Scarica Sintesi libro "Filosofia della cura" Luigina Mortari e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia solo su Docsity! HURSEL Era uno studioso di psicologia, logica matematica e filosofia. Tre saperi molto diversi tra loro. LA FENOMENOLOGIA La fenomenologia, fondata da Hursell significa studio dei fenomeni. Non si intende più lo studio delle cause profonde ma il modo in cui una certa cosa si manifesta (es. il modo in cui si manifesta una malattia) “La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale” è importante il concetto di crisi. Egli elabora il concetto di fenomelogia come risposta alla crisi delle scienze. La crisi delle scienze europee non consiste nella loro inefficacia in ambito scientifico e tecnico dal momento in cui il 900 era il momento storico in cui ci fu un grande livello di sviluppo in ambito scientifico. La crisi di Hursell è il fatto che la scienza, proprio per essersi estreramamente sviluppata, ha perso il contatto con quello che Hursell chiama “il mondo della vita”(il mondo nel quale noi facciamo esperienza della nostra vita). Egli parte dal fatto che la scienza è in crisi dal momento in cui questo processo di astrazione ha portato l'essere umano completamente fuori dal mondo della vita. Il mondo nel quale si danno i fenomeni per noi moderni è completamente perduto perché noi, secondo Hursell,abbiamo una mentalità tecnoscientifica che ci porta a mettere noi stessi completamente fuori rispetto ai fenomeni nei quali siamo immersi. (es. le cartine geografiche oggi sono molto precise, tuttavia, nella sua perfezione non ci restituisce la concretezza del paesaggio) La fenomenologia nasce dall'obiettivo di contestare la scienza riportando all'interno del mondo della vita i contenuti logico matematici astratti, recuperando un rapporto vivo con il mondo della vita. Il rigore della fenomelogia consiste, quindi, nel tenere conto del metodo scientifico immerso nei propri vissuti. (es. la scienza ci dice che le nuvole sono un concentrato di gas che assumono la forma che vediamo. Quest'affermazione è esatta e non può essere contestata, manca però il fatto che per noi le nuvole hanno anche un altro significato come per esempio attribuire loro le forme o la previsione del tempo prima ancora di essere un concentrato di gas). Lo sguardo che quindi, dobbiamo recuperare rispetto ai fenomeni che ci circondano è anche uno sguardo infantile cioè la capacità di stupirci davanti alle cose esattamente come capita ai bambini. Quando il bambino chiede il perché di qualcosa, oltre che sapere il significato scientifico, è qualcosa per cui lui ha un'esperienza diretta e vuole conoscere. La relazione fondamentale alla base della fenomenologia non è più la struttura soggetto-oggetto ma è quella che Hursell chiama intenzionalità che è l'essenza stessa della fenomenologia. Intenzionalità significa che la coscienza umana non è chiusa nel soggetto ma è qualcosa che si proietta fuori dal soggetto, è intenzionta verso qualcosa, di conseguenza vengono meno i concetti di dentro e fuori e di soggetto e oggetto. Per spiegare questo, Hursell fa l'esempio del tatto(non solo le mani, tutto il corpo): quando tocchiamo una cosa concretamente, come facciamo a sapere se è la cosa che tocca noi o noi che tocchiamo la cosa, chi è attivo o chi è passivo? Questo esempio serve a far crollare la polarità tra passivo e attivo, tra esterno e interno. Il mondo della vita, così come la coscienza, non è mai un dato formale, è sempre un vissuto. Per avvicinarci alla cura, abbiamo parlato di Hursell perché con l'introduzione della fenomenologia si ha un'introduzione all'essere concreto degli esseri umani a differenza di altri filosofi moderni secondo la quale lo specifico degli esseri umani è qualcosa di astratto come il pensiero e il fatto che in realtà abbiamo un corpo e quindi dei bisogni fisici è secondario. Hussell smonta questo concetto con la fenomenologia radicandola nel mondo della vita e soprattutto attraverso il concetto di intenzionalità, la fenomenologia elabora una visione del mondo dove è centrale la relazione e non più i concetti separati (se io sono proiettato verso il mondo, la relazione prevale sui singoli soggetti) Da questo momento fondamentale della storia occidentale, Hursell riporta il sapere nel mondo della vita. Hursell non parla di cura, ma senza la fenomenologia le pratiche della cura non avrebbero la stessa importanza. EPOCHE'E PRASSI L'epoché è quello che potremmo definire il metodo della fenomenologia anche se è improprio perché il metodo è una