Scarica Sociologia della comunicazione e più Appunti in PDF di Sociologia Della Comunicazione solo su Docsity! 01/10 La sociologia è lo studio del sociale e deriva da socius – logia (loghia). È una disciplina recente che nasce fra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800. Il filosofo Auguste Comte è il primo che si occupa di questo studio del sociale. Comincia a pensare che sia utile studiare le leggi che caratterizzano i fenomeni sociali. In quell’epoca siamo nell’ambito del positivismo (ricerca delle leggi che regolano i fenomeni). Guarda la società con un occhio positivo; la guarda come un qualcosa regolato da leggi. L’oggetto della sociologia sono i rapporti fra gli uomini (e le strutture sociali in cui questi rapporti si costruiscono) e i gruppi sociali (studiare la società non significa studiare le persone individualmente). Sguardo: cogliere le regolarità (analisi di cosa è comune fra gli individui); analizzare le costanti. Il filone che inaugura Comte non si spegne mai, viene portato avanti da Georg Simmel, il quale fa un passo avanti rispetto a Comte e dà inizio a un filone di studi di sociologia che sarà importante per noi perché è il primo che inizia ad osservare la parte micro sociale (aspetti della vita quotidiana); studia l’interazione sociali fra persone e gruppi. Nel frattempo (da Comte) si sono sviluppate le città ed è ciò che lo porta a trattare la sociologia con questo sguardo. Sono nati anche nuovi modi di rapportarsi all’interno di una società, perché non si è più all’interno di una piccola realtà (come la campagna ad esempio). Simmel quindi inizia a studiare cosa succede all’interno delle città con un occhio moderno. Luciano Gallino è un sociologo contemporaneo. Guarda come le collettività si colleghino fra loro con l’insieme della società. Max Weber si concentra sulla struttura della società. È il sociologo più importante insieme a Simmel. È anche un filosofo. Studia l’agire social: le persone, nella società, agiscono. È l’azione ciò che muove tutto. Sono gli agenti (le persone) ad agire, tenendo conto dell’atteggiamento degli altri e modificandosi in base a quello che gli altri fanno. La sociologia studia anche la comunicazione, che è essenziale all’interno delle dinamiche che studia la sociologia (vedi sopra). In alcune società la comunicazione a livello sociale non è fondamentale (popolazioni che vivono in villaggi molto lontani gli uni dagli altri, come in alcune parti dell’Africa). Ai sociologi, quello che interessa della comunicazione è il fatto che sia lo strumento attraverso cui si costruiscono delle relazioni sociali. È parte dell’agire sociale. La scuola di Chicago è la prima grande scuola di sociologia americana (prima metà del '900). Attraverso la comunicazione non forniamo solo delle informazioni, ma costruiamo la nostra realtà sociale. Ci muoviamo all’interno della realtà nel modo in cui ci raccontiamo le cose. La realtà sociale di cui parla questa scuola non è la realtà materiale, è il racconto che ci facciamo di questa cosa e che condividiamo, è il significato che attribuiamo a questa cosa. Non in tutte le culture viene attribuito lo stesso significato però. Il senso comune è quella parte del modo di vedere il mondo sulla quale non ci facciamo più domande (ad esempio una madre che vuole bene al figlio). 03/10 COMUNICAZIONE INTERPRESONALE Ci possono essere due definizioni di questo tipo di comunicazione: 1. la comunicazione interpersonale è un processo di costruzione collettiva e condivisa del significato, dotato di diversi gradi di formalizzazione, consapevolezza e intenzionalità. Questa definizione lavora più sulla costruzione del contesto; 2. la comunicazione interpersonale è l’emissione deliberata di un messaggio codificato secondo certe regole socialmente riconosciute e rivolto a dei riceventi (qualificati o meno, cioè quando non so precisamente chi ho di fronte). In questa emissione ci sono una serie di informazioni non intenzionali che informano sulle caratteristiche dell’emittente e sulle circostanze. Questa definizione lavora più sulla trasmissione del messaggio. J. B. Thompson è uno degli studiosi più importanti in questo ambito; definisce la comunicazione come un genere particolare di attività sociale che comporta la produzione, la trasmissione e la ricezione di forme simboliche e presuppone l’utilizzo di risorse di vario tipo. Codifica tre diverse forme di comunicazione interpersonale: la comunicazione faccia a faccia, mediata e semi-mediata. Nella comunicazione faccia a faccia c’è una compresenza e anche il tempo è condiviso. L’insieme degli indizi è ampio (la voce, la mimica facciale, ecc.). Nella comunicazione mediata non interagisco direttamente con l’altra persona; il telefono è il primo strumento che ha permesso questo tipo di comunicazione, poi è arrivata la posta e poi sono arrivati i social media. I contesti sono separati; hanno un’accessibilità estesa nel tempo e nello spazio (posso rispondere subito alla telefonata oppure rispondo dopo un po’ di tempo), è una comunicazione asincrona. Gli indizi simbolici sono ridotti; in una telefonata ad esempio ho meno indizi che non in una comunicazione faccia a faccia. Anche in questo caso si tratta di comunicazione dialogica. Nella comunicazione semi-mediata c’è sì la possibilità di comunicare ma con una netta separazione dei contesti. L’accessibilità è comunque estesa nel tempo e nello spazio e anche qui c’è una forte contrazione degli elementi simbolici. È prevalentemente unidirezionale Klaus Bruhn Jensen si è occupato della classificazione delle classi interattive. Ha codificato delle pratiche comunicative in tre blocchi (da uno a uno, da uno a molti, da molti a molti) e ha classificato quali sono le tipologie di media attraverso cui si svolgono (e possono essere di primo, secondo e terzo grado). Jensen mette l’accento sul numero di soggetti coinvolti e sul tipo di media utilizzato. MEDIA DI PRIMO GRADO Uno a uno: comunicazione faccia a faccia e la lettera (prototipo) Uno a molti: il manoscritto, il teatro, la pittura, la scultura, l’architettura e la composizione musicale Molti a molti: pitture rupestri, graffiti, agorà, gioco, bacheche, stadio MEDIA DI SECONDO GRADO Uno a uno: telegrafo, telefono e fax Uno a molti: libri, giornali, video, audio (prototipo) Molti a molti: televisione, community media, radio, chat MEDIA DI TERZO GRADO Uno a uno: email, messaggistica istantanea, messaggio di testo Uno a molti: web 1.0, download, streaming, (mass) media Molti a molti: web 2.0, wiki, online chat, giochi online con i multiplayer, blog, social network, siti di condivisone di file, siti di aste (prototipo) La comunicazione interpersonale può essere trasmissiva (“che ore sono?”), interpretativa (“cosa vuol dire?”), rituale (“ti voglio bene!”). Quella trasmissiva può essere una notizia, un annuncio, un’informazione. Serve a trasmettere un’informazione che magari si era persa. Quella interpretativa serve per capire meglio il senso, il significato; voglio costruire meglio il contesto e capirlo meglio. Quella rituale serve per rafforzare il senso di appartenenza alla comunità; viene trasmessa un’informazione rituale, si costruisce un “rito”. Chi sono i soggetti che compongono la comunicazione interpersonale? Chi comunica è un soggetto agente (S.A.) intenzionale; si tratta di una comunicazione intenzionale infatti. Questo soggetto può essere una persona, un attore sociale (che agisce in un ruolo sociale determinato), un’organizzazione o un’istituzione (attraverso il soggetto agente, ad esempio il sindaco che va a rappresentare quella che è la sua istituzione). Questi soggetti agenti costruiscono gli atti comunicativi, che sono sempre effetto di un’azione reciproca, hanno sempre un feedback; sono co-costruiti e negoziati nella relazione tenendo conto degli elementi strutturali e condizionali (la definizione del setting). Ci sono degli aspetti materiali, sociali e normativi che caratterizzano la comunicazione interpersonale. Il contesto micro-sociale è il contesto dell’azione comunicativa (campo di esperienza del soggetto agente); il contesto macro-sociale è il sistema/struttura della comunicazione (economia, politica, norme, educazione). All’interno di entrambi i contesti ci sono due grandi elementi: i prodotti/oggetti culturali (cioè le forme culturali che incorporano il significato e i sistemi di comunicazione istituzionalizzati cioè i media (struttura, funzioni, evoluzione). Presi due soggetti agenti, ciascuno dei due può avere uno scopo (stabilire il contatto con l’altro); ci sono anche delle norme sociali (ad esempio, incontro una persona e la saluto). La relazione sociale si situa all’interno del micro e macro contesto di cui parlavamo prima, e all’interno di questi contesti ci possono essere dei prodotti culturali o dei sistemi della comunicazione. 08/10 All’interno della comunicazione interpersonale ci sono dei ruoli, i due soggetti assumono dei ruoli. Indice dei ruoli 1. Self e ruolo 2. Definizione di ruolo 3. Il ruolo sociale nella sociologia (Simmel) 10/10 Tutti i ruoli vengono agiti e interpretati all’interno di contesti. Secondo Goffman, la relazione comunicativa non si svolge nel vuoto ma sempre in un contesto fisico, sociale e culturale determinato. Ogni interazione comunicativa si svolge all’interno di una situazione sociale. La situazione comunicativa è un insieme delle relazioni comunicative (contesto fisico, sociale e culturale). Produce un modello della situazione comunicativa. Questa situazione si compone di una scena e di una serie di partecipanti. A sua volta la scena si compone di un setting (un luogo, un tempo e una cultura in cui si svolge la relazione comunicativa) e di uno scopo (tipo di attività, cioè che cosa stanno facendo in quel momento le persone che comunicano). I partecipanti esistono come singoli all’interno di questo microcosmo, quindi come individui che agiscono sulla base del ruolo. Poi bisogna tener conto anche delle relazioni tra i partecipanti (interpersonali e di ruolo). Dobbiamo tener conto di tutti questi livelli per capire come funziona la situazione comunicativa. Per Goffman tutto questo funziona se c’è un accordo. Non riconoscere il ruolo reciproco all’interno della situazione comunicativa, toglie la possibilità di raggiungere uno scopo nella conversazione. Goffman quindi cerca di capire come si arriva a un accordo con tutti questi elementi. In ogni situazione in cui gli individui si trovano a interagire con altri proiettano una propria definizione della situazione. Scopi, ruoli e norme possono essere diversi. La dimensione del setting ha una dimensione fisica; le relazioni comunicative si svolgono in presenza e a distanza. C’è anche uno spazio/tempo simbolico. La ribalta e il retroscena sono i territori in cui si svolge la relazione sociale. La ribalta è il luogo in cui siamo davanti a un pubblico (regole di decoro e cortesia); il retroscena è il luogo in cui non siamo esposti allo sguardo degli altri (confidenza e consuetudine tra i presenti). La situazione comunicativa si definisce tramite la dialettica tra le proiezioni tra i partecipanti e la negoziazione tramite cui cercano di raggiungere un accordo. Non tutti i soggetti hanno la possibilità di influenzare la situazione comunicativa. Le abilità comunicative e le differenze di status influenzano le situazioni. I media contribuiscono nel modellare e diffondere quelli che Goffman chiama frames interpretativi. Se io voglio sviluppare una competenza rispetto alle situazioni comunicative, devo capire che evento sto vivendo e quali sono i comportamenti adeguati all’evento. I frames sono le competenze che abbiamo nel riconoscere gli eventi, i ruoli e i comportamenti adeguati nelle situazioni comunicative. Questi frames interpretativi sono degli schemi di interpretazione che noi conosciamo che permettono a individui o gruppi di collocare, percepire, identificare e classificare eventi e fatti, in tal modo strutturando il significato, organizzando le esperienze, guidando le azioni. Questo lo dice Goffman in un suo libro del 1974. Venendo al concreto, i frames rispondono alle domande “cosa sta succedendo qui?”, “quali regole governano questa situazione?”, “qual è il mio ruolo?” e “come mi devo comportare?”