Scarica SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE & DEI MEDIA DIGITALI - N. Vittadini e più Appunti in PDF di Sociologia Dei Media solo su Docsity! 05/10/2021 Gli effetti che i media hanno sulla società sono molteplici. Nel periodo della pandemia, abbiamo riscontrato usi dei social media, utilizzati come circolatori di fake news, di infodemia, ovvero raccontare un eccesso di informazioni che si è prodotto ed è entrato in circolazione in quest’anno, mettendo tutti in difficoltà. Abbiamo toccato con mano il fatto che l’esistenza dei media genera degli effetti anche molto concreti e pratici: dalle domande poste in alcuni momenti, come “posso andare al bar per bere il caffè?”, notiamo l’eccesso o la povertà di informazioni che ci ha messo in difficoltà. Al centro di questi processi ci sono i media e il rapporto che essi hanno con alcune importanti azioni collettive, come quella di informarci, formarsi un’opinione, produrre e consumare cultura, agire e mobilitarsi (consumiamo cultura anche su base algoritmica; movimento di Greta Thunberg che mobilita a livello mondiale). Oggi, noi ci stiamo muovendo verso i media ritmici, cioè media che si adattano all’onda di gradimento dei consumatori. Quando parliamo di effetti di media sulla società, parliamo del sistema dei media di OGGI e su come essi ci influenzino, ma non è un qualcosa di astratto, bensì è qualcosa di concreto. Certamente, il fatto che i media siano importanti all’interno del nostro contesto contemporaneo ci fa riflettere molto. I social sono come grandi infrastrutture che diffondono informazioni. Ma come funzionano nella contemporaneità? I processi di formazione dell’opinione pubblica Prima di tutto dobbiamo capire di quali media noi stiamo parlando. Ci troviamo all’interno di media fortemente digitalizzati, ce lo dice il CENSIS, istituto italiano famoso specializzato nei temi della comunicazione, che, ogni anno, fa dei sondaggi e studi sui media. Noi viviamo da un anno e mezzo in un processo di digitalizzazione a tappe forzate, perché le esigenze lavorative e formali, unite alla pandemia, hanno spinto sicuramente l’Italia e altri paesi verso la digitalizzazione. Pensiamo a studenti che hanno dovuto fornirsi di pc, anche se non ne avevano + professionisti digitali che hanno dovuto implementare le loro reti interne, facendo un upgrade, rendendosi così disponibili per le loro aziende. Questa spinta verso la digitalizzazione ha colpito anche il commercio: pensiamo alla grande distribuzione organizzata (GDO) che hanno potenziato i loro sistemi di commerce, ma, contemporaneamente, chi non ne aveva, si è mosso piano piano verso questo sistema di vendite e di contatto con il cliente pressione verso la digitalizzazione innovazioni + nuovi commerci e attività Dal punto di vista della digitalizzazione, questo anno e mezzo ha fatto fare passi avanti nella diffusione capillare del digitale in tutte le nostre attività. I dati restituiti dal CENSIS ci dicono che 46 milioni di italiani sono dotati di una connessione internet, quindi la grande maggioranza di italiani oggi è collegata, ma questa digitalizzazione a tappe forzate ha portato anche delle conseguenze dal punto di vista del vissuto, del percepito e delle prospettive con cui noi guardiamo al digitale. Ad esempio, l’86.3% di italiani è convinto che l’accesso a Internet deve essere garantito, quindi è un diritto che deve essere garantito a tutti, ovunque e comunque; la percentuale sale al 93.6% nei giovani. Spinti dalla digitalizzazione, questi sono alcuni usi dei media. Non c’è molta distinzione tra fasce d’età. Un altro effetto è che c’è una spinta a continuare a migliorare la propria connessione ad Internet, a potenziarla. Chi non ce l’ha, è spinto a migliorarla: 13 milioni di italiani vogliono potenziare nei prossimi mesi la connessione. Contemporaneamente, si sta formando attorno alla rete un’opinione dominante che ne coglie aspetti positivi, pochi hanno espresso perplessità nei confronti del 5G. Vediamo comunque come una buona parte degli utenti sia timorosa di frodi, ma anche dell’uso dei minori sui social (dibattito sul progetto di Instagram per gli under13, sviluppato dall’azienda Facebook: il progetto è stato ritirato rispetto ai possibili aspetti negativi per un’utenza troppo giovane sui social). Questi timori sono stati recepiti all’interno dell’opinione. Nella gerarchia dei rischi, non ce n’è solo uno, sviluppato autonomamente, ma sono più rischi 1 messi a tema “grazie” ai social, il che contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica. Tuttavia, questo è lo stato della percezione della rete, che ha un ruolo importante in questo. Dobbiamo però capire che cosa si intenda veramente per formazione dell’opinione pubblica. Non è un concetto completamente nuovo, ma è difficile dare una definizione: caratterizza un certo gruppo di persone riguardo qualcosa; punto di vista prevalente delle persone; sicuramente, per opinione pubblica s’intende qualcosa di dominante, che ha una dimensione importante all’interno del contesto sociale, perché condivisa da tante persone. Se riteniamo che la maggioranza pensi in un certo modo, allora siamo incoraggiati a ritenere che quella sia un’opinione fondata. Dunque, nella definizione di “opinione pubblica” abbiamo: 1. Opinione collettiva 2. Non è situata 3. Ci sono persone che hanno un ruolo importante Dunque, con l’espressione opinione pubblica, possiamo dire che è il giudizio e il modo di pensare collettivo della maggioranza dei cittadini. Riguarda la sfera della valutazione. L’opinione pubblica è l’insieme delle idee che un determinato agglomerato umano (città, nazione, gruppo di nazioni) ritiene giusto e vero in un determinato momento (l’opinione pubblica cambia nel tempo e nello spazio). L’opinione pubblica è un sistema di credenze sulla cosa pubblica, per cui riguarda questioni sociali, non la vita privata. L’opinione pubblica non è mai qualcosa di unitario, ma è l’insieme delle correnti di opinioni, anche opposte, dominanti in una società. Quando qualcuno sui social esprime delle opinioni e viene fatto oggetto di critica, siamo di fronte ad una questione di opinione pubblica o privata? In questo fenomeno, l’opinione pubblica c’entra, ma le persone, a volte, fanno dichiarazioni che sono in contrasto con l’opinione pubblica dominante in rete o nella sfera delle relazioni in rete, per cui vengono fatti oggetto di critica e contestazione l’opinione pubblica è distonica rispetto al gruppo sociale dominante OPPURE le dichiarazioni vanno a contrastare l’opinione pubblica di gruppi sociali dominanti, per cui sono coesi al loro interno, ma aggressivi nei confronti di chi cerchi di intralciarli viene cancellato o fatto oggetto di critica, perché ha toccato l’opinione pubblica di un gruppo che sta tentando di trovarsi spazio. Alle volte, sono le stesse piattaforme social a cancellare i profili: c’entra molto l’opinione pubblica, perché determina cosa è sbagliato o no nell’ambito social, che si fanno interpreti dell’opinione pubblica dominante della zona in cui stanno operando. Ci sono comunque sfumature che variano da paese a paese, ma anche nel tempo, perché si acuiscono determinati temi rispetto ad altri. Ad esempio, possiamo pensare alla vicenda di Trump: dopo l’assalto a Capitol Hill, Twitter ha bloccato il profilo di Donald Trump, perché nelle condizioni del social non sono ammessi contenuti che incitano all’odio, dopodiché l’opinione pubblica interviene nel determinare cosa è incitazione all’odio o meno. Ad un certo punto, nell’opinione pubblica americana è sembrato sempre meno accettabile o che fosse possibile e comprensibile sanzionare forme di incitazione all’odio rivolte ai luoghi istituzionali, non più solo verso singole persone. Allora, nell’opinione pubblica dominante l’aggressività all’odio verso le istituzioni era inaccettabile, per cui Twitter si è sentito autorizzato implicitamente a bloccare il profilo di Trump. Questo rapporto tra i media e l’opinione pubblica è stato studiato da sempre, perché la comunicazione attraverso i media viene intesa come uno strumento attraverso il quale legare la società, fornendo un insieme di valori e abitudini che contribuiscono a formare l’opinione pubblica, per cui quello che veicolano i media tradizionali e digitali contribuiscono a raccontare cosa pensa la maggioranza e a fornire dei modelli che fungono da ispirazione. In effetti, i media vengono molto usati nell’ultima direzione, soprattutto, ad esempio, nel mostrato comportamenti inclusivi nei confronti della disabilità e nell’accettabilità sociale, perché fissano certi modi di rappresentare. Ad esempio, nelle ultime Paralimpiadi, si rappresentano serenamente e senza censure i corpi degli atleti olimpici, esattamente come gli altri questo è uno degli esempi pensati attraverso cui i media si fanno strumento di formazione dell’opinione pubblica, attraverso una modalità di rappresentazione della disabilità compatibile con la visione eroica dell’Olimpiade, contribuendo a diffondere un modello inclusivo. Questo è possibile attraverso l’insistenza della rappresentazione e l’atteggiamento di acclamazione della disabilità che le persone rappresentate mettono in scena. Perciò, i media mettono in comune significati sociali (parole, valori, abitudini), ovvero elementi di comportamento e modi. Non sempre c’è una strategia dietro questa rappresentazione per promuovere la formazione di un certo tipo di opinione pubblica, perché molte volte nascono in modo spontaneo. Uno dei primi studiosi dell’opinione pubblica è Walter Lippman, vissuto nel 1922, il quale afferma “ciò che l’individuo fa, si basa non su una conoscenza diretta e certa, ma su immagini che egli forma o che gli vengono date”. L’opinione pubblica nasce quando 2 mediali, dalla radio, agli opinion leader, poi loro portano questo messaggio ad individui meno attivi rispetto alla ricerca d’informazione nella popolazione. A partire da questo modello si smette definitivamente di pensare che il pubblico dei media sia una massa indistinta, cominciando, quindi, a pensare che sia una rete sociale che si mette in gioco e si informa attraverso la figura dell’opinion leader. Gli opinion leader sono la figura chiamata in causa quando si ricercano le origini della figura dell’influencer, che appare come una delle possibili declinazioni. Certo, c’è un legame tra le due figure, ma è il contrario: l’influencer nasce in epoca contemporanea grazie allo sviluppo dei media digitali. Lo studio prosegue, fino a sistematizzare alcune caratteristiche dell’opinion leader per poter essere tale: 1. Literacy: elevata esposizione ai media, cioè tendenza alla ricezione di maggiori informazioni. È colui che consulta tutti i media a disposizione, ma non basta. 2. Commitment: elevato coinvolgimento ed interesse per determinati argomenti; serve la passione. 3. Socievolezza: capacità comunicativa di trasferimento di informazioni a gruppi di individui (gregari), che appartengono allo stesso gruppo sociale. C’è bisogno di reti sociali di riferimenti con cui comunicare e diffondere le informazioni e passioni. 4. Leadership: riconoscimento dal basso, ovvero da parte del gruppo dei pari del possesso di maggiori conoscenze, altrimenti rimane solo una persona informata e appassionata. Senza l’ultimo riconoscimento, non si ha l’opinion leader e il processo non si compie, quindi la nascita dell’opinion leader è un processo reciproco. Lo stesso vale per gli influencer, il riconoscimento non è solo da chi ha determinati followers, ma anche dall’autorevolezza del soggetto. Questi sono gli assi fondanti che valgono anche oggi, anche rispetto agli opinion leader mediali. Successivamente, Lazarsfeld e Katz definiscono altre due caratteristiche dell’opinion leader, ribadendo che esistono due tipologie di opinion leader: 1. Verticali: punto di riferimento per una comunità, riconosciuti in quanto tali dai pari, ma non perché appartengono al medesimo gruppo sociale (Chiara Ferragni) 2. Orizzontali: quelli che agiscono all’interno delle reti sociali, noti solo alla loro comunità di riferimento, parlano all’interno di relazioni dirette o mediate dai social. Abbiamo poi un’ulteriore distinzione: 1. Monomorfi: hanno rilevanza in un solo o in un numero limitato di campi. 2. Polimorfi: l’influenza esercitata non riguarda un solo argomento, ma, più in generale, idee, atteggiamenti, propensioni e scelte politiche come di consumo (sono rari questo tipo di opinion leader). Nel periodo di pandemia, si sono distinti molti virologi, tra cui, questi tre: sono opinion leader verticali e monomorfi, nel senso che hanno visibilità attraverso i media, hanno una specifica area di influenza e sono punto di riferimento per gruppi sociali e culturali diversi. Questo ci fa capire che gli opinion leader non propongono solo una selezione di informazioni che loro hanno in più, ma anche dei modelli interpretativi diversi, diventando così leader di gruppi d’opinione diversi. Troviamo opinion leader anche nel campo della moda, soggetti riconosciuti come influenti nel campo della moda (GUCCI: Alessandro Michele; AMAZON FASHION: Christine Beauchamp). Anche nel campo dell’ambiente, troviamo opinion leader a livello mondiale (Greta Thunberg; Angus Taylor: ministro dell’energia e dell’ambiente in Australia, paese strategico per questo tema). Si tratta di soggetti che sono influenti a livello mondiale. Poi si può scendere a livello locale (virologi) e ancora di più, identificandoli all’interno della rete dei pari. È chiaro che in ogni settore si riconosce sempre un KOL, ovvero un Key Opinion Leader, vitali nel campo farmaceutico, delle compagnie di ricerca, di sviluppo e di marketing, data la difficoltà a comunicare: si tratta di creare dei processi di comunicazioni a più stadi che passano dall’opinion leader e infine alla comunità. Ci sono studi e società che si occupano di individuare gli opinion leader importanti per la comunicazione nel nostro mondo. Gli studi sugli opinion leader si conducono sempre e, ultimamente, sono tornati importanti, in particolari grazie all’avvento dei social media, che diventano luoghi di discussione. Perciò, riemerge, in modo ancora più significativo, la rilevanza della figura dell’opinion leader, con molti studi che rimettono in gioco ciò che avevano detto Lazarsfeld e Katz, cercando di spiegare con forme adatte alla contemporaneità. 5 Riconoscere e classificare gli opinion leader: dopo aver analizzato le caratteristiche degli opinion leader, nel corso del tempo ci si è accorti che sono aumentate. Le tipologie diverse vengono identificate attraverso quattro chiavi: 1. Dimensione dell’influenza (in rete c’è più possibilità di sviluppare leadership a livello globale, anche su uno specifico settore) Locali Globali 2. Dominio di conoscenza Monomorfo Polimorfo 3. Comportamento (emerge con lo sviluppo della rete; al di là di opinion leader che influenzano l’opinione, vi possono essere anche coloro che tendono ad influenzare i loro followers ad un comportamento che va a loro vantaggio e, pur di ottenere il riconoscimento, sono disponibili a sostenere delle opinioni che non sono a favore dei loro followers) Positivo Distruttivo: gli opinion leader distruttivi hanno una personalità egocentrica e tendono ad indurre i followers a modificare le loro opinioni anche in una direzione che può danneggiare loro o l’organizzazione a cui appartengono. *comportamento volitivo di un leader che può o intende danneggiare l’organizzazione di cui fa parte o i suoi followers fanno parte. 