serie di operazioni che ci portano ad un certo punto e con la fenomenologia non dobbiamo arrivare da nessuna parte, non è questo lo scopo. Lo scopo è fare esperienza del vissuto nel quale già siamo. L'epochè in greco significa sospensione. Sospendere quello che Hussell chiama “atteggiamento naturale” cioè dare le cose che abbiamo davanti per scontate. Per Hussell questo atteggiamento non tiene conto del modo in cui il mondo originariamente ci appare, quando pensiamo che le cose sono separate da noi, ci dimentichiamo che in realtà noi viviamo dentro queste cose e quindi ci appartengono. La prassi fenomenologica è un fare, un agire metodico e la fenomenologia doveva essere rigorosa e doveva avere una metodologia che è quella dell'epochizzazione del mondo che è mettere tra parantesi i giudizi del mondo. Epochè significa “mettere da parte”, nella relazione di cura bisogna sospendere il proprio giudizio o pregiudizio per poter far spazio all'altro e poter istaurare un vero rapporto di cura. Bisogna quindi mettere da parte i pregiudizi perché questi non mi permetterebbero di avvicinarmi all'altro. L'epoché è una condizione necessaria per la ricettività. Per stare nella disposizione della ricettività bisogna essere in grado di ricevere qualcosa: far posto a questo qualcosa che dobbiamo ricevere, metterci da parte ed eliminare ogni giudizio con il fine di disporci in maniera attenta verso l'altro. HEIDEGGER Colui che ha introdotto il concetto di cura è Heidegger, l'allievo principale di Hursell. Quando Heidegger parla di essere umano, utilizza solo la parola “esserci”(o da sein)(il “si” dell'”esserci” è un avverbio di luogo quindi “essere qui”) o non “uomo” o “umano”. Heidegger utilizza questa parola per far capire che gli esseri umani non sono soggetti posti saldamente al loro posto, hanno davanti a se il mondo e sono artefici del proprio destino. Heidegger sostiene che noi siamo gettati al mondo, persi in una dimensione che non siamo in grado di padroneggiare e siamo dentro questa dimensione. Questo mondo è chiamato da Heidegger “fatticità”, un mondo estremamente concreto che non ci consente distanza, la nostra esistenza è un tutt'uno con lo spazio in cui siamo stati gettati. Heidegger fa piazza pulita di tutta la storia di filosofia per quanto riguarda i discorsi sull'anima, l'introspezione, la presa di distanza dal mondo perché l'esistenza dell'uomo non è altro che esposizione al mondo, stare dentro la fatticità. Tutto questo c'entra con la cura perché se l'esser-ci(uomo) è aperto al mondo, il suo stesso essere dipende dal rapporto che ha con il mondo che è un rapporto diffettivo dal momento in cui l'uomo si ritrova nel mondo senza un appoggio, evidentemente la cura è il modo fondamentale del suo essere. Infatti, per cura intendiamo il fatto che un vivente non sia saldo in sé, non è autosufficiente e quindi non è soggetto(non ha un supporto su cui essere piantato). Per Heidegger la cura è indirizzata a tutti perché è il modo fondamentale per la vita umana dal momento in cui l'esser-ci è qualcosa di gettato al mondo, non poggia su di se e quindi manca di qualunque fondamento. Questa mancanza è una struttura fondamentale dell'essere umano. La cura quindi dipende dal fatto che gli uomini non hanno il fondamento. L'antropologia di Heidegger è un'antropologia della mancanza dove gli uomini, a differenza degli animali, nascono con qualcosa il meno: noi nasciamo nudi quindi come prima cosa abbiamo bisogno di essere coperti. E' un problema che per gli animali non si pone perché loro nascono già con la dotazione necessaria per vivere. Al posto di questa dotazione gli uomini hanno un vuoto che deve essere colmato con qualcosa. Il concetto di cura raggiunge uno statuto filosofico universale all'interno del pensiero di Heidegger che, secondo il pensiero di Hursell, cercava di radicare l'essere umano all'interno del mondo. La cura è qualcosa che deve supplire alla mancanza di fondamento, la cura quindi diviene qualcosa di strutturale. Lo specifico della cura è che non sostituisce il vuoto con qualcosa di preciso ma sostituisce il vuoto con un altro vuoto, cioè non mira a creare un sorta di fondamento (perché sarebbe consolatorio), la cura non fa altro che esporre l'essere umano alla sua condizione di assenza di fondamento. Secondo Heidegger, il mondo in cui siamo è un mondo falso e inautentico perché ciascuno di noi si è ritrovato gettato in questo mondo, nessuno è proprietario di sé. Ed è questo che fa scattare nella coscienza degli uomini una chiamata che li invita a