Scarica SOCIOLOGIA DELLE MIGRAZIONI AMBROSINI e più Appunti in PDF di Sociologia Politica solo su Docsity! SOCIOLOGIA DELLE MIGRAZIONI – M. Ambrosini CAP. 1 MIGRAZIONI E MIGRANTI La definizione di migrante (Nazioni Unite) riprende l’idea di una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno. Questa definizione include tre osservazioni: 1. Attraversamento di un confine nazionale o spostamento in un altro paese 2. Il fatto che questo paese sia diverso da quello in cui ha vissuto abitualmente 3. Una permanenza prolungata nel paese (almeno un anno) Questa definizione non tiene conto né delle migrazioni interne, né degli spostamento che durano meno di un anno, né di diverse visioni giuridiche di chi siano gli immigrati e i cittadini. Nel linguaggio comune il concetto di immigrato è sinonimo di extracomunitario, ma ciò implica conseguenze paradossali (non si applica agli americani, ma ai rumeni). Immigrati e extracomunitari sono quindi ai nostri occhi gli stranieri provenienti da paesi che classifichiamo come poveri e non quelli originari di paesi sviluppati, in quanto questi concetti contengono implicitamente una valenza peggiorativa. Il criterio che classificatorio che separa immigrati e stranieri graditi è mobile e fluido. Un potente fattore di ridefinizione dello status dei cittadini esterni è rappresentato dal progressivo allargamento dell’Unione Europea, infatti, l’Italia ha tolto, come gli altri paesi dell’Ue, l’obbligo del visto per i turisti provenienti dai paesi balcanici. Un altro importante aspetto che riguarda la condizione singolare dei cittadini di paesi classificabili come luoghi di emigrazione, ma singolarmente riscattati dall’eccellenza nello sport, nella musica, nell’arte o negli affari. Infatti, neanche ad essi si applica l’etichetta di immigrati. Dunque il concetto di immigrato allude ad una doppia alterità: una nazionalità straniera e una condizione di povertà. Questo problema di definizione di immigrato introduce altri limiti: le migrazioni vanno inquadrate come processi, in quanto sono dotate di una dinamica evolutiva che comporta una serie di adattamenti e di modificazioni nel tempo e anche come sistemi di relazioni che riguardano le aree di partenza, quelle di transito e quelle di destinazione coinvolgendo molti attori e istituzioni. È possibile distinguere il movimento dell’emigrazione, ossia l’uscita dal paese di origine, rispetto al movimento di immigrazione, che riguarda l’ingresso nel paese ricevente (diverse direzioni della mobilità geografica seguita da un insediamento). Si è però sviluppata anche una visione transnazionale, che si sforza di tenere conto di entrambi i versanti dello spostamento. Infine, esiste anche il concetto di migrazioni interne, ossia spostamenti da una regione all’altra nello stesso paese, che presentano caratteristiche simili a quelle delle migrazioni internazionali e in parte anche diverse, in quanto gli immigrati interni sono cittadini, hanno diritto di voto e di accesso ai benefici che spettano ai residenti, parlano la stessa lingua, professano la stessa religione, ma anche essi possono essere percepiti come diversi. Le migrazioni sono costruzioni sociali complesse, in cui agiscono tre principali gruppi di attori: 1. Le società di origine 1 2. I migranti attuali e potenziali 3. Le società riceventi, i cui comportamenti e le scelte politiche sono sempre più decisivi nel plasmare i processi di selezione dei migranti, le modalità di accesso al territorio, il tipo di immigrati, le forme di integrazione e inclusione, le relazioni instituite con i cittadini autoctoni. La formazioni di minoranze etniche riflette questa interazione tra dinamiche auto propulsive delle popolazioni immigrate e processi di inclusione da parte delle società riceventi. Il concetto ha a che fare con l’insediamento stabile di immigrati stranieri e anche con il rifiuto o la resistenza a considerali membri a pieno titolo della società in cui vivono. Ne derivano alcune caratteristiche: 1. Sono gruppi subordinati 2. Presentano aspetti fisici o culturali soggetti a valutazioni negative 3. Acquistano una autocoscienza di gruppo 4. Possono trasmettere l’identità minoritaria alle generazioni successive Dunque, il concetto implica sempre qualche grado di emarginazione e di esclusione, che conducono a situazioni di conflitto sociale. I diversi tipi di immigrati: Gli immigrati per lavoro, continuano a trovare lavoro nei settori e nelle occupazioni meno ambite dei marcati del lavoro dei paesi riceventi. Si tratta di nicchie poco tutelate, esposte alla precarietà e con rilevante diffusione di rapporto di lavoro irregolari. I problemi più evidenti nel panorama delle migrazioni per lavoro sono: • Diminuzione possibilità di ingresso regolare • Limitazione nel riconoscimento dei titoli di studio e competenze professionali pregresse • Difficoltà relative al miglioramento professionale Gli immigrati stagionali o lavoratori a contratto, sono sottoposti ad una normativa specifica che ne autorizza l’ingresso per periodi limitati, al fine di rispondere a esigenze strutturalmente temporanee e definite a manodopera (lavoro stagionale in agricoltura). Viene anche definita come migrazione circolare. Gli immigrati qualificati e gli imprenditori, si tratta di tecnici informatici, ingegneri, scienziati, personale medico e paramedico o investitori, operatori economici e si parla di internazionalizzazione delle professioni. Si sta diffondendo il fenomeno del lavoro indipendente e dell’imprenditorialità etnica tra gli immigrati arrivati per altre ragioni, anzitutto come lavoratori dipendenti. Questo fenomeno tende a modificare l’immagine dell’immigrato come lavoratore subalterno e dequalificato. I famigliari al seguito, dopo la chiusura delle frontiere europee per i migranti per lavoro, i ricongiungimenti famigliari sono diventati la motivazione più frequente per gli ingressi ufficiali di cittadini provenienti da paesi esterni in molti paesi europei. 2 L’allargamento dei confini dell’Unione apporterà di conseguenza una maggiore libertà di mobilitazione in tutta l’area Ue di lavoratori, i quali potranno anche rispondere ai fabbisogni delle economie europee più avanzate. Si possono inquadrare alcune tendenze generali dei processi migratori, che si sono manifestate negli ultimi anni e che sono destinate a permanere nel futuro: 1. Globalizzazione delle migrazioni, con la crescita del numero dei paesi interessati al fenomeno come società riceventi e come aree di origine. 2. Accelerazione delle migrazioni, con la crescita delle dimensioni quantitative del fenomeno in tutte le principali zone di destinazione e una rapida evoluzione dei flussi verso insediamenti più stabili. 3. Differenziazione delle migrazioni, che comprendono oggi un ampio ventaglio di tipi di immigrati. 4. Femminilizzazione delle migrazioni, che dagli anni ’70 ha assunto importanza oltre che nell’ambito dei ricongiungimenti famigliari, anche in quello delle migrazioni per lavoro, in forma autonome e precedenti l’arrivo di figli e marito. Le fasi e i cicli dell’immigrazione sono stati introdotti con lo schema di Bohning: 1. Fase caratterizzata da grande mobilità e alti tassi di attività (partecipazione al mercato del lavoro), in cui arrivano piccoli numeri di immigrati (maschi e giovani) provenienti principalmente dalle città del paese di origine, ossia dalle zone più sviluppate e con qualificazioni orientate all’industria. Nel paese ricevente essi occupano le posizioni marginali nel mondo del lavoro e tendono a fermarsi per brevi periodi. 2. Fase caratterizzata sempre da migrazioni prevalentemente maschili, ma con una età più avanzata, infatti, sono solitamente uomini sposati, e la composizione si avvicina di più alla popolazione non migrante. I racconti dei migranti incoraggiano altri a partire e si allargano i bacini di reclutamento (migrazioni per lavoro). 3. Fase caratterizzata da una immigrazione che inizia a stabilizzarsi. Cresce inoltre la componente femminile e si sviluppano i ricongiungimenti famigliari, diminuisce in questo modo la popolazione attiva a causa della formazione di una popolazione in età minorile. Nel frattempo, partono nuovi emigrati nelle aree meno sviluppate dei paesi di origine, che sono meno qualificati dei precedenti. 4. Fase caratterizzata da una immigrazione matura. La permanenza si allunga, aumentano i ricongiungimenti famigliari, cresce nel suo complesso la popolazione immigrata. Sorgono delle istituzioni etniche e nuove figure sociali, di imprenditori e di leader religiosi e civili. Questi processi inducono nuova immigrazione. Molte sono state le critiche e hanno riguardato la rigidità di questo modello, il quale è imperniato sull’immigrazione per lavoro di manodopera salariata maschile ed è poco sensibile ad altri tipi di flussi, come quelli dei rifugiati, quelli che 5 comprendono interi nuclei famigliari, quelli dei lavoratori altamente qualificati e soprattutto quelli in cui le donne sono le protagoniste autonome. Un altro schema in quattro stadi è stato proposto da Castles e Miller, ma esso è più sensibile all’azione delle reti sociali, come insieme di legami che accompagnano l’insediamento nella società ricevente. Conferisce maggiore importanza alla sfera politico-istituzionale e agli atteggiamenti della società ricevente: 1. Migrazioni temporanee per lavoro da parte di giovani, con invio dei proventi in patria e orientamento verso il luogo di origine. 2. Prolungamento del soggiorno e sviluppo di reti sociali, basate sulla parentela, motivate da un bisogno reciproco nel nuovo contesto. 3. Ricongiungimento famigliare, insediamento di lungo termine, progressivo orientamento verso la società ricevente e emergere di comunità etniche con le proprie istituzioni. 4. Insediamento permanente che può condurre sia ad uno status legale consolidato e all’acquisto della cittadinanza, sia alla marginalizzazione socioeconomica e alla formazione di minoranze etniche discriminate. Anche in questo schema le critiche sono orientate dalle studiose femministe, che sottolineano una sottovalutazione del ruolo autonome delle donne nei movimenti migratori. Un terzo approccio e comprensivo della dimensione dinamica delle migrazioni è individuabile nel concetto di ciclo migratorio, in cui vengono distinti tre momenti: 1. Primo momento detto della marginalità salariale, ossia condizione di lavoro dipendente e inserimento nella classe operaia (lavoratore straniero o immigrato). 2. Secondo momento che riguarda il periodo dai 5 ai 15 anni di insediamento, in cui avvengono nuovi ingressi, per matrimonio o ricongiungimento famigliare. Si sviluppa una funzione demografica dell’immigrazione, oltre ad alimentare il mercato del lavoro delle società riceventi. 3. Terzo momento che vede lo stabilizzarsi della popolazione straniera, i figli entrano nell’adolescenza, emergono i leader e si affermano movimento che richiedono nuovi rapporti con la società richiedente. Si parla di processi di reciproca conclusione. 6 CAP. 2 ALLA RICERCA DELLE CAUSE Le principali prospettive sociologiche alla base della causa che producono e orientano i migranti verso determinati paesi sono: quella macrosociologica o strutturalista (fattori esterni), quella microsociologica (parte dall’individuo come attore razionale che vuole massimizzare il suo benessere) e infine, vi è un livello intermedio. Le spiegazioni macrosociologiche Molti sono i contributi riguardo a questo approccio. La visione dei fenomeni migratori più diffusa è quella che li connette con grandi cause strutturali operanti a livello mondiale e in modo particolare nei paesi di provenienza: la povertà, la fame e la sovrappopolazione, che inducono un numero crescente di individui a cercare con ogni mezzo di raggiungere le terre dell’Occidente libero e benestante. A questa visione è stata data una forma teorica attraverso la distinzione tra fattori di spinta (push factors) e fattori di attrazione (pull factors). Questa analisi viene ricondotta a due momenti storici: • Prevalenze di fattori di attrazione da parte dei sistemi economici nel periodo del decollo economico europeo del dopoguerra o dello sviluppo industriale tra ‘800 e ‘900. • Prevalenza di fattori di spinta nella fase attuale. I migranti oggi si muovo a causa della forza dei fattori espulsivi operanti nel luogo di origine. Altre spiegazioni macrosociologiche che hanno ascendenze teoriche e matrici disciplinari diverse sono: La teoria neomarxista della dipendenza: le migrazioni per lavoro discendono dalle disuguaglianze geografiche nei processi di sviluppo, indotte dalle relazioni coloniali e neocoloniali che riproducono lo sfruttamento del Terzo Mondo. Brain drain: il drenaggio dei soggetti più istruiti e attivi accresce il divario tra i luoghi di origine e quelli di destinazione, impoverendo i primi delle risorse umane più valide per alimentare lo sviluppo dei secondi. Le migrazioni sono quindi una conseguenza dell’impoverimento delle regioni del mondo sottoposte al dominio dell’Occidente e legate ad esso da rapporti di dipendenza. Teorie del sistema-mondo: la crescente globalizzazione delle comunicazioni e degli scambi incrementa i legami tra diverse aree del pianeta. Vi è una idea di divisione internazionale del lavoro e di scambi ineguali, classificando i paesi in relazione alla loro dipendenza dalla dominazione capitalistica occidentale (paesi del centro, della periferia e della semiperiferia). Le migrazioni sono nuovamente viste come un effetto della dominazione esercitata dai paesi del centro su quelli della periferia. Le culture diverse da quella occidentale vengono colonizzate e emarginate, gli individui, soprattutto giovani, vengono sempre più socializzati a mentalità e stili di vita tipici del mondo sviluppato. Si creano così le condizioni favorevoli per l’immigrazione per lavoro. 7 scegliere quello in cui il valore del risultato atteso sia maggiore. Si compie dunque una scelta razionale sulla base di una gerarchia di preferenze. Approccio dell’economia neoclassica (‘800): i differenziali salariali e di opportunità lavorative sono la cornice strutturale che fa da sfondo alle scelte dei singoli. I flussi migratorio sono dunque l’effetto aggregato delle scelte individuali, in quanto molti individui che risiedono in paesi extraoccidentali scelgono di partire confrontando il loro reddito attuale con quello che potrebbero conseguire all’estero. La scelta di partire però comporta anche costi, tangibili e non, che vanno confrontati con i vantaggi ottenibili. Dunque, soltanto chi ha ragionevoli chances di ottenere sostanziali vantaggi economici dal trasferimento all’estero è disposto ad attivarsi e ad affrontare i costi del trasferimento. Critiche: alle teorie individualiste si può obiettare che le migrazioni sono collegate alle differenze nei livelli dei redditi e dell’occupazione tra diverse aree del mondo, ma queste non sono una ragione sufficiente per spingere alla partenza. Occorre che queste condizioni economiche siano percepite come insopportabili. Bisogna anche tenere conto delle aspettative non direttamente salariali, come il desiderio di emancipazione. Inoltre, l’approccio neoclassico condivide un punto debole delle visioni macrostrutturali: non sa spiegare perché gli immigrati non partano dai paesi in assoluto più poveri e non si dirigano in massa in quelli più ricchi. Il migrante parte perlopiù con informazioni imprecise, quindi l’esperienza lavorativa si distanza dalle precisioni e dai calcoli razionali. Inoltre, le migrazioni non si sono esaurite per effetto dell’equiparazione dei salari con i luoghi di destinazione ma in seguito al conseguimento di condizioni di vita sopportabili nei paesi di origine. Alcuni punti deboli della spiegazione neoclassica vengono ripresi dalla nuova economia delle migrazioni: le scelte migratorie sono considerate non più come decisioni individuali, ma come opzioni famigliari, orientate alla massimizzazione del benessere, ma anche alla diversificazione dei rischi. Quindi si inviano uno o più membri di una famiglia a cercare lavoro all’estero, seguendo una scelta razionale, non motivata solamente però dalla ricerca di benessere individuale. Le famiglie dei paesi di origine sarebbero dunque la vera unità decisionale. Le rimesse dall’estero possono servire per finanziare l’avvio di attività economiche in patria o l’acquisto di proprietà immobiliari o il perseguimento degli studi per i famigliari più giovani. Possono anche costituire una garanzia contro la disoccupazione, l’invecchiamento, il deterioramento delle condizioni di vita dei parenti rimasti in patria. Di conseguenza, un miglioramento delle situazioni economiche nel paese di origine non produce automaticamente un rallentamento della propensione a emigrare, in quanto crescono le aspettative e aumentano le risorse utilizzabili per tentare l’avventura dell’emigrazione. Critiche: le obiezioni riguardano la sostituzione del concetto di individui razionale con un concetto di famiglia parimenti razionale, in cui non si tiene conto delle differenze di status e potere all’interno, dei conflitti di interessi tra i membri, delle possibilità di sfruttamento di alcuni di essi da parte di altri. Resta anche in questo approccio il problema di collegare il livello micro con quello macro, specificando come le opportunità strutturali si traducano in azioni individuali e viceversa. E infine è carente anche in questo caso la considerazione della regolazione politica delle migrazioni. Spazio intermedio Teorie che si collocano ad un livello intermedio tra micro e macro approcci. 10 Teoria dei network: le migrazioni vengono viste come un effetto dell’azione delle reti di relazioni interpersonali tra immigrati e potenziali migranti. Si tratta di complessi di legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso i vincoli di parentela e amicizia. Movimento di convergenza teorica del versante macro e micro: le teorie della scelta razionale hanno iniziato a considerare unità sociale come la famiglia, mentre le teorie dei sistemi hanno incorporato i network nelle loro analisi, sotto forma di legami interpersonali. I network spiegano perché gli immigrati si indirizzano verso determinati luoghi, non necessariamente a causa di maggiori opportunità economiche, ma a causa di punti di riferimento creati dall’insediamento di parenti, vicini e amici. Attraverso il mantenimento dei rapporti, le migrazioni per lavoro possono trasformarsi in migrazioni famigliari. Così pure attraverso il fenomeno delle rimesse, i migranti svolgono un ruolo attivo nelle società di provenienza. È evidente il contrasto di questa teoria con quella neoclassica: i differenziali salariali non sono una ragione sufficiente per innescare una migrazione internazionale su vasta scala, in assenza di contatti precedenti tra persone che risiedono rispettivamente nelle società di origine e di destinazione. I costi e i benefici fatti individualmente sono influenzati dalla presenta di ponti sociali che attraversano le frontiere. Le migrazioni non possono essere considerate come un semplice esito di decisione economiche governate dalle leggi della domanda e dell’offerta: si tratta di fenomeni di natura primariamente sociale. Critiche: questa teoria sembra adatta a spiegare la continuazione delle migrazioni, ma non il loro inizio, né lo spostamento verso nuove destinazioni. Per questo motivo si tratta di teorie che rendono conto delle perpetuazioni delle migrazioni e non delle cause. Inoltre, spesso danno per scontate le condizioni di ingresso e i contesti istituzionali che hanno un rilievo, soprattutto nella parte iniziale, per dare una impronta alle comunità di immigrati. L’idea è semmai quella di un relativo adattamento ai vincoli esterni, cercando canali alternativi per aggirare le limitazioni alla mobilità, utilizzando ad esempio della leva dei matrimoni combinati per sfuggire al blocco delle migrazioni per lavoro. Infine, anche queste teorie appaiono carenti nella considerazione della regolazione politico istituzionale delle migrazioni. Un altro limite è quello del funzionalismo implicito: queste teorie tendono a enfatizzare le valenze positive delle reti sociali, trascurando la possibilità che producano effetti di intrappolamento in attività marginali o addirittura devianti. L’approccio transnazionale è una evoluzione della teoria dei network: l’accento cade sui processi mediante i quali gli immigrati costituiscono relazioni sociali composite, che connettono le loro società di origine e di insediamento, coinvolgendo quindi i non migranti e le comunità di provenienza. Questo approccio considera i due versanti dei flussi migratori in modo congiunto: nelle loro relazioni reciproche e negli effetti di retroazione che le migrazioni comportano. I movimenti migratori formano campi sociali, attraverso le frontiere nazionali, producendo svariati fenomeni tanto nel luogo di origine quanto in quello di destinazione. Inviano doni e rimesse, tornano i visita e mantengono le comunicazioni, ma inoltre, promuovono progetti di miglioramento delle condizioni di vita delle comunità di provenienza, danno vita a imprese a cui assicurano sbocchi commerciali, appoggiano candidati e cambiamenti politici. Si sottolineano inoltre le identità fluide e molteplici che i migranti possono assumere, in relazione ai diversi contesti in cui si confrontano. Queste riflessioni non hanno come fulcro centrale lo studio delle cause delle migrazioni, bensì si concentrano nella definizione della figura del migrante, il quale viene visto come un attore sociale, capace di iniziativa e promotore di cambiamenti economici, sociali e culturali. L’approccio transnazionale contribuisce anche a prendere le distanze dal vecchio assimilazionismo, ossia dall’idea di un 11 percorso unidirezionale dal vecchio al nuovo ambiente di vita e anche da uno studio delle migrazioni limitato al rapporto tra i nuovi arrivati e le società nazionali che li accolgono. Critiche: l’idea di una fluidità nell’attraversamento dei confini ha un indubbio fascino, ma risulta alla fine eccessiva e fuorviante se confrontata con i comportamenti effettivi della maggior parte delle popolazioni migranti. La realtà nelle popolazioni