4. Dimensione temporale (in rete, è facile che nascano opinion leader aventi vita effimera, magari legati ad un evento di cronaca; sono molto situati nel tempo) A lungo termine A corto termine Caratteristiche dell’opinion leader digitale: uno studio dell’influencer su Instagram individua delle caratteristiche che già Lazersfeld e Katz avevano identificato, tradotti in comportamenti legati al mondo social. Deve essere considerato esperto di un prodotto o di un servizio; Partecipare con alta frequenza e dare un contributo sostanziale, simbolo della sua passione; Deve essere un membro attivo di una comunità online, ovviamente con i toni e i modi con cui ci si esprime; Essere considerato da altri utenti come soggetto che ha buon gusto in relazione alle decisioni di acquisto. Caratteristiche dei contenuti: i contenuti degli influencer, che contribuiscono a farli riconoscere come opinion leader, dovrebbero essere caratterizzati da: Originalità: novità, innovazione e non convenzionalità, autenticità (come forma di risonanza con i propri followers, ma non troppo distanti); Unicità: distinzione rispetto agli altri, facendo emergere determinati opinion leader piuttosto che altri; Qualità: cura dei contenuti e della forma, attrattività, comprensibilità e assertività, funzionalità alla creazione della reputazione; Quantità: quantità di messaggi postati. Caratteristiche del tipo di utenti: esiste una facilità rispetto agli utenti che si incontrano sui social Propensione all’interazione online, anche con chi non si conosce (Twitter); Congruenza dei contenuti del profilo e interessi, gusti e personalità dei followers sia per essere riconoscili sia per raccontare la loro impresa sociale. Lo schema ci racconta che la leadership d’opinione, anche all’interno di Instagram, si basa su due poli: l’account principale e le intenzioni di comportamento dei consumatori/followers. Questo vale sia nella realtà sia sui social. Questo perché, anche all’interno dei social 6 network come all’interno di tutte le altre tipologie di opinion leadership, questi due poli sono quelli che costruiscono la reciprocità di riconoscimento su cui si basa la opinion leadership. A partire da questo schema, i due fattori chiave che portano un utente dei social media ad essere percepito come opinion leader sono l’originalità percepita e l’unicità percepita, poi c’è anche la dimensione del riconoscimento e della quantità, ma i primi due avviano il processo vero e proprio. Dall’altra parte, i followers sono coinvolti nel processo di creazione del valore, per cui vi deve essere l’intenzione di interagire e l’intenzione di raccomandare il profilo ad altri. Inoltre, la sintonia con gli interessi personali influenzano, nella maggior parte dei casi, la scelta di seguire i consigli. Lo schema ci dice che ci sono tre gruppi di elementi chiave che fanno scattare il movimento di costruzione dell’opinion leadership su Instagram dalla parte del content creator sia dalla parte del consumatore. 12/10/2021 Gli opinion leader e Twitter Una delle piattaforme più studiate per definire quali sono i tratti dell’OP nelle piattaforme digitali è Twitter. Qui l’opinion leader riceve tanti contenuti e li condivide, diventano fonti di informazione. Questo ha reso la piattaforma interessante per coloro che vogliono studiare come gli opinion leader agiscono sulle piattaforme social. Osserviamo due caratteristiche per studiare il fenomeno dell’opinion leader: Centralità delle news: gli opinion leader condividono molte informazioni e si fanno portavoce, chi fa da gatekeeper e modellizzatore delle narrazioni sulle news che circolano è in grado di influire almeno sui frequentatori della piattaforma; Molteplicità di relazioni e flussi comunicativi: alcune modalità permettono di far circolare in modo più intenso di quanto avviene su Instagram i contenuti (il tweet e la mention). Su Twitter l’opinion leader è una figura legata alla condivisione di informazioni attraverso un retweet. Quindi, queste due caratteristiche hanno reso questa piattaforma interessante per coloro che volevano studiare come gli opinion leader si organizzano ed agiscono all’interno delle piattaforme social. Le informazioni circolano su Twitter tramite intermediari, ovvero retweet di news e tweet originali di url contenenti news. Queste persone diventano la fonte per moltissimi soggetti a loro volta collegati su Twitter. Dunque, scoperto ciò, ci si è cominciato a domandare le caratteristiche di questi opinion leader, ovvero chi sono: la maggior parte di questi soggetti non sono bloggers, giornalisti o uomini politici, ma fanno parte del gruppo di utenti comuni che, indipendentemente dal loro status e ruolo nella vita reale, diventano fonte di tante altre persone all’interno di Twitter. È vero che sono utenti comuni, ma avranno delle caratteristiche tipiche? È vero che fuori dalla rete fungono da filtro e da narratori delle news, ma qualcosa in comune hanno. Anche su Twitter questi intermediari sono esposti a più fonti mediali, quindi a più informazioni, hanno più followers di altri utenti, quindi hanno più possibilità di essere ascoltati, poi sono più attivi e coinvolti rispetto ad altri utenti (retweetano e commentano di più). Allora, questa scoperta non ci sorprende perché abbiamo capito che queste sono le caratteristiche degli opinion leader, pur essendo online oppure offline, le caratteristiche sono le stesse. Effettivamente, anche su Twitter si crea una rete sociale all’interno della quale chi ha determinati tratti sociali diventa opinion leader, ha un riconoscimento di leadership cambia la forma della piattaforma, ma i meccanismi sono gli stessi, per cui possiamo fare ancora riferimento a ciò che Lazarsfeld e Katz avevano studiato e osservato, nonostante il cambiamento mediale. Tuttavia, abbiamo un secondo tipo di studi, che mostrano gli indicatori rispetto ai quali si riconosce un opinion leader. In un primo momento, ci si concentra sul numero di followers, il che implica una maggior pervasività delle informazioni, ma nel 2011 si comincia a chiedersi davvero se la parte cruciale sia l’avere tanti followers. Il secondo studio, chiamato “The Million Followers Fallacy”, si concentra sugli utenti col maggior numero di follower, i quali possono anche essere molto popolari, però non c’è rapporto di conseguenza diretta tra il grande numero e essere influenti sulla piattaforma. I più influenti sono oggetto di altre attività da parte dei follower: condivisi, citati, ecc., quindi ci si chiede il livello di attività dei follower che definiscono la capacità di influenza. Il punto di partenza del saggio è che gli utenti con il maggior numero di followers certamente hanno più seguito, ma non sono i più influenti, per cui quali sono gli elementi che determinano l’influenza su Twitter, che rendono questi soggetti capaci di agire sulla formazione dell’opinione? Indegree influence: capacità di raggiungere un pubblico più ampio. La popolarità c’entra assieme alla socievolezza, deve esserci, ma NON basta. È una condizione necessaria, ma non sufficiente. 7 intorno come se avesse un “radar”. Dunque, prelevano e tengono sotto controllo le convinzioni di quelli che stanno attorno per non entrare in conflitto, non essere esclusi e vivere meglio all’interno della rete sociale. È importante essere inseriti all’interno di una rete sociale che funge da punto di accoglimento. I media non bastano più, però, per cui l’allineamento deve avvenire all’interno di singoli gruppi sociali a cui gli individui appartengono. Le persone hanno bisogno di essere in sintonia con le singole reti sociali. Ciò che Riesman dice della società post-moderna interessa a Noelle-Neuman, in quanto questo era il suo punto di partenza nella riflessione: ciò che dice Riesman è importante, perché bisogna tenere conto dell’opinione della maggioranza per essere inserito e allineato all’interno della rete sociale. Allora, Noelle-Neuman riprende in mano ciò che afferma Riesman e scrive che in tutti i tipi di società, gli individui percepiscono l’isolamento sociale come un rischio, un problema. Essere esclusi è una situazione di disagio, che ci mette in difficoltà e che cerchiamo di evitare, per cui teniamo sotto controllo ciò che gli altri pensano, tentando di capire ciò che gli altri pensano sui temi divisivi dell’opinione pubblica: gli individui attingono alla loro esperienza personale e si appoggiano ai media che, spesso, si prendono l’incarico di raccontare quali sono le opinioni dominanti, tuttavia si forma un’opinione pubblica duale, ovvero quella che si percepisce all’interno della società e nei media. I media possono dire una cosa A, mentre noi possiamo vivere in un contesto sociale avente opinione B, in contrasto. Quindi, è importante capire che ciò che andiamo a controllare è l’opinione dominante. Noelle-Neuman afferma che abbiamo sviluppato una grande competenza nel capire se il nostro punto di vista determina controversie, collocandoci con l’opinione dominante o meno: sulla base di quello che noi monitoriamo, decidiamo se esprimere pubblicamente la nostra opinione oppure no. Il risultato della valutazione influenza il comportamento, soprattutto nella sfera pubblica, e, in particolare, attraverso il mettere in mostra o nascondere le proprie opinioni, per esempio attraverso l’eloquio o il silenzio. Questa è la sintesi in forma grafica della teoria della spirale del silenzio di Elisabeth Noelle-Neuman. Noi siamo caratterizzati dal tenere sotto controllo la situazione dell’opinione pubblica attorno noi, ma quando percepiamo una discrepanza tra le nostre opinioni e quelle dell’opinione pubblica, ci “allontaniamo”, nel senso che stiamo in silenzio. Questo è un effetto individuale (stiamo zitti o parliamo a seconda di dove ci collochiamo rispetto all’opinione pubblica prevalente), quindi si crea una distorsione, in quanto le altre opinioni ci sono e magari non sono così minoritarie come noi pensiamo. Si crea un’enfasi sulle opinioni dominanti che fanno perdere di vista l’esistenza delle altre opinioni. Nei casi più eclatanti, si ha un’inversione: siamo convinti che tutti la pensino ad un certo modo, quando invece non è così. Tuttavia, anche i media fanno la loro parte, in quanto ci raccontano costantemente l’opinione dominante, anche in modo distonico rispetto a ciò che percepiamo come opinione attorno a noi: ciò che i media presentano come degno di attenzione e significativo “finisce per imporsi come una seconda forma di conformità sociale, a volte persino in contrasto con la percezione primaria degli orientamenti collettivi (Grossi, 2004) questo è un altro effetto della spirale del silenzio. Questo che ci descrive Noelle-Neuman è un’illusione ottica o acustica che riguarda la maggioranza nel generarsi di un processo di spirale del silenzio. Se pensiamo al sistema dei media degli anni ’70, ci sono grandi media broadcast (TV, radio, stampa), che sono in grado di proporre con una certa costanza e ripetizione dei modelli di opinione pubblica (si ripetono racconto simili per tutto il palinsesto). In più, forniscono argomentazioni utili a sostenere la propria opinione, se appartiene a quella dominante. Noi potremmo chiederci se, essendo cambiato il sistema dei media, esista ancora questo ruolo o se possiamo dire che contribuiscono a far percepire un’opinione come dominante. La risposta è sì: i media degli anni ’20 esercitano una funzione di orientamento, che, pur in un contesto mediale diversificato, forniscono contenuti riguardo a temi e posizioni dominanti nel dibattito pubblico (Chadwick 2013), determinando effetti a spirale. “I media possono anche definire e proporre un’opinione dominante anche se non lo è”, e il proporla come dominante provoca un effetto di allineamento sociale. Detta così, però, sembra che la teoria di Noelle- Neuman si perda nel nulla, ma Katz in realtà identifica delle minoranze rumorose che riescono, per alcune caratteristiche che hanno, a farsi sentire e ad avere voce all’interno dell’opinione dominante. 13/10/2021 10 Le minoranze rumorose Sono state studiate da Katz nel periodo di studio alla Colombia University, portando avanti la teoria della spirale del silenzio. Anche se non era ancora il periodo dei social media e dei media digitali, che danno molta visibilità alle minoranze rumorose, egli mette a fuoco la possibilità di un riemergere dei “gruppi minoritari”, i quali possono generare un effetto di spirale e configurare “nuovi” movimenti di opinione. Infatti, nel corso degli anni ‘70, cominciano ad emergere opinioni che non appartengono alla maggioranza, ma che si inseriscono perfettamente: ad esempio, il movimento contro l’ambiente si sviluppa proprio in questo periodo, sebbene la maggioranza sia concentrata sul progresso industriale e la ricchezza, soprattutto in ambito americano. Katz afferma che questi gruppi minoritari non sempre sono minoritari e non sempre finiscono nel cono d’ombra, scomparendo dalla percezione delle persone, tuttavia vi debbono essere delle condizioni per far emergere questi movimenti minoritari: non tutti ci riescono e non tutti diventano presenti e attivi all’interno dell’opinione pubblica. Quali sono le caratteristiche che permettono a queste minoranze di essere visibili all’interno dell’opinione pubblica? Katz ne individua due valide nel corso degli anni ’70, ma che valgono anche oggi: 1. Accesso ai media: TV, spazio social e piattaforma digitali; 2. Coerenza e difesa ad oltranza di alcune posizioni: Black Lives Matter, nell’opinione pubblica americana, è ancora una minoranza rumorosa, purtroppo, ma è una posizione che si è fatta sentire, traducendosi che la vita delle persone di colore vale tanto quanto quella delle persone bianche. Il tema è molto preciso ed è un tema che porta il movimento alla tutela degli afroamericani. Possiamo ricordare anche il movimento NO TAV, in Italia, che, pur essendo dentro al movimento della tutela dell’ambiente, presenta queste due caratteristiche. Quindi, che sia un tema “piccolo” come l’opposizione di una linea ferroviaria, sia uno grande, questi movimenti che riescono a riemergere all’interno della sfera pubblica e a farsi sentire hanno queste due caratteristiche, spesso identificati anche da hashtag e slogan che li qualificano, il che è reso più facile dalla comunicazione social. Oggi abbiamo anche movimenti che, al di là della coerenza, coesione e convinzione con cui si propongono, riescono ad emergere all’interno della visibilità pubblica soprattutto con il modo con cui si propongono: non si limitano a fare proposte più o meno convincenti, ma pretendono di imporle con manifestazioni di piazza nelle quali ciò che conta non è la validità della proposta, ma il clamore che si riesce a suscitare intorno ad essa, il che attira i media (adorano il clamore). Quindi, vi sono elementi performativi all’interno del contesto sociale (manifestazione antinucleare in Giappone; ombrelli gialli ad Hong Kong), perché, con l’evolvere dei sistemi dei media, il tema diventa importante da difendere, ma anche come lo si difende. Questo è la piccola aggiunta che Katz fa alla teoria della spirale del silenzio. Per capire meglio le minoranze rumorose, il tema della formazione dell’opinione pubblica è molto importante, considerando soprattutto i movimenti ambientalisti, che incidono anche il nostro comportamento, e ci tocca da vicino. I movimenti ambientalisti sono nati molto prima del Fridays4Future, nati in un contesto in cui il movimento ambientalista non era per niente al centro dell’opinione pubblica. Sono nati in un contesto in cui il focus era sul progresso industriale, una visione di mondo che si concentrava sullo sviluppo del nucleare, l’indifferenza rispetto al tipo di risorse impiegate, in quanto l’economia e l’opinione pubblica erano indirizzate diversamente. Dentro questo clima di opinione degli anni ’70, nasce il primo movimento ambientalista: Greenpeace nel 1971, ad opera di pochissime persone, che rappresentano la necessità di porre attenzione all’ambiente. Il primo elemento che diventa oggetto di attenzione del movimento sono gli esperimenti nucleari, svolti in Alaska, uno spazio poco abitato, ma, dal punto di vista della natura e dell’ambiente molto ricco di fauna, era adatto ad esperimenti su armi nucleari. L’opinione pubblica che rappresenta questi esperimenti legati alla modalità di esplosione delle bombe vede il progresso industriale, la difesa degli USA e la crescita del paese. Tuttavia, i quattro fondatori di Greenpeace non sono d’accordo e vogliono fare qualcosa di vistoso per protestare; affittano una barca, portano con loro alcuni giornalisti e vanno in Alaska, in un punto che, se fanno esplodere un’altra bomba, si ritrovano 11 nello spazio delle radiazioni. È una posizione che mette chi manda avanti le esplosioni in difficoltà: lanciare la bomba diventando un killer o fermare tutto? Il meccanismo è stato fermato, ma Greenpeace non pensava di interrompere l’intero processo. Questa è una performance costruita in modo da essere molto raccontabile: una piccola imbarcazione che si oppone al gigante statunitense. Lo scopo è quello di far vedere un punto opposto contrario alla prosecuzione dell’armarsi. La notiziabilità si basa sul gesto eroico degli attivisti, che mettono in gioco la loro vita per sostenere il loro punto di vista, il che è costante fino agli ultimi anni di Greenpeace. Come tutti sanno, l’obiettivo di Greenpeace, dalla metà degli anni ’70, è quello di opporsi alla caccia alle balene: il punto di coerenza di tutto è di tutelare l’ambiente rispetto ad una sua distruzione per obiettivi bellici e commerciali. Dal 1975, il topos della narrazione dei media è quello della caccia alle balene. Questa storia ottiene risonanza mediatica e Greenpeace sceglie sempre volutamente imbarcazioni piccole per contrastare quelle più grandi (il piccolo contro il gigante). Nel corso del tempo, Greenpeace si evolve e diventa la tutela dell’ambiente nel suo complesso. Verso la metà degli anni 2000, Greenpeace è diventato un movimento non più minoritario, ma di essere notiziabile e di far sentire la sua voce, per cui si inventa un’altra storia: espongono banner su movimenti di notorietà mondiale. Ecco che Greenpeace si basa sulla notorietà dei luoghi e sul gesto eroico degli attivisti. Piano piano, diventa prevalente il movimento, ottenendo altra risonanza mediatica con il