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Sociologia delle Migrazioni. Ambrosini, Appunti di Sociologia

Le migrazioni sono un fenomeno antico come l’umanità, tanto che si può affermare che gli umani sono una specie migratoria.

Tipologia: Appunti

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LDigio
LDigio 🇮🇹

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Scarica Sociologia delle Migrazioni. Ambrosini e più Appunti in PDF di Sociologia solo su Docsity! SOCIOLOGIA DELLE MIGRAZIONI Cp.1 MIGRAZIONI E MIGRANTI in questo capitolo di parla dei diversi tipi di migranti, delle fasi che hanno contraddistinto i movimenti migratori nell’età contemporanea e delle principali tendenze evolutive che interessano oggi le migrazioni internazionali. Le migrazioni sono un fenomeno antico come l’umanità, tanto che si può affermare che gli umani sono una specie migratoria. Prima di divenire (relativamente) sedentaria, l’umanità è stata nomade, impegnata in incessanti spostamenti per seguire le prede di cui si cibava, scoprire nuovi territori di caccia, sottrarsi a carestie e calamità naturali. Si può individuare nello sviluppo del genere umano una consistente propensione alla mobilità geografica, sospinta dai più diversi motivi, ma quasi sempre contenente l’idea di un qualche miglioramento delle condizioni di vita e delle prospettive per il futuro. Le migrazioni possono quindi essere viste come una forma di mobilità territoriale della specie umana, soprattutto volontaria. –Le invasioni turche nei Balcani possono aiutarci a rievocare un tipo particolare di migrazione: quella degli spostamenti dei rifugiati in cerca di scampo. –La storia delle colonizzazioni illustra invece un movimento in direzione opposta: per secoli gli europei andarono a insediarsi in modo violento, sopraffacendo le popolazioni native. Alla colonizzazione del Nuovo mondo si collega poi l’immigrazione forzata di circa 15 milioni di africani, in qualità di schiavi. Questi esempi storici ci mostrano che se i trasferimenti da un territorio all’altro dei singoli individui, di gruppi o di intere popolazioni sono fenomeni ricorrenti nella storia dell’uomo, non è agevole definire con precisione chi siano gli immigrati. La definizione di immigrato varia a seconda dei sistemi giuridici, delle vicende storiche, delle contingenze politiche. Fenomeni come la dissoluzione degli imperi coloniali, l’immigrazione di ritorno dei discendenti di antichi emigranti, gli spostamenti di rifugiati e perseguitati, impongono continue ridefinizioni dei confini tra cittadini nazionali e immigrati stranieri, dando luogo tra l’altro a soluzioni giuridiche differenti tra un paese e l’altro. Possiamo assumere come base di partenza la definizione di migrante proposta dalle Nazioni Unite: una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno. La definizione proposta contiene 3 elementi: 1)L’attraversamento di un confine nazionale e lo spostamento in un altro paese. 2)Il fatto che questo paese sia diverso da quello in cui il soggetto è nato o ha vissuto abitualmente nel periodo precedente il trasferimento. 3)Una permanenza prolungata nel nuovo paese, fissata convenzionalmente in almeno un anno. Si può osservare che questa definizione non tiene conto delle migrazioni interne, né degli spostamenti di durata inferiore a un anno(Lavoro stagionale), né di diverse visioni giuridiche di chi siano gli immigrati e chi siano i cittadini (Esempio dei figli di immigrati). Immigrati (ed extracomunitari) sono dunque ai nostri occhi gli stranieri provenienti da paesi che classifichiamo come poveri, non quelli originari di paesi sviluppati. Contiene un’implicita valenza peggiorativa: indica degli stranieri soggetti a controlli, titolari di un diritto di soggiorno soggetto a limitazioni e subordinato alle norme e agli interessi del paese ospitante. Possiamo dire che l’impiego del concetto di una doppia alterità: una nazionalità straniera e una condizione di povertà. Generalmente, quando un individuo o un gruppo riesce a liberarsi da uno di questi due stigmi, cessa di essere considerato un immigrato. Questo problema di definizione del concetto di immigrato ne introduce altri. Mostra che le migrazioni vanno inquadrate come processi, in quanto dotate di una dinamica evolutiva che comporta una serie di adattamenti e di modificazioni nel tempo, e come sistemi di relazioni che riguardano le aree di partenza, quelle di transito e quelle infine di destinazione, coinvolgendo una pluralità di attori e di istituzioni. Possiamo distinguere pertanto il movimento dell’emigrazione, che si riferisce all’uscita del paese di origine, rispetto al movimento dell’immigrazione, che riguarda l’ingresso nel paese ricevente, e chiamiamo rispettivamente emigranti e immigrati i soggetti che compiono questi spostamenti. Migrazione e migranti sono invece termini più generali, che abbracciano le diverse direzioni della mobilità geografica seguita da un insediamento. Esiste anche però, ed è stato particolarmente importante in Italia nei passati decenni, il fenomeno delle migrazioni interne: spostamenti da una regione all’altra dello stesso paese, che presentano caratteristiche in parte simili a quelle delle migrazioni internazionali e in parte diverse: gli immigrati interni sono cittadini, hanno diritto di voto e di accesso ai benefici che spettano ai residenti, parlano di solito la stessa lingua, professano in genere la medesima religione. Tuttavia, anch’essi possono essere percepiti e trattati come diversi, discriminati nell’accesso al lavoro e all’abitazione. Porre in gioco la società ricevente, con la sua domanda di manodopera e le sue politiche di regolazione degli ingressi, ci consente di compiere un altro passo avanti nell’interpretare il fenomeno. Possiamo affermare che le migrazioni sono costruzioni sociali complesse, in cui agiscono 3 principali gruppi di attori: 1. LE SOCIETA’ DI ORIGINE, con le loro capacità di offrire benessere, libertà e diritti ai propri cittadini e con politiche più o meno favorevoli all’espatrio per ragioni di lavoro di parte della popolazione. 2. I MIGRANTI ATTUALI O POTENZIALI, con le loro aspirazioni, progetti e legami sociali. 3. LE SOCIETA’ RICEVENTI, sotto il duplice profilo della domanda di lavoro di importazione e delle modalità di accoglienza, istituzionale e non, dei nuovi arrivati. La formazione di minoranze etniche riflette l’interazione tra dinamiche auto propulsive delle popolazioni immigrate e processi di inclusione da parte delle società riceventi. Il concetto ha a che fare non solo con l’insediamento stabile di immigrati stranieri, che da vita a nuove generazioni che nascono e crescono in un paese diverso da quello dei genitori, ma anche con il rifiuto o la resistenza a considerarli membri a pieno titolo della società in cui vivono, con la conseguenza dell’esposizione a condizioni discriminatorie. Ne derivano le seguenti caratteristiche: • Sono gruppi subordinati all’interno di società complesse. • Presentano aspetti fisici o culturali soggetti a valutazione negativa da parte dei gruppi dominanti. • Acquistano un autocoscienza di gruppo, essendo legati da una medesima lingua, cultura e appartenenza a una storia e nello stesso tempo da una comune posizione sociale (svantaggiata). • Possono in qualche modo trasmettere alle generazioni successive l’identità minoritaria. Un aspetto rilevante delle migrazioni contemporanee, nello scenario internazionale, è il superamento dell’identificazione dell’immigrato con una sola figura sociale: quella di un lavoratore manuale, poco qualificato, generalmente maschio ed inizialmente solo. Si può osservare che si sono differenziate le porte di ingresso nelle società riceventi, per cui entrano oggi sia immigrati con motivazioni diverse da quelle del lavoro, sia lavoratori con dotazioni maggiori di qualificazione professionale. Si possono così distinguere diversi tipi di immigrati: • Gli immigrati per lavoro: Oggi non sono più in prevalenza maschi, non sono necessariamente poco istruiti e povere di esperienze professionali, ma continuano a trovare lavoro solitamente nei settori e nelle occupazioni meno ambite nei mercati del lavoro dei paesi riceventi. • Gli immigranti stagionali o lavoratori a contratto: Si distinguono dai precedenti perché in diversi paesi sono sottoposti a una regolamentazione specifica, che ne autorizza l’ingresso per periodi limitati, al fine di rispondere a esigenze strutturalmente temporanee e definite di manodopera. • Gli immigrati qualificati e gli imprenditori: Sono ancora quasi sconosciuti nel nostro paese, ma rappresentano una quota crescente dei flussi migratori su scala internazionale, in direzione di paesi più aperti all’immigrazione come Stati Uniti, Canada e Australia, dove esistono specifici programmi In questa periodizzazione, una scansione particolarmente rilevante riguarda il confronto tra le migrazioni della fase aurea della ricostruzione e dello sviluppo postbellico in gran parte intra-europee e rivolte verso l’Europa centrosettentrionale, e le migrazioni più spontanee e meno inquadrate istituzionalmente dell’ultimo quarto del secolo scorso, in cui l’Europa meridionale è divenuta area di destinazione. Nel nuovo contesto si possono identificare alcune tendenze generali dei processi migratori, che si sono manifestate negli ultimi anni e sono destinate a svolgere un ruolo fondamentale anche nel futuro. • La globalizzazione delle migrazioni, con la crescita del numero di paesi interessati al fenomeno come società riceventi e come aree di origine. Aumenta così l’eterogeneità linguistica, etnica, culturale e religiosa dei migranti, e con esso devono misurarsi le società che li accolgono. • L’accelerazione delle migrazioni, con la crescita delle dimensioni quantitative del fenomeno in tutte le principali zone di destinazione e una rapida evoluzione dei flussi verso insediamenti più stabili, mediante ricongiungimenti familiari e la nascita delle seconde generazioni. • La differenziazione delle migrazioni, che comprendono oggi nella maggior parte dei paesi ospitanti un ampio ventaglio di tipi di immigrati, dai migranti per lavoro temporaneo o a un lungo termine, ai rifugiati, ai lavoratori qualificati, ai familiari ricongiunti. • La femminilizzazione delle migrazioni, che dagli anni ’60 ha assunto importanza non solo nell’ambito dei ricongiungimenti familiari, ma anche nelle migrazioni per lavoro, in forme spesso autonome e precedenti l’arrivo di mariti e figli. Un’altra dimensione dei fenomeni migratori colta dall’analisi sociologica riguarda il riproporsi, nei processi di insediamento, di alcune dinamiche relativamente concorrenti. I flussi di immigrati provenienti da una determinata area tendono a seguire ogni volta processi di insediamento abbastanza simili, tanto da poter essere codificati in una serie di passaggi tipici. Molto noto al riguardo è lo schema BOHNING, cha ha individuato 4 fasi o stadi dei processi migratori: MODELLO DI BOHNING 1. Nella prima fase, caratterizzata da grande mobilità ed elevati tassi di attività (partecipazione nel mercato del lavoro) arrivano piccoli numeri di immigrati, generalmente maschi, di giovane età, celibi, provenienti prevalentemente dalle zone più sviluppate del paese di origine. Sono più qualificati e hanno qualificazioni maggiormente orientate all’industria rispetto alla popolazione che non emigra. Sono occupati di solito nelle posizioni più marginali e tendono a fermarsi per periodi molto brevi. 