migranti è quella di una progressiva integrazione nelle società riceventi, anche se spesso marginale e tormentata. Poiché ad alcuni la definizione di network appare troppo vaga e confusa, è stato proposto un ampliamento della prospettiva dei network nel senso di una più ampia teoria delle istituzioni migratorie: essa comprende le diverse strutture che mediano tra le aspirazioni individuali all’emigrazione e la concreta possibilità di trasferirsi all’estero per inserirsi nel sistema socioeconomico della società ricevente. Le istituzioni migratorie possono comprendere imprese che reclutano lavoratori all’estero, associazioni di migranti, sistemi di parentele, agenzie governative, professionisti dell’intermediazione e specialisti legali e non del trasferimento di persone. Si possono così individuare dei processi di strutturazione delle migrazioni, in cui le azioni individuali si incontrano con le risorse fornite dalle istituzioni migratorie, contribuiscono a farle crescere e ne fanno nascere di nuove. Tuttavia un simile mix di attori appare a sua volta confuso e indeterminato poichè pone sullo stesso piano istituzioni pubbliche, enti no profit, professionisti e società di intermediazione che agiscono allo scopo di lucro e anche agenzie e organizzazione illegali. Dal punto di vista delle società ospitanti è spesso evocato il ruolo delle istituzioni solidaristiche e umanitarie, sorte innanzitutto dalle società civili e a volte appoggiate dagli stessi poteri pubblici. Specialmente alcune categorie di immigrati, come i rifugiati, le donne vittime di violenza con i figli a carico, nei paesi avanzati vengono in vario modo tutelate, accolte e sostenute nei loro percorsi di inserimento da istituzioni solidaristiche di matrice religiosa, sindacale, antirazzista e umanitaria. Nel caso italiano le istituzioni e le reti autoctone ricoprono un importante ruolo di sostegno all’integrazione degli immigrati. esse interagendo con le reti etniche diffondono informazioni, orientano e istruiscono le pratiche, favorendo l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro e nella società. L’advocacy coalition, fondata da sindacati, organizzazioni umanitarie, istituzioni ecclesiali, esperti sono un soggetto particolarmente attivo nel contesto italiano per la tutela degli immigrati irregolari, tanto da essere riuscita a ottenere per essi un trattamento benevolo in confronto ad altri paesi. Diversi contributi negli ultimi anni hanno rivalutato l’importanza della regolazione normativa dei fenomeni migratori, trascurata dalle teorie precedenti. A livello intermedio tra le scelte individuali o famigliari e quelle strutturali occorre collocare anche la regolazione statuale delle migrazioni, che esercita una specifica influenza selettiva sui flussi. Si può parlare di un livello meso-macro la cui scala coincide con l’ambito nazionale, in cui si producono le più importanti decisioni relative all’ingresso e al soggiorno degli immigrati. Vi rientra infatti, la produzione legislativa, con le tradizioni politiche che la modellano, l’azione dei governi, l’applicazione delle leggi e la capacità di controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine, il ruolo dei sistemi giudiziari. Soprattutto dopo la crisi petrolifera degli anni ’70, la chiusura delle frontiere in Europa e le restrizione imposte in America, la regolazione normativa esercitata dagli Stati ha influito sulla densità e sulla composizione dei flussi migratori. 12 sociale ai nuovi arrivati. A livello urbano, il miglioramento della condizione sociale ed economica si caratterizza dallo spostamento dai ghetti etnici verso aree più pregiate, con una conseguente dispersione nel territorio. L’itinerario tipico vede la figura del migrante passare dall’essere un peddler (venditore ambulante), all’essere un plumber (operaio qualificato) fino ad arrivare ad essere un professional. Ne deriva una attenzione focalizzata verso le forme e gli esiti dei percorsi di assimilazione delle popolazioni immigrate nella società ricevente. Il concetto di ‘assimilazione’ è visto come un processo di interpenetrazione e fusione in cui i gruppi e le persone acquisiscono le memorie, gli atteggiamenti di altre persone e gruppi, e condividendo con essi le loro esperienze e la loro storia, sono incorporati con essi in una vita culturale comune. • L’assimilazione è un processo auspicabile, perché permette agli immigrati di farsi accettare più velocemente dalla società nativa. • L’assimilazione è un fatto individuale, rispetto al quale appartenenze e identità etniche vanno perdute. • L’assimilazione rappresenta la precondizione che rende possibile l’avanzamento del mercato del lavoro e quindi della stratificazione sociale. 2. La seconda visione è quella dell’approccio strutturalista. Questa visione confuta l’ottimismo dell’approccio liberale-assimilazionista, in quanto sostiene che le società riceventi hanno bisogno di immigrati, ma non sono comunque disposte a trattarli in modo paritario e a integrarli nella loro vita sociale ed economica. Hanno anzi interessi a confinarli in ambiti svantaggiati e subalterni del mercato del lavoro. Viene così introdotto il concetto marxista di ‘esercito industriale di riserva’: gli immigrati formano una massa di lavoratori deboli, facilmente sfruttabile e poco rivendicativa. Piore parla di un settore secondario del mercato del lavoro: in una economia capitalista, per proteggere il lavoro sicuro e protetto dai sindacati occorre scaricare l’incertezza sul funzionamento su altri lavoratori, ossia gli immigrati. A loro sistematicamente toccano i lavori non qualificati, a basso reddito e collegati ad uno status sociale inferiore. Gli immigrati accettano questi lavori perché almeno inizialmente considerano temporanea la loro permanenza all’estero. Per essi il lavoro non conferisce identità e stima, ma è solamente un modo per guadagnarsi da vivere. In questo senso essi assumono le somiglianze dell’homo oeconomicus della teoria economica convenzionale. Quando, col tempo, comprendono di non poter più tornare indietro vorrebbero emanciparsi dai lavori di bassa qualità per cui sono stati assunti. In generale, gli autori di questo filone criticano le pratiche discriminatorie delle società riceventi e le condizioni di svantaggio che colpiscono gli immigrati, anche dopo anni di soggiorno e dopo l’avvento di una seconda generazione. 15 Una versione più aggiornata della teoria di Piore riguarda la segmentazione del mercato del lavoro di Castles e Miller cioè la formazione di un sistema occupazionale articolato in nicchie poco comunicanti tra loro, in cui nativi e immigrati tendono a trovare lavoro in ambiti diversi. Un dato nuovo in proposito è la biforcazione dell’impiego dei lavoratori stranieri, che in diversi paesi sviluppati tendono a addensarsi ai due poli estremi del mercato: una minoranza nelle occupazioni ad alta qualificazione e una maggioranza nei lavori più poveri e instabili, a costante rischio di caduta nella disoccupazione. Questo secondo processo contribuisce alla formazione di minoranze etniche escluse e marginalizzate, in cui gli immigrati ricadono tra gli esclusi della società e sono visti anche come la causa dei problemi. Un altro filone di studi riconducibile a questo approccio è quello relativo al funzionamento delle città globali di Sassen, in cui il lavoro degli immigrati è visto come strettamente connesso al lavoro ricco, sia per la manutenzione delle infrastrutture urbane sia per il mantenimento dell’alto tenore di vita delle fasce professionalmente privilegiate. 3. La terza visione è quella dell’approccio della nuova sociologia economica. Alcuni fenomeni negli ultimi decenni hanno messo in crisi i filoni precedenti descritti, come ad esempio la richiesta di immigrati istruiti e professionalmente qualificati oppure la crescita di protagonismo degli immigrati, attraverso varie forme di aiuto con delle reti di solidarietà a base etnica. Questa visione ha proposto l’idea di una costruzione sociale dei processi economici, in cui aspetti sociali, culturali o l’inserimento in contesti di relazioni interpersonali sono studiati come fattori influenti per comprendere comportamenti economici. Si introduce il concetto di ‘embeddeness’, cioè di incastonamento, incorporazione, radicamento dell’azione economica in più ampi contesti sociali che in vario modo la favoriscono. Al centro dell’analisi troviamo attori, datori e lavoratori, coinvolti in estese reti sociali, che li connettono con altre persone e altri luoghi di lavoro. Secondo questa prospettiva l’azione economica degli immigrati rappresenta uno degli esempi più chiari di costruzione sociale dei processi economici (in un determinato settore entra dapprima una persona di una certa nazionalità, poi, se questo primo inserimento ha successo, ne vengono assunte altre, legate alla prima da vincoli di parentela, amicizia o anche con comune nazionalità. Il datore di lavoro tende a fare affidamento alle reti di relazioni tra gli immigrati per approvvigionarsi la manodopera di cui necessita, avendo constato che coloro che ha assunto finora sono affidabili). Quindi, come mostra l’esempio, le relazioni sociali, cioè i legami tra le persone della rete etnica, influenzano le decisioni economiche, ossia le scelte di assunzione: queste vengono a trovarsi incastonate in un complesso di vincoli e rapporti sociali. Un concetto che può servire a sintetizzare l’importanza e i limiti delle risorse fornite dall’appartenenza a reti di relazione basate sulla parentela o sulla nazionalità è quello di ‘capitale sociale’, rappresentato dall’insieme dei contatti e rapporti interpersonali utilizzabili dagli individui per perseguire le proprie strategie di inserimento e promozione. Il fatto più rilevante nella mappa migratoria europea negli ultimi decenni è stato il cambiamento di status dei paesi affacciati sul Mediterraneo, da aree di partenza a aree di destinazione. Questo cambiamento si è accompagnato da una 16 modificazione in senso peggiorativo delle modalità di entrata e di insediamento degli immigrati. L’immigrazione dell’ultimo secolo (anni ’70), diretta verso l’Europa del Sud, è stata descritta con le seguenti caratteristiche: 1. Evoluzione improvvisa e spontanea dei flussi di ingresso che si incontra con l’impreparazione dei paesi riceventi. 2. Grande diversità dei paesi di origine. 3. Marcate asimmetrie di genere per molte componenti nazionali, composte in prevalenza o da uomini o da donne. 4. Alta incidenza di forme di soggiorno irregolare. 5. Marginalità sociale della maggior parte dei gruppi immigrati a causa della carenza di politiche di integrazione. 6. Concentrazione in occupazioni precarie, sottopagate e non desiderabili. Nell’Europa del Sud una serie di trasformazioni dei sistemi occupazionali si sono saldate con strutture economiche tradizionali, come la presenza del lavoro autonomo e delle piccolissime imprese, la diffusione dell’economia sommersa, il ruolo dell’agricoltura, dell’edilizia e di servizi alberghieri e domestici. Si parla infatti di un modello mediterraneo di immigrazione. Occorre fare però due specificazioni: 1. Il lavoro in Italia assume connotazioni diverse a seconda dei contesti locali 2. Le economie del Nord europeo sono tutt’altro che esenti da trasformazioni analoghe. Si parla di lavoro delle ‘cinque P’, ossia pesanti, pericolosi, precari, poco agiati e penalizzati socialmente per fare riferimento ai lavori che toccano agli immigrati. si tratta di lavori ancora necessari nelle economie sviluppate e anche in alcuni ambiti di espansione, infatti, oggi tutti i paesi sviluppati ricadono sotto l’etichetta di ‘importatori riluttanti’ di manodopera immigrata. Gli statuti giuridici e i titoli di soggiorno degli immigrati sono sempre più diversificati (cittadini europei con diritti di libera circolazione, residenti stabili, residenti con permessi di soggiorno) e parallelamente si differenziano anche i diritti di cui sono titolari. È stato introdotto il concetto di stratificazione civica. Le determinanti sociali della domanda di immigrazione: per spiegare le difficoltà di incontro tra domanda e offerta di lavoro nazionale, che aprono i varchi nei quali si inseriscono i lavoratori immigrati, occorre guardare con maggiore attenzione gli atteggiamenti e il contesto sociali di chi cerca lavoro. Dunque, non vi è una coincidenza spontanea tra i lavori che il mercato propone e i lavori che gli europei sono interessati ad accettare. Una offerta molto più istruita del passato ha imparato a coltivare aspirazioni più elevate rispetto alle condizioni e ai posti di lavoro che il mercato attuale offre, ed inoltre, i sistemi di welfare e la protezione famigliare contribuiscono ad innalzare la selettività e le aspettative. Per contro, il mercato non ha scartato i lavori manuali, con scarso riconoscimento sociale, poche garanzie e mal retribuiti. La visione americana di una struttura del mercato del lavoro a ‘clessidra’, ossia con un mercato diviso tra occupazioni ben remunerate e uno stuolo di lavori mal retribuiti, con la scomparsa dei lavori intermedi, la quale non è però riconducibile al contesto europeo, il quale presenta numerose classi medie. Ma una spinta verso la crescita dei poli 17 Si tratta di un fenomeno universale, eterogeneo e in crescita. Il lavoro nero è tornato alla ribalta nelle economie contemporanee, ed è un lavoro privo di coperture previdenziali e assicurative, non tutelato dai contratti di lavoro, caratterizzato dall’evasioni di tasse e contributi. Nel contesto italiano l’economia sommersa ha profonde radici e una endemica diffusione: il bricolage di antico e moderno che contraddistingue tanti aspetti del nostro sistema economico e la scarsità dei controlli formano un terreno di coltura per l’impiego di lavoro irregolare, italiano e straniero. Economia sommersa e lavoro nero dunque precedono l’arrivo degli immigrati, ma è vero però che l’arrivo di una forza lavoro che si viene a trovare nella necessità di reperire il prima possibile un lavoro per guadagnarsi da vivere e in parte priva dei documenti necessari per accedere al mercato del lavoro regolare, rappresenta un bacino di reclutamento favorevoli ai datori di lavoro interessati al risparmio sul costo del lavoro e alla flessibilità derivanti da rapporti di impiego non codificati formalmente. Approccio interattivo e costruzionista per interpretare il fenomeno dell’economia sommersa, in cui si pongono in rilievo le convergenze di interesse tra logiche della domanda e quelli di alcuni segmenti dell’offerta di lavoro anche nell’area del sommerso: orientamento a una permanenza temporanea, spinta ad accumulare rapidamente risparmi per inviarli a casa, incertezza sulla possibilità di fruire dei trattamenti previdenziali, sradicamento sociale, desiderio di lavorare in proprio, ne fanno una popolazione sensibile ai vantaggi relativi all’inserimento nell’economia irregolare. Per contro, le rigidità delle politiche di ingresso e di concessione di permessi idonei alla ricerca di occupazione comportano una divaricazione tra domanda di manodopera e popolazione immigrata autorizzata al lavoro. Cioè nelle economie recenti si formano delle sacche di immigrati lavoratori che rimangono per periodi lunghi al di fuori della regolamentazione normativa e contrattuale. Le diverse forme di irregolarità in cui gli immigrati possono incorrere sono: 1. Caso tipico dell’immigrato che, in mancanza di documenti validi, si inserisce in qualche interstizio dell’economia sommersa. 2. Lavoro nero comune, in cui una persona che potrebbe essere regolarmente assunta non dispone di un contratto di lavoro formale. 3. L’occupazione regolare di immigrati che non potrebbero essere assunti perché privi di permesso di soggiorno. 4. La piena regolarità: autorizzazione al soggiorno che apre opportunità di una assunzione formale. Lavoro irregolare dipendente: • Lavoro occasionale stagionale: comporta elevata mobilità e transitorietà dell’inserimento. L’esempio più noto è quello del lavoro bracciantile non regolarizzato. 20 • Lavoro semicontinuativo: comporta una certa continuità di rapporto con lo stesso datore di lavoro, ma viene usato per coprire picchi di domanda e fabbisogni specifici. • Lavoro stabile e continuativo: lavoro che pur non essendo formalizzato, presenta caratteristiche di continuità che lo fanno assomigliare a un normale rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Ve ne sono due specie: occupazione aziendale e occupazione domestica-assistenziale. Lavoro irregolare indipendente: • Auto impiego di rifugio: lavoro indipendente marginale, svolto senza regolari autorizzazioni e licenze. Ad esempio si parla di commercio ambulante abusivo. • Inserimento promozionale: finalizzato un progetto di attività autonoma, in cui la situazione irregolare è concepita come una fase provvisoria che dovrebbe portare a una impresa regolarmente operante sul mercato. Lavoro coatto: • Lavoro coatto in azienda: prestazioni di lavoro dipendente a cui gli immigrati sono costretti a motivo di debiti contratti all’ingresso nel paese o da altre forme di pressione e ricatto. Si configura così un rapporto che appare più simile a quello della schiavitù che al lavoro dipendente. • Lavoro coatto nella prostituzione: spesso dietro la donna prostituta vi è una rete di sfruttamento e costrizione, che parte dal paese di origine e si organizza in Italia. La coazione può assumere varie forme. L’incontro tra sistema economico italiano e lavoro immigrato, poco guidato dalle istituzioni pubbliche, è stato favorito in vario modo da attori sociali, iniziative solidaristiche e servizi locali. Un complesso di soggetti intermediari positivamente orientati verso l’inclusione degli immigrati nella società italiana è definibile come istituzioni solidaristiche. La domanda di lavoro incontra l’offerta di lavoro immigrata attraverso due canali: 1. Le reti informali, create dagli stessi immigrati. 2. L’azione di istituzioni solidaristiche e servizi specializzati, private o pubbliche, che intrattengono vari rapporti con le reti sociali autoctone. CAP. 4 SUL VERSANTE DEI MIGRANTI: LE FUNZIONI DELLE RETI SOCIALI 21 Le specializzazioni etniche sono un fenomeno facilmente osservabile nella società moderna. Si tratta di osservare che gli immigrati di una certa nazionalità si concentrino in un determinato settore o svolgano la medesima occupazione (cinesi nella ristorazione, donne filippine come collaboratrici famigliari e albanesi, rumeni e marocchini nell’edilizia). È anche frequente associare queste destinazioni occupazionali a presunte attitudini culturali (mentalità, forme di socializzazione, esperienze pregresse), che li inducono a inserirsi con particolare interesse in alcuni lavori. Le ricerche sul campo problematizzano questo dato, in quanto non capita spesso per esempio che un immigrato svolgesse la medesima professione in patria. Gli studi mostrano piuttosto l’incidenza dei legami sociali che producono l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, i rapporti interpersonali che diffondono informazioni sui posti di lavoro, l’appoggio di parenti e amici che riescono a influenzare le scelte dei datori di lavoro. I legami interpersonali e conoscenze sono un canale molto importante di ricerca del lavoro e del miglioramento della situazione occupazionale. Per gli immigrati, i fattori relazioni sono ancora più decisivi, in quanto essi per esempio non hanno la possibilità di partecipare a concorsi pubblici, non hanno studiato nel paese ricevente e poche volte riescono a far valere i propri titoli di studio. Le loro reti si limitano alla cerchia dei parenti e dei connazionali. Quasi sempre, gli ambiti in cui gli immigrati già insediati sono in grado di introdurre i nuovi arrivati sono quelli in cui lavorano e di conseguenza si formano delle catene di contatti e conoscenze che conducono a colonizzare alcune nicchie occupazionali. Si ritrova così il concetto di network e di rete sociale. Le reti migratorie possono essere intese come complessi legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti, nelle aree di origine e di destinazione, attraverso i vincoli di parentela e amicizia oppure come raggruppamenti di individui che mantengono contatti ricorrenti gli uni con gli altri, attraverso legami occupazionali, famigliari, culturali e affettivi. Si usa il concetto di reti etniche come sinonimo di reti migratorie. Un altro concetto è quello di enclave etnica. Esso indica una particolare concentrazione residenziale di una popolazione immigrata, capace di dare vita a imprese e istituzioni proprie (scuole, chiese, banche etc.). L’esempio più noto è l’insediamento di cubani a Miami. La diffusa frammentazione del mercato del lavoro italiano si incontra con la regolazione particolaristica costruita dal basso attraverso il bricolage diffuso delle reti migratorie. Fenomeni migratori ad alto grado di informalità si saldano così con un mercato del lavoro deregolato e insieme bisognoso di manodopera, in certi casi facendo emergere anche una domanda ad hoc, come nel caso del ritorno sul mercato delle collaboratrici famigliari fisse. Lo studio delle reti immigrate è quindi un modo privilegiato per osservare come le relazioni sociali intervengono a strutturare l’azione economica e come, la società moderna e una sua tipica istituzione come il mercato del lavoro siano intrise di elementi che rimandano al passato, specialmente in alcune nicchie del mondo lavorative, dove titoli di studio e esperienze pregresse contano poco. Soprattutto in questi ambiti, l’accreditamento derivante dall’appartenenza a determinate reti di relazione o somiglianza nei confronti di chi svolge questa occupazione, funge da grossolano filtro di selezione. Nei contesti economici contemporanei, rispetto al passato, quindi, l’influenza delle rei sociali si rivela maggiore e pervade la selezione e il reclutamento della forza lavoro nell’economia dei servizi, delle piccole imprese e delle stesse attività basate sulla conoscenza. Teoricamente le assunzioni fatte attraverso le reti sociali riducono l’efficienza del mercato nel realizzare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, in quanto si abbassa la probabilità che le imprese trovino i lavoratori più adatti e che i lavoratori trovino l’occupazione che meglio corrisponde alle loro capacità e esigenze. Allo stesso tempo però, le reti riducono i costi della raccolta di informazioni da ambo i lati, accelerano la circolazione di notizie riguardo alle nuove 22 4. Passaparola all’interno delle reti migratorio è il più diffuso canale di approvvigionamento delle informazioni rispetto alle molte procedure burocratiche ed esigenze di vita quotidiana che gli immigrati devono affrontare. A volte questo sistema informale di raccolta e scambio di informazioni è anche fonte di abbagli e false notizie. 