prendersi cura di se stessi e del proprio poter indipendente dagli altri e come soggetto autonomo in grado di bastare a se stesso, questo perché, in questo modo, si evitava la condizione di dipendenza dagli altri. In realtà, la prima relazione di cui abbiamo esperienza è quella con la madre ed è proprio nel venire al mondo ce diventiamo dipendenti da altri come bisognosi di cure ed è proprio l'essere dipendenti a rendere necessaria la cura. Per Nancy, l'essenza dell'essere è coesistenza singolarmente plurale: l'essere esiste, si forma e si realizza solo se è in relazione con l'altro possibile e solo a partire dalla relazione con gli altri. Infatti, fin dalla nascita, un essere umano co-esiste. E quindi, se vivere è con-vivere, allora trovare il ritmo della condivisione con altri è essenziale. Quindi, se la cura è un fenomeno ontologico dell'aver cura dell'esserci è un un'unica cosa circa l'aver cura del con-esserci cioè aver cura degli altri. E la cura come premura dell'altro quindi come favorimento del suo benessere, è cosa indispensabile per una vita buona. L'ESSENZA DI UNA BUONA CURA E RICERCA D'ESSENZA La fenomenologia stessa sostiene che per arrivare ad un sapere rigoroso bisogna cogliere l'essenza dell'oggetto d'indagine, cioè la qualità essenzale in cui esso consiste, la struttura intimamente propria della cosa che è costituita da qualità essenziali che la indentificano e senza le quali non esisterebbe. Cogliere l'essenza della cura significa definire le proprietà essenziali che la costituiscono senza le quali non si può parlare di cura. L'essenza della cura è ciò che permane dovunque la cura si realizza. Nella realtà concreta però, non incontriamo mai l'essenza pura di qualcosa ma solo attuazioni particolari delle essenze. Nel caso della cura, io ho esperienza di essa così come la vivo e secondo le mie esperienze, non dell'essenza della cura in generale. Quindi, è necessario prendere in esame eventi singolari dati dall'esperienza se si vuole conoscere la realtà. Le esperienze singolari concorrono a definire l'essenza generale. Dire l'essenza della cura in quanto tale è diverso dall'indicare l'essenza in una particolare esperienza di cura. Per questo l'essenza del concreto si distingue dall'essenza eidetica(idea) che è l'essenza in generale di una serie di fenomeni. L'essenza eidetica è interessata all'essenza universale e generale di qualcosa mentre l'essenza del concreto, che è filosofia dell'esperienza, è interessata al mondo quotidiano dove la cura accade sotto varie sfumature. Per comprendere la qualità del reale è necessario prendere i considerazione i singoli eventi (es. una mamma che si prende cura del neonato in una specifica situazione, l'insegnate che aiuta lo studente a facilitare il suo percoso di studi, l'inferimiera che aiuta un paziente in particolare in una speficica situazione etc) e se si capisce che ogni esperienza ha un'essenza che è la specificità che lo costituiscono,a llora è possibile cercare l'essenza di ogni singola esperienza concreta di cura. Si parla di regioni fenomeniche della cura che costituisce un luogo chiuso che ci da il riscontro di cura e che condividono un insieme di qualità ad esempio la vita familiare, l'educazione, l'ambito sanitario etc. Per cogliere l'essenza della cura dobbiamo prendere in esame molte esperienze di cura affichè sia possibile ricercare l'essenza di una buona cura. Queste però, possono essere considerate fenomeni di cura solo se la mente già possiede un'idea di cura. Nella favola della Cura di Heidegger (essere e tempo) si parla della cura come una persona che impasta l'argilla e che quindi da forma, agisce e fa qualcosa. Capiamo quindi che si parla di un fenomeno di cura solo quando ci troviamo davanti ad una persona che agisce con gesti o parole. Sicuramente ci sono sentimenti e pensieri che possono essere definiti di cura ma finché non si traducono in gesti concreti non si può ancora parlare di cura. La cura presenta diverse posture come la delicatezza e la fermezza che sono entrambi elementi che servono affinché la relazione di cura sia ben praticata e costruita. Un altro elemento importante è la generosità. Si agisce per gli altri quando si sa sentire la qualità del vvissuto degli altri, allora che il loro volto ci interpella. Aver cura è dare tempo e poiché il tempo è vita dare tempo è generosità. Si è capaci di essa quando si avverte la bisognosità dell'altro e nell'intimo si comprende la sua chiamata ad aver cura di lui o lei. L'agire donativo avviene secondo una giusta misura, è bandita