. Sono cose che ad esempio, quando abbiamo iniziato l’università, abbiamo dovuto imparare ma non completamente da zero. I frames possono anche essere “messi in chiave” quando si passa a un nuovo frame diverso da quello originario. Goffman non si ferma a guardare quello che succede all’interno della vita quotidiana; i media contribuiscono nella loro componente informativa a suggerirci dei frames interpretativi degli eventi che raccontano. Ogni evento raccontato dai media contiene qualcosa di nuovo, ma il lavoro che fanno i media nel raccontarlo è facilitarci il processo di organizzazione ed elaborazione di questo evento. I processi di framing fatti dai media funzionano così: a partire dall’evento, vengono selezionati alcuni aspetti che vengono resi più salienti e viene suggerita una particolare definizione di quello che è successo (interpretazione causale, valutazione morale e/o indicazione del trattamento per l’elemento descritto). 15/10 Goffman nello studio dei processi di framing mette a fuoco cosa consente di costruire un frame. Individua tre aspetti: 1. risonanza (cioè la capacità di attirare e mobilitare); 2. credibilità (intesa come coerenza con le credenze e le azioni professate, credibilità culturale ed empiricamente verificabile, espressa da una fonte credibile); 3. salienza (ovvero la rilevanza del frame e la sua coerenza rispetto a valori ed idee centrali per i destinatari). Nel raccontare questi eventi, posso utilizzare dei modelli di racconto. Un modello particolarmente frequente è quello del conflitto: è il racconto di un evento come opposizione fra due parti contrapposte. Il secondo modello è quello della personalizzazione: si focalizza su un individuo esemplare. Il racconto è presentato dal punto di vista dell’individuo. Il terzo modello si basa sulle conseguenze: il tema è presentato dal punto di vista delle conseguenze. Il quarto modello è l’incorniciamento morale: il tema è presentato dal punto di vista di una valutazione. Un ulteriore modello di frame è quello della responsabilità: il tema è presentato dal punto di vista della responsabilità della risoluzione del problema. Il femminicidio è un frame che è stato generato dai media. Il concetto di femminicidio è una categoria dentro la quale collochiamo una serie di eventi che fanno parte della realtà: esprime un modo di incorniciare una serie di eventi che esistevano anche prima e ci consente di leggerli tutti insieme, come un problema. Prima che i media iniziassero a usare la parola “femminicidio”, il femminicidio esisteva già. La differenza è che prima non avevamo una cornice comune attraverso la quale definire certi eventi, ora invece grazie ai media abbiamo questo frame, questa cornice. Piano piano abbiamo iniziato a percepire questo problema. Questo frame non è rimasto solo un’operazione mediale; attorno al concetto di femminicidio si sviluppano poi delle iniziative collegate. La categoria criminologica del femminicidio introduce un’ottica di genere nello studio di crimini “neutri” e consente di rendere visibile il fenomeno, spiegarlo, potenziare l’efficacia delle risposte punitive. Uno studioso inglese di nome Roger Silverstone dice che questo processo di framing ci serve anche per categorizzare diverse tipologie di persone. Il suo ragionamento riguarda molto come i media collochino dentro o fuori al gruppo/comunità che noi percepiamo come simile o meno. Si parla di responsabilità dei media, perché il modo in cui parlano di gruppi di persone forma l’opinione pubblica. Le strategie che chiariscono il lavoro dei media sono le strategie di avvicinamento (basterebbe che…e saremmo tutti uguali) e le strategie di allontanamento (passato, alterità spaziale, de-personalizzazione). I media secondo Silverstone alterano un po’ la realtà sia che essi la avvicinino sia che essi la allontanino. 16/10 LA QUESTIONE DELLA FIDUCIA È ampiamente studiata nell’abito della sociologia della comunicazione. La fiducia è intesa come precondizione della comunicazione. Ci sono due elementi fondamentali legati alla fiducia: confidare con l’altro che può ascoltarmi e capirmi e/o l’altro ha qualcosa di significativo da comunicarmi. La relazione comunicativa si basa proprio sulla fiducia, senza la quale non avrebbe alcuno scambio. Quine e Davidson definiscono questo accordo portante su cui si basa la relazione comunicativa come “principio di carità o principio di benevolenza interpretativa” (bisogna avere fiducia nel fatto che possa esservi uno scambio comunicativo). Questi principi definiti da Gadamer (importante filosofo della comunicazione) sono l’accordo portante su cui si basa la relazione comunicativa. Anche Quine e Davidson li hanno definiti. Li chiamano “principio di carità” o “principio di benevolenza interattiva”. Anche Gadamer, afferma che questo tipo di benevolenza è l’accordo portante su cui si basa la relazione comunicativa. L’altro deve credere alla verità di quello che dico e alla verità della mia “faccia”: se non ci fosse questo presupposto di base la comunicazione non avrebbe mai luogo. La messa in scena che stiamo facendo di noi stessi deve sembrare vera e non finta. Questi due principi di base, individuati come principi fondanti della relazione comunicativa, si arricchiscono di altri due aspetti che sono: avere fiducia che chi mi sta davanti creda alla vita di quello che dico e che chi mi sta davanti creda alla verità della mia faccia (creda a chi io dico di essere). Avere fiducia nella faccia dell’altro è avere fiducia nel fatto che l’altro sia come appare, sia chi dimostra di essere, nelle “apparenze normali” e nella sincerità della rappresentazione dell’altro. Queste sono dimensioni base pre razionali della vista sociale; quando esse entrano in crisi ci mettono particolarmente in difficoltà, ci stupiscono maggiormente. In tutte le dimensioni della relazione comunicativa noi mettiamo in gioco anche la dimensione della credibilità. Bisogna valutare quanto è credibile la persona che ho davanti e quanto io voglio essere credibile nei suoi confronti. Esistono due tipi di credibilità: la credibilità proiettata (quanto io faccio per essere credibile) e la credibilità percepita (quello che gli altri percepiscono). Esiste un livello precedente che è la disponibilità, in seguito troviamo la credibilità che è ciò che conferma ciò che io sono disposto a credere e si costruisce nella relazione comunicativa. I DIVERSI TIPI DI FIDUCIA All'interno del contesto sociale in cui viviamo si sviluppano diversi tipi di fiducia che noi impariamo per comunicare con le altre persone. Al primo livello troviamo: la fiducia originaria/ontologica. Si forma nella famiglia e nella comunità primaria ovvero nelle prime persone con cui abbiamo/costruiamo una relazione. La fiducia in un esito positivo dell’incertezza è qualcosa che si impara nell’ambito della rete familiare già dai primi anni di vita (se mi ammalo qualcuno mi curerà); la fiducia in una comunità solidale significa che nessuno ha interesse a danneggiare l’altro); la fiducia immediata e non riflessiva fonda la sicurezza ontologica (se prendo un autobus confido che mi porterà a destinazione), la fiducia nell’altro generalizzato (se ho un incidente qualcuno mi aiuterà), la capacita del vivere sociale, l’identificazione con una comunità e l’impegno sociale. Al secondo livello troviamo: la fiducia interpersonale generalizzata. Fuori dal gruppo primario crescono l’anonimato e l’estraneità e crescono le tipizzazioni dei ruoli sociali. La fiducia primaria si deve trasferire “all’altro generalizzato”, ovvero l’immagine mentale della società e delle sue regole e modelli di comportamenti e aspettative. Si deve sviluppare una fiducia in particolari istituzioni legata alla percezione che gli individui hanno; questa percezione si basa sull’esperienza personale, stereotipi, immagini delle istituzioni e percezioni che io ho riguardo le istituzioni. Al terzo livello troviamo: la fiducia sistemica. Si deve sviluppare: una forma di “confidence” nel fatto che i sistemi sociali funzionino come ci si aspetta che accada, come il sistema sanitario, giudiziario, dell’informazione (io mi fido di questi sistemi che con i suoi protocolli, routine, sistemi rodati noi riconosciamo come tipici e per questo ci fidiamo). Si tratta di un atto di fede, una forma di adesione che va al di là dell’individuo (sovra individuale). È la risposta al bisogno di sicurezza che nasce con il complessarsi della società che richiede una generalizzazione della fiducia. Nella nostra società odierna il livello di fiducia più fragile è proprio quella sistematica (noi ad esempio non confidiamo totalmente nel sistema sanitario con le sue pratiche, routine, cosi allo stesso modo nei confronti del sistema giudiziario, dove noi non possiamo avere la certezza di avere giustizia). La fiducia sistemica si basa sull'aspettativa di riconferma del funzionamento e delle regole di ordine sociale e sull'interiorizzazione di valori comuni. Fiducia sistematica esiste anche nei confronti del sistema dei media che segue routine e automatismi in ambito giornalistico, nei telegiornali (esempio: mi fido dei criteri di verifica delle fonti dei giornalisti, controllo delle fonti utilizzate, che esista un controllo nelle redazioni...). Se mi fido di tutti questi elementi io mi fido automaticamente del sistema mediatico dal punto di vista sistemico. Però quando la fiducia sistemica entra in crisi succede che pian piano sostituiamo delle altre forme di fiducia, facendo come un passo indietro; rimettiamo in gioco la fiducia nell’altro generalizzato. Cosi io mi fido di uno specifico giornalista esperto perché lo considero un’altra persona e non un sistema comportandosi di conseguenza in modo adeguato (ho un’esperienza di credibilità costruita nel sistema comunicativo). Si crea fiducia sulla singola persona (se la notizia viene passata da quello specifico giornalista mi fido altrimenti no). Al ruolo del giornalista si applicano due tipi di credibilità: la credibilità cognitiva, ovvero la credibilità della fonte (il giornalista è esperto e coerente con il suo ruolo. Considero la persona competente, testimone, credibile per un suo specifico settore, opinion leader, leader carismatico) e la credibilità normativa, cioè quando si crede in chi parla perché incarna valori che si ritengono desiderabili (esempio: il santo, il ricco) ed è coerente nella sua condotta (credibile nel ruolo che ricopre, come ad esempio quando si dice “è un bravo medico”). C'è un altro aspetto della credibilità, che è la credibilità affettiva personale, la credibilità del mediatore (ad esempio chi condivide una notizia) perché con lui si ha una relazione affettiva. La credibilità si basa sull’affettività e sull’omologia (mi fido perché siamo simili, abbiamo gli stessi gusti/pensieri), come specifica il sociologo Van Damme. L’omologia è la tendenza a fidarsi in rete di persone che condividono le mie stesse opinioni, idee ecc. Ad esempio, inizio a seguire una pagina X perché una mia amica la segue e io mi fido di lei. Inoltre questo tipo di credibilità può essere trasferita ad altri (amici di amici) generando una catena di credibilità in cui la fonte originaria è sempre meno importante. In tutto ciò l’omologia ha la funzione di confermare un gruppo nelle sue convinzioni. Nel web infatti spesso circolano informazioni differenti e all’interno di ogni gruppo si ha la tendenza a confermare lo