2. Nella seconda fase, cresce l’età media, mentre la distribuzione per genere resta costante, con una predominanza dei maschi, tra i quali aumenta la quota di sposati, cosicché la composizione per stato civile si avvicina a quella della popolazione non migrante. I racconti dei migranti e i contatti sociali incoraggiano altri a partire e si allargano i bacini di reclutamento alle zone vicine a quelle da cui il flusso aveva preso le mosse. Si mantiene elevato il tasso di attività, mentre si estende leggermente la durata del soggiorno e diminuisce il tasso di rientri in patria. 3. Nella terza fase, l’immigrazione comincia a stabilizzarsi: cresce la componente femminile e si sviluppano i ricongiungimenti familiari, mentre declinano i rientri in patria. Diminuisce la popolazione attiva, non tanto perché le mogli non si inseriscano nel mercato del lavoro, quanto piuttosto per la formazione di una popolazione in età minorile. Nel frattempo, partono nuovi emigranti dalle aree meno sviluppate del paese d’origine, iniziando nuovamente dai giovani maschi celibi, ma dotati di livelli di qualificazione mediamente più bassi di quelli precedenti. 4. Nella quarta fase, l’immigrazione giunge a maturità. La permanenza si allunga, aumentano i ricongiungimenti familiari, cresce nel suo complesso la popolazione immigrata. Sorgono a poco a poco istituzioni “etniche” e nuove figure sociali, di imprenditori e di leader civili e religiosi. Questi processi inducono nuova immigrazione e aumenta l’inquietudine sul versante della popolazione autoctona e la domanda di interventi politici di controllo. Lo schema intende rendere conto del fatto che, nelle esperienze europee di immigrazione per lavoro, arrivano dapprima soggetti che hanno come obiettivo l’inserimento nelle occupazioni disponibili, di soliti in vista dell’accumulazione di risparmi e del rientro in patria. Il soggiorno, inizialmente pensato come temporaneo, tende a prolungarsi, e spesso si trasforma in un insediamento stabile. Il passaggio cruciale è rappresentato dall’arrivo o dalla formazione di famiglie, quando i lavoratori hanno consolidato la loro posizione, e con le famiglie aumenta la domanda di servizi sanitari, abitativi, educativi e più ampiamente sociali. Le critiche hanno riguardato la rigidità del modello di Bohning, imperniato sull’immigrazione per lavoro di manodopera salariata, e poco sensibile ad altri tipi di flussi, come quelli di rifugiati, quelli che fin dall’inizio riguardano interi nuclei familiari, quelli di lavoratori ad alta qualificazione e soprattutto quelli in cui le donne sono protagoniste autonome. Un altro schema in 4 stadi è stato proposto più recentemente dall’influente opera di CASTLES E MILLER. Per diversi aspetti simile a quello di Bohning, è però più sensibile all’azione delle reti sociali, non solo come fattore di richiamo, ma anche come insieme di legami che accompagnano l’insediamento nella società ricevente. MODELLO CASTLES E MILLER 1. Primo stadio: migrazioni temporanee per lavoro da parte di giovani, con l’invio di proventi in patria e una orientamento protratto verso il luogo di origine. 2. Secondo stadio: prolungamento del soggiorno e sviluppo di reti sociali, basate sulla parentela e sulla provenienza, motivate dal bisogno di aiuto reciproco nel nuovo contesto. 3. Terzo stadio: ricongiungimento familiare, coscienza crescente di un insediamento di lungo termine, progressivo orientamento verso la società ricevente, emergere di comunità etniche con le proprie istituzioni. 4. Quarto stadio: insediamento permanente che, in relazione alle politiche pubbliche e ai suoi comportamenti sociali della popolazione nativa, può condurre sia a uno status legale consolidato ed eventualmente all’acquisto della cittadinanza, sia alla marginalizzazione socioeconomica e alla formazione di minoranza etniche discriminate. Un terzo approccio più flessibile e comprensivo della dimensione dinamica dei processi di inserimento degli immigrati è individuabile nel concetto di CICLO MIGRATORIO, in cui vengono distinti 3 momenti: 1. Un primo momento, definito marginalità salariale, e quindi condizione di lavoro dipendente e dall’inserimento nella classe operaia. Il termine tipico che indica i residenti stranieri è quello di lavoratore straniero o lavoratore immigrato. 2. Un secondo momento, compreso in media fra i 5 e i 15 anni dal momento dell’arrivo, in cui avvengono nuovi ingressi, per matrimonio e ricongiungimento familiare. L’immigrazione sviluppa qui una funzione demografica, oltre ad alimentare il mercato del lavoro delle società riceventi. Compaiono così nuovi attori, le donne e i minori, la cui presenza dà avvio alle relazioni con l’ambiente istituzionale. 3. Un terzo momento, in cui la popolazione straniera si stabilizza, i figli entrano nell’adolescenza, sorgono leader e si affermano movimenti che richiedono nuovi rapporti con la società ricevente. Le parti in causa sono chiamate a sviluppare processi di reciproca conclusione, almeno nel senso di considerare gli altri come elementi significativi dell’ambiente in cui tutti vivono. Anche in questa tipologia le migrazioni per lavoro rappresentano il momento iniziale, e le donne entrano in scena soltanto in un secondo momento, in relazione ai ricongiungimenti familiari. Il progressivo radicamento nelle società riceventi, benché in una posizione spesso discriminata, è il fenomeno fondamentale che anche questo contributo pone in rilievo. Cp. 2 ALLA RICERCA DELLE CAUSE in questo capitolo vengono analizzati i movimenti migratori, con occhio alle cause che li producono e li orientano verso determinati paesi. Si confrontano al riguardo le due principali prospettive sociologiche: quella macrosociologica, detta strutturalista, che assegna il primato alle forze esterne(economiche, politiche, culturali), capaci di condizionare e incanalare l’agire degli individui, rappresentata tra i classici da autori come Marx e Durkheim; e quella microsociologica, che parte invece dall’individuo e lo considera un attore razionale che assume decisioni orientate al proprio benessere, rappresentata da Weber. Alcune interpretazioni si collocano ad un livello intermedio. SPIEGAZIONI MACRO SOCIOLOGICHE: I FATTORI DI SPINTA Lo sforzo di spiegare le migrazioni costruendo modelli teorici è piuttosto recente, essendo iniziato in sostanza nella seconda metà del Novecento, prendendo vigore nell’ultimo terzo del secolo scorso. Nessuno di essi riesce a proporre una teoria esplicativa globale delle migrazioni. La visione dei fenomeni migratori più diffusa nel senso comune è quella che li connette con grandi cause strutturali operanti a livello mondiale e in modo particolare nei paesi di provenienza: la povertà, anzitutto, e a volte la fame; la mancanza di lavoro o la scarsissima remunerazione del lavoro svolto; la sovrappopolazione crescente del Terzo mondo; e poi guerre, carestie, disastri ambientali, regimi oppressivi che inducono un numero crescente di individui a cercare di raggiungere con ogni mezzo le terre dell’Occidente benestante e libero. A questa visione soprattutto i demografi hanno dato una forma teorica attraverso la distinzione tra fattori di spinta e fattori di attrazione. Queste analisi distinguono due fasi storiche contrapposte: mentre nelle migrazioni della fase dello sviluppo industriale a cavallo tra Ottocento e Novecento prevalevano fattori di attrazione da parte dei sistemi economici più sviluppati, nella fase attuale prevarrebbero i fattori di spinta. I migranti oggi si muoverebbero dunque principalmente per effetto della forza dei fattori espulsivi operanti nei luoghi di origine. Gli studi demografici ragionano in modo particolare sui tassi di incremento di popolazione sulle due sponde del Mediterraneo, sulla contrapposta distribuzione per età, sull’aumento dell’offerta di lavoro che non trova sbocchi occupazionali. Mediante concetti come quello di PRESSIONE MIGRATORIA, arrivano alla conclusione che un travaso di popolazione dalla sponda Sud verso la sponda Nord del Mediterraneo è la conseguenza logica di questi squilibri. Secondo la teoria NeoMarxista della dipendenza, le migrazioni per lavoro discendono dalle disuguaglianze geografiche nei processi di sviluppo, indotte dalle relazioni coloniali e neocoloniali che riproducono lo sfruttamento del Terzo mondo attraverso rapporti di scambio ineguali. Inoltre, il drenaggio dei soggetti più istruiti e attivi accresce il divario tra luoghi di origine e luoghi di destinazione, depauperando i primi delle risorse umane più valide per alimentare lo sviluppo dei secondi. Le migrazioni sono quindi conseguenza dell’impoverimento delle regioni del mondo sottoposte al dominio dell’Occidente