ogni forma di protagonismo o onnipotenza perché spesso per aver cura dobbiamo tener contro dei nostri limiti. A volte, infatti, capita che la nostra azione non sia sufficiente ed è qui che sta il limite della cura. Interviene quindi una terza figura che ha competenze maggiori rispetto alle nostre. Inoltre, chi ha cura ha necessità di trovare una giusta misura della disponibilità, poiché avverte che un eccesso di cura non è giusto, infatti, se uno dei due poli presenta un eccesso e dall'altra parte c'è carenza, questo equilibrio non rientra nel bene che si cerca. Un'ulteriore postura di cura è il coraggio. Infatti, bisogna avere coraggio in quelle che sono situazioni delicate di cura. In certi casi, l'azione di cura assume una valenza politica, perché si esprime come denuncia delle situazioni di incuria che provocano sofferenza. Questi sono atti che richiedono coraggio. Spesso si tratta di un atto di parresia cioè del dire come stanno veramente le cose trovandosi a parlare in una posizione di svantaggio rispetto al proprio interlocutore. In questo caso, la parresia è un gesto di cura perchè nasce dall'attenzione alla situazione dell'altro ed è mosso dall'intenzione di trasformare le cose. Le pratiche di cura, quindi, richiedono spesso coraggio di opporsi al pensiero dominante, dichiarando il proprio dissenso a chi si trova in posizione di potere. VULNERABILITA' Proprio perché siamo esseri intimamente relazionali, siamo dipendenti da altri, in questo dipendere sta la vulnerabilità propria dell'essere umano. La relazionalità, oltre a rompere la nostra solitudine ci mette in condizione di con-dividere l'esistenza e questo ci rende vulnerabili poiché siamo sempre sottoposti alle azioni dell'altro che possono recarci beneficio ma possono anche essere minacciose. Il potere di decidere da sé, che è un bene irrinunciabile dal momento in cui simboleggia la libertà individuale può trasformarsi nell'arbitrio che decide la nostra relazionalità con gli altri. È proprio il nostro stato di intima connessione al mondo che ci rende dipendenti dall'altro e ci fa essere vulnerabili. Questo perchè, in quanto esseri mancanti non possediamo l'autosufficienza e ci rivolgiamo altri altri da cui veniamo a dipendere. Siamo vulnerabili nella vita corporea e spirituale, possiamo subite eventi che mettono in pericolo la nostra vita, possiamo ammalarci, venire offesi dalle azioni altrui perdendo relazioni buone, perdere il lavoro, la libertà o la tranquillità. Il corpo può essere sottoposto a malattie che lo fanno stare male e che possono essere temporanee o permanenti e tutto ciò ci lascia un dolore nell'anima che cambia del tutto la nostra vita. Per questo, cerchiamo una sorta di conforto attraverso i beni relazionali e con essi tutte le virtù che creano buone relazioni come la gentilezza, cortesia, generosità e solidarietà. Questi beni però sono vulnerabili perché esposti agli urti della realtà, agli eventi che possono distruggerli o indebolirli. È forte il dolore che si prova quando una relazione importante finisce, si fa esperienza di un senso di perdita di uuna parte di sé perché nel nostro con-vivere il nostr diventire si intreccia a una parte dell'altro. I beni relazionali, insieme al valore positivo che portano alla vita, aumentano anche il suo grado di vulnerabilità. La parte difficile della condizione umana è quella di diveri investire laddove possiamo rischiare la massima vulnerabilità. La nostra debolezza però non deve sfociare in una dipendenza che va sempre a degenerare. Nella relazione di cura deve esserci una reciprocità nella condivisione delle proprie debolezze e deve trovare un equilibrio, allontanarsi dalla dipendenza altrimenti si creano dei dislivelli e quete relazioni poi non finiscono bene. IL BENE COMUNE E IL BENE Ciò che mette in moto l'azione di cura è l'interesse per l'altro inteso non come curiosità ma come un guardare all'altro mosso dal sentirsi in connessione con l'altro. Aver interese per l'altro significa avere preoccupazione per la sua condizione, si può quindi parlare di eudamonia aristotelica che sarebbe il benessere di tutti: non si può stare nel proprio benessere se non è tale anche per gli altri. Cura significa desiderare il bene di qualcuno e questo desiderio spinge a un movimento verso e maggiore è la tensione alla cura, maggiore è l'inclinazione. Si ha cura quando ci si occupa di qualcosa di essenziale per l'altro che l'altro non è in grado di procurarsi da slo. Occuparsi di ciò di cui l'altro ha necessità vitale significa entrare in contatto