stesso tipo di notizia, quindi alla credibilità personale si somma il fatto che si tratta di una credibilità data da persone omologhe. La fiducia all’interno di un contesto sociale serve a ridurre l’incertezza e a renderci più sicuri nel modo in cui ci muoviamo nel contesto sociale, sostituendo informazioni mancanti con una forma di certezza che rassicura. Se manca la fiducia, aumenta il senso di incertezza. Diversi sociologi hanno raccontato la nostra società come la società dell’incertezza e del rischio, per ragioni anche strutturali. È una società che però moltiplica le regole, i regolamenti, le norme da seguire e inoltre, si sostituisce la fiducia cognitiva con quella affettivo/emotiva delle forme solidaristiche e “fideistiche”, dei simboli generali, del carisma. Questo significa che si aderisce a temi astratti/generali e a persone che potrebbero risolvere una questione/un problema. Si punta in questo caso sul leader e dove non vi è lo si ricerca. Tutto questo deriva dalla ridotta fiducia nella società in cui si vive. Esistono però nel mondo attuale anche i media digitali e spazi nei quali si producono contenuti (es Web 2.0 e social media). Si parla in questo caso di una credibilità affettiva e personale. Si tratta per esempio del caso del mediatore (ad esempio chi condivide una notizia): tale persona è per me credibile e credo nella notizia da lui mediata perché con lui ho una relazione affettiva. MEDIA COME AGENDA È una delle teorie sugli effetti sociali dei media. Si tratta di un filone di studi che si è occupato degli effetti sociali dei media sulla comunità. Ci si è dunque soffermati sui ruoli che hanno i mezzi di comunicazione sulla società. Dai primi approcci si riteneva che i messaggi mediati dai media influenzassero le singole persone. Successivamente si è giunti a teorie più complesse e più esplicative che avevano il compito di spiegare quello che succede nel rapporto tra media e contesto sociale. Una delle teorie più importanti è la teoria dell’agenda setting. Secondo la teoria dell’agenda setting i media selezionano un serie di temi per proporli al pubblico. La teoria si basa sull’idea che i media contribuiscano a formare la struttura della conoscenza sociale, questo significa che essi contribuisco a formare l’idea che gli individui hanno del mondo circostante. Si tratta di un approccio che si basa sul concetto di framing di Goffman, il quale agisce a livello micro facendo riferimento alle singole notizie. L’agenda setting è un incorniciamento del mondo, opera dunque a livello macro. Si tratta della conoscenza del mondo a livello complessivo/globale. Qual è la funzione dell’agenda? Sara Bentivegna, sociologa della comunicazione, afferma che i “media consentono agli individui di accrescere il loro grado di conoscenza e informazione ovvero di cogliere le correnti di pensiero e gli atteggiamenti dominanti in un certo momento storico.” I media infatti permettono agli individui di accrescere la loro 22/10 LA SPIRALE DEL SILENZIO È una teoria elaborata da una studiosa tedesca che si chiama Elisabeth Noelle Newman. Si focalizza sul fatto che i media ci dicono cosa non dire. Come nasce questa teoria? Da quali idee? È molto interessata a studiare come si forma l’opinione pubblica. Parte dall’idea che l’opinione pubblica sia un insieme di opinioni sullo stato della cosa pubblica generate dagli individui in relazione ai media. Però ci sono altri fattori importanti secondo lei nel processo di opinione pubblica. Ovviamente restano i media, però sottolinea che noi non siamo soli davanti ai media; è importante anche la comunicazione interpersonale e i rapporti sociali, sono altrettanto importanti le manifestazioni individuali di opinione e la percezione dei climi di opinione nel proprio ambiente sociale. Quello che io dico pubblicamente di quello che penso, pesa nel processo di formazione dell’opinione pubblica. Fino agli anni ’70 quello che forma l’opinione pubblica è quello che dicono i media, quello che si trova online, quello che dico i politici all’interno degli spazi pubblici, quindi questo aspetto delle manifestazioni individuali di opinione è una cosa un po’ nuova. L’altro passo che fa questa studiosa è quello di dire che l’opinione pubblica è il frutto di un lavorio sociale teso all’allineamento del singolo in cui l’allineamento del singolo è frutto dell’allineamento degli altri. Ha una funzione di coesione sociale e anche di controllo. L’opinione pubblica per la Newman è “la pelle sociale degli individui”. Ci dice anche che l’opinione pubblica si forma nell’interazione tra il monitoraggio compiuto sull’ambiente sociale circostante e i comportamenti dell’individuo stesso. Ci interessa conoscere l’opinione di chi ci sta attorno. Recupera gli studi di un altro studioso tedesco (David Riesman) nel suo libro The Lonely Crowd (1950). Fa un’analisi critica del rapporta tra individuo e società. Nel libro fa un’analisi molto macro sociale; infatti si occupa del rapporto fra le tipologie di società che si sono susseguite nel tempo e fra i tipi di individui che caratterizzano quel tipo di società. Ogni tipo di società ha un modo suo per garantirsi la conformità dei comportamenti degli individui. Prende in considerazione tre tipi di società: la società premoderna, moderna e postmoderna e dice che in tutti e tre i casi esiste una dimensione del vivere sociale che attraverso la socializzazione diffonde i modelli di comportamento conformi. Nelle società premoderne (società nate prima dello sviluppo dei centri urbani) gli individui agiscono diretti dalla tradizione tramandata oralmente, sono legati a ruoli (nascita, genere, status) immutabili e dipendono dalla fedeltà tra amici e parenti. Nelle società moderne gli individui agiscono diretti da un personale e individuale sistema di valori (mediati anche dalla stampa) possono mutare il proprio status sociale. Nelle società postmoderne gli individui agiscono diretti da pressioni sociali esterne, da norme di gruppi primari, dal bisogno di essere conformi ai valori delle reti sociali cui appartiene. L’individuo monitora costantemente il suo intorno come se avesse un “radar”. I tre modi in cui le società si garantiscono la conformità dei comportamenti: diretto dalla tradizione (società premoderne), autodiretto (società moderne), eterodiretto (società postmoderne). La Newman elabora 4 assunti sui quali basa la sua teoria della spirale del silenzio, mettendo insieme quello che ha studiato Riesman: 1. la società fa uso nei confronti degli individui devianti della minaccia d’isolamento; 2. gli individui avvertono costantemente la paura dell’isolamento; 3. per paura dell’isolamento essi tentano incessantemente di valutare il clima d’opinione; 4. il risultato della loro valutazione influenza il loro comportamento soprattutto nella sfera pubblica e in particolare attraverso il mettere in mostra o il nascondere le proprie opinioni, per esempio quindi attraverso l’eloquio o il silenzio. Gli individui per non restare isolati cercano di monitorare costantemente le opinioni dominanti attorno a loro. Questo influenza i loro comportamenti. L’individuo che percepisce di avere un’opinione conforme al clima d’opinione dominante, tende ad esprimerla pubblicamente con maggiore convinzione. Il problema è che chi percepisce di avere un’opinione non conforme tende a non dire la sua opinione, a ritirarsi nel silenzio perché ha paura di essere escluso e isolato dalla rete sociale. Questo effetto a spirale ha degli effetti individuali: se gli individui pensano di appartenere a una minoranza tendono a dissimulare le proprie opinioni, viceversa, se si ritiene di appartenere a una maggioranza si tende a manifestarle maggiormente. Ha anche degli effetti sociali: le idee percepite come dominanti si diffondono con un effetto a spirale mentre le opinioni considerate minoritarie rischiano il silenzio e l’oblio. I media c’entrano perché rappresentano alcune opinioni come dominanti. Ogni volta che i media ci dicono “gli italiani la pensano così” hanno un effetto sulla formazione dell’opinione pubblica. Queste opinioni appaiono più forti di quanto non siano in realtà, mentre colore che hanno un’opinione diversa appaiono più deboli di quanto siano effettivamente. Il risultato è un’illusione ottica o acustica riguardante la situazione effettiva della maggioranza nel generarsi di un processo di spirale del silenzio. 24/10 Per la Newman i media possono definire e proporre un’opinione come dominante anche se non lo è anche a partire dall’autoreferenzialità dei media. Elihu Katz è un altro studioso di questi effetti dei media. Parte dalla teoria della Newman e osserva bene quello che accade all’interno di un contesto sociale: nota che anche i gruppi minoritari possono generare un effetto di spirale e configurare nuovi movimenti di opinione purché abbiano accesso ai media e purché abbiano alcune caratteristiche (coerenza, difesa ad oltranza di alcune posizioni). Le chiama “minoranze rumorose” perché riescono in qualche modo ad essere visibili pur essendo un piccolo gruppo. Un esempio ne è Greenpeace e in generale i movimenti ambientalisti. Tutto inizia con la prima azione di Greenpeace che è del 1971; Greenpeace ha un sistema di valori molto chiaro e coerente (tutela dell’ambiente). In quell’anno era contro gli esperimenti nucleari che si svolgevano negli Stati Uniti. Cerca di ottenere l’accesso ai media tradizionali, accesso che passa attraverso un’azione che ha il carattere di un gesto eroico, ovvero alcuni attivisti e giornalisti di Greenpeace si imbarcano e vanno sulla costa dell’Alaska dove stanno facendo quegli esperimenti. Nel decennio successivo gli esperimenti diminuiscono e di conseguenza Greenpeace sposta il suo obiettivo; si concentra sulla lotta contro la caccia delle balene. A questo punto l’obiettivo diventa la tutela della fauna marina. È un obiettivo simbolico molto forte, molto facilmente notiziabile e trattabile dai media. C’è il piccolo contro il gigante. Dopo un po’ però questi movimenti diventano più difficilmente notiziabili e quindi deve cambiare nuovamente l’obiettivo e anche il modo di agire. Il modo nuovo che viene scelto ha un valore altamente simbolico e scelgono come simbolo grandi monumenti ad esempio ed espongono dei banner. Anche in questo caso dopo un po’ c’è bisogno di cambiare: passano infatti dagli spazi fisici naturali agli spazi degli eventi sportivi, dove c’è una grande audience che si può raggiungere direttamente senza aver bisogno di qualcuno che racconti quello che sta succedendo. In questi decenni che vanno dal ’71 al 2000 questa minoranza è stata più che rumorosa. Se prendiamo il caso delle elezioni del 2016 in America, vediamo che ad un certo punto hanno iniziato a circolare sondaggi molto diversi. I sondaggi pubblicati dagli istituti di ricerca più accreditati davano per vincente la Clinton, mentre i sondaggi pubblicati dalle testate giornalistiche davano come vincente Trump. (ed erano visti come meno affidabili perché le domande erano più semplificate e meno corrette). Tutti i media sembravano appoggiare la Clinton (visto che la maggior parte della popolazione sembrava appoggiare lei). Se io voglio votare Trump, e so che tutto l’establishment è per la Clinton, non vado a dire sfacciatamente che voto Trump, di conseguenza c’è una certa “timidezza” dei sostenitori di Trump nei sondaggi. Chiedere “chi vincerà secondo te?” è diverso da chiedere “chi voti?”, perché nel primo caso non esprimo il mio voto, nel secondo sì. I media sono stati ingannati dall’effetto a spirale. Anche il framing ha ingannato i media; un outsider non aveva mai vinto le elezioni USA. Non era stato neanche preso molto in considerazione quello che succedeva nei social, perché ancora prima della campagna elettorale di Trump, l’idea era che la campagna si sarebbe vinta usando