e legate ad esso da rapporti di dipendenza. Un’altra versione dell’approccio strutturalista è rappresentata dalle più complesse teorie del sistema-mondo, secondo cui la crescente globalizzazione delle comunicazioni e degli scambi incrementa i legami tra diverse aree del mondo. Il suo più noto esponente, Wallerstein, ha ripreso l’idea della divisione internazionale del lavoro e degli scambi ineguali, classificando i paesi in base al loro grado di dipendenza dalla dominazione capitalistica occidentale, come paesi del Centro, Periferia e SemiPeriferia. Le migrazioni sono quindi viste anche in questo caso come un effetto della dominazione esercitata dai paesi del centro su quelli della periferia dello sviluppo capitalistico. Derivano dalla disuguaglianza economica e la inaspriscono. Le culture diverse da quella occidentale vengono colonizzate ed emarginate, gli individui, specialmente i giovani, sono sempre più socializzati a mentalità e stili di vita tipici del mondo sviluppato. Si creano così le condizioni culturali e materiali che favoriscono le migrazioni per lavoro, che seguono la strada inversa di quella degli investimenti sono altro che l'effetto aggregato delle scelte soggettive. Molti individui residenti in paesi extra occidentali scelgono autonomamente di partire, confrontando il loro reddito attuale con quello che potrebbero conseguire all'estero. L'aggregazione di queste scelte individuali forma flussi migratori. La possibilità che il trasferimento all'estero aumenti la redditività del capitale umano posseduto, inteso come capacità di lavoro derivante dall'età, dalla salute, dall’istruzione è dunque il fattore fondamentale che produce i processi migratori. Ma la scelta di partire comporta anche i costi, tangibili e intangibili, che vanno confrontati con i vantaggi ottenibili. Questo spiega perché alcuni partono e altri preferiscono rimanere nel paese di origine. Anch’esse incontrano però obiezioni, soprattutto a partire da una prospettiva sociologica. Alle teorie individualiste si può obiettare che le migrazioni sono si collegate alle differenze nei livelli dei redditi e dell'occupazione tra diverse aree del mondo, ma queste non sono una ragione sufficiente a spingere alla partenza. Occorre che le condizioni economiche siano percepite dagli individui non solo come inferiori, ma come sopportabili. La teoria economica neoclassica tende a ridurre le motivazioni umane alla sola dimensione economica, e ad analizzare i migranti solo in quanto lavoratori. Il migrante parte per lo più sulla base di informazioni imprecise, non verificate e difficilmente verificabili, trasmesse di bocca in bocca, basate sui racconti di altri partiti prima di lui; soprattutto parte perché altrimenti altri lo invitano a raggiungerli e lo aiutano a farlo. In molti casi, le condizioni di lavoro e di vita che trova all'arrivo sono ben diverse da quelle che si aspettava prima di partire. L'esperienza effettiva si distanzia quindi dalle previsioni e dai calcoli razionali. Inoltre, le migrazioni non si sono esaurite, da determinati paesi, per effetto dell'equiparazione dei salari con i luoghi di destinazione, bensì in seguito al conseguimento di condizioni di vita sopportabile i paesi di origine. Alcuni dei punti deboli della spiegazione neoclassica vengono affrontati dalla nuova economia delle migrazioni, che tenta di costruire uno scenario più complesso in cui si colloca la maturazione della decisione di emigrare. Da questo punto di vista, inviare uno o più componenti della famiglia a cercare lavoro all'estero rappresenta sempre una scelta razionale, ma non motivata unicamente dalla ricerca di benessere individuale. Le famiglie dei paesi d'origine sarebbero la vera unità decisionale, in cui si effettuano calcoli e si compiono investimenti, incoraggiando alcuni dei componenti più giovani e produttivi a partire; persino diversificando le destinazioni, per minimizzare i rischi e aumentare le opportunità. Le rimesse dall'estero possono dunque servire per finanziare l’avvio di attività economiche in patria, oppure l'acquisto di proprietà immobiliari, o ancora il proseguimento degli studi per altri familiari più giovani. Di conseguenza, un miglioramento della situazione economica nel Paese di origine non produce necessariamente un rallentamento della propensione a emigrare. Pure in queste interpretazioni è infine carente la considerazione della regolazione politica delle migrazioni, ossia il ruolo dei governi nell'iniziare, favorire, arrestare, prevenire i movimenti migratori. Non per caso, la teoria neoclassica si è formata in un'epoca in cui le migrazioni erano relativamente libere. SPAZIO INTERMEDIO: RETI SOCIALI E ISTITUZIONI MIGRATORIE Grande fortuna hanno riscosso specialmente le teorie dei network, in cui le migrazioni vengono viste come un effetto dell'azione delle reti di relazioni interpersonali tra immigrati e potenziali migranti. Network migratori vengono definiti come complessi di legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso i vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine. Ora, secondo una formula concisa ed efficace, gli individui non emigrano, network sì. Le teorie della scelta razionale hanno cominciato considerare unità sociali come le famiglie, mentre le teorie dei sistemi hanno incorporato nella loro analisi i network sotto forma di legami interpersonali. I network spiegano perché gli immigrati si indirizzano verso determinati paesi o località, non necessariamente in dipendenza di maggiori opportunità economiche, ma di punti di riferimento creati dall'insediamento di parenti, vicini e amici. Le relazioni sociali che scavalcano le distanze istituiscono rapporti che a loro volta rappresentano la base per la continuazione delle migrazioni attraverso il tempo, ed eventualmente per il cambio nella loro composizione. Così pure, attraverso il fenomeno delle rimesse, i migranti svolgono un ruolo attivo nella società di provenienza. Evidente il contrasto di questa prospettiva con le visioni economiche neoclassiche dell'immigrazione prima considerate. La decisione di emigrare non avviene in un vuoto di relazioni sociali. I costi e benefici entrano nel calcolo individuali sono condizionati dai ponti sociali che attraversano le frontiere. Le teorie dei network concepiscono le migrazioni come incorporate nelle reti sociali che attraversano lo spazio, il tempo, sorgono, crescono, infine declinano. In questi approcci, le decisioni individuali si inseriscono dunque all'interno dei gruppi social. Le migrazioni, comprese le migrazioni per lavoro, non possono essere pertanto considerate come un semplice esito di decisioni economiche governate dalle leggi della domanda e dell'offerta: si tratta di fenomeni di natura primariamente sociale. Un'evoluzione della teoria dei network è rappresentata da un approccio transnazionale che costituisce forse la principale innovazione teorica degli ultimi due decenni nello studio delle migrazioni. Qui l'accento cade sui processi mediante i quali gli immigrati costruiscono relazioni sociali composite, che connettono le loro società di origine e di insediamento, coinvolgendo quindi non migranti e le comunità di provenienza. I movimenti migratori formano campi sociali attraverso le frontiere nazionali, producono svariati fenomeni, tanto nel luogo di origine, quanto nella società ricevente. Oltre ad inviare doni e rimesse, a mantenere contatti telefonici, oggi promuovono per esempio progetti di miglioramento delle condizioni di vita delle comunità di provenienza, dando vita imprese di cui assicurano gli sbocchi commerciali nelle società di immigrazione, sostengono associazioni operanti nella società civile, favoriscono la circolazione di messaggi e leader religiosi, appoggiano candidati incoraggiano cambiamenti politici. Glick Shiller, Bash e Blanc-Szanton Sottolineano in proposito le identità culturali fluide e molteplici che i migranti tendono ad assumere, in relazione ai diversi contesti con cui si confrontano. Queste teorizzazioni non hanno come fuoco centrale di riflessione lo studio delle cause delle migrazioni. Secondo altri, le teorie di network sono più efficaci nello spiegare la direzione dei movimenti che il loro volume complessivo, e non riescono a chiarire che cosa esattamente succede nei network, in modo da indurre le persone a stare, muoversi e ritornare. Nella maggior parte dei casi, danno poi per scontate, senza farne oggetto di approfondimento, condizioni di ingresso e contesti istituzionali che hanno un rilievo non trascurabile nel dare un'impronta ai flussi migratori. L'idea è semmai quella di un relativo adattamento ai vincoli esterni cercando canali alternativi per aggirare le limitazioni della mobilità: utilizzando per esempio la leva dei matrimoni combinati per sfuggire al blocco delle migrazioni per lavoro, oppure promuovendo ingressi irregolari da far emergere in occasione di qualche provvedimento di sanatoria. Un altro limite è il funzionalismo implicito, che solo da alcuni anni, da parte di qualche autore è stato posto in questione. Le teorie dei network tendono infatti solitamente a enfatizzare le valenze positive delle reti sociali trascurando la possibilità che producano effetti di intrappolamento in attività marginali, o addirittura devianti. Alcuni hanno quindi proposto un ampliamento della teoria dei network nel senso di un'ampia teoria delle istituzioni migratorie, comprendente le diverse strutture che mediano tra le aspirazioni individuali all'immigrazione e la concreta possibilità di trasferirsi all'estero per inserirsi nel sistema socio economico della società ricevente. Le istituzioni migratorie possono comprendere imprese che reclutano lavoratori all'estero, associazioni di migranti, sistemi di parentela, agenzie governative, professionisti dell'intermediazione, specialisti del trasferimento di persone attraverso le frontiere. Si possono così individuare dei processi di strutturazione delle migrazioni, in cui le azioni individuali incontrano le risorse fornite dalle istituzioni migratorie, contribuiscono a modificarle, ne