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Sociologia delle migrazioni ( Ambrosini ) , Sintesi del corso di Sociologia delle Migrazioni

Riassunto del libro di Ambrosini “ sociologia delle migrazioni “

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Caricato il 08/03/2018

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Scarica Sociologia delle migrazioni ( Ambrosini ) e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia delle Migrazioni solo su Docsity! Capitolo 1: Migrazioni e migranti L’OGGETTO DI STUDIO E LE SUE CARATTERISTICHE Le migrazioni sono un fenomeno antico come l’umanità, tanto che si può affermare che “gli umani sono una specie migratoria”(Massey). Antichi testi come la Genesi e l’Esodo, raccontano di movimento di piccoli e grandi gruppi di popolazioni. Nell’Atene classica, tra i cittadini a pieno titolo e gli schiavi, un ruolo economico fondamentale era coperto dai meteci, lavoratori e commercianti forestieri ammessi come residenti ma privi di diritti politici. Anche quelle che, nella nostra tradizione storiografica, sono state chiamate invasioni barbariche, per altri sono interpretabili piuttosto come migrazioni verso i territori dell’Impero romano di popoli di stirpe germanica, sospinti da altri di origine mongolica. La storia delle colonizzazioni illustra invece un movimento in direzione opposta: per secoli, prima verso le Americhe, poi verso l’Africa, il Sud-Est asiatico e l’Oceania, gli europei andarono a insediarsi in modo violento, sopraffacendo le popolazioni native. Questi esempi storici ci mostrano che se i trasferimenti da un territorio all’altro di singoli individui, di gruppi o di intere popolazioni sono fenomeni ricorrenti nella storia dell’uomo, non è agevole definire con precisione chi siano gli immigrati data la fluidità e l’eterogeneità dei processi definibili come migrazioni. Possiamo assumere come base di partenza la definizione di “migrante” proposta dalle Nazioni Unite: una persona che si è spostata in un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno. La definizione proposta include 3 elementi: a. Lo spostamento in un altro paese b. Il fatto che questo paese sia diverso da quello in cui il soggetto è nato/vissuto abitualmente c. Una permanenza prolungata nel nuovo paese (fissata convenzionalmente in almeno 1 anno) Si può osservare che queste definizione non tiene conto delle migrazioni interne, né dagli spostamenti di durata inferiore a un anno. Le migrazioni inoltre vanno inquadrate come processi, in quanto dominate di una dinamica evolutiva che comporta una serie di adattamenti e di modificazioni nel tempo, e come sistemi di relazioni che riguardano le aree di partenza, quelle di transito e quelle infine di destinazione, coinvolgimento una pluralità di attori e di istituzioni. Migrazioni interne: spostamenti da una regione all’altra dello stesso paese, che presentano caratteristiche in parte simili a quelle delle migrazioni internazionali e in parte diverse: gli immigrati interni sono cittadini, hanno diritto di voto e di accesso ai diritti che spettano ai residenti, parlano di solito la stessa lingua. Tuttavia, anch’essi possono essere percepiti e trattati come “diversi”, discriminati nell’accesso al lavoro e all’abitazione, e possono attivarsi nella costituzione di reti di relazione basate sulla comune origine e la parentela, alimentando le cosiddette catene migratorie. Possiamo affermare che le migrazioni sono costruzioni sociali complesse, in cui agiscono tre principali attori: 1. Le società di origine, con le loro capacità di offrire benessere, libertà e diritti ai propri cittadini e con politiche più o meno favorevoli all’espatrio per ragioni di lavoro di parte della popolazione. 2. I migranti attuali e potenziali, con le loro aspirazioni, progetti e legamenti sociali. 