profondo con il cuore della realtà. Identificare i bisogni primari necessari per una vita buona non è facile. Oltre alle necessità biologiche, bisogna identificare i bisogni relazionali, affettivi, spirituali. Solo quando sono stati raggiunti questi obiettivi si pongono le basi per una cultura di cura. La questione rispetto ai bisogni però è molto complicata perché il modo di soddisfare i bisogni da parte di chi ha cura può avere implicazioni differenti sull'essere dell'altro. In un primo modo l'aver cura dell'altro provoca il raggiungimento dell'autonomia dell'altro. In un secondo modo però, aver cura dell'altro totalmente, fa si che ci eserciti una ipercura che è cosa negativa, dove l'altro non raggiunge l'autonomia ma io mi sostituisco a lui. Chi ha cura deve essere in grado di poter spiegare a chi ha bisogno di cura, che magari ciò che lui considera un bisogno esistenziale in realtà non lo è. Per questo, chi ha cura, deve capire quali sono i bisogni reali e indirizzare l'altro verso di essi. (asimmetria) Dal momento in cui la cura è pratica ontologica e la tensione dell'esistere è la ricerca del bene, allora la pratica di cura di lega con il la ricerca di bene. Infatti, chi ha cura è in cerca di qualcosa di buono. Una buona cura è proattiva perché cerca il bene ed è protettiva perché cerca di proteggere la vita da ogni forma di male. È proprio questo buono che fonda le nostre basi rendendo piacevole l'esperienza del nostro essere nel mondo. Tutti noi cerchiamo il bene, cioè una vita buona. Dal momento in cui la nostra vita è intimamente legata all'altro però, non esiste il bene solipsistico ma un bene plurale. Di conseguenza, la ricerca del bene è considerata una prassi relazionale. Cercare il bene quindi, è cercare ciò che è bene con gli altri. Dal momento in cui la relazione con gli altri è struttura del nostro essere ontologico, l'avere premura per gli altri non è altruismo che può giungere al sacrificio di sé ma è modo originario, cioè aderente all'ontologia umana. Il benessere di una relazione di cura implica il benessere condiviso di sé e l'altro. Non esiste, però, una vera e propria definizione di bene. Cioè che sappiamo è che dobbiamo aver chiaro che se vogiamo aver cura dell'altro, il bene è qualcosa che possiamo dover raggiungere. Al bene non arriveremo mai ma dobbiamo essere consapevoli di essere nella sua traiettoria. Se nella nostra mente ci fosse il concetto di bene, tutti agiremmo allo stesso modo. Non possiamo giungere in maniera definitiva a questo concetto perché significherebbe toglierci dalla nostra condizione umana che in quanto mancante, ricerca continuamente il bene. Un'idea chiara e luminos del bene può essere sostenuta solo da una mente divina. Ciò che è buono per noi è anche giusto ed è qui che entra in gioco il concetto di giustizia accanto al bene. Anche se, a volte, ciò che è giusto sembra non corrrispondere al concetto di bene (es. violo la legge e vado in carcere: la pena è giusta ma non ha a che vedere con il mio bene) Per questo, il concetto di bene dovrebbe prescinere dal concetto di giustizia e dipendere dalle nostre esperienze dal momento in cui la giustizia ha una fisionomia diversa dal bene. Anche se la definizione del bene è qualcosa di inarrivabile non si può evitare di interrogarsi su tale quesione dal momento in cui è capace di illuminare il cammino della nostra esistenza. Se una buona pratica di cura sta in relazione con la ricerca del bene e il bene è la questone prima, allora non può esserci pratica dell'aver cura senza che sia una pratica educativa che utilizza il penisero e la riflessione. Nell'Apologia Socrate usa il termine frontizio che significa fronteggiare cioè porci nella direzione dell'aver cura con il pensiero e indica sia pensare e riflettere sia avere cura e preoccuparsi. Anche se non è possibile avere una definizione esatta del bene, avendo definito la cura quella pratica mossa dall'intenzione di procurare ciò che è bene per la vita, Aristotele precisa che il bene nella vita umana si realizza quando si vive bene e si agisce bene che sono la stessa cosa. I modi dell'esserci conformi a virtù sono essenziali per tenersi nella ricerca del bene. Se facciamo in modo che l'altro, attrverso la cura, raggiunge il proprio bene, è un'azione secondo virtù. Quando ciò che io faccio, in contesto di cura, è determinato dalla passione, quello che sitamo facendo è stare nella condizione umana che realizza la virtù. Essere presi dalla passione per il bene la condizione necessario per teneri lontani dal compiere