5. Supporto sociale, in quanto amici e parenti sono anche la risorsa precaria a cui gli immigrati fanno ricorso nelle molte situazioni di emergenza che non riescono a fronteggiare da soli, come malattia, sfratti, necessità di far pervenire rimesse economiche etc. 6. Sostegno psicologico e emotivo, sono il luogo della condivisione amicale e della socializzazione. Aiutano a reggere lo stress della lontananza da casa, della solitudine e della difficoltà a comunicare. Inoltre, attraverso la frequentazione di reti di connazionali, si riscopre la propria identità culturale. Le funzioni delle reti sono diverse per qualità e per importanza, a seconda delle situazioni individuali e dei momenti del percorso migratorio. Normalmente, il loro apporto è più decisivo nelle prime fasi del processo di insediamento e nel caso delle persone sole. Infatti, il ricongiungimento famigliare attenua la dipendenza dalla ampia rete dei connazionali. Anche nel caso della ricerca del lavoro le reti sono decisive all’inizio e poi la loro importanza si attenua. Il legame con le reti di connazionali rimane più stringente, anche andando avanti nel tempo, con quei soggetti meno qualificati e meno capaci di muoversi autonomamente nel mercato del lavoro. Chi cerca di introdursi in posizioni qualificate invece, difficilmente può contare sulle modeste risorse che parenti e connazionali possono fornire. Con l’evoluzione del ciclo migratorio possono anche instaurarsi nuove forme di legame con le reti dei connazionali: si parla di fenomeni microimprenditoriali. • Reti a struttura orizzontale, in cui i partecipanti sono socialmente collocati sullo stesso piano, e quindi si trovano, scambiano informazioni, esercitano forme di mutuo aiuto. • Reti a struttura verticale, fanno riferimento a una persona, a un gruppo o a una istituzione che si trova in posizione eminente e che può ridistribuire informazioni e risorse in maniera discrezionale, ottenendo anche dei vantaggi relativi all’asimmetria dei rapporti con i patrocinati. • Reti informali, restano debolmente strutturate. • Reti formalizzate, si evolvono verso configurazioni istituzionali e danno vita a istituzioni che diventano punti di riferimento per la socializzazione e l’interscambio. Le reti assumono anche molta importanza dal punto di vista del genere. I lavori sulle migrazioni femminili hanno posto rilievo infatti, sulla formazione e sul funzionamento di network in cui donne, legate a vincoli di parente, amicizia o anche interesse, si organizzano per favorire l’ingresso e l’inserimento lavorativo di altre donne. 25 Un'altra importante questione concerne poi il grado di organizzazione interna e di capacità di sostegno delle reti migratorie nei confronti dei partecipanti. Si possono distinguere: • Reti poco organizzate e efficaci nel sostenere l’inserimento sociale dei connazionali. • Reti dotate di una buona coesione interna e di un certo grado di organizzazione comunitari, le quali però sono efficaci nell’inserire i connazionali solamente nelle nicchie lavorative debolmente qualificate. • Reti coese fino all’isolamento e capaci di dar vita a imprese indipendenti molto basate sul lavoro dei connazionali, i quali a loro volta trovano con facilità una occupazione, anche se neo arrivati e in condizione irregolare. • Reti più flessibili e diversificate al loro interno, con una composizione interna articolata, che danno vita a attività indipendenti meno legate alla comune appartenenza però. Nelle reti migratorie si possono individuare delle figure con funzioni tipiche: 1. Lo scout, o il pioniere, apre una nuova rotta migratoria e diviene il punto di riferimento per gli arrivi successivi. 2. Il broker, o mediatore, fa da intermediario tra la domanda e l’offerta di lavoro dei connazionali, fungendo da collettore di informazione in ambo i sensi. Si parla anche di encargado, ossia un leader della comunità etnica che supervisiona e media. 3. Il leader comunitario, assume compiti di rappresentanza nei confronti della società di arrivo e può avere un ruolo formalizzato (responsabile associativo, leader religioso). 4. Il provider, colui che si occupa dell’inserimento del migrante, cercando per esso i principali servizi, come un posto letto, il lavoro, l’assistenza nel reperimento di documento o di pratiche burocratiche, traendo un lucro dalla sua attività. 5. Il corriere, svolge un ruolo di connessione con la società di origine, gestendo scambi informali ma di grande rilievo nel mantenere i contatti tra le due sponde del movimento migratorio (risorse economiche, beni con valenze simboliche, doni per i figli, prodotti alimentari etc.) Si possono anche osservare delle variabili attraverso le quali si struttura l’azione delle reti migratorie, ch condizionano la loro capacità di sostenere, influenzare, condizionare i percorsi di inserimento degli individui nella società ricevente: 26 • La numerosità: gruppi troppi piccoli o troppo grossi rischiano di incontrare difficoltà nel formare reti etniche funzionanti. Nel primo caso si rischia di disperdersi e di dover affrontare in modo individuale le sfide della ricerca del lavoro e dell’integrazione, mentre nel secondo caso, si rischia di non riuscire a conoscere e a filtrare i connazionali immigrati e di dover far fronte a una moltiplicazione di domande di aiuto. • La concentrazione: ossia l’addensamento occupazionale o territoriale, che condizione la frequenza e l’intensità dei rapporti tra i partecipanti. In generale, componenti nazionali numerose ma disperse tendono a dare vita a reti meno dense e coese di componenti più concentrate a livello residenziale e occupazionale. • La composizione: influenza la dotazione di risorse e quindi il capitale sociale che la rete può mettere a disposizione dei membri. Una rete formata da persone scarsamente istruite e neo arrivate, collocate in posizioni marginali nel mercato del lavoro, ha una capacità di sostegno ben diversa da una rete in cui i soggetti arrivati sono istruiti, da tempo insediati e collocati in posizioni vantaggiose del sistema economico. Il livello di istruzione sembra avere un impatto ambivalente: dato che il mercato del lavoro offre agli stranieri soprattutto lavori poveri, mancano le opportunità di valorizzazione del capitale umano. Gli immigrati istruiti sono quindi spinti verso le medesime occupazioni manuali dei connazionali privi di titoli di studio. Di conseguenza spesso essi si sentono discriminati e hanno sentimento di frustrazione e di rivalsa, cercano così di migrare una seconda volta verso paesi aperti alle skilled migrations oppure confluiscono in un universo composito e precario di lavori intellettuali occasionali. • La coesione interna: ossia la forza dei legami che tengono insieme i partecipanti e li vincolano al sostegno reciproco, generando fiducia, scambi di informazioni, circolazione di risorse di vario genere, difesa contro la discriminazione. Anche in assenza di concentrazione spaziale, le reti possono essere più o meno coese, così come la concentrazione non produce necessariamente coesione. La concentrazione occupazionale a sua volta può essere un effetto della coesione o entrare in rapporto circolare con la solidarietà interna alla rete. I rapporti tra coesione e composizione del gruppo sono invece più controversi: si osserva una tendenza alla fuoriuscita dalla rete o all’allentamento dei legami da parte dei soggetti che hanno conquistato posizioni migliori, quando gli altri membri del gruppo sono rimasti in condizioni marginali. • La capacità di controllo sociale: quando le reti fanno capo a istituzioni dotate di autorevolezza morale e hanno leader riconosciuti, dispongono di maggiore capacità di influenzare i comportamenti dei membri, di sanzionare i casi di devianza, di richiamare il valore della tutela della buona reputazione. Questa solidarietà interna influisce sulle modalità di ingresso e anche di organizzazione economica, legando all’attività di commercio ambulante, mediante i rapporti tra reti di appartenenza famigliare e religiosa e reti commerciali. 27 Associata ai fattori culturali è anche l’enfasi sui ‘vantaggi etnici’ rappresentati dalla disponibilità di lavoro coetnico affidabile e poco costoso, dalle norme morali interne alle collettività immigrate che plasmano rapporti tra imprenditori e dipendenti, dalle forme di supporto e assistenza che i connazionali possono fornire, sotto forma di accesso al capitale e a informazioni utili. • Teoria dello svantaggio (anni ’70). In questa visione, la scelta del lavoro autonomo consiste nella risposta reattiva alle difficoltà di inserimento sociale e alla disoccupazione. Minoranze con difficoltà della lingua, scarso capitale educativo o poco spendibile, che subiscono forme di discriminazione per l’accesso al mondo lavorativo, tendono a rifugiarsi in attività indipendenti in quanto richiedono ridotti investimenti in capitali e tecnologie. La difficoltà di accesso al lavoro dipendente, soprattutto alle occupazioni stabili, qualificate e ben retribuite, spiega quindi la diffusione del lavoro autonomo nelle minoranze immigrate. Alcuni studiosi si sono soffermati sul fenomeno dello sviluppo di attività indipendenti tra gli immigrati asiatici nel Regno Unito e in Canada, il quale coinciderebbe con la loro difficoltà di trovare impiego come dipendenti a causa delle problematicità prima elencate. Le attività di questi gruppi sono deboli, instabili, poco redditizie e condurrebbero alla formazione della sottoborghesia (lumpen-bourgeoisie), la quale si concretizza nella concertazione in settori e spazi marginali dell’economia, sopravvivenza precaria, orari prolungati, lavoro pesante e intensivo. Questa imprenditorialità asiatica ha conosciuto un declino a partire dalla seconda metà degli anni ’90, che interessa principalmente la componente indiana, grazie anche alla crescita dell’istruzione, questa popolazione è entrata maggiormente nell’occupazione dipendente, facendo registrare un calo netto dei tassi di disoccupazione, ma anche quelli dei lavoratori autonomi. In effetti, le tradizionali nicchie di insediamento degli operatori economici immigrati, sono sempre più minacciata dall’estensione della distribuzione moderna. Dunque, sia dal versante della domanda che da quello dell’offerta, provengono pressioni che conducono alla contrazione del fenomeno dell’ethnic business. • Ipotesi della mobilità bloccata. Gli immigrati tenderebbero a passare al lavoro indipendente perché nel mercato del lavoro dipendente e nelle organizzazioni gerarchiche non riescono ad avanzare in misura corrispondente alle loro credenziali educative, alle capacità e alle aspirazioni. L’intraprendenza sarebbe quindi la risposta alla discriminazione incontrata non tanto nell’occupazione salariata, quanto piuttosto negli sviluppi successivi. Differenza rispetto alla teoria dello svantaggio: per la teoria dello svantaggio l’auto impiego rappresenta una alternativa estrema alla disoccupazione, è meno ambito dell’occupazione dipendente, manifesta una correlazione inversa con l’istruzione. Per l’ipotesi della mobilità bloccata invece, si tratta di una risposta alla 30 discriminazione nelle carriere organizzative ed è quindi un passo avanti rispetto all’occupazione salariata e ha una correlazione positiva con l’istruzione e con l’esperienza professionale accumulata. Quindi, se la teoria dello svantaggio esprime una visione negativa dell’addensamento degli immigrati nel lavoro autonomo, nell’ipotesi della mobilità bloccata si può scorgere un cauto ottimismo e in genere anche un atteggiamento simpatetico nei confronti del fenomeno. • Interpretazione delle middle man minorities (Bonacich 1973). Si tratta di quei gruppi etnici che attraverso il mondo hanno storicamente ricoperto il ruolo di minoranze di intermediari tra produttore e consumatore, proprietario e affittuario, elite e classi popolari. Questi gruppi per quanto diversi condividono alcune caratteristiche essenziali: 1. Sono migranti che non intendono insediarsi in maniera permanente 2. Si concentrano in determinate occupazioni, soprattutto commerciali, che li vincolano a rimanere nel paese ricevente per lunghi periodi 3. Manifestano una tendenza alla parsimonia Possiedono, inoltre, un alto grado di solidarietà interna, la quale svolge un importante ruolo sul versante economico, garantendo una efficiente distribuzione delle risorse e contribuendo a controllare la competizione nell’ambito del gruppo. Ne risulta che l’impresa middle man è labour intensive, ma nello stesso tempo capace di tagliare il costo del lavoro attraverso una gestione paternalistica, a base famigliare, dei rapporti con i dipendenti. Essendo il concetto di middle man minorities troppo restrittivo, occorre introdurre altre categorie: • Imprenditoria immigrata: tipica di quei gruppi in cui il tasso dei lavoratori autonomi supera nettamente quello della media della popolazione. • Imprenditoria etnica: continuazione della specializzazione nel lavoro autonomo dei genitori da parte di una seconda generazione. Le middle man minorities vengono quindi ricondotte ad un particolare caso di economia etnica: l’insieme di imprenditori e lavoratori autonomi che condividono le medesime origini etniche, con l’aggiunta dei loro salariati coetnici. 31 • Successione ecologica. La piccola borghesia impegnata in attività indipendenti non è in grado di autoriprodursi in maniera sufficiente e sopravvive mediante il reclutamento di piccoli imprenditori da classi sociali più basse. Per le medesime ragioni, quando in un quartiere i più anziani e insediati operatori nazionali iniziano a uscire dall’attività e non trovano successori, nuovi lavoratori indipendenti, sorti dalla file delle popolazioni immigrate, tendono a prendere il loro posto. Nuove componenti migratorie così tendono a prendere il loro posto, soprattutto per quanto concerne le attività più pesanti e pericolose. • Analisi delle economie di enclave (Portes 1980). Economie cioè delle aree in cui si realizza una elevata concentrazione di imprese fondate e dirette da stranieri. L’intento dell’approccio è quello di contrastare le interpretazioni deterministiche dell’inserimento nel mercato del lavoro degli immigrati, in termini assimilazionisti o strutturalistici. Si tratta dunque di gruppi immigrati che si concentrano in una determinata dislocazione spaziale e organizzano una varietà di imprese, destinate a servire dapprima il mercato interno del gruppo e poi la popolazione in generale. Elemento basilare della enclave è il fatto che una quota significativa della forza lavoro immigrata sia occupata in imprese di proprietà di altri immigrati. 1. La nascita di queste imprese è ricondotta all’arrivo di immigrati già introdotti nel paese in attività commerciali e affaristiche e quindi esperti nel comprare e nel vendere. 2. Un altro elemento indispensabile per l’avvio dell’impresa è la presenza di capitale, ossia il sostegno garantito dalla rete di amicizie e in generale dal gruppo di appartenenza. 3. Il terzo fattore richiesto è il lavoro, che appare il meno problematico grazie al flusso inesauribile di amici, parenti e connazionali in cerca di una occupazione. • Teoria delle risorse (Light 1984). Il ruolo delle risorse etniche collettive deve essere distinto da quello della risorse di classe (capitali finanziari, istruzione formale, inserimento in ambienti sociali privilegiati etc.) ed esse rendono gli individui più o meno atti a intraprendere attività imprenditoriali. Alcuni gruppi immigrati hanno sviluppato tassi di imprenditorialità più elevati della media perché hanno potuto disporre di particolari risorse, di cui la popolazione nativa mancava. Le risorse etniche collettive comprendono quelle caratteristiche del gruppo nel suo insieme che risultano vantaggiose per l’iniziativa imprenditoriale, e che possono essere: 32 da scarsa presenza di grandi imprese, basse barriere all’ingresso, ridotte economie di scala, instabilità e certezza. L’accesso alla proprietà di impresa in questi ambiti è reso possibile dalla diminuzione di offerta imprenditoriale da parte dei nativi, attratti da occupazioni più sicure e socialmente considerate. L’emergere dei nuovi arrivati come gruppo di rimpiazzo nelle attività indipendenti viene ricondotto a fattori socioculturali: autoselezione alla partenza degli individui più preparati e inclini al rischio, predisposizione al commercio, risorse informali assicurate dal gruppo etnico. Benché lo studioso americano sottolinei che l’identificazione con un particolare gruppo etnico ne valorizzi il significato economico, assumendo che l’etnicità acquisti rilievo quando le connessioni sociali tra i membri di un gruppo etnico aiutano a stabilire concentrazioni occupazionali, settoriali o spaziali distinte. Le risorse informali del gruppo sono di fondamentale importanza nel garantire la sopravvivenza e la competitività dell’impresa, in quanto gli immigrati imprenditori, a differenza degli autoctoni, possono attingere al network del proprio gruppo di origine. In cambio, saranno obbligati a concedere vari tipi di vantaggi, dall’aiuto per la sistemazione abitativa all’assunzione di parenti e compaesani, ma soprattutto, dovranno offrire ai loro dipendenti le posizioni più professionalmente qualificate che si renderanno possibili, fino ad aiutarli a mettersi in proprio. Il punto chiave di Waldinger, quello tra interazione tra opportunità offerte dai mercati e offerta di imprenditorialità da parte degli immigrati è stato ampliato successivamente da una distinzione: risorse etniche specifiche e risorse di utilità generale. Le prime forniscono a chi le possiede un vantaggio peculiare in un particolare contesto di mercato, ma non sono applicabili in generale, le seconde invece, si riferiscono a requisiti che consentono risposte versatili a ogni tipo di domanda economica (senso degli affari, capitale umano, risorse finanziarie). Alcuni sono i punti deboli del contributo di Waldinger: 1. L’insistenza sulla dimensione etnica e comunitaria dell’imprenditorialità, in quanto in realtà solo una parte delle attività indipendenti scaturite dall’immigrazione sono di questo tipo. 2. L’enfasi sul concetto di strategie etniche, che fa pensare ad una rigorosa pianificazione dell’occupazione di spazi economici, della creazione di reticoli di piccole imprese, dell’attivazione programmata di catene migratorie. Proprio l’alto tasso di fallimenti mostra invece il contrario, ossia l’incidenza di un grado elevato di improvvisazione e di scommessa. 3. La scarsa attenzione alla dimensione della regolazione politica dei mercati, ridotta a una breve lista di leggi e regolamentazioni che applicano agli immigrati. La teoria del mixed embeddedness dell’imprenditorialità immigrata (Kloosterman e Rath) è un altro tentativo di integrare spiegazioni basate sull’offerta con una analisi sia del versante della domanda sia delle condizioni istituzionali. Con questa teoria si intende andare oltre lo studio dell’incorporazione dell’iniziative economica in reti di relazioni personali mediate dalla comune origine etnica, per considerare i processi più astratti di incardina mento delle attività economiche in sistemi sociali più vasti, fino a comprendere il versante della domanda e il funzionamento dei mercati. 1. Un primo aspetto dell’incorporazione è costituito dall’offerta imprenditoriale immigrata, sotto il profilo della composizione delle risorse, che la differenziano dai concorrenti nativi. 35 2. Un secondo punto riguarda la natura delle relazioni tra gli operatori immigrati e la struttura delle opportunità. Sono pochi gli imprenditori, nativi e immigrati, in grado di introdurre innovazioni sostanziali e di creare opportunità prima inesistenti, con un nuova combinazione delle risorse. 3. Si deve approfondire anche il concetto di struttura delle opportunità. Il primo aspetto di questa struttura sono i mercati, nei quali i processi di frammentazione, la specificità della domanda dei consumatori, la riduzione dell’importanza delle economie di scala, tendono in vari settori a espandere gli spazi per nuove attività di piccola dimensione. Le due dimensioni dell’accessibilità e del potenziale di crescita dei mercati sono le pietre di paragone con cui misurare le diverse strutture di opportunità, poiché condizionano la distribuzione e le traiettorie degli imprenditori. Si distinguono poi tre livelli della struttura delle opportunità: 1. Un livello nazionale, in cui le istituzioni pubbliche modellano le traiettorie postindustriali del lavoro indipendente, delimitando il confine tra beni che possono essere prodotti e venduti sui mercati e quelli forniti dall’apparato pubblico. 2. Un livello regionale\urbano, che determina l’emerge di un mosaico di economie regionali, in cui si verificano addensamenti locali di certe attività economiche e la formazione di specializzazioni territoriali. 3. Il livello del vicinato, dove la concentrazione di specifici gruppi nazionali di immigrati costituisce mercati naturali o anche vincolati per operatori coetnici in grado di offrire alla clientela prodotti non disponibili presso gli imprenditori autoctoni. È stato anche applicato un tentativo di applicare il modello di analisi empirica dell’imprenditoria immigrata in una ricerca sull’industria dell’abbigliamento in sette grandi città occidentali, quattro europee e tre americane. Questo lavoro semplifica il discorso complesso di mixed embeddedness, riducendola all’interazione tra tre variabili: 1. Le reti sociali, che forniscono un capitale sociale distribuito in maniera differenziata tra i diversi gruppi. Per questa via gli operatori acquisiscono conoscenze e informazioni, ma le reti costituiscono anche un fattori di vincolo e trarne vantaggio è un processo complesso. 