3. Le società riceventi, sotto il duplice profilo della domanda di lavoro di importazione e delle modalità di accoglienza, istituzionale e non, dei nuovi arrivati. Proprio gli atteggiamenti e le scelte politiche delle società ospitanti appaiono oggi sempre più decisive nel plasmare i processi di selezione dei migranti, i tipi di immigranti che di fatto si insediano nel territorio, le forme di inclusione attuate e le relazioni che si istituiscono tra cittadini autoctoni, ossia nativi del paese e residenti stranieri. La formazione di minoranze etniche riflette questa interazione tra dinamiche auto propulsive delle popolazioni immigrate e processi di inclusione delle società riceventi. Il concetto ha a che fare non solo con l’insediamento stabile di immigrati stranieri, che da vita a nuove generazioni che nascono e vivono in un paese diverso da quello della società in cui vivono ma anche con il rifiuto di considerarli membri a pieno titolo delle società in cui vivono. Ne derivano le seguenti caratteristiche: • Sono gruppi subordinati all’interno di società complesse • Presentano aspetti fisici/culturali soggetti a valutazioni negative • Acquistano autocoscienza di gruppo, essendo legati da medesima lingua, cultura, storia e tradizione, ed infine da un destino e una posizione sociale comune (svantaggiata) • Possono in qualche modo trasmettere alle generazioni successive l’identità minoritaria. Benché possa variare l’intensità rispettiva dell’auto/etero definizione di un collettivo di immigrati come “minoranza etnica” il concetto implica sempre un certo grado di marginalità e di esclusione, che conducono a situazioni attuali o potenziali di conflitto sociale. I DIVERSI TIPI DI IMMIGRATI Un aspetto rilevante delle migrazioni contemporanee, nello scenario internazionale, è il superamento dell’identificazione dell’immigrato con una sola figura sociale: quella di un lavoratore manuale, poco qualificato, generalmente maschio, inizialmente solo. Si possono distinguere diverse figure di immigrati: • Gli immigrati per lavoro. Oggi non sono più soltanto maschi, non sono necessariamente poco istruiti e privi di esperienze professionali, ma solitamente trovano lavoro nei settori e nelle occupazioni meno ambite dei mercati del lavoro nei settori e nelle occupazioni meno ambiti dai mercati del lavoro dei paesi riceventi. Le donne muovendosi spesso in qualità di primomigranti (ossia di battistrada per un’eventuale immigrazione familiare successiva), sono sempre più protagoniste delle migrazioni per lavoro. Si inseriscono specialmente nei servizi alle persone e alle famiglie, con possibilità di miglioramento ancora più scarse che per gli immigranti maschi, qui si parla di doppia discriminazione (donne + immigrate). • Gli immigrati qualificati e gli imprenditori. Sono ancora quasi sconosciuti nel nostro paese, ma rappresentano una quota crescente dei flussi migratori su scala internazionali, specialmente in direzione dei paesi più aperti all’immigrazione, come gli Stati Uniti, Il Canada e l’Australia, dove esistono specifici programmi per il reclutamento di questi particolari immigrati. (skilled migrations) • I familiari al seguito. Sono una categoria diventata importante in Europa dopo la chiusura delle frontiere attorno al ’74 nei confronti dell’immigrazioni per lavoro. Dopo di allora, i ricongiungimenti familiari sono diventati la motivazione più frequente per gli ingressi ufficiali di cittadini provenienti da paesi esterni. • I rifugiati e richiedenti asilo. Sono un’altra componente della popolazione migrante cresciuta negli ultimi decenni, anche se con andamenti regolari, influenzati da eventi come le guerre nei Balcani negli anni novanta. Le due categorie si distinguano per effetto della convenzione delle Nazioni Unite del 1951 (Convenzione di Ginevra), in cui il rifugiato è definito come una persona che risiede al di fuori del suo paese di