fanno nascere di nuove, e sono a loro volta condizionate dal funzionamento di tali istituzioni. Dal punto di vista dei paesi ospitanti, è spesso evocato, ma raramente teorizzato il ruolo delle istituzioni solidaristiche e umanitarie sorte innanzitutto dalle società civili e a volte appoggiate dagli stessi poteri pubblici. Specialmente alcune categorie di immigrati, più vulnerabili o ritenuti meritevoli di una particolare tutela, come rifugiati, i minori, le donne vittime di violenza, nei paesi avanzati di antica ho più recente immigrazione vengono in vario modo tutelate e sostenute nei loro percorsi di inserimento da istituzioni solidaristiche di matrice religiosa, sindacale o più generalmente umanitaria. INCIDENZA E CONSEGUENZE INATTESE DELLA REGOLAZIONE NORMATIVA Diversi contributi degli ultimi anni hanno poi rivalutato l'importanza della regolazione normativa dei fenomeni migratori, in genere trascurata dalle teorie elaborate in precedenza. Queste risentivano, come abbiamo già notato, dell'influenza del contesto della società industriale e il rapido sviluppo, in cui gli spostamenti dei lavoratori attraverso le frontiere erano molto più agevoli di oggi. A un livello intermedio tra le scelte individuali o familiari le grandi determinanti strutturali occorre collocare quindi anche la regolazione statuale delle migrazioni, che esercita una specifica influenza selettiva sui flussi; sebbene vada subito precisato che si tratta di un livello intermedio ben più ampio e denso delle implicazioni politiche e normative di quello rappresentato dai network e dalle istituzioni migratorie operanti a livello locale. la regolazione normativa esercitata dagli Stati riceventi ha influito notevolmente sulla densità, sulla composizione e sulla destinazione dei flussi migratori soprattutto dopo la crisi petrolifera del 73, la chiusura ufficiale delle frontiere in Europa e le restrizioni imposte in America e altri tradizionali paesi riceventi. Diversi studi sostengono oggi la prevalenza del fattore politico sugli altri elementi che contribuiscono a determinare le dinamiche migratorie: questo sarebbe l'aspetto più importante dei cambiamenti avvenuti nelle migrazioni internazionali negli ultimi vent'anni. In sintesi, possiamo ricordare alcuni fenomeni rilevanti: • Nell'ambito dell'Unione Europea, si è inasprita la contrapposizione tra cittadini di paesi membri insigniti del diritto alla libera circolazione, e cittadini esterni, le cui possibilità di ingresso sono severamente disciplinate, anche attraverso il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne. • L'emigrazione autorizzate all'ingresso nei paesi che hanno mantenuto la possibilità di migrazione legale per motivi di lavoro sì sono caratterizzate molto più marcatamente del passato come migrazioni di lavoratori istruiti e professionalmente qualificati(Skilled Migrations). • Sono stati indirettamente favoriti flussi migratori non collegati in modo esplicito ai fabbisogni del mercato del lavoro, come quelli derivanti da ricongiungimenti familiari o da richieste di asilo politico o umanitario. • Dopo la chiusura delle frontiere nei confronti dell’immigrazione per lavoro, migrazioni progettate come temporanee o stagionali sono diventate permanenti, giacché gli immigrati hanno generalmente preferito stabilizzare la loro condizione nel paese ospitante, anziché rischiare di non potervi più rientrare. • I migranti sono andati alla ricerca di nuove destinazioni, dopo che le precedenti erano chiuse; in tal modo, i paesi dell’Europa meridionale, dotati di legislazioni meno restrittive e miranti a favorire gli ingressi per ragioni turistiche, oltre che meno preparati istituzionalmente e caratterizzati da mercati basate sulla parentela e la comune origine: quello di CAPITALE SOCIALE, rappresentato dall’insieme dei contatti e rapporti interpersonali utilizzabili dagli individui per perseguire le proprie strategie di inserimento e promozione. LE MIGRAZIONI NEI SISTEMI PRODUTTIVI CONTEMPORANEI Entrando nel vivo dell’analisi, possiamo muovere dall’osservazione secondo cui il fatto più rilevante nella mappa migratoria europea degli ultimi decenni è stato il cambiamento di status dei paesi affacciati sul Mediterraneo, da aree di partenza a aree di destinazione. Questo cambiamento si è accompagnato a una modificazione in senso peggiorativo delle modalità di ingresso e di insediamento degli immigrati. L’immigrazione verso l’Europa del sud, in effetti, è stata descritta dalla letteratura sull’argomento in base alle seguenti caratteristiche • Evoluzione improvvisa e spontanea dei flussi di ingresso a partire dalla metà degli anni Settanta, che si incontra con l’impreparazione dei paesi riceventi ad assumere il loro nuovo ruolo di società ospitanti. • Grande diversità dei paesi di origine, specialmente per Italia e Spagna • Marcate asimmetrie di genere per molte componenti nazionali, composte in modo squilibrato o prevalentemente da uomini(Nord Africa) o in maggioranza da donne(Filippine, America Latina). • Alta incidenza di forme di soggiorno irregolare, anche per effetto della forbice tra regolamentazioni restrittive ed esigenze effettive dei mercati del lavoro. • Marginalità sociale della maggior parte dei gruppi di immigrati, dovuta alla carenza di politiche di integrazione e alla formazione di stereotipi stigmatizzanti. • Concentrazione in occupazioni precarie, sottopagate e non desiderabili. Nell’Europa del Sud una serie di trasformazioni dei sistemi occupazionali si sono saldate con strutture economiche tradizionali, come l’estesa e ramificata presenza del lavoro autonomo e delle piccolissime imprese, la diffusione dell’economia sommersa e dei servizi come quelli domestici e alberghieri. Guardando in particolare alla posizione dell’Italia nel mercato del lavoro internazionale, si può notare che oggi il nostro paese è esportatore di cervelli ed importatore di braccia. Pugliese ha parlato a proposito di un modello mediterraneo di immigrazione. Sono però necessarie due specificazioni: la prima riguarda il fatto che il lavoro degli immigrati in Italia assume connotazioni diverse a seconda dei contesti locali; la seconda si riferisce alla constatazione che le economie del Nord Europa sono tutt’altro che esenti da trasformazioni analoghe. Possiamo parafrasare e ampliare questa definizione parlando di lavori delle cinque P: pesanti, pericolosi, precari, poco pagati e penalizzati socialmente. Sono questi, in misura largamente prevalente, i lavori che toccano agli immigrati. Lavori ancora necessari nelle economie sviluppate, e in certi ambiti persino in espansione, ma che non trovano più un adeguata rispondenza nell’offerta dei lavoratori nativi. Nell’Europa mediterranea in modo più appariscente e più netto, infatti, ma in forme diverse e meno evidenti anche nell’Europa continentale, si è verificato negli anni Novanta un processo di inserimento economico degli immigrati molto più opaco e deregolato del passato. In mancanza di politiche esplicite di reclutamento, ci pensano gli immigrati stessi, attraverso le reti di relazione che li collegano alla madrepatria, a promuovere l’arrivo di una nuova manodopera, disposta almeno inizialmente a inserirsi a qualunque condizione venga offerta. Parallelamente, si differenziano anche i diritti di cui sono titolari, che possono variare da una condizione molto vicina a quella dei cittadini nazionali al rischio di negazione di diritti essenziali, nel caso dei migranti in condizione irregolare: è stato introdotto a tal proposito il concetto di stratificazione civica. Tra le determinanti sociali della domanda di immigrazione vi è quella demografica. Per spiegare le difficoltà di incontro tra domanda e offerta di lavoro nazionale occorre invece guardare con maggiore attenzione al versante degli atteggiamenti e del contesto sociale di chi cerca lavoro. Un’offerta di lavoro molto più istruita del passato, socializzata a decenni di benessere, acculturata a pacchetti consolidati di diritti sociali e garanzia sindacali, ha imparato a coltivare aspirazioni più elevate rispetto ai posti e alle condizioni di impiego che svariati segmenti del mercato del lavoro attuale continuano a proporre. I sistemi di welfare e la protezione familiare, fornendo qualche forma di tutela da parte delle persone prive di occupazione, contribuiscono a innalzare la selettività e le aspettative. Le fabbriche inoltre sono cambiate. Sono soggette a processi di decentramento molto spinti, con l'organizzazione di catene di subfornitura di vari componenti, mentre anche all'interno molte attività sono soggette a processi di terziarizzazione. Molto più difficile si è rivelata poi l'eliminazione del lavoro manuale povero in altri ambiti occupazionali, meno permeabile all'innovazione tecnologica e impossibili da trasferire in paesi a basso costo del lavoro: l’industria alberghiera, i servizi di pulizia, i servizi domestici e di assistenza alle persone. Proprio i servizi alle persone sono l'esempio più evidente della natura strutturale e incoercibile di determinati fabbisogni di manodopera. L’invecchiamento della popolazione comporta un aumento della domanda di lavoro di cura, che grava tradizionalmente sulle donne della famiglia. Si può notare che nei paesi scandinavi questa domanda è assorbita in buona parte dal settore pubblico e coperta prevalentemente ricorrendo a lavoratori nazionali, mentre nei sistemi di welfare a orientamento familistico dell’Europa meridionale, richiama volumi crescenti di manodopera immigrata, con ampio ricorso al lavoro irregolare. Per il caso italiano, la stessa maggiore partecipazione delle donne al lavoro extradomestico, mancando adeguate politiche pubbliche di sostegno alle famiglie, ha fornito un potente incentivo al fenomeno. IL CASO ITALIANO Come altri paesi euro mediterranei, nell’arco di circa 20 anni l’Italia si è trasformata da paese di emigranti in meta di ingenti flussi migratori. Questa trasformazione è avvenuta in maniera quasi inconsapevole, e ha colto di sorpresa le istituzioni pubbliche: un impreparazione che ha pesato sulla