loro punto di vista. Il tema è diventato più ampio, ad esempio quando è ritornato il tema del nucleare, Greenpeace ha rimesso nella sua agenda il tema del nucleare, ma la modalità del racconto è la medesima: la performance si è spostata all’essere legata ai grandi eventi, ovvero all’entrare direttamente nei media, che sono direttamente partecipi all’evento, per cui non è necessario costruire la presenza mediatica (ad esempio, le partite di calcio), il che dimostra il processo evolutivo nello sviluppo delle idee e dei temi. Le caratteristiche sono sempre le stesse, ovvero quelle della narrazione che evolvono nel tempo, legate però a questo esporsi, mettersi in pericolo degli attivisti, andando a toccare dei temi ancora caldi nell’opinione pubblica. Ecco che il movimento non ha più una posizione minoritaria che ha dovuto scalare l’opinione pubblica, ma arriviamo a cartelloni che mettono a fuoco il fatto che dietro ai processi di produzioni di vestiti vi è lo sfruttamento di acqua, animali e le loro pelli, inserendoci già dentro ad un dibattitto presente nell’opinione pubblica (Milano Fashion Week 2014). Inoltre, abbiamo anche attività performative sul territorio, come il flash mob. Il movimento passa ad usare una chiave comunicativa tipica della seconda metà degli anni 2000 fino ad oggi. Questo è un flash mob contro l’uso del petrolio e la salvaguardia dell’orso polare, tuttavia si è perso il gesto eroico, che diventa un gesto performativo: questo perché vi è più attenzione a queste manifestazioni rasserenanti che portano alla luce temi importanti. Questo non è l’unico flash mob che Greenpeace fa, in quanto il flash mob del 2014 si lega anche all’opposizione dei brand, come il flash mob del 2014, che denuncia la collaborazione tra l’azienda Shell e Lego a discapito del consumo di risorse (c’è una differenza abissale tra gli attivisti che inseguivano le barche e ora il flash mob performativo). Oggi c’è anche la possibilità di sostenere Greenpeace, ovvero il plastic radar, ovvero basta inviare una foto su Whatsapp, segnalando dove e in quali spiagge si stanno accumulando le plastiche, il che è un tema molto trattato oggi dai media. Ormai, il movimento si situa all’interno di correnti di opinioni molto forti. Ce ne sono altre che passano direttamente dal sito, ovvero petizioni, donazioni e scaricare kit per controllare la modalità di allevamento da cui proviene il cibo engagement diretto dei sostenitori + produzione di video, che diventano virali all’interno della rete, in parte vengono costruiti citando dei modelli narrativi molto noti, come, ad esempio, il video #WinterIsNotComing, che denuncia il cambiamento del clima, riprendendo scene del Trono di Spade, serie nota. È interessante raccontare la storia di Greenpeace, perché capiamo cosa significhi essere una minoranza rumorosa e il suo sviluppo, dall’inseguimento delle baleniere al flash mob performativo, il che, ovviamente, implica una capacità di evolversi e dialogare sui media, anche seguendo l’evoluzione dei trend mediatici, cercando di dirigersi dove si trovano i media, inserendosi 12 Il secondo mette in luce degli aspetti che non sono totalmente in linea con ciò che dovrebbe essere la formazione dell’opinione pubblica in merito alla monarchia. Quindi, la serie c’entra con la formazione pubblica perché: storia di una famiglia reale storia di un’istituzione fornisce dei quadri interpretativi rispetto ai fenomeni legati alla storia della famiglia La serie fornisce un quadro interpretativo di come la monarchia inglese si comporta, che cosa le condiziona, i momenti salienti dell’evoluzione di questa istituzione, ponendola al centro dell’opinione pubblica, infatti è diventata una serie TV a livello mondiale. Amici non è solo un talent show, ma anche un luogo dove si definisce come si affronta la perfomance, come ci si comporta nei confronti delle persone che si presentano, cosa è accettabile e cosa no all’interno della competizione. Se andiamo oltre, vediamo come queste rappresentazioni incidano nel processo della formazione pubblica, in quanto ci suggerisce, ad esempio, come alcuni talenti siano di maggior rilievo rispetto ad altri. Alle volte, questi talent mettono in scena perfomance con persone che magari non verrebbero osservate, sforzandosi di mettere in scena narrazioni di tipo inclusivo, essendo consapevoli di essere influenti nel processo della formazione dell’opinione pubblica. Quindi, Gerbner afferma che persino nelle scelte politiche e di voto queste forme di narrazione hanno la capacità di incidere sul processo di formazione dell’opinione pubblica, il che ha un fondo di verità, dato che il processo passa da molte vie e canali, con molteplici manifestazioni. Le storie proposte e ripetute dai media si riflettono sul nostro modo di dire e di vedere il mondo, proponendo una visione sempre più omogenea e mainstream: teniamo conto che Gerbner elabora la teoria nel corso degli anni Settanta con i mezzi di broadcasting. Il concetto chiave introdotto da Gerbner è che le storie vengono ripetute dai media, il che incide molto sulla formazione dell’opinione pubblica, trasvelsamente e costantemente ripetuto. Allora, queste storie ripetute incidono ripetutamente nel processo di formazione. L’idea di Gerbner lo porta a riconoscere ai media una funzione particolare, proprio all’interno del contesto sociale, ovvero la funzione bardica: nelle società medievali, inizialmente anche rinascimentali, il bardo, ovvero il cantore/menestrello, raccontava le storie della comunità da una corte all’altra. Quindi, il bardo, tradizionalmente, trasformava la vita quotidiana e le sue preoccupazioni in versi, allo stesso modo come “i media oggi trasformano le nostre percezioni della vita quotidiana in un sistema di linguaggio, ovvero ci propongono mondi, comportamenti e atteggiamenti sotto forma di sotire che narrano presente e passato” (Fiske & Harley, 1978). Altri esempi sono la serie TV I Medici, ma anche i libri, come quelli storici di Alberto Angela. Tuttavia, anche Il Collegio fornisce quadri interpretativi, uniti anche ad una sorta di talent show; Downtown Abbey è un altro esempio; Gomorra incide tanto, perché rappresenta il fenomeno della criminalità organizzata, ma è innovativo, diventando quasi un punto di vista che ci porta dentro il fenomeno, facendoci provare quasi una sorta di empatia; Narcos lavora esattamente nello stesso modo. Da un lato, ci spiegano, facendoci vedere come e perché si radicano in un certo territorio, raccontando le condizioni di vita dei contadini che coltivano l’oppio e altre sostanze stupefacenti fino a come si inseriscono nel contesto sociale; dall’altra parte, vi sono gli spettatori che si affezionano ai personaggi (fandom), generando simpatia ed empatia, incidendo a sua volta nell’opinione pubblica. Questi esempi ci fanno capire che cosa intendesse veramente Gerbner con funzione bardica. John Fiske e David Harley vanno avanti dall’Inghilterra a sviluppare la teoria della coltivazione di Gerbner nel 1978, cominciando a ragionare su quali siano le funzioni dei media all’interno della società. Essi partono dall’idea di Gerbner della funzione bardica, cercando di ampliare ed articolare le funzioni all’interno del contesto sociale. Ciò che è emerso nel loro studio è un insieme di aspetti: Il raccontarci i quadri interpretativi della realtà ci forniscono dei modelli di interpretazione della realtà (es. In Joker la devianza sociale è determinata da condizioni sociali di emarginazione). Coinvolgere un sistema di valori nella società e diffonderli, sono la distinzione all’interno di una società di cosa è considerato positivo e cosa negativo. Spiegare le azioni dei singoli: ci spiegano quali sono i rapporti di causa-effetto all’interno della società. 15 Questi tre aspetti servono a: Rassicurare la cultura della sua adeguatezza o svelarne le inadeguatezze principalici pratiche per farla evolvere, confermando o negando alcuni aspetti della cultura di cui facciamo parte. Rassicurare che lo status e l’identità degli individui è garantita dalla cultura. Trasmettere un senso di appartenenza culturale, che è l’insieme di quanto detto finora. Con tutte queste teorie ci stiamo muovendo in ambiti simili, perché ciò che Noelle-Neuman diceva non è molto diverso da quanto ipotizzano Fiske e Harley. Essi lavorano in parallelo per riconoscere le caratteristiche di tale processo e, a fianco di questa elaborazione, Gerbner individua alcuni temi cruciali in questo processo. All’interno della loro programmazione, i media trattano temi che sono virtualmente in grado di generare un processo di coltivazione (a lungo termine), i quali alimentano il cosiddetto “stereotipo”. Abbiamo sterotipi legati a: Genere/età Salute Scienza Famiglia Educazione Politica Religione Violenza Per verificare quanto detto, Gerbner conduce una ricerca sulla violenza, se effettivamente si può parlare di un effetto di collettivizzazione: egli prende una serie di 2134 programmi veicolati dai media, che hanno messo a tema contenuti violenti, poi viene fatta una survey su persone che li hanno visti nell’arco dei 20 anni, cercando di capire se l’esposizione costante a contenuti violenti ha delle ripercussioni sulle persone e sull’idea del mondo che si sono fatte: ciò che viene verificato è se le persone cambiano il modo di rappresentarsi la realtà, grazie alla ripetizione di un certo racconto dove sono presenti contenuti violenti. Dal 1980, si verifica anche il livello di sfiducia nel prossimo e il livello di alienazione e depressione degli individui. Un esempio è Squid Game, dove i bambini cominciano a ripetere le azioni della serie: è più incisivo il processo di coltivazione nei bambini? Il processo di imitazione del comportamento dei grandi è molto più forte, considerano ciò che accade nel mondo degli adulti da imitare. Ecco che la teoria di coltivazione agisce in modo diverso a seconda che parliamo di bambini o adulti. I bambini NON sono adatti a vedere tutti i contenuti mediali. Questo vale sia per La Casa de Papel e Joker, ma anche per le challenge di TikTok, che sono per un pubblico essenzialmente adulto. Dopo essere sottoposti alla visione di contenuti violenti, noi percepiamo il mondo ancora più violento e pericoloso di quello che è in realtà, perché siamo circondati da rappresentazioni che insistono su questa dimensione e sul tasso di criminalità, pur essendo, magari, con scopi nobili, mettendo in luce delle criticità. Noi tendiamo ad immaginare il mondo come più pericolo di quello che è, una percezione di allarme sempre maggiore. Ad esempio, noi abbiamo individuato, come cultura e paese, la questione dei femminicidi piuttosto che delle relazioni pericolose e tossiche, sfociando in soprusi e violenze: questa è stata indicata come un’inadeguatezza della nostra società, che andava scoperta e denunciata. È successo che la rappresentazione di questo tipo di relazione è impennata, soprattutto i casi di cronaca, la visibilità, l’identificazione con un termine preciso, podcast sull’argomento (es. Selvaggia Lucarelli). Tutto questo che parte da uno scopo positivo per riconoscere i campanelli d’allarme ha aumentato nelle persone la consapevolezza della criticità della questione, ma, contemporaneamente, la realtà delle giovani donne contemporanee percepisce molto più frequentemente questo tipo di relazione noi ci immaginiamo un mondo avente delle distorsioni grazie al fatto che i media ci ripetono alcune storie. Ad esempio, parlando del livello di sfiducia nel prossimo e nella società si parla della situazione dell’uomo moderno, che sta peggiorando sempre di più con le istituzioni che non si curano dei figli, lasciandoli a se stessi risultato della teoria della coltivazione. C’è un differenziale di coltivazione, perché chi consuma di più questo tipo di contenuti violenti ha una percezione più violenta rispetto a chi ne consuma di meno: parliamo di forti, medi e deboli consumatori di media. Una ricerca fatta su così tanti anni e programmi può consentirci di dire che questo effetto è presente nella nostra società, anche incrementato dai canali tematici, aumentando anche questo differenziale. 16 La teoria di Gerbner non focalizza sul singolo prodotto mediale, ma su quelli che si definisce “pattern stabili di significato”. Infatti, secondo Gerbner “vivere in un ambiente simbolico nel quale certi tipi di istituzioni creano certi tipi di messaggi porta a coltivare (supportare, sostenere e nutrire) certi tipi di coscienza collettiva (formazione dell’opinione pubblica)”. Nel proseguire della ricerca, emergono alcuni elementi che favoriscono lo svilupparsi di questo effetto di coltivazione, ad esempio le relazioni sociali dei pubblici (fattori di socializzazione): o I forti consumatori che vivono in contesti sociali omogenei sono più esposti a fenomeni di coltivazione, quindi si tende ad accettare il punto di vista dominante; o “Mainstreaming significa che i telespettatori forti possono non tenere conto delle differenze di prospettiva e di comportamento che, normalmente, provengono da altri fattori e influenze”. Osservando questo grafico, notiamo come l’effetto di coltivazione sia presente attorno a chi ha persone con opinioni forti. Con l’evoluzione della ricerca, inoltre, un altro fattore interveniente è l’effetto di risonanza, ovvero che i telespettatori che fanno esperienza di situazioni simili a quelle rappresentate sono più sensibili al contesto del messaggio (es. chi vive in contesti con alto tasso di criminalità). Vi sono diversi tipi di effetti di coltivazione: 1. Effetti di primo ordine Il pubblico adotta letture e interpretazioni del mondo, offerte dalla televisione, che sovrastimano alcuni fenomeni (es. numero di crimini). 2. Effetti di secondo ordine Il pubblico mutua dai media attitudini, sentimenti e valori. Nel corso degli anni ’80, la teoria della coltivazione prosegue e rimane indiscussa fino agli anni 2000, tuttavia è lecito chiedersi se oggi abbia senso: rispetto ai media tradizionali, sì, ha senso, mentre, invece, viene messa in discussione dai nuovi media digitali. Quali sono i problemi per la teoria? Abbiamo: Molteplicità di canali, di risorse e di effetti (es. personalizzazione del consumo) Ripetizione di contenuti simili Molteplicità di piattaforme Differenziazione dei modi e dei tempi del consumo Maggiore selettività del consumo La prima risposta è che bisogna dimostrare come siano cambiati i media rispetto alla coltivazione. Anche se il consumo della TV continua ad essere centrale nel consumo, verrebbe a mancare il sistema di comune di messaggi, che genera l’effetto di coltivazione. Inoltre, la demassificazione della comunicazione di massa rende difficile immaginare la coltivazione di una visione del mondo mainstream, uno storytelling di massa. Non è vero che non esista più un consumo collettivo, ma, per quanto riguarda gli altri, è che noi siamo davanti a forme di storytelling, ma che agiscono in modo targettizzato, cioè la teoria della coltivazione ha effetto anche su singoli gruppi di utenti che condividono certi contenuti. Su questi gruppi, addirittura, può essere più significativa. L’effetto di coltivazione si crea in modo collettivo: “visto che ci sono numerose visioni del mondo disseminate all’interno dei nuovi media, la teoria di coltivazione può slittare verso una visione nella quale gli individui sono coltivati da specifiche visioni del mondo selezionate in base alle loro scelte” (Chaffee, Metzger, 2001). Inoltre, questa personalizzazione della coltivazione può anche aumentarne gli effetti (Jamieson, Romer, 2017), rendendo più incisiva la coltivazione. Alla fine, in rete, l’effetto di coltivazione ci rende consumatori di contenuti, caratterizzati da grande omogeneità, costruendo un consumo molto omogeneo, che magari condividiamo con persone dai nostri stessi interessi consumiamo contenuti uguali, per cui siamo con persone omogenee e l’effetto di coltivazione sale. Quindi, grazie al fenomeno della risonanza, l’effetto di coltivazione si potenzia anche nei nuovi media quando le visioni del mondo proposte collimano con quelle del pubblico selettività L’esposizione selettiva nei media digitali 17 molto simile alla misinformation: tutto ciò che è “relativo o che denota circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione, che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali” o su quello che la nostra rete sociale ci comunica più significativamente in termini di partecipazione emotiva, condivisione di idee, ecc. Quando si entra in relazione con le fake news, coerenti con il proprio punto di vista, si innescano processi di proattitudinal information, ovvero la ricerca di informazioni coerenti a conferma. Ad esempio, nell’ambito dei social, una delle tante fake news che possiamo incontrare mi dice che sui social media l’utenza maggiore è tra i 18-25 anni, il che è palesemente falso, almeno in Italia. Tuttavia, per quella determinata fascia la notizia conferma