origine, che non può o non vuole ritornare a causa di un “ben fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica”. Il richiedente asilo è una persona che si sposta attraverso le frontiere in cerca di protezione, ma che non rientra nei rigidi criteri della Convenzione di Ginevra, giacchè in genere non è in grado di provare di essere il bersaglio individuale di una persecuzione esplicita. • La regolazione più stringere degli ingressi ha poi a che fare con la formazione di altre figure di immigrati, quelle dell’immigrato irregolare, del clandestino, della vittima del della regolamentazione delle Migrazioni internazionali con trattati internazionali, inoltre maggiore limitazione e selettività ma con un primo riconoscimento dei diritti del migrante (parità di trattamento con il lavoratore nazionale + alcune misure di welfare) • Il periodo della ricostruzione, dal 1945 ai primi anni cinquanta, vede il rilancio dei movimenti migratori dopo gli sconvolgimenti bellici. La ripresa economica e la mancanza di manodopera richiedono braccia, fornite specialmente dall’Italia per Francia, Svizzera e Belgio. La Gran Bretagna, come nel passato, ricorre soprattutto agli irlandesi, la Svezia ai finlandesi. La Francia recluta lavoratori provenienti dalle colonie, specialmente dall’Algeria. Dall’Italia verso l’estero parte tra il 1946 e 1951, quasi un milione di persone. Cominciano poi le migrazioni interne, inizialmente dalle zone rurali e dal Veneto verso i poli del cosiddetto triangolo industriale. • Il periodo del decollo economico, contraddistinto dagli accordi intergovernativi per la fornitura di forza lavoro e dalla rapida regolamentazione dei lavoratori, anche quando entravano in un paese straniero senza un regolare permesso. Cresce il volume delle migrazioni e si allargano le aree di reclutamento, con la partecipazione di Spagna, Portogallo, Grecia, infine Turchia (in direzione della Germania). Sono anche gli anni delle grandi migrazioni interne, dal Mezzogiorno verso le regioni del Nord. Il primo shock petrolifero, nel ’74, conclude in modo brusco questa fase, anche se già nei primi anni settanta si manifestano in alcuni paesi i primi segni dei nuovi orientamenti restrittivi. A causa della recessione dell’impennata della disoccupazione, i paesi dell’Europa centrosettentrionale decidono di non ammettere più immigrati per lavoro e incoraggiano invece, con scarso successo, il rimpatrio di coloro che sono già installati. • Il periodo del blocco ufficiale delle frontiere verso l’immigrazione per lavoro (dal ’74 in avanti). In realtà solo la Germania, e per un breve periodo (tra il ’75 e il ’77) riesce a ridurre il numero degli immigrati. A partire dagli anni ’80, e con maggiore intensità dall’inizio degli anni novanta, l’Europa meridionale diventa a sua volta un polo di attrazione dell’immigrazione, che proviene da un numero semplice più ampio di paesi, e, dall’89, coinvolge un nuovo grande bacino di partenza formato dall’Europa dell’Est, impegnata nella difficile transizione post-economica. • Si sta ora profilando un nuovo scenario, con l’attuazione e il perfezionamento degli accordi di Schengen per un controllo più rigoroso delle frontiere esterne, mentre si è messa in moto una cauta e contrastata revisione a livello europeo della politica del blocco delle frontiere ed è avvenuto nel 2004, l’ingresso dei dieci nuovi stati membri, principalmente dell’Europa dell’Est, destinato ad allargare notevolmente i confini dell’Europa comunitaria. Nel nuovo contesto, si possono identificare alcune tendenze generali dei processi migratori, che si sono manifestate negli ultimi anni e sono destinate a svolgere un ruolo fondamentale anche nel futuro (Castels/Miller 1993): 1. La globalizzazione delle migrazioni, aumenta l’eterogeneità linguistica, etnica, culturale e religiosa dei migranti, e con essa devono misurarsi le società che li accolgono 2. L’accelerazione delle migrazioni. 