ricezione dell’immigrazione. L’immigrazione non è arrivata in Italia soltanto perché sospinta da cause esterne. Nel nostro paese gli immigrati trovano lavoro in imprese mediamente molto più piccole di quelle che impiegano gli italiani. Il loro inserimento non sembra avere conseguenze negative sull’occupazione, ne sulla retribuzione dei lavoratori italiani. Sono da un lato le domande di flessibilità dell’impiego, e i fabbisogni di lavoro stagionale a rivolgersi agli immigrati; dall’altro sono forme di impiego relativamente stabili collocate ai livelli inferiori delle scale gerarchiche. Al giorno d’oggi una parte cospicua e crescente dei prodotti “made in Italy” non sono fabbricati in Italia, o da italiani. I fattori che hanno originato questa domanda di lavoratori immigrati: una domanda rimasta a lungo implicita, non istituzionalizzata e difficilmente riconosciuta in modo aperto, ma non meno vivace e incisiva, in modo tale che l’immigrazione è diventata una componente imprescindibile per il funzionamento di diversi settori e attività: • Una struttura industriale ancora consistente basata in larga misura su piccole e medie imprese. Fino alla recessione del 2008, hanno richiesto lavoro operaio, comportando non di rado condizioni insalubri o gravose. • Edilizia, servizi turistici e alberghieri, raccolta di prodotti agricoli sono pure ambiti che richiedono quantità consistenti di lavoro immigrati, ma presentano caratteristiche di stagionalità e discontinuità dell’occupazione. • Nel terziario urbano, in cui proliferano vecchi e nuovi lavori manuali, gli immigrati lavorano specialmente nelle pulizie, facchinaggio e spostamento delle merci. • Infine, specialmente le donne immigrate sono assunte dalle famiglie per svolgere compiti domestici e di assistenza agli anziani, integrando le risorse calanti del “welfare invisibile”. Completano il quadro i profondi squilibri territoriali, che affiancano nello stesso Paese regioni con tassi di disoccupazione tra i più alti dell’Europa, e regioni e aree locali con situazione di quasi piena occupazione e problemi opposti, la carenza di manodopera. Mentre nel passato i deficit di forza lavoro registrati nelle regioni sviluppate dell’Italia settentrionale venivano compensati dalle migrazioni interne, oggi vari fattori hanno rarefatto gli spostamenti interni di manodopera, specialmente quando si tratta di occupare posti di lavoro operaio o assimilabile. In definitiva, la disoccupazione italiana, pur essendo elevata, ha una composizione sociale che l’ha resa finora di fatto tollerabile, tamponata dalla solidarietà familiare e nello stesso tempo abbastanza rigida e poco disponibile a spostarsi in aree e ambiti occupazionali con caratteristiche distanti dai posti a cui i disoccupati aspirano. Questo fenomeno è lo specchio della geografia economica e sociale del paese, con piccole imprese che devono reggere sfide sempre più drammatiche, giovani in cerca di lavori accettabili e disoccupati residenti nelle regioni più deboli. A questi fattori si associano forme di semi sfruttamento negli ambiti occupazionali ricoperti dagli immigrati. UNA PLURALITA’ DI MODELLI TERRITORIALI Le fonti statistiche sull’impiego di lavoro immigrato sono migliorate nel tempo. Istat e Inail forniscono periodicamente dati puntuali. L’aspetto più interessante che i dati rivelano è la corrispondenza tra il ricorso al lavoro degli immigrati e le aree territoriali economicamente più dinamiche. Nelle grandi città e nelle aree turistiche le assunzioni si concentrano prevalentemente nel basso terziario e nell’edilizia; nelle provincie dotati di sistemi industriali dinamici gli immigrati si inseriscono soprattutto in fabbrica; nelle aree in cui l’agricoltura è ancora fiorente e necessita di manodopera per i lavori stagionali di raccolte, i dati registrano un’impennata delle assunzioni di lavoratori stranieri nei periodi di punta. Questi dati confermano che si può parlare per il nostro paese di diversi modelli territoriali di impiego del lavoro immigrato: • Il primo modello è basato sull’industria diffusa, tipico delle aree urbane di piccola impresa e dei distretti industriali, concentrato nelle aree territoriali maggiormente cresciute negli ultimi 20 anni (Lombardia-Friuli). Qui si assumono immigrati principalmente per saturare i fabbisogno di lavoro operaio, specialmente nelle posizioni più gravose di cicli produttivi sempre più articolati. Questo lavoro istituisce la differenza più marcata tra il caso italiano e quello degli altri paesi dell’Europa mediterranea, dove il lavoro immigrato è più metropolitano e terziario o più legato all’edilizia. • Il secondo modello è quello metropolitano. Qui il lavoro immigrato è fin dagli inizi in larga prevalenza terziario e secondariamente edile, inserito nei circuiti delle attività meno qualificate e più instabili delle complesse economie urbane. Collaboratrici familiari e addette all’assistenza domiciliare ne sono le figure più note. Qui le novità principali sembrano legate alla crescita quantitativa, a parziali avanzamenti verso occupazioni sempre manuali, ma più qualificate, alla formazione di “specializzazioni etniche” che associano provenienza a nicchie occupazionali. I cambiamenti più incisivi sono legati al lavoro autonomo, che nelle grandi città assume manifestazioni diverse, alcune legate a una precaria sopravvivenza o a forme mascherate di lavoro salariati, altre a tentativi imprenditoriali più intenzionali. • Un terzo modello è quello delle attività instabili, precarie e in larga parte irregolari dei contesti economici meridionali, non più legate all’agricoltura, ma anche ad assistenza, edilizia e pulizie. Il livello ancora basso di un indicatore di insediamento come la presenza e la scolarizzazione di minori, conferma che il Mezzogiorno rimane un’area di primo insediamento e di transito verso altre destinazioni. Particolarmente significativa è risultata, con le sanatorie del 2002 e del 2009, l’emersione del lavoro di cura svolto da donne straniere pure nei contesti del Mezzogiorno. insediano in maniera significativa in una determinata nicchia del mercato del lavoro, determinando quell’associazione tra provenienza e lavoro svolto da cui abbiamo preso le mosse. Nell’ambito americano ha avuto una certa diffusione un altro concetto, quello di enclave etnica, che indica una peculiare concentrazione residenziale di una popolazione immigrata, capace di dar vita a imprese e istituzioni proprie. UN CASO DI COSTRUZIONE SOCIALE DEI PROCESSI ECONOMICI In un mercato del lavoro opaco e scarsamente organizzato, le reti migratorie sono diventate un soggetto determinante rispetto all’incontro tra domanda e offerta, specialmente nelle aree del lavoro povero e socialmente sgradito. Questi processi dimostrano quanto il funzionamento del mercato del lavoro sia tributario di fenomeni sociali, che spaziano dai rapporti di parentela, amicizia e mutuo aiuto, al significato delle appartenenze ascritte, a forme premoderne di patrocinio e scambio di favori, chiamando in causa il significato anche economico di norme morali come quelle che promuovono reciprocità e fiducia tra gli attori degli scambi. Lo studio delle reti degli immigrati è quindi un modo privilegiato per osservare come le relazioni sociali intervengono a strutturate l’azione economica e come la società moderna, e una sua tipica istituzione come il mercato del lavoro, siano intrise di elementi che rimandano al passato, specialmente in determinate nicchie del mercato occupazionale, dove i titoli di studio e le esperienze pregresse contano poco. Le reti riducono i costi della raccolta di informazioni da ambo e due i lati, accelerano la circolazione di notizie riguardo nuove opportunità, espandono la conoscenza tacita condivisa dai compagni di lavoro, permettono scambi di favori che torneranno utili in futuro, forniscono informalmente garanzie a entrambe le parti circa il rispetto degli impegni assunti. L’azione delle reti sociali costruite dai migranti è stata studiata in proposito come una delle più notevoli forme di costruzione sociale di processi economici. Porre in rilievo il ruolo delle reti e quindi dell’iniziativa dei migranti non è allora soltanto una costatazione descrittiva. Significa anche uscire da una visione economicista e unidimensionale del mercato del lavoro, ossia una prospettiva in cui la variabile determinante è la domanda dei datori di lavoro, rispetto alla quale l’offerta non farebbe che adeguarsi, per assumere invece un approccio interattivo e dinamico, sensibile nei confronti dell’autonomia degli attori sociali e dell’incidenza delle istituzioni. Possiamo a riguardo avanzare 3 ipotesi: 1. L’azione delle reti migratorie e di altre istituzioni sociali volte a favorire l’inserimento al lavoro e l’insediamento sul territorio degli immigrati è tanto più importante quanto meno incide la regolazione pubblica e specialmente statuale. 2. Allargando lo sguardo alla prospettiva storica e alla comparazione internazionale, l’intervento di questi fattori sociali segue una specie di curva a U: di grande rilievo le migrazioni transoceaniche di inizio secolo, si era appannato all’epoca delle migrazioni post-belliche intra-europee, in cui le politiche statali e le politiche delle imprese strutturavano il processo migratorio; e poi è riemerso negli ultimi decenni, anche a seguito delle restrizioni ufficiali delle migrazioni per lavoro 3. Un processo di inclusione degli immigrati affidato all’azione delle forze di mercato, da un lato, e delle risorse delle reti, dall’altro, ha aspetti positivi, dato che la solidarietà tra parenti e connazionali consente un rapido inserimento anche di soggetti arrivati da poco e con scarse competenze linguistiche, ma presenta anche rischi di ghettizzazione e di confinamento degli immigrati in nicchie occupazionali anguste e poco qualificate. La regolazione micro sociale, spontanea, largamente informale, esercitata dai network, occupa gli spazi lasciati vuoti da altri attori, a partire dai poteri pubblici, nella costruzione dei processi di integrazione economica e sociale dei nuovi arrivati. Li occupa a volte in modo inadeguato, spesso con comportamenti competitivi con altri network etnici, privilegiando i connazionali e svantaggiando gli altri, favorendo all’occorrenza l’arrivo di nuovi immigrati privi di documenti idonei al lavoro. Ma in ogni caso li occupa, rispondendo a una domanda sociale che non trova altre e più convincenti risposte. RETI MIGRATORIE E RETI AUTOCTONE: GLI ELEMENTI DISTINTIVI I tratti specifici delle reti migratorie, rispetto ad altre reti sociali, possono essere ricondotti soprattutto a due aspetti. 