i media tradizionali, locali e muovendosi sul territorio. Per i media quello che succedeva in rete non era considerato particolarmente affidabile, perché effimero, emotivo, ecc. OPINION LEADER La figura dell’opinion leader è un altro oggetto di ricerca degli studiosi che stiamo considerando. Il dizionario Sabatino Coletti dà la seguente definizione di opinion leader: “chi gode del prestigio o detiene i mezzi per influenzare in modo determinante l’opinione pubblica”. Nell’Oxford business dictionary c’è scritto: “influential members of a community, group, or society to whom others turn for adivce, opinions and views”. La prima volta che si è parlato di opinion leader era l’inizio degli anni ’50, nell’ambito di una teoria che è stata definita two step flow of communication. È stato Elihu Katz a studiare questa cosa. Alla fine degli anni ’40 inizia a studiare le campagne elettorali. Katz e Lazarsfeld si chiedono che ruolo hanno i mezzi di comunicazione di massa nell’influenzare le scelte di voto delle persone? Quindi scelgono gli indecisi, intervistandoli e seguendo il loro percorso di maturazione della loro scelta. Di questa ricerca se ne parla nel libro The People’s Choice (1948). I mezzi di comunicazione sono sicuramente importanti, ma piano piano iniziano a scoprire che i mezzi arrivano alle persone attraverso le mediazioni di altri soggetti. Quello che dicono i media conta sicuramente, ma conta anche quello che io discuto e dibatto con le persone che mi stanno attorno. Le reti sociali sono uno strumento di mediazione di quello che dicono i media. Qualche anno dopo, Katz e Lazarsfeld, vedono che al di là della politica, si chiedono se succeda la stessa cosa nel consumo. Di questo ce ne parlano nel libro Personal Influence del 1955. Scelgono una cittadina degli Stati Uniti e si accorgono che quello che viene proposto dai media anche in questo caso viene ridiscusso con la propria rete sociale di riferimento. Dentro queste discussioni emerge la presenza degli opinion leader. 29/10 Per quanto riguarda entrambe le ricerche, scoprono che la radio e la stampa hanno sì una grande influenza, ma le discussioni politiche quotidiane esercitavano un’influenza maggiore. Emergeva una grande omogeneità di opinioni all’interno dei gruppi primari (famiglia, rete di amici stretti). È una scoperta importante in quegli anni, perché l’idea generale è che quello che dicono i media influenzino i discorsi e i pensieri della gente. Quindi grazie a questa scoperta viene fatto un passo avanti. Da queste ricerche emerge anche che alcuni individui più esposti ai media avevano la capacità di condizionare le scelte degli altri e sono proprio gli opinion leader. I due studiosi allora provano a dare una forma a quello che hanno capito ed elaborano il two-step flow model: gli opinion leader riportano il contenuto dei media al quale hanno avuto accesso e ci aggiungono la loro interpretazione e la loro visione di quel contenuto. Le persone che contengono alla rete sociale dell’opinion leader riceveranno molti contenuti mediali attraverso l’interpretazione dell’opinion leader. Per la prima volta si sottolinea quanto siano importanti questi gruppi sociali a cui arrivano i contenuti mediali; non si guardano i singoli, ma interi gruppi sociali. I due studiosi vanno anche ad osservare le caratteristiche comuni fra gli opinion leader: 1. l’opinion leader è il membro sociale più disponibile all’esposizione ai media e più competente nell’uso dei media; 2. esercita una funzione di filtro (gatekeeper) e di spiegazione (framing). Fanno una selezione su quali sono le cose importanti da discutere con la propria rete sociale e poi la notizia che riportano la inseriscono nel frame che più ritengono opportuno. Il leader d’opinione deve avere 4 caratteristiche: 1. literacy, cioè sono persone che hanno più informazioni delle altre, hanno un’elevata esposizione ai media; 2. commitment, è necessario cioè che abbiano un elevato coinvolgimento ed interesse per determinati argomenti; 3. socievolezza, cioè il trasferimento delle informazioni e influenza su gruppi di individui (gregari) – contatto interpersonale (face to face o non face to face) – appartenenza allo stesso gruppo sociale; 4. leadership, cioè il riconoscimento dal basso, del gruppo dei pari del possesso di maggiori conoscenze. Queste caratteristiche non sono cambiate da allora; permettono di far emergere qualche altro aspetto dell’opinion leader. Le 4 caratteristiche difficilmente possono essere applicate ad un opinion leader mondiale, infatti per Katz e Lazarsfeld l’opinion leader può appartenere al sistema dei media giornalisti o appartenere al sistema sociale politico, MA è sempre un opinion leader per uno specifico gruppo di persone, quindi non si può parlare di opinion leader mondiali. Esistono dei leader d’opinione “orizzontali”, che non hanno cioè uno status socio-culturale sempre superiori ai gregari, sono alla pari degli altri. I leader d’opinione “informali” non corrispondono sempre alla stessa tipologia di persona (variano cioè al variare dei temi). Oggi il fenomeno del two step flow of communication è stato studiato maggiormente su Twitter, per la centralità delle news e per la molteplicità dei flussi e delle relazioni. Le informazioni circolano attraverso Twitter tramite intermediari (retweet di news e tweet originale di url contenenti news). La maggior parte degli intermediari non appartengono all’élite (blogger, giornalisti, ecc.) ma sono utenti comuni. Tuttavia non sono esattamente uguali a tutti gli altri utenti perché sono esposti a più fonti mediali degli altri utenti, hanno più follower degli altri utenti e sono più attivi degli altri utenti. Questo viene detto in un articolo uscito nel 2011. Nel 2010 invece esce un articolo dove si dice che l’influenza di Twitter ha almeno tre dimensioni: indegree influence (popolarità), legata al numero di follower di un utente. Indica direttamente la dimensione dell’audience che è in grado di raggiungere. La seconda dimensione è la retweet influence, legata al numero di retweet che un soggetto è in grado di generare. Indica l’abilità di generare contenuto con un valore aggiunto. La terza dimensione è la mention influence, legata al numero di tweet in cui un utente viene citato. Indica l’abilità di un certo utente di ingaggiare gli altri nella conversazione. Malcolm Gladwell ha individuato diversi tipi di opinion leader all’interno della rete. Ce lo spiega nel suo libro “The tipping point”. Il primo tipo che descrive è quello dei connettori, cioè perone che hanno un’ampia rete di connessioni e fanno stare insieme (connettono) le persone. Il secondo tipo è quello degli esperti, cioè procacciatori di informazioni che risolvono i problemi e forniscono risposte. Hanno la capacità di fornire queste informazioni in modo che vengano disseminate e diffuse rapidamente. Il terzo tipo è quello dei persuasori, cioè leader carismatici in grado di catalizzare il consenso. 30/10 AUDIENCE STUDIES Fino agli anni ’70 c’è una fase comportamentista sullo studio delle audience. È una prima fase di studio. In questo caso si prendono in considerazione i singoli individui e non i gruppi; si analizzano i comportamenti di questi quando si relazionano con i media. Abercrombie e Longhurst sono quelli che lo studiano. Cercano di capire quali sono i meccanismi secondo i quali le audience scelgono un certo tipo di contenuto. L’approccio degli usi e delle gratificazioni guarda cosa le persone fanno con i media (e non più cosa i media fanno alle persone). The use of mass communication è il libro che scrive Katz insieme ai suoi soci Blumler e Gurevitch. Le audience sono attive e i loro comportamenti sono spiegabili logicamente. Le aspettative e l’uso dei media hanno origini psicologiche e sociali. Questo approccio che vediamo nel libro appena citato parte da un’ipotesi che è la seguente: le persone usano i media per soddisfare dei bisogni. Dai media otteniamo delle gratificazioni e in questo modo le audience sono parte integrante del processo comunicativo. Le audience sono quindi soggetti attivi in quanto hanno un loro scopo nell’utilizzo dei media. Pensano ai media come uno strumento che gli può permettere di raggiungere un obiettivo. Negli anni ’70 questa è una grande conversazione e le attività pianificate, per fornire uno sfondo comune, per rilassarsi, modellare il comportamento. 2. Concept-oriented: sono quelle famiglie che presentano un ambiente comunicativo attivo, dove i bambini fin da piccoli sono stimolati alla discussione che viene percepita come un aspetto positivo alla comunicazione. I media sono utilizzati per attingere conoscenza. In generale la fruizione televisiva tende ad essere controllata perché è funzionale ad una dimensione di accrescimento personale e quindi tende a focalizzarsi su quei programmi che possono costruire stimolo mentre gli altri vengono fruiti molto meno. I programmi di intrattenimento o di evasione (che non sono molto funzionali) sono meno seguiti e sono meno utilizzati anche come risorsa di identificazione con i personaggi. Gli individui utilizzavano la televisione come strumento di trasmissione di valore ai figli, per regolarne il comportamento attraverso l’attività di selezione e per far sentire la propria autorità in casa. La distinzione tra questi due approcci media anche alcune scelte di adesso all’offerta televisiva. Per esempio, l’offerta televisiva Pay oggi si declina su tante offerte (Sky, Premium da una parte e Netflix, iTunes con Apple TV dall’altra). Lo stile relazionale e lo stile familiare (socio o concept) orienta anche la scelta se Sky/Premium o Netflix + Amazon Prime. La famiglia socio-oriented si farà l’abbonamento a Sky/Premium, anche perché la percepiscono come un’offerta ormai mainstream, in cui possono sentirsi di condividere grandi momenti di intrattenimento con altri (X Factor, MasterChef ecc.), mentre le famiglie concept-oriented sono orientate a un’offerta library, perché possono scegliere cosa vedere, quando vederlo. C’è molta più possibilità di scelta, in autonomia. Posso davvero fare delle scelte molto più autonome, con anche prodotti di nicchia. Questi due modelli di consumo dei media funzionano ancora oggi e costituiscono un bel passo avanti rispetto alla teoria degli usi e delle gratificazioni. Per la prima volta si prova a guardare alla vita quotidiana, con attenzione specifica a come i media entrino all’interno del quotidiano. Ricapitolando: a partire dagli anni ‘80 si sviluppa un’area della sociologia che si occupa degli effetti dei media e ha una particolare funzione della formazione dell’opinione pubblica. Abbiamo analizzato diverse teorie (dell’agenda setting, spirale del silenzio, ecc.). Parallelamente, tra gli anni ‘70/’80 si sviluppa un’area sulla riflessione sugli usi sociali dei media, su ciò che le persone fanno con mezzi di diffusione di massa. A seguito di tale distinzione risulta dunque esservi un legame tra queste due aree: sociologia (effetti sociali dei media e la costruzione dell’opinione pubblica) e psicologia sociale (usi sociali dei media e pubblico come oggetto di studio). Cosa cambia nel passaggio degli anni ‘80? Per la prima volta si prova ad osservare la vita quotidiana, James Lull analizza infatti la dimensione quotidiana. Cambia inoltre il modo in cui complessivamente si guarda il rapporto media-società: entra in gioco un nuovo tema, quello della dimensione della cultura. Si inizia a guardare a come i media influenzino la diffusione della cultura all’interno dei contesti sociali. La parola chiave è quindi cultura. MEDIA E CULTURA Negli anni ’70 il tema comune era l’opinione pubblica. Quello che succede negli anni ‘80 è che si considerano i media come approccio culturale (influiscono sulla percezione dello spazio, del tempo, le relazioni sociali all’interno delle