un percepito; in questo caso, si innescano i meccanismi di proattitudinal information, ovvero l’andare ad informarsi su questa affermazione, confermando così la fake news, proprio perché siamo abituati a muoversi dentro ad un contesto pieno di echo chambers e filter bubbles. Questo meccanismo, innescato da tutti i meccanismi precedenti a proposito dei social media, è questa ricerca di informazioni a conferma di ciò che sperimento nella vita quotidiana, che, però, può essere parziale tutti questi meccanismi favoriscono questa dinamica, creando a loro volta misinformation. Tutti questi processi portano ad un’opinione pubblica frammentata e fortemente polarizzata, fatta di gruppi opposti ad altri, in cui i processi di radicalizzazione delle posizioni politiche nella contemporaneità fa sì che la ricerca di informazioni sia: Partisan – polarizzata Finalizzata a confermare la propria identità Legata all’appartenenza di reti online I media, dialogando con le audience polarizzate, producono contenuti rivolti specificatamente a loro. Alle volte, tutte queste dinamiche di conferma derivano dal fatto che, magari, a partire da un’unica fonte (es. foto di allevamenti intensivi), ha cominciato a metterla in circolazione. Dopodiché, dal sito, 10 persone la postano su Facebook, altre 10 su Instagram. Su Facebook, dalle 10 persone iniziali si arriva a 100 persone che condividono, attraverso molti flussi di comunicazione e assumendo forme diverse per ciascuno di essi questo è l’effetto a cascata, caratterizzato da: o Condivisione diretta della fonte; o Condivisione di qualcuno che descrive e commenta la fonte; o Fonti della fonte che sono state recuperate online. Questo effetto costruisce credibilità, perché la percezione di chi riceve l’informazione è che questa sia confermata e condivisa da molte fonti diverse, anche se, alle volte, all’inizio della cascata, c’è un’unica fonte non sempre verificata. Nell’ambito del processo di costruzione dell’opinione pubblica, l’effetto a cascata agisce sulla percezione della realtà che ci circonda e delle sue caratteristiche, perché contribuisce alla trasformazione in informazione reale delle voci, dei rumours che circolano in rete e alla definizione rilevante di un tema, in base alla quantità di condivisioni che ci raggiungono. Quindi, alla fine di tutto, possiamo dire che la coltivazione è attiva anche oggi nei media digitali, con un’esposizione selettiva. Joshua Meyrowitz ha scritto “Oltre il senso del luogo” negli anni ’80, adottando un nuovo approccio dei social media, in particolare sui bambini. Fino ad adesso, abbiamo visto studiosi che si sono occupati dei processi di formazione dell’opinione pubblica, mentre Meyrowitz è interessato a come l’evoluzione dei social media influenzi le relazioni sociali e la vita quotidiana. Nel suo libro, Meyrowitz mescola gli approcci di McLuhan e Goffman, due sociologi, riprendendo dal primo l’idea che le caratteristiche tecnologiche dei media influenzano il modo in cui, in uno specifico contesto sociale, si percepisce e si rappresenta l’asse spazio-temporale; dal secondo, un sociologo della vita quotidiana, riprende che le relazioni comunicative avvengono all’interno di situazioni che contribuiscono a definire ruoli, regole e finalità dell’interazione anche attraverso la distinzione tra ribalta e retroscena1. Allora, ciò che interessa a Meyrowitz del discorso di Goffman è che sono molto importanti all’interno di un contesto sociale i modi con cui definiamo le situazioni 1 Metafora del palcoscenico: “La vita quotidiana come rappresentazione” di Goffman è il suo testo più importante, nel quale egli afferma che è importante la distinzione tra ciò che viene messo effettivamente in scena dalle persone e il backstage. Ciò che noi esibiamo e ciò che noi “nascondiamo”, riservando ad una rete molto intima, sono elementi che caratterizzano le culture, che si differenziano anche per dove pongono questa distinzione tra scena e retroscena, che influenzano la situazione comunicativa e i ruoli che ricopriamo questo è l’approccio di Goffman: come le persone si organizzano bene per vivere in società senza incomprensioni. 20 comunicative, in particolare cosa consideriamo pubblico e cosa retroscena, che ha a che fare con lo spazio, collegandosi, quindi, a McLuhan. Ciò che Meyrowitz ci dice è che il sistema dei media in cui noi viviamo cambia ciò che noi consideriamo pubblico o privato, per cui cambiano le regole dell’interazione sociale: in effetti, è vero! La televisione funziona come una macchina che espone i retroscena (“secret exposing machine”), che permette agli individui e ai gruppi di guardarsi gli uni gli altri in modo innovativo (es. i reality show), per cui la TV ha funzionato molto come strumento di spostamento della distinzione tra ciò che noi consideriamo visibile e backstage. Inoltre, queste trasformazioni hanno cambiato i ruoli del divenire (es. il passaggio all’età adulta), per cui i media elettronici estendono l’accessibilità delle informazioni (discorsi, backstage) relative all’età adulta anche ai più piccoli socializzazione anticipatoria essere esposti e dover interpretare i comportamenti degli adulti molto prima più di quanto tradizionalmente si fa. Questo meccanismo spiega anche come i bambini siano sottoposti a questi processi anticipatori in una fase della loro vita in cui non sono in grado di farli propri, ad esempio la conflittualità (nelle family series o nei teen movies viene raccontata la dimensione conflittuale del mondo degli adulti e di fragilità a cui i bambini sono chiamati ad una socializzazione anticipatoria). Questo effetto imitativo dei comportamenti violenti è un ulteriore effetto di socializzazione anticipatoria. 26/10/2021 L’approccio culturale di Meyrowitz Meyrowitz suggerisce un approccio culturale, in particolare guarda alla vita quotidiana: vuole capire come il sistema dei media influenza la nostra vita quotidiana e come la presenza ampia della TV – per lui – impatta su alcune dinamiche della vita quotidiana. Questo cambio di sguardo si lega al fatto che Meyrowitz riprende due grandi studiosi, ovvero McLuhan e Goffman, che sono due approcci diversi. Cosa serve a Meyrowitz del discorso di Goffman: il sistema dei media influenza la nostra capacità di distinguere ribalta e retroscena, tuttavia egli aggiunge che l’approccio di McLuhan lo si può vedere anche come i meccanismi della società riorganizzano la distinzione e la nostra vita sociale. Perciò, le due teorie trovano convergenza nell’analisi di uno specifico oggetto, anche nel contesto contemporaneo: la strutturale delle situazioni sociali e comunicative, in quanto i media mutuano i contesti dell’interazione e le loro dimensioni spazio-temporali. Mutuano le regole dell’interazione sociale (ruoli, contesti e regole) Spostando i confini tra visibile e non visibile, accessibile e non accessibile, pubblico e privato Secondo Meyrowitz, noi ci dobbiamo poter muovere tra spazi di ignoto e noto. Posta questa premessa del sistema dei media degli anni ’80, Meyrowitz afferma che vi sono tre tipi di ruoli che vengono riconfigurati o messi in discussione da questo cambiamento/tipicità del sistema dei media: 1. Ruoli dell’essere : la distinzione tra uomini e donne (= distinzione di genere) I media elettronici estendono l’accessibilità delle informazioni (discorsi, backstage) relative all’identità di genere anche all’out group. Sono spazi riservati e semplici, costruiti tendenzialmente non accessibili allo sguardo dell’altro genere dove si condividono forme di backstage che poi verranno messe in scena (es. spogliatoi). Il fatto che esistano spazi di backstage non accessibili all’altro serve a costruire l’identità dei ruoli dell’essere. Cambia chi condivide informazioni con chi: la TV mette in scena forme articolate per un genere, ma, in realtà, si è aperta anche con persone di altro genere (i factual e i reality hanno esposto una parte allo sguardo altrui). Li ha resi più fluidi e completi nel formare gli sguardi di backstage, addirittura si tolgono forme all’altro genere per passarlo all’altro. Il backstage è più trasversale. 2. Ruoli del divenire : sono i ruoli di passaggio (es. il passaggio all’età adulta) I media elettronici estendono l’accessibilità delle informazioni (discorsi, backstage) relative all’età adulta anche ai più piccoli (vengono mostrate la fragilità e la litigiosità, di solito tenute nel backstage). Socializzazione anticipatoria 3. Ruoli dell’autorità : cambiano i ruoli autoritari (es. i ruoli legati a posizioni istituzionali) 21 I media elettrici estendono l’accessibilità delle informazioni (contenuti riservati) e al retroscena della vita delle persone che rivestono ruoli di autorità. Diminuzione dello status (diffuso accesso alle informazioni): questa visibilità sul backstage privato è anche sulle competenze, per esempio 50 anni fa o si studiava Medicina o si ascoltava il medico. Oggi, si è costruita una via di mezzo, attraverso una progressiva esposizione delle competenze mediche (The Medicals) nelle serie TV, cominciando a raccontare i processi di diagnosi pura, esponendo una serie di competenze. Riduzione dell’autorità (rappresentazioni di ruolo potenzialmente messe in crisi): questo vale per tutte le figure che hanno un ruolo autorevole. Backstage delle figure istituzionali: informazione sulle political series, come possiamo vedere nell’immagine, che rappresenta Obama in un momento di riposo nell’ambito della campagna elettorale, tanta è la necessità di raccontare un backstage rappresentabile e coerente con il personaggio. L’autorità si costruisce anche attraverso l’accesso esclusivo a conoscenze specifiche. Quando l’accesso è generalizzato, l’autorità si indebolisce. Meyrowitz spiega come la TV ha influenzato i vari ruoli sui due piani della ribalta e del backstage. Quindi, che cosa rimane fuori da questo sguardo? Meyrowitz afferma che vi è un profondo retroscena, che resta non visibile, per cui lo sguardo che noi abbiamo sul mondo che ci circonda è cambiato, assieme alla situazione sociale. Quando ci troviamo all’interno di un sistema dei media diverso, cambia tutto: Meyrowitz parte dalla TV come medium centrale, ma, con il passare del tempo e l’evolversi delle tecnologie, lo sviluppo di Internet ci costringe a riconfigurare un modo ancora nuovo e diverso delle situazioni sociali, perché l’uso dei social media è, in realtà, in parte delocalizzato, non è collegato ad uno spazio di ribalta e retroscena, ma soprattutto possono inserire situazioni di backstage dentro spazi pubblici ci costringe a decidere quale situazione comunicativa privilegiare, dunque siamo noi che dobbiamo definire qual è la situazione comunicativa che stiamo vivendo: ad esempio, se mi trovo in uno spazio pubblico con il computer e il telefono, dentro allo spazio pubblico, mi ritaglio una bolla dove vi è l’incursione dello spazio privato e del backstage (un altro esempio è la chiamata privata che arriva sui mezzi pubblici). I media ci chiedono continuamente di prendere delle decisioni su cosa si sta facendo e dove lo si sta facendo, slegandosi dalle caratteristiche dello spazio fisico che ci circondano. Comunicazione digitale e società Quali sono gli effetti sulla società dello sviluppo delle tecnologie digitali? o Uno di questi è l’individualismo, un minore investimento delle relazioni sociali nello spazio fisico. o Vi è disponibilità di maggior informazione, anche troppo. o La dipendenza dai social media, dalla rete e dai dispositivi mobili. L’avvento delle piattaforme digitali ha messo in gioco un tipo di piattaforme nuove che ha cambiato l’assetto della società. Il primo studioso a concentrarsi su questo approccio è uno studioso portoghese, che ha cominciato a studiare la network society, ovvero che cosa succede nel momento in cui la rete si innesta su una serie di altri fenomeni che noi conosciamo. Negli anni Ottanta, qualcosa nel sistema mediale e televisivo cambia: Il pubblico e la comunicazione mediale sono sempre meno “di massa”; Le audience sono sempre più segmentate, anche per gruppi e caratteristiche sociodemografiche; I prodotti mediali riescono a soddisfare le esigenze dei singoli (ci sono già dei dispositivi mobili); L’offerta mediale si pluralizza e si diversifica; Il consumo si personalizza: nascono i primi dispositivi mobili personali, portatili tattici e connettivi (walkman, videoregistratore, videocamera). questa evoluzione avviene in sintonia e in sinergia con lo sviluppo di Internet e l’evoluzione del contesto sociale verso la Network Society. Osservando tutto questo, il sociologo portoghese Manuel Castells comincia a studiare la Network society, pubblicando una trilogia (1996 - 1998): 1. The Information age 2. The Rise of the Network Society 3. The Individualism age 22 2. Prodotto culturali scambiati dagli utenti (meme, gif, post): li condividiamo per dire qualcosa ad altri. Quindi, nella connective society le persone alimentano le loro relazioni sociali impegnandosi quotidianamente in un lavoro di produzione culturale. Mass self-communication: comunicazione individuale di massa, che caratterizza la connective society. Gli autori di questo tipo di comunicazioni siamo noi in quanto utenti della rete, soggetti che producono i contenuti della self-mass communication. All’interno della rete, si realizza una comunicazione che o Potenzialmente è ancora di massa o Caratterizzata da forme del contenuto nuovo (post, meme) o Ha al centro l’io: autogenerata (contenuti), autodiretta (emissione, cioè a chi è rivolta, il target), autoselezionata (ricezione, cioè contribuisce a selezionare su quali contenuti fermarsi) o Molti a molti La mass-self communication definisce una nuova posizione del soggetto nella comunicazione: da oggetto (destinatario) a soggetto (emittente e destinatario) Il senso della posizione nella comunicazione: consapevolezza di avere un nuovo ruolo comunicativo. Nella società e questo è il frutto di tutti i processi di cui stiamo parlando, il frutto della nuova posizione che noi siamo consapevoli di avere. o Tematizzazione generalizzata del quotidiano, che ha effetto su scala globale: “non esiste ambito sociale che non sia comunicabile in modo istantaneo all’interno delle reti di comunicazione, al punto che i vissuti quotidiani tendono ad essere tematizzabili come fatti pubblici”. Se già Meyrowitz negli anni ’80 riprendeva Goffman con la metafora del palcoscenico, la connective society il confine rimane spostato verso la visibilità, per cui la vita quotidiana ha effettivamente acquisito cittadinanza all’interno dello spazio pubblico. Tuttavia, tutta questa visibilità arriva anche a chi non dovrebbe, per cui si verifica il fenomeno del collasso dei contesti, descritto alla fine del 2008 da degli studiosi di social media, in particolare da Danah Boyd. Si tratta di un fenomeno secondo cui noi non governiamo i destinatari del nostro contenuto, per cui, alle volte, i nostri post arrivano a soggetti che non ricordiamo essere nelle nostre reti, esponendoli a persone estranee (Facebook). Ci sono delle tecnologie e dei loro aspetti che sostengono la connective society e i suoi effetti, ovvero: Tecnologie di produzione diffuse: (videocamere) in modo qualitativamente significativo, che ci permette di produrre contenuti (smartphone, occhiali che registrano, fanno video e foto, rendendo wearable le tecnologie di produzione). Tecnologie di disintermediazione: capaci di produrre contenuti ma anche di metterci in connessione con figure istituzionali e famose, facendoci sentire protagonisti del discorso pubblico. La connective society è caratterizzata dalla cultura della connessione, ovvero una cultura in cui le strutture dei social media sono entrate gradualmente al centro delle nostre routine e pratiche quotidiane. Platform society L’elemento che caratterizza la nostra società contemporanea è questa infrastruttura di piattaforme sociali. L’opera omonima, di José Van Dijck, spiega proprio queste piattaforme. Secondo la studiosa, una piattaforma è un’architettura digitale programmabile, progettata per organizzare interazioni tra utenti, ma non mettono in contatto solo utilizzatori finali e singoli, ma anche imprese commerciali e istituzioni pubbliche. Sono un’infrastruttura e un insieme di strumenti digitali che noi utilizziamo per entrare in relazione con i soggetti che ci interessano. Sono tutte quelle strutture su cui noi abbiamo appoggiato la nostra 25 in grado di raccontarsi, autorappresentarsi, essere esposti ai commenti. vita quotidiana da anni. L’altro elemento che Van Dijck mette in chiaro è che la platform society poggia su delle piattaforme NON separate dalle altre, per cui abbiamo a disposizione un insieme di risorse che non sono indipendenti e non possono fare a meno l’una dell’altra: si parla di “ecosistema di piattaforme”, ovvero un assemblaggio di piattaforme interconnesse, governate da un particolare insieme di meccanismi che modellano le pratiche quotidiane. Per cui, quali sono i meccanismi che influenzano queste piattaforme e, di conseguenza, la nostra vita quotidiana? La studiosa afferma che nell’ecosistema di piattaforme coesistono due tipi di piattaforme: 1. Le piattaforme infrastruttura, che formano il cuore dell’ecosistema su cui le altre app e piattaforme vengono poi ad appoggiarsi: Big Five o FAMGA (Facebook; Apple; Microsoft; Google; Amazon). Esse funzionano da online gatekeeper (filtro), gestendo, incanalando e archiviando il flusso di dati che circola in rete. Oggi, il grosso flusso di gatekeeping ci arriva dalle piattaforme, nel senso che i criteri che utilizza Google per mostrarci i risultati della nostra ricerca è già una prima opera di gatekeeping. 