1. Si tratta normalmente di reti più concentrate ed esclusive di quelle della popolazione autoctona. Solitamente ciascuno di noi partecipa a diverse cerchie sociali(Familiari, lavorative e comunitarie). Per gli immigrati è molto più probabile che queste cerchie si sovrappongano e tendano a coincidere, per ragioni che spaziano dalle difficoltà linguistiche, al mantenimento dei legami con la madrepatria. Nei rapporti con l’ambiente esterno, la percezione della diversità e la discriminazione più o meno esplicita concorrono a rinforzare i confini dell’appartenenza 2. Non accade ancora diffusamente in Italia che gli immigrati colonizzino determinati settori economici, formando nicchie di controllo di un certo gruppo nazionale, ma certo si sono formate comunità occupazionali a base etnica, in cui la provenienza e l’occupazione tendono a legarsi strettamente. Questo avviene perché per gli immigrati sono preponderanti i legami forti, quelli basati su vincoli familiari o di stretta amicizia, mentre sono assai più tenui i legami deboli, basati sulla semplice conoscenza o su frequentazioni occasionali. Più precisamente il capitale sociale di solidarietà che produce mutuo sostegno, è in molti casi cospicuo, mentre il capitale sociale di reciprocità, derivante dai rapporti che si formano al di fuori del gruppo di appartenenza e utile per perseguire la mobilità sociale, è carente. E’ possibile quindi arguire che le reti sociali degli immigrati sono una combinazione di fragilità e di forza. Si tratta di reti deboli, perché sono formate da soggetti che nelle gerarchie sociali occupano una posizione subalterna e in molti casi hanno poche risorse, e comunque molto caratterizzate, da mettere in circolo. Nello stesso tempo si tratta in parecchi casi di reti forti, perché si giovano della solidarietà vincolante: i partecipanti sanno di non avere molte altre ciance a disposizione, oltre a quella di darsi reciprocamente man forte e cercare di difendere la buona reputazione del gruppo nel suo insieme. LE FUNZIONI SVOLTE DALLE RETI MIGRATORIE: COME SI DECLINA IL SOSTEGNO RECIPROCO Cercando di distinguere le diverse funzioni svolte dalle reti etniche possiamo individuare i seguenti: • L’ambito dell’accoglienza e della sistemazione logistica, tale per cui la parentela e poi la più ampia cerchia dei legami basati sulla comune origine e lingua, sono la stazione di appoggio per i nuovi arrivati e la risorsa su cui contare per la ricerca di un alloggio. • L’area della ricerca del lavoro, in cui le reti etniche esplicano una delle più caratteristiche e visibili forme di sponsorizzazione, fino a generare le forme di specializzazione etnica di cui abbiamo discusso. • Sempre nell’ambito lavorativo, possiamo distinguere l’area della promozione professionale. Questa, nel caso dei lavoratori immigrati a cui le carriere gerarchiche si sono spesso precluse, si identifica di solito con il passaggio al lavoro indipendente. • Il passaparola all’interno delle reti migratorie è poi il più diffuso canale di approvvigionamento delle informazioni rispetto alle molte procedure burocratiche ed esigenze di vita quotidiana che gli immigrati devono affrontare, in contesti poco conosciuti e irti di difficoltà. • Possiamo poi parlare in termini generali di supporto sociale, infatti parenti e in minor misura i connazionali sono anche la precaria risorsa a cui gli immigrati fanno ricorso in situazione di emergenza. • Infine le reti migratorie svolgono una funzione di sostegno emotivo e psicologico, sono il luogo della condivisione amicale e della socializzazione. Attraverso la frequentazione dei connazionali, inoltre, gli immigrati recuperano, rielaborano e a volte riscoprono la propria identità culturale, sforzandosi di risituare le loro categorie culturali e simboliche all’interno del nuovo contesto. ALL’INTERNO DELLE RETI MIGRATORIE: ELEMENTI DI DIFFERENZIAZIONE Le funzioni delle reti sono diverse, per qualità e importanza, a seconda delle situazioni individuali e dei momenti del percorso migratorio. Il loro apporto è più decisivo nelle prime fasi del processo di insediamento e nel caso di persone sole, non accompagnate dalla famiglia. Il ricongiungimento familiare attenua la dipendenza dalla più ampia rete dei connazionali. Anche nella ricerca di lavoro, le reti sono decisive all’inizio, poi la loro importanza si attenua. L’accumulazione di esperienza e la socializzazione linguistica riducono il bisogno di fare riferimento alle reti migratorie, anche se queste continuano indirettamente a influenzare i destini occupazionali attraverso la formazione di nicchie etnicamente caratterizzate, con i relativi stereotipi e canali di reclutamento. Il legame con le reti dei connazionali è poi più stringente per gli immigrati meno qualificati e meno capaci di muoversi autonomamente nel mercato del lavoro. Chi cerca di inserirsi in posizioni qualificate difficilmente può invece contare sulle modeste risorse che parenti e connazionali possono fornire. Con l’evoluzione del ciclo migratorio possono anche istaurarsi nuove forme di legame con le reti dei connazionali. Le esperienze microimprenditoriali pescano dal serbatoio di risorse delle reti migratorie, anzitutto per la fornitura di lavoro, e in misura crescente, man mano che le minoranze consolidano il proprio insediamento, acquistano capacità di consumo ed esprimono una domanda di prodotti e servizi specifici. Nelle minoranze che raggiungono un certo livello di stabilizzazione si manifestano di norma domande crescenti di consolidamento/ritrovamento dell’identità culturale. Possiamo dunque distinguere reti a struttura verticale e reti a struttura orizzontale, in cui i partecipanti sono socialmente collocati più o meno sullo stesso piano, scambiano informazioni e esercitano forme di mutuo aiuto. Altre reti hanno invece un carattere maggiormente verticale, in quanto fanno riferimento a una persona, a un gruppo o talvolta a un’istituzione che si trova in posizione eminente. Vanno poi distinte le reti che restano debolmente strutturate ed essenzialmente informali, e reti che evolvono verso configurazioni istituzionali più formalizzate, o danno vita a istituzioni che diventano punti di riferimento per la socializzazione e l’interscambio. Un’altra distinzione che si è affermata nel dibattito degli ultimi anni è quella relativa al genere delle reti. E’ risultato che le donne si appoggiano ai network più degli uomini nei tragitti migratori, e questi mantengono una maggiore influenza sulle successive migrazioni di altre donne. I lavori sulle migrazioni femminili hanno posto in rilievo la formazione e il funzionamento di network in cui donne si organizzano per favorire l’ingresso e l’inserimento lavorativo di altre donne, provvedono alla sostituzione di chi lascia il posto di lavoro, sviluppano forme di socialità. Un’altra importante questione concerne poi il grado di organizzazione interna e di capacità di sostegno delle reti migratorie nei confronti dei partecipanti. Possiamo distinguere reti disorganizzate e poco efficaci nel sostenere l’inserimento sociale dei connazionali; reti dotate di una buona coesione interna e di un certo grado di organizzazione comunitaria, ma efficaci nel promuovere l’inserimento nelle nicchie debolmente qualificate; reti coese fino all’isolamento e capaci di dar vita ad attività indipendenti molto basate sul lavoro dei connazionali; reti più flessibili e diversificate al loro interno, con una composizione interna articolata. esperienze di imprenditorialità. L’analisi di queste diversità rappresenta una questione di rilievo nell’ambito della letteratura su quello che viene definito ETHNIC BUSSINESS. Prendiamo ora in esame le principali ipotesi esplicative sviluppate dagli studi socioeconomici in questo campo che hanno privilegiato il versante dell’offerta di iniziativa imprenditoriale: • I primi contributi sull’argomento avevano enfatizzato spiegazioni di tipo culturale, basate cioè sul background psicologico e socioculturale di alcuni gruppi etnici, che li renderebbe più propensi di altri alle attività commerciali e al lavoro autonomo in generale, grazie ad una adesione particolarmente profonda a valori come l’indipendenza. Associata a valori culturali è pure l’enfasi sui vantaggi etnici, rappresentati dalla disponibilità di lavoro coetnico affidabile e poco costoso. • Un secondo filone di contributi può essere classificato sotto l’etichetta di teoria dello svantaggio. In questa visione, la scelta del lavoro autonomo costituirebbe una risposta reattiva alle difficoltà di inserimento sociale. Minoranze svantaggiate per la scarsa padronanza della lingua tenderebbero a rifugiarsi, in mancanza di meglio, in attività indipendenti che richiedano ridotti investimenti in capitali e tecnologie, e quindi perlopiù marginali e poco remunerative. La difficoltà dell’accesso al lavoro dipendente spiegherebbe dunque la diffusione del lavoro autonomo in minoranze immigrate socialmente svantaggiate. Le tradizionali nicchie di insediamento degli operatori economici immigrati, come il piccolo commercio, sono sempre di più minacciate dall’estensione della distribuzione moderna. Dunque sia dal versante dell’offerta, sia da quello della domanda provengono pressioni che conducono alla contrazione del fenomeno dell’ethnic business. • Una variante meno pessimistica della teoria dello svantaggio può essere individuata nell’ipotesi della mobilità bloccata: gli immigrati tenderebbero a passare al lavoro indipendente perché nel mercato del lavoro dipendente e