persone). Tutto inizia dalla scuola di Toronto, con McLuhan. Dal Canada vengono poste le basi negli anni ‘80, grazie allo studio di economia, con Harold Innis. Le modalità della comunicazione, le “tendenziosità (the biais) della comunicazione (libro che scrive Innis)” svolgono un ruolo almeno pari a quello dell’attività economica nella formazione e direzione della società umana. Si rende conto che nel sistema dei media che esiste all’interno dei vari contesti sociali ha un peso sia nell’orientare i percorsi economici ma anche nell’orientare lo sviluppo delle società. Harold Innis è un economista che si rende appunto conto che il sistema dei media, non soltanto i contenuti ma il tipo di tecnologie mediali su cui si basa la diffusione è la tradizione della cultura. In “The biais of communication” ci sono due idee centrali: la prima è che nei processi comunicativi la parte rilevante non è tanto il contenuto trasmesso, quanto il mezzo tecnico che fa da supporto, la seconda è che l’indolenza dei media sull’organizzazione sociale riguarda soprattutto l’organizzazione di spazio e tempo. Dal momento in cui in una società organizzo spazio e tempo vado a toccare i due elementi centrali della cultura. Si comincia a guardare qualcosa che è molto vicino agli studi di Lull. Innis ci dice che alcuni mezzi di comunicazione sono: 1. Time binding: influenzano i modelli culturali nel tempo. Esempio tipico sono tutte quelle culture che si sono sviluppate sulla base di una comunicazione che poneva le enfasi sulle scritte su pietra dei monumenti. Sono in grado di trasmettere le tradizioni per generazioni, ma per piccole comunità che hanno una limitata estensione dello spazio. Sono mezzi che permangono nel tempo, non si spostano nello spazio. Favoriscono culture stabili, la costruzione della community, il tramandarsi delle trazioni religiose. 2. Space binding: estendono la capacità di influenza dei significati che diffondono, a livello spaziale. I supporti sono effimeri nel tempo e sono in grado di raggiungere il più alto numero di destinatari nello spazio. Il nostro sistema mediale odierno è basato su contenuto mediali effimeri, che hanno una durata limitata nel tempo. Veicolano informazioni che possono raggiungere il più destinatari possibili nello spazio, ma non permangono nel tempo (non attraverso narrazioni stabili). Favoriscono l’innovazione e il cambiamento, sviluppano coesione a distanza, favoriscono la nascita degli “imperi”. 05/11 L’evoluzione delle tecnologie di comunicazione (e non solo dei contenuti) sposta il controllo sulla diffusione della conoscenza tra diversi tipi di élite o tra le élite e strati più vasti della popolazione. Chi ha la capacità di usare i media ha la capacità di controllare la diffusione della conoscenza. Dagli editori che pubblicano libri piano piano si passa agli editori che pubblicano giornali e da questi si passa ai broadcaster (spostamento fra le varie élite). Adesso c’è una nuova élite che si è costruita dal basso: sono gli opinion leader (interni al mondo della rete) più attivi e più capaci di usare la rete. È un’élite che si definisce sulla base di competenze tecnologico-comunicative. Secondo Innis, ogni società privilegia il tipo di mezzo di comunicazione che è più sintonico con le direzioni di sviluppo o di consolidamento che sta sperimentando: Internet ad esempio nasce in un contesto specifico come risposta ai bisogni e alle necessità di quel determinato contesto. Nelle società moderne i media broadcast si sviluppano perché c’è bisogno di creare un’unità. Tutto il ragionamento di Innis sta alla base del lavoro di McLuhan. McLuhan recupera l’idea che noi diamo forma ai nostri strumenti e che i nostri strumenti ci diano forma. Joshua Meyrowitz attorno la metà degli anni ’80, recupera quello che era rimasto depositato nel sapere comune poiché ci si occupa di altre cose. Il suo libro è intitolato “Oltre il senso del luogo”. La sua idea è quella di andare a recuperare il modo in cui le tecnologie di comunicazione influenzano le relazioni sociali della vita quotidiana. Le caratteristiche tecnologiche dei mezzi di comunicazione influenzano il modo in cui – in uno specifico contesto sociale – si percepisce e si rappresenta l’asse spazio-temporale; quindi a Meyrowitz interessa dire che, se è vero tutto quello che hanno detto Innis, McLuhan…, posso dire che anche il sistema dei mezzi di comunicazione influenza la vita quotidiana, lo spazio e il tempo delle persone? Però lui ha un altro punto di partenza che è Goffman: Meyrowitz si interessa a capire come il sistema dei media va ad influire sulla parte spiegata da Goffman. Meyrowitz vuole studiare la struttura delle situazioni sociali: vuole capire come il sistema dei media influisca sulle situazioni sociali (comprese le situazioni comunicative). Gli interessa studiare come i mezzi di comunicazione cambino i contesti dell’interazione sociale e le sue dimensioni spazio-temporali. Essi spostano i confini tra visibile e non visibile, accessibile e non accessibile, pubblico e privato. Ogni volta che questi assi si spostano, cambia qualcosa all’interno della società e nel modo in cui gestiamo le relazioni sociali. Molti altri autori cominciano a mettere a fuoco questo punto in quegli anni. Meyrowitz parte da quello che la televisione fa come dispositivo: la tv nella società ha agito come una “secret exposing machine” che permette agli individui e ai gruppi di guardarsi gli uni gli altri in modo innovativo. Ha permesso di accedere a delle parti che prima erano nascoste di altri gruppi sociali. Secondo Meyrowitz questo ha cambiato il modo in cui ci relazioniamo a certi tipi di ruoli; i primi ruoli di cui si occupa sono i ruoli dell’essere (ruoli legati all’identità individuale, di gruppo, etnica). Questo perché i media elettronici ci hanno permesso appunto l’accesso al “backstage” degli altri gruppi. Ci sono alcune trasmissioni televisive che hanno permesso questo; abbiamo quindi tutta una serie di informazioni in più su determinati ruoli. Però i mezzi influiscono anche sui ruoli del divenire, cioè i ruoli di passaggio (ad esempio il passaggio all’età adulta). I media elettronici estendono l’accessibilità delle informazioni relative all’età adulta anche ai più piccoli. I bambini sono socializzati in anticipo alla vita degli adulti. Un esempio è la conflittualità fra i genitori messa in scena nei teen movies, nelle family series, ecc. Cambia quindi il modo in cui i più piccoli conoscono il mondo degli adulti e di conseguenza questo provoca dei cambiamenti all’interno di un contesto sociale. Il terzo tipo di ruolo sul quale influiscono i media è il ruolo dell’autorità (come i ruoli legati a posizioni istituzionali). I media elettronici estendono l’accessibilità delle informazioni (contenuti riservati) e al retroscena della vita delle persone che rivestono ruoli di autorità. Ne consegue una diminuzione dello status (diffuso accesso alle informazioni) e una riduzione dell’autorità (rappresentazioni di ruolo potenzialmente messe in crisi). Tutte le immagini ed informazioni di backstage che abbiamo sulle figure istituzionali sono un esempio di influenza dei media sui ruoli dell’autorità. L’autorità si costruisce anche attraverso l’esclusivo a conoscenze specifiche. Quando l’accesso è generalizzato l’autorità si indebolisce. In generale, Meyrowitz osserva che si crea un punto di osservazione della realtà che è come uno spazio intermedio. Noi vediamo le rappresentazioni della realtà che vengono veicolate dai media e vediamo parte del primo piano e parte del retroscena. È come se fossimo messi di fianco al palcoscenico ad osservare la realtà. L’osservatore è collocato in questo spazio laterale. 06/11 Prima slide (fusione): esiste ancora la distinzione fra ribalta e retroscena, però guardiamo i personaggi da un punto di vista laterale, quindi vediamo un pezzo della ribalta e quel pezzo di retroscena vicino alla ribalta. Seconda slide (moltiplicazione): esiste ancora un primo piano, un profondo retroscena e in mezzo c’è questo spazio di primo piano e profondo retroscena. Il moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione continua a complessificare questa stratificazione di scena e retroscena. Negli anni ’80 quindi domina questo approccio culturale perché ci si interessa prevalentemente alle questioni che riguardano il rapporto fra media e cultura. L’altro filone nasce più all’interno della sociologia vera e propria, dove ci si chiede che cosa possano centrare i media con lo sviluppo di una cultura. Si comincia a pensare che anche i prodotti dei media siano risultato di una produzione culturale. Questo si basa su una precisa idea di cultura, che non è l’idea tradizionale di cultura e non è neanche l’idea di cultura come cultura di un popolo. L’idea è più vicina all’idea di cultura antropologica: la cultura è tutto quell’insieme di conoscenze, credenze e anche di oggetti, prodotti, manufatti che appartengono a un determinato gruppo sociale di una determinata epoca. Quindi in questo caso non si parla del bagaglio del sapere o delle tradizioni di un popolo. È un approccio antropologico. A metà degli anni ’50, un autore che si chiama Parsons ha provato a sistematizzare l’idea antropologica della cultura: identifica 4 elementi che possono essere riconosciuti tipici e caratteristici della cultura e sono norme, valori, credenze e simboli. 1. Le norme sono una serie di criteri di giudizio riguardanti la vita collettiva e che definiscono per una specifica cultura cosa è giusto e cosa è sbagliato; 2. i valori sono alcuni ideali di una cultura (felicità, giustizia), le mete collettive (istruzione, pace, rispetto per la natura), le qualità positive (solidarietà); 3. le credenze sono convinzioni profonde di una cultura, ma anche i pregiudizi; 4. i simboli, cioè tutto ciò che dà un significato agli elementi precedenti e che permettono loro di circolare e venire scambiati. Sempre Parsons, dice che anche dal punto di vista della sociologia la sfera simbolica (che si esprime attraverso simboli che poi diventano anche concreti) diventa il luogo della cultura sia che si esprima in forme e prodotti culturali sia che si esprima in azioni che sono “culturali” in quanto hanno un valore simbolico. Williams nel 1958 dice che la musica pop è usata dai gruppi giovanili per affermare la loro identità culturale. La cultura è come un processo che si riproduce e si trasforma giorno per giorno. È un contesto in cui ciascuno produce, pensa, agisce e innova. Dall’idea di cultura statica si arriva a quella locale, da quella locale a quella materiale e da quella materiale si arriva all’idea di una cultura dinamica (con una dimensione simbolica). Tutto questo ci porta a pensare alla cultura come una “pratica”. Le persone sono soggetti che incorporano una cultura, che usano i prodotti culturali per produrre identità culturali (per dirci, per raccontarci) e che producono cultura. Noi per appartenere a una cultura dobbiamo farla nostra. Le persone quindi sono soggetti attivi. A metà degli anni ’80, Anne Swidler dice che ci sono anche delle modalità attraverso cui si genera un’innovazione culturale: si crea quando si attua una lettura nuova di un codice simbolico applicata a circostanze concrete. Un esempio sempre attuale è la pop art (di Andy Warhol). Warhol che crea la pop art della scatola di zuppa Campbell’s che è un prodotto popolare, riconoscibile, di massa e lo trasforma in un oggetto artistico e ne propone una lettura nuova. Un altro esempio è quello del flash-mob, che fa un processo di lettura nuova di un codice simbolico. Questo codice, letto in modo inedito, è quello dello spazio fisico, come la piazza o una via (o altro) che per il tempo in cui dura il flash-mob diventa un palcoscenico per una performance collettiva che vuole raccontare qualcosa. Quindi