2. Le piattaforme di settore, che sono incorporate nell’ecosistema complessivo all’interno di specifici settori (news e giornalismo, spostamento e alloggio, medicina, istruzione, ecc.). Sono altrettanto importanti, ma non completamente autonome, perché dipendono dalle Big Five (i sistemi di geolocalizzazione dipendono da Google Maps), ad esempio per l’approvvigionamento di servizi ed informazioni. Vengono sviluppate e, spesso, integrate, influenzando l’organizzazione di specifici settori. Al cuore di questo sistema delle Big Five, la colonna portante, è Google (oppure Alphabet), che fornisce numerose risorse chiave per l’ecosistema ed è il principale gatekeeper dei nostri social: Google Search: vi sono combattuti e sparuti competitors che non sono in grado di scalfire il monopolio delle nostre ricerche, affidato a Google Search Google Chrome: si sta affermando come browser Google Play: app store, che filtra i criteri di qualità secondo cui vediamo per prime delle app a discapito di altre Android: sistema operativo Android Pay, Google Wallet: servizi di pagamento, ovvero tracciamento dei nostri acquisti e delle nostre transazioni digitali AdSense: programmazione pubblicitaria suv Internet, media la comunicazione commerciale delle imprese YouTube: sito di video sharing Google Hearth: sistema di informazione geospaziale, su cui si basano le altre app Google Meet: sistema di videoconferenze Google Drive: sistema di cloud e pacchetto Google di supporto a lavoro. Accanto a Google, vi è Facebook: 80% dei servizi di social network nel mondo È il mediatore del 60% della pubblicità online, assieme a Google Servizi di identificazione online (accedi con Facebook) Controllo sul traffico dei dati mobili degli individui (app). In ascesa, vi è poi Amazon: Rete digitale di vendita Distributore di contenuti Leader di mercato nel campo dei server per il cloud, quindi moltissimi dei servizi che hanno bisogno di spazio per i loro contenuti e distribuirli si servono di Amazon, come, ad esempio, Netflix. Questo ha mosso Amazon nel creare la sua offerta di Prime e di contenuti unicamente Amazon. Al centro della produzione hardware, c’è anche Apple: Leader della produzione di hardware Gestore del secondo app store per grandezza, piazzandosi come secondo mediatore di contenuti Posizione rilevante in termini di servizi di cloud e streaming (Apple TV, Apple Pay, Accedi con Apple). L’ultima, ma non meno importante è la company store di Microsoft: Posizione monopolio di computer e software tecnologici Social network (LinkedIn e Skype) 26 Cloud (Microsoft Store) Contenuti per gaming. Tutte queste Big Five detengono il primato, forniscono infrastrutture anche alle piattaforme più innovative: o Spotify si appoggia a Google Cloud o Netflix ad Amazon web service o Games agli App Store o Le applicazioni pubbliche alle infrastrutture private Le piattaforme di settore sviluppano una parte di offerta propria e si appoggiano alle Big Five. Il loro ruolo è di fungere da connettori tra utenti e fornitori: Microimprenditori (Uber, AirBnB), ovvero soggetti che non sono imprenditori, sono persone comuni che avviano queste microscopiche attività, appoggiandosi alle piattaforme di settore (ad esempio, Google possiede il 20% di Uber) Imprese complementari tradizionali , che si appoggiano alle piattaforme (Deliveroo, JustEat, Booking.com). 03/11/2021 The Platform Society Il punto di approfondimento di oggi si basa sugli elementi costitutivi (tratti comuni delle piattaforme) e gli “effetti sociali” delle piattaforme: dagli elementi costitutivi derivano degli effetti sociali sul contesto. ELEMENTI COSTITUTIVI: i dati Le piattaforme si basano sulla raccolta di grandi quantità di dati, relativi ai contenuti prodotti e ai comportamenti degli utenti capitale o data capitalism o capitalismo dei dati all’interno del funzionamento delle piattaforme di settore e delle Big Five, i dati costituiscono un elemento di scambio, raccolti con molta cura. Il data capitalism significa che quanti più dati una piattaforma è in grado di raccogliere, tanto più è in grado di spenderli in una relazione con altri soggetti (imprese) ed è in grado di guadagnare denaro e potere all’interno delle piattaforme. Ad esempio, Google è in grado di raccogliere moltissimi dati grazie al comportamento degli utenti, ma sappiamo che per Google non ci si limita solo al motore di ricerca, ma a tante altre piattaforme grazie a cui l’azienda può accumulare dati molto ingenti. Questo capitale non spendibile sul mercato in termini di investimenti deve essere convertito in denaro: si fa pagare alle aziende la possibilità di far arrivare i loro messaggi precisi ai vari utenti + l’azienda vende i propri dati (geolocalizzazione, come per AirBnB) a dei fornitori di servizi. La raccolta di dati è consentita e modellata da hardware e software: Device: utilizzati per accedere, che incorporano software e app che raccolgono dati; Clik del mouse: indirizzi, geolocalizzazione, interessi, ecc.; Social buttons e i pixel: i social buttons sono tutte quelle attività che siamo incoraggiati a fare, ovvero condividere un contenuto. Noi lasciamo traccia del nostro avvicinarci ai format e ai contenuti online (meccanismo di retargeting): man mano che ci avviciniamo a spazi di siti web di aziende o di commerce, possiamo incontrare delle pagine che sostengono i meccanismi di retargeting, ovvero quando siamo preliminari all’acquisto o alla nostra identità digitale con cui navighiamo, si aggancia un piccolo pixel, in grado di seguire per poco tempo cosa fa il nostro ID. Non si tratta di tracciare i nostri acquisti, ma di seguire i nostri percorsi per un certo tempo in modo da ripetere l’advertising della pagina su cui siamo atterrati. Chiaramente, vi è un altro supporto per i dati, ovvero i cookies. Semplicemente, non ci seguono, non si attaccano come i pixel, ma consentono di tracciare quale navigazione noi facciamo all’interno delle pagine, se vi ritorniamo e quali altre pagine visitiamo. Se fossero solo questi, causerebbero problemi di privacy. Esistono però altri tipi di cookies, ovvero i cookies di terze parti, dove si esce dal rapporto di trasparenza e causano problemi di privacy: i dati di navigazione escono dal rapporto tra me e l’azienda, poi vengono ceduti a società di marketing, di mercato o a terzi soggetti non meglio definiti. Queste terze parti raccolgono i dati di navigazione da molti siti ed elaborano dei profili, che vengono venduti per attività di marketing e pubblicità. Ecco perché viene chiesta la possibilità di autorizzare l’utilizzo dei dati, infatti vi sono tre possibilità: accetto tutti i cookies, accetto i cookies per la profilazione per terze parti e accettare cookies per 27 anche da un punto di vista economico. Fa riferimenti ai sistemi di regolamentazione americani rispetto alle transazioni economiche e alla tassazione dobbiamo sapere che parliamo di cose situate nel mondo e nello spazio, di puro business e non in modo astratto. Certamente, è una piattaforma che supporta il movimento sul territorio, ma si tratta di realtà concrete e situate. 10/11/2021 ELEMENTI COSTITUTIVI: modello di business Ogni piattaforma ha il suo modello di business che si basa, nella maggior parte dei casi, sulla connessione iper-profilata tra utenti, contenuti, dati e pubblicità: tornando indietro alla storia di Facebook e prendendo come esempio il film “The Social Network”, c’è stato uno scontro tra Zuckerberg e il suo socio per la diversità di idee nel campo tecnologico ed economico. È una storia che si ripete, ma quello che porta avanti la storia di Facebook è questa intuizione che Zuckerberg ha sin dall’inizio, ovvero di dare una dimensione economica alla piattaforma. Siamo nel 2005, dove Facebook è in fase embrionale e ancora utilizzato da studenti di Harvard, però egli pensa che alle aziende faccia piacere farsi pubblicità sulla piattaforma, per cui apre degli spazi di comunicazione pubblicitaria all’interno della piattaforma, facendo comparire dei banner all’interno di Facebook. Questa è la svolta, perché la pubblicità entra subito nel mondo tecnologico. Il valore aggiunto che Facebook dà a questa possibilità è quello di avere un target preciso (studenti di Harvard e altre università prestigiose), ma, qualche anno dopo, Zuckerberg si inventa il sistema Beacon, ovvero un accordo con le aziende che fanno pubblicità per cui si mettono in comune dei dati. Le aziende che hanno un sito web mettono in comune con Facebook i dati di navigazione sul loro sito e Facebook può così far comparire dei messaggi, che, ad esempio, comunicano che l’utente X ha visitato un certo sito web. Il problema che nasce all’interno di questo modello Beacon è un problema di privacy, anche se poi, su quel modello, Facebook creerà il suo modello di business questi messaggi sono pubblicati senza l’autorizzazione degli utenti. Il valore si misura attraverso attenzione, dati e valutazione degli utenti, oltre che denaro su questo si basa il modello di business dell’azienda Meta. Le possibilità di declinazione di questo modello di business sono: Richiesta di commissioni: si chiede ad altre piattaforme di pagare per avere accesso a dati che servono per far funzionare un’offerta di servizi; Estrazione di valore da dati (pubblicità) Proposte di sottoscrizione ai dati: è possibile pagare un abbonamento per avere dei dati aggiuntivi relativi al comportamento degli utenti di una piattaforma, ad esempio; Cessione a pagamento ad altre aziende o governi dei dati di profilazione: ad esempio, le aziende pagano Google per i servizi di geolocalizzazione. AirBnB richiede commissioni a chi affitta. È in grado di raccogliere dati profilazione sui suoi utenti, oltre che ad avere i propri pacchetti, offrendo agli inserzionisti pubblicitari il pacchetto di utenti per fare pubblicità. ELEMENTI COSTITUTIVI: condizioni di utilizzo (terms of service - TOS) Ogni piattaforma stabilisce con i propri utenti un patto normativo che definisce obblighi e possibilità d’uso, per cui impongono norme e valori, definiscono le prerogative dei gestori delle piattaforme rispetto agli utenti e variano da paese a paese (ad esempio, Twitter America ha bloccato Trump sulla piattaforma per aver violato le norme guida della community). Questi sono i TOS di Facebook Italia: leggendo questo, ci si rende di quando apriamo un profilo social, cioè cediamo implicitamente i nostri dati alla piattaforma, quindi anche condivisione di quello che pubblichiamo con soggetti terzi, aziende e partner. Questi TOS hanno anche la parte che impone a noi delle regole non proprio rigide, ma sono vincoli legati a contenuti che non possiamo pubblicare sui social, legati semplicemente a grandi questioni mondiali. 30 All’interno della Platform Society, contenuti, informazioni e prodotti culturali circolano e raggiungono gli utenti attraverso le piattaforme social, che, di conseguenza, diventano: 1. Mediatori dell’accesso alle informazioni e alla cultura secondo la logica algoritmica: dal sistema dell’industria culturale che filtra il nostro accesso alle informazioni, ha logiche di natura algoritmica, ovvero il filtro è all’arrivo, ne vedo una selezione prevista appositamente per me. Cambiano le logiche secondo cui i prodotti diventano più o meno importanti. Questo è un effetto sociale e culturale importante, perché cambiano le modalità d’accesso alle informazioni! 2. Il secondo impatto sociale che José Van Dijck individua sono le regole della convivenza, cioè da un lato dobbiamo importare e dall’altro elaborare delle regole per la vita social, che influenzano anche la nostra vita offline. Ad esempio, su Instagram è corretto andare a guardare le storie di una persona che è uscita con una mia amica? È maleducato, parzialmente invasivo e pone un problema, perché le nostre regole di convivenza vengono elaborate in modo sociotecnico, nel senso che non sono due mondi separati, ma sono due mondi che, interagendo tra loro, creano una visione di vita diversa che tiene conto di possibilità alternative. Certamente, le possibilità offerte dalle piattaforme c’entrano con questo bisogno di negoziazione e creazione di nuove regole, nel senso che se la piattaforma permette di guardare le storie pubbliche di gente che non conosco mi consente la rielaborazione di regole: ecco che le interfacce (affordances) fornite dalla piattaforme influiscono su quali regole elaborare riguardo ai comportamenti degli utenti. Le affordances offerte dalle piattaforme contribuiscono a modellare la socialità online e offline attraverso il metodo del sharing e following, strutturate attorno ad azioni pre- codificate (espressioni delle emozioni; pratiche come il follow, il tag, lo share e il commento alle storie), che pongono delle questioni legate all’elaborazione delle regole e all’acquisizione dei codici di espressione del nostro interesse dei social. Da qui, troviamo la datification, ovvero la codifica dei comportamenti e delle emozioni per poterle standardizzare ed elaborare in forma di dati. Questa datificazione si trasforma/ha come esito naturale La mercificazione, ovvero la trasformazione dei contenuti ed emozioni in merci, che possono essere scambiate all’interno e all’esterno delle piattaforme. Inoltre, troviamo anche la selezione, dove gli utenti vengono indirizzati verso specifici contenuti e oggetti secondo un principio data driven, ovvero alimentato dal flusso di informazioni originato dagli utenti. Le piattaforme hanno anche modificato le piattaforme, contribuendo a modellare il modo in cui si producono, si consumano e si condividono i contenuti: le piattaforme incoraggiano gli utenti a produrre continuamente contenuti, “un insieme di beni che devono essere continuamente investiti, nutriti, gestiti e sviluppati” (Martin 2000). Noi dobbiamo continuare ad agire su queste piattaforme producendo contenuti la nostra espressività viene utilizzata come un bene economico. Van Dijck afferma la rappresentazione del sé è rappresentata come una collezione di gusti, consumi e stili (in base algoritmica) ed è l’elemento su cui siamo maggiormente chiamati ad interagire. Inoltre, la rete di contatti è anche finalizzata ad ottenere vantaggi di visibilità, popolarità e autopromozione. Le informazioni sono ampie, ma mai complete, ambigue o fraintendibili. La trasformazione di Facebook Allo stesso modo del caso di Cambridge Analytica, c’è bisogno di studiare l’evoluzione e la trasformazione di Facebook. Dunque, Zuckerberg ha annunciato che l’azienda si chiamerà Meta, che fa riferimento allo sviluppo futuro della sua azienda, ovvero il metaverso; è un’altra parola utilizzata per indicare la realtà virtuale, ma con una parola ripresa dalla letteratura di fantascienza degli anni ’90. Siamo di fronte al processo di rebranding di un’azienda che gestisce l’80% delle comunicazioni nel mondo, per cui è rivoluzionario. L’idea di Zuckerberg è nata fondamentalmente dal business, perché Facebook ha delle criticità di immagine che si susseguono con una certa regolarità. Inoltre, Facebook ha dentro Instagram, WhatsApp e Messenger, per cui ha scelto un nome che riposiziona l’azienda nell’immaginario, che ha una determinata vision e posizionandosi come imprenditore visionario (al pari di Elon Musk e Steve Jobs, ad esempio). Dentro Meta, inteso come social network, troviamo Instagram, WhatsApp, Messenger e Oculus, una piattaforma di scambi. Questa idea di costruzione della realtà virtuale viene definita come “un insieme 31 di spazi virtuali da creare ed esplorare con altre persone che non si trovano nel tuo stesso spazio fisico”, pubblicando anche un video di presentazione con Khaby Lame come testimonial. Questo è un mondo complicato con altrettante difficoltà nel gestire le piattaforme. Guardando il video della presentazione sul profilo ufficiale di Zuckerberg, i concetti sono tre: 1. Immersione all’interno dello spazio virtuale 2. Incontrare persone da tutto il mondo senza muovermi da casa 3. Il target è quasi esclusivamente giovane, quindi è un’evoluzione pensata per intercettare qualcosa di nuovo mai offerto al pubblico giovanile. Questa idea del Metaverso si appoggia su due linee di sviluppo attive: Acquisizione e finanziamento di Oculus nelle interfacce per poter utilizzare il Metaverso Sviluppo e finanziamento di Horizon Workrooms, una piattaforma finalizzata all’utilizzo aziendale. La parola Metaverso appartiene alla letteratura fantascientifica degli anni 90, in particolare nel romanzo di fantascienza “Snow Crash” di Neal Stephenson del 1992, facendo riferimento ad un immaginario per i giovani che collega a questo decennio delle origini questa idea. Quindi, il Metaverso che Zuckerberg si immagina nasce già verso la fine degli anni ’80, quando è stato prodotto in modo funzionante il Dataglove, un guanto con fibre che tracciavano e riconducevano il movimento della mano per interagire e compiere azioni in uno spazio ricostruito all’interno del computer, tuttavia i costi esorbitanti ne hanno ridotto la produzione, finalizzandolo all’addestramento dei piloti della NASA per abituarli in anticipo. 