nelle organizzazioni gerarchiche non riescono ad avanzare in misura corrispondente alle loro credenziali e aspirazioni. L’intraprendenza è la risposta alla discriminazione, non alla occupazione salariata. Occorre però notare una differenza tra la teoria dello svantaggio e la teoria della mobilità bloccata: per la prima, l’autoimpiego rappresenta un’alternativa estrema alla disoccupazione, è meno ambito dell’occupazione dipendente. Per la seconda, invece, si tratterebbe di una risposta alla discriminazione nelle carriere organizzative: è quindi un passo avanti rispetto alla occupazione salariata. • Un’altra interpretazione dell’attivismo imprenditoriale degli immigrati è quella delle middle man minorities, formulata in particolare da BONACICH. Si tratta di quei gruppi etnici che attraverso il mondo hanno storicamente risoperto il ruolo di minoranze di intermediari tra produttore e consumatore. Questi gruppi, per quanto diversi, condividono alcune caratteristiche essenziali: sono migranti che non intendono insediarsi in maniera permanente e mostrano un attaccamento inusuale a una patria ancestrale; si concentrano in determinate occupazioni, soprattutto commerciali, che non li vincolano per lunghi periodi alla terra di approdo. La solidarietà interna svolge un ruolo molto importante sul versante economico, garantendo un efficiente distribuzione delle risorse e contribuendo a controllare la competizione nell’ambito del gruppo. LIGHT e BONACICH hanno ammesso che l’enfasi sulle middle man minorities è troppo restrittiva, e risulta necessario passare al più ampio concetto di imprenditoria immigrata, tipica di quei gruppi in cui il tasso di lavoratori autonomi supera nettamente quello della media della popolazione. A sua volta l’imprenditoria immigrata si traduce in imprenditoria etnica, quando una seconda generazione continua la specializzazione nel lavoro autonomo dei genitori. • Una spiegazione che pur collocandosi sul versante dell’offerta, conferisce maggiore rilievo ai fattori strutturali è quella della successione ecologica. L’assunto di base è che la piccola borghesia impegnata in attività indipendenti non sia in grado di autoriprodursi in misura sufficiente, e sopravviva mediante il reclutamento di piccoli imprenditori da classi sociali più basse. • Un sesto filone interpretativo dell’imprenditoria immigrata è rappresentato dagli studi di PORTES, che ha approfondito l’analisi delle economie di enclave, ovvero delle aree in cui si realizza un’elevata concentrazione di imprese fondate e dirette da stranieri. Oltre al fenomeno crescente delle skilled migrations, PORTES ha sottolineato la possibilità che l’iniziativa e l’autorganizzazione dei gruppi di immigrati producano, a certe condizioni, un rapido progresso in termini di redditi e di collocazione sociale. Elemento rilevante, nella teoria di PORTES è dunque la funzionalità e in una certa misura la volontarietà della segregazione occupazionale degli immigrati, e della concentrazione delle imprese etniche in aree ristrette e molto caratterizzate. • Un’altra interpretazione dello sviluppo dell’imprenditoria immigrata è proposta da LIGHT, che ha tentato un’integrazione fra la teoria culturale e quella dello svantaggio in quella che possiamo definire teoria delle risorse. Egli sottolinea il ruolo delle risorse etniche collettive, distinguendole dalle risorse di classe che rendono gli individui più o meno atti a intraprendere attività imprenditoriali. Alcuni gruppi di immigrati hanno sviluppato tassi di imprenditorialità più elevati della media perché hanno potuto disporre di particolari risorse, di cui la popolazione nativa mancava. LIGHT riprende poi alcuni elementi della teoria dello svantaggio, ammettendo l’idea che la tendenza all’autoimpiego si colleghi con una posizione di debolezza sul mercato del lavoro: i gruppi socialmente discriminati soffrono di una sottoccupazione cronica, che spinge a indirizzarsi al lavoro autonomi come via di scampo da una situazione di emarginazione. Studi ci ricordano che si è affacciata nel panorama internazionale una nuova ondata di immigrati professionalmente qualificati, che si dirigono verso i paesi che offrono maggiori aperture e opportunità per gli aspiranti imprenditori, cosicché non soltanto la popolazione immigrata su scala mondiale è sempre più differenziata e stratificata, ma anche la classe imprenditoriale. IL VERSANTE DELLA DOMANDA E I TENTATIVI DI INTEGRAZIONE Le diverse interpretazioni dell’imprenditorialità degli immigrati fin qui richiamate prestano il fianco a un’obiezione: anche se con accentuazioni diverse, enfatizzano il versante dell’offerta, analizzando le motivazioni e i processi auto propulsivi di inserimento nel lavoro autonomo delle minoranze immigrate. Il luogo delle visioni dualistiche delle metropoli globalizzate, basate sulla polarizzazione tra fasce professionali vincenti e torme di umili lavoratori salariati di servizi, è stata quindi avanzata per il caso americano l’ipotesi di una tripartizione delle economie metropolitane: • Un’area centrale, composta di industrie ad alta intensità di capitale e servizi professionali basati sulla conoscenza, in cui proprietari e lavoratori sono per lo più di razza bianca • Una semiperiferia di economie etniche promosse da gruppi specifici di immigrati, nei settori produttivi lasciati dai bianchi • Una periferia in cui altri gruppi etnici, i più deboli o i nuovi arrivati, competono alla ricerca di occupazioni dipendenti Se questi contributi pongono in rilievo l’importanza della domanda, già anni fa l’analisi di BOISSEVAIN si è soffermata sul ruolo della regolamentazione dell’attività economica esercitata dai poteri pubblici per comprendere le direttrici dello sviluppo delle attività indipendenti degli immigrati. Il fenomeno del lavoro indipendente degli immigrati è inserito all’interno delle trasformazioni delle economie e delle società ospitanti. In particolare alcuni contributi si sono prefissati di collegare in modo organico tre aspetti dell’offerta di imprenditoria etnica, delle esigenze dei sistemi economici avanzati e della regolazione normativa. Il primo è quello di WALDINGER, noto come modello interattivo. Questo approccio enfatizza esplicitamente la struttura delle opportunità che stanno a fronte degli immigrati, così come la distribuzione delle risorse e le modalità con cui sono rese disponibili alle minoranze etniche. L’attività economica degli immigrati viene studiata come la conseguenza interattiva del perseguimento di opportunità attraverso una mobilitazione di risorse mediate dai reticoli etnici in condizioni storiche uniche. Secondo WALDINGER, l’accesso alle proprietà di impresa in questi ambiti è reso possibile dalla diminuzione di offerta imprenditoriale da parte dei nativi, attratti da occupazioni più sicure e gratificanti. L’emergere dei nuovi arrivati come gruppo di rimpiazzo nelle attività indipendenti viene ricondotto anche in questo caso a fattori socioculturali. Il punto chiave del contributo di WALDINGER, quello dell’interazione tra opportunità offerte dai mercati e offerta di imprenditorialità è stato successivamente ripreso da LIGHT e ROSENSTEIN. Essi distinguono risorse etniche specifiche e risorse di utilità generale. Le prime forniscono a chi le possiede un vantaggio in un peculiare contesto di mercato, ma non sono applicabili in generale. Le seconde si riferiscono a requisiti che consentono risposte versatili a ogni tipo di domanda economica. Più in generale, un’analisi dei dati relativi a 167 aree metropolitane americane conferma la rilevanza dell’istruzione ai fini del successo imprenditoriale. Per contro le risorse specificatamente etniche incoraggiano e supportano la creazione di nuove imprese soprattutto tra i soggetti meno provvisti di capitale e istruzione: si tratterà molto probabilmente di attività indipendenti più modeste e precarie di quelle avviate da operatori istruiti e professionalmente preparati. Punti deboli del contributo di WALDINGER: INSISTENZA SULLA DIMENSIONE ETNICA E COMUNITARIA DELL’IMPRENDITORIALITA’, ENFASI SUL CONCETTO DI STRATEGIE ETNICHE(No visti i molti fallimenti), SCARSA ATTENZIONE DELLA REGOLAZIONE POLITICA(Molte leggi vengono esclusivamente applicate agli immigrati). KLOOSTERMAN e RATH hanno proposto una teoria della mixed embeddedness dell’imprenditorialità immigrata. Questi autori intendevano andare oltre lo studio dell’incorporazione dell’iniziativa economica in reti di relazioni interpersonali mediati dalla comune origine etnica, per considerare i processi più astratti e generali di incardina mento delle attività economiche in sistemi sociali più vasti, fino a comprendere il versante della domanda e il funzionamento dei mercati. • Un primo aspetto dell’incorporazione è costituito, anche in questo caso, dall’offerta imprenditoriale immigrata, sotto il profilo della composizione e delle risorse, che la differenziano dai concorrenti nativi. • Un secondo punto riguarda la natura delle relazioni tra gli operatori immigrati e la struttura delle opportunità. Sono pochi gli imprenditori, nativi e immigrati, in grado di introdurre innovazioni sostanziali e di creare opportunità prima inesistenti, con una nuova e brillante combinazione di risorse imprenditoriali. • I due studiosi olandesi approfondiscono poi il concetto di struttura delle opportunità lasciato piuttosto vago da WALDINGER. Il primo aspetto di tale struttura sono inevitabilmente i mercati, nei quali i processi di frammentazione, la specificità crescente delle domande dei consumatori, la riduzione dell’importanza delle economie di scala, tendono in vari settori ad espandere gli spazi per TIPOLOGIE DELL’IMPRENDITORIA IMMIGRATA Il rapporto con le origine etniche e le comunità minoritarie ha dato luogo ad alcuni tentativi di proporre alcune tipologie delle attività indipendenti avviate dai migranti, potendo così distinguere imprese che offrono prodotti e servizi alla popolazione immigrata, da quelle che invece competono sul mercato più ampio dell’economia locale. Si possono così distinguere i seguenti tipi di impresa: • Imprese tipicamente etniche, che rispondono alle esigenze peculiari di una comunità immigrata ormai sufficientemente installata in terra straniera, fornendole prodotti e servizi specifici, non reperibili nel mercato normale. • Una variabile dell’impresa etnica è l’impresa intermediaria, specializzata nell’offrire alla popolazione immigrata prodotti e soprattutto servizi non tipicamente etnici, ma che necessitano di essere mediati e tradotti attraverso rapporti fiduciari per poter essere fruiti.