2. I mercati, in cui possono essere distinti gli oggetti dello scambio (beni comprati e venduti), i soggetti autorizzati a parteciparvi, la struttura del mercato riferita al numero degli attori e al loro potere di mercato, l’istituzionalizzazione, ossia i modelli standardizzati di comportamento e le idee che hanno un valore normativo nel contesto di riferimento, la localizzazione, vista come un luogo di esercizio delle attività e come scala territoriale di mercato. 36 3. La regolazione politica, che raccoglie l’insieme dei fattori normativi che in vario modo vincolano o favoriscono l’attività economica, alzano barriere e le abbassano, reprimono gli abusi, formando regimi regolativi. Anche questo modello presenta dei limiti: il concetto di embededdness è suggestivo, ma da tempo è stato criticato per la sua vaghezza teorica. Elevati sono anche i costi umani richiesti dall’intraprendenza in attività lavorative indipendenti da parte di stranieri obbligati a muovere da una condizione svantaggiata all’interno di contesti generalmente sfavorevoli. Diverse analisi hanno approfondito gli aspetti critici del fenomeno: • Sfruttamento della manodopera femminile: manodopera non retribuita o sottopagata, del tutto flessibile e sottoposta a ritmi e condizioni. • Condizioni di lavoro: si tratta di settori di funzionamento labour intensive (settore abbigliamento, basato sul decentramento e sulla lavorazione di terzi). • Lavoro protratto e problemi famigliari: la vita di duro lavoro a cui i lavoratori autonomi immigrati si sottopongono, spesso portano a problemi legati alla famiglia, come fenomeni di maltrattamento domestico, divorzi, negligenza verso i figli, scontri tra bande di adolescenti. • Costi per la società più ampia: basandosi su un lavoro a basso costo, si riproducono forme di sfruttamento che rischiano di abbassare le condizioni di impiego del lavoro anche all’esterno. Si può controbattere a queste critiche osservando che l’avvio ad una impresa richiede in generale, anche per i nativi provenienti dalle classi popolari, dedizione, sacrifici e costi famigliari. Nel caso degli immigrati occorre domandarsi quali siano le alternative, in termini di possibilità di miglioramento occupazione e di uso di tempo. Il caso italiano: discernimento delle opportunità e delle condizioni di sviluppo delle economie etniche nel nostro paese: 1. La radicata tradizione di lavoro autonomo fa sì che il nostro sistema economico-produttivo e la vita sociale stessa, necessitino per certi aspetti di fornitori indipendenti di beni e servizi inseriti nei contesti locali, mentre per altri, lasciano spazio all’aspirazione a mettersi in proprio, che ha rappresentato anche storicamente il principale canale di mobilità sociale. Gli immigrati trovano quindi un ambiente istituzionale, economico e culturale in cui il lavoro autonomo continua ad avere una radicata cittadinanza. 2. Il robusto insediamento di operatori italiani nel settore rappresenta in vari modi una barriera all’ingresso di lavoratori autonomi stranieri. Soprattutto nelle attività più regolamentate, l’introduzione di nuovi attori si presenta ardua (es. settore dei taxi in città occidentali è un tipico settore di espansione del lavoro indipendente degli immigrati, ciò non avviene in Italia perché la vigente regolamentazione disciplina in modo restrittivo la 37 • Imprese esotiche: offrono prodotti derivanti dalle tradizioni culturali del paese di origine a un pubblico di lavoratori sempre più eterogeneo, sofisticato e sensibile all’attrattiva della diversità. • Imprese convenzionali: tende a non esibire le radice etniche e a competere sui mercati concorrenziali, specialmente nelle grandi aree metropolitane, in settori labour intensive e in ambiti che presentano minori barriere finanziarie, tecnologiche e regolamentari. • Imprese-rifugio: è difficilmente identificabile con una collocazione precisa rispetto al prodotto e al mercato. Vi appartengono imprese marginali appartenenti a diversi settori. In Italia, anche a causa della rigidità normativa che blocca l’avvio di piccole attività indipendenti regolari, il commercio ambulante abusivo è stato a lungo, e in parte rimane, la più appariscente manifestazione di un terziario residuale in cui cercano rifugio i segmenti deboli di alcuni gruppi immigrati. In una articolata stratificazione dei lavoratori autonomi è possibile distinguere alcuni ruoli e figure: • Operatori informali: non sono registrati e sono inseriti in reti etniche. Si tratta di operanti ai margini e delle attività formalizzate (muratori in nero). • Nuovi entranti nelle attività indipendenti: sono dotati di una certa esperienza, ma comunque iniziano dalle attività più faticose e meno redditizie. • Operatori indipendenti: sono a capo di piccole imprese, spesso satelliti di altre di maggiori dimensioni, ma cominciano a godere di una certa reputazione. • Imprenditori relativamente autonomi: guidano imprese relativamente più grandi e strutturate, in cui danno lavoro a collaboratori e dipendenti reclutati dalle reti etniche e parentali. • Leader economici: occupano posizioni di vertice, hanno dipendenti e anche legami con le imprese più piccole, che riforniscono come grossisti o a cui danno lavoro per mezzo degli appalti. Una terza categoria delle attività economiche proposte da immigrati è stata proposta da una ricerca sulle iniziative economiche a carattere transnazionale (Milano e Genova): 1. Transnazionalismo circolatorio: attività che comportano uno spostamento fisico frequente attraverso i confini, tra la terra di insediamento e la madrepatria (corrieri). 2. Transnazionalismo connettivo: attività economiche che non implicano uno spostamento fisico, ma fanno viaggiare denaro o messaggio comunicativi. 40 3. Transnazionalismo mercantile: si richiede che l’operatore provenga dai luoghi collegati alle merci, anche se esso non deve spostarsi fisicamente, affinché la dimensione culturale dello scambio acquisti autenticità. 4. Transnazionalismo simbolico: offre un repertorio di consumi culturali e di rappresentazione di identità nazionali, etniche e religiose. Forma e anima luoghi di incontro e aggregazione, specialmente nel settore del loisir (locali e scuole di ballo latinoamericano, centri di meditazione yoga, bagni turchi etc.). CAP. 6 DONNE MIGRANTI E FAMIGLIE TRANSNAZIONALI Negli ultimi anni l’attenzione verso le migrazioni femminili è cresciuto, in quanto è aumentato il numero di donne che emigrano, per lo più da sole, per cercare lavoro, al pari degli uomini. Si tratta di donne che assuomono la responsabilità di breadwinner, procurando le risorse economiche per provvedere alle necessità della propria famiglia, le quali danno vita a catene migratorie e a ricongiungimenti famigliari, impegnate in lavori che si inseriscono in processi determinanti per la vita quotidiana e il funzionamento delle società riceventi. Oggi si stima nel mondo che circa la metà dei migranti siano donne, infatti, la femminilizzazione è riconosciuta come un tratto saliente dei fenomeni migratori contemporanei. Molte studiose hanno sottolineato che già in passato le donne emigravano, spesso da sole, per svolgere occupazioni come quella da balia, cameriera, operaia in alcuni settori, senza contare il traffico da avviare alla prostituzione. Come mostrano le ricerche infatti, in una economia che si stava ristrutturando dopo la crisi degli anni ’70 le donne rappresentavano una manodopera prontamente disponibile, vulnerabile e flessibile. Appariva già evidente che in tutto il mondo le donne immigrate erano impiegate in lavori domestici e in altri tipi di servizi alle persone e alle famiglie. L’aspetto che ha maggiormente catalizzato l’attenzione degli studiosi è stato quello riguardante i processi di discriminazione di cui le donne migranti erano e sono vittime. Si parla di una doppia o tripla discriminazione: • Discriminazione in quanto donne • Discriminazione in quanto immigrate • Discriminazione di classe L’incrocio tra condizione di immigrata e genere appare particolarmente significativo, tanto che alle donne immigrate si applicano stereotipi che ne restringono le possibilità di impiego e di espressione in sé. Infatti, gli ambiti occupazionali 41 di fatto accessibili dalle donne non fuoriescono dal lavoro domestico-assistenziale, di intrattenimento e infine, anche di prostituzione. Richiede alcune spiegazioni in più invece la categoria della razza per arrivare a interpretare la condizione della donna immigrata. Esiste una gerarchizzazione delle donne nelle società riceventi, influenzata dall’apparenza fisica, tanto che le famiglie preferiscono come collaboratrici donne di una determinata nazionalità. Si tratta di stratificazioni fluide e mobili, variabili non solo da un paese ad un altro, ma anche da una città ad un’altra e modificabili nel corso del tempo. Infine, per quanto riguarda la classe sociale si intende la classe operaia, ossia una caratteristica acquisita, che appare come conseguenza delle altre due prima descritte, che invece sono ascritte e non modificabili. Molte donne immigrate provengono infatti dalla classe media, non di rado hanno ricevuto una istruzione e hanno svolto occupazioni impiegatizie, ma l’esperienza migratoria schiaccia verso il basso il loro capitale umano, categorizzandole, su base collettive come adatte a svolgere alcune occupazioni e non altre. L’impiego di donne immigrate in attività domestiche di pulizia o di cura è sempre più comune nel mondo sviluppato e in Europa questo settore rappresenta il più importante bacino di opportunità occupazionali per le nuove arrivate, in condizioni giuridica regolare o non. Il fenomeno ha dimensioni mondiali e rispecchia una tendenza all’importazione di accadimento e amore dai paesi poveri a quelli ricchi. La tradizionale divisione di ruoli tra uomini e donne tende a trasferirsi su scala globale: i paesi ricchi del primo mondo assumono la posizione privilegiata che spettava un tempo agli uomini, accuditi e serviti nella sfera domestica, essendo impegnati nel mercato esterno, gli immigrati dei paesi poveri assumono invece le funzioni femminili, sostituendo le donne nei servizi domestici, di accadimento e nei servizi di cura alle persone. Seguendo un clichè paradossale, le donne immigrate appaiono come la parte più accettata dell’universo dei migranti, quella che suscita meno timori e resistenza e quella che trova lavoro più facilmente e incontra meno problemi sul versante abitativo. Per contro quale che sia la loro provenienza, istruzione, competenze, capacità e interessi, la nostra società stenta a offrire alle donne immigrate occupazioni diverse da quelle di collaboratrici famigliari e assistenti alle cure di persone anziane. Una domanda di lavoro femminile caratterizzata in campo domestico assistenziale si rivela congruente con il modello familistico di welfare, tipico del nostro come degli altri paesi mediterranei. Infatti, il sistema di protezione sociale italiano è basato su trasferimenti di reddito, sottoforma di pensioni soprattutto, e meno su servizi pubblici alle persone e alle famiglie, rispetto ai paesi dell’Europa settentrionale e centrale. Implicitamente quindi, alle famiglie vengono delegati vari compiti di cura altrove assunti dagli apparati pubblici. Una simile architettura del welfare riflette un assetto sociale tradizionale, in cui gli uomini lavorano fuori casa, mentre le donne si occupano della sfera domestica, ma questo assetto scricchiola sempre più, da quando anche le donne sposate sono entrate nel mercato del lavoro extradomestico ed è aumentato il numero di anziani da assistere, mentre non è progredita la redistribuzione dei compiti domestici nelle famiglie. A cause del nesso con le attività e le relazioni interne alla famiglia, queste occupazioni comportano poi una richiesta di coinvolgimento affettivo, di sostituzione anche relazionale di congiunti che non riescono a essere presenti come forse vorrebbero, di mobilitazione dunque non solo di energie fisiche, ma della personalità nel suo insieme. Questo coinvolgimento può essere definito olistico. La richiesta di partecipazione emotiva, per certi versi, è un aspetto caratteristico di tutti i servizi di cura che hanno al centro rapporti con altre persone, in cui viene spesso richiesto di simulare emozioni che non necessariamente si provano. Nell’ambito domestico queste richieste divengono più incombenti per due motivi: 1. La marcata asimmetria di potere tra datori di lavoro e lavoratrici 42 per andare a svolgere altrove i compiti di accadimento e obbligando i figli a fronteggiare le ricadute in termini di care shortage, di impoverimento dei dispositivi di accadimento e cura. Il protagonismo femminile si esplica a diversi livelli: 1. In prospettiva storica e con riferimento ai contesti di emigrazione, si è notato che le stesse migrazioni temporanee maschili comportavano un aumento di autonomia e emancipazione delle componenti femminili, le quali assumevano la guida della famiglia, nelle attività agricole e nella gestione economica. 2. La scelta di partire è mediata dai contesti famigliari e ciò comporta aspetti ambivalenti e variamente valutati. Le donne più degli uomini si sentono legate alla famiglia e sono educate a esserlo, e anche la decisione di partire esprime legami affettivi e obbligazioni morali. Le migrazioni femminili sono più dipendenti da ragioni famigliari di quelle maschili e le rimesse mandate dalle madri in patria dimostrano l’attaccamento verso i famigliari. Di conseguenza, le donne migranti assumono maggiore potere decisione e diventano il perno delle strategie di mobilità sociale o di difesa dello status famigliare. 3. In altro casi, l’emigrazione può essere la conseguenza della rottura di un matrimonio o di una vedovanza o anche un modo legittimo per sottrarsi ad una unione infelice. Contiene in ogni caso un potenziale emancipativo, che spesso precede l’emigrazione e viene rafforzato dall’indipendenza economica acquisita. 4. Nel mercato salariale non sempre le donne sono svantaggiate rispetto al coniuge o partner. In alcune componenti nazionali, come quelle asiatiche, lo status professionale delle donne è più facilmente trasferibile negli Usa rispetto a quello degli uomini. 5. La stessa dedizione alla sfera famigliare e domestica è stata ricattata e riletta come luogo di protagonismo, tanto nei contesti delle società tradizionali, quanto in quelli di immigrazione. Sono proprio le donne, quando hanno sufficiente libertà di costruire reti e mobilitarsi, a gestire importanti funzioni di mediazione culturale, soprattutto sotto il profilo della conservazione di abitudini e rituali, della trasmissione ai figli di valori che richiamano l’identità ancestrale e del mantenimento della pratica religiosa. 6. Anche nei rapporti con le società ospitanti, le donne immigrate sono state tessitrici dei rapporti e promotrici dei processi di integrazione. Le famiglie in emigrazione: le famiglie sono viste come le protagoniste delle strategie di sopravvivenza e accompagnamento nel processo di inserimento, di fornitura di risorse per l’avanzamento sociale, di luogo di protezione dell’integrità personale. Gli studi di genere hanno inoltre posto in luce il fatto che la famiglia non è soltanto un rifugio, ma anche un ambito in cui si hanno conflitti e negoziazioni. La famiglia rappresenta dunque un fattore di normalizzazione delle condizioni di vita dei migranti, che attraverso la ricostituzione di una compagine famigliare accrescono i rapporti con le istituzioni e le comunità locali e assumono stili di vita più simili a quelli della popolazione autoctona. 45 Importante è anche il confronto tra pratiche tradizionali importate dai luoghi di origine e stili di vita appresi nel nuovo contesto, che nella famiglia danno vita ad una molteplicità di espressione e tensioni, dando vita a nuove forme di vita famigliare. La famiglia immigrata così è stata vista come un luogo in cui si realizza una interazione dinamica tra dimensioni strutturali, aspetti culturali e scelte soggettive . I vincoli strutturali e le condizioni in cui avviene l’insediamento nella società ricevente modellano le forme di adattamento delle strutture famigliari, i ruoli e gli orientamenti. Tendono per esempio a favorire il passaggio verso modelli famigliari di tipo nucleare o a indurre un calo della fecondità. Di contro codici e usi che le famiglie immigrate portano con sé dalla madrepatria continuano a influenzare valori, norme e comportamenti. Per esempio, i tassi dei matrimoni endogamici, cioè contratti nello stesso gruppo etnico o nazionale, restano elevati, anche nelle seconde generazioni. Tre osservazioni però pongono in discussione le visioni convenzionali delle migrazioni famigliari: 1. Bisogna notare che il concetto famiglia che viene applicato agli immigrati è definito dai paesi riceventi, privilegia così le famiglie nucleari di tipo occidentali, rispetto a concezioni più allargate. 2. Occorre una maggiore cautela nell’associare la famiglia immigrata con valori tradizionali, rispetto ai quali la società ricevente rappresenta il polo della modernità. In realtà assetti e comportamenti moderni investono anche le famiglie immigrate. 3. È stata posta in discussione l’idea che le donne siano costantemente sacrificate nelle migrazioni famigliari e registrino un regresso nelle condizioni di vita, nell’autonomia e nelle opportunità di lavoro. Gli immigrati non si caratterizzano dunque come soggetti passivi, ma svolgono un ruolo attivo nel definire la vita famigliare. I diversi soggetti possono tentare di plasmare gli assetti famigliari cercando di modellarli in senso più favorevole ai propri scopi e interessi. Le famiglie transnazionali : in questo caso i membri dell’unità famigliare e in modo particolare gli adulti vivono in paesi diversi rispetto ai figli. L’attenzione va in modo particolare alle madri migranti, che segnano una discontinuità nei confronti del passato, quando a emigrare da soli erano eventualmente i padri. Molti sono le ricerche rivolte alle sofferenze e agli sforzi che le madri dispiegano per mantenere o per cercare di mantenere i contatti con gli altri membri dell’unità famigliare e specialmente con i figli o a volte anche con i genitori anziani. Si parla di dislocazione delle reazioni affettive quando i figli ricevono poi dalle madri regali costosi e denaro, in luogo di presenza fisica, cura diretta e affetto tangibile. La separazione fisica produce ferite emotive, tensioni e distacchi, il dolore della genitorialità transnazionale fatto di ansietà, sensi di colpa e solitudine. Ci sono anche i figli che a loro volta vivono sentimenti di solitudine, sicurezza e vulnerabilità. Essi contestano l’idea che i beni materiali siano sufficienti dimostrazioni di amore, rimproverano la scarsa frequenza dei ritorni, non reputano sufficienti gli sforzi delle madri per mantenere legami di cura e affetto. Un paradosso centrale di queste famiglie riguarda il fatto che il conseguimento della sicurezza finanziaria per amore dei figli va mano nella mano con una crescita dell’insicurezza affettiva. Si parla anche di problema degli orfani sociali sempre riguardo ai problemi riscontrati dai figli delle madre emigrate. Problemi che portano a fenomeni di solitudine, depressione, abbandoni scolastici, bullismo, consumi eccessivi di alcol e droghe, fino ad arrivare a casi di suicidio. È facile imputare tutto questo alle madri migranti, fino ad invitarle a tornare 46 a casa per riprendere il proprio ruolo, ma è anche opportuno sottolineare le modalità con cui le madre migranti delle famiglie transnazionali, anche a distanza, continuano a prendersi cura dei figli, sforzandosi di rendersi presenti, di mantenere una comunicazione, di assicurare supporto e guida emotiva, di coinvolgere le risorse della famiglia allargata come nonne e zie e anche pagando a loro volta un aiuto domestico. A queste pratiche di cura famigliare a distanza si aggiunge il flusso di risorse economiche garantito dalle rimesse, che assicurano la sopravvivenza e gli studi o la possibilità di iniziativa economica dei congiunti rimasti in patria. Si parla di transnazionalismo dal basso ed è un tratto saliente delle migrazioni recenti. Le madri che lasciano i figli in patria sono grandi produttrici di rimesse, soprattutto quando vivono con i datori di lavoro, in quanto hanno la possibilità di risparmiare notevolmente. Due sono le strategie attraverso le quali le famiglie transnazionali si sforzano di rispondere alla separazione fisica: 1. Gestione della frontiera o frontiering: denota i mezzi usati dai membri delle famiglie transnazionali per creare spazi famigliari e legami e legami nazionali in situazioni in cui i rapporti di parentela sono dispersi dall’emigrazione all’estero. 2. Gestione della parentela o relativising: si riferisce ai vari modi in cui gli individui stabiliscono, mantengono o troncano i rapporti con altri membri della famiglia. Nelle famiglie transnazionali si riduce a convivenza fisica mentre si espandono le relazioni a distanza e dunque, a fronte dell’impoverimento dei contatti con i famigliari nasce il bisogno di spiegare perché e come alcuni di quei famigliari e parenti lontani sono tuttavia parte della famiglia. Si ripensano e ricodificano i legami emotivamente significativi, ricreano in qualche misura la propria vita famigliare. Al centro dei legami famigliari, specialmente per le madri, si attesta un nucleo duro, quello con i figli e la volontà di prendersene cura, anche se a distanza, si definisce con il concetto di caring. Attorno a questo nucleo si articolano strategia e investimenti delle famiglie migranti, per esempio si mantengono e rafforzano i rapporti principalmente con la persona del gruppo famigliare che si prende cura dei figli, si troncano se questa si mostra inadeguata. Il caring va quindi affiancato al frontiering e al relativising, come elemento che struttura la vita delle famiglie transazionali. Vi è anche una diversificazione delle pratiche di accudimento: • Caso di circolazione migratoria: le donne polacche immigrate, ormai cittadine dell’Unione, effettuano frequenti viaggi di andata e ritorno e hanno un prevalente orientamento al rientro e non al ricongiungimento famigliare in Italia. • Caso di migrazione di donne mature: si parla di giovani nonne che si fanno carico delle esigenze di più generazioni e sono interessate a inviare rimesse ma non a ricongiungere figli già grandi. Caso rappresentato dall’immigrazione ucraina. 