delle responsabilità degli avvenimenti storici. La memoria della Shoah ha inoltre indotto a una crescente identificazione tra storia e memoria. Essa ha assunto forme più estese di quelle della Prima guerra mondiale, venendo rappresentata come unificata e universale nel mondo occidentale. Fin dalla seconda metà degli anni 40, la fotografia costituì uno dei canali privilegiati della presa di coscienza dell'orrore dei campi e consentì il costituirsi di una memoria iconografica di quella esperienza. Le prime immagini della Shoah vennero scattate da fotografi al seguito degli Alleati che liberarono i campi: esse rappresentavano le condizioni dei campi e dei prigionieri superstiti al momento della liberazione. Queste immagini rivelavano una duplice e contrastante tendenza: da un lato l’idea che solo la fotografia potesse documentare la violenza, dall’altro un uso simbolico delle immagini che volevano rappresentare simboli della violenza e del dolore. Le fotografie tendevano a documentare l'atto stesso della testimonianza come reazione necessavia alla violenza, fissando così una memoria non solo delle vicende passate ma della testimonianza in sé. Nell'immediato dopoguerra un importante canale di formazione internazionale della memoria della Shoah, fu il processo di Norimberga, celebratosi per dieci mesi dall'autunno 1945, che diede il via all'emergere di un'inedita memoria giudiziaria della violenza collettiva. L'utilizzo della categoria di "crimini contro l'umanità" contribuì alla definizione di una prima memoria internazionale degli orrori del nazismo come offesa all'umanità intera. Un altro processo, quello intentato a Gerusalemme nel 1961 contro Adolf Eichmann, segnò più tardi l'inizio di una nuova stagione memoriale, definita da Annette Wieviorka, l ”era del testimone”. Il procuratore generale di Israele Gide-on Hausner scelse di far ascoltare le testimonianze delle vittime ebree, che furono trasmesse per la prima volta attraverso riprese televisive. Era quindi necessaria l'esperienza diretta per produrre e convalidare la memoria dell'orrore. Questa si espresse anche nel fiorire di memorie, diari, opere letterarie, alcune divenute canoniche del Novecento: dai diari di Anne Frank a quelli di Etty Hillesum ecc. nei decenni successivi, sarebbero nati negli Stati Uniti progetti di storia orale grazie alla raccolta di testimonianza filmate sulla Shoah, prima in ambito accademico poi culturale. Majda-nek e Auschwitz-Birkenau furono i primi campi di sterminio in Polonia ad essere dichiarati monumenti, poco dopo la liberazione da parte dei sovietici. Ad Auschwitz la conversione dei diversi blocchi del campo in padiglioni nazionali diede subito una dimensione internazionale alla memoria del campo. Qui i resti architettonici costituivano dei "frammenti degli eventi" che volevano commemorare e, allo stesso tempo, rappresentare traccia della distruzione delle vittime. Cionondimeno le rovine superstiti e i monumenti costruiti ad Auschwitz rappresentavano una ricostruzione figurativa ed un simbolo della Shoah. Tipica della prima fase di monumentalizzazione fu l’erezione nel 1948 del monumeto in memoria della rivolta degli ebrei del Ghetto di Varsavia. Il significato del monumento si trasformò nel tempo. La negazione della memoria, il ricordo per legge, lo studio dei “luoghi”: la memoria stessa ha creato in effetti notevoli tensioni per iniziative politiche e interpretazioni e azioni contrastanti. Nel 1993, ad esempio, la storica americana Deborah Lipstadt accusò lo scrittore David Irving di aver negato l'Olocausto nei suoi libri e nel 2000 una corte inglese riconobbe che Irving aveva sistematicamente manipolato la documentazione storica nelle sue opere sulla Seconda guerra mondiale. Negli anni Novanta del secolo scorso prese quindi avvio una risposta legislativa al negazionismo. Nel 1990 veniva approvata in Francia la legge Gayssot che puniva coloro che negavano i crimini contro l'umanità. Quest’azione fu seguita in Francia, dalle cosiddette “leggi memoriali”, che imponevano per legge il ricordo del genocidio degli armeni e della schiavitu e dell’azione positiva” della presenza francese in Africa del Nord. Un ulteriore sviluppo fu l’istituzione nel 2005 da parte delle Nazioni Unite dell’Internation Holocaust Remembrance Day il 27 gennaio, data della liberazione del campo di Auschwitz da parte dell'Armata Rossa. La comunità internazionale e i diversi paesi hanno quindi dato rilievo alla memoria della Shoah, come evento centrale della memoria del XX sec, inserendola nel proprio calendario civile. Negli anni 1990-2000 sono sorti diversi importanti musei della Shoah e sono stati eretti nuovi memoriali. Nel 1993 fu inaugurato a Washington lo United States Holocaust Memorial Museum; nel 2005 aprì le porte il rinnovato Museo dell'Olocausto presso lo Yad Vashem di Gerusalemme. Non solo luoghi fisici e mo-numenti, ma date, anniversari, personaggi, opere storiche venivano interpretati come ambiti di proiezione delle identità collettive, da studiare storicamente nel loro costituirsi e nella loro evoluzione. La memoria del comunismo dopo il 1989: a partire dal 1989 prese forma in Europa centrale e dell'Est la memoria del totalitarismo comunista. L'apertura degli archivi sovietici e dei paesi dell'ex patto di Varsavia, la creazione di commissioni storiche nazionali e l'erezione di monumenti e musei alimentò e istituzionalizzò la memoria del comunismo. Ma questa fase fu preceduta anche da un periodo di relativo oblio del periodo comunista, di tentativo restauratore di collegarsi al passato nazionale precedente. Ciò avvenne in chiave politica anche fuori dall'Europa. L'interpretazione vittimaria della memoria del comunismo è emersa in Europa orientale. Altre forme di indagine del passato e memorializzazione vennero inoltre affidate in diversi paesi ex comunisti a commissioni storiche e istituti nazionali di ricerca, che assunsero attitudini più o meno radicali nella riscrittura del passato. La memoria internazionale del Novecento appare dunque a partire dagli anni Novanta come un campo di crescenti tensioni e contrastanti tendenze che includono la negazione del tentato sterminio degli ebrei. Dopo il 1989 questa memoria include il ricordo collettivo del comunismo e dei suoi soprusi, in analogia e talora in contrasto con la memoria dei fascismi. Nel secondo decennio del nuovo millennio, sviluppo ulteriore di queste tendenze sono state le rivendicazioni della memoria della schiavitù e del colonialismo e dell'orgoglio nero, che hanno portato alla demolizione di statue e alla critica delle memorie nazionali ufficiali delle ex potenze coloniali (specie negli USA e nel Regno Unito). Postmemoria, memoria multidirezionale, memoria digitale, presentismo: Gli studi più recenti si sono da ultimo concentrati sul trapasso generazionale delle memorie traumatiche, a partire da quella dell'Olocausto,