16/11/2021 Nel 1992, vi è stata la diffusione di romanzi di fantascienza con mondi paralleli ambientati in un futuro tecnologico, dove persone entrano ed escono da un mondo virtuale. Si tratta di narrazioni distopiche e problematiche, con effetti negativi sulla vita delle persone, costruendo però la possibilità che i computer siano luoghi dove potervi abitare anche fisicamente. Nelle immaginazioni più coraggiose si pensa a come la fisicità del nostro corpo attraversi lo schermo del computer. L’interfaccia era il guanto tecnologico e il visore, entrambi la prima interfaccia in questo ambito digitale, ma ridotta ad ambienti estremamente circoscritti. In realtà, questo immaginario legato alla realtà virtuale non finisce negli anni ’90, ma cresce piano piano e il primo mondo dove viene applicato al di fuori dell’addestramento dei piloti è quello del gaming: è un’industria estremamente redditizia e ha molti fondi a disposizione, quindi è sempre avanti nello sviluppo tecnologico. Non sono di certo ancora interfacce delle PlayStation, ma dei cosiddetti spazi arcade o sale giochi, dove propongono queste strutture di cybergaming, in cui ci si trova per non perdersi o farsi del male al giocatore, che ha la possibilità di immergersi in questa realtà virtuale, isolandosi dal mondo reale. Tutto questo ci riconduce al mondo di oggi, quindi agli anni 2000 con l’enhanched reality. Alla fine degli anni ’90, vi è una battuta di arresto perché il mondo creato nei computer non ha ancora raggiunto una forte dimensione estetica come succede nei giorni di oggi, anzi è rigido, vi sono ambienti con un rendering non realistico e le applicazioni rallentano. All’interno dell’enhanced reality si è completamente immersi nella realtà virtuale, ma sono libera di muovermi all’interno del mondo fisico, ma con interfacce che mi permettono di allungare il mio spazio fisico all’interno del mondo virtuale. Questo significa che non c’è un avatar che si muove al posto mio, ma sono io che mi muovo nello spazio virtuale. Molto spesso si tratta di interazioni 1 a 1, tra lo spazio fisico e il mondo virtuale. Quando Zuckerberg parla di Metaverso, intende proprio quest’ultimo modello: Oculus è un visore cieco, che non permette di vedere lo spazio reale, quindi una parte del progetto di Zuckerberg fa riferimento alla parte di storia dedicata allo sviluppo dell’immersione. Inoltre, l’altro aspetto evidenziato è la socialità, che si lega a questa dimensione della realtà virtuale: essa viene da un altro aspetto che caratterizza la storia degli ambienti virtuali, ovvero è un ambiente virtuale multiutente, sviluppato a partire dal 2003 (in parallelo con la Wii), ovvero un ambiente virtuale sviluppato a computer con un avatar che si muove dalla ricerca sulla realtà virtuale degli anni 90 e dall’immaginario sul cyberspazio, nasce Second Life, con una discreta qualità di personaggi 3D e gli avatar, tuttavia è complicato muoversi all’interno di questa interfaccia, tuttavia per l’epoca, la qualità della resa e degli ambienti è accettabile. 32 Utente: input in termini di like, commenti e azioni Algoritmo: elaborazione degli input sulla base di logiche prefissate Utenti Denaro Si tratta di un processo con caratteristiche economiche specifiche, all’interno dei mercati multisituati, ovvero sono dentro ad un meccanismo economico che, a partire dai dati che le piattaforme hanno a disposizione, permettono di fornire utenti ai fornitori di servizi. Inoltre, abbiamo anche la pubblicità personalizzata, nel senso che l’accesso e i contenuti sono offerti gratuitamente per massimizzare il numero di utenti e facilitare la raccolta dei loro dati, oltre al fatto che i contenuti sono generati dagli utenti. Noi abbiamo la percezione di utilizzare gratuitamente le piattaforme, dato che nessuno ci chiede di pagare per entrare all’interno di esse, dato che è chiaro che più utenti ci sono, più le piattaforme funzionano, più i dati aumentano e noi li utilizziamo questi dati, che verranno poi venduti alle agenzie di inserzioni pubblicitarie. Perfino l’accesso ai dati (data services) viene venduto gratuitamente per garantire la presenza di terze parti nel mercato delle piattaforme, così che le piattaforme possano offrire a pagamento specifici servizi a settori precisi, come l’informazione e la salute. Quindi, tutti gli elementi di gratuità che noi cogliamo nelle piattaforme sono funzionali per le piattaforme. L’altra offerta è quella Freemium, ovvero la versione di base gratuita di un prodotto, mentre la versione con servizi più ampi è a pagamento. Un importante passaggio è stato il mercato two-sided, con i fruitori da un lato e i produttori di un contenuto dall’altro e, in mezzo, le testate giornalistiche che fungono da mediatori: le testate giornalistiche devono passare dalle piattaforme per connettere lettori e inserzionisti. Questa dinamica, che introduce meccaniche in più, ha impattato sul settore che era solitamente caratterizzato da mercati diversi. Dunque, le piattaforme diventano filtro d’incontro tra cittadini/consumatori e istituzioni/aziende. Gli utenti, con la propria autopromozione, sostengono questo processo perché incrementano click, like e il traffico dati. 17/11/2021 Noi non sappiamo come ci arrivano le cose sulle piattaforme, quindi tutti gli elementi di non trasparenza sono elementi critici o quantomeno ai quali dobbiamo stare attenti e consapevoli, per cui noi paghiamo con i nostri dati l’uso dei social, dandoci un’idea di apparente gratuità, solo che non lo sappiamo. Un altro aspetto delle piattaforme su cui punta l’attenzione Jose Van Dijck è la selezione. SELEZIONE I contenuti a cui gli utenti accedono sono frutto di quel processo di selezione, basato sugli algoritmi dei social e a cui noi partecipiamo con le nostre selezioni, quindi le piattaforme esercitano un processo di selezione basato sugli algoritmi, ma il processo ci vede partecipi perché siamo utenti che lasciano tracce in rete. È un meccanismo che integra quello che gli utenti fanno con il funzionamento degli algoritmi, per cui tutti i media, che poggiano sulle piattaforme, sono chiamati media algoritmici, ovvero tutti quei mezzi di comunicazione che distribuiscono contenuti sulla base degli algoritmi o, meglio, li distribuiscono sulla base delle analisi predittive a partire dai nostri dati (data driven). Gli utenti, interagendo con le piattaforme, condizionano la visibilità e la disponibilità online di determinati servizi e contenuti, dato che noi non siamo totalmente passivi, ma volontariamente attivi, perché lasciamo in modo parzialmente consapevole delle tracce possiamo anche guidare secondo il nostro interesse i social. Avviene la selezione di piattaforma, ovvero la capacità delle piattaforme di attivare e filtrare l’attività dell’utente, interagendo con le piattaforme, possono condizionare la visibilità e la disponibilità online di determinati contenuti, servizi o persone. Questo meccanismo ha dei margini di imprevedibilità, perché il funzionamento degli algoritmi non sempre è prevedibile: si può prevedere più facilmente la scaletta del TG di domani, sapendo che ci sono dei criteri impiegati per selezionare ed organizzare i contenuti, ma posso difficilmente prevedere l’ordine e la gerarchia degli argomenti all’interno dei social, dato che non vi è solo il criterio dell’algoritmo, ma anche la partecipazione attiva degli utenti. Ecco che sono nate le operazioni di visibilità in rete, finalizzate a 35 promuovere la visibilità: si tratta di gruppi di persone significative che agiscono da motore degli algoritmi, in modo che certi tipi di notizie rimangano in alto nel processo di selezione algoritmica (es. JFK junior, uno degli 11 figli del fratello di JFK, sconfessato dagli Americani, che appartiene alla setta negazionista e complottista, che diffonde fake news a proposito della vicenda pandemica, per cui i suoi profili sono stati bloccati e sta girando il mondo per diffondere le sue idiozie). Tutto il funzionamento dei media algoritmici non sempre è trasparente, tanto che noi non sappiamo cosa succede in questa “scatola nera”, che, però, funge da filtro tra i nostri input e output. Apparentemente, il processo di selezione operato dai social dovrebbe essere trasparente, ma anche quello in rete dovrebbe essere così. C’è questa black box, di cui conosciamo il funzionamento in entrata e l’effetto in uscita, ma non ne conosciamo perfettamente o non abbiamo totale trasparenza di ciò che succede in mezzo, ovvero ignoriamo le logiche interne. Per lungo tempo, questa è stata una delle logiche funzionali degli algoritmi, ma, rispetto alla trasparenza, se non vedo la fonte di link o post è chiaro che si privilegia fonti non verificabili rispetto a post con fonti più facilmente verificabili con link di una testata giornalistica, ad esempio. Quando noi navighiamo sui social, non sappiamo veramente cosa succede. In questo, Van Dijck individua tre processi di selezione algoritmica, che guidano ciò che arriva sui nostri schermi: 1. Personalizzazione: si basa sulle analisi predittive delle nostre scelte passate (interessi, desideri, esigenze di ciascun utente), che generano offerte coerenti nei confronti dell’utente. Un meccanismo fondamentale è l’analisi predittiva, nata per offrirci un mondo mediatico personalizzato, basato sull’offerta dei contenuti. Se abbiamo dei dubbi su che cosa significhi questo meccanismo, pensiamo a Netflix e a come viene articolata la sua offerta. In realtà, ma soprattutto all’interno delle piattaforme social, non si basa solo sulle nostre scelte, ma anche sull’osservazione di quanto accade attorno a noi, per cui si basa anche sull’affinità, sulla prossima con la propria rete sociale (esplicita dentro le piattaforme), sulla prossimità con le persone che noi seguiamo e, infine, sulla prossimità alle pagine o ai gruppi di cui facciamo parte, considerando anche azioni e preferenze di gruppi più ampi. Se mostriamo un aggiornamento a cento utenti, ma solo ad un paio ci interagisce non lo mostriamo nei feed di tutti gli utenti potenzialmente interessati. La logica della popolarità e della reattività al like immediato sono sempre importanti, ma hanno tante declinazioni. 2. Reputazione e trend: nel funzionamento algoritmico e delle piattaforme viene tenuto conto anche delle reazioni che gli utenti hanno nei confronti dei trending topics non solo su Twitter, ma anche su tutte le altre piattaforme, dove i temi che appaiono trending in alcuni momenti specifici vengono proposti con maggiore frequenza. Su Instagram non abbiamo visibilità dei trending topics, ma la piattaforma sì che lo vede. Dentro ai dati che sono visibili solo a livello di piattaforme, vi compaiono anche quelli sui trending topics. In alcune piattaforme è trasparente (Twitter), mentre in altre no (Instagram). Di questi trend le piattaforme tengono conto nel proporci i contenuti, tenendo conto di cosa piace agli utenti localizzati, tuttavia questi temi vengono proposti con maggiore frequenza, quindi vi è maggiore incidenza sui contenuti che rappresentano un trend. Ad esempio, vi è stato un periodo in cui imperversavano su tutte le piattaforme i video fatti sulla base musicale “Jerusalema”, che hanno rappresentato un trending topic proposto e riproposto anche a gente che non aveva mai messo like o condiviso video con questa canzone: è diventato visibile nel feed di chiunque e, alle volte, ha generato anche dei problemi, poiché questa coreografia, fatta durante un’esercitazione della Marina Militare, ha quasi costato il posto a chi l’aveva organizzata, dato che non era esattamente opportuno. Esiste una spinta esercitata verso di noi da contenuti che sono trending in un certo periodo e momento all’interno delle piattaforme che noi frequentiamo. Questi sono i criteri che entrano in gioco indipendentemente dalle nostre azioni o dalle azioni della rete sociale più vicina: uno è quello sovrastante dei trending topics, l’altro è quello dei contenuti con una “buona reputazione”. La selezione algoritmica privilegia i contenuti con una “buona reputazione”, quindi contenuti che, secondo i criteri, hanno molte reaction e commenti in poco tempo, indipendentemente dalle azioni. Da un lato, questo genera una pressione a commentare e recensire in modo da creare una reputazione degli altri utenti e dei contenuti/prodotti, andando a generare un effetto di clickbait che privilegia contenuti divisivi. 36 Le testate giornalistiche sui social, ad un certo punto, hanno cominciato a postare contenuti divisivi o provocatori, come La Repubblica. Questo generava un afflusso negativo e positivo di commenti, il che faceva salire in visibilità i post pubblicati dalla testata giornalistica. Questo meccanismo è diventato talmente scoperto che hanno ridotto questo tipo di contenuti. Ad esempio, SkyTG24 oggi ha le stories, i post e così via: la notizia clickbait è che Valentina Ferragni posta una foto della sua operazione ad una cisti, sensibilizzando alla prevenzione della nostra salute. Il post genera una quantità di commenti altissima, che lo rendono molto visibile anche al pubblico giornalistico, prelevando i contenuti e trasformandoli in notizie. Ormai molte organizzazione, istituzioni e movimenti usano questi aspetti tipici della reputazione algoritmica, alcuni molto al limite. Sulla base di questa “reputazione”, si propone di attribuire fiducia agli altri, ai prodotti o ai servizi: anche nei siti di commerce questi commenti generano il ranking, a cui, poi, si vanno ad unire altri criteri. 3. Moderazione: esistenza di un moderatore che interviene e seleziona, perché non tutto il funzionamento algoritmico è automatizzato. Riguarda il ruolo attivo che le piattaforme assumono nella creazione dei contenuti: le piattaforme selezionano alcune tipologie di contenuti che non ritengono adatte e le rimuovono, quindi le tolgono dal loro flusso. Ogni piattaforma definisce i propri criteri di accettabilità dei contenuti e ne privilegia alcuni, definiti nei termini di servizio proprio come insieme di valori che ogni piattaforma si dà. Per esempio, Facebook punta principalmente sui criteri di: Sicurezza: Facebook dichiara di rimuovere contenuti che intimidiscono o minacciano altre persone, che escludono o limitano il diritto di espressione altrui e ritiene che, attraverso queste due azioni, si pone l’obiettivo di rendere la piattaforma un luogo sicuro dalle minacce e dalla limitazione del diritto di espressione. Purtroppo, non riesce sempre, ma se viene segnalato un post con una minaccia esplicita nei confronti di qualcuno, lo valuta e lo rimuove. Autenticità: rappresentazione non fuorviante della propria persona. Questa immagine rappresenta i criteri di Facebook e i grandi assets valoriali su cui le app mantengono il confine, dove non vi è una questione che è diventata progressivamente cruciale, ovvero la verità, su cui le piattaforme, nella loro attività di moderazione, non prendono posizione, in quanto è difficile. Riconoscere un post con contenuti violenti è facile e quasi automatizzato. Ad esempio, in occasione delle ultime elezioni americane, Trump aveva pubblicato dei tweet dicendo che le elezioni erano state truccate, con il risultato che Twitter ha bloccato il suo profilo. Quello che preme sottolineare è che, nell’attività di moderazione e nei criteri definiti, tutt’ora la verità NON c’è. Ad un certo punto, prima ancora delle ultime elezioni americane, le piattaforme hanno dovuto prendere posizione rispetto alla verità e ciascuna ha fatto le sue scelte. Facebook ha deciso di lavorare da moderatore, quindi costruire o continuare a costruire ciò che stava avviando, ovvero un team di giornalisti che lavorano nella piattaforma, rintracciano e cancellano i profili che diffondono fake news. A febbraio 2020, questa scelta è stata avviata. Twitter ha deciso di orientarsi verso fonti affidabili, quindi è intervenuto sui propri algoritmi e ha fatto in modo che, ogni qualvolta qualcuno cercasse “Covid-19” nella barra di ricerca, la prima scelta fosse il profilo dell’OMS e dei vari ministri della Salute Pubblica, assumendo un vero e