47 3. Percorso neocostitutivo: la formazione del nucleo coniugale avviene nel paese ricevente o con un partner incontrato sul posto, o più spesso ricorrendo a un matrimonio, di frequente combinato, con un partner che vive ancora in patria e che a volte non è neanche conosciuto prima del matrimonio. 4. Percorso simultaneo: contraddistinto dall’arrivo contemporaneo o molto ravvicinato di entrambi i coniugi e a volte di interi nuclei famigliari. 5. Percorso monoparentale: solo un genitore emigra, seguito da uno o più figli. 6. Percorso delle famiglie miste: sono formate da partner di origine diversa, in cui proprio la nascita dei figli e le scelte educative possono accendere conflitti tra i coniugi, nei quali entrano in gioco le differenze culturali e religiose. 7. Percorso che crea una crisi del legame coniugale e si arriva ad una nuova unione con una persona della stessa origine o anche nazionalità diversa. Il ricongiungimento è comunque un fattore di normalizzazione della presenza di immigrati, il cui profilo demografico e sociale tende a ad avvicinarsi a quello della popolazione autoctona delle stesse fasce di età. Una residenza più stabile, la nascita e la scolarizzazione dei figli, la frequentazione di spazi pubblici, di negozi e di servizi sociali, associano positivamente il ricongiungimento con l’accettazione sociale e con l’inclusione delle famiglie degli immigrati nella società ricevente. Viceversa, vengono sollevati problemi riguardanti la spesa pubblica e in particolare della domanda di servizi alle persone e quindi riguardanti i costi della socializzazione. Un’altra importante dimensione dei fenomeni migratori che investe le relazioni di genere e il ruolo femminile è rappresentata dai matrimoni e dalle coppie miste. Nel nostro paese come in altri, la maggioranza delle unioni miste, infatti, legano un uomo nativo con una donna straniera. Queste unioni, fin dalle origini, sono state viste come un veicolo di integrazione, anzi come il simbolo della fusione tra i vecchi residenti e i nuovi arrivati. È emerso negli anni anche il fenomeno dell’acquisto di mogli in paesi più poveri, anche per mezzo di agenzie specializzate e di appostiti cataloghi, si parla in questi casi di spose ordinate per posta (mail-order brides). Il fenomeno rivela uno squilibrio di potere che si estende dal mercato del lavoro alla sfera dei rapporti personali e persino dei sentimenti. La giovane moglie straniera acquistata in un paese più povero rischia così di collocarsi in una categoria intermedia tra le due figure femminili più diffuse della colf e della prostituta. Lo stesso concetto di matrimonio misto ha visto accentuazioni e versioni differenti: • Fino agli anni ’30 l’accento era posto sui matrimoni interraziali; • Negli anni ’40 l’interesse si sposta sui matrimoni interreligiosi; • Negli anni ’50 compaiono le coppie internazionali; • Dagli anni ’80 gli studiosi si interessano ai matrimoni interetnici o alla mescolanza multipla, in cui la diversità di razza, religione o nazionalità si presentano spesso simultaneamente. In questo senso si può dire che la mixitè è un concetto relativo, storicamente situato e influenzato dalle reazioni del contesto che circonda le coppie miste. Perché si parli di mixitè bisogna che venga percepita una diversità tra i partner, la cui 50 connotazione si è modificata nel tempo: non è necessario che uno dei partner sia straniero o nato all’estero, si parla di matrimoni misti anche nel caso di figli o nipoti di immigrati, in possesso della cittadinanza, padroni della lingua e scolarizzati nei paesi in cui risiedono. CAP. 7 I FIGLI DELL’IMMIGRAZIONE La formazione di una nuova generazione scaturita dall’immigrazione rappresenta una sfida per la coesione sociale e un fattore di trasformazione delle società riceventi. Presenta anche un importante problema, ossia quello del passaggio da immigrazioni temporanee a insediamenti durevoli con la trasformazione delle immigrazioni per lavoro in immigrazioni di popolamento. La nascita della seconda generazione ha sconvolto i taciti meccanismi di precaria accettazione dell’immigrazione, basati sul presupposto della sua provvisorietà, da una parte, mentre altri esperti sottolineano come i ricongiungimenti famigliari, la nascita dei figli, la scolarizzazione, incrementano i rapporti tra gli immigrati e le istituzioni delle società riceventi, producendo un processo di progressiva cittadinizzazione dell’immigrato, ossia un processo che lo porta ad essere un membro integrato. Dunque, nel bene e nel male, la nascita e la socializzazione dei figli dei migranti, producono uno sviluppo delle interazioni, degli scambi e a volte dei conflitti tra popolazioni immigrate e società ospitante. Ciò rappresenta un punto di svolta dei rapporti interetnici, obbligando tutti a prendere coscienza di una trasformazione irreversibile della geografia umana e sociale dei paesi in cui avvengono. Ne deriva una preoccupazione fondamentale, quella del grado, delle forme e degli esiti dei percorsi di incorporazione delle popolazioni immigrate nelle società riceventi. Non vi sono a riguardo solamente posizioni pessimiste, alcuni sostengono infatti, che i giovani della seconda generazione siano gli alfieri della costruzione di nuove identità sociali, fluide e ibride e i promotori di processi di innovazione culturale nel segno del cosmopolitismo e del multiculturalismo quotidiano. Lo studio delle pratiche di consumo e degli stili di vita avvalora questa interpretazione, mettendo a fuoco l’esistenza quotidiana in cui si mescolano riferimento e stimoli diversi. Dunque, la questione delle seconde generazioni diventa la cartina torna sole degli esiti dell’integrazione di popolazioni autoctone. Proprio la nascita e la socializzazione di una nuova generazione rappresentano un momento decisivo per la presa di coscienza del proprio status di minoranze ormai insediate in un contesto diverso da quello delle società di origine. Con esse, sorgono esigenze di definizione, rielaborazione e trasmissione del patrimonio culturale e dei modelli di educazione famigliare. Definire le seconda generazioni è però meno semplice di quanto appaia, in quanto confluiscono in questa categoria concettuali casi assai diversi, che spaziano dai bambini nati e cresciuti nella società ricevente, agli adolescenti ricongiunti dopo aver compiuto un lungo processo di socializzazione nel paese di origine. Alcuni preferiscono parlare di minori immigrati, in quanto il termine seconda generazione dovrebbe riferirsi ai minori nati nella società riceventi da genitori immigrati e altri invece, parlando di persone o giovano di origine immigrata. Nella letteratura internazionale prevale comunque il concetto di seconda generazione. 51 Un altro nodo problematico è rappresentato dal momento dell’arrivo, ossia fino a che età sia lecito parlare di seconda generazione. Controversa in particolare è la questione che riguarda i ragazzi e le ragazze immigrate tra i 15 e i 18 anni, soprattutto quando si tratta di minori non accompagnati, che emigrano soli, anche e spesso in relazione a strategie famigliari. È stato proposto, a riguardo, il concetto di generazione 1,5, aggiungendo poi la generazione 1,25 e 1,75: la generazione 1,5 è quella che ha iniziato il processo di socializzazione e la scuola primaria nel paese di origine, ma ha completato l’educazione scolastica all’estero, la generazione 1,25 è quella che emigra tra i 13 e i 17 anni e infine, la generazione 1,75 si trasferisce all’estero nell’età prescolare, tra 0 e 5 anni. La questione delle seconde generazioni è cruciale rispetto alla ridefinizione dell’integrazione sociale delle società riceventi, in presenza di popolazioni immigrate ormai stabilmente insediate e destinate a rimanere. In America e in Europa si paventa la trasformazione di un paese unificato da una cultura e da una lingua comune in una misera confederazione di comunità etnico-linguistiche separate. Il rapporto tra il destino delle seconde generazioni immigrate e riproduzione della società traspare anche dal fatto che si proietta su di esse un classico timore della società adulta nei confronti dei giovani, ossia che non accettino di riprodurre l’ordine sociale esistente. Si parla di ansietà di assimilazione e si sottopone a critica l’idealizzazione del melting pot del passato, in quanto allora l’americanizzazione era considerata il progetto politico da perseguire più un processo da studiare e l’assimilazione della società americana era vista come desiderabile e inevitabile allo stesso tempo. Assimilazione, acculturazione e mobilità sociale erano pensate come intimamente legate. L’essere giovani, già di per sé comporta essere ‘osservati speciali’ per i sospetti di non conformismo, di condizione sociale modesta e quindi si suppone essere meno propensi ad accettare lo status quo, in più essere giovani di origine straniera, perciò non pienamente accettati nella società, formano una serie di fattori che attirano attenzione e preoccupazioni nei paesi riceventi. La questione delle seconde generazioni può essere vista come una costruzione sociale che vede coinvolta la società ricevente, in quanti proietta sui giovani di origine straniera le proprie paure, ed in particolare l’ansia della conservazione e riproduzione dell’ordine sociale, con le sue norme e le sue gerarchie. Inoltre, il caso delle seconde generazioni rimanda alla tensione tra l’immagine sociale marginale e collegata alle professioni umili dei genitori e l’acculturazione agli stili di vista e alle rappresentazioni delle gerarchie occupazionali acquisiti con la socializzazione del contesto delle società riceventi. Da questo punto di vista, il problema delle seconde generazioni si pone perché i giovani immigrati, essendo cresciuti in contesti occidentali, hanno assimilato gusti, modelli di consumo dei loro coetanei autoctoni e, una volta diventati adulti, come gli autoctoni tendono a rifiutare le occupazioni subalterne accettate più o meno di buon grado dai loro padri. Piore parlava di una seconda generazione socializzata dalla strada, poco incline a riconoscere l’autorità dei genitori, portatrice di atteggiamenti verso il mercato del lavoro più simili a quelli dei coetanei nativi, e quindi distante dalla mentalità dei padri disposti ad accettare lavori umili e precari nel settore secondario del mercato occupazionale. Se non hanno successo a scuola e se non riescono a trovare spazio nel mercato del lavoro qualificato, i figli degli immigrati rischiano di alimentare un potenziale serbatoio di esclusione sociale, devianza, opposizione alla società ricevente e alle sue istituzioni. L’aggregazione dei giovani intorno alle identità religiose ed etniche (arabi, magrebini, africani) e l’insorgere di manifestazioni anche violente di conflitto sociale nelle periferie ad alta concentrazione di popolazioni immigrate viene interpretata da diversi studiosi come l’effetto di questa dissonanza tra socializzazione culturale implicitamente riuscita ed esclusione socioeconomica. Si parla in proposito di una situazione in cui una assimilazione culturale si coniuga con una forte dose di non integrazione sociale. 52 come downward assimilation, cioè l’assimilazione dei giovani nell’ambito delle comunità marginali, nei ghetti urbani in cui si trovano a crescere insieme alle minoranze interne più svantaggiate. Le scuole dei ghetti diventano arene di ingiustizia che offrono ineguali opportunità ai minori si basi di razza e classe. Isolamento sociale e deprivazione alimentano una cultura oppositiva, che comporta il rifiuto delle norme e dei valori della società maggioritaria. Queste idee non si allontanano dalle teorie strutturaliste, ma il ragionamento va oltre: il concetto di assimilazione segmentata intende cogliere la diversità dei traguardi raggiunti dalle varie minoranze immigrate e sottolineare che la rapida integrazione e accettazione nella società americana rappresentano soltanto una delle possibili alternative, così come il fallimento e l’invischiamento nella marginalità permanente della downward assimilation. Gradi diversi di successo dell’integrazione in ambito scolastico e professionale sono stati analizzati in relazione a elementi come la coesione comunitaria e gli investimenti educativi delle famiglie. In vari casi il successo scolastico delle seconde generazioni sembra favorito dal mantenimento dei codici culturali distinti e dalla socializzazione nell’ambito di comunità minoritarie, anziché dall’assorbimento nella cultura maggioritaria. Si parla a riguardo di acculturazione selettiva, ossia le minoranze interessate assorbono dalla cultura maggioritaria gli aspetti che considerano positivi, mentre tendono a difendersi da altri influssi, che reputano minacciosi. Nello schema dell’acculturazione selettiva, le reti etniche possono essere concettualizzate come una forma di capitale sociale che influenza l’integrazione dei figli nella società ricevente con azioni tanto di sostegno quanto di controllo. Un contributo di Farey e Alba sostiene che la seconda generazione ha superato la prima per i risultati scolastici, gli esiti occupazionali e gli status economici conseguiti, ma vi sono profonde differenze tra le varie componenti etniche, infatti, ad esempio, gli asiatici sono molto più brillanti e arrivano a esiti medi che superano quelli dei soggetti bianchi di origine europea o canadese. La ricerca suggerisce tuttavia la centralità dell’istruzione dei genitori come principale fattore esplicativo: gli immigrati asiatici di prima generazione arrivano in America con un bagaglio di istruzione molto maggiore, che si riflette sui figli. Portes ha introdotto nuovamente la teorizzazione anche in termini normativi. Anzitutto, il tradizionale modello di assimilazione, ereditato dal rapporto con l’immigrazione di origine europea, non sembra molto utile nel descrivere l’attuale processo e i suoi probabile esiti, in quanto una completa acculturazione comporta dei rischi, mentre legami comunitari e famigliari forti possono fornire risorse significative per i percorsi delle seconde generazioni. I genitori immigrati di oggi non desiderano più che i figli adottino gli stili di vita dei coetanei americani, molte minoranze incoraggiano all’acculturazione selettiva, che si esprime nell’apprendere un inglese americano corretto e altri aspetti positivi della cultura americana, pur mantenendo valori e legami con la lingua dei genitori e continuando a rispettare norme, valori e legami derivanti dai contesti famigliari di provenienza. Questa forma di acculturazione conduce ad una integrazione più efficace, essa è vista come una strategia idonea a proteggere la seconda generazione dalla discriminazione esterna e dalla minaccia della downward assimilation. 55 I tipi di acculturazione identificati sono: • Acculturazione consonante: è il percorso classico dei migranti che si assimilano, abbandonano la lingua e le abitudini del paese di origine per abbracciare quelli del paese ospitante. • Resistenza consonante dell’acculturazione: è il caso opposto, ossia di chiusura nella cerchia dei connazionali e nelle pratiche linguistiche e culturali importate dal paese di origine. • Acculturazione dissonante (I): è il caso del conflitto intergenerazionale nell’emigrazione, determinato dalla rapida acculturazione dei figli e dal loro rifiuto di mantenere legami e retaggi culturali che richiamano le origini dei genitori. • Acculturazione dissonante (II): si distingue dal primo tipo per il fatto che i genitori perdono i legami e il sostegno della cerchia dei connazionali. Rimanendo indietro rispetto ai figli nei processi di assimilazione, vengono scalzati e perdono la loro autorità. • Acculturazione selettiva: è la situazione in cui l’apprendimento delle abilità necessarie per inserirsi nel nuovo contesto non entra in contrasto con il mantenimento dei legami e dei riferimenti identitari. Genitori e figli si muovono di comune accordo sui due binari, riducendo il rischio di conflitti, salvaguardando l’autorità genitoriale e promuovendo un efficace bilinguismo nelle nuove generazioni. Due sono le differenze con il contesto europeo: 1. L’enfasi porta sul bilinguismo, come simboli del mantenimento dei codici culturali che richiamano la pace ancestrale. 2. Il valore attribuito alla condivisione di riferimenti comuni tra genitori e figli, al mantenimento di autorevolezza e controllo educativo da parte dei primi nei confronti dei secondi. Le istituzioni sociali mediatrici sono: La famiglia: i processi educativi sono intrisi nel mantenimento di codici culturali tradizionali e nel desiderio di integrazione e ascesa sociale nel contesto della società ospitante, tra volontà di controllo delle scelte e dei comportamenti dei figli e confronto con società che enfatizzano i valori dell’emancipazione, dell’eguaglianza tra generi e dell’autonomia personale. La mancanza o la frammentarietà della rete parentale e di vicinato rappresentano un ostacolo che indebolisce la capacità educativa delle famiglie. I minori restano spesso soli, se entrambi i genitori lavorano fuori casa, altre volte restano affidati alle madri arrivate per ricongiungimento oppure si ricongiungono alle madri sole in età adolescenziale. Isolamento prima e perdita di controllo educativo dopo sono conseguenze diffuse di queste precarie condizioni famigliari. Inoltre, gli immigrati di seconda generazione frequentando anche la scuola si vengono a trovare ben presto in una 56 situazione di più avanzata integrazione culturale nella società ricevente rispetto ai genitori, soprattutto sotto il profilo della padronanza della lingua. Vivono quindi una condizione di ambivalenza, tra dipendenza dai genitori e superiorità nella capacità di interazione, nella rapidità di comprensione dei messaggi e nella facilità di movimento nella società ospitante. Non va dimenticato, sul versante genitori, che proprio la crescita dei figli e il loro inserimento nella scuola e nella società ricevente sollevano la questione dei valori e dei riferimenti normativi che si considerano irrinunciabili e che si ritiene necessario trasmettere alle nuove generazioni. I figli pongono domande sulle differenze che sperimentano tra l’ambito famigliare e quello scolastico. Sorge quindi il problema di definire e tramandare una propria identità culturale e l’appartenenza religiosa è il campo in cui più tipicamente si dispiegano questi interrogativi. Alcuni sono gli esiti problematici legati alla famiglia: 1. Il fenomeno del rovesciamento dei ruoli, attraverso il quale i figli, grazie alla maggiore conoscenza della lingua, assumono precocemente responsabilità adulte verso la società ospitante. Questo fenomeno rischia di indebolire l’immagine dei genitori e il loro ruolo di guida per la crescita dei figli. 2. La precoce perdita di autorevolezza e capacità educativa da parte dei genitori, non supportati da una rete di prossimità e di collaborazione informale, colpiti da stereotipi e da immagini stigmatizzanti che si ripercuotono sulla stima dei figli nei loro confronti. 3. La tendenza richiamata dai figli a fuoriuscire dalle forme di integrazione subalterna accettate dai padri, basate sull’inserimento nelle gerarchie inferiori, attraverso l’assunzione di criteri valutativi simili a quelli dei coetanei autoctoni nei confronti delle opportunità offerte dal mercato del lavoro. 4. La tensione nei confronti della trasmissione dei modelli culturali ispirati alla società di origine, modelli in cui convergono il desiderio di controllo sui comportamenti delle giovani generazioni, la riaffermazione di autorità genitoriale scossa dallo sradicamento e dall’incontro con la società ricevente, la contraddittoria combinazione di incitamento alla promozione sociale e fedeltà all’identità ancestrale. 5. Il conflitto può esplodere anche per ragioni diverse, come la ribellione contro le aspettative di mobilità sociale dei genitori, a causa delle pressioni livellatrici e oppositive dell’ambiente di vita e in particolare del gruppo dei paesi, nei quartieri poveri in cui molte minoranze rimangono intrappolate. Si parla di dissonanza generazionale, quando i figli non si collocano sui livelli di aspirazione dei genitori e non si conformano alla loro guida. 6. Le problematiche di genere e di equilibri interni alle famiglie, in quanto le pressioni conformistiche sono più forti nei confronti delle figlie femmine, mentre i maggiori problemi sociali riguardano i figli maschi. 