secondo la Swidler, la cultura è una cassetta degli attrezzi, una collezione di strumenti che si trasformano in mezzi per la realizzazione dell’azione (agency) di una performance precisa. Pierre Bourdieu dice che il gusto è l’aspetto soggettivo dell’habitus. Questo sociologo si occupa appunto dell’aspetto del gusto. I prodotti culturali vengono espressi anche attraverso il gusto, che è legato alla cultura ed è un qualcosa che noi usiamo per distinguerci; attraverso i nostri gusti raccontiamo chi siamo e chi vogliamo essere all’interno della società. Il gusto funziona come una bussola sociale orientando le persone verso le pratiche e i beni culturali che si addicono loro. Il formarsi dei gusti è un processo culturale. Le preferenze culturali si ramificano in stili di vita: differenti sistemi di atteggiamenti. Tutta questa attenzione per il gusto nasce da un lavoro di Bourdieu pubblicato all’inizio degli anni ’80 che si intitola “La distinzione – critica sociale del gusto”. Parte da una ricerca fatta sui gusti culturali dei francesi (dall’arte alla casa) e rianalizza questa ricerca dicendo che esiste un rapporto tra classe sociale e gusto. La classe sociale però è caratterizzata da tre aspetti: il capitale economico, sociale e culturale. Quindi il gusto si definisce fra persone che hanno capitali simili, secondo Bourdieu. Il capitale economico si basa sulla disponibilità di risorse materiali e finanziarie. Il capitale sociale si basa sulle reti di relazioni in cui si è inseriti. Il capitale culturale si basa sulle competenze di tipo scolastico e su quelle ereditate dalla socializzazione extra-scolastica. Il capitale culturale non si impoverisce quando viene sfruttato: può essere accumulato e investito. Dagli studi di Bourdieu si comincia a pensare che all’interno di un contesto sociale esistano più culture di gusto. Il libro “Popular culture and high culture” mette a fuoco il fatto che all’interno di un contesto sociale si formino gruppi omogenei e coerenti. I singoli gruppi sociali sono caratterizzati da culture di gusto fatte di valori estetici e standard di gusto condivisi e comuni. Si possono distinguere diversi pubblici in base al gusto: utenti che operano scelte simili. Ogni “cultura di gusto” consiste di: valori circa la desiderabilità delle diverse forme culturali, di forme culturali, di media attraverso cui le forme culturali vengono espresse e valori che vengono espressi attraverso le forme culturali. Le letture oppositive comprendono i commessi, gli studenti, i neri e gli immigrati. L’interpretazione del programma e della realtà rappresentata è ritenuta “di parte”. Non si identificano nel “noi” del programma e rifiutano l’ipotesi di costruire un “noi” nazionale. “Dovremmo utilmente pensare all’audience dei media non tanto come una massa di indifferenziata di individui, ma come una struttura complessa di individui socialmente organizzati in un numero indefinito di sottogruppi e subcultura ciascuna delle quali ha la sua storia e le sue tradizioni culturali” – David Morley, 1983. 13/11 Dopo gli anni ’80 il modello di Morley di encoding-decoding viene applicato a un altro oggetto di studio: le soap opera. Sono un prodotto che circola a livello mondiale. Ci si comincia a interrogare su quali altre variabili possono cambiare il modo di lettura di alcuni prodotti. Rispetto alla circolazione globale dei prodotti americani, avanzano anche le tesi dell’imperialismo culturale. A metà degli anni ’80 viene fatta una ricerca da Tamar Liebes e Elihu Katz; scrivono un libro intitolato “The Export of Meaning – Cross cultural readings of Dallas” in cui scelgono come oggetto di studio la soap opera Dallas (di produzione americana che circola in tutto il mondo). Analizzano i processi di decodifica provando a verificare se l’appartenenza culturale delle persone che vedono lo stesso programma ne influenzi la lettura. L’ipotesi è la seguente: le persone coinvolgono la loro esperienza culturale nei processi di attribuzione di senso e nel fare ciò cercano sostegno e conferma negli altri, nei rapporti interpersonali e nei gruppi sociali di appartenenza. La tecnica usata per la ricerca è il focus group; ogni gruppo è costituito da più coppie legate tra loro da rapporti di amicizia e appartenenti alla stessa etnia. Scelgono quindi dei gruppi che siano omogenei. I soggetti coinvolti nello specifico sono israeliani con lo stesso status socio-economico ma provenienti da paesi diversi. Non sono americani, quindi si trovano davanti un testo che non viene dalla loro cultura. Dallas è stata prodotta in America dalla CBS, è andata in onda tra il ’78 e il ’91, distribuita in tutto il mondo e racconta le vicende di una famiglia di petrolieri texani. È una storia molto americana. Subentrano una serie di problemi sociali: alcolismo, droga, vendette familiari, divorzi, figli illegittimi e bugie. Vengono raccontati temi un po’ spinosi per l’America di quegli anni. I tre gruppi considerati nella ricerca sono: ebrei di origine marocchina, ebrei di origine russa ed ebrei nati in Israele. I primi interpretavano Dallas come un’opera sui legami familiari sulla difficoltà della vita familiare. I secondi la interpretavano come una dura e puntuale critica al capitalismo e al modello di vita conseguente. I terzi la interpretavano come una pura opera di intrattenimento che non rifletteva una realtà sociale realistica. Queste differenze tra persone con uguale status socio-economico hanno letture estremamente diverse dello stesso prodotto secondo la loro cultura di origine. Questo porta a dire che la cultura cambia il modo in cui i testi/prodotti vengono recepiti. I membri di ciascun gruppo si sostengono a vicenda nella comprensione e interpretazione soprattutto nel caso di decodifiche alternative; non è quindi un processo individuale. I temi centrali della storia (ricchezza, successo) sono valutati con riferimento ai modelli di comportamento e agli orientamenti di valore propri della cultura di appartenenza. I riceventi si rivelano soggetti competenti e selettivi rispetto alla selezione e valorizzazione dei temi trattati. I risultati della ricerca confermano che il processo di encoding-decoding è fondato; mette in discussione l’approccio dell’imperialismo culturale. Il fatto che nel mondo circolino prodotti che provengono dalla stessa cultura americana, non vuol per forza dire che vengano letti allo stesso modo in tutto il mondo. L’attenzione si sposta sulla localizzazione intesa come processo di ricezione. Questa ricerca è importante proprio per l’introduzione di questa lettura diversa dell’imperialismo culturale. AUDIENCE STUDIES: NUOVI PARADIGMI (MODELLO SPECTACLE/PERFORMANCE) Dalla metà degli anni ’80 si inizia a parlare di audience transnazionali; contemporaneamente da un lato c’erano le audiences più stabili e prevedibili che iniziano a diventare delle audience migranti e instabili perché si spostano tra tante risorse diverse. Non si pensa più agli utenti individuali ma agli utenti socialmente connessi, non si parla più di audience accondiscendenti che incorporano e subiscono quello che gli viene offerto ma si parla piuttosto di audience attive che prendono in mano i media e agiscono in modo rumoroso. Infine le audience diventano più fedeli al contenuto e al brand piuttosto che al network e al medium. Tutto questo per dire che la audience stanno decisamente cambiando. LA DEFINIZIONE DI AUDIENCE SI ARRICCHISCE DI NUOVI ELEMENTI: AUDIENCE PERFORMATIVE I concetti che si affiancano all’idea di sono solo la pervasività del consumo mediale, la connessione (dialogo, interazione, condivisione con altre persone. Le audience sono connesse) e la performatività (attività in cui le persone fanno effettivamente qualcosa). La ricezione mediale è un’attività diffusa, una pratica in cui gli individui si appropriano dei prodotti mediali e li usano. Il pubblico si autopercepisce in quanto pubblico e il pubblico dei media è risultato dell’interazione intermediale, sono soggetti che passano da un medium all’altro nell’attività di fruizione così pervasiva. Passano dalla radio, al cinema, alla televisione, ecc. Abercrombie e Longhurst intendono per audience diffusa la situazione in cui il soggetto è sempre parte di un pubblico a prescindere dal singolo atto di fruizione e da singoli eventi. “Essere un membro di un’audience non è più tanto un evento eccezionale e neanche un evento quotidiano. Piuttosto è parte della vita quotidiana”. Le audience si percepiscono sempre come parte di un pubblico e non solo nel momento in cui fruiscono di qualcosa. Il pubblico agisce come diffused audiences. Le audience sono gruppi di individui che condividono consapevolmente scelte di consumo. Il pubblico dei media si percepisce come una comunità immaginaria in cui gli altri utenti degli stessi prodotti fanno parte di un immaginario gruppo che condivide scelte di consumo, stile, vita, ecc. A partire dagli anni ’90 le audience diventano produttive. I consumer sono gli utenti distratti e discontinui, non organizzati e inattivi. I fan sono gli utenti attenti e regolari, non organizzati né attivi o partecipanti. I cultist sono gli ascoltatori fidelizzati e organizzati in modo informale. Gli enthusiast sono gli ascoltatori fidelizzati ben organizzati in modo formale. I petty producer sono gli organizzatori di strutture formalizzate orientate commercialmente. Sono audience che pian piano generano azioni all’interno della propria vita quotidiana legate al consumo. Le audience intercettano la dimensione della performatività nel loro essere. La performatività si realizza in atti e gesti, generalmente costruiti, fabbricazioni prodotte e mantenute attraverso segni corporei e altri mezzi discorsivi che esprimono parte dell’identità. La performatività è “una serie di pratiche che segnano i corpi, in accordo ad una griglia di intelligibilità, in modo tale che il corpo stesso diventi una fiction familiare”. Il sé diventa una fiction (rappresentazione) familiare (cioè condivisa e condivisibile all’interno dei legami sociali). Questa espressività attraverso i gesti corporei e le nostre scelte estetiche diventa un elemento importante nel contesto sociale dagli anni ’90. 