proprio ruolo da mediatore tra l’utente e le fonti affidabili. Altre piattaforme che si sono mosse sono Pinterest e TikTok, app di creator, però: hanno messo avviso sui loro profili, costruendo avvisi che dicevano che, prima di pubblicare contenuti riguardanti il Covid- 19, rimandavano alle pagine dei rispettivi ministri della Salute, invitando a consultare le fonti ufficiali. A marzo 2020, Facebook si è arreso e ha adottato questa direzione, integrando anche fonti giornalistiche di testate ritenute affidabili. Tuttavia, non ci si è fermati qui e si è andati avanti fino ad un secondo step, ovvero il creare dei punti di informazioni sul Covid interni alle piattaforme, 37 funzionava bene ironicamente viene ripreso grazie agli hashtags, dove si sono stratificati titoli e commenti, diventando una notizia di cui si è persa la fonte principale. Da questa storia, impariamo che nel processo di misinformation ci sono tre questioni: 1. Flussi di condivisione : questi flussi vengono anche chiamati flussi di comunicazione a cascata, per cui nella vicenda di Tucker l’informazione arriva attraverso flussi diversi. Ad esempio, il tweet di Tucker si è diffuso attraverso 350.000 condivisioni. Questo è dovuto a tante diverse configurazioni di utenza, tra cui: o Fonti interdipendenti; o I membri del gruppo su Reddit, che sono anche o Membri del gruppo Free Republic Dalle attività di social sharing da parte degli utenti, le cui bacheche sono state raggiunte da utenti di piattaforme diverse, condivisi da profili e pagine differenti oppure da amici, il tweet viene ricondiviso e raggiunge flussi contemporaneamente, attribuendogli un valore di verità fortissimo. Lo studioso Kumpel, che si è dedicato a ricostruire questi flussi di comunicazione a cascata, afferma che i fenomeni di cascata all’interno delle reti social si attivano quando la condivisione avviene a partire dall’osservazione delle attività degli utenti connessi, di cui vengono ulteriormente distribuiti i contenuti. In Facebook – e in generale nei social media – l’informazione può diffondersi attraverso una sovrapposizione su larga scala di brevi catene di condivisione. Secondo Sun, “un turbinio di catene tutte iniziate da diverse persone che agiscono indipendentemente, spesso convergono su un gruppo di amici e conoscenti”: spesso non veniamo raggiunti che passano da più fonti, ma veniamo raggiunti da flussi di comunicazione molto brevi, dunque questo effetto di verità e ridondanza del diffondersi delle notizie è potenziato dal fatto che si tratta di catene corte. In alcuni casi, la ri- condivisione avviene accreditando la fonte che ha condiviso il contenuto, mentre in altri casi no (secondo Dow, nel 2013): Nel primo caso, si condivide direttamente il post del contatto attraverso cui si è venuti a conoscenza del contenuto. Nel secondo caso, la fonte non viene accreditata e si recupera direttamente una fonte più lontana (un sito, un forum o un blog), anche se non si tratta necessariamente della fonte originale. Queste dinamiche rendono molto difficile arrestare la circolazione del tweet di partenza. Infatti, è molto difficile riprodurre le stesse dinamiche di attivazione multipla dei flussi di circolazione dei contenuti, nel momento in cui si voglia rendere nota una rettifica, fatta sulla stessa testata giornalistica. Davanti all’attivazione dei flussi a cascata, far arrivare una smentita è molto complicato. 2. Omofilia delle reti : è “l’attrazione tra soggetti dovuta alla presenza di tratti comuni e la tendenza di questi ad associarsi e a stabilire legami con altri simili” (McPherson, L-Smith Lovin) L’omofilia esiste anche nei social media, dove molti autori hanno confermato il contributo nello strutturare le reti di relazioni degli individui, influendo sul loro comportamento comunicativo (Barberà 2015; Colleoni, Rozza e Arvidsson 2014; Conover, Ratkiewicz e Francisco 2011). In rete, questo gruppo di autori che ha studiato in forma omofila le reti sociali, ha sottolineato che l’omofilia di status (basata su caratteri come l’età, la religione e l’etnia) è molto meno influente. Tuttavia, online conta molto di più l’omofilia dei valori, basata su valori, attitudini, credenze. Tuttavia, l’omofilia ha degli effetti: Percezione di somiglianza incrementale o Più percepisco alcuni soggetti come simili, più io interagisco con loro ( like, share, mention); o Più interagisco con loro, più evidente è la somiglianza questa è la dimensione incrementale. 40 La percezione di omofilia incrementa la quantità di relazioni comunicative che si instaurano tra due o più soggetti e questa densità di relazioni incrementa anche la percezione di essere simili – Barnett e Benefield, 2017 I contenuti diffusi all’interno di reti omofile acquistano particolare valore proprio in relazione al fatto che vengono ricevuti in modo selettivo, in quanto corrispondono a interessi, temi e valori propri di una specifica rete sociale – Baresh 2011 Sviluppo di sistemi di significati condivisi: o Il circuito chiuso di relazioni tra soggetti che si percepiscono come simili genera sistemi simili di interpretazione dei fatti e degli eventi. Un’importante studiosa del mondo delle piattaforme social è Danah Boyd, che, per prima, ha alimentato la criticità del mondo delle reti e in un suo intervento ha affermato: 3. Logiche di credibilità : i contenuti condivisi da un “contatto social”, che condivide le proprie posizioni culturali o narrazioni degli eventi acquisiscono un surplus di credibilità. Nel caso di Austin, la maggior parte delle condivisioni avviene all’interno di reti omofile ed è molto veloce. Il tweet di partenza viene rapidamente incluso in flussi di comunicazione, che coinvolgono individui impegnati politicamente, che filtrano più facilmente i messaggi, privilegiando fonti a loro vicine, evitando le informazioni che possono mettere in discussione le loro posizioni. Un caso simile può essere all’inizio del Covid, quando sono circolate notizie sulla sua provenienza. Di fonti certe, non ce n’erano. Il caso di Fedez, che sponsorizza il nuovo album, mentre i giornalisti pensano che si candidi veramente alle elezioni del 2023 (#fedezelezioni2023): è più un gioco che una fake news, tuttavia è interessante perché sfrutta i meccanismi appena visti per costruire un momento di visibilità e poi riportato alla realtà dei fatti, ovvero la promozione dell’album. 24/11/2021 Come si sviluppa la fiducia nei social media? La fiducia è la misura della certezza che un soggetto o più soggetti si comporteranno nel modo previsto condivideranno un contenuto degno di fiducia e credibile, non falso. Dunque, noi ci muoviamo in modo più o meno fiducioso quanto più ci aspettiamo che i contenuti all’interno del medium siano veri, credibili e degni di fiducia. All’interno dei media, questo sistema di fiducia è traballante sia nei confronti delle persone sia dei contenuti, perché noi non siamo certi o non ci approcciamo al mondo social con l’ingenua credenza che tutto è vero, siamo più sospettosi. La fiducia è una precondizione della comunicazione, che mina la fiducia reciproca, quindi anche comunicare diventa più difficile in quanto ci troviamo di fronte a degli interlocutori che, di fronte ai media e ai social, hanno un atteggiamento sospettoso. Questa fiducia è stata chiamata in vari modi, tra cui principio di carità o principio di benevolenza interpretativa, che indica l’atteggiamento di apertura e riconoscere che l’altro si rivolge a noi con atteggiamento positivo. Il filosofo Gadamer l’ha chiamata anche accordo portante su cui si basa la relazione comunicativa. Senza di essa, noi mettiamo in atto una possibilità di scontro. Se ci guardiamo attorno, vediamo che siamo all’interno di un contesto sociale caratterizzato più dallo scontro che dalla comunicazione interpersonale, dato che la conflittualità si basa su relazioni che non sono caratterizzate da un principio di fiducia. Noi confidiamo nel fatto che: 41 L’altro possa ascoltarmi e capirmi L’altro abbia qualcosa di significativo da comunicarmi (è l’aspetto più difficile e verso cui siamo più sospettosi) Devono esserci questi due atti di fiducia, altrimenti la comunicazione diventa conflittuale. Queste due condizioni e atti di fiducia sono la base pre-razionale della vita sociale, nel senso che la fiducia reciproca sta nel fatto che l’altro: o Sia come appare o Sia quel che dice e quello che dimostra Inoltre, ci sono atti pre-razionali all’interno della comunicazione, nel senso che bisogna confidare che: o L’altro creda alla verità di quello che dico o Alla verità della mia “faccia” Noi siamo disponibili a credere nel fatto che gli altri: o Non manipoleranno la comunicazione o Si porranno in modo cooperativo, rispettando gli impegni o Saranno sinceri su di sé e sul mondo. Tuttavia, è necessario parlare della credibilità, che è un aspetto molto importante che si costruisce su due poli: 1. Credibilità proiettata: quella che io faccio vedere 2. Credibilità percepita: quello che gli altri riconoscono a me in termini di fiducia Sulla base di ciò, noi costruiamo la nostra credibilità su questo gioco e un contributo arriva da Quandt, uno studioso, che, anche nell’opinione pubblica, il peso di un’unica opinione pubblica dominante è meno rilevante, mentre sono più importanti le opinioni dei singoli gruppi. Questo autore viene citato nuovamente perché fa un altro discorso riguardante i media. Quandt afferma che, nella società contemporanea, abbiamo progressivamente perso fiducia nei grandi sistemi mediali come fonte di informazione, ad esempio CNI (programma americano di spessore), per cui abbiamo attribuito maggiore fiducia alle reti e alle fonti comunitarie (emittenti locali e gruppi di quartiere), pensate per audience specifiche, che consentono un dialogo e un coinvolgimento diretto degli utenti. Questo è un cambiamento culturale che riguarda il sistema dei media e la società intera, ma ormai è un cambiamento consolidato. Tutta questa evoluzione ci porta, in realtà, verso un cambiamento che non è solo un abbandonare progressivo e sistemico della fiducia sistemica, ma ci porta anche ad un cambiamento che riguarda diverse forme di credibilità proiettata: 42 Tuttavia, noi privilegiamo tutte le relazioni basate sulla fiducia interpersonale, basata sulla rete di relazioni reciproche e le sue qualità. È un tipo di fiducia più astratta, che si è andata progressivamente sostituendo all’altra. Dunque, il tipo di fiducia nei confronti del grande contesto sociale sta calando ed è grave, perché la fiducia sistemica regge il funzionamento delle organizzazioni e delle istituzioni, nelle loro regole quando c’è – ed è giustificata – la conflittualità sociale è molto più ridotta e la serenità con cui ci si muove all’interno del contesto sociale è maggiore. L’aumentare della fiducia interpersonale è stato sostenuto nei social media dall’intensità delle relazioni reciproche, cooperative e regolari (like reciproci, attenzione costante, ecc.) Ecco che si parla di un senso di familiarità diffusa, dando un senso non solo di appartenenza, ma anche di percezione di una costanza affettiva, relazionale e comunicativa che i social gli attribuiscono. Da un lato, ci conforta, dall’altro incrementa il fatto che esse sono il nostro punto di conferma e di appoggio della credibilità e della veridicità di ciò che ci viene detto. Questo accade non solo nel mondo dei giovani, ma anche degli adulti. ma senza essere una testata accreditata e riconosciuta anche del punto di vista legale. Si verifica un mix del consumo nativo delle notizie si forma così una disaggregazione tra la circolazione di notizie ed il concetto di testa giornalistica negli anni 2000. Riaggregazione operata dalle piattaforme social; riaggregazione di notizie proposte dalle piattaforme dove i social cercano di muoversi e sfruttare il fatto di poter veicolare news e fare informazione; le piattaforme social cercano di fare informazione soprattutto attraverso piattaforme come Facebook, attraverso gli “instant articles”: tipologie di articolo giornalistico, non scritte da Facebook, ma che Facebook proponeva di pubblicare alle testate direttamente sulla piattaforma. Il primo strumento attraverso cui le piattaforme social si collocano nel mondo dell’info viene da Facebook, ovvero gli instant articles. Oggi Facebook li ha abbandonati, ma erano articoli che Facebook proponeva alle testate di pubblicare direttamente sulla piattaforma. Adesso non conviene più, perché gli utenti lasciano la piattaforma di Facebook per esplorare questi siti. Non è un buon investimento per i social (tanto che insta ti chiede spesso, quando vuoi andare su un link esterno, se vuoi davvero lasciare insta). L’utente clicca sul link che trova su Facebook ma finisce sul sito della testata. Più persone vanno sul sito testata, più i sistemi di misurazione dell’audience di internet registrano questo aumento, quindi la testata può vendere a prezzo più elevato i suoi spazi pubblicitari. Dopo un momento di sperimentazione, gli instant articles sono rimasti su questa contraddizione: esteticamente si distinguevano poco, quindi questa uniformità non permetteva alle testate di distinguersi. Facebook, però, non si arrende, quindi questo modo di instaurare un rapporto con gli editori si traduce in un secondo strumento, le Facebook News. Agisce da aggregatore, che tanto non ha vincoli di responsabilità legale. Aggrega notizie che provengono da altre fonti (un po’ la logica di Google News adesso). Per la creazione di quest’idea, Facebook News prende spunto da Google News, ma cerca di differenziarsi sotto alcuni aspetti: 1. Si differenzia per il rapporto che crea con gli editori: Facebook, infatti, fa un accordo con degli editori di alcune testate giornalistiche e fa in modo che le testate di quegli editori vengano riconosciute come affidabili + accordo di condivisione degli utili (incassi) delle pubblicità vendute: si tratta quindi di un accordo economico tra le testate giornalistiche e Facebook, dato che la pubblicità che Facebook vende sulla sua area “Facebook news” genera dei guadagni, Facebook decide di condividerli in piccola parte con le testate giornalistiche che hanno pubblicato i loro articoli sulla piattaforma VS modello di Google news che non fa nessuna divisione degli introiti con le testate che aderiscono alla pubblicazione dei loro articoli sulla piattaforma Google news 2. Si differenzia per la logica della personalizzazione e dei trend: offre infatti spazio di personalizzazione dei contenuti agli utenti che decidono di consultare l’area dedicata alle notizie; ciò che viene ritenuto di maggiore interesse da parte di una determinata persona, basandosi sulle ricerche che quest’ultima svolge all’interno delle varie piattaforme, verrà fatto ritrovare successivamente nel feed dell’utente. 