57 La questione più avvertita è senza dubbio quella delle aggregazioni di strada a carattere etnico note come bande o gang, formate specialmente da giovani latinoamericani. Molte sono state le ricerche guidate da Palmas nel contesto genovese. Oggetto delle ricerche sono i giovani immigrati giunti a Genova alla fine degli anni ’90 in tempi molto rapidi, seguendo le madri, occupate nelle famiglie locali come collaboratrici domestiche o assistenti domiciliari. Le loro aggregazioni spontanee, particolarmente visibili negli spazi urbani, e una serie di episodi che vanno dalle sregolatezze giovanili alle risse tra gruppi, a forme di delinquenza grave, sono state collegate in uno schema cognitivo unitario che ha portato alla nascita di un genere giornalistico, detto delle baby gang e delle bande latinoamericane. Nella sfera della socialità, le aggregazioni spontanee dei ragazzi di origine straniera segnalano a un tempo un deficit di integrazione sociale e una produzione di nuove identità. Se nell’infanzia è più facile la condivisione di momenti, spazi e occasioni di socialità interetnica, con l’adolescenza, al crescere dell’autonomia dei ragazzi, le reti di aggregazione tendono a differenziarsi e a privilegiare circuiti socialmente omogenei, sia tra gli autoctoni sia tra i ragazzi immigrati arrivati di recente. La condizione di esclusione può dare luogo alla costruzione di nuove identità sociali e talvolta anche di nuove esperienze culturali, sotto il segno del sincretismo e del metissage. Ha così un luogo un lavoro incessante di rielaborazione dell’immagine di sé e di ridefinizione della propria identità. Nell’emigrazione, specialmente quando avviene nell’adolescenza, l’aggregazione tra pari, coetanei e connazionali non è solo il luogo in cui stare insieme, ma anche un risorsa da cui attingere modelli di comportamento, sostegno emotivo, conferma della propria identità, talvolta anche soccorso materiale. Le ricerche hanno specialmente approfondito in modo particolare le funzioni delle aggregazioni di strada e le potenzialità che offrono, una volta avviate verso percorsi di rifiuto della violenza, nella lotta contro le discriminazioni, nella rielaborazione culturale dell’identità ‘latina’, nella valorizzazione della solidarietà etnica. Riprendendo le analisi sviluppate nel contesto nordamericano, alle organizzazioni di strada vengono attribuite tre funzioni: 1. La recovery, ossia la fuoriuscita da esperienze di vita traumatiche e la reintroduzione in uno spazio collettivo che offre autostima e benessere; 2. Il renaming, ossia la risignificazione della realtà circostante a partire dalle proprie condizioni e dai propri bisogni di gruppo sociale marginale, con l’elaborazione di rituali, performances di strada, linguaggi legati ai graffiti e alla musica, momenti di formazioni e sviluppo di conoscenza e di saperi collettivi che permettono di maturare capacità; 3. La reitegration, ossia il reinserimento sociale all’uscita dal carcere, in una organizzazione che diventa una sorta di famiglia che accoglie, protegge, offre rifugio e orientamento. Si possono individuare quattro traiettorie idealtipiche delle seconde generazioni: 1. La prima è quella dell’assimilazione verso il basso, ossia della confluenza negli strati svantaggiati della popolazione, con scarse possibilità di fuoriuscire dalla condizione di esclusione, un aggravamento della marginalità e della disoccupazione. Si pone in evidenza, con il concetto di downward assimilation, come l’emarginazione strutturale e il confinamento nelle zone più povere delle metropoli comportino il rischio 60 dell’assunzione di una identità etnica reattiva, contrapposta ai valori e alle istituzioni della società ricevente, tipica dei ghetti urbani e delle minoranze storicamente discriminate. 2. La seconda traiettoria si distingue dalla precedente perché è una assimilazione culturale elevata si contrappone una bassa integrazione sotto il profilo strutturale: nell’ambito europeo è stata in genere sottolineata la scansione tra socializzazione paradossalmente riuscita, agli stili di vita e ai consumi delle classi giovanili autoctone, e persistente carenza di opportunità di miglioramento economico e sociale (integrazione illusorie). 3. La terza possibilità è quella dell’integrazione selettiva, in cui la conservazione di tratti identitari minoritari diventa una risorsa per i processi di inclusione e in modo particolare per il successo scolastico e professionale delle seconde generazioni. L’esempio tipico è rappresentato dalle minoranze asiatiche negli Usa. Si discute sull’influenza dei livelli di istruzione dei genitori e delle condizioni economiche della famiglia d’origine, su quanto pesino questi elementi convenzionali della stratificazione sociale e quanto contino invece i fattori propriamente culturali ed etnici nella riuscita delle seconde generazioni. 4. La quarta è quella dell’assimilazione tradizionalmente intesa (assimilazione lineare classica), in cui l’avanzamento socioeconomico si accompagna all’acculturazione nella società ricevente, e questa a sua volta comporta il progressivo abbandono dell’identificazione con una appartenenza etnica minoritaria e di prtaiche culturali distintive. 61 LA DIMENSIOE POLITICA CAP. 8 LA REGOLAZIONE DELL’IMMIGRAZIONE La questione della regolazione e del controllo delle migrazioni è divenuto negli ultimi anno un tema di grande rilievo nelle agende politiche dei governi. Essa ha assunto un grande rilievo a partire dalle restrizioni introdotte negli anni ’70 ed inoltre, gli attentati di settembre 2001 e in seguito tutti gli altri attentati in Europa e non hanno comportato un inasprimento dei controlli, in nome della sicurezza territoriale. Lo stesso concetto di ‘frontiera’ è relativamente recente e si è affermato compiutamente solamente con la prima guerra mondiale. Infatti, nel ‘900 la proibizione dell’emigrazione è stata un tratto politico dei regimi totalitari, basti pensare all’epoca fascista o alla repressione della libertà di movimento dei cittadini attuata per decenni in Europa dai paesi del blocco comunista. Oggi, va comunque notato, che nessun paese, per quanto democratico, non rinunci al controllo delle frontiere, al ricorso di procedure di autorizzazione al soggiorno per i cittadini stranieri, a norme che consentono l’espulsione di stranieri indesiderati. Sotto questo profilo è un grande progresso la libera circolazione delle persona all’interno dell’Unione europea. Nei confronti di stati terzi, i paesi dell’Unione, che ambiscono a qualificarsi come democratici, hanno il problema di trovare un equilibrio tra difesa delle frontiere, interessi economici che ne promuovono l’apertura e obblighi internazionali di accoglienza dei rifugiati. È possibile suddividere la storia delle migrazioni in Europa in quattro periodi, in base anche alla variazione nel tempo delle politiche di regolazione attuate: 1. Periodo delle grandi migrazioni transoceaniche (intorno al 1830): spostamenti poco controllati o non richiedeva comunque visti e permessi e l’Europa era una terra di emigrazione verso altri paesi. 2. Periodo di introduzione dei sistemi di regolazione e restrizione dei movimento migratorio (1914-45): sistemi legati agli eventi bellici ma anche alla depressione economica, che generava domande protezionistiche nelle forze di lavoro nazionali. 3. Periodo di regolazione politica relativamente liberale (seconda guerra mondiale): regolazione motivata dai fabbisogni di manodopera per la ricostruzione e lo sviluppo economico. 4. Periodi di severa regolamentazione dell’immigrazione (anni ’70). Il ricorso all’immigrazione è stato visto inoltre, come una soluzione ad un problema economico, ossia l’approvvigionamento della manodopera, attivabile o disattivabile in base alle esigenze dei paesi riceventi. I fenomeni legati alla migrazione, come i ricongiungimento famigliari, la crescita di seconde generazioni, l’arrivo di rifugiati politici e umanitari etc. hanno allargato la portata del fenomeno fino a farlo divenire una questione politica. È naturale il fatto che concetti di rifugiato o immigrato derivino dall’attività politica di regolazione condotta dai paesi verso cui si dirigono i migranti. Si tratta dunque di costruzioni politiche e sociali, frutto delle esperienze storiche, dei sentimenti 62 di gruppi etnici, che tendono a favorire l’immigrazione e sindacati e gruppi nazionalisti, che tendono a fermarla. 4. Approccio istituzionale: si pone in rilievo il ruolo dell’amministrazione, intesa come apparato burocratico, nell’elaborazione delle politiche nei confronti di immigrati e rifugiati. Non manca chi sottolinea le divisioni interne all’apparato statale né chi distingue stati forti più capaci di resistere alle pressioni esterne e stati deboli in cui le pressioni degli attori sociali penetrano con successo nelle istituzioni pubbliche e incidono sulle politiche. 5. Approccio realistico: è tipico degli studi delle relazioni internazionali. Vede lo stato come attore principale e lo considera come un attore unitario e razionale, preoccupato prima di tutto della sicurezza nazionale. Viene privilegiato il fatto che i conflitti internazionali, inclusi quelli militari, hanno storicamente influito sulle politiche migratorie, sia in direzione restrittiva, sia in senso liberalizzante, quando si pone l’accento sulle necessità di incrementare la popolazione. 6. Approccio liberale e neoliberale: è in contrasto con l’approccio realista ed ha una visione molto più ottimistica della crescente interdipendenza internazionale e dello sviluppo di istituzioni sovranazionali, che vede come veicoli per la diffusione della democrazia e della cooperazione economica. Dà inoltre, rilievo ad attori non statali, come le organizzazioni internazionali e le imprese multinazionali. In questo approccio rientra anche la teoria della globalizzazione, secondo la quale la sovranità degli stati e la loro autonomia stanno indebolendosi: varie pressioni, da quelle economiche a quelle riguardanti i diritti umani, da quelle determinate dalle organizzazioni internazionali a quelle prodotte dalle lobby etniche e umanitarie, tendono a erodere gli spazi di azione dei governi nazionali nel definire le politiche migratorie. Una altra classifica utile per inquadrare le politiche di regolazione delle migrazioni è basata su un elemento sostantivo e cruciale come l’organizzazione dei controlli applicati ai migranti. Vengono così distinti controlli interni e esterni: • Controlli esterni espliciti: rappresentati dai sistemi dei visti, dei permessi di soggiorno, delle regole per ingresso e permanenza, messi in campo dagli stati nazionali. • Controlli interni espliciti: si sviluppano come conseguenza delle imperfezioni dei controlli esterni, per intercettare gli immigrati che soggiornano illegalmente sul territorio, anche quando sono entrati regolarmente, come nel caso degli overstayers e sono affidati alle forze dell’ordine. • Controlli esterni impliciti: riguardano le forme di regolazione non dichiarata o indiretta in materia di ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri o dell’introduzione di nuove definizioni, come quelle di paese terzo sicuro. 65 • Controlli interni impliciti: si riferiscono ai processi di chiusura sociale che assumono la forma di barriere non dichiarate nei confronti dell’accesso degli immigrati a determinati ambiti o a dispositivi che li rendono dipendenti dai sistemi di welfare. Nel contesto europeo, benché praticamente tutti paesi dell’Unione ammettano delle possibilità di entrata legale sul loro territorio, la priorità è stata attribuita da tempo alla repressione dell’immigrazione irregolare, con un crescente impegno nel coordinamento e nell’armonizzazione delle procedure tra i paesi membri. Sono stati dispiegati notevoli sforzi nella lotta contro l’immigrazione irregolare e l’uso improprio del diritto di asilo, con l’inasprimenti di norme, con la chiamata in causa di vettori e dei paesi di transito e con la responsabilizzazione dei paesi di primo ingresso nel caso dei rifugiati. L’allargamento dell’Unione verso Est ha comportato la formazione di una area di libera circolazione di lavoratori molto più ampia, ma nei confronti degli immigrati provenienti da paesi terzi resta ancora privo di effetti operativi apprezzabili. Infatti, le scelte istituzionali continuano a seguire una direzione di rafforzamento delle misure di controllo. I responsabili governativi hanno trovato la prospettiva di una politica comune in materia di visti, nell’incremento dell’efficacia delle procedure di espulsione, del coordinamento dei controlli di frontiera, della repressione del traffico di persone e del favoreggiamento dell’ingresso clandestino. In questa prospettiva nel 2005 è stato varato il sistema Frontex, per coordinare la vigilanza sulle frontiere esterne dell’Unione, il quale è stato finanziato dalla stessa Unione con 42 milioni di euro e ha prodotto un numero molto elevato di respingimenti alle frontiere europee, soprattutto in Grecia, Spagna e Italia. La lotta all’immigrazione irregolare può dunque essere vista come un esempio di transnazionalizzazione delle politiche migratorie con la complessiva convergenza di paesi che nel passato seguivano approcci differenti. Si può distinguere a riguardo: • Un gruppo di iniziative che consistono nel ricorso ai controlli esterni: politica dei visti per l’ingresso, rafforzamento della vigilanza sulle frontiere, esternalizzazione dei controlli al di fuori dei confini, cooperazione con i paesi di origine e di transito per i migranti. • Un secondo gruppo di iniziative consiste invece nel ricorso ai controlli interni: esclusione da una gamma di servizi pubblici, controlli della polizia, misure di identificazione, detenzione e espulsione e controlli sul mercato del lavoro. Questi controlli sono più incisivi in quanto la domanda di lavoro molto flessibile e a basso costo rappresenta una calamita per l’immigrazione non autorizzata. Altri elementi suggeriscono tuttavia una carenza di volontà politica nel combattere economia sommersa e lavoro nero. Le tendenze verso la deregolazione del mercato del lavoro, il ricorso ad appalti e subappalti, l’esternalizzazione di attività prima svolte in azienda, favoriscono l’informalizzazione dei rapporti di lavoro, che contraddistinguono le politiche dichiarate di contrasto dell’immigrazione irregolare. Nel Regno Unito, secondo Vasta, la tolleranza delle autorità nei confronti del lavoro irregolare degli immigrati è un fatto notorio e funzionale agli interessi del sistema economico. Si è scoperto, per esempio, che moltissimi immigrati undocumented lavoravano nel settore della sicurezza, con regolare autorizzazione ministeriale, grazie a numeri di 66 codice della sicurezza sociale contraffatti. Le occasionali espulsione servono come deterrente, come strumento per mantenere gli immigrati irregolari sotto una cappa di insicurezza e come tattica per rassicurare l’opinione pubblica interna. In Germania, Morokvasic ha parlato di una rotazione autogestita dai migranti provenienti dall’Europa orientale. Essi passano il confine con visti turistici trovando poi lavori occasionali nel settore agricolo, nell’edilizia, nella riparazione di autoveicoli oppure, se donne, nei servizi domestici e assistenziali, tornando poi in patria prima della scadenza dei loro permessi, spesso dandosi il cambio con parenti, amici e conoscenti. A causa di questi fenomeni, alcuni hanno criticato la visione ormai canonica della ‘Fortezza Europa’ sempre più arroccata e impermeabile all’ingresso di cittadini esterni provenienti dai paesi poveri. È stata analizzata la tensione tra mercato e politica nella regolazione dei movimenti migratori nell’ambito europeo, sostenendo che le spinte all’apertura delle frontiere determinate dalle esigenze economiche finiscono in un modo o nell’altro per imporsi. Altri hanno colto invece i limiti strutturali degli sforzi governativi per controllare le migrazioni, chiamando in causa più ampiamente, oltre ai mercati, i fattori che inducono la partenza nella società di origine, il ruolo delle strutture intermediarie che favoriscono i trasferimenti, i differenti interessi e la frammentazione delle competenze all’interno degli stessi apparati statali. I governi appaiono così più deboli, condizionati e contraddittori nella loro azione, specialmente in quella decisionale. Alcuni studiosi hanno messo a fuoco le ragioni del limitato successo degli sforzi politici per regolare le migrazioni, ponendo i risalto alcuni aspetti: 1. Solo eccezionalmente i governi dei paesi riceventi intervengono sul complesso di variabili che operano nei paesi di origine favorendo l’emigrazione; 2. La regolazione dell’immigrazione è spesso una risposta a breve termine, formulata sotto la pressione dell’opinione pubblica, nei confronti di processi a lungo termine; 3. Gli strumenti politici, anche nelle società riceventi, si focalizzano solo su una parte dei movimenti migratori e su un numero limitato di variabili; 4. Le regole scontano una tensione tra il riconoscimento di diritti individuali e la gestione dei flussi migratori; 5. Le popolazioni immigrate insediate stabilmente rappresentano a loro volta un importante fattore nei processi migratori complessivi, contribuendo a produrre nuova immigrazione. D’altronde, la restrizione dei loro diritti contrasterebbe con le politiche volte all’integrazione e alla partecipazione alla vita delle società riceventi. Esistono inoltre, alcuni fattori addizionali che condizionano l’attuazione o l’impatto delle politiche migratorie: • L’applicazione di politiche restrittive verso certe categorie di stranieri può infierire con altri importanti obiettivi politici, come l’apertura al turismo internazionali l’incremento degli scambi interculturali. 67 persona muoia di fame o freddo perché è sprovvista di un documento, il permesso di soggiorno. 4. I costi economici di politiche repressive più efficienti e della difficoltà pratica di attuare procedimento di espulsione nei confronti i immigrati provenienti da paesi con i quali non sono stati siglati accordi per la riammissione degli espulsi: paradossalmente di conseguenza vengono fermati e trattenuti, per essere identificati e rimandati in patria, principalmente gli immigrati provenienti da paesi disposti a cooperare in materia di controllo delle migrazioni e nella misura di disponibilità di risorse economiche e logistiche, che occorrono per attuare le procedure necessarie. 5. La riproduzione istituzionale dell’illegalità: quando si nega ad un lavoratore immigrato il ricongiungimento famigliare, perché il suo reddito è ritenuto troppo basso o la sua casa troppo piccola e non confortevole, in base a parametri definiti per via amministrativa dalle autorità del paese ricevente, si incentiva indirettamente il fenomeno dei ricongiungimenti non autorizzati. L’Italia è particolarmente generosa verso gli immigrati in condizione irregolare a causa della pressione delle lobby pro immigrati formate da sindacati, organizzazioni religiose, associazionismo volontario e esperti. Si tratta di una coalizione informale ma decisamente attiva nella tutela degli interessi della parte più emarginata della popolazione immigrata, in particolare nella richiesta di provvedimento di sanatoria e nella consulenza a datori di lavoro e soggetti interessati a predisporre la documentazione richiesta. Nel nostro paese è possibile per un immigrato sprovvisto di permesso di soggiorno sopravvivere e attendere un provvedimento di sanatoria, che gli consenta di accedere allo status di residente legale. Il passaggio attraverso una fase di soggiorno illegale e di lavoro sommerso è un tratto quasi normale nel percorso biografico dei migranti oggi residenti in Italia. Si delinea una sorta di percorso ascendente dello status di migrante, che parte dallo stato di illegalità, passando alla amnistia temporanea, poi alla legalizzazione sotto condizione e sfocia infine, nella legalità condizionata. In questo scenario possono essere individuati alcuni tratti rilevanti dei provvedimenti di sanatoria attuati in Italia: • Carattere collettivo e di massa: provvedimenti con termini rigidi, lungamente annunciati e preceduti da aspri dibattiti, concepiti e organizzati in modo tale da produrre affollamenti agli sportelli, lunghe attese e difficoltà di esame approfondito delle istanze. • Ricorrenza periodica, a scadenze abbastanza ravvicinate: la media è circa una sanatoria ogni tre anni e mezzo. È difficile non pensare agli effetti distorsivi che questo dato comporta sulle aspettative e sulle strategie di chi punta a emigrare per cercare lavoro in un paese europeo. • Grandi dimensioni raggiunte: l’Italia è già per dimensioni demografiche il maggiore paese dell’Europa meridionale ed è il più interessato dalle migrazioni internazionali. • Elevati livelli di discrezionalità lasciati alla macchina burocratica e ai funzionari che esaminano le istanze. CAP. 9 70 LE POLITICHE PER GLI IMMIGRATI Vi sono tre principali modelli di inclusione delle popolazioni immigrate: 1. Modello dell’immigrazione temporanea, esemplificato dal caso tedesco e rintracciabile in molte esperienze europee del dopoguerra. L’immigrazione infatti, veniva vista come un fenomeno contingente, di lavoratori che venivano chiamati in quanto necessari per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro, ma che non dovevano mettere le radici, in quanto ci si attendeva che tornassero in patria dopo un certo periodo. Il permesso di soggiorno era collegato al permesso di lavoro, e il licenziamento comportava automaticamente l’espulsione. Si è tentato di imporre forme di rotazione della manodopera immigrata in alcuni casi, negando il rinnovo del permesso di soggiorno dopo un certo numero di anni di permanenza e richiamando nuovi immigrati. I paesi che adottavano questo modello di inclusione si facevano chiamare ‘paesi di lavoratori ospiti’. Un modello del genere risponde a una concezione funzionalistica dell’immigrazione strettamente subordinata alle convenienze del paese ricevente e nella quale l’integrazione dei lavoratori ospiti è limitata al minimo. Nello stesso tempo è ostacolato il ricongiungimento famigliare. Si parla di esclusione differenziale, in quanto gli immigrati sono incorporati in certe aree della società e soprattutto del mercato del lavoro, ma si vedono negato l’accesso ad altre, come la cittadinanza e la partecipazione politica. Tipica di questo modello è anche una concezione chiusa, etnica della cittadinanza, attribuita di base al principio dello ius sanguinis, ossia della discendenza da cittadini del paese. Questo rende assai ardua e spesso impossibile la naturalizzazione degli immigrati, anche dopo molti anni di permanenza. Va tuttavia notato che in Germania da alcuni anni si assiste ad un revival del modello nei confronti della nuova immigrazione per lavoro: si tratta dell’ammissione di lavoratori stagionali, per pochi mesi, in risposta a carenze di manodopera in determinati settori. 