14/11 I cosplay sono una vera e propria performatività individuale. Basti pensare al Lucca Comics, nato 12 anni, dove si tengono conferenze, convegni dedicati ai fumetti e ai videogiochi. È l’espressione dell’identificazione con una comunità immaginata. In tutti questi eventi dello stesso tipo del Lucca Comics, non c’è solo il cosplaying, ma c’è anche tutta una produzione di contenuti mediali che raccontano quello che accade. Il Lucca Comics è oggetto di produzioni video bottom-up, una produzione cioè dal basso, da parte degli utenti. La dimensione performativa è andata oltre i confini del Lucca Comics, perché tanti costumi non sono ispirati solo a fumetti o videogiochi, ma anche a film (di vario genere). I petty producers hanno la possibilità di esprimersi e sono identificabili con la figura degli Youtubers. Il loro prendere parte a questi eventi diventa quasi una professione. Il Lucca Comics è una risemantizzazione dello spazio della città: Lucca ha già un suo immaginario, quindi è ancora più significativo che la città venga completamente cambiata nel suo spazio nei giorni in cui c’è questo evento. Lucca diventa palcoscenico dell’evento. Ci sono anche vari flash-mob e parate. Anche lo Star Wars Day, celebrato il 4 maggio e che ha come claim “May the fourth be with you”, è un esempio di performatività individuale. C’è anche un profilo Facebook legato all’evento, che ha il senso di mantenere connesse le persone che partecipano a questa giornata. Anche se il 4 maggio è comunque passato da tempo, la pagina continua ad essere attiva e a raccontare tutte le forme di cosplaying messe in scena durante i vari Star Wars Days, che è un evento mondiale. È un modo di costruire una rete che riunisce tutti gli appassionati della saga continuando a fornirgli materiali che contribuiscono al loro immaginario. Anche in questo caso si tratta di audience produttive. Tutto questo ha una dimensione anche trasversale, perché le audience non mettono in scena soltanto dal basso questo evento, ma anche attori/produttori si inseriscono dall’alto. Kershaw dice che la performatività è importante all’interno delle nostre relazioni oggi. Tutto il contesto sociale in cui viviamo è caratterizzato dalla performatività. Il risultato della performatività è che gli individui coinvolti negli eventi messi in scena si percepiscono come performers. Tendiamo a metterci in scena in modo che gli altri possano “leggerci”. Chaney nel 1993 dice che il mondo, e tutto ciò che è al suo interno, viene trattato sempre più come qualcosa a cui si assiste. Si parla ormai di società performative. Anche quando non siamo davanti ai media siamo chiamati ad essere pubblico di un qualsiasi tipo di performance (come ad esempio l’accensione dell’albero di Natale in piazza Duomo). “Nel mondo le persone, gli oggetti, gli eventi non possono essere dati per scontati, ma devono essere inseriti in cornici, guardati, osservati, registrati e controllati. Ciò, a sua volta, suggerisce che il mondo si costituisce come un evento, come una performance; gli oggetti: le persone e gli eventi che fanno parte del mondo sono fatti per mettere in scena performance per coloro che li guardano e osservano intensamente.” – Abercrombie, Longhurst. Noi cominciamo ad abituarci a guardare il mondo come costellato di eventi. La vita contemporanea è una questione di spettacolo e lo scopo della vita moderna è quello di vedere ed essere visti. Il mondo come merce richiede attenzione e infatti inscena performance. La pervasività dei mezzi di comunicazione di massa contribuisce alla presentazione del mondo come uno spettacolo, come una serie di performance. Il landscape diventa mediascape, cioè un paesaggio fatto di messe in scena ed eventi. Come lato oscuro di questo processo, Abercrombie e Longhurst individuano il narcisismo. Le persone agiscono come se fossero guardate, come se fossero di fronte a una immaginaria audience. In una società narcisistica la parte intima del sé, i sentimenti, le emozioni sono al centro dell’interesse. Dentro quello che raccontiamo sui social, il momento topico del nostro metterci in scena è costituito dai selfie. È il punto in cui la dimensione performativa si traduce in una pratica quasi quotidiana. Per rendere il mondo sociale uno spettacolo, le persone devono essere incitate, motivate, per mettere in atto una performance, devono essere quindi sollecitate nel loro narcisismo. In un contesto in cui sempre più persone si vedono come performer osservate da altri, il narcisismo è la cura del sé come spettacolo. Tornando alle audience, ci sono tre livelli in cui esse sono performative: 1. è performativa l’audience che per una spinta narcisistica cerca di entrare nel mondo dei media in cerca di visibilità, in cerca di audience (mondo dei talent, reality show); 2. è performativa l’audience che si immedesima nel programma televisivo o nel personaggio, attraverso meccanismi di identificazione e proiezione, ovvero abbandonando per un momento la propria identità per vestirne un’altra, o proiettando piuttosto la propria coscienza in quella di diversi personaggi (come il cosplaying); 3. è performativa l’audience che condivide con gli altri i racconti delle storie mediali, per come le ha vissute rispetto al proprio contesto sociale e culturale, per come utilizzerà queste narrazioni per creare relazioni con altri. Dal modello incorporation/resistance si passa quindi a un modello delle spectacle performances, dove c’è una contrapposizione tra “resto nella dimensione dello spettatore” o “entro nelle dimensioni performative”. 20/11 AUDIENCE CONNESSE (PERFORMATIVE/NETWORKED) Gli studiosi dei primi anni 2000 devono fare i conti con: la moltiplicazione dei personal media, che incoraggia la privatizzazione dell’uso dei media, la diversificazione dei media in cui le costellazioni mediali utilizzate dai gruppi sociali per costruire i propri lifestyles (ogni nucleo familiare come si appropria dei sistemi mediali? E di quali si appropria?), la mediatizzazione, cioè la pervasività dei media in tutte le attività private e pubbliche. L’idea della mediatizzazione è che siamo arrivati ad avere i media come una bussola di tutto il sistema sociale: i media estendono i limiti della comunicazione umana nel tempo e nello spazio (come aveva già visto l’approccio culturale della scuola di Toronto), sono ormai superati nella società contemporanea; i media tendono a sostituire le attività sociali o le esperienze dirette con quelle mediate (c’è una progressiva sostituzione dell’esperienza diretta con quella mediata, come l’incendio che c’è stato in California ad esempio); la comunicazione interpersonale e la comunicazione di massa si fondono (gli spazi comunicativi all’interno della rete sono sempre più spazi ibridi, basti pensare al programma Guess My Age, per il quale è stata costruita un’app che consente di giocare in contemporanea con la trasmissione. La spazialità del programma televisivo a questo punto è a più livelli); le attività sociali e le istituzioni si adeguano alla “media logic”, punto estremamente importante della mediatizzazione. La logica con cui funzionano i media finisce per essere una logica su cui vengono costruite ed impostate le attività di istituzione e soggetti sociali a vario titolo. Anche la “media logic” è definita in 4 punti: nella società contemporanea, ogni istituzione è diventata parte di una cultura mediale, i cambiamenti che si sono sviluppati in ogni istituzione di rilievo di queste società contemporanee sono il risultato della media logic nel presentare ed interpretare quelle istituzioni; le media logic presenta il mondo come un flusso continuo di eventi, un flusso continuo di persone e cose “out there”; la media logic propone un mondo in cui l’attenzione per gli eventi sale, si satura velocemente e poi passa ad altro; infine comprende un’apparente neutralità dei media che rappresentano diverse voci e opinioni, il modo corretto per raccontare qualcosa è quello neutrale, senza esprimere punti di vista personali. TABELLA FASI AUTO-MEDIATIZZAZIONE (esempio no-vax) SOCIAL MEDIA LOGIC 1. Programmabilità: la capacità di una piattaforma di sollecitare e guidare i contributi creativi o comunicativi degli utenti, mentre gli utenti, attraverso le loro interazioni con questi ambienti codificati possono a loro volta influenzare il flusso di comunicazioni e informazioni attivati dalla piattaforma. 2. Popolarità: indice di popolarità dei singoli utenti o dei singoli contenuti premiato con una maggiore visibilità. La popolarità anche se non ha relazione con verità, affidabilità, qualità viene equiparata a esse (principio di acclamazione). È estremamente premiante, in quanto un contenuto poco visibile non è efficace. Quindi siamo implicitamente chiamati a ritenere che l’elemento più popolare sia di maggiore qualità. Popolare = positivo; popolare = elevata qualità. La logica della popolarità influisce anche sull’agenda setting. 3. Connettività: le reti si formano sulla base di alleanze strategiche o comunità che partono da iniziative degli utenti oppure sulla base di tattiche di formazione automatica di gruppi (ad esempio “i gruppi cui potresti 6. appartenenza mediale fondata non solo sulla comunicazione ma sulle pratiche (soggetti che fanno): si tratta di un’attività di users (come sosteneva la Livingstone); 7. l’aspettativa delle culture partecipative è che il contributo di ciascuno sia visibile e pesato, nel momento in cui questo non lo è la partecipazione/contributo del singolo si perde e viene meno “il sentirsi rappresentato” dell’individuo. Le culture partecipative non riguardano solamente l’entertainment ma anche l’impegno pubblico e civico. Da tutto ciò nasce la definizione di prosumer: produttore e consumatore di contenuti, di altri e propri perché alle volte produciamo contenuti che fruiamo noi stessi. Ad esempio Instagram è un piccolo prodotto culturale che ciascuno di noi realizza per raccontare qualcosa: siamo produttori di questo insieme di prodotti culturali, siamo consumatori della stessa storia che facciamo noi (perché magari la riguardiamo), consumiamo e produciamo. Jenkins dice poi che in questo mondo in cui agiscono i prosumer nelle piattaforme mediali troviamo contemporaneamente due livelli di contenuti, il che cambia il nostro essere audience e il sistema dei media. Ci sono produzioni culturali appartenenti all’industria culturale tradizionale (corporation dell’intrattenimento) come documentari, telegiornali, talent ecc. e c’è anche dentro a questo mondo tutto ciò che viene dalle produzioni amatoriali, cioè video di YouTube, produzioni culturali che vengono dal basso, da un circuito esterno dall’industria culturale, i pubblici connessi (come stories) con prodotti che mettono in connessione persone che vengono dal pubblico. Le audience davanti alla quali ci troviamo sono “audience in relazione/pubblici connessi che con le nuove tecnologie possono lasciare traccia e costruire comunità di immaginazione”. (R. Andò) CULTURE PARTECIPATIVE - DANAH BOYD Sostiene che i pubblici connessi (che non chiama più audience ma torna a chiamare pubblici) sono ristrutturati dalle tecnologie digitali e sono contemporaneamente: 1. lo spazio costruito attraverso le networked technologies ; 2. le comunità immaginate che emergono come risultato dell’intersezione tra persone, tecnologie e pratiche : vuole dire che il pubblico si è sempre pensato come parte di una comunità immaginata anche quando noi pensiamo alle audience tradizionali, ogni singolo membro del pubblico si immagina come parte di una comunità che non vede, non è con lui ma che riesce ad immaginare. Ad esempio, se mi metto a guardare la finale dei mondiali, anche se sono con i miei altri 29 amici, non siamo soli a guardarla. La mia esperienza è sostenuta dal fatto che io faccio parte della comunità che sta guardando la finale dei mondiali. Questo fatto che le audience si immaginano come parte di una comunità immaginata è costitutivo delle audience tradizionali. La Boyd dice che nel caso dei pubblici connessi, le comunità immaginate sono sostenute anche da una serie di attività di comunicazione. Mi penso come parte di un’audience non solo perché mi immagino in una comunità ma anche perché sono materialmente connesso attraverso le piattaforme digitali con coloro che stanno facendo la mia stessa esperienza o che l’hanno fatta in momenti diversi (il live tweet davanti ad un evento è una dimensione legata alle pratiche e alle tecnologie che mi fa non solo immaginare ma vedere che sono parte di una comunità che sta seguendo quel programma e mi serve per dare concretezza e materialità alla comunità immaginata). CULTURE PARTECIPATIVE - MITSUKO ITO I pubblici possono essere: 1. reactors: coloro che agiscono in un modo semplice e che esprimono semplicemente il loro gradimento, e si fermano a mettere like ai video, ai post ecc., a esprimere il loro apprezzamento per i prodotti che consumano. In questo modo si rendono visibili, partecipi della costruzione del racconto della fruizione però ad un livello base; 2. (re)makers: prendono dei frammenti dei contenuti mediali e li mettono in gioco in altri contenuti discorsivi; è una produzione culturale molto rilevante, o coloro che fanno video a partire da altri frammenti di prodotti culturali; 3. (re)distributors: sono persone che rimettono in circolazione i prodotti culturali, risegnalandoli, rifacendoli circolare all’interno della rete. Attraverso questi tre livelli, i pubblici connessi