3. Si differenzia perché Facebook assume un team di giornalisti: essi sono suddivisi in diversi team, distribuiti a livello locale (non suddivisi per nazioni, ma per continenti e sub continenti) e selezionano le notizie più importanti e rilevanti del giorno in quella determinata area geografica VS Google news che non ha giornalisti nella sua piattaforma! Inoltre, questi team selezionano le notizie più rilevanti, integrano personalizzazione e trend con un lavoro giornalistico di selezione di notizie più importanti. Questo flusso è personalizzabile, si possono privilegiare certe aree. Facebook fa un accordo con gli 45 editori, che acconsentano che le loro notizie entrino nel flusso. Su Facebook News, si mettono della pubblicità, e, in piccola parte, il guadagno viene condiviso con le testate che hanno concesso le loro notizie (revenue sharing). Facebook News esiste ancora oggi con questo modello, che mescola la presenza di giornalisti e l’uso degli algoritmi. Prima fase di sviluppo delle piattaforme social: modello instant articles VS modello di Facebook news (reindirizzare le audience al sito web dell’editore). Datafication delle news: la Platform Society influisce anche sui processi di produzione delle notizie. L’aspetto che incide di più sulla dinamica di produzione delle notizie è la datificazione. Il punto di partenza del ragionamento che fa Van Dijk è che esistono molti sistemi di tracciamento della circolazione delle news. La produzione di notizie è circondata da dati che riguardano circolazione e accesso alle notizie, ogni articolo possiede una mole di dati. Ciascun articolo è corredato dalle social analytics, cioè posso sapere che tipo di successo ha avuto con click, condivisioni, in quanto tempo, ecc., un corredo di info. Ci sono anche i Google analytics, cioè quante volte questa notizia è stata cercata. L’ultimo pacchetto di dati viene dai sistemi di monitoraggio dell’audience, Audiweb, ovvero il corrispettivo di Auditel per la rete: è un’associazione che promuove lo sviluppo della ricerca di mercato online e rilevazione dei dati relativi alla rete, la società è la Nilsen. Bisognava stabilire quanto costava uno spazio pubblicitario online, quindi si decisero dei criteri uguali per tutti e scientificamente fondati per misurare quanta audience aveva un sito web. Audiweb fa diversi tipi di rilevazione, concentrati sulla quantità di persone che frequentano un sito web, e di recente anche quante persone consultano una pagina social. questa parte social avviene attraverso dei panel meterizzati, ovvero persone che hanno acconsentito a scaricare sul proprio dispositivo mobile un software che registra le loro attività sui social, in forma anonima. Questi dati vengono analizzati in base alle statistiche e dà delle informazioni molto precise. La Nielsen ha iniziato a misurare questo tipo di attività social. Van Dijk sottolinea che ogni articolo porta un corredo molto pesante di dati, e non è possibile fare a meno di questi dati quando si produce un’informazione. Servono per capire cosa produrre, sulla base di ciò che ha avuto più successo. L’informazione è sempre più data-driven, più che dalle decisioni editoriali. I dati danno pressione per produrre contenuti che generino engagement, in termini di click. Ci si basa sulla richiesta di utenti quantificati, cioè produco contenuti per avere utenti che poi posso spendere nelle mie logiche di business. Nelle decisioni delle testate, la capacità di produrre utenti quantificati ha un peso. Vengono privilegiate le notizie di colore, che fanno curiosare. Noi ci siamo abituati a considerare importanti quelle notizie. Comunicazione pubblicitaria: se non si vendono spazi pubblicitari, le testate chiudono. Con le piattaforme, si sono moltiplicati i canali con cui si possono raggiungere gli utenti. È uno svantaggio dal punto di vista della vendita di spazi pubblicitari, perché più ce ne sono e più gli investimenti degli inserzionisti si devono suddividere tra tutti i canali. Vuol dire che ciascun canale costerà molto poco. Il costo degli spazi pubblicitari su internet è molto più basso degli spazi nella stampa o in televisione, bisogna avere abbastanza introiti per pagare i collaboratori. Quindi alla fine online si ha molto meno ricavo (elemento di disaggregazione e impoverimento). A livello di business, la moltiplicazione dei canali sra genera una crisi economica nel settore dell’informazione. Allo stesso tempo, però, questa moltiplicazione ha fatto nascere dei nuovi tipi di pubblicità, che forniscono uno strumento nuovo per creare partnership. Questa nuova forma si chiama Native Advertising, termine definito dall’Internet Advertising Bureau, che si occupa di pubblicità digitale. Il Native Advertising fa riferimento ad annunci 46 a pagamento coerenti col contenuto della pagina, col design, in modo che l’utente li percepisca come coerenti con quello che sta leggendo, quindi appaiono meno come elemento di fastidio e interruzione rispetto alle sue attività privilegiate. Il metodo pubblicitario viene chiamato contestuale, cioè la pubblicità è calata nel contesto dell’esperienza del fruitore. Contenuto e advertising si adattano reciprocamente, c’è un legame. Come vantaggi vi sono: Aumentare la reach del messaggio di fronte al problema della banner blindness, cioè che tendiamo a non vedere neanche più i classici banner pubblicitari. Si cerca di creare un aggancio con l’utente in base ai suoi interessi Creare forme di continuous campaign, cioè instaurare una relazione continua con gli utenti, andando oltre le forme di advertising tradizionale. Esistono diverse forme di native ADV, una delle più famose e sicuramente più riuscite è quella avvenuta tra Netflix ed il NY Times (es: un’inchiesta sul NY Times sulle carceri femminili, sponsorizzato da Netflix per supportare “Orange is the New Black”): si tratta di una sponsorizzazione di una serie di Netflix che è avvenuta in collaborazione con il New York Times e genera un esempio di native ADV; si tratta di un’inchiesta e la testata giornalistica decide di pubblicarla all’interno del suo sito. Le principali caratteristiche del native ADV dell’operazione di collaborazione: annuncio pubblicitario che è sostenuto dall’uso dei colori e dalle immagini, si tratta di un articolo contenutale infatti la pubblicità è collegata e coerente con quello che sto leggendo all’interno dell’articolo; questa forma di pubblicità può interessare lo spettatore che probabilmente si fermerà a leggere, oltre che l’articolo, anche la pubblicità stessa dato che risulta essere coerente e non “fastidiosa” alla lettura. 01/12/2021 La nascita di Audiweb All’inizio degli anni 2000 in Italia non esisteva un sistema unificato di misurazione della rete, c’erano molte ricerche diverse da diversi istituti di ricerca. Queste non erano molto utili, perché le aziende non si fidavano del singolo istituto. Si decide di mettere in piedi un organismo super partes, cioè Audiweb. Non appartiene a nessuna azienda, non ha un suo proprietario, e per questo può diventare un soggetto che misura in modo imparziale per tutti l’audience della rete, stabilendo dei criteri. Nasce per permettere alle aziende di pianificare degli investimenti pubblicitari su internet. Il suo scopo è fornire dati obiettivi di carattere qualitativo e quantitativo sulla fruizione di internet. Viene fondato mettendo insieme tre associazioni, che rappresentano gli operatori del mercato: 1. Fedoweb (rappresentata per il 50%): l’associazione degli editori online (testate giornalistiche, contenuti di intrattenimento, siti); 2. AssAp Servizi: legata all’intervento sul territorio, è l’associazione delle agenzie e centri media operanti in Italia (quelli che pianificano la pubblicità per l’impresa); 3. Upa (25 e 25; Utenti Pubblicità Associati): associazione delle aziende nazionali e multinazionali che investono in pubblicità. Audiweb è un Joint Industry Committee, ovvero rappresenta gli interessi di tutti, è un organismo partecipato dalle associazioni di categoria che rappresentano gli operatori del mercato. L’attuale impianto di rilevazione può produrre stime sulla fruizione di internet da computer, mobile e riesce a produrre il dato Total Digital Audience (cioè fruizione da computer e mobile al netto delle sovrapposizioni). Esce ogni mese per noi, ma alle agenzie di comunicazione (che pagano una fee per avere i dati aggiornati) viene consegnato giornalmente. 47 Nel primo mese di pandemia, tutti i social media hanno preso la parola. Le strategie si sono diversificate, ma hanno due obiettivi comuni: 1. Orientare gli utenti verso un’informazione affidabile 2. Intervenire sul funzionamento degli algoritmi in modo da rendere più visibili le fonti affidabili. Dopo il primo mese, le piattaforme sviluppano una propria offerta editoriale sul tema Covid-19 selezione ad aggregazione di contenuti che provengono da fonti istituzionali (Ministero della Salute), OMS) o da testate giornalistiche (quotidiani, canali all news). Addirittura, il centro informazioni sul Covid di Facebook viene definito come “elaborazione di una sezione specifica di Facebook News, ovvero dell’attività di un team di giornalisti esperti di diversi settori assunti da Facebook con l’obiettivo di fornire una panoramica di notizie pubblicate da quelle che vengono definite ‘fonti affidabili’”. Su TikTok troviamo una pagina informativa che propone nozioni attendibili provenienti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO), tra le quali risposte alle domande più comuni e consigli su come proteggersi, smentendo anche alcuni falsi miti sul virus. 14/12/2021 Alla fine della prima ondata pandemica, i social media hanno cominciato ad agire come vere e proprie fonti informative, proponendo dei loro aggregatori editoriali: questo è importante perché si ha il cambiamento da tech company a editore. Da questo cambiamento non si potrà tornare facilmente indietro. Inoltre, le istituzioni hanno usato le piattaforme social come strumento di comunicazione in modo molto sistematico, pianificando delle campagne finalizzate ad informare l’opinione pubblica su quanto stava succedendo. È interessante vedere i soggetti coinvolti, ad esempio, in Italia: Ministero della Salute Istituto superiore della Sanità Dipartimento di Protezione Civile Croce Rossa Italiana Presidenza del Consiglio dei Ministri Tutti loro hanno usato piattaforme come Facebook e Instagram come strumento di campagne di sensibilizzazione contro il Covid-19. La logica utilizzata è stata la campagna di informazione, ovvero micro-campagne di massimo tre o quattro settimane, spesso condivise e rilanciate tra diverse istituzioni. Inoltre, esse costruiscono un racconto per grandi fasi dell’epidemia, con una grafica, un messaggio e promozioni specifiche, spesso pagate dalle stesse, per arrivare ad un numero più ampio possibile di persone. Le primissime campagne contro il Covid-19 partono già da gennaio, rivolte ai viaggiatori (comportamenti per la quarantena, i viaggi all’estero e i sintomi), per cui viene presentato come un problema di chi vive in prima persona la globalizzazione viaggiando in tutto il mondo. Si tratta di campagne che intercettano un target molto preciso, ma che vanno a mettere un primissimo tassello di questo racconto (si costruisce riprendendo tutti i post relativi all’argomento e facendone un’analisi). A febbraio, vi sono campagne che mirano ad informare sulle procedure da seguire e i numeri da chiamare, gestendo una conoscenza condivisa di azioni che ognuno può fare per limitare la diffusione del contagio, sostenendo la relazione tra il malato e l’istituzione sanitaria. Tra febbraio e marzo, si cerca di rendere tutti partecipi al percorso di prevenzione attivazione delle persone. Inoltre, vi sono anche le campagne che mirano a spiegare le caratteristiche del virus: ci sono attività di debunking e di domande frequenti. A marzo vi sono campagne che sottolineano l’importanza del restare a casa: nascono gli hashtag (#iorestoacasa, direttivo; #vogliamocibene, che attribuisce senso e significato all’azione). Tutte le istituzioni alzano la voce su questo concetto di protezione, ad esempio la Croce Rossa promuove l’importanza della solidarietà, oltre che spiegare i comportamenti adatti (#besafe, #besmart). L’ultimo elemento della prima fase è la narrazione della quarantena ad aprile. Le campagne istituzionali danno consigli su come affrontare questo periodo di chiusura 50 forzata, per cui abbiamo istruzioni su come gestire la permanenza in casa e come cercare sostegno. Il Ministero della Salute fa una serie di campagne su come gestire l’alimentazione, ad esempio, in un momento in cui non si può fare esercizio in palestra fuori. Nello stesso mese, tornano le campagne di debunking, ovvero campagne che mirano a smentire le fake news che continuano a circolare. Dopo aprile sembrava che il peggio fosse passato, quando poi si è arrivati alla fase 2. Quindi, piattaforme, social, istituzioni e media hanno interagito in modo quasi inedito nello sforzo di arginare le fake news. Il Covid-19 è stato una palestra di comunicazione tra cittadini e cittadine attraverso chiavi responsabilizzanti, solidaristiche e proiettive. Piattaformizzazione della salute Insieme al tema dell’informazione, il discorso della piattaformizzazione della salute viene introdotto da José Van Dijck. Ad esempio, per fare certe attività online dobbiamo avere un’identità digitale, ovvero lo SPID, il che influisce nel tema delle piattaforme. Altri esempi sono i profili social dei medici che agiscono come divulgatori, magari con il supporto di medici più anziani, per sensibilizzare su determinati temi. Per quanto riguarda il tema della salute collegato alle Big Five, vi sono app che sono connesse al benessere del mio corpo e alla mia salute, osservando ciò che accade tramite il supporto delle app. Ci sono anche piattaforme di settore che producono app per monitorare, ad esempio, il livello di insulina tramite un dispositivo e un monitor c’è un vantaggio per chi utilizza le app, anche se affidiamo sempre il monitoraggio del nostro corpo a delle applicazioni monitoraggio mediato dalle app riguardo il funzionamento del nostro corpo. Van Dijck ha sempre un occhio di riguardo per le criticità di questi sistemi e afferma che tale modello di funzionamento ci propone: Un’offerta di servizi personalizzati ai clienti (data driven) Raccolta di dati scientifici utili e funzionali alla ricerca Le promesse da parte delle app sono: Soluzioni personalizzate (dalla perdita di peso alla gestione dei sintomi del Parkinson) e sostegno della community in cambio della cessione dei dati personali; Costruzione di una maggiore conoscenza e consapevolezza sulla malattia o Logica della personalizzazione e logica wiki (partecipiamo a costruire un sapere comune su ciò che ci accade). o “tutti gli attori contribuiscono al bene comune, dal quale tutti traggono un uguale beneficio”, Kitchin (2014). Il ruolo delle Big Five è fondamentale, in quanto: Forniscono l’hardware (mobile, dispositivi indossabili, ecc.); Vendono, scelgono, gerarchizzano e valorizzano tutti i tipi di app disponibili (si creano anche degli immaginari su ciò che si può – e deve – essere monitorato); Sviluppano piattaforme per la raccolta e gestione dei dati: ad esempio, Google Cloud Healthcare & Life Sciences ha annunciato una collaborazione con il Broad Institute of MIT e Harvard per fornire accesso gratuito ad uno dei set di dati genomici pubblici più completi del mondo, ovvero il Genome Aggregation Database (gnomAD). Quindi, le Big Five diventano imprese economiche complementari rispetto a cui le piattaforme fanno da connettori con i “clienti”, che diventano i “pazienti finali”. Ad esempio, nell’immagine vediamo 23andMe (2006), un progetto nato da aziende private che si sono fatte mandare campioni di sequenze di DNA, promettendo, in cambio, un quadro previsionale di quali avrebbero potuto essere gli eventuali problemi di salute. Tuttavia, questo quadro completo non fu autorizzato, per cui si decise di donare il DNA per scoprire le origini genealogiche un esperimento simile è stato fatto con Momondo.com. 51 Questo tipo di comunicazione, che ha circolato molto sui social e anche qualche anno fa, ha promosso tantissimo l’utilizzo di questi strumenti di analisi del DNA non più per sapere a quali malattie si è potenzialmente esposti, ma più per conoscere le proprie origini, facendo così lievitare questi dati, ovviamente anonimi, delle persone. Questo è stato il claim. Le Big Five connettono i pazienti, per cui vengono introdotti altri tipi di piattaforme che poggiano sui cloud delle Big Five. Offrono un canale di comunicazione che dà un supporto reciproco e monitorano giorno per giorno i sintomi dei pazienti. L’esito è che questo tipo di piattaforme incide sul modo in cui la malattia viene narrata. Questo racconto della malattia è strutturale in termini di dati, ma anche soggettiva, perché è la persona che auto-racconta della sua malattia. Van Dijck afferma che “la datificazione delle malattie promuove una medicina basata sulle evidenze ‘patient-driven’ dove i pazienti costituiscono dei panel di validazione di terapie e ipotesi scientifiche” citizen science i pazienti sono co-modellatori della ricerca medica, vengono coinvolti nel processo di costruzione dei database ed esistenza di una possibilità di ricerca. Tuttavia, Van Dijck afferma che tutto questo afferma che questo processo avviene in un mondo non guidato totalmente dalle regole scientifiche, per cui vi sono degli elementi di criticità: o Auto-selezione del campione o Auto-somministrazione del farmaco o Auto-registrazione delle evidenze o Privacy (assicurazioni, datori potenziali di lavoro) o Promozione di una forma di filantropia dei dati (è comunque qualitativamente ed eticamente buona cosa cedere i propri dati riguardanti la salute per “metterli al servizio della scienza”). La raccolta di dati in tempo reale e automatizzato rende queste app molto utili per la ricerca scientifica. Alle volte, chi è in grado di usare queste app e di procurarsi i dispositivi appartiene a classi sociali privilegiate. Quindi, sono grandissimi database, ma ciascuno con una sua parzialità. In sintesi, l’effetto di questa piattaformizzazione della salute è che al centro vi è la raccolta automatizzata di dati individuali da parte delle piattaforme, spesso aggirando tutti i filtri istituzionali di tipo convenzionale, e l’inclusione di questi dati in un sistema complesso, dove la proprietà delle corporation esercita il dominio su un vasto insieme di dati, che possono essere riprogrammati e combinati all’infinito con altre collezioni di dati. Si possono incrociare tantissime tipologie di dati. Tutto questo si basa sulla promessa della medicina personalizzata e, dall’altra parte, della privatizzazione di dati pubblici. Dal 2017, in Europa è stata fondata la European Open Science Cloud, il cui obiettivo è di sostenere lo sviluppo di un ecosistema di infrastrutture basato su principi che rispondono all’acronimo F.A.I.R. (Findable, Accessible, Interoperable, Reusable). 52