(Phone center, giornali e libri in lingua). • Si può individuare poi il caso dell’impresa etnica allargata, in cui il prodotto offerto risponde alle peculiarità culturali di un gruppo immigrato, ma la clientela è mista, comprendendo sia immigrati che italiani. • Parallelamente, dall’impresa intermediaria si può far discendere il caso dell’impresa prossima che, pur essendo specializzata in servizi per una clientela immigrata, può risultare attraente anche per una clientela italiana. • Un quinto caso è quello delle imprese che possiamo definire esotiche che offrono prodotti derivanti dalle tradizioni culturali del paese d’origine a un pubblico di consumatori sempre più eterogeneo, sofisticato e sensibile all’attrattiva della diversità ed inusualità. • L’ultimo tipo è quello dell’impresa convenzionale, che meno si identifica con le radici etniche, tende a non esibirle all’esterno e a competere su mercati concorrenziali, specialmente nelle grandi aree metropolitane, in settori labour intensive e in ambiti che presentano minori barriere finanziarie, tecnologiche e regolamentari. • Occorre poi identificare il caso dell’impresa rifugio, che però è difficilmente identificabile con una collocazione precisa rispetto al prodotto e al mercato. Vi appartengono imprese marginali appartenenti a diversi settori, in genere rivolte nel caso italiano al mercato aperto, mentre all’estero hanno spesso come sbocco la minoranza dei connazionali. Un’altra possibile classificazione delle imprese avviate da immigrati riguarda le dimensioni e il grado di strutturazione dell’attività della popolazione immigrata impegnata in attività indipendenti, individuando un’articolata stratificazione in cui si possono distinguere: • Operatori informali, non registrati, inseriti in reti etniche, operanti ai margini dei mercati e delle attività formalizzate(Muratori in nero e ambulanti). • Nuovi entranti nelle attività indipendenti, in genere dotati di una certa esperienza, che iniziano di solito dalle attività più faticose e meno redditizie. • Operatori indipendenti, a capo di piccolissime imprese, spesso satelliti di altre di maggiori dimensioni, ma che cominciano a godere di una certa reputazione. • Imprenditori relativamente autonomi, che guidano imprese relativamente più grandi e strutturate, in cui danno lavoro a collaboratori e dipendenti. • Leader economici, che occupano le posizioni di vertice, hanno non solo dipendenti, ma anche legami con imprese più piccole, che riforniscono come grossisti o a cui danno lavoro mediante rapporti di subappalto. Un’altra tipologia di attività economica promossa da immigrati è stata proposta da una ricerca sulle iniziative economiche a carattere transnazionale, con riferimento alle città di Milano e Genova. • Un primo tipo è rappresentato dalle attività che comportano uno spostamento fisico frequente attraverso i confini, con viaggi ripetuti tra madrepatria e luoghi di insediamento. • Una seconda forma di transnazionalismo imprenditoriale consiste nelle attività economiche che non implicano uno spostamento fisico degli operatori, ma fanno viaggiare denaro e messaggi comunicativi. • In terzo luogo, l’attività economica transnazionale può passare attraverso le merci comprate e vendute. Siamo allora in presenza di un transnazionalismo mercantile. • Possiamo infine individuare un transnazionalismo simbolico, che non importa merci, o lo fa soltanto in modo accessorio, al fine di ricostruire atmosfere, ambienti e significati. Cp.6 DONNE MIGRANTI E FAMIGLIE TRANSNAZIONALI Negli studi classici sull’immigrazione il soggetto centrale è stato il generalmente di genere maschile. Le donne erano inquadrate come donne al seguito. Le donne sono oggi riconosciute come protagoniste dei processi migratori. Parleremo poi del fenomeno della formazione delle famiglie separate. L’APPROCCIO DI GENERE NELLO STUDIO DELLE MIGRAZIONI Soprattutto negli ultimi anni l’attenzione verso le migrazioni femminili è molto cresciuta. Il cambiamento è avvenuto nei fatti, giacché è aumentato il numero di donne che emigrano, e che emigrano da sole, per cercare lavoro, al pari degli uomini. Donne che assumono la responsabilità di breadwinner, procurando le risorse economiche per provvedere alla necessità della propria famiglia, acquisita o ascritta, e talvolta di entrambe. Donne impegnate in lavori che si inseriscono in processi determinanti per la vita quotidiana e il funzionamento delle società riceventi. Nella prospettiva di genere, l’aspetto che ha maggiormente catalizzato l’attenzione degli studiosi è stato quello dei processi discriminatori in cui le donne migranti sono vittime. Si parla al riguardo di una doppia, o tripla discriminazione. SI vuole intendere che le donne migranti sono discriminate in quanto donne e immigrate. A queste due forme di discriminazione, spesso se ne viene aggiunta una terza: la discriminazione di classe. L’incrocio tra condizione di immigrata e genere appare particolarmente significativo. Alle donne immigrate si applicano stereotipi che ne restringono severamente le possibilità di impiego e di espressione di sé: in Italia, come negli altri paesi mediterranei, gli ambiti occupazionali di fatto accessibili faticano a fuoriuscire dal lavoro domestico-assistenziale. Ma anche nel Nord Europa e negli Stati Uniti, si osserva una concentrazione abnorme delle donne immigrate in attività tradizionalmente femminili, nell’ambito soprattutto dei servizi alle persone. Anche l’uso della categoria razza è usata poiché vi è una gerarchizzazione delle donne immigrate all’interno delle società riceventi dovuta al colore della pelle o di una nazionalità sgradita. Il terzo termine di classe sociale, a differenza di razza e genere, non è ascritto. La classe è una caratteristica acquisita. IL LAVORO DI CURA: PROFILI PROFESSIONALI E COMPITI RICHIESTI L’impiego di donne immigrate in attività domestiche è sempre più comune nel mondo sviluppato, e in Europa rappresenta il più importante serbatoio di opportunità occupazionali per le nuove arrivate, in condizione giuridica regolare o irregolare. Una domanda di lavoro femminile così caratterizzata in campo domestico-assistenziale si rivela del resto molto congruente con il modello familistico tipico del nostro come degli altri paesi mediterranei. Il sistema di protezione sociale italiano è basato essenzialmente su trasferimenti di reddito, pensioni e meno su servizi pubblici assistenziali, rispetto ai paesi dell’Europa settentrionale e centrale. Così facendo viene delegato alle famiglie la cura che altrove sarebbe assunta da apparati pubblici. L’impiego di collaboratrici, e in particolare di donne immigrate, serve a colmare le difficoltà evidenti delle famiglie nel reggere gli incarichi domestici e assistenziali. Queste occupazioni poi comportano una richiesta di coinvolgimento affettivo, di mobilitazione non solo di energie fisiche, ma della persona nel suo insieme. Vengono però distinti 3 profili professionali: 1. ASSISTENTE A DOMICILIO: Generalmente faticoso ed esigente, rivolto soprattutto ad anziano non autosufficienti. Oltre ai normali compiti della casa, vengono qui richieste prestazioni di tipo assistenziale e parasanitario. Richiede anche compagnia e sostegno emotivo. 2. COLLABORATRICE FAMILIARE FISSA: Coresidente, un’occupazione che sembrava destinata ad un declino per carenza di candidati, colmati dalle donne immigrate 3. COLF A ORA: rappresenta una evoluzione delle prime due in quanto ci si svincola dalla convivenza con i datori di lavoro. Per alcune invece può essere il primo impiego. Un’altra riflessione riguarda le differenze delle donne migranti dovute a fattori molteplici: • PROFILO ESPLORATIVO: Riferito a donne molto giovani, senza carichi familiari, arrivate in Italia ed interessate maggiormente a sondare le opportunità che il contesto può offrire. • PROFILO UTILITARISTA:Relativo a donne piuttosto avanti con gli anni, provenienti dall’Europa orientale che hanno lasciato i figli in patria già grandi e dipendenti dalle loro rimesse ma non intenzionate a raggiungerle. • PROFILO FAMILISTA: Donne giovani/adulte, provenienti soprattutto dall’America Latina, con figli in età minorile lasciati in patria, che aspirano a ricongiungerli con loro in Italia • PROMOZIONALE: Riguarda donne dotate di alti livelli di istruzione e di esperienze professionali significative. CARATTERI E PROBLEMI DEL LAVORO NELL’AMBITO DOMESTICO Resta come tratto comune la discriminazione doppi di cui si è parlato prima. Ma vi sono altre conseguenze: • Saldatura tra uno stereotipo etnico ed uno di genere nel linguaggio parlato ( Es. Viene la filippina) • Limita le scelte e le prospettive delle donne immigrate, poiché il mercato del lavoro le ricerca per le mansioni di assistenza agli anziani, inibendo le loro aspirazioni e ambizioni. • Si verificano in terzo luogo i riscontri non solo di un estesa violazione degli obblighi contrattuali, ma anche di violenze e abusi. Si verificano pero allo stesso tempo processi di familiarizzazione: soprattutto gli anziani tendono a sviluppare attaccamenti affettivi e ad attribuire alle loro assistenti domiciliari attributi semi familiari. Questo può inoltre favorire le donne per quanto riguarda il ricongiungimento. Assistiamo quindi a una riedizione della figura del Patronage in cui i datori di lavoro assumono un ruolo protettivo dei loro dipendenti. Un altro problema è quello di donne che lasciano i loro figli in patria, affidati a padri o altri parenti per venire ad occuparsi di famiglie o anziani delle società affluenti. SI formano così famiglie transnazionali.