3. La differenzazione delle migrazioni, che comprendono oggi nella maggior parte dei paesi ospitanti un ampio ventaglio di tipi di immigrati, dai migranti per lavoro temporaneo o a lungo termine, ai rifugiati, ai lavoratori qualificati, ai familiari ricongiunti. 4. La femminilizzazione delle migrazioni, che dagli anni sessanta ha assunto importanza non solo nell’ambito dei ricongiungimenti familiari, ma anche nelle migrazioni per lavoro, in forme spesso autonome e precedenti l’arrivo di mariti e figli. FASI E CICLI DELL’IMMIGRAZIONI Bohning, ha individuato quattro fasi o stadi (caratteristiche del fenomeno migratorio che si verificano con una certa ripetitività) dei processi migratori. ♦ Nella prima fase, caratterizzata da grande mobilità ed elevati tassi di attività arrivano piccoli numeri di immigrati, generalmente maschi, di giovane età, celibi, provenienti prevalentemente dalle zone più sviluppate del paese d’origine, ossia soprattutto dalle grandi città. Sono più qualificati e hanno qualificazioni maggiormente orientate all’industria della produzione che non emigra. Sono occupati di solito nelle posizioni più marginali e tendono a fermarsi per periodi molto brevi. ♦ Nella seconda fase, cresce l’età media, mentre la distribuzione per genere resta costante, con la predominanza dei maschi, tra i quali aumenta la quota di sposati, cosicchè la composizione per stato civile si avvicina a quella della popolazione non migrante. Si tratta sempre di migrazioni per lavoro e quindi si mantiene elevato il tasso di attività, mentre si estende leggermente la durata del soggiorno e diminuisce il tasso dei rientri in patria. ♦ Nella terza fase, l’immigrazione comincia a stabilizzarsi: cresce la componente femminile e si sviluppano i ricongiungimenti familiari, mentre diminuiscono i rientri in patria. Partono nuovi emigranti dalle aree meno sviluppate del paese d’origine, iniziando nuovamente dai giovani maschi celibi, ma dotati di livelli di qualificazione mediamente più bassi dei precedenti. ♦ Nella quarta fase, l’immigrazione giunge a maturità. La permanenza si allunga, aumentano i ricongiungimenti familiari, cresce nel suo complesso la popolazione immigrata. Questi processi inducono nuova immigrazione, per rispondere alle esigenze delle comunità immigrate. Per contro, aumenta l’inquietudine sul versante della popolazione autoctona e la domanda di interventi politici di controllo. Critiche al modello di Bohning: mod. troppo rigido ossia imperniato sull’immigrazione per lavoro di manodopera salariata e poco sensibile ad altri tipi di flussi come interi nuclei familiari, lavoratori qualificati, donne primo migranti. Un altro schema in quattro stadi, è stato proposto più recentemente dall’influente opera di Castles e Miller. Per diversi aspetti simile a quello di Bohning, è però più sensibile all’azione delle reti sociali. ♦ Primo stadio: migrazioni temporanee per lavoro da parte di giovani, con l’invio dei proventi in patria e un orientamento continuo verso il luogo di origine. ♦ Secondo stadio: prolungamento del soggiorno e sviluppo di reti sociali, basate sulla parentela e sulla provenienza, motivate dal bisogno di aiuto reciproco nel nuovo contesto. ♦ Terzo stadio: ricongiungimento familiare, coscienza crescente di un insediamento di lungo termine, progressivo orientamento verso la società ricevente, emergere di comunità etniche con le proprie istituzioni (negozi, luoghi di ritrovo, ecc.) ♦ Quarto stadio: insediamento permanente che, in relazione alle politiche pubbliche e ai comportamenti sociali della popolazione nativa, può condurre sia a uno status legale consolidato ed eventualmente all’acquisto della cittadinanza, sia alla marginalizzazione socioeconomica e alla formazione di minoranze etniche discriminate. Critiche