2. Modello assimilativo, che ha avuto come principale espressione storica il caso americano del passato e sul suolo europeo è riconducibile alla Francia. In questo caso l’orientamento delle politiche è verso una rapida omologazione anche culturale dei nuovi arrivati. Vige una concezione repubblicana della nazione infatti, come comunità politica, aperta all’ammissione di nuovi venuti a patto che aderiscano alle regole della politica democratica e adottino la cultura della nazione. E’ un modello che punta all’integrazione degli individui, intesi come soggetti sprovvisti di radici e autonomi rispetto a comunità di provenienza e retaggi tradizionali. I migranti devono rendersi indistinguibili dalla maggioranza della popolazione e le istituzioni devono accompagnarli in questo processo trattandoli secondo il principio di eguaglianza. La naturalizzazione è relativamente agevole, non comporta tempi lunghissimi e richiedere condizioni minimali. Le seconde generazioni accedono alla cittadinanza automaticamente, in base al principio dello ius soli: chi nasce sul territorio del paese, ne acquisisce la nazionalità. La convinzione della superiorità del proprio modello civile e nazionale ha in genere informato gli atteggiamenti dei responsabili politici circa la capacità di assimilare gli stranieri in quanto individui, mentre la formazione di comunità minoritarie è stata a volta scoraggiate, in quanto foriera di appartenenza parziali. Benchè oggi il modello assimilativo nella sua versione normativa e esplicita sia difficilmente proponibile come tale, alcune sue istanze e elementi costitutivi rimangono vivi e si intrecciano con elementi degli approcci qui considerati. Per esempio, l’accrescimento della lingua del paese ricevente viene considerato pressoché 71 ovunque un passaggio necessario per l’integrazione dei nuovi arrivati e si rintraccia anzi una rinnovata enfasi sull’argomento. 3. Modello pluralista o multiculturale, in cui convergano esperienze storiche, matrici culturali, orientamenti politici diversi. Può essere distinto in due varianti: • La prima variante è quella liberale o del laissez faire, tipica degli Stati Uniti degli ultimi decenni, in cui le differenze culturali sono tollerate, ma non favorite da un impegno diretto dello Stato. • La seconda variante è quella più influente dal punto di vista culturale da almeno vent’anni, pur essendo in realtà applicata in molti paesi soltanto in alcune aree politiche e registrando ultimamente più di un ripensamento. Le politiche ispirate al multiculturalismo sono state oggetto di critiche aperte da parte di capi di governo come la tedesca Merkel o il britannico Cameron oppure esplicitamente rinnegate nel caso olandese. Il modello viene associato a una concezione multiculturale della cittadinanza: la nazione non viene definita solo come comunità politica aperta a nuovi membri, ma si accetta la differenziazione culturale e la formazione di comunità etniche, sia pure all’interno delle regole democratiche. Nel mercato del lavoro, questa visione dei rapporti interetnici ha favorito inoltre l’adozione di azioni positive per porre rimedio al problema della discriminazione degli immigrati, tra le quali l’espressione più ambiziosa consiste nel controverso sistema delle quote etniche per l’accesso a determinati benefici: i meccanismi di attribuzione, a parità di altre condizioni, come il punteggio ottenuto nelle prove, privilegiano chi appartiene a minoranze riconosciute come oggetto di discriminazione oppure, in altri casi, i dispositivi di selezione riservano comunque un certo numero di posti a persone che appartengono ai gruppi minoritari. Nell’ambito del modello pluralistico si ritrovano esperienze diverse, avanzate e incisive. Non è neppure raro che il multiculturalismo rappresenti una sorta di manifesto o di catalogo di buone intenzioni, rispetto al quale non sempre seguono iniziative coerenti, soprattutto quando si tratta di andare al di là del livello simbolico per toccare interessi concreti delle società riceventi o di porzioni di esse. Nessun approccio pluralista ha introdotto, per le minoranze etniche, norme speciali ispirati ai sistemi normativi dei paesi di provenienza (ammissione della poligamia o status giuridico inferiore per le donne). Sono semmai ammessi modesti adattamenti, come quelli che permettono nel Regno Unito agli uomini di religione sikh di indossare il turbante o alle donne islamiche di portare il foulard. Il modello nelle sue versioni più estreme presenta anche degli effetti contraddittori, che sono divenuti oggetto di molte contestazioni: l’enfasi sul mantenimento della lingua e della cultura del paese di origine, promossa da alcuni programmi educativi, per alcuni può influenzare il futuro delle nuove generazioni, favorendo la permanenza delle enclave etniche, ma sfavorendole nello sforzo di inserirsi negli studi superiori e nel mercato 72 2. Il diritto di suolo (ius soli): prevede l’obbligo di nascita sul territorio nazionale; 3. Il diritto di residenza (ius domicili): criterio più liberale, per cui alcuni anni di residenza sono sufficienti per ottenere la cittadinanza. Secondo Walzer si possono individuare tre concezioni della cittadinanza: 1. La prima concepisce le comunità nazionali come famiglie, in cui si diventa membri soltanto per nascita o per matrimonio. 2. La seconda le vede come circoli o club, dei quali si può entrare a fare parte se si è ammessi da chi è già membro del gruppo. 3. La terza più liberale, è paragonabile ad un quartiere, in cui ci si può trasferire e risiedere a piacere. La prima concezione di Walzer trova un corrispettivo nello ius sanguinis. È una idea che si rifà alla concezione romantica di nazione, condivisa come criterio di base dalla maggior parte delle legislazioni, ma particolarmente radicata nei paesi che hanno avuto una importante storia di emigrazione verso l’estero, in quanto in genere hanno voluto mantenere un legame con i propri concittadini sparsi per il mondo. in Italia il codice della cittadinanza è stato riformato prevedendo un più agevole recupero della discendenza italiana per i discendenti dei nostri antichi emigranti, inasprendo negli anni i tempi di attesa necessari per gli stranieri che desiderano richiedere la naturalizzazione, in quanto essi sono stati portati a dieci per i cittadini di paesi non europei, mentre per paesi dell’Unione sono richiesti quattro anni. Rimane sempre più semplice diventare cittadini italiani per matrimonio e per questo si parla di una concezione etnica, famigliare dell’immigrazione. A livello europeo fino a qualche anno fa si poteva affermare che il diritto di sangue stesse perdendo terreno a favore del diritto di suolo, che può essere solamente in parte paragonato alla concezione di circolo di Walzer. In Germania la legislazione è andata in questa direzione, ma in altri paesi ciò non è avvenuto. Più in generale, il diritto di sangue continua a rappresentare il principio più prevalente di attribuzione della cittadinanza, come nel caso del trattamento riservato ai discendenti di antichi emigranti. Si parla in questo caso di rietnicizzazione della cittadinanza , con un indebolimento della territorialità in favore di una concezione semifeudale di rapporto personale. Anche la tendenza verso l’idea di cittadinanza come quartiere, mediante la naturalizzazione per diritto di residenza appare oggi molto meno netta rispetto al passato. Occorre ricordare che in molti paesi per ottenere la cittadinanza bastano cinque anni agli stranieri maggiorenni, regolarmente risiedenti, che hanno abitato in maniera continuativa nel paese per il periodo richiesto e dimostrano di conoscere la lingua e la storia nazionale. Anche quando non accedono alla cittadinanza, gli immigrati residenti da lungo tempo sono in genere destinatari di un pacchetto di garanzie e di diritti più consistente di quello dei nuovi arrivati. In Italia la legge del 1998 ha introdotto la ‘carta di soggiorno’ conseguibile dopo cinque anni di residenza, portati a sei dalla leggi Bossi-Fini. In Italia alcune forze politiche hanno presentato proposte in ordine del diritto di voto in ambito locale. La tendenza alla concessione del voto locale si va profilando in ambito europeo, dove i cittadini dell’Unione residenti in un altro paese comunitario possono già oggi votare per le elezioni municipali e per quelle europee. Lo stato giuridico degli immigrati 75 lungo residenti tende nel complesso a essere rafforzato, anche per quanto riguarda l’accesso ai diritti sociali e viene considerato un caso intermedio tra quello dello straniero e quello del cittadino a pieno titolo. Si è rispolverato al riguardo il termine inglese ‘denizen’. Più complicato appare la concessione del diritti di voto alle elezioni politiche nazionali. Il monopolio delle decisioni politiche da parte dei cittadini a pieno titolo appare, insieme al controllo delle frontiere, uno dei residui simboli della sovranità nazionale. A parte qualche raro esempio, nessuno Stato nazionale sembra disposto a rinunciarvi. Il tema del voto, almeno locale, e soprattutto delle possibilità di naturalizzazione, assume grande rilievo come soluzione per porre rimedio a una contraddizione posta in rilevo ancora da Walzer: gli immigrati hanno nelle società sviluppate uno statuto in cui sono tollerati, in quanto lavoratori disposti a occuparsi delle mansioni più ingrate, ma esclusi dai processi decisionali della polis. Questa per Walzer è una forma di tirannia, in cui alcuni decidono anche per gli altri, che risiedono nello stesso territorio e sono sottoposti alle stesse leggi. Il ragionamento può essere completato se si osserva che gli immigrati, quando lavorano regolarmente, accedono ad una pacchetto di benefici previdenziali collegati al lavoro dipendente: assistenza sanitaria, pensionistica, anti infortunistica e tutela contro la disoccupazione. I loro figli, se nascono o vengono ammessi sul territorio, possono accedere all’istruzione su un piano di parità con i cittadini nazionali. È il nucleo di quella che Marshall ha definito cittadinanza sociale, la quale ha acquisito tre elementi in una sequenza che parte dai diritti civili (libertà di parola e opinione, diritto a ottenere giustizia), si estende ai diritti politici (partecipazione all’esercizio del potere, come elettore o come eletto) e include infine, i diritti sociali. Per gli immigrati la sequenza si inverte: i diritti sociali sono stati i primi ad essere concessi. Occorre però notare che i diritti sociali se non sono supportati dai diritti politici rischiano di rimanere fragili, apparendo come una sorta di concessione che la società dei cittadini a pieno titolo fa a chi arriva dall’esterno e non gode del beneficio dell’appartenenza. Un’altra tendenza osservata nella maggior parte dei paesi europei è la maggiore tolleranza verso la doppia cittadinanza. Essa incrocia il mondo organizzato in Stati nazionali, istituzionalizzando l’attraversamento dei confini e la coesistenza di diversi tipi di legami sociali e simboli tra i cittadini e tra i cittadini e gli stati. Anche sul progresso della doppia cittadinanza, alcuni studiosi avanzano qualche riserva, osservando che la tendenza recente appare più contrastata e fluttuante, con fasi di recente accettazione e altre di chiusura. Tipicamente europeo è anche l’allargamento in direzione di una cittadinanza sovrapposta, la quale non rinnega la cittadinanza nazionale, ma vi aggiunge una cittadinanza sovranazionale nell’ambito dell’Unione europea, che conferisce alcuni diritti esercitabili al di fuori dei confini del proprio paese. Questo fatto assume una grande importanza verso gli immigrati provenienti da paesi neocomunitari, che sono divenuti titolari di un cospicuo pacchetto di diritti nei paesi in cui si sono trasferiti. Ne deriva una stratificazione civica con la formazione di una gerarchia che vede al livello più basso gli immigrati irregolari, poi nell’ordine quanti dispongono di un permesso di soggiorno limitato nel tempo, i lungo residenti con uno statuto stabile, i migranti interni all’Unione europea e infine, i cittadini a pieno titolo. Nash distingue a sua volta: • I supercittadini (le elite cosmopolite) • I cittadini marginali (gli immigrati deprivati economicamente dalla povertà o socialmente dal razzismo) 76 • I quasi cittadini (gli immigrati lungo residenti) • I sub cittadini (gli immigrati senza occupazioni o senza titoli di studio per accedere ai benefici sociali) • I non cittadini (gli immigrati non autorizzati e soggetti a deportazioni) Nel filone degli studi la questione dei diritti sociali è studiata dall’alto, sotto il profilo dei diritti attribuiti agli stranieri residenti, ma vanno anche ricordati i lavori che muovono dal basso, ossia dal punto di vista delle pratiche effettive, delle reinterpretazioni, delle negoziazioni, in cui gli immigrati ricoprono ruoli attivi nell’accesso e nella fruizione di alcuni benefici sociali. la concezione della cittadinanza appare così un fenomeno più fluido, si parla infatti di ‘cittadinanza flessibile’, partendo da uno studio sulle interazioni tra operatori sociali e rifugiati del Sud-est asiatico: a fronte di processi di erogazione di servizi che tendono a disciplinare e normalizzare i comportamenti dei nuovi attivati, si oppongono condotte che mescolano acquiescenza e resistenza. Si può notare anche che due delle componenti della cittadinanza, l’identità collettiva e i diritti individuali, si sono progressivamente ampliati negli ultimi decenni. Per esempio, i diritti umani, prima strettamente legati alla nazionalità ora si applicano sempre più anche ai residenti non cittadini. Nel contempo, nella formazione delle identità miste ‘col trattino’, il paese di origine diventa fonte di identità e il paese ricevente fonte di diritti. Il risultato di fondo è una ambivalenza tra diritti e identità, tra cultura e politica, tra stati e nazioni. Si collega a questo filone il dibattito sulla denazionalizzazione della cittadinanza introducendo idee come quella della cittadinanza transnazionale o globale. A proposito si distinguono quattro significati di cittadinanza: 1. Il primo è quello di tipo legale: designa lo status formale di membro di una comunità politica. Su questo piano la denazionalizzazione è poco plausibile, poiché lo status formale di cittadino rimane legato allo Stato nazionale. 2. Il secondo è quello che collega la cittadinanza al godimento di determinati diritti: le rivendicazioni post nazionali hanno qui più spazio, in nome dell’universalità dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale, trascendendo la giurisdizione dei singoli Stati nazionali. 3. Il terzo è quello è quello che riprende la partecipazione attiva alla vita politica: si tratta della tradizione civica repubblicana alla francese. Un numero crescente di persone è infatti coinvolte pratiche politiche democratiche attraverso i confini, nella forma di movimento sociali transnazionali. 4. Il quarto fa riferimento ad una esperienza della cittadinanza come identificazione e solidarietà: si tratta di queste due forme che un cittadino manifesta nella vita collettiva o pubblica, con svincolamento dai confini nazionali. In questo senso l’immigrazione mostra che di fatto le persone possono mantenere appartenenze e legami che trascendono i confini nazionali. 77 sottolineare l’importanza delle modalità di rappresentazione e di definizione dell’oggetto delle politiche da parte dei decisori politici. Emerge qui il ruolo delle burocrazie di strada, ossia degli operatori dei servizi che interagiscono direttamente con i beneficiari del servizio e dispongono di potere discrezionale, nel considerare ammissibile o meno una richiesta nel facilitare o meno l’accesso ai servizi o nel compilare o meno una domanda. Questi processi producono uno scarto tra la dimensione delle politiche dichiarate, con il loro apparato retorico, e quella delle politiche in uso, che si riferisce ai comportamenti effettivi. Esiste un settore solidaristico. Un approccio alla classificazione delle attività svolte dal settore solidaristico a sostegno degli immigrati può essere elaborato a partire dalle tre classi di organizzazione non profit: 1. Le organizzazioni propriamente caritative o di cura nei confronti di determinate categorie di beneficiari; 2. I gruppi di pressione, che svolgono attività di advocacy, cioè di tutela dei diritti, a favore dei soggetti socialmente deboli; 3. Le organizzazioni di mutuo aiuto, derivanti dall’autoorganizzazione di quanti condividono una determinate condizione del bisogno. È possibile assimilare i gruppi di mutuo aiuto con le reti e l’associazionismo etnico. L’attività di cura nel caso italiano può essere invece distinta in due categorie: • Base volontaria, con utilizzo esclusivo o quasi di personale non retribuito e in genere non specializzato. • Organizzazioni strutturate, che usano personale retribuito e professionalizzato, giovandosi di finanziamenti di natura pubblica. Le modalità di azione dell’associazionismo nei confronti degli immigrati possono essere ricondotte a quattro idealtipi: 1. Associazionismo caritativo, caratterizzato dall’aiuto diretto alle persone in difficoltà, offerto su base prevalentemente volontaria e composto da prestazioni a bassa soglia (parrocchie, associazioni locali). 2. Associazioni rivendicativo, o di tutela dei diritti, è attivo soprattutto sul fronte dell’iniziativa politica e culturale, come lotta contro abusi e discriminazioni o come richiesta di cambiamenti legislativi (partiti sinistra e associazioni sindacali) 3. Associazionismo imprenditivo, che tende a organizzarsi in forma cooperativa e a fornire agli immigrati servizi più complessi (sportelli plurifunzionali e ruolo delle istituzioni pubbliche) 80 4. Associazionismo promosso dagli immigrati, che è ancora debole e poco attrezzato in Italia. Occorre rilevare nel caso italiano un profondo divario tra associazionismo formale e reti informali a base etnico- nazionale. Il primo rappresenta un fenomeno diffuso, ma molto fragile e soggetto ad un elevato turnover. Le reti etniche sono invece molto vitali, anche se differenziate a seconda dei gruppi nazionali, non sempre interessate ma spesso capaci di sostenere in vari modi l’inserimento sociale e lavorativo dei loro membri. Diverse esperienze di aiuto agli immigrati si sviluppano nell’alveo delle forme tradizionali di carità, specialmente di matrice cattolica: mense dei poveri, dormitori, centri di ascolto parrocchiali. Questa matrice presenta risvolti problematici, infatti, l’inserimento in questi contesti comporta per gli immigrati una perdita di status. Persone giovani e attive nel mercato del lavoro vengono equiparate ai senza dimora e agli emarginati italiani, per essere aiutate. Tuttavia, le attività caritative manifestano capacità di ripensamento, riorientamento e innovazione dei servizi rivolti ai nuovi beneficiari. L’attività assistenziale continua a essere erogata, ma con alcune tendenze innovative: • Si tende ad ampliare il pacchetto dei servizi offerti. • Si sono avviati processi di specializzazione, concentrazione e professionalizzazione dei servizi e anche forme di collaborazione con le istituzioni pubbliche. • Si verifica una riposizionamento dei servizi in risposta all’evoluzione e alle nuove esigenze delle popolazioni immigrate. • Si richiede maggiore responsabilizzazione e coinvolgimento dei beneficiari. In alcuni casi anche immigrati svolgono attività di volontariato a favore di altri immigrati, ricavandone benefici in termini di riconoscimento e immagine sociale. 81 CAP. 10 AREE PROBLEMATICHE DEVIANTI E VITTIME, TRAFFICANTI E TRAFFICATI Nel caso italiano, a causa del modo in cui l’immigrazione a fatto irruzione nel paesaggio sociale del nostro paese, la criminalità ha raggiunto livelli elevati e resta al vertice delle preoccupazioni dell’opinione pubblica nei confronti dei fenomeni migratori. Il tasso di delittuosità per gli immigrati regolari è leggermente superiore a quello degli italiani, molto più elevato è quello degli immigrati irregolari invece. Ancora più grave appare il quadro della popolazione carceraria. Denunce e incarcerazioni degli immigrati sono più frequenti nell’Italia centrosettentrionale che nel Mezzogiorno. Infatti, ci si attenderebbe un maggiore tasso di criminalità e delinquenza laddove è più difficile l’inserimento economico lavorativo, ma al contrario, dai dati emerge che gli stranieri presentano nel Mezzogiorno, area molto disagiata dal punto di vista occupazionale, una propensione al comportamento criminale relativamente contenuta. Questo divario è interpretato come effetto di una maggiore tolleranza nel Mezzogiorno, da parte di autorità e popolazione, verso alcuni comportamenti devianti oppure come conseguenza di un diverso grado di radicamento della criminalità locale, ossia dove questa è più organizzata, diffusa, capace di controllare i mercati delle attività illegali, lascia poco spazio alla devianza di importazione. Alcune caratteristiche del fenomeno sono: 1. Concentrazione di reati fatti da immigrati in determinate categorie (furti in abitazione, in esercizi commerciali). 2. Gli immigrati rappresenta un target specifico per l’azione penale quando sono individuati come soggiornanti irregolari sul territorio. 3. Fattori ambientali legati alla specificità delle regioni di inserimento e in generale al grado di integrazione nella società, influenzano notevolmente l’incidenza delle statistiche giudiziarie degli immigrati e di singole collettività nazionali. 4. Gli immigrati commettono in molti casi reati di alta visibilità, come lo spaccio di stupefacenti in luoghi pubblici, furti nei supermercati e sfruttamento della prostituzione. 5. Spesso si constatano forme di specializzazione di alcune nazionalità nella realizzazione di certe forme di illecito: produzione e spaccio di stupefacenti per marocchini, algerini e tunisini, furti per rumeni, serbi e croati e reati connessi alla prostituzione per nigeriani e albanesi. Si riscontrano infatti, profonde differenze nel grado di coinvolgimento delle diverse nazionalità nelle attività illegali: per alcune si nota un tasso di denunciati molto più elevato di quello dei soggiornati, mentre per altre avviene il contrario, ossia una cospicua presenza sul territorio corrisponde ad una bassa incidenza nelle statistiche giudiziarie. Se si combina la frequenza quantitativa con la specializzazione in alcune fattispecie di reati si può disporre di elementi per immaginare che le reti migratorie talvolta concorrono a introdurre connazionali in attività devianti, anziché in occupazioni lecite. Si parla in proposito di reti viziose osservando che anche esse, al pari delle reti virtuose, svolgono una funzione cruciale, ossia grazie a esse, coloro che vivono ancora in patria possono ricevere dai connazionali già stanziati nelle città informazioni sulle attività illecite, sul loro rendimento e sui rischi che comportano. 