sono “coinvolti nelle culture condivise e nella produzione di conoscenze attraverso discorsi, scambi sociali e atti di ricezione mediale” (Mitsuko Ito) CULTURE PARTECIPATIVE - KAZIS VARNELIS I networked publics sono gruppi di individui che si aggregano attorno a temi e media e rispetto ai quali condividono un interesse (ethos), indipendentemente dal luogo in cui si trovano. I pubblici si aggregano attorno ad alcuni tipi di accessi dei media che li identificano (smart tv, Netflix), cioè si affezionano ad un tipo di canale che li fa sentire a loro agio. Possono anche aggregarsi a loro dei temi, non più al canale, intesi come singoli programmi. È importante davanti ad un tipo di pubblici nuovi capire attorno a cosa si immaginano di essere parte di una comunità. Con queste attività i networked publics non solo utilizzano, ma danno forma alle piattaforme tecnologiche su cui si basa la cultura mediale contemporanea. Le piattaforme come Netflix, Dazon, ecc. evolvono in base agli usi degli utenti. La network culture produce remix che mescolano i diversi elementi della cultura attuale, mescolando cultura alta e cultura bassa, e mischiando contenuti da tutte le fonti. In questo mescolarsi ci sono alcuni elementi che caratterizzano lo sviluppo della produzione mediale. È una cultura caratterizzata dalla tensione tra: 1. il lavoro meta mediale (remix), che riflettono quindi sui media, che li mettono in gioco nelle loro produzioni. Un esempio è The Truman Show oppure Propaganda Live in cui costruisco un prodotto mediale con un contenuto basato sugli stessi contenuti mediali, in questo caso presi dal web; 2. la centralità della realtà nella produzione mediale: le produzioni che vengono dal basso parlano della realtà, non di fiction. La centralità della realtà nella produzione mediale è diventata un’altra cifra della contemporaneità che è frutto di questa ecologia mediale connessa. Un esempio palese sono tutti quei film che parlano di fatti storici, o Sky che rimanda una serie riguardo l’omicidio Versace (che però è del ‘97, non è storica come altri prodotti). Anche qui nella produzione mediale che non è destinata a raccontare la realtà, la cifra del racconto della realtà sulla base di questa ecologia mediale che si sviluppa è diventato rilevante; 3. la centralità della connessione. Sempre la Boyd cerca di dare una serie di altri aspetti che caratterizzano una serie di pubblici connessi. Dice che queste audience sono a tratti molto visibili ma anche: 1. invisibili: non vuol dire che non lasciano tracce ma sono più difficilmente individuabili. Audience connessa non visibile né co-presente; 2. sono caratterizzati dal collasso dei concetti. L'assenza di confini spaziali, sociali e temporali rende difficile mantenere distinti i contesti sociali. Nell’esperienza di queste audience gli spazi del privato e del consumo mediale vengono a fondersi. Il fatto che il consumo dei prodotti culturali faccia parte di un mix di pratiche che noi svogliamo all’interno del nostro rapporto con le piattaforme fa sì che il consumo mediale si collochi in un contesto dove ci sono dimensioni della vita privata, individuale e in tutte queste nuove ecologie mediali il consumo è parte di una serie di attività che caratterizza la vita quotidiana delle persone; 3. the blurring of public and private: senza controllo sul contesto, pubblico e privato diventano distinzioni senza significato, vengono ri-scalati in un modo diverso e sono difficili da mantenere distinti. Alla fine, le audience contemporanee sono definite da quattro parole chiave: performative, diffuse e riflessive, multidimensionali (agisco infatti su più media e livelli di distribuzione) e sono connesse. 04/12 DOMESTICATION Le persone si appropriano dei media anche come oggetti materiali. Tutto questo comincia ancora quando James Lull diceva che la televisione era usata come elemento per stare insieme; negli anni ’90 insieme nelle case però arrivano anche i pc, che hanno un elevato impatto nella vita delle persone. Roger Silverstone e David Hirsch cominciano a studiare anche i pc come nuovo dispositivo mediale che le persone usano. La ricerca di partenza si chiama Consuming technologies. Media and information in domestic spaces (1991). Gli obiettivi della ricerca sono: proseguire facendo un passo avanti rispetto all’uso della televisione e delle tecnologie digitali nell’ambiente domestico e capire come all’interno degli spazi domestici queste tecnologie tradizionali e i nuovi oggetti che stanno entrando nelle case si relazionano (rapporto tra media tradizionali e media digitali). Partono da una ricerca empirica, vanno a vedere cosa succede all’interno delle case e poi sviluppano il loro modello. Il punto di arrivo è un modello di interpretazione del rapporto tra media digitali e individui. È un modello “grounded”, cioè basato sui dati di ricerche (nato per organizzare e interpretare i risultati di ricerche empiriche). Il modello è diventato nel tempo il punto di partenza per la definizione di strumenti e obiettivi di ricerca e inoltre ha originato riflessioni teoriche sull’impatto che l’ingresso di nuove tecnologie ha sulla vita quotidiana di gruppi e individui. La ricerca si è sviluppata in due fasi: 1. Raccolta di diari d’uso (1 settimana); osservazione partecipante (1 settimana); discussione con i membri della famiglia; risultati dell’osservazione; foto dell’ambiente domestico; disegni dell’abitazione; rappresentazioni delle reti sociali; elenchi delle tecnologie possedute 2. Interviste alle famiglie ripetute nell’arco di diversi mesi Non è un percorso molto lontano da quello di James Lull, fatto qualche anno prima. Alla fine il modello che producono è: GUARDA SLIDE Ogni volta che una nuova tecnologia entra all’interno di una casa, ci arriva attraverso alcuni passaggi preliminari, si inserisce nello spazio a tre livelli e poi esce da questo spazio. I primi due percorsi, preliminari, attraverso cui passa sono quelli della mercificazione e dell’immaginazione; poi ci sono 3 momenti concreti dell’ingresso della tecnologia. Sono 3 livelli in cui le tecnologie hanno un impatto nello spazio in cui entrano: appropriazione, oggettivazione e incorporazione. L’ultimo passaggio è quello della conversione, il momento cioè in cui la tecnologia esce dalle case e torna al suo contesto sociale. L’idea è che le persone addomesticano le innovazioni tecnologiche che entrano nelle loro case. Questo modello serve a dirci quindi qual è il percorso attraverso cui noi addomestichiamo queste tecnologie. A un certo punto del loro lavoro, Silverstone e Hirsch si accorgono che le tecnologie non arrivano neutre all’interno delle case, ma si rendono conto che anche i media di cui si occupano sono in qualche modo caricati di un valore simbolico prima che ci entrino. Analizzando i loro prodotti e intervistando i produttori si rendono conto che questi prodotti si caricano di valori economici e simbolici. Vengono poi poste le condizioni d’uso di un prodotto. Il secondo step, quello dell’immaginazione, mette a fuoco la comunicazione pubblicitaria, l’informazione, gli incontri istituzionali e i discorsi sociali. I valori definiti nel corso della mercificazione vengono tradotti in strategie comunicative. I prodotti rendono accessibili i significati sociali che vengono attribuiti alla sua desiderabilità. In quegli anni nessuno si era posto il problema di quale immaginazione ci fosse attorno a questi nuovi devices. In seguito a queste due fasi preliminari, partono le successive fasi dell’ingresso del device nelle case. Il primo di questi tre step è ancora il device fuori dalla casa, è il momento in cui esso si accosta alle case. Il momento dell’appropriazione è il momento in cui effettivamente la tecnologia si avvicina allo spazio domestico. L’acquisto della tecnologia sancisce il suo ingresso nello spazio domestico; è occasione di negoziazioni con valori e comportamenti del micro-nucleo sociale; vengono riconosciuti e attivati alcuni dei valori sociali ed economici della tecnologia. Lo step successivo è quello dell’impatto vero e proprio che si sviluppa nel livello dell’oggettivazione e dell’incorporazione. Il posto che viene dato alle tecnologie all’interno della casa implica una trasformazione dello spazio domestico, spesso cambiando il posto delle altre tecnologie mediali. Il device può essere esibito oppure nascosto, come ad esempio la PlayStation sotto la televisione oppure nella propria camera. L’incorporazione riguarda il tempo: quando una tecnologia arriva all’interno dello spazio domestico, rimette in discussione l’organizzazione del tempo e delle sue routine. Contemporaneamente, i nuovi dispositivi creano delle routine e si va incontro a dei processi di modifica. La fase della conversione è la riapertura verso l’esterno: le relazioni che il nucleo familiare ha istituito con la tecnologia vengono investite di un valore simbolico. Questo modello viene utilizzato ancora oggi, anche se ci sono una serie di aggiustamenti da fare: le tecnologie sono diventate mobili, ad esempio. LA MISURAZIONE DELLE AUDIENCE (BEHAVIORAL/ANALYTICS) AUDITEL L’Auditel è l’organismo che quantifica gli ascolti televisivi, sia in termini assoluti che in termini di share (percentuale). Ogni mezzo di comunicazione ha il suo organo ufficiale di misurazione degli spettatori. Si basa su dei dispositivi piazzati nelle case di persone che accettano di essere misurate. Ci sono dei campioni (età, titoli di studio, uomini/donne). La rilevazione è di carattere interattivo. Ogni volta che le persone si mettono davanti alla televisione, selezionano cosa stanno vedendo, chi sta vedendo cosa e per quanto tempo. Per Auditel non è necessario che la trasmissione sia stata guardata dall’inizio alla fine, ma basta anche un solo minuto. 05/12 AUDIRADIO Audiradio oggi non esiste più. È esistita dal 1988 come organismo autonomo che misura l’audience. Nel 2011 poi è stata chiusa e posta in liquidazione. Dopo il 2010 molte radio non hanno più approvato il bilancio di Audiradio portandola alla chiusura. Dal 1988 Audiradio rilevava ascolti radiofonici attraverso interviste telefoniche agli ascoltatori, è una metodologia estremamente classica. Intorno al 2009 si rendono conto che questa metodologia ha dei limiti, nel senso che avrebbero voluto capire anche trasversalmente cosa succede nelle altre piattaforme per capire come si distribuisce l’ascolto radiofonico. Progettano quindi nello stesso anno un sistema diverso dal miter, cioè il panel (un gruppo di persone rappresentative della popolazione italiana che ciclicamente vengono intervistate) diari, che Audiradio ritiene più preciso. Le persone che devono costruire questo panel, lo costruiscono male. Sbagliano a costruire il campione rappresentativo. C’è stata una possibile accelerazione nella costruzione del panel; nel 2010 alcune radio che ricevono i dati di ascolto si accorgono che c’è qualcosa che non funziona. Queste radio decidono quindi di “staccare la spina” da Audiradio. I primi risultati dei panel usciti nel 2010 devono essere dichiarati inattendibili. Audiradio è costretta a rilasciare un comunicato stampa. Entra in crisi dopo più di 20 anni di attività. Per tutto il 2011 la radio ha viaggiato senza dati di ascolto. A questo punto si muove l’organizzazione Tavolo Editori Radio, l’organizzazione di broadcaster e editori radiofonici. Avendo bisogno dei dati e non avendo nessuno che glieli fornisse, si riuniscono tra di loro. Oggi questo sistema RadioTer è sempre costruito su interviste radiofoniche (CATI) ed è costruita in modo da tutelarsi; le interviste vengono fatte su telefoni fissi e telefoni mobili, inoltre sono basate su campioni nazionali rappresentativi dell’Universo di riferimento (individui presenti sul territorio italiano di almeno 14 anni di età). Il metodo è basato su due indagini: