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Sociologia della devianza e del crimine, Sintesi del corso di Sociologia della devianza

Riassunti dei capitoli 2-3-4-5-6-7-8-9-12-18-19-22-24-26-27.

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 29/12/2022

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Scarica Sociologia della devianza e del crimine e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia della devianza solo su Docsity! “Sociologia della devianza e del crimine: Prospettive, ambiti e sviluppi contemporanei” di A. Dino e C. Rinaldi CAPITOLO 2: “LE TEORIE CLASSICHE E NEOCLASSICHE” La teoria classica e quelle neoclassiche della criminalità hanno visto la luce in due periodi temporali distanti tra loro ma sono legate in modo profondo. La TEORIA CLASSICA fu elaborata durante l’Illuminismo. Per tale scuola il compito delle istituzioni è rendere prevedibili i costi e i benefici dell’atto criminale, per questo motivo tali studiosi promossero riforme degli ordinamenti giuridici (specie penali) secondo i principi di ragionevolezza- umanità- equità- rispetto dei diritti. E soprattutto scritte su carta. I pensatori classici furono filosofi, giuristi e criminologi. La TEORIA NEOCLASSICA fu elaborata negli anni 60’ e 80’ del 900’. Tali criminologi, sia per il periodo diverso che per il clima intellettuale in cui lavorarono, nelle loro teorizzazioni approfondiscono i modelli di scelta criminale e l’influenza dei contesti e delle occasioni sul processo decisionale dei delinquenti. Inoltre, hanno posto le basi per interventi che possono portare le persone a desistere dall’azione criminale. Entrambe le teorie si occupano di ciò che accomuna tutti gli uomini, criminali e non, cioè del ragionamento orientato all’azione, così come della risposta delle istituzioni e del controllo sociale alla criminalità. IL CONTESTO STORICO-SOCIALE della TEORIA CLASSICA Il XVIII secolo e i primi del XIX secolo furono un periodo solcato da profondi cambiamenti e innovazioni, che gettarono le basi delle società moderne:  Cambiamenti nella struttura sociale  Cambiamenti demografici  Cambiamenti e progressi nella scienza e nella tecnica  Cambiamenti e innovazioni religiose o antireligiose  Cambiamenti e innovazioni nel mondo artistico e culturale Questo contesto storico e sociale influenzò e fu influenzato dalle idee dell’Illuminismo, nato in Inghilterra e in Francia, si diffuse in tutta Europa tra 700’ e primi dell’800’ e che propugnò i valori della ragione, dello spirito critico e della circolazione democratica del sapere. La SCUOLA CLASSICA si concentra sugli ordinamenti giuridici e sui principi a cui dovrebbe ispirarsi il sistema di giustizia penale. Il suo obiettivo ultimo è quello di promuovere la riforma di un sistema di giustizia penale che, nel XVIII secolo, appariva arbitrario e negava dignità- diritti infliggendo punizioni disumane ed estorcendo confessioni. I principali esponenti di questo approccio teorico:  Jeremy Bentham contrappone un’etica consequenzialista, cui l’unico criterio per distinguere il giusto dall’ingiusto è “la massima felicità per il maggior numero di persone”. A tal fine propone il suo calcolo felicifico, che consiste nella somma algebrica dei piaceri e delle pene che derivano da ogni azione, dove il segno più è associato ai piaceri e il meno alle pene. Lo studioso mira allo sviluppo di un codice legale che tenga conto del calcolo felicifico per indirizzare le scelte individuali verso il perseguimento del benessere sociale corrispondente al principio della “massima felicità per il maggior numero”  Cesare Beccaria Secondo lui le nazioni sono sorte sulla base di un contratto sociale. Come gli spiega nella sua opera Dei delitti e delle pene: “le leggi sono le condizioni, con le quali gli uomini indipendenti e isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità”. In tale visione il sistema di giustizia (con le sue pene) fornisce una controspinta (dolore) all’impulso criminale (piacere), evitando che l’umanità sprofondi nello stesso originario caos. Da tali premesse derivano i principi chiave a cui il sistema di giustizia si dovrebbe ispirare: -il principio di legalità cioè le pene possono essere previste solo dalla legge, perché il legislatore rappresenta l’unione della società attraverso il contratto sociale; -l’uguaglianza dei diritti di fronte alla legge; -la limitazione della discrezionalità dei magistrati che devono essere spogliati di qualsiasi potere discrezionale e limitarsi a eseguire quanto prescritto dalla legge; -Il rifiuto di tortura e pene disumane come una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni, che tra l’altro tratta l’innocente peggio del reo; -La proporzionalità tra delitto e pena perché erogando la stessa sanzione per delitti che hanno un diverso impatto per la società, gli individui non sarebbero scoraggiati dal commettere un reato più grave; -La funzione deterrente della punizione. La funzione deterrente della pena si esercita nei confronti: 1. Dell’Intera Comunità, in quanto l’irrogazione delle pene mira a scoraggiare la commissione di reati da parte della generalità dei consociati= DETERRENZA GENERALE 2. Del singolo delinquente, in quanto la punizione che egli riceve intende evitare la futura commissione di illeciti da parte dello stesso individuo, o se ciò non è possibile quantomeno orientarlo verso la scelta di reati meno gravo= DETERRENZA SPECIALE Per la SCUOLA CLASSICA la deterrenza dipende strettamente da 2 dimensioni chiave della pena: -La sua certezza per Beccaria “perché ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto”; -La sua celerità con cui viene applicata, Beccaria sottolinea quanto sia importante che essa intervenga a breve distanza temporale dal delitto “la prontezza delle pene è più utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena e il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell'animo umano l'associazione di delitto e pena”. La SCUOLA NEOCLASSICA è sorta a partire dagli anni 70’ e 80’ del XX secolo, mise in discussione le “teorie disposizionali del crimine e della devianza” definite dal sociologo americano Sutherland: sia per la loro incapacità di isolare le specifiche cause della criminalità, sia per le riforme che tali teorie avevano promosso che non stavano arginando né i tassi di criminalità né quelli di recidiva. Becker, sviluppa un approccio economico al crimine: ritiene che una persona commetta un reato ogniqualvolta l’utilità attesa supera quella che potrebbe ottenere usando il proprio tempo e risorse in altre attività lecite. Come egli osserva: “Alcune persone diventano criminali perché differiscono i loro benefici e costi”. Tutto ciò ha fatto si che un gruppo di criminologi ha sviluppato una serie di teorie neoclassiche, tali teorie sono note anche come teorie delle opportunità: Anche la Teoria Neoclassica ha avuto un effetto importante in termini di politiche e di interventi. -Nel 1982 Wilson e Kelling, elaborano la così detta teoria delle finestre rotte: se in un quartiere le finestre di alcune abitazioni sono rotte, è più facile che qualcuno vi scagli contro delle pietre e finisca per peggiorarne la situazione. Da quel momento in poi in molte metropoli statunitensi, come Los Angeles e Chicago, si sono realizzate politiche delle finestre rotte attuando legislazioni aggressive nei confronti dei reati minori e forme di disordine e pattugliamenti mirati delle forze dell’ordine. -Uno dei filoni di ricerca applicata più prolifici è quello della prevenzione situazionale della criminalità che si sostanzia in misure di riduzione delle opportunità: 1)Sono dirette a forme di criminalità altamente specifiche; 2)Coinvolgono la gestione, progettazione e manipolazione dell’ambiente nel modo più sistematico e permanente possibile; 3)Rendono il crimine più difficile e rischioso, o meno gratificante e scusabile per un’ampia gamma di delinquenti. Dagli anni 70’ in varie nazioni sono stati eseguiti molti interventi di prevenzione situazionale, che rientrano nell’ambito di 25 tecniche di riduzione delle opportunità, raggruppabili in 5 famiglie, a seconda dell’effetto da ottenere sul potenziale criminale: 1)La riduzione dei sforzi percepiti; 2)L’aumento dei rischi percepiti; 3)La riduzione delle ricompense attese; 4)La riduzione delle provocazioni; 5)La rimozione delle scusanti. Negli anni 80’ a partire dal concetto di hot spots della criminalità hanno origine attività di hot-spot policing, in cui le forze di polizia focalizzano la loro azione su aree molto piccole in cui si concentra la delinquenza, per ottenere risultati più efficienti in termini di deterrenza. Dagli anni 70’ architetti e criminologi hanno lavorato alla realizzazione di progetti di spazio difendibile e di prevenzione della criminalità attraverso il disegno urbano (CPTED) nei contesti cittadini. Ridisegnare, riqualificare, riorganizzare gli spazi e gli edifici urbani può portare a contrastare le spinte criminali. La CPTED ha tra i suoi concetti chiave la territorialità, la sorveglianza naturale e il controllo degli accessi. Sempre negli stessi anni (anni 70’) si diffonde la problem-oriented policing (polizia orientata ai problemi; POP), strategia di prevenzione della delinquenza che per la prima volta assegna un ruolo centrale alle forze di polizia. Oltre ad occuparsi di repressione e di reagire ai singoli eventi illeciti in modo scollegato, la polizia è chiamata a diventare motore dell’azione preventiva, cercando di comprendere le dinamiche che danno origine a problemi ricorrenti di criminalità e aiutare i vari attori sul territorio a sviluppare risposte appropriate. Secondo i dettami della POP le forze dell’ordine devono usare un metodo, conosciuto con l’acronimo SARA, che include una serie di fasi: -Scansione del problema con la raccolta di dati utili per comprenderlo; -Analisi dei dati; -definizione della Risposta più adeguata e degli attori più idonei ad attuarla; -Valutazione dei Risultati. SVILUPPI TEORICI CONTEMPORANEI: 1)Nei primi anni 90’ Stafford e Warr sono giunti a una nuova concettualizzazione della deterrenza nota come teoria della deterrenza. Gli autori considerano funzione non solo delle esperienze individuali di punizione, ma anche di quelle di elusione della pena. Sia l’elusione diretta della sanzione, sia quella indiretta incentiverebbe pertanto il comportamento criminale. Inoltre secondo gli autori, occorre riferire deterrenza generale e deterrenza speciale a 2 diversi segmenti della popolazione: -il primo opera verso chi è rispettoso della legge; -il secondo agisce su chi è dedito alla perpetrazione di reati. Questo approccio ha fuso insieme la dottrina della deterrenza e la prospettiva teorica dell’apprendimento sociale. 2)La teoria dei percorsi criminali, proposta nel 1993 da Paul e Patricia Brantingham. La teoria considera la criminalità come una qualsiasi attività umana. In particolare, esamina l’influenza dell’ambiente fisico e sociale sulla distribuzione dei reati nel tempo e nello spazio, e il modo in cui determinate vittime/target attirano l’attenzione dei delinquenti. Lo spazio di attività (activity space) di una persona comprende aree che gli/le sono famigliari attraverso le sue attività quotidiane, e includono il luogo di residenza, lavorativo e aree ricreative. Muovendosi in questi “nodi di attività” (activity nodes), un individuo sviluppa il così detto awereness space, ossia zone e percorsi in cui si sa spostare e orientare con sicurezza perché visitati/attraversati con frequenza. È proprio in questo ambito spaziale di cui il criminale ha consapevolezza che egli sceglie le vittime e i suoi target, perché qui si sente a proprio e sa cosa aspettarsi. Activity spaces e Awareness spaces mutano da persona a persona. Tale definizione, pur essendo personale, è limitata dall’ambiente e così accade che molte persone condividono gli stessi Novi di attività e percorsi. Inoltre, Crime Attractors (cioè aree che attraggono criminalità) e Crime Generators (cioè generatori di criminalità) possono diventare hot spots della criminalità. Gli edges, cioè aree con alti tassi di vittimizzazione, favoriscano la concentrazione di eventi criminali perché chi è esterno/estraneo all'area può integrarsi facilmente in questi territori indistinti. Vi sono poi aree urbane che tengono lontane e che offrono poche attrattive criminali: esse riducono l'ammontare complessivo di criminalità. 3)La Teoria della Criminologia Ambientale termine con cui si indicano un insieme di teorie che condividono l'interesse per le circostanze immediate in cui i reati accadono e che ritengono che questi derivino dalla convergenza spazio-temporale di rei, vittime/target e leggi. Gli assunti di base di questa teoria sono:  I comportamenti criminali dipendono significativamente dall'ambiente fisico e sociale circostante;  La distribuzione della criminalità nel tempo e nello spazio non è casuale, si concentra laddove vi sono opportunità criminali e altri fattori ambientali che la favoriscono;  Comprendere il ruolo criminogeno dell'ambiente fornisce importanti strumenti di investigazione, controllo e prevenzione del crimine. APPLICAZIONI RECENTI Tra le moderne applicazioni connesse alla teoria dei processi criminali e alla criminologia ambientale troviamo: 1)Il profilo criminale geografico è una metodologia investigativa che analizza i luoghi di una serie di reati collegati per determinare l’area più probabile di residenza del loro autore. La sua funzione è di offrire alle forze dell’ordine uno strumento per restringere la rosa dei sospetti nelle indagini sui criminali. La teoria dei percorsi criminali e la criminologia ambientale hanno concorso a trasformare l’hot-spot policing nella più moderna polizia predittiva. La polizia predittiva riguarda l’uso di tecniche di analisi per identificare gli obiettivi più promettenti per l’intervento della polizia, per prevenire la criminalità o per risolvere crimini del passato attraverso predizioni statistiche. Le strategie di polizia predittiva possono essere classificate in 4 CATEGORIE: 1)I metodi per la previsione della criminalità, che mirano a prevedere il tempo e il luogo in cui è più probabile che avvenga un reato; 2)I metodi per la previsione del futuro aggressore, che puntano a identificare le classi di individui maggiormente a rischio di commettere un reato in futuro; 3)I metodi per l’elaborazione di un identikit criminale, che creano profili criminali per ricercare gli autori di reati passati; 4)I metodi per la previsione della futura vittima, che si propone di individuare i gruppi o i soggetti a maggior rischio di vittimizzazione. Esempi di progetti di polizia predittiva: -Il PRIMO a livello internazionale è stato attivato nella città di Menphis in Tennessee (USA), dove nel 2005 è stato testato il software di analisi predittiva Blue C.R.U.S.H (Crime Reduction Utilizing Statistical History); -Il SECONDO a livello internazionale è stato condotto in California, è stato creato il software PredPol; -Il TERZO è tra le prime esperienze europee di polizia predittiva, chiamato eSecurity, che è stato realizzato tra il 2013 e il 2015 a Trento. Le teorie neoclassiche, in particolar modo la criminologia ambientale, hanno contribuito a fondare la moderna criminologia computazionale che è alla convergenza tra informatica- matematica applicata e criminologia. Anche le Teorie classiche e neoclassiche hanno subito delle CRITICHE:  Considerate limitate nella loro concezione degli esseri umani e del loro comportamento;  Tali teorie non sarebbero di facile applicazione a quelle forme di delinquenza che sono manifestazioni di impulso, passionalità, irrazionalità;  Gli stessi autori della Teoria della scelta razionale ad avere mosso critiche che contestano la razionalità dell’attore criminale ed affermano che: -Alcuni crimini sono un esercizio “casuale” di violenza; -Se le scelte criminali fossero davvero razionali molti criminali non finirebbero in carcere; -Molti crimini non sono il frutto di un calcolo razionale ma di stati emotivi e impulsi sessuali; -Molti crimini non sono motivati da ragioni strumentali ma esistenziali.  Esse ignorerebbero i processi di costruzione sociale della devianza e gli effetti che il controllo sociale, formale e informale, può avere sulle persone;  Tali impostazioni teoriche avrebbero dato vita a forme di prevenzione troppo semplici, che con il loro accento sugli aspetti organizzativi e manageriali di modifica dei contesti ambientali, rischiano di comprimere le libertà e la privacy delle persone. La città, come in ogni sistema ecologico, non si espande in modo casuale, segue un modello di sviluppo naturale basato su processi di invasione e dominio. I processi di invasione e dominio contribuiscono a definire all’interno della città delle vere e proprie organizzazioni ecologiche (aree naturali), che possiedono ognuna una propria identità sociale, culturale o etnica. -Al centro della città vi è la zona degli affari (zona I). -Il 2° cerchio comprende la “zona di transizione”, invasa dal centro con uffici e industria leggera. La rende poco attraente per la maggior parte degli abitanti che fuggono verso le aree residenziali delle zone più periferiche. Si tratta di una zona contraddistinta da un’elevata mobilità residenziale; -Il 3° cerchio, abitata da operai specializzati. È un’area di insediamento degli immigrati di seconda generazione che sono riusciti a lasciarsi alle spalle le abitazioni degradate; -Il 4° cerchio è quello residenziale dove mirano a trasferirsi gli operai una volta che vedono migliorata la loro situazione; -Il 5° cerchio, che è al di là dei confini della città, vi è la zona dei lavoratori pendolari. La città si presenta come un “mosaico di piccoli mondi” che offre agli individui la possibilità di trovare il proprio posto nel mondo, ossia l’ambiente nel quale sentirsi a proprio agio e in rapporto con altri individui simili. I processi continui di invasione e di assestamento tra le varie zone della città danno forma a delle vere e proprie aree naturali, ciascuna con una propria identità culturale, sociale ed etnica. Per esempio, alcune aree rappresentano delle comunità razziali (come Little Italy, Black Belt, il Ghetto), altre sono caratterizzate da un punto di vista socio-economico. Questa configurazione permette ai ricercatori di analizzare l’andamento e la distribuzione di alcuni problemi sociali nelle diverse zone della città. Le ricerche condotte da Shaw e McKay rappresentano uno dei contributi più rilevanti della Scuola di Chicago, utilizzano l’approccio ecologico per studiare l’associazione tra le caratteristiche socio-economiche e la devianza giovanile. Le loro ricerche esaminano come alcune caratteristiche ecologiche delle diverse aree naturali della città producono livelli diversi di criminalità. Le dimensioni sono 3 che riguardano: 1)Le caratteristiche fisiche dei quartieri, la presenza di industrie, la mobilità dei residenti e il numero di case sfitte o deteriorate; 2)La relazione tra caratteristiche economiche di queste aree e tasso di criminalità; 3)Le caratteristiche sociodemografiche dei residenti, in particolare la percentuale di popolazione afroamericana e il numero di residenti nati all’estero. Pertanto, secondo gli autori, il livello di disorganizzazione sociale della zona di transizione che determina tassi di criminalità e di devianza più alti. Con l’espressione “disorganizzazione sociale” si indica una situazione caratterizzata dalla “diminuzione dell’influenza delle regole sociali di comportamento esistenti sui membri individuali del gruppo” e dall’assenza di nuovi modelli normativi e nuove istituzioni in grado di sostituire le regole esistenti. Secondo tale prospettiva teorica, la criminalità e la devianza sono “in un certo senso la misura del mancato funzionamento delle organizzazioni della comunità”. Le forme di disorganizzazione sociale producono forme di disorganizzazione personale, ossia la perdita di efficacia nell’organizzazione personale dell’individuo a causa del declino del suo gruppo primario, un processo che lo priva di responsabilità e della sicurezza di poter appartenere a qualcosa. La conferma empirica della validità della teoria della disorganizzazione sociale la si riscontra nel lavoro condotto da Faris e Dunham: “Mental Disorders in Urban Areas” che mette a fuoco la correlazione tra il tasso di ospedalizzazione per alcune gravi sindromi psichiatriche e la disorganizzazione sociale di alcune aree. Si è visto che:  Tassi più elevati di ospedalizzazione per gravi patologie mentali si riscontrano tra i residenti della zona di transizione;  I tassi decrescono man mano che ci si allontana dal centro. Negli anni successivi, una serie di studi che utilizzano un disegno di ricerca simile è condotta in varie città degli Stati Uniti e in Europa. La correlazione tra le forme di devianza o crimine e spazio ecologico è al centro anche degli studi di Shaw sulla strutturazione delle carriere criminali. La raccolta di storie di vita di giovani criminali consente allo studioso di evidenziare che esiste una connessione specifica tra devianza e ambiente sociale. I punti focali del suo ragionamento: 1)Gli individui che adottano comportamenti criminali non si distinguono dagli altri per caratteristiche personali; 2)Nelle aree con tassi di criminalità più elevati i legami e il controllo sociale informale sono minori a causa del livello di disorganizzazione che è lì presente; 3)Queste aree offrono maggiori opportunità illegali e incoraggiano poco il coinvolgimento tutto in attività convenzionali; 4)In queste aree i ragazzi sono coinvolti sin dalla più giovane della in attività illegali, anche come parte del gioco di strada; 5)I valori e le norme, così come le tecniche, che regolano le attività illegali sono trasmesse dai ragazzi più vecchi ai più giovani; 6)La carriera criminale si struttura quando il ragazzo inizia a identificare se stesso con il mondo criminale e ad assumere nel proprio stile di vita i valori prevalenti nel gruppo di riferimento; un processo chi sarà ulteriormente rafforzato dalla stigmatizzazione e dalla reazione delle istituzioni di controllo. I giovani che vivono nelle aree in cui si sviluppano e si consolidano tradizioni culturali devianti hanno una maggiore possibilità di interagire con soggetti devianti e criminali rispetto ai loro coetanei che risiedono in contesti sociali non disgregati, è alla base della teoria della trasmissione culturale della devianza. Il processo descritto da Shaw, ci consente di mettere in evidenza alcune dimensioni centrali nella riflessione teorica ed empirica dei Chicagoans: 1)La necessità di indagare i fenomeni sociali in una prospettiva diacronica, assegnando alla dimensione processuale una centralità che sarà oggetto di sviluppi ulteriori da parte dei teorici dell’etichettamento; 2)La consapevolezza che i fenomeni sociali (quindi anche criminalità e devianza) hanno sempre una causa composita: cioè un elemento soggettivo (un particolare orientamento dell’individuo) e un elemento oggettivo (le condizioni strutturali e di contesto) che sono in grado di influenzare dall’esterno le azioni degli individui. L’enfasi posta sulla definizione della situazione da parte di attori sociali, l’attenzione alla dimensione processuale nell’analisi del comportamento umano rappresentano alcuni argomenti su cui si svilupperà “L’INTERAZIONISMO SIMBOLICO”, espressione coniata da Blumer a metà degli anni 80’. Egli sostiene che: “gli esseri umani agiscono nei confronti delle cose sulla base dei significati che esse rilevano tra loro; il significato di queste cose deriva o emerge dall’interazione sociale che un individuo mette in atto con altri individui “. La rilevanza che i teorici di Chicago assegnano alla dimensione soggettiva nell’analisi dei fenomeni sociali consente di superare la rappresentazione della devianza come una patologia individuale, spostando l’attenzione alle forme di patologia sociale, all’individuazione e alla risoluzione di problemi sociali. Anche tale teoria non è esente a CRITICHE: Mills che si scaglia contro i patologici sociali, accusati di usare i loro concetti contro quei contesti o soggetti che mettono in discussione i valori protestanti e tradizionali. Ciò che contraddistingue i “patologi sociali” è un interesse verso i problemi particolari con l’obiettivo di fornire una loro soluzione pratica. Wirth, studioso vicino alla Scuola di Chicago, sottolinea che è impossibile prescindere dalla dimensione ideologica nell’analisi dei problemi sociali proprio perché le ideologie ci permettono di identificarci con particolari interpretazioni e proposte di soluzione dei problemi sociali. Nell’analisi della disorganizzazione sociale, il ruolo dell’ideologia appare particolarmente chiaro. Nel saggio “Culture, Conflict and Misconduct”, concentra le proprie analisi con riferimento alle seconde generazioni di immigrati. Tali soggetti vivono in un contesto di doppia cultura: il giovane presenta una debolezza relativa del legame nei confronti della cultura del gruppo di appartenenza, più elevata mobilità e maggiori opportunità di entrare in contatto intimo con il mondo sociale americano più di quanto accadesse ai propri genitori. I comportamenti devianti o criminali delle seconde generazioni sono molto più simili a quelli dei loro coetanei autoctoni rispetto ai loro genitori, la trasmissione dei codici devianti avvengono nei gruppi primari ai quali i giovani si sentono legati dal punto di vista emotivo. Sellin, che lo vede impegnato come presidente nella commissione sull’analisi del crimine, afferma che le definizioni legali su ciò che è criminale e ciò che non lo è sono relative poiché mutano come risultato dei cambiamenti nelle norme di condotta che regolano il comportamento degli individui nella loro quotidianità. In sintesi, i sociologi di Chicago trattano i fenomeni sociali in termini ecologici spostando l’attenzione dalla patologia individuale alle forme di patologia sociale (come la povertà, emarginazione, malattia mentale…) con enfasi sulla possibilità di intervento e risoluzione di tali condizioni. Quindi la Città è un LABORATORIO SOCIALE dove è possibile “testare” gli effetti dei processi di industrializzazione, urbanizzazione e riconfigurazione dello spazio cittadino. L’analisi e l’elaborazione dei dati forniti dalle istituzioni cittadine e dalle agenzie del controllo formale, si accompagna all’utilizzo di tecniche di ricerca qualitativa e ai metodi dell’etnografia sociale, privilegiando gli studi di caso, l’osservazione partecipante, la raccolta di storie di vita, l’analisi documentale ecc… comportamento criminale sistematico; 7)La disorganizzazione sociale è la causa principale del comportamento criminale sistematico. Sutherland concepisce il concetto chicagoano di “disorganizzazione sociale” come la condizione caratteristica delle società moderne e quello di “conflitto culturale” come il suo elemento sintomatico manifesto. Questi 2 aspetti sono di primaria importanza, perché l’autore intendesse fornire un quadro interpretativo generale di tener conto dei diversi tassi di delinquenza nelle diverse aree urbane. Come afferma Sutherland, le prime formulazioni della teoria tentavano di organizzare e di integrare le informazioni sui tassi di reato. Così Sutherland si appresta a superare il concetto di disorganizzazione sociale e iniziò a preferire l’organizzazione sociale differenziale o organizzazione differenziale dei gruppi. Attraverso questo accorgimento teorico lo studioso inizierà a sostenere che (l’organizzazione sociale “convenzionale” vs l’organizzazione sociale “non-convenzionale”) entrambe siano organizzate in modo differenziale: i gruppi che entrano in conflitto con la società convenzionale e con i suoi codici normatici sono anche quelli che presentano tassi di criminalità maggiori. Da ciò l’autore elabora una TEORIA PROCESSUALE della CRIMINALITA’ che spiega il crimine tenendo conto:  Della DIMENSIONE INDIVIDUALE guardando alle esperienze di vita di una persona e ai meccanismi individuali all’associazione differenziale;  Della DIMENSIONE SOCIALE di GRUPPO riproponendo le stesse dinamiche di associazione differenziale, considerando le organizzazioni differenziali di gruppo, i cui tassi di criminalità dipendono dalla misura in cui un gruppo è organizzato a favore o sfavore di un crimine. La VERSIONE DEFINITIVA della Teoria dell’Associazione Differenziale è del 1947, che può essere considerata come integrazione e superamento dei principali assunti tratti dalla teoria della disorganizzazione sociale, che spiega il comportamento criminale sulla base di 3 ASSUNTI: come l’apprendimento, l’interazione, la comunicazione. Il carattere INNOVATIVO della teoria corrisponde all’attenzione che lo studioso attribuisce al contenuto di ciò che viene appreso e al processo attraverso cui queste forme di apprendimento hanno luogo. I 9 PUNTI della teoria indicano che: 1)Il comportamento criminale è apparso; 2)Il comportamento criminale è apparso attraverso l’interazione con altre persone in un processo di comunicazione; 3)La parte fondamentale del processo di apprendimento del comportamento criminale si realizza all’interno di gruppi di persone in stretto rapporto tra di loro; 4)Quando si apprende il comportamento criminale, l’apprendimento include: a)le tecniche di commissione del reato, che sono talvolta molto complesse, talvolta molto semplici; b)lo specifico indirizzo dei moventi, delle iniziative, delle razionalizzazioni e degli atteggiamenti; 5)L’indirizzo specifico dei moventi e delle iniziative viene appreso attraverso le definizioni favorevoli o sfavorevoli ai codici della legge; 6)Una persona diviene delinquente perché le definizioni favorevoli alla violazione della legge superano le definizioni sfavorevoli alla violazione della legge; 7)Le associazioni differenziali possono variare in frequenza, durata, priorità e intensità; 8)Il processo di apprendimento del comportamento criminale attraverso l’associazione con modelli di comportamento criminale e anticriminale coinvolge tutti i meccanismi che sono coinvolti in ogni altro apprendimento; 9)Benché il comportamento criminale sia espressione di bisogni e di valori generali, questi bisogni e valori non possono spiegarlo, dato che il comportamento non-criminale è espressione dei medesimi bisogni e dei medesimi valori. Tale versione consiste di 3 principali concetti interconnessi tra di loro: il conflitto normativo, associazione differenziale, organizzazione sociale differenziale. Per Sutherland, le società moderne sono caratterizzate da alti tassi di criminalità perché composte da gruppi in conflitto tra loro rispetto a norme, valori, interessi. L’organizzazione sociale determina i tassi di criminalità influenzando la probabilità che i membri saranno esposti a definizioni conflittuali: il crimine si ritroverà ad aumentare o decrescere in una data società a seconda degli standard culturali di un gruppo sociale siano adottati da un altro. Se il tasso di crimine è l’espressione a livello sociale del conflitto normativo, il crimine individuale è causato da un eccesso di definizioni che gli sono favorevoli e a cui sono esposti i soggetti all’interno delle loro comunità. Il comportamento criminale viene appreso quando le definizioni favorevoli alla violazione delle norme superano le definizioni sfavorevoli alla violazione delle norme: in particolare Sutherland, sottolinea che l’apprendimento deviante e criminale non si basa semplicemente sulle tecniche (come scassinare, rubare un portafoglio) ma anche sulle definizioni, cioè i motivi e le razionalizzazioni che favoriscono le condotte devianti e criminali. Gli individui, possono ritrovarsi a utilizzare spiegazioni e giustificazioni anche al fine di preservare il proprio sé, di apparire ancora riconoscibili in termini morali oppure moralmente giustificabili. Questi aspetti sono evidenti nello studio offerto da Sutherland sui crimini dei colletti bianchi si riferisce alle attività criminali condotte da soggetti di alto status socioeconomico all’interno delle loro attività lavorative, produttive e aziendali. L’autore indica che i colletti bianchi sono in stretto contato con definizioni favorevoli alle loro eventuali attività criminali ma sono isolati e protetti da definizioni sfavorevoli nei confronti di queste condotte illegali. I colletti bianchi riescono a neutralizzare le forme di disapprovazione sociale e lo stigma perché dispongono di maggiori risorse per negoziare gli esiti devianti e criminali, determinando delle distorsioni sulle percezioni del pubblico, minimizzando le regole violate o la violenza utilizzata e appellandosi a norme e valori alternativi. METODOLOGIE e STRATEGIE di ricerca La teoria dell’associazione differenziale si prefigge di indicare i processi tipici attraverso cui gli individui progrediscono da condotte non-devianti verso quelle devianti. Questi studi hanno preferito, al posto dell’analisi dei dati aggregati e statistici i metodi biografici, l’osservazione, i self-report survery (le inchieste di autoconfessione) e la descrizione per poter definire profili e sistemi comportamentali, fasi della carriera e percorsi biografici, modelli di associazione e contesti sociopsicologici delle attività devianti. I metodi di analisi sono: 1) La classificazione tipologica permette di astrarre dai casi caratteristiche tipiche per definire “tipi ideali” rispetto ai quali confrontare altri casi concreti e di determinare tipologie di apprendimento, di modelli associativi, di tecniche e razionalizzazioni. 2) L’induzione analitica (utilizzata per la prima volta da Znaniecki e Thomas nello studio della condizione dei contadini polacchi migrati in America) consiste nello studio dettagliato di casi individuali al fine di produrre generalizzazioni applicabili a tutti i casi. La teoria dell’associazione differenziale ha tenuto conto principalmente di condotte individuali e le principali unità di analisi sono state rappresentate da apprendimento e comportamenti individuali. Facendo riferimento all’unità di analisi appropriata, un numero rilevante di ricerche ha utilizzato principalmente le inchieste campionarie di auto-confessione (self-report surveys) effettuate soprattutto tra popolazioni studentesche di livello medio e universitario. La teoria dell’associazione differenziale ha avuto ricadute sul piano educativo e culturale in modo da dissuadere gli individui dal seguire modelli non convenzionali favorendo l’associazione con modelli normativi convenzionali. Affinché l’azione sia incisiva, essa deve essere in grado di intervenire precocemente rispetto alle associazioni potenziali con modelli procriminali e deve di conseguenza interessare i più giovani. Per tali ragioni le politiche e gli interventi proposti in seno alla teoria sviluppano in termini generali programmi in tema di: 1. “Apprendimento preventivo” di condotte e valori proconvenzionali. Questa prima tipologia di interventi coinvolge i processi di socializzazione degli individui e le loro esperienze sociali, i contati diretti di tipo interpersonale (famiglia, gruppo dei pari…) e quelli indiretti (personaggi pubblici, mass media, blog, social media…). Questi interventi hanno finalità preventive e solitamente sono implementati attraverso programmi di comunità volti a diffondere modelli prosociali; 2. “Disapprendimento correttivo” dei modelli anticonvenzionali. Si fa riferimento a strategie più focalizzate da utilizzare nel caso in cui i soggetti facciano parte già di associazioni devianti. Questi interventi hanno la finalità di influenzare i processi imitativi attraverso modelli di ruolo convenzionali e anticriminali oppure di modificare i processi di associazione differenziale allontanando il soggetto dalle associazioni devianti e criminali e avvicinandolo a gruppi che definiscono le condotte devianti in modo sfavorevole. Dal momento che sono proprio i processi di socializzazione all’interno di piccoli gruppi a fornire un eccesso di definizioni favorevoli al crimine. Tra questi rientrano i programmi di peer mentoring, secondo i quali un soggetto assume un ruolo di modello positivo da seguire e tutti gli altri programmi di training per sviluppare competenze personali e sociali. Lo stesso discorso vale per le forme di rieducazione o ogni altro intervento che permetta una conversione. Essa propone un processo di risocializzazione in grado di costruire un forte senso di appartenenza alla società convenzionale attraverso 2 PROCESSI: -L’alienazione del deviante dai gruppi che sostengono modelli criminali; -L’assimilazione del soggetto ai gruppi convenzionali. SVILUPPI CONTEMPORANEI della TEORIA Questa teoria ha fornito una serie di spunti originali e di piste interpretative utilizzati da studi successivi che ne hanno rafforzato la rilevanza. È possibile far rientrare gli sviluppi della teoria all’interno di 3 prospettive analitiche specifiche: 1)L’Apprendimento dei meccanismi di apprendimento del crimine e della devianza Le teorie struttural-funzionaliste della devianza e del crimine (tra cui la teoria dell’anomia di Durkheim e teoria della tensione di Merton) rappresentano una svolta in direzione sociologica effettuata dalla criminologia. L’adozione di tale approccio è collegata al fatto che le teorie struttural-funzionaliste studiano la società come una totalità di strutture sociali e culturali tra loro indipendenti, ciascuna delle quali fornisce un particolare contributo detto “funzione” a favore del mantenimento di una o più condizioni essenziali per l’esistenza e la riproduzione del sistema sociale. I funzionalisti sottolineano 3 elementi: 1)L’interrelazione tra le parti del sistema; 2)L’esistenza di uno stato di equilibrio= alla condizione sana di un organismo; 3)La capacità di riorganizzazione, grazie alla quale le parti del sistema riportano una situazione squilibrata alla normalità. I funzionalisti tendono a utilizzare un concetto centrale: quello di valori condivisi, che concepisce gli individui come moralmente integrati nella società. Il funzionalismo ha scoperto per diversi anni una posizione dominante tra le teorie sociologiche contemporanee. Il suo più importante precursore è Durkheim, che con le sue opere, ha gettato i semi dell’approccio funzionalista allo studio della società che sarebbe stato ripreso nel primo 900’ da antropologi sociali (come Malinowski, Brown) e sistematizzato in una teoria da Parsons. All’interno dell’approccio struttural-funzionalista si svilupparono 2 principali approcci: 1.Le Teorie del Conflitto dove vedevano nel conflitto l’unica possibilità di risolver i problemi della società; 2.Le Teorie del Consenso che concentrano l’attenzione sugli elementi culturali e normativi della società, si imponevano il compito di studiare sistematicamente il problema dell’integrazione sociale. DURKHEIM Secondo lui la società e una realtà sui generis, che non può essere ricondotta alla somma degli individui che la compongono e al gioco dei loro singoli egoismi. Durkheim si concentra sul problema dell’ordine sociale e la necessità di un’integrazione morale degli individui all’interno del corpo sociale, realizzata grazie alla condivisione di un complesso di valori comuni. Nei suoi testi egli affronta il tema della devianza e del crimine, la prima importante riflessione sulla devianza è inserita nel paradigma sociale. Studiare sociologicamente la devianza significa cioè considerarla= un FENOMENO SOCIALE . Secondo il sociologo francese, la coesione della società si manifesta nella così definita “coscienza collettiva o comune” cioè l’insieme di credenze e dei sentimenti comuni ai membri della stessa società. I valori comuni della coscienza collettiva si cristallizzano nelle leggi che una società si dà: la legge è quindi l’indicatore dell’ordine morale vigente in una società, che permette di trattare la coscienza collettiva come un FATTO SOCIALE (una legge, la morale, le credenze, i costumi e le mode), che può essere osservato e studiato in modo scientifico. Riguardo allo studio della criminalità Durkheim ha uno sguardo relativistico, che è tipico della sociologia, che considera i fenomeni sociali in relazione alle caratteristiche specifiche della società in cui si manifestano. Anche il crimine è un fatto sociale = È PRESENTE in TUTTE le SOCIETA’. Questo significa che la criminalità è un fenomeno NORMALE, fisiologico e non patologico. Per spiegare un fatto sociale bisogna fare riferimento alle funzioni che svolge nella società, vale anche per il crimine, è un fenomeno UTILE e FUNZIONALE alla SOCIETA’ per 2 motivi: 1)la devianza permette il mutamento sociale, che è necessario; 2)Il crimine è necessario alla società perché permette di rafforzare la coscienza collettiva attraverso la sanzione penale. Quindi per Durkheim la devianza è dunque ambivalente da 2 punti di vista: -Il rapporto tra ordine sociale e mutamento sociale: la devianza gioca infatti un ruolo fondamentale sia nell’evoluzione della società che nel mantenimento dei suoi equilibri; -Il rapporto tra ordine sociale e devianza: la devianza è funzionale alla riproduzione e al rafforzamento dell’ordine sociale. La teoria dell’anomia di Durkheim è strettamente legata alla teoria della divisione del lavoro sociale, ossia dell’evoluzione della società come progressiva differenziazione interna, considerata per molti anni la teoria funzionalista del cambiamento. Per lui l’unico collante della società è la solidarietà. Egli fa una distinzione fra: SOLIDARIETA’ MECCANICA (Comunità rurali del periodo preindustriale) SOLIDARIETA’ ORGANICA (Società industriali moderne) Divisione del lavoro basata sulla somiglianza dei compiti Divisione del lavoro fortemente differenziata e complessa Enfasi sulla comunità (collettivismo) Enfasi sull’individuo (individualismo) Identità basata sullo status predefinito Identità basata sullo status raggiunto Forte coscienza collettiva con morale condivisa e consenso religioso Differenze di opinioni Economia basata su molteplici gruppi autosufficienti Economia basata su dipendenza e scambio reciproci Controllo sociale attraverso una legge repressiva diretta alla punizione dei devianti Controllo sociale attraverso una legge restitutiva diretta a riequilibrare la bilancia sociale Le moderne società industriali sono contraddistinte dallo stato di anomia = dove nella società del suo tempo potrebbe essere interpretata come divisione anomica del lavoro (dove il lavoratore non è in armonia con la sua situazione sociale se non si sente soddisfatto). PARSONS È il massimo esponente dello struttural-funzionalismo, approcciò che dominò la sociologia occidentale negli anni 50’. Egli è interessato alla formulazione di una teoria dell’azione sociale: dove il sistema è il concetto centrale. Quindi avremo il sistema della personalità, il sistema culturale e il sistema sociale. I 3 sistemi sono interconnessi tra di loro. Secondo Parsons, per la presenza dell’atto sono necessari: 1)L’attore; 2)Il fine cioè situazione futura verso la quale è diretta l’azione; 3)Una situazione in cui si colloca l’azione. Per ricercare l’origine della devianza bisogna volgersi all’analisi dei processi di socializzazione dell’individuo, con l’obiettivo di approfondire lo studio dei rapporti tra personalità e sistema sociale. La teorizzazione parsoniana rappresenta la patologia ( malattia ) come devianza . Tutte le situazioni in cui l'individuo non vuole o non può svolgere in modo efficace i ruoli sociali, e non adempie alle aspettative della società nei suoi confronti si configurano come devianze. Per Parsons, la malattia fornisce una possibilità molto maggiore di reintegrazione rispetto alla criminalità perché il ruolo del malato non soltanto separa e isola il deviante, ma lo sottopone anche a forze di reintegrazione= configurando la malattia come una devianza “istituzionalizzata” una disfunzione normalizzata. MERTON Egli è interessato alla formulazione di teorie di “medio raggio”, in cui applica le formulazioni della teoria funzionalista, per comprendere le devianze e le disuguaglianze sociali della società americana. Le teorie di medio raggio sono costruite sulla base dei risultati di ricerche empiriche e trattano di aspetti circoscritti di fenomeni sociali. La critica di Merton riguarda le affermazioni del funzionalismo, che si pongono come assiomi indimostrabili e non verificati attraverso la ricerca empirica. Egli ne individua 3: 1)il postulato dell’unità funzionale, secondo il quale tutti gli elementi di una cultura e tutte le attività sociali sono funzionali all’intero sistema sociale o culturale; 2)Il postulato del funzionalismo universale, per il quale ogni aspetto di un sistema sociale o culturale svolge una funzione positiva nei confronti dell’integrazione sociale; 3)il postulato dell’indispensabilità, secondo cui ogni elemento esistente in una società o in una cultura è indispensabile per lo svolgimento di una specifica funzione. Merton tratta la devianza criticando gli approcci teorici che affermano che la società reprima la libera espressione degli impulsi innati dell’uomo come le teorie freudiana e hobbesiana. Egli considera il comportamento socialmente deviante come un prodotto della struttura sociale, tale e quale il comportamento conformista. Lo studio della devianza si deve interrogare sulle fonti sociali e culturali. È proprio in una tensione che Merton rinviene le origini strutturali della devianza e in una tensione tra struttura sociale (il complesso delle relazioni sociali nelle quali i membri di una società o di un gruppo sono diversamente inseriti) e culturale (il complesso delle rappresentazioni comuni che regolano il comportamento dei membri della società o di un gruppo). Per spiegare le origini di questa tensione, per Merton 2 rivestono un’importanza fondamentale: 1)Le mete, ordinate in modo approssimativo in una gerarchia di valori e si presentano come obiettivi legittimi per tutti membri della società; 2)I procedimenti leciti per tendere a questi obiettivi, definiti da norme regolative che traggono le loro radici dal costume o dalle istituzioni. Il fatto che questi 2 elementi operino congiuntamente non significa che tra le une e le altre vi sia una costante relazione e integrazione. Ma vi sono anche società nelle quali le 2 dimensioni non sono integrate, e i cui opposti casi limite sono rappresentati dalle seguenti situazioni: 1)il predominio dei procedimenti leciti: si verifica nelle società in cui attività che all’origine avevano un significato strumentale vengono trasformate in pratiche da compiersi per se stesse; 2)il predominio delle mete: nelle società in cui il valore di certe mete è fortemente accentuato, talora in misura quasi esclusiva. individuo e ambiente sociale; -Merton sviluppa la sua teoria funzionalista dell’anomia a partire dalla teoria dei fattori strutturali di Durkheim: l’anomia è provocata dalla scarsa integrazione tra le mete culturali socialmente indotte e i mezzi considerati legittimi dalla società per perseguirle. Il limite della teoria di Merton è nella sua concezione mono-valoriale della società e nel non poter spiegare la criminalità espressiva. CAPITOLO 6: “TEORIE SUBCULTURALI DELLA DELIQUENZA E DEL CRIMINE” Le teorie subculturali della delinquenza e del crimine si occuparono dei processi aggregazione di gruppi definiti devianti sulla base di interessi comuni, o a partire dalla condivisione di medesimi codici culturali. La loro formulazione emerge all'inizio degli anni 20’, per poi articolarsi e definirsi alla fine degli anni 60’ e l'inizio degli anni 70’ in Inghilterra. Ritorneranno poi a partire dalla fine degli anni 80’ nei lavori recenti legati alle seconde generazioni. Partendo da approcci ecologici, e da studi urbani e metropolitani, gli esponenti integrano la teoria della disorganizzazione sociale con una visione funzionalistica e con un tentativo di riflessione sugli studi culturali. Un primo passo è quello di avere una definizione condivisa di CULTURA. Per Kluckhohn e Kroeber la cultura : “Consiste di modelli, resi espliciti o impliciti attraverso simboli, che costituiscono le conquiste distintive dei gruppi umani, comprese le loro incarnazioni in artefatti; il nucleo essenziale è costituito da idee tradizionali e soprattutto dai loro valori annessi; i sistemi culturali possono, da un lato, essere considerati come prodotti dell'azione, dall'altro come elementi condizionati di ulteriori azioni”. Il termine sottocultura o subcultura è stato utilizzato per la prima volta negli anni 40’ nel lavoro di Gordon: la definisce come una parte della prevalente cultura nazionale che si compone di una combinazione di situazioni sociali determinate da fattori quali la classe sociale, la residenza rurale o urbana e l’affiliazione religiosa. Il PRIMO AUTORE che ha ricercato una teoria delle subculture criminali è Cohen. Egli propone una teoria generale delle sottoculture, ha sostenuto che idee simili tendono a sorgere tra persone che vivono circostanze sociali simili. Cohen riprende da Merton il concetto di socializzazione anticipatoria e anche quello del gruppo di riferimento, correlando quindi l’adesione ai codici culturali con l’identificazione nel gruppo stesso. Il gruppo in qualche modo è l’unità di definizione dei modelli di azione così come dei sistemi di credenze. Il gruppo propone e definisce una visione e lettura del mondo. Cohen pone l’accento sulla natura sociale dei fenomeni, evidenziando come la delinquenza sia un fenomeno squisitamente sociale, in cui tanto le situazioni quanto le scelte incidono sul mancato adeguamento alle norme sociali prevalenti o condivisione delle mete sociali condivise. Egli sostiene che la devianza sia la conseguenza della composizione verticale e disomogenea della struttura sociale, causa di quella frustrazione strutturale che spinge ad aderire al gruppo, ai suoi condizionamenti e i suoi valori. L’approccio Cohen integra e sintetizza sia la dimensione sociale e collettiva degli studi urbani, dell’associazione differenziale di Sutherland, le spiegazioni eziologiche di tipo funzionaliste di Merton. 1)La sua teoria integra la dimensione “micro” del gruppo e quella “meso” della struttura sociale; 2)Il ruolo dello scambio comunicativo di codici tra i componenti e dei meccanismi di affiliazione al gruppo, gli status, gli avanzamenti di ruolo; I soggetti analizzati dallo studioso presentano tratti comuni: sono giovani, maschi, appartenenti all’underclass, che sognano gli obiettivi sociali della middle class che li esclude. Proprio per l’assenza dei mezzi legali per ottenere quello status, utilizzano quei meccanismi freudiani di reazione-formazione per ribaltare quelle mete sociali e leggerle in chiave oppositiva. Detto ciò, Cohen ha sostenuto che i giovani delinquenti in genere non hanno i mezzi per raggiungere lo status sociale o (come dice Merton) le mete sociali secondo le linee convenzionali, e in risposta formano gruppi (bande) che possano invertire le aspettative convenzionali in termini di raggiungimento dello status, rendendo quindi gli status legati ai codici interni alla banda come possibili. Una sottocultura delinquente, secondo Cohen, rappresenta un fenomeno che ha una serie di caratteristiche che la distinguono e richiede una differenziazione dalla criminalità adulta. L’osservazione della sottocultura delinquente è il suo essere gratuita, maligna e distruttiva. Non a caso LA BANDA DIMOSTRA ATTEGGIAMENTI OSTILI PER TUTTI COLORO CHE NON VI APPARTENGONO (sia coetanei che adulti). Egli sostiene che è la morale anticonformista dei gruppi a spiegare le condotte, non mancanze culturali o condizioni materiali di deprivazione. Egli, attraverso l’analisi dei dati e dei report della polizia, formula una teoria generale delle sottoculture. Viene individuata la precondizione: l’esistenza di un certo numero di agenti, in effettiva interazione tra di loro, con problemi di adattamento abbastanza simili. Il RICONOSCIMENTO avviene tramite 2 LIVELLI: -I gesti di esplorazione reciproca; -L’elaborazione combinata di una soluzione nuova. Tramite questi gesti, i partecipanti formano un complesso collettivo, che realizza il processo culturale, tramite forme quasi di conversione. L’aspetto significativo di questo processo è la dimensione sincronica e l’ottenimento di standard di gruppo su cui si fonda anche il reciproco riconoscimento . 3)Il lavoro di Cohen si concentra sulle opportunità offerte dalla sottocultura delinquente: la sottocultura propone criteri di qualificazione sociale che il gruppo stesso può soddisfare, variando la fonte della qualificazione sociale. I giovani si trovano ad oscillare tra il sistema morale e di valori introiettati dalla classe media e i propri atteggiamenti di ragazzo di strada. Per Cohen la cultura di strada non è specificatamente delinquente, ma lo diventa dove la conformità a norme della classe media interferisce con la conformità a norne del ragazzo di strada. Questo ultimo passaggio di scelta tra norme è quello che prevede il possibili ingresso nella gang. I SECONDI AUTORI sono Cloward e Ohlin che riprendono la dimensione spaziale e di contesto, formulando poi una teoria conosciuta come diversità strutturali della chance che viene riportata come “teoria delle opportunità differenziali” e si muove come critica alla Teoria di Cohen. Il lavoro proposto dagli autori, si basa sull’idea di diversità strutturali di opportunità differenziali di cui gli individui dispongono per servirsi di mezzi legittimi per raggiungere fini culturali. Quindi la scelta del deviante diventa un adattamento funzionale a un contesto di deprivazione, con una condivisione dei codici culturali e del sistema di valori condiviso con le classi dominanti. Gli autori così ampliano il raggio d’azione della teoria della tensione mertoniana, perché prevedono una struttura illegittima differenziale delle opportunità che permettono di accedere alle mete culturali e sociali. Per Cloward e Ohlin, le norme sociali si presentano sempre in modo dualistico: -da un lato ogni previsione normativa implica l’esistenza di un divieto; -dall’altro ogni divieto è tale se esiste una prescrizione. Infatti, le norme che definiscono le pratiche legittime definiscono implicitamente anche le pratiche illegittime. Uno degli scopi delle norme stesse è quello di delineare il confine tra pratiche legittime e illegittime. Ma quali condizioni rendono il gruppo subcultura? La subcultura si forma per raggiungere quelle mete sociali attraverso le alternative non conformi, proprio perché il sistema-gruppo permette di risolvere i problemi di adattamento alla condizione non conforme: disporre di mezzi adeguati per gestire paura e colpa e assenza di ostacoli per il ricorso a una soluzione collettiva. ethos è più prominente in una fascia d’età limitata che va dalla tarda adolescenza alla mezza età; 5)La contronorma è la non-violenza; 6)Lo sviluppo di atteggiamenti favorevoli alla violenza o all’uso della violenza in questa sottocultura implica un comportamento appreso e un processo di apprendimento, associazione o identificazione differenziale; 7)L’uso della violenza in una sottocultura non è necessariamente visto come un comportamento illecito, e i soggetti coinvolti non percepiscono perciò sentimenti di colpa per la loro aggressività. In sintesi, la teoria di Wolfang e Farracuti prevede una connessione tra cultura e subcultura, una prevalenza generazionale, una giustificazione della liceità della violenza e una socializzazione e l’apprendimento delle pratiche subculturali. INTERVENTI e POLITICHE di PREVENZIONE/CONTRASTO alle TEORIE SUBCULTURALI della DELINQUENZA e del CRIMINE Molte di queste politiche sono comuni ad altre prospettive, come quella critica e a quelle dell’etichettamento e della reazione sociale (cap. 9). Sono proprio le politiche urbane, che regolano quegli spazi interstiziali evocati da Thrasher, che sono state ampiamente utilizzate per il controllo sociale dei gruppi subculturali, soprattutto nell’accesso a spazi pubblici verdi e a spazi di consumo e vendita di alcolici a basso costo. Le politiche di controllo della devianza subculturale si sono sviluppate secondo 2 direttrici: -Sotto il profilo STRUTTURALE, con interventi compensativi e di politiche di eguaglianza sostanziale finalizzate a ridistribuire le opportunità e a rendere accessibili a tutti i gruppi sociali e mezzi legittimi; -Sotto il profilo CULTURALE, riducendo le forme celebrative di status e di successo personale da perseguire a ogni costo. Si sono immaginate politiche di contrasto alla dispersione scolastica, migliorando il rendimento scolastico, aumentando l’offerta di servizi sociali, favorendo programmi di formazione professionale. Sono da richiamare le politiche di normalizzazione proposte dalle amministrazioni locali, come per esempio il Comune di Barcellona, che ha attivato un processo di pianificazione e di rinuncia alla violenza riconoscendo le bande come associazioni culturali giovanili nel 2003, replicando il modello del Urban Peace and Justice Summit di Kansas City del 1993. Tra le politiche specifiche giovanili in caso di azioni criminali, si richiamano le Politiche di Diversion che prevede un allontanamento dei minori dai processi della giustizia penale. Infine, è da sottolineare l’importanza della comunità, che viene attivata su 2 differenti livelli: da una parte il supporto alle vittime e i processi di attivazione del sistema di controllo, dall’altra la sollecitazione per la ricostruzione dei legami tra i gruppi sociali e soprattutto nei confronti dei giovani e delle giovani. LE APPLICAZIONI e gli SVILUPPI CONTEMPORANEI delle TEORIE SUBCULTURALI della DELINQUENZA e del CRIMINE  Sykes e Matza e le ricerche sulla devianza giovanile. Secondo loro, i giovani sono immersi in un sistema valoriale convenzionale, tanto per le relazioni che intessono quanto per le forme di socializzazione dirette e indirette. Pertanto, si deve ragionare su una subcultura della devianza. I due autori, sostengono che sia fondamentale capire i punti di contatto tra il sistema convenzionale e quello alternativo, che possono avvenire attraverso 2 canali: 1)Sia la classe operaia che la gioventù borghese possiedono “valori sotterranei” e che quindi convergono in modo meno visibile; 2)I meccanismi di neutralizzazione usati per violare le norme senza rompere con il sistema valoriale, che ne permette l’elusione senza la frattura e il rifiuto anomico. Nel mondo del tempo libero, i giovani della classe operaia sono meno prevedibili e sfogano i loro valori sotterranei al di fuori della prescrizioni normative.  Una ulteriore trasformazione viene proposta da Becker sulla correlazione tra norme, soggetti e gruppi di potere. Il secondo concetto da richiamare è quello di imprenditori morali, ossia coloro che decidono di applicarsi per vedere la redazione di nuove norme e la loro successiva applicazione.  Il CCCS dell’Università di Birmingham, si sviluppa negli anni 70’ e 80’, sotto la guida di Clarke, Hall, Jefferson e Roberts. Questi autori propongono una lettura culturalista delle azioni sociali, in particolare interpretando le pratiche subculturali come forme di resistenza. La società viene rappresentata come divisa in 2 classi fondamentali (working class e middle class) ciascuna portatrice di una propria cultura di classe. Le subculture nascono, soprattutto nelle working class, attorno a cui si sviluppano modelli culturali in conflitto sia con la propria parent culture sia con la cultura dominante.  Jankowiski analizzò le gang soprattutto portoricane. L’autore afferma che le bande emergono come conseguenza di un particolare tipo di ordine sociale associato ai quartieri a basso reddito della società americana. Le aree a basso reddito nelle città americane, sono infatti organizzate interno a un’intensa competizione e a un conflitto per le scarse risorse che esistano in queste aree.  Anche Hagedorn ha saputo sistematizzare il lavoro sulle gang. Lo studioso prevede 6 fattori: 1)Superurbanizzazione, l’urbanizzazione mondiale senza precedenti ha creato condizioni fertili per la crescita delle bande; 2)Gang istituzionalizzate con maggiori complessità, rituali e segni significativi estetici; 3)Conseguenze non intenzionali del neoliberalismo; 4)Globalizzazione, sviluppo disomogeneo e narcotraffico; 5)Economia globale e ridivisone dello spazio in cui i processi di purificazione etnica, razziale e di classe proseguono ininterrottamente sia nelle città globali dei paesi capitalisti avanzati che nelle metropoli in espansione delle nazioni in via di sviluppo; 6)Centralità delle identità culturali.  In Italia: -Secondo Palmas e Torre, i gruppi propongono contenuti subculturali di carattere oppositivo che non sono per forza riconducibili solo ai codici di devianza e criminalità; -Franco Prina, ricostruisce il dibattito nazionale, il ruolo dei media e il panico morale delle così dette baby-gang; -Hamm e i lavori sul terrorismo come crimine. Egli propone una lettura subculturale delle forme recenti di terrorismo, analizzando i fenomeni sia nei quartieri più marginali che nelle strutture penitenziarie. Afferma che esistono analogie presenti tra le dinamiche dei gruppi radicalizzati, i processi di radicalizzazione e i processi di affiliazione della gang penitenziarie. VALUTAZIONE CRITICA delle Teorie Subculturali  I lavori di Cohen, Cloward, Ohlin e Miller hanno il PREGIO di riportare le analisi del livello micro a una teoria di medio raggio, in cui gli individui, i gruppi e le società sono interagenti e connessi.  Gelder individua 6 elementi traversali che caratterizzano la prospettiva subculturale e i modi con cui le subculture sono state analizzate: 1)Attraverso il loro rapporto spesso negativo con il lavoro (come inattivo, parassitario, edonistico…); 2)Il loro rapporto negativo o ambivalente con concetto di classe; 3)La loro associazione con il territorio, con gli spazi pubblici, molto più che con gli spazi privati; 4)Il loro allontanamento dalla casa familiare e la promozione di forme di appartenenza non domestica; 5)Il loro legame con l’eccesso e l’esagerazione; 6)Il loro rifiuto alle banalità della vita ordinaria e, in particolare, della massificazione.  Vari autori hanno mosso critiche ad aspetti specifici della teoria: 1)Bloch e Niederhoffer affermano che manchi di un vero e proprio sostegno empirico; 2)Per Macdonald la visione del mondo esposta dai teorici della sottocultura è astorica e poggia su una dicotomia/conformità contro anticonformismo e ignora le questioni più ampie del conflitto di classe. Viene anche accusata di avere un debole orientamento critico e di peccare di ingenuità intellettuale.  In tempi più recenti gli studi di Hodkinson hanno sottolineato il bisogno di un affinamento della nozione di sottocultura, un processo in grado di rimuovere gli aspetti problematici del concetto e permettere di integrare in esso gli insegnamenti tratti da lavori più recenti.  Rispetto alle nuove teorie sulle gang, Jankowski ha sintetizzato 4 filoni di teorie subculturali: 1)Le associazioni naturali proposte nel dibattito di ecologia urbana della Scuola di Chicago; 2)Le subculture delle opportunità bloccate, che riprendono il lavoro di Cloward e Ohlin; 3)I problemi relativi alla costruzione dell’identità; 4)Il lavoro di Katz e il suo modello “espressivo” sulla sensualità del crimine. Secondo l’autore, queste teorie presentano una serie di criticità comuni: 1)Collegano il processo di ingresso nella gang alle delinquenza, così mescolando tematiche distinte; 2)Utilizzano spiegazioni monodimensionali per spiegare i fenomeni; 3)Non considerano l’accesso alle gang come frutto di una decisione razionale finalizzata a massimizzare gli interessi personali, un processo centrale sia per il singolo che per la gang. Come ha detto l’autore la prospettiva culturale non ha all’oggi saputo rispondere in modo soddisfacente a una serie di variabili. Che cosa si intende per “costruzionismo”? È l’attività umana che crea i fenomeni di cui è fatto il mondo sociale. Per il costruzionismo, definire qualcosa come deviante non è una mera descrizione tecnica, scientifica, una constatazione empirica, bensì un atto morale (sociale). 2)Il pienamente deviante è colui che infrange le norme ed è recepito e definito tale dagli altri; 3)Il segretamente deviante è l’autore di quella condotta che, compiuta segretamente, non si può etichettare come deviante; 4)Il falsamente accusato riguarda coloro i quali sono ingiustamente accusati aver compiuto un atto deviante. Gli “specialisti dell’imputazione”, nel momento in cui reagiscono nei confronti di un soggetto considerandolo deviante, operano una ricostruzione del carattere morale dell’individuo, scandagliandone la biografia siano a ritrovarvi quei frammenti biografici che saranno utilizzati per assimilare la persona alla categoria. Questa forma di selezione delle informazioni è chiamata interpretazione retrospettiva ed è utilizzata dagli attori del controllo formale per validare le proprie “diagnosi” o per spiegare la condotta sotto esame in modo da trasformare i soggetti in oggetti conformi alle aspettative organizzative ed elaborare azioni future. L’etichetta di deviante può arrivare a configurarsi come status egemone, ovvero lo status che influenza le interazioni e definizioni altrui e che sovrasta ogni altra caratteristica del soggetto. Etichette come “tossico”, “pervertito” possono assumere il valore di un’identificazione totalizzante, per cui siamo necessariamente portati a pensare che chi possiede tali tratti presenti automaticamente altri eventuali caratteristiche (i cosiddetti tratti ausiliari) associate in modo stereotipato ai tratti indesiderabili principali. All’interno delle fasi di imposizione di tipo coercitivo di uno status possono verificarsi cerimonie di degradazione di status, momenti sociali ritualizzati per mezzo dei quali l’identità pubblica di un attore sociale viene collegata nelle posizioni inferiori della gerarchia locale dei tipi sociali. 3)Livello micro-sociale, studiando le conseguenze che le etichette sortiscono sugli status e le biografie degli individui “etichettati” e le capacità di questi ultimi di gestire, trasformare e ribaltare lo stigma loro attribuito. I processi di tipizzazione, classificazione e di diagnosi possono rientrare all’interno del più generale processo di attribuzione e di conferimento di uno status deviante/criminale, che vede l’identificazione pubblica seguita da forme più o meno complessive di esclusione dell’individuo etichettato dalla partecipazione alle attività convenzionali, da effetti sull’autoconcezione del sé e dalla possibilità di ribaltare l’etichetta assegnategli. A tal fine è necessario, secondo Lemert, distinguere i concetti di: -Devianza primaria cioè le violazioni di scarsa importanza, non organizzate, non regolari e temporanee che il soggetto può ritrovarsi anche a “normalizzare”. Sebbene questi comportamenti possano risultare problematici non impattano sull’identità del soggetto probabilmente perché sono “normalizzati” dal contesto sociale in cui hanno luogo; -Devianza secondaria cioè quelle attribuzioni trasformate in ruoli attivi che assumono la funzione di criterio sociale per assegnare uno status derivante dalla reazione formale che il soggetto “etichettato” utilizzerà come parte del suo “me, come nuova modalità di autoriconoscimento”. Tale forma di devianza implica, la trasformazione degli ambienti simbolici e interattivi ai quali gli individui rispondono con ripercussioni sulla struttura psichica, con l’organizzazione dei ruoli sociali e con la presenza di nuovi atteggiamenti nei confronti del sé. La distinzione operata da Lemert NON È PRIVA DI PROBLEMATICITA’: soprattutto per quanto concerne il concetto di devianza primaria che corrisponderebbe a trasgressioni che esistono indipendentemente dalla reazione sociale. Infatti, le teorie della reazione sociale e dell’etichettamento privilegiano le dimensioni implicite soprattutto nella devianza secondaria e nel rafforzamento dello status deviante che può avvenire nel momento in cui il soggetto intraprende una carriera deviante, le cui fasi finali coincidono con l’ingresso in una subcultura deviante e un pieno coinvolgimento del sé. La carriera deviante implica “aspetti morali”, poiché prevede nel suo sviluppo dei cambiamenti regolari nell’immagine di sé di un soggetto e degli altri coinvolti, in modi diretto e indiretto. In particolare, Becker elabora un modello di carriera deviante e criminale composto da 4 fasi principali: 1)una PRIMA FASE legata alla commissione di un atto non conforme che infrange un insieme specifico di norme compiuto non intenzionalmente, oppure consapevolmente (dove il trasgressore neutralizza il proprio coinvolgimento e legame con le norme e la società convenzionali, attraverso lo sviluppo di “vocabolari di motivi” e di neutralizzazioni); 2)la SECONDA FASE prevede un consolidamento delle attività devianti e criminali e consiste nello sviluppo di motivazioni, interessi e definizioni subculturali favorevoli a questo tipo di condotte; 3)la TERZA FASE della carriera deviante coincide con l’etichettamento pubblico del soggetto, con implicazioni per la sua partecipazione alle attività sociali convenzionali e per l’immagine del sé; si tratta della fase in cui l’etichetta attribuita diventa status egemone attraverso cui il soggetto sarà interpretato in termini retrospettivi; 4)la QUARTA FASE il passo finale nella carriera del deviante, è l’accesso all’interno di un gruppo deviante organizzato accomunato dalla medesima condotta deviante del soggetto (o da altre affini e contigue), che gli offra prospettive e modi per affrontare i problemi in grado di influire sulla propria concezione di sé e che porti il soggetto a consolidare la propria identità deviante anche in termini emotivi. NON BISOGNA IMMAGINARE LA CARRIERA COMPOSTA DI FASI SEQUENZIALI ORDINATE IN TERMINI DETERMINISTICI. L’acquisizione di un’identità deviante non presenta uno schema costante, dal momento che con una riduzione della condotta deviante e delle reazioni sociali diminuiscono allo stesso modo le possibilità di acquisire un’identità deviante o, al contrario, un loro aumento può aumentare l’acquisizione di un’identità deviante. Con l’espressione “Processo di Stigmatizzazione” si intende l’attribuzione a un individuo/un gruppo sociale di una o diverse caratteristiche (fisiche, morali, ideologiche…) nel corso delle interazioni sociali, cui consegue una serie di comportamenti reattivi che vanno dalla derisione, all’esclusione, all’isolamento e alla condanna, un processo che conduce a contrassegnare pubblicamente delle persone come moralmente inferiori. Secondo Goffman, l’ordine normativo impone cornici di riferimento per mezzo delle quali classifichiamo la realtà e l’ambiente circostante. Lo stigma si riferisce a un processo relazionale complesso che implica due prospettive: quella del “normale” e quella dello “stigmatizzato”. Le concezioni del sé di un individuo stigmatizzato e le reazioni informali e istituzionali che possono essere attivate possono guidarlo verso l’intrapresa di una carriera morale: all’interno di essa, gli individui rielaborano il proprio sé a partire dalle reazioni ricevute dall’esterno e dalle loro stesse concezioni. La carriera morale dello stigmatizzato si compone di 3 fasi schematiche di base: 1)la PRIMA FASE 2)la SECONDA FASE 3)le FASI FINALI della CARRIERA MORALE dello STIGAMATIZZATO Uno dei nodi centrali dell’analisi sociologica della stigmatizzazione corrisponde alla questione della visibilità dello stigma, del controllo delle informazioni dell’identità e delle modalità messe in atto dagli stigmatizzati per tentare di tenere nascosti i segni stigmatizzabili ed evitare il discredito conseguente. Il riferimento classico è la distinzione che opera Goffman tra: -Screditato si riferisce all’attore sociale i cui segni di stigmatizzazione sono immediatamente visibili o noti e sono indipendenti dalla sua volontà; -Screditabile mette in atto strategie atte a controllare le informazioni che potrebbero palesare o disvelare la sua condizione. Mentre lo screditato fronteggia le tensioni, lo screditabile si ritrova a gestire le informazioni decisive che lo riguardano. Gli individui sottoposti ad attribuzioni devianti e stigmatizzanti possono fare uso di una serie di tecniche di normalizzazione, ossia di strategie che mettono in atto per eludere l’assegnazione di un’etichetta stigmatizzante, nascondendo certi atti, caratteristiche o attributi e tentando di presentare il proprio sé in termini convenzionali. Tra le principali tecniche di normalizzazione rientrano: 1)Il passing cioè le strategie messe in atto per dissimulare caratteristiche identitarie o tratti stigmatizzabili, fingendo di possedere attributi differenti rispetto al proprio status e alle proprie concezioni reali; 2)Il covering cioè comprende strategie di adattamento più sofisticate per rimediare alla propria identità “compromessa” nel caso di stigmi posseduti da soggetti che rischiano maggiormente di “essere scoperti e perdere la faccia” (come nel caso del malato terminale di AIDS che giustifica il proprio stato di salute come dipendente da malattie meno stigmatizzate come la leucemia o polmonite); 3)L’isolamento gli individui limitano il più possibile le proprie interazioni e creano reti intime e limitate in grado di fornire supporto e protezione da ambienti solitamente ostili (per esempio un soggetto affetto da balbuzie, che frequentando individui a lui intimi, non avverte il bisogno di nascondere le proprie caratteristiche). Lo screditato, progetta e mette in atto strategie di stigmatizzazione per negare o cancellare una identità deviante e stigmatizzata rimpiazzandola con una fondamentalmente normalizzata. Tra le strategie specifiche messe in atto dallo screditato ritroviamo: 1)La purificazione il soggetto sostituisce un sé compromesso con uno normale attraverso un processo di “rinascita, con il sacrificio di sé e con l’espiazione dello stigma (per esempio i gruppi di mutuo aiuto o di self-help); 2)La trascendenza è una forma di destigamtizzazione riferibile agli status devianti e stigmatizzati ascritti e prevede la creazione di un’identità sovranormale in grado di trascendere la propria condizione attraverso condotte, azioni e tratti che non ci si aspetta da soggetti di un certo tipo e con certe caratteristiche (per esempio l’atleta paralimpico che compie azioni tali da mostrare un sé migliore non eliminando il vecchio sé).; 3)Il ripudio dello stigma (e della devianza) il discreditato nega il proprio stigma, come se non gli appartenesse e non costituisse un reale ostacolo a essere normale (per esempio è il caso delle persone con disabilità che normalizzano le proprie relazioni con i “normali”); 4)Il distanziamento strategia di gestione dello stigma che prevede che gli individui rinneghino le attribuzioni devianti dissociandosi dai ruoli che vi sono associati (come per i senzatetto, si possono distanziare dai propri simili, rifiutando assistenza ed enfatizzando altri aspetti della loro vita); 5)La conferma dello stigma (e della devianza) i soggetti stigmatizzati riconoscono la propria condizione e cercano al contempo di mantenere un’identità sociale positiva, assumendo ruoli pro-sociali come individui 2)di ordine teorico -Gli approcci radicali e neo-marxisti sostengo che le teorie della reazione sociale e dell’etichettamento sono animate di uno spirito liberale che sottrae devianza e crimine da ogni riflessione critica dei contesti storici, strutturali e delle condizioni sotto cui opera il labeling ufficiale. Ma anche CRITICHE “INTERNE” alla teoria: Lemert il quale rimprovera la svolta eccessivamente relativista della prospettiva, criticandone i metodi di ricerca e incoraggiando a guardare “oltre Mead”, dunque oltre le forme di etichettamento interpersonale per considerare il contesto sociale più vasto o i gruppi politici che producono effetti sulle risposte legislative e organizzative nei confronti di devianza e crimine. La Scuola di Iowa, muove critiche di ordine più prettamente metodologico: l’interazionismo simbolico strutturale, evidenzia problematicità rispetto alla validità e alla generalizzabilità dei risultati delle ricerche condotte dalla Scuola interazionista simbolico blumeriana, sostenendo che si tratti di una prospettiva piuttosto che di una teoria in senso stretto. CAPITOLO 8: “TECNICHE DI NEUTRALIZZAZIONE” Nato come critica delle teorie subculturali della devianza (negli anni Cinquanta del XX secolo), secondo le quali i delinquenti condividono i valori, norme e modi di vedere il mondo diversi da quelli degli individui normali, il tema delle tecniche di neutralizzazione, introdotto da Sykes e Matza, sottolinea il fatto che anche chi è coinvolto in attività illecite tende a razionalizzare la propria condotta e a renderla legittima, comprensibile e scusabile agli occhi degli altri e tenta di conservare integro il senso del proprio sé. Fonte di ispirazione molto importante per le tecniche di neutralizzazione sono: 1) Sutherland e il concetto di definizioni favorevoli alla violazione della legge Egli sosteneva che il comportamento criminale è appreso nel corso delle interazioni con gli altri, quando le definizioni favorevoli alla violazione della legge superano le definizioni sfavorevoli alla violazione della legge. Secondo lui, i criminali apprendono non solo le tecniche del crimine ma anche i motivi, le razionalizzazioni, gli atteggiamenti favorevoli alla commissione del crimine. 2) I deliri sistematici di Redl e Wineman Secondo loro, la personalità dei ragazzi delinquenti è caratterizzata da un io costantemente impegnato a difendere la gratificazione degli impulsi dall’assalto della coscienza morale e del mondo esterno. Questo impegno prende la forma di precise tecniche di difesa: DELIRI SISTEMATICI. Alcune sono: “E’ lui che ha cominciato”; “Fanno tutti così”; “Se lo meritava”; “E’ un tipo spregevole”; “Ce l’hanno tutti con me”; “Ribelli per una causa altrui”. 3)Il vocabolario di motivi di Mills 4)Il concetto di derivazioni di Pareto Le derivazioni servono a razionalizzare tramite parole. Per Pareto ogni forma di comportamento umano ha bisogno di essere razionalizzato, non solo le condotte devianti (le derivazioni si avvicinano a ciò che in sociologia prende il nome di “ideologia”. Le tecniche di neutralizzazione possono essere definite come artifici linguistici universali (disponibili da tutti) di “ripudio della devianza”, tramite le quali gli individui razionalizzano le loro azioni devianti, le rendono legittime, comprensibili permettendo a se stessi di conservare integro il senso del proprio sé e immacolata la propria reputazione. Tali tecniche precedono il comportamento deviante e lo rendono possibile, convertendo l’infrazione in una semplice azione. Sono le tecniche di neutralizzazione a consentire all’individuo di oscillare tra legalità e illegalità, tra fedeltà all’ordine convenzionale e infrazione dello stesso. Sykes e Matza individuano 5 tecniche di neutralizzazione: 1)La negazione della responsabilità la forza di questa tecnica sta nel fatto che consente all’individuo di sentirsi totalmente esente da colpe e di preservare agli occhi di se stesso un’immagine intatta e candida della propria identità. È la principale tecnica adoperata dagli autori dei genocidi nazisti (Mi fu ordinato di farlo), dai colletti bianchi (Non avevo scelta). Il numero di fattori deresponsabilizzanti è potenzialmente numeroso: il delinquente può chiamare in causa fattori biologici insopprimibili, l’obbedienza all’autorità, la costrizione della società, genitori anaffettivi, cattive compagnie. 2)La negazione del danno consiste nel negare di avere arrecato un danno con la propria azione. Esempio classico il delinquente che definisce “una ragazzata” la rapina a mano armata appena eseguita. Negando di aver causato il danno, il soggetto minimizza ai propri occhi le conseguenze negative alla sua azione, neutralizzandone gli effetti. La negazione del danno gioca sulla naturale tendenza degli umani a valutare la portata di un’azione a partire delle sue conseguenze. Questa tecnica è chiamata in causa anche in contesti non devianti: esempio come il consumo di droga, sesso a pagamento (non arrecano danno a nessuno, non dovrebbero essere considerate reati). 3)La negazione della vittima consiste nel neutralizzare la negatività della propria azione, lasciando intendere che la vittima non è veramente tale. Questa tecnica ha assunto negli ultimi tempi un rilievo molto attuale: per esempio i cosiddetti computer crimes dove l’assenza di una vittima immediata e percepibile facilita di molto la commissione del reato. 4)La condanna di chi condanna consiste nello spostare l’attenzione dai propri atti devianti alle motivazioni e al comportamento di coloro che sanzionano la condotta delinquenziale. Il delinquente accuserà i suoi giudici di essere prevenuti nei suoi confronti o la polizia di essere brutale o spinta da rancori personali. Questa tecnica è particolarmente adottata da politici e amministratori coinvolti in scandali finanziari. 5)Il richiamo a lealtà superiori consiste nel giustificare le proprie azioni, evocando appartenenze superiori. Un delinquente può ricorrere esclusivamente a parte di queste tecniche o una sola o a nessuna di esse. La teoria delle tecniche di neutralizzazione è stata oggetto di numerose ricerche che hanno tentato di verificarne sia la validità concettuale ed empirica sia la capacità predittiva. Gli studi su tali tecniche possono essere suddivisi in 2 orientamenti: - Approccio induttivo e qualitativo basato su interviste semi-strutturate somministrate a varie tipologie di delinquenti allo scopo di far emergere le tecniche di neutralizzazione con cui essi razionalizzano i reati commessi. Questo consente un’immersione diretta nella “mente” degli intervistati e ha permesso di verificare l’uso di tecniche di neutralizzazione in un’ampia gamma di situazioni devianti (bracconaggio, furto di automobili). Queste ricerche sono numerose e dimostrano che il ricorso alle tecniche di neutralizzazione non è qualcosa di patologico ma è estremamente diffuso in ogni ambito della vita quotidiana. -Verificare empiricamente attraverso metodi quantitativi, la validità della teoria delle tecniche di neutralizzazione. Le strategie adoperate sono 2: 1)Il disegno di ricerca che prevede un’indagine su un campione trasversale= si chiede a un gruppo di persone condannate per uno o più reati di esprimere accordo o disaccordo su un elenco di tecniche di neutralizzazione in rapporto a scenari di azioni ipotetiche. Le risposte sono poi confrontate con quelle di un gruppo di “innocenti, per poi verificare se i membri del primo gruppo tendono a far maggiore ricorso alle tecniche di neutralizzazione rispetto ai membri del gruppo di controllo (innocenti); 2)Verificare l’esistenza di una correlazione tra l’inclinazione all’uso delle tecniche di neutralizzazione e il compimento di atti devianti all’interno di un unico campione sulla base della metodologia dell’autoconfessione. Il campione è costituito da studenti di college e i reati presi in esame sono compiere scorrettezze sul luogo di lavoro e compiere piccoli reati informatici. Solo gli studi longitudinali (che valorizzano la dimensione temporale) permettono di verificare se la neutralizzazione precede il comportamento criminale o costituisce una mera razionalizzazione ex post. Nella maggior parte dei casi, la Teoria di Matza e Sykes, ha trovato conferma. Spesso i risultati dimostrano che chi è più incline al ricorso alle tecniche di neutralizzazione tende maggiormente a partecipare in futuro ad azioni devianti. Tuttavia le correlazioni evidenziate appaiono per lo più deboli. La teoria di Sykes e Matza ha avuto anche una serie di applicazioni pratiche: Clarke ha adoperato le tecniche di neutralizzazione nell’ambito delle sue 25 tecniche di prevenzione situazionale del crimine; in particolare la tecnica removing excuses che ha l’obiettivo si smascherare come artefici linguistici le tecniche cognitive cui fanno ricorso i delinquenti per giustificare le proprie azioni. La teoria della neutralizzazione è adoperata anche nell’ambito della reintegrative shaming and restorative justice, forma di giustizia riparativa in cui i rei e vittime siedono insieme intorno a una tavola con altri membri della comunità. In questi incontri il reo e quasi “costretto” ad assumere la piena responsabilità CAPITOLO 9: “TEORIE DEL CONFLITTO E RADICALI” Le teorie del conflitto e della radicalità costituiscono una prospettiva molto particolare all’interno della sociologia della devianza e del crimine, perché con la nozione di conflitto si possono intendere tante tipologie di azione sociale. Il modo con cui la sociologia della devianza e del crimine usa e si interroga su questa prospettiva deve necessariamente confrontarsi con la teoria politica, con gli studi sul potere e con gli studi sul capitalismo, a partire da alcune coppie concettuali specifiche come il rapporto tra legalità e illegalità, legittimità e illegittimità dei conflitti. Le teorie sociologiche del conflitto che aprono la pista a studi più specifici relativi a conflitti, devianza e crimine sono ascrivibili al pensiero di Marx, Simmel, Durkheim e Weber. Tra gli anni 50’ e 70’ del Novecento il mondo occidentale è stato caratterizzato da una proliferazione di conflitti tendenzialmente legati a 2 correnti di pensiero opposte:  Critico-liberale (decisamente più moderato) ha cercato di veicolare il conflitto nella direzione di un processo di normalizzazione della competitività, della concorrenza tra gruppi sociali più o meno dominanti, prestando più attenzione al concetto di potere, nonché al rapporto tra conflitti, legge e istituzioni. Tale corrente nasce e si sviluppa negli Stati Uniti e in Europa intorno alla metà degli anni 50’ a partire dagli studi di Dahrendorf e Coser e successivamente poi Vold e Turk. In polemica con la teoria di struttural- funzionalista di Durkheim, partono da alcuni assunti determinanti: 1)E’ il conflitto la vera molla del mutamento sociale; 2)Il conflitto è funzionale alle società capitalistiche; 3)La società è composta da gruppi sociali perennemente in conflitto e in competizione tra loro al fine di conquistare il potere; 4)I gruppi sociali dominanti influenzano i processi di criminalizzazione insiti all’interno del diritto penale perché detengono il potere politico; 5)La criminalità è generata dai processi di criminalizzazione che ha una natura politica. Per Dahrendorf, il conflitto è un grosso agente trasformativo a condizione che si produca nel sistema, anziché contro il sistema. Per Coser, il conflitto svolge sempre una funzione positiva, dipende molto dalla tipologia dello stesso conflitto. I conflitti e le lotte che minacciano di rovesciare l’ordine sociale delegittimando il sistema, sono disfunzionali perché non vanno nella direzione di un riadattamento delle norme e dei rapporti di potere pre-esistenti, da qui la distinzione tra: -Conflitti realistici cioè conflitti funzionali perché propongono alternative utili al miglioramento della struttura sociale attraverso mezzi legittimi e razionali; -Conflitti non realistici hanno un carattere istintuale, irrazionale, rabbioso, fine a se stesso che li rende inutili o poco avvezzi a mutare l’ordine sociale e normativo dall’interno della struttura sociale, al fine di un suo miglioramento. In sintesi, la devianza e il conflitto sono validi solo se veicolano forme di socializzazione utili a innovare l’intera struttura sociale. Vold, sviluppa la dimensione criminologica all’interno della sociologia del conflitto. Secondo lui la questione criminale è sempre una questione politica e va analizzata attraverso i processi di criminalizzazione perché è solo attraverso essi che si struttura il potere di definizione del crimine da parte di alcuni gruppi sociali dominanti su altri. Inoltre, ritiene che anche il crimine sia un elemento normale oltre che inestirpabile delle società occidentali. Per Turk la devianza può essere ritenuta dai gruppi sociali maggioritari come un comportamento offensivo, stigmatizzabile, ma non necessariamente ascrivibile a una violazione delle norme; mentre la criminalità è sempre uno status attribuito attraverso il potere legale di definizione in virtù di una norma violata. I processi di criminalizzazione ci indicano che: 1)C’è sempre una modalità selettiva all’interno del processo di criminalizzazione prevalentemente determinata dalle autorità preposte alla gestione del crimine, la polizia in primo luogo; 2)A generare il processo di criminalizzazione sono in prevalenza le autorità legali che detengono il potere di decidere sulla creazione e sull’applicazione del nome. Infine specifica come, non esiste solo il conflitto sociale agito prevalentemente dall’esterno contro lo Stato ma andrebbe presa in considerazione anche la variabile del conflitto culturale, cioè il conflitto interno tra le diverse posizioni sociali.  Critico-socialista e radicale , deriva direttamente dal marxismo e dagli echi delle sue teorie che caratterizzano a vario titolo l’alba teoria degli anni 60’ e 70’ in Europa e negli Stati Uniti d’America. Secondo tali teorie il conflitto, alla base, si genera a partire dalle asimmetrie di classe generate dal capitalismo, nonché le modalità attraverso cui vengono emanate le leggi specie quelle sui “poveri”. All’interno di tale prospettiva radicale delle teorie del conflitto sono rintracciabili 2 filoni: Secondo Quinney, la realtà sociale del crimine può assumere le sembianze del suo stesso rovescio nel senso di realtà intesa come costruzione sociale, anziché come dato di fatto materiale, trasformando così la stessa criminalità in un prodotto delle definizioni delle classi egemoniche che detengono il potere contro i subalterni. Per lui infatti: 1)La realtà di un crimine dipende dalla definizione che viene data di esso da parte di chi detiene il potere politico (ad esempio attraverso le leggi e il diritto penale); 2)Il crimine viene definito in quanto tale perché confligge con gli interessi di chi lo definisce; 3)A rendere operative queste definizioni sono gli attori sociali che applicano le leggi penali e amministrano la giustizia penale; 4)Una volta definito cosa è crimine, i modelli di comportamento della popolazione si modulano attorno a esso generando, nuove forme di criminalizzazione; 5)I mezzi di comunicazione di massa hanno un ruolo fondamentale nel diffondere la costruzione sociale del crimine. Chambliss, scriveva contro la legislazione inglese sul vagabondaggio accusandola di produrre un diritto borghese fortemente punitivo nei confronti del proletariato urbano. Dopo qualche anno, studiò il sistema penale americano, stabilendo che le leggi afferenti al diritto borghese oltre a generare delle forme di punizione nei confronti dei poveri, mistificano il principio secondo cui “la legge è uguale per tutti”. Baratta, con il progetto di criminologia critica e di critica del diritto penale nonché la sua proposta di politica criminale alternativa a quella di stampo liberale, egli introduce gli elementi fondamentali che vanno presi in considerazione per strutturare una teoria materialista del crimine: 1)Per capire il crimine e la devianza è indispensabile comprendere e partire dalla variabile socioeconomica delle società capitalistiche attraverso l’analisi dei comportamenti socialmente negativi e dei processi di criminalizzazione che li accompagnano attraverso il diritto penale borghese; 2)Le politiche criminali alternative possono costruirsi a partire dal punto di vista delle classi subalterne, anziché dal punto di vista di chi detiene il potere. Secondo lui, per favorire una maggiore eguaglianza tra gli attori sociali bisognerebbe agire il conflitto per cambiare e superare il diritto penale disuguale, rafforzando alcune tutele penali sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, in modo da alleggerire la pressione sulle classi subalterne rendendo più visibile la criminalità economica dei potenti. Una matrice Critico-rivoluzionaria o radicale, tendenzialmente votata a una prospettiva antisistema Una matrice Critico-riformista, denominata realismo di sinistra, atta a trasformare e a stravolgere gli assetti su crimine e devianza attraverso nuovi interventi legislativi mirati a potenziare una cultura inclusiva dei diritti sociali per le fasce più deboli della popolazione. criminale. Una socializzazione che Parsons collega ai “processi di interazione” tra gli status e i ruoli che ciascun individuo ricopre nella struttura sociale. Si possono indentificare 2 VISIONI del controllo sociale: 1)il controllo sociale come LEGAME SOCIALE, che descrive i meccanismi di interiorizzazione delle norme che riducono la probabilità di compiere un atto deviante e criminale; 2)il controllo sociale come REAZIONE SOCIALE, che identifica i processi attraverso i quali il controllo sociale, anziché agire da fattore deterrente, rappresenta l’elemento costitutivo della devianza. Le prospettive del controllo sociale, sviluppate a partire degli anni 60’ del 900’, presentano dei tratti innovativi nell’ambito della criminologia. Le teorie del controllo, definite anche teorie della socializzazione, hanno come oggetto di studio gli ambiti della struttura sociale, formali (come la famiglia e la scuola) e informali (come il gruppo dei pari), e i meccanismi interni ed esterni all’individuo che favoriscono l’adesione alle norme e ai valori socialmente condivisi e che, di conseguenza, operano quali fattori di riduzione del rischio della devianza. L’idea del controllo presuppone che non vi sia una naturale tendenza verso il conformismo, ma verso la deviazione delle regole e fornisce una spiegazione del comportamento criminale applicabile a tutte le classi sociali, in quando individua l’ordine della devianza in una mancata o ridotta socializzazione delle norme e dei valori convenzionali. Il controllo sociale muove da un concetto assoluto di conformismo e nega che all’interno della struttura sociale possa esistere una pluralità di norme e valori. Pertanto, l’adesione ai valori socialmente condivisi e l’esistenza di forti legami comunitari impediscono di porre in essere atti criminali. Le teorie del controllo recuperano:  L’idea della NORMALITA’ della DEVIANZA di Durkheim, al tempo stesso rimandano al concetto di moralità elaborato dal sociologo francese quale fattore di contenimento del comportamento deviante “Le norme morali sono vere e proprie forze nelle quali vengono a scontrarsi i nostri desideri, i nostri bisogni, i nostri appetiti di ogni genere. La morale è una disciplina, un vasto sistema di divieti, che essa ha per oggetto la limitazione della sfera in cui può muoversi l’attività individuale”.  La TEORIA del CONTENIMENTO di Walter Reckless che spiega la devianza attraverso i concetti del “contenimento interno” (rimanda alle caratteristiche del Sé) e del “contenimento esterno” (fa riferimento alla famiglia, la scuola e al contesto sociale, che offrono opportunità conformiste e sviluppano appartenenza e identità). La spinta verso il conformismo dipende dall’avere una concezione positiva di sé e da un elevato controllo esterno.  Jackson Toby e il concetto di INTERESSE nel CONFORMISMO per indicare i rischi che derivano dalla deviazione rispetto alle regole sociali, affermando che maggiori sono tali rischi, minore è la probabilità di violazione delle norme. Tale teoria spiega l’influenza esercitata dalla scuola nel processo che conduce (o meno) nella devianza, facendo riferimento alle conseguenze negative del comportamento anticonformista: l’atto deviante e criminale mette in pericolo l’intera carriera scolastica e il futuro lavorativo.  Ivan Nye pone all’origine della criminalità l’INEFFICACE FUNZIONAMENTO dei seguenti FATTORI: 1)il controllo diretto, che rimanda sia alle sanzioni del comportamento deviante, sia alle ricompense del comportamento conforme alle regole; 2)il controllo indiretto, che fa riferimento all’attaccamento alle figure genitoriali quale deterrente, dato il timore che i figli hanno di perdere l’affetto dei genitori; 3)il controllo interiorizzato o autocontrollo, che si riscontra quando il rispetto di norme e valori convenzionali diventa un tratto proprio della personalità dell’individuo.  Matza e Sykes pongono alla base dell’agire criminale il LEGAME con i VALORI SOCIALMENTE DOMINANTI. Il naturale imperativo morale verso il conformismo rende necessario il ricorso a specifiche tecniche di neutralizzazione di tale imperativo per poter compiere un atto deviante. Il presupposto da cui muovono le teorie del controllo è quello secondo cui gli esseri umani sono degli “animali amorali”, cioè inclini a deviare rispetto alle regole sociali e giuridiche poste in un determinato luogo e in un determinato tempo. Per questo motivo l’oggetto di analisi devono essere i processi di spinta verso il conformismo. Esistono differenti tipologie di controllo sociale:  Una prima classificazione assume come punto di riferimento l’INDIVIDUO e descrive i meccanismi attraverso i quali il controllo agisce su di lui/lei, distinguendo tra: 1. Controlli esterni, fungono da deterrente per il timore di incorrere in sanzioni sociali (l’esclusione e la riprovazione) o sanzioni giuridiche e penali; 2. Controlli interni che agiscono direttamente sull’individuo, il cui comportamento deviante viene frenato da sentimenti quali la vergogna o la colpa; 3. Controlli interni che agiscono indirettamente sull’individuo, in virtù del rischio che si corre nel deludere le aspettative degli altri ponendo in essere un comportamento deviante e criminale.  Una seconda classificazione riguarda le DINAMICHE che RIDUCONO il rischio di DEVIANZA, identificando: 1. Un controllo informale o relazionale, che opera all’interno delle istituzioni primarie (come famiglia, scuola, gruppo dei pari, comunità) e agisce da freno del comportamento deviante, attraverso un sistema di ricompense per chi si conforma alle regole o di sanzioni per chi le devia; 2. Un controllo formale o istituzionale, che proviene dalle agenzie responsabili dell’applicazione delle norme (come il sistema penale e sanitario) e rappresenta un deterrente in virtù del potere legittimo che tali agenzie hanno di applicare sanzioni (come il carcere, il trattamento sanitario) nei confronti di chi tiene comportamenti non conformi alle regole; 3. L’autocontrollo, che deriva dall’interiorizzazione di norme e valori sociali e spinge l’individuo verso un agire convenzionale per ottenere gratificazione e riconoscimento e, al tempo stesso, lo trattiene dall’azione deviante per evitare conflitti morali e sentimenti di vergogna. Le teorie del controllo si sono mosse lungo 2 direttrici di analisi: -Alcuni sociologi, si sono concentrati sui fattori che creano un legame tra l’individuo e la società, enfatizzando l’idea di un controllo sociale esterno; -Altri si sono focalizzati sui fattori interni all’individuo che agiscono come freno rispetto a un’inclinazione verso la devianza, definendo tali freni nei termini di autocontrollo. Uno dei maggiori esponenti del controllo sociale è TRAVIS HIRSCHI. Nella sua opera Causes of Delinquency (1969), opera un confronto tra i giovani delinquenti e i non delinquenti, analizzando le ragioni che sono alla base del comportamento deviante e i fattori di spinta verso il conformismo. L’autore, all’origine della delinquenza, rintraccia la mancanza o la debolezza dei legami sociali dell’individuo con la struttura convenzionale e identifica gli elementi che caratterizzano tali legami con: 1)L’attaccamento, che rimanda al legame affettivo con gli “altri significativi” indica il processo attraverso il quale si realizza l’apprendimento delle regole sociali e determina lo svilupparsi della coscienza che guida le azioni di ciascun individuo; 2)L’impegno, che rappresenta la componente razionale dei legami e rimanda al tempo e alle energie impiegate in quelle attività convenzionali (come l’istruzione e lavoro) che consentono a ciascun individuo di raggiungere i propri obiettivi; 3)Il coinvolgimento, che descrive l’elemento temporale del legame sociale poiché una persona può essere semplicemente tanto impegnata in attività convenzionali da non trovare il tempo per mettere in atto comportamenti devianti; 4)La convinzione, che identifica l’adesione morale al sistema convenzionale di norme e valori. Hirschi si DISCOSTA dalla teoria delle tecniche di neutralizzazione, in quanto ritiene che il comportamento criminale sia dovuto a un ridotto convincimento che le regole convenzionali debbano essere rispettate. Lo studioso analizza i meccanismi del controllo che operano nella famiglia, nella scuola e nel gruppo dei pari. Con riferimento all’ambito familiare, il sociologo elabora 3 INDICATORI dell’ATTACCAMENTO alle FIGURE GENITORIALI. Si tratta:  Dell’indice di supervisione (che misura il controllo che i genitori esercitano, direttamente o indirettamente sui figli);  Dell’indice di confidenza della comunicazione;  Dell’indice di identificazione affettiva (che misurano l’esistenza di dialogo, fiducia e sostegno reciproci tra genitori e figli). A incidere sulla devianza non risulta essere tanto la supervisione diretta dei genitori (come restrizioni e punizioni), quanto il controllo indiretto che opera attraverso la “catena causale”. Analogamente sono le DINAMICHE nel CONTESTO dell’ISTRUZIONE, che l’autore analizza nei suoi aspetti oggettivi (come il rendimento scolastico) e soggettivi (come l’attaccamento agli insegnati e la credenza che lo studio sia importante per il futuro). Il PERCORSO che RENDE LIBERI di COMPIERE un ATTO DEVIANTE, procede attraverso uno scarso rendimento e la manifestazione di rifiuto nei confronti del frequentare la scuola, porta al mancato riconoscimento dell’autorità degli insegnanti e all’indebolimento del legame che frena il comportamento deviante e criminale. Lo studio di Hirschi ridimensiona il ruolo del gruppo nella commissione di un atto criminale e riafferma la validità della teoria del controllo, in quanto dimostra che forti legami sociali operano come deterrente e prevalgono anche sull’influenza del gruppo delinquente. Nel 1990, Hirschi e Gottfredson elaborano la TEORIA dell’AUTOCONTROLLO, che si colloca all’interno delle prospettive criminologiche qui discusse in quanto di esse condivide l’assunto della natura tendenzialmente deviante degli uomini. L’autocontrollo è definito come “la tendenza differenziale degli individui a evitare gli atti criminali”. Se un basso livello di autocontrollo non determina, necessariamente, la commissione di un atto criminale; al contrario chi possiede un elevato livello di autocontrollo avrà, sempre e comunque, meno probabilità di essere coinvolto in un atto di devianza o criminalità. Tali programmi sono stati elaborati a partire dai risultati di “studi longitudinali”, una tipologia di indagine che consiste nel raccogliere informazioni sul corso della vita e sviluppo degli individui (durante un ampio arco temporale) al fine di valutare se e in che modo fattori individuali, nel corso della crescita del minore agiscono sul comportamento deviante e criminale. Per esempio: o Il Pittsburgh Youth Study, realizzato su un campione di 1.500 maschi (le cui biografie sono state studiate dai 7 ai 25 anni), dimostrando che lo scarso controllo e il basso supporto dei genitori e l’essere poco coinvolti nelle attività della famiglia rappresentano i fattori che maggiormente aumentano la probabilità della delinquenza. Le teorie del controllo sociale sono state sviluppate attraverso studi condotti sia a livello:  Macro-sociale , cioè analizzando le caratteristiche dei quartieri, delle città o degli Stati che spingono verso la criminalità. Il controllo sociale è stato associato alla teoria della disorganizzazione sociale della Scuola di Chicago, rintracciando la fonte del controllo nelle reti di relazioni (formali e informali) esistenti all’interno della comunità;  Micro , cioè identificando i fattori individuali posti alla base del comportamento criminale. Il concetto di autocontrollo è stato definito nei termini di “moralità” e posto alla base della Situational Action Theory, che identifica in un basso livello di moralità il principale fattore di propensione verso il comportamento deviante e criminale. L’idea del controllo è stata accomunata dall’apprendimento, data l’enfasi posta sui processi di socializzazione quale fattore chiave per l’interpretazione del comportamento deviante:  La rete del conformismo (analizzata Krohn) spiega la devianza a partire dalla bassa densità delle reti sociali dell’individuo, che sarebbe causa di indebolimento dei legami e dell’aumento della probabilità di apprendere comportamenti devianti e criminali;  Anche la teoria dell’apprendimento sociale (di Akers) integra il concetto del convincimento morale che le norme convenzionali debbano essere rispettate con la nozione della prevalenza di definizioni sfavorevoli alla violazione della legge. La PRINCIPALE CRITICA mossa all’integrazione del controllo sociale con la prospettiva dell’apprendimento si fonda sulla diversità di fondo che esiste tra i 2 approcci: -l’idea del controllo presuppone che la natura umana sia tendenzialmente volta verso la devianza e che alcun interesse debba essere rivolto alle motivazioni del comportamento deviante e criminale; -le teorie dell’apprendimento ravvisano nell’influenza del gruppo e nei processi di socializzazione la causa o il freno della devianza. Un ulteriore e interessante sviluppo dell’idea di controllo sociale integrata in un nuovo approccio teorico è quello dell’equilibrio del controllo che Tittle pone a fondamento di una spiegazione generale della criminalità. Integrando le teorie dei legami sociale con le 3 prospettive criminologiche (scelta razionale, dell’anomia e dell’associazione differenziale), identifica 4 fattori che costituiscono la motivazione che spinge verso la devianza: 1. Fattori di predisposizione (età, status sociale, genere, appartenenza etnica); 2. Fattori situazionali (collegati alle circostanze del comportamento deviante, come per esempio la provocazione); 3. Fattori di costrizione (relativi alla probabilità, anche percepita, che il controllo possa essere efficacemente esercitato); 4. Fattori di opportunità (che rimandano alla possibilità di concreto compimento dell’atto deviante e criminale). Le teorie del controllo muovono dal paradigma consensuale, che presuppone l’esistenza di un’ampia condivisione sociale in merito al sistema di norme e valori che regolano i rapporti tra i consociati. Per questo i comportamenti devianti e criminali devono essere sanzionati per ripristinare il turbato ordine sociale. Le CRITICHE mosse a tale teoria:  Il carattere reazionario di tale approccio, ossia di un ordine intorno al quale si costruisce il consenso normativo e valoriale della comunità;  Presupponendo l’esistenza di una natura deviante degli individui, ignorano la costruzione sociale e giuridica della devianza;  Ai programmi di prevenzione precoce: essendo basati sulla valutazione probabilistica del futuro comportamento deviante e avendo come target privilegiato nuclei familiari comunque problematici, rischiano di stigmatizzare i giovani coinvolti nei programmi e le loro famiglie come potenzialmente pericolosi e devianti;  All’autocontrollo: in quanto la relazione tra self-control e devianza è basato su una logica circolare. Dove un basso autocontrollo aumenta la predisposizione a compiere atti devianti e criminali I LIMITI delle teorie del controllo:  Si focalizza sulla devianza giovanile, questo ha messo in discussione la possibilità di essere definiti come teorie “generali” della criminalità;  Le inchieste autoconfessione non sono idonee a indagare la criminalità degli adulti, consentono lo studio delle più lievi manifestazioni di devianza;  La durata temporale degli studi longitudinali rende queste indagini non adeguate a supportare la programmazione di politiche giovanili, siano esse politiche sociali o di sicurezza. CAPITOLO 12: “TEORIE FEMMINISTE DELLA DEVIANZA E DEL CRIMIN E ” Le prospettive femministe si sviluppano rea gli anni 70’ e 80’, grazie alla contaminazione delle teorie femministe della così detta “seconda ondata” in ambito filosofico, sociologico e storico e all’emergere della critica ai fondamenti epistemologici e metodologici delle scienze sociali. La critica femminista ha prodotto un insieme di prospettive che hanno radicalmente trasformato e trasgredito la criminologia sia dal punto di vista epistemologico che da quello metodologico. Le prospettive femministe in criminologia si fondano su alcuni NODI CENTRALI:  L’analisi del rapporto tra sesso e genere e la loro contestualizzazione nella cornice analitica del patriarcato;  Il superamento delle epistemologie positiviste nelle scienze sociali attraverso la decostruzione della neutralità dello sguardo scientifico e dell’oggettività della realtà osservata;  Il fondamento della conoscenza e della sua produzione nell’esperienza soggettiva;  La riflessività nei processi di ricerca, con l’interrogazione del rapporto tra soggetto e oggetto e la ridefinizione della dinamica e degli obiettivi dei processi di ricerca;  L’impegno dichiaratamente politico rivolto al cambiamento sociale. LA “SECONDA ONDATA”: sesso/genere, uguaglianza/differenza ed esperienza -Daly e Chesney-Lind sintetizzano gli assunti fondamentali delle prospettive femministe: a)Il genere non è un fatto naturale ma un complesso sociale, storico e prodotto culturale; è correlato, ma non semplicemente derivato, dalla differenza sessuale biologica e dalle capacità riproduttive; b)Le relazioni di genere ordinano la vita sociale e le istituzioni sociali in modi fondamentali; c)Le relazioni di genere e le costruzioni di mascolinità e femminilità non sono simmetriche ma si basano su un principio organizzativo di superiorità degli uomini e di predominio sociale e politico-economico sulle donne; d)I sistemi di conoscenza riflettono le visioni degli uomini del mondo naturale e sociale; la produzione di conoscenza è di genere; e)Le donne dovrebbero essere al centro dell’indagine intellettuale, non periferiche, invisibili o appendici agli uomini. È intorno a questi nodi che le prospettive femministe elaborano le loro teorizzazioni e analisi. CAPITOLO 18: “COERZIONE E SOFFERENZA MENTALE” Da sempre il folle è stata una figura della minorità e accompagnata da forme di coercizione. La costruzione sociale dell’immagine del pazzo ben rappresenta il desiderio di demarcazione tra i sani e i malati. Il trattamento moderno delle patologie mentali è scandito da 3 grandi passaggi d’epoca: 1)Durante la Rivoluzione Francese dove Philippe Pinel decise di liberare dalle catene gli internati. Egli introdusse la tecnica chiamata “trattamento morale” e impose il divieto di punizione come prima forma di umanizzazione delle cure; 2)Fu l’avvento della psicanalisi con la cura delle nevrosi nello spazio di studi privati, un approccio che fece concorrenza alle terapie somatiche: shock, insulina e psicochirurgia; 3)Intorno agli anni 60’ del 900’ portò al processo di deistituzionalizzazione, che divenne la caratteristica distintiva dell’assistenza sanitaria alla salute mentale per molti Paesi Occidentali. Si assistette alla chiusura dei manicomi e all’istituzione di nuovi servizi distribuiti sul territorio. PETER CONRAD e l’ADHD Peter Conrad, sociologo americano, nel 1975 pubblica un saggio in cui denuncia come l’iperattività infantile sia esempio di medicalizzazione della devianza: «Il processo attraverso cui certe categorie di comportamento deviante cominciano a essere definite in termini di problemi medici piuttosto che come problemi morali o penali, e la medicina diventa l’agente principale del controllo sociale al posto, ad esempio, della famiglia, della religione o dello Stato, infine il trattamento non è più punitivo ma diventa di tipo medico (farmacologico)». LA MEDICALIZZAZIONE DELLA DEVIANZA AGISCE COME UNA FORMA DI CONTROLLO SOCIALE, FINALIZZATA A MANTENERE LO STATUS QUO E A IMPEDIRE IL CAMBIAMENTO SOCIALE. Non a caso il trattamento medico sostituisce la condanna (es. tossico dipendente che “sconta la sua pena” in una comunità terapeutica). Il personale psicomedico sostituisce le classiche figure della giustizia e dei tutori della legge, come giudici e poliziotti. Il ricovero ospedaliero o in comunità sostituisce la prigione. Es. la LUDOPATIA il gioco d’azzardo diventa una malattia e non un comportamento immorale o trasgressivo. Il ludopatico va curato per via medica, attraverso un trattamento farmacologico e psicoterapeutico, e non sanzionato moralmente o denunciato alla polizia. Anche i timidi vengono medicalizzati= la timidezza viene definita una patologia (come fobia sociale). LE CARATTERISTICHE della MEDICALIZZAZIONE della DEVIANZA 1)Normalizzazione Anche con la medicalizzazione i “devianti” sono riportati alla definizione socialmente accettata di normalità. La medicalizzazione è una forma di controllo ancora più pervasiva perché impone la normalizzazione attraverso l’intervento biomedico. Una volta definiti come “malati”, i devianti sono ricondotti alla normalità attraverso trattamenti farmacologici, ma i farmaci sono droghe psicoattive che piegano l’individuo influendo sui suoi processi neurologici. Le possibilità di resistenza sono veramente ridotte al minimo. 2)Deresponsabilizzazione La medicalizzazione implica una minimizzazione della colpa: il soggetto non può essere ritenuto responsabile o interamente responsabile se è stato condizionato da forze – genetiche, neurologiche o biologiche – che sopraffanno la sua volontà. Come reazione sociale alla devianza non c’è più la sanzione o la punizione. Ma esiste solo il trattamento medico o psicoterapeutico. 3)Individualizzazione Una volta medicalizzate, le questioni devianti non sono più viste come problemi sociali, che quindi necessitano da un lato trasformazioni nella struttura sociale, ma come problemi individuali (organici, psicologici etc.) che richiedono forme individualizzate di soluzione. ES. i poveri sarebbero tali perché hanno patologie neuro-psicologiche e non a causa di una struttura sociale ingiusta 4)Depoliticizzazione Quei comportamenti devianti che potrebbero essere forme di protesta sociale e politica sono privati delle loro autentiche ragioni e ridotte a questioni di malattia mentale – come avveniva in Unione Sovietica, dove i dissidenti erano considerati alla stregua di matti. tale potere di controllo appare neutro, meramente tecnico, e svolto da soggetti – medici, psichiatri, psicologi – che non necessariamente devono avere intenzioni malevole, ma anzi ritengono di agire in coscienza per aiutare soggetti che hanno bisogno di aiuto. LA PANDEMIA COVID-19 Le strategie medico-politiche di contenimento della pandemia hanno catapultato le nostre vite in una dimensione sanitaria totalizzante: dove non c’è nessuna distinzione tra vita quotidiana e condizione sanitaria. Le strategie di contenimento e contrasto al diffondersi del contagio sono state strettamente intrecciate con scelte politiche che hanno direttamente a che fare con i processi della vita. MEDICALIZZAZIONE e DEMEDICALIZZAZIONE • Il caso più famoso è l’omosessualità, la quale è stata ritenuta un disturbo psichiatrico fino al 1990, per poi essere riconosciuta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come «variante naturale del comportamento umano». • Un discorso parzialmente diverso vale invece per le soggettività transgender: per quanto il DSM-V abbia introdotto la diagnosi di «disforia di genere» in sostituzione a quella precedentemente adottata di «disturbo». CAPITOLO 24: “PANICO MORALE” Cos’è il panico morale? Con il termine panico morale si intendono i fenomeni sociali che danno luogo a reazioni collettive che coinvolgono diversi attori sociali e istituzioni e in cui la reazione alla minaccia percepita è spropositata rispetto alla realtà oggettiva della minaccia stessa. Questi fenomeni possono essere spiegati con il modello sociologico del panico morale, possono riguardare diversi temi e problemi sociali circoscritti e limitati nel tempo o di più lunga durata e quindi possono ripresentarsi negli anni. I panici morali spesso emergono più facilmente quando le società fanno esperienza di tensioni tra spinte evolutive e spinte regressive. Di recente alcuni studiosi hanno cercato di sostituire il termine panico morale con il termine panico sociale. In questo modo però va a perdersi, il riferimento esplicito alla dimensione morale che fortemente caratterizza questo fenomeno. Il concetto di panico morale nacque all’interno della criminologia e sociologia critica britannica tra gli anni 60’ e 70’. Tale concetto trova la sua culla nel così detto “approccio critico alla devianza”, sviluppatosi in risposta all’approccio conservatore della criminologia che riteneva la devianza come conseguenza di tratti e caratteristiche rigide degli individui. L’approccio critico si ispirava al pensiero di Becker-Lemert-Erikson che si erano dedicati a studiare processi di costruzione sociale della devianza e della normalità, i processi di etichettamento. I primi criminologi britannici che lavorarono al concetto di panico morale:  Young analizzò le statistiche relative all’uso di sostanze stupefacenti. Un aumento degli arresti collegati al “mondo della droga” era stato presentato al pubblico come conseguenza diretta dell’incremento dell’uso delle sostanze creando così una sorta di panico morale. Secondo lo studioso la variazione era dovuta all’istituzione dei nuclei antidroga della polizia.  Cohen aveva studiato le subculture giovanili inglesi dei rockers e dei mods, cercando di descrivere il modo in cui le agenzie del controllo sociale, i mass media e i pubblici reagivano ai comportamenti di queste bande. Secondo l’autore di tanto in tanto le società sono attraversate da periodi di panico morale nei quali: a)Una situazione, un episodio, una persona o gruppo di persone iniziano a essere considerati una minaccia ai valori e agli interessi di una società; b)La natura della minaccia viene rappresentata in modo semplificato e stereotipo dei mass media, così che il pubblico possa facilmente riconoscerla; c)Giornalisti, religiosi, politici conservatori danno luogo a crociate morali; d)Esperti accreditati formulano diagnosi e suggeriscono soluzioni al problema sociale in atto; e)Vengono sviluppati e utilizzati modi per affrontare la minaccia; f)La minaccia poi può sparire, sommergersi, oppure deteriorarsi e divenire più visibile. Può accadere che “l’oggetto” che fa scatenare un panico morale sia nuovo, ma altre volte tale “oggetto” esiste da molto tempo e dopo una lunga latenza può tornare alla ribalta. Cohen era interessato più ai processi sociali che caratterizzavano questo fenomeno. Infatti, egli giunse a identificare una sequenza tipica di accadimenti caratteristici dei panici morali, dando luogo a un modello processuale del panico morale (quindi in questo modello ritroviamo): 1)Una fase di emergenza: la minaccia morale emerge; si tratta di un problema iniziale di solito dovuto alle caratteristiche strutturali della società stessa; 2)Una fase di manipolazione dei media ovvero i media operano una esagerazione e distorsione della minaccia morale; 3)Una fase in cui gli imprenditori morali sono attivi nel definire e ridefinire la minaccia; 4)Una fase in cui gli esperti prendono piede e si pronunciano a favore o a sfavore delle interpretazioni fornite da altri rispetto alla minaccia e orientano il pubblico; le reazioni alla minaccia tendono a polarizzarsi; 5)Una fase della reazione istituzionale e dei rimedi: in questa fase le istituzioni reagiscono alla minaccia mettendo in campo azioni pubbliche specifiche volte a trovare una soluzione alla minaccia, come una modificazione delle leggi in risposta alla minaccia; 6)Una fase di latenza: in questa fase si riscontra una diminuzione dell’attenzione verso la minaccia, che talvolta può sopravvenire anche in maniera improvvisa; 7)Effetti di lunga durata: nel tempo gli elementi costitutivi della minaccia vengono assorbiti nel senso comune dando luogo a effetti di lunga durata e quindi a una riconferma degli stereotipi. Secondo Cohen i mass media rivestono un ruolo fondamentale nel definire la risposta sociale alla devianza, nel creare folk devils, ovvero dei nemici fuori dall’ordinario che mettono a repentaglio l’ordine In relazione al processo di costruzione sociale della devianza, il “sapere” degli operatori gioca un ruolo fondamentale: è infatti attraverso tale “sapere” che le persone e le loro condotte sono classificate, ordinate e regolate. Per affrontare tale questione l’analisi sarà articolata in 3 parti: 1)Si parlerà del controllo sociale nella relazione tra assistente sociale e utente; 2)Si analizzeranno i due paradigmi (positivismo e costruttivismo) entro cui si possono collocare le prospettive teoriche sulla negligenza e sulla condotta pregiudizievole (abuso), affrontando le seguenti questioni: qual è la natura di tali fenomeni (questione ontologica), come si possono conoscere e qual è la natura della relazione tra il ricercatore e ciò che può essere conosciuto (questione epistemologica), con quale metodo si possono studiare (questione metodologica). 3)Si evidenzierà come i paradigmi che orientano il processo di categorizzazione degli utenti possono influenzare le forme con cui viene esercitato il potere e il controllo sociale, favorendo o meno pratiche antioppressive. Con il termine “controllo sociale” si fa riferimento sia ai meccanismi e alle condizioni che rendono stabile una società, sia alle azioni intenzionali che vengono messe in atto per regolare la condotta di quelle persone che sono considerate devianti. Il processo attraverso cui viene esercitato il controllo sociale può essere scomposto analiticamente in 4 “momenti essenziali”: 1)La definizione normativa della condotta deviante Questa fase è relativa al processo di formazione delle norme. Il deviante è un soggetto non adeguatamente socializzato, poiché le norme e i valori che dovrebbero orientare i comportamenti sociali dovrebbero essere condivisi da quasi tutti i membri di una società. Non è per tanto in discussione la norma violata, ma il comportamento deviante che deve essere corretto: 1)La definizione normativa della condotta deviante dove è necessario fare un focus sul comportamento deviante; 2)La scoperta della devianza; 3)La presa di decisioni nei confronti del deviante; 4)L’eventuale attuazione di un provvedimento. Per decidere se è necessario intervenire in una certa situazione, gli operatori sociali devono raccogliere informazioni attraverso specifiche procedure scientificamente fondate (come interviste, check lists, visite domiciliari…). La domanda (la questione ontologica) da cui dobbiamo partire per studiare e trattare la negligenza e l’abuso è la seguente: qual è la natura di tali fenomeni? Sono fenomeni che esistono indipendentemente dall’attività interpretativa del ricercatore? Esistono indipendentemente dall’attività definitoria degli esseri umani? Sono cioè un “bruto” dato di realtà? Per la VISIONE POSITIVISTA i fenomeni sociali hanno una loro esistenza indipendentemente dall’attività conoscitiva degli uomini e delle donne e quindi possono essere osservati empiricamente, misurati e statisticamente analizzati da un ricercatore neutrale; Per la VISIONE COSTRUTTIVISTA il mondo sociale è costituito da realtà socialmente costruite che devono essere investigate attraverso l’interpretazione; il ricercatore è considerato come uno degli attori nella situazione oggetto di analisi; L’APPROCCIO STORICO e quello ANTROPOLOGICO hanno evidenziato come l’abuso e la negligenza siano fenomeni storicamente e culturalmente determinati; La PROSPETTIVA SOCIOLOGICA ha mostrato come l’abuso e la negligenza siano comportamenti socialmente determinati: fattori come la povertà, la classe sociale, l’etnia, il contesto sociale in cui vive, sono fortemente associati ai comportamenti genitoriali che vengono etichettati come abuso e negligenza. Ciò che differenzia gli studiosi è il diverso orientamento verso la natura del sistema normativo e valoriale. Per i POSITIVISTI, tale natura è consensuale e quindi la negligenza e l’abuso possono essere studiati come se fossero “reali”; per i COSTRUTTIVISTI, non si può studiare la negligenza e l’abuso sui minori senza considerare il processo attraverso cui determinati comportamenti vengono etichettati come “devianti”: si deve spostare l’analisi dai comportamenti e dalle caratteristiche di quelli che infrangono le norme ai processi attraverso i quali certi individui finiscono coll’essere definiti devianti da altri. Il secondo interrogativo che dobbiamo porci è il carattere epistemologico: come ciò che esiste può essere conosciuto? E infine dobbiamo affrontare la questione metodologia: ciò che esiste, si fa “catturare” oggettivamente dalle “procedure del metodo”? Qual è il metodo più adeguato per studiare ciò che può essere conosciuto? Per i POSITIVISTI, la scienza è un’attività empirica che si fonda sull’osservazione dei “dati bruti”: cioè che non sono il risultato di operazioni mentali soggettive del ricercatore. Gli studiosi sostengono che il fondamento della scienza risieda in un linguaggio osservativo teoricamente neutrale. Essi studiano l’abuso come se fosse un “bruto dato” di realtà, che esiste indipendentemente dall’attività interpretativa degli attori sociali, e che è possibile misurare; Per i COSTRUZIONISTI, i fenomeni sociali non possono essere studiati con i metodi delle scienze naturali. Ogni progetto d’intervento, avendo lo scopo di influenzare il comportamento dei destinatari dell’intervento stesso affinché ritornino a comportarsi alle aspettative di ruolo, sia una forma di controllo sociale. Il controllo sociale è una manifestazione di potere, dato che il potere è la capacità di produrre effetti intenzionali. Nell’ambito del lavoro sociale, la capacità di influenzare il comportamento di un soggetto dovrebbe essere esercitata con lo scopo di promuovere benefici per le persone sulle quali si esercita. Wartenberg distingue 2 forme “positive” di potere: 1)La Relazione Paternalistica quando l’agente dominante usa il proprio potere per procurare un benefico a un altro attore sociale che non è ritenuto pienamente in grado di autodeterminare il proprio corso di azione; 2)Il Potere Trasformativo quando lo scopo dell’agente dominante non è semplicemente quello di agire per procurare un beneficio al soggetto subordinato, ma quello di fare in modo che l’agente subordinato apprenda quelle competenze e acquisisca tra lui e l’agente dominante. Esercitare un “potere protettivo” promuovendo l’autodeterminazione e l’empowerment delle persone soprattutto di quelle che non hanno scelto di entrare in contatto con gli operatori e che non accettano la definizione degli operatori della loro situazione è certamente problematico e complesso. Un approccio costruttivista consente all’operatore sociale di mettere in campo una risorsa strategica per la gestione di relazioni di potere trasformative. Una persona si può mettere nei panni di un’altra se adotta una prospettiva in cui la rivalutazione della devianza e l’empatia siano imprescindibili strumenti d’indagine, poiché soltanto attraverso tale approccio si può ridurre la distanza tra i due soggetti. La categorizzazione degli utenti può ridurre l’attività degli assistenti sociali a puro controllo della vita familiare: gli operatori sociali finiscono per svolgere un “ruolo antagonista” nei confronti dei loro utenti. CAPITOLO 27:” I SUICIDI” Il suicido è un fenomeno enigmatico e personale. Esso appare profondamente personale perché matura, e spesso si compie, in totale solitudine: l’individuo è solo con sé stesso e poco altro. Il fondatore stesso della disciplina sociologia Émile Durkheim, egli ha dedicato uno dei suoi primi lavori Le Suicide (nel 1897). Per lui, il nodo da sciogliere è la natura apparentemente personalissima del suicidio, che lo rende una difficile sfida per la sociologia. Il sociologo supera il problema attraverso una serie di abili mosse: 1. Per il sociologo francese è chiaro: le condizioni personali non possono causare il suicidio. Le vere cause del suicidio stanno all’esterno dell’individuo, nelle caratteristiche della società; 2. La concezione scientifica del suicidio: sia l’atto di chi ha voluto uccidersi sia quello di chi si sacrifica volontariamente vanno fatti rientrare all’interno del genere suicidio, anche se appartengono a sottospecie differenti; messaggio lanciato dal suicidio, in quanto i destinatari dell’accusa o al contrario, mera audience di cui il suicida cerca la simpatia e l’approvazione. Il sociologo americano fa notare, che i significati che può assumere un atto suicida non sono illimitati, ma dipendono dai modelli socialmente prevalenti di cosa può essere una legittima ragione di suicidio. Nella società occidentale tali modelli sono: la vendetta, la ricerca di aiuto, la fuga, la ricerca di approvazione, l’espiazione di una colpa, l’incolpare qualcuno, l’autopunizione, la difesa della propria rispettabilità. Anche l’approccio costruzionista è stato oggetto di CRITICHE: Sia Douglas e Jacobs, analizzano i significati di atti che qualcun altro ha già definito i suicidi e in questo senso cadono nello stesso errore che rimproveravano a Durkheim e alla scuola positivista: ignorano in base a quali procedure i casi da loro analizzati sono stati definiti in primo luogo come suicidi. Le statistiche ufficiali collocano l’Italia tra i paesi europei a più basso numero di suicidi: 6.5 ogni 100.000 abitanti. Nel 2017 i suicidi in Italia sono stati 3935, con un decremento consistente del 10% rispetto a dieci anni prima. Il suicida italiano è principalmente maschio, anziano e afflitto da disturbi mentali e/o fisici. NON ESISTE una definizione assoluta di suicidio, questa cambia da società a società, da periodo storico a periodo storico. Lo stesso termine “suicidio” non è sempre storicamente esistito ma la sua introduzione nel lessico è avvenuta solo nel XVII secolo. La comparsa in quel periodo non fu casuale e non rappresentò un fatto meramente lessicale: PRIMA per indicare la morte volontaria si preferiva “omicidio di sé medesimo”, perché il suicidio veniva equiparato all’omicidio. Non a caso, il suicida veniva “punito” per l’atto commesso: il suo cadavere veniva impiccato o bruciato e i suoi beni confiscati; SUCCESSIVAMENTE l’introduzione del termine segnò l’emergere di una nuova sensibilità, che portò a distinguerlo dall’omicidio e a depenalizzarlo. Ben presto la percezione sociale del suicida si modificò radicalmente: da criminale scellerato e ripugnante, il suicida si trasformò in una persona sofferente di cui avere compassione= divenne vittima. Tuttavia, un’altra difficile sfida si profilò: la sua liceità. Nonostante si ami la vita, può capitare che una situazione di estrema sofferenza spinga l’individuo a desiderare la morte. Ancora oggi la questione della libertà di morire è oggetto di numerose controversie. L’eutanasia altro che non è che un suicidio assistito, ed è interessante notare che la discussione sulla sua liceità sia di fatto un dibattito sulle motivazioni del suicidio.