82 1. Le denunce non esauriscono il fenomeno della criminalità. La rappresentazione della criminalità che emerge dalle denunce è distorta. Le denunce contro una persona nota sino prodotte in gran parte dall’attività delle forze di polizia, che svolgono quindi una funzione di filtro tra la massa dei reati e quelli che diverranno oggetto di denuncia specifica contro una persona. Assumere il dato di denunciati come rappresentativo del fenomeno della criminalità non sarebbe dunque corretto sotto il profilo metodologico. 2. Molte sono le critiche rivolte a quella che viene chiamata criminalizzazione degli immigrati. secondo alcuni studiosi, la raccolta di dati sulla devianza degli immigrati è già l’esito di un processo di stigmatizzazione attuato dalla società ricevente, che individua gli immigrati come categoria sociale minacciosa, da tenere sotto controllo. Anche la costruzione sociale dell’immigrazione come problema per la sicurezza pubblica diventa una realtà con cui fare i conti. Di fatto, anche la maggior parte degli studiosi critici condivide elementi con la scuola classica: che tra gli immigrati si riscontrino elevati tassi di coinvolgimenti in alcuni reati, che questo fenomeno si correli in modo marcato con l’irregolarità e che sia più frequente in alcune componenti della popolazione immigrata. Alcuni studiosi notano inoltre che, non ogni componente dell’immigrazione irregolare costituisce un problema criminale: gli immigrati undocumented occupano un ampio ventaglio di posizioni sociali, che spaziano da un lavoro stabile e una integrazione avanzata nella società, alla marginalità sociale ed economica. Si ricorre al concetto di struttura di opportunità differenziale per spiegare queste differenze. La struttura di opportunità degli immigrati irregolari può essere divisa in tre assi istituzionali: 1. Il grado di accessibilità alle istituzioni formali del welfare state (cure mediche, educazione dei figli, alloggio e mercato del lavoro). 2. Il grado di accessibilità alle istituzioni informali (reti famigliari, amici, conoscenti). 3. La possibilità di accesso ai circuiti criminali. Queste diverse istituzioni svolgono un ruolo nell’integrazione degli immigrati irregolari. Le persone che provengono da paesi diversi, in condizioni e momenti diversi, hanno accesso a strutture diverse di opportunità e queste incidono sul loro inserimento in attività lecite o illecite. Cioè laddove l’appoggio delle reti etniche e di altri fattori è efficace e orientato alla legalità, è più probabile che gli immigrati riescano a sottraesi da circoli devianti, anche se irregolari. Un aspetto rilevante della devianza degli immigrati irregolari consiste nella violazione di norme che i paesi riceventi fissano rispetto alla possibilità di soggiornare legalmente e lavorare sul proprio territorio, anche perché la condizione di illegalità influisce sul coinvolgimento in attività criminose. Occorre differenziare: • Immigrati irregolari: coloro che sono entrati regolarmente, per esempio con un visto turistico, hanno visto scadere l’autorizzazione a soggiornare. Sono definiti in inglese overstayers e formano la maggior parte degli 85 immigrati privi si permesso di soggiorno. • Clandestini: coloro che hanno compiuto qualche azione dolosa per entrare nel paese ricevente, aggirando i controlli di frontiera, contraffacendo i documenti e corrompendo le autorità preposte. • Migranti trafficati: coloro che vengono persuasi o costretti a emigrare da altri, interessati a trarne profitto e ad approfittarne una volta giunti a destinazione, quindi trattenuti contro la loro volontà e costrette a sottostare alla volontà dei ‘padroni’. Questi scenari vanno collocati nello scenario internazionale che regola a livello internazionale la mobilità delle persone attraverso le frontiere. Il divario crescente tra domanda di mobilità e possibilità di ingresso legale nei paesi sviluppati, ha prodotto la formazione di una consistente industria del passaggio irregolare dei confini. Si può parlare di una economia della frontiera e degli attraversamenti non autorizzati, ch offre vari tipi di servizi a quanti desiderano passare dalla sponda povera alla sponda ricca della geografia di un mondo sperequato. La frontiera per alcuni è divenuta una risorsa, non più per il contrabbando di merci, ma per il traffico di esseri umani. Il viaggio, a sua volta, sta ridiventando per un numero crescente di migranti una esperienza rischiosa, travagliata, che può durare mesi o anche anni, ricorrendo a mezzi di fortuna, ad espedienti di ogni sorta, a servizi di passatori, a soste prolungate in zone di transito per procurarsi le risorse necessarie per la tappa successiva. Questa particolare industria dell’attraversamento dei confini è sempre più presidiata dalle organizzazioni criminali, per i quali il trasporto di candidati all’immigrazione rappresenta un business. Si distinguono a proposito, a livello di istituzioni internazionale, come la stessa Onu, • smuggling: si riferisce al semplice aggiramento dei vincoli di ingresso, al favoreggiamento dell’ingresso irregolare e il sostantivo smuggler potrebbe essere reso come ‘passatore’, un vocabolo prelevato dalla storia del contrabbando, cioè colui che dietro compenso aiuta i clienti consenzienti a varcare illegalmente una frontiera. • trafficking: identifica il più grave fenomeno della tratta degli essere umani e il trafficante è colui che fa entrare le persone in un altro paese con l’inganno o con la violenza, per tenerle sotto il suo potere e sfruttarle in diversi modi, come prostituzione, lavoro coatto etc., mentre sono una componente imprescindibile dallo smuggling. I due fenomeni sono dunque spesso di fatto incrociati e difficile da discriminare sul piano del funzionamento operativo. Possono presentare una notevole sovrapposizione ed essere attuati a medesimi soggetti, tanto da essere inquadrati come due estremi di una stessa attività. Tra i candidati all’immigrazione, sono le scarse possibilità di entrata legale che spingono alla ricerca di modi alternativi per riuscire ad entrare nel sospirato Occidente, ma ciò causa delle conseguenze nella selezione dei partenti . Quando si tratta di attraversare illegalmente le frontiere, affidandosi a organizzazioni di trafficanti, cresce la probabilità, che a partire non siano più i più capaci e volitivi come avveniva nel passato, bensì i soggetti che non hanno nulla da perdere, disposti a tutti, senza grandi remore nei confronti della violazione delle leggi e spesso già in contatto con attività illegali. Il passaggio attraverso le maglie dei controlli è dunque selettivo, ma non necessariamente lascia passare i soggetti migliori dal punto di vista degli stessi interessi delle società riceventi. 86 Una ricerca molto interessante è stata seguita in passato sull’industria del passaggio delle frontiere come business globale. In essa il trafficking ingloba anche lo smuggling ed è inserito come elemento fondamentale di connessione nel migration business, concepito a sua volta come un sistema di reti, che comprende un insieme di istituzioni, agenti specializzati e individui, che partecipano all’attività per ricavarne profitti economici. Sono stati distinti tre stadi del trafficking: 1. la mobilitazione e il reclutamento dei migranti nei paesi di origine. 2. Il loro viaggio attraverso i confini fra gli stati. 3. L’inserimento nel mercato del lavoro e nella società di destinazione. Successivamente è stato riconosciuto che il trafficking si confonde e sovrappone con forme più volontarie di migrazione illegale, parlando di un continuum tra i due poli della costrizione e della scelta volontaria. Una analisi dell’organizzazione del traffico di migranti verso l’Italia, svolta dal Cespi (centro studi di politica internazionale) consente di sottoporre a critiche alcuni aspetti dell’approccio sopra descritto, introdotto da Salt e Stein. Emerge infatti, un modello reticolare e fluido, basato sulle piccole organizzazioni flessibili, senza strutture gerarchiche e rapporti durevoli, che sembrano formarsi di volta in volta e poi scegliersi. Anche per necessità di sottrarsi alla pressione crescente delle autorità di controllo, le risorse organizzative che risultano centrali consistono nella flessibilità operativa e nella capacità relazione. La prima consente di adattare le modalità di reclutamento e trasporto ai vincoli determinati delle strategie di contrasto. La seconda rimanda invece all’abilità nell’instaurare rapporti di collaborazione con le organizzazioni che si occupano del reclutamento degli aspiranti all’immigrazione nei paesi di origine e del transito in quelli vicini. La ricerca Crespi illustra inoltre le dinamiche evolutive del traffico di migranti verso l’Italia, ponendo in rilievo quattro aspetti: 1. L’apertura di un canale o di una rotta di ingresso beneficia di solito dell’appoggio di soggetti già dotati di esperienza specifica. 2. Alla prima fase di collaborazione fa seguito spesso l’acquisizione di una piena autonomia da parte delle organizzazioni di trafficanti straniere. 3. L’azione di contrasto, nella costa adriatica soprattutto, ha dapprima prodotto un innalzamento dei livelli di organizzazione criminale del trasporto e conseguentemente dei prezzi, in un secondo tempo una diversificazione sempre più accentuata delle attività illecite da parte dei gruppi albanesi, con una riconversione verso traffici più vantaggiosi in termini di rapporto tra rischi e profitti. 4. Il declino della rotta adriatica ha prodotto una sorta di effetto domino sui trasporti illegali di migranti nel bacino del Mediterraneo. Come è noto nel 2009 il governo italiano ha concluso nuovi accordi con la Libia, procedendo a respingimenti in mare di natanti che trasportavano circa 900 migranti, tra le proteste dell’Onu e dell’Ue. La ricerca Cespi fa emergere infine, un frenetico gioco a tre nello spazio mediterraneo, tra stati che cercano di controllare gli ingressi clandestini, organizzazioni di trafficanti e aspiranti all’immigrazione. Alcuni successi conseguiti dalle strategie di contrasto fanno pensare che le migrazioni illegali non siano inarrestabili, ma la riproposizione di nuove rotte mostra che il momento tende a ripresentarsi con altre modalità. 87 PREGIUDIZIO, DISCRIMINZIONE E RAZZISMO Alla base del pregiudizio verso altre ‘razze’ vi sono dei meccanismi operativi tipici dei processi cognitivi della mente umana: la conoscenza infatti, richiede classificazione, ossia distinzione e ordinamento degli oggetti in categorie in una certa misura precostituite. Tendiamo a conoscere generalizzando, ossia costruendo categorie collettive e riconducendo a esse i casi individuali che, a un sommario esame, ci sembrano riconducibili alle categoria con cui abbiamo famigliarità. Il problema nasce quando i processi di categorizzazione danno luogo a forme di generalizzazione indebita, che consiste nell’attribuire a tutti i membri di un determinato gruppo sociali alcuni comportamenti o caratteristiche, o anche soltanto attribuire a uno o ad alcuni individui di quel gruppo; tanto più quando si applicano a qualità morali e intellettuali delle persone. Dai pregiudizi nascono infatti, gli stereotipi, ossia rappresentazioni rigide, standardizzate, intrise di valutazioni stigmatizzanti, che si applicano a gruppi sociali considerati collettivamente, appiattendo le caratteristiche individuali. Alcuni esempi di stereotipi a base etnica possono essere ‘gli africani sono pigri’, ‘gli zingari rubano’ e ‘gli albanesi sono violenti’: per il fatto di presentare caratteri somatici o di appartenere ad una popolazione straniera o minoritaria, definita spesso in modo sommario sulla base della nazionalità, dell’area geografia e della religione, ai singoli individui vengono attribuite determinate caratteristiche e attitudini positive o più spesso negative. Questi processi di categorizzazione si incontrano con una altra dinamica psicosociale, l’etnocentrismo, ossia la tendenza a distinguere il proprio gruppo (in-group) dagli altri gruppi (out-group) e a conferire una preferenza sistematica agli interni nei confronti degli esterni, a ritenere se stessi e il proprio gruppo migliori degli altri e anche a giudicare questi ultimi con i propri criteri e norme morali. Il pregiudizio etnocentrico rischia di innescare però derive di xenofobia, ossia l’atteggiamento di rifiuto o paura ei confronti degli stranieri e nelle società occidentali si presenta essenzialmente con rifiuto degli immigrati. Come sottolinea Colombo, la prima reazione di fronte allo straniero, la più profonda e naturale, è la diffidenza, l’ostilità, il panico che scatena una risposta aggressiva e di fuga. Come aveva già notato Weber, l’ostilità razziale tende a acutizzarsi in determinati frangenti e in certi gruppi sociali: si collega a processi di mutamento sociale che innescano in alcune componenti della società la paura di un declassamento e si manifesta in forme più acute in quelle che si sentono più minacciate dai nuovi arrivati. Si comprende quindi perché manifestazioni più dirette e marcate di pregiudizio razziale e di xenofobia siano più diffuse nelle classi inferiori della società riceventi, ossia nelle componenti della società che sotto il profilo abitativo ed occupazionale sono a contatto con i nuovi arrivati e desiderano distinguersi da loro. L’insediamento degli immigrati attiva innanzitutto la rievocazione nostalgica del passato, della comunità coesa e solidale. Ora lo spazio in cui si vive sembra non più riconoscibile e prevale un sentimento di invasione, degli spazi pubblici e commerciali, da cui discende la percezione di un abuso e una crescente insofferenza verso l’uso ritenuto improprio degli spazi. Compare poi il riferimento ad una versione naturalizzata della cultura degli immigrati, come spiegazione di comportamenti inappropriati, insieme all’idea di una non volontà di adeguarsi alle regole della società ricevente. Altre forme di pregiudizio etnico sono invece tipiche delle classi superiori, come la percezione degli immigrati come minaccia per la sicurezza, per l’identità culturale o per l’ordine sociale o la tendenza a considerare gli immigrati come adatti a svolgere alcune mansioni esecutive, come rimpiazzi di lavoratori autoctoni non più disponibili. La complessità del fenomeno ha dato luogo a vari tentativi di spiegare le ragioni per cui si sviluppano le diverse manifestazioni di xenofobia e razzismo: 90 1. Teorie della scelta razionale: questi fenomeni derivano dalla rivalità tra immigrati e popolazione autoctona per l’accesso a risorse scarse, come i posti di lavoro e l’edilizia sociale. 2. Teorie funzionaliste: riconducono la xenofobia alla differenza culturale e all’incapacità di assimilarsi degli immigrati, in quanto provenienti da società arretrate e sprovviste di adeguati livelli di istruzione e qualificazione personale. 3. Teorie della comunicazione discorsiva: secondo cui la distanza culturale o l’incapacità di assimilarsi sono elementi di una costruzione sociale dell’alterità degli immigrati, basata su pratiche discorsive categorizzanti e stigmatizzanti, a cui concorrono vari attori, dai mass media alle elite politico-amministrativo, che ne favoriscono l’esclusione dal corpo della società e consentono di dominarli. 4. Teorie fenomenologiche: legano questi fenomeni a una trasformazione sociale in cui certe promesse politiche, come quella del welfare state, non possono più essere mantenute e si diffondono tensioni anomiche in ampi strati della società, mettendo in crisi identità collettiva e sicurezza. Dunque l’ostilità verso gli stranieri diventa allora un modo per risaldare l’identità nazionale e i suoi confini. Il razzismo poi riconosce una variabilità nel tempo, quanto a bersagli di ostilità soprattutto. Mentre gli immigrati delle precedenti ondate possono migliorare il proprio status nelle rappresentazioni che le società riceventi fanno degli stranieri e talvolta arrivano a beneficiare dell’assimilazione nella cerchia del ‘noi’, il razzismo si sposta molto facilmente su gruppi etnici o nazionali solitamente neo arrivati. La storia non va univocamente verso il graduale superamento dei pregiudizi e dell’inclusione nella comunità del noi. Studiando l’immigrazione dei bracciati messicani versi gli Usa, si può notare come la percezione di una differenza razziale non è originaria, ma è intervenuta in un secondo tempo, come effetto del confinamento dei lavoratori messicani in una nicchia occupazionale precaria, dequalificata, prova di opportunità di miglioramento. Le società riceventi quindi costruiscono la figura dell’immigrato, inquadrandolo in un modo da produrre nella sua collocazione sociale una perdita di status, identificando come svalutativi gli elementi che più immediatamente lo identificano dome estraneo rispetto al contesto di inserimento. Non è sempre chiaro quali atteggiamenti possano essere ritenuti razzisti. È un problema individuato anche dalla Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati: occorre cautela nell’etichettare come razzismo ogni espressione di disagio, di protesta o anche di pregiudizio nei confronti degli immigrati. Si rischia altrimenti di innescare processi di identificazione di porzioni consistenti dell’opinione pubblica con una scelta di campo in senso razzista. Un altro ordine di considerazioni riguarda l’evoluzione del razzismo intellettualmente elaborato, definito anche come razzismo in senso proprio o in senso stretto. Esso è considerato dalla maggior parte egli studiosi come un fenomeno autonomo, un prodotto della modernità occidentale. A differenza del razzismo ordinario, che ha natura informale e irriflessa, questo pensiero razzista è il frutto di una costruzione intellettuale che ambisce a una dignità scientifica. Può essere infatti, definito come qualsiasi teoria che stabilisca una superiorità o una inferiorità intrinseca di gruppi razziali o etnici. 91 Il razzismo classico o biologico vede al suo centro la nozione di razza, costruita per analogia con le differenze tra le specie animali, basata sulla continuità tra l’aspetto fisico e le qualità morali e intellettuali, nonché sulla superiorità della dimensione collettiva su quella individuale, ossia sulle doti e le attitudini dei singoli. Una nozione che si è dimostrata scientificamente inconsistente. Le concezioni razziste servivano dunque a classificare razze in ordine gerarchico, distinguendo razze superiori e inferiori e fondando infine concezioni politiche tese ad attuare le idee relative alle differenti razze. Si parla di due forme di razzismo classico: 1. Eterorazzizzazione: la razza sono gli altri, diversi e inferiori, da sterminare e sottomettere. 2. Autorazzizzazione: la razza siamo noi, gli eletti, insigniti di un diritto naturale al dominio. Il razzismo differenzialista vede al centro l’idea della differenza culturale e allo screditato termine razza si sostituisce quello di etnia o di cultura. Il bersaglio è rappresentato dalle popolazioni immigrate insediate nelle società occidentali, considerate una minaccia per l’identità culturale delle maggioranze autoctone. Le identità culturali vengono quindi definite come rigide, mentre le possibilità di ibridazione o meticciato vengono respinte come inaccettabili, si parla infatti di mixofobia, come orrore della mescolanza tra gruppi umani. Gli individui vengono assegnati collettivamente a una certa cultura di base del fattore ascrittivo della nascita di un determinato paese o della discendenza dei genitori rispettivamente autoctoni o immigrati. La cultura diventa quindi naturalizzata e serve a rinchiudere gli individui in identità immutabili. Anche questa forma contemporanea di razzismo condivide dunque con quella classica un approccio essenzialista, tale per cui attitudini e comportamenti vengono spiegati in base all’appartenenza a una certa categoria collettiva. La discriminazione razziale consiste in comportamenti concreti che penalizzano singoli e gruppi in ragione di fattori come la nazionalità, la religione, l’apparenza fisica. Va osservato che non tutte le preferenze accordate ai membri del gruppo sociale di appartenenza sono illegittime e vanno etichettate come forme di discriminazione. Per esempio, salvo poche eccezioni, in tutte le democrazie del mondo soltanto i cittadini nazionali godono del diritto di voto alle elezioni politiche. Anche l’imposizione di una certa anzianità di residenza per poter fruire di alcuni benefici sociali è molto diffusa ed entro certi limiti viene considerata accettabile. Un problema ulteriore deriva dal fatto che non sempre gli interessati sono consapevoli di subire delle discriminazioni. I lavoratori immigrati possono per esempio ritenere normale l’essere confinati nei lavori meno qualificati, considerando questo tipo di collocazione una sorta di destino ineluttabile. Poste queste premesse, si possono poi distinguere negli studi sull’argomento diverse forme di discriminazione razziale. Gli immigrati incontrano forme esplicite o dirette di discriminazione: quando per esempio si leggono annunci che propongono abitazioni in affitto, ma con la precisazione che non desiderano inquilini immigrati, si è in presenza di questo genere di discriminazione. Il problema diventa seria quando non si tratta di una forma isolata, ma di una serie di scelte che generano di fatto una chiusura collettiva, tale da emarginare gli immigrati dal mercato delle abitazioni in affitto o da altre forme di scambio sociale. A volte il problema si pone invece in termini di discriminazione tra immigrati di provenienza diversa. Gli esempi mostrano che la possibilità di discriminazione è un caposaldo della nostra società, ossia il libero mercato, con il connesso diritto da parte dell’imprenditore di scegliere liberamente chi assumere o con chi intrattenere rapporti economici così come le libertà civili implicano discrezionalità nella scelta delle persone con cui intrattenere relazioni 92