al modello: provengono da studiose di orientamento femminista per scarso ruolo autonomo delle donne nei movimenti migratori. Un approccio più flessibile (offerto da Bastenier e Dassetto 1990) e comprensivo alla dimensione dinamica dei processi di inserimento degli immigrati è individuabile nel concetto di “ciclo migratorio”, in cui vengono distinti tre momenti. ▲ Un primo momento, definito come “marginalità salariale”, e quindi dalla condizione di lavoro dipendente e dall’inserimento nella classe operaia. Il termine tipico che indica i residenti stranieri è quello di “lavoratore straniero” o “lavoratore immigrato”. ▲ Un secondo momento, in cui avvengono in media fra i 5 e 15 anni dal momento dell’arrivo, in cui avvengono nuovi ingressi, per matrimonio e ricongiungimento familiare. ▲ Un terzo momento, in cui la popolazione di origine straniera si stabilizza, i figli entrano nell’adolescenza, sorgono leader e si affermano movimenti che richiedono nuovi rapporti con la società ricevente. Il termine “immigrato”, come categoria globale, non è più adeguato per descrivere le figure sociali originate dall’insediamento di popolazioni straniere. Capitolo 2: Alla ricerca delle cause SPIEGAZIONI MACROSOCIOLOGICHE: I FATTORI DI SPINTA Lo sforzo di spiegare le migrazioni costruendo modelli teorici è piuttosto recente. Si tratta di sforzi parziali, poco connessi, non cumulativi. Nessuno di essi riesce a proporre una teoria esplicativa globale delle migrazioni. Il fenomeno d’altronde è troppo sfaccettato e multiforme per essere spiegato da una sola teoria. La visione più comune dei fenomeni migratori è quella che li connette con grandi cause strutturali operanti a livello mondiale e in modo particolare nei paesi di provenienza: la povertà, anzitutto, e a volte la fame, la mancanza di lavoro o la scarsissima remunerazione del lavoro svolto; la sovrappopolazione crescente del Terzo mondo. A questa visione i demografi hanno dato una forma teorica attraverso la distinzione tra fattori di spinta e fattori di attrazione: mentre nelle migrazioni della fase dello sviluppo industriale a cavallo tra Ottocento e Novecento o del decollo economico europeo del dopoguerra prevalevano i fattori di attrazione da parte dei sistemi economici più sviluppati, nella fase attuale prevarrebbero i fattori di spinta. Le migrazioni sarebbero soprattutto emigrazioni, fuga dal sottosviluppo, dall’oppressione, dalla miseria. I demografi ragionano in modo particolare sui tassi d’incremento della popolazione sulle due sponde del Mediterraneo, sulla contrapposta distribuzione per età, sull’avvento dell’offerta di Lavoro che non trova sbocchi. Mediante concetti come “pressione migratoria” arrivano alla conclusione che un travaso di popolazione dalla sponda sud alla nord sia la logica conseguenza di questi squilibri. Le analisi più avvertite rifuggono in una visione idraulica del fenomeno (teoria dei vasi comunicanti) ma l’enfasi andrebbe piuttosto sul dato demografico come moltiplicativo degli squilibri economici/politici/sociali. Altre spiegazioni macrosociologiche (legate alla corrente dei push factors): Teoria neomarxista della dipendenza (Amin ’74); le migrazioni per Lavoro discendono dalle disuguaglianze geografiche nei processi di sviluppo, indotte dalle relazioni coloniali/ neocoloniali che riproducono lo sfruttamento del terzo mondo attraverso rapporti di scambio ineguali. Inoltre il Brain Drain (ossia il drenaggio dei soggetti più istruiti ed attivi) accresce il divario tra luoghi d’origine e di destinazione, impoverendo i primi delle risorse umane più valide. Teoria del sistema mondo: la crescente globalizzazione degli scambi e delle comunicazioni incrementa i legami tra le diverse aree del pianeta. Wallerstein (1982) ha ripreso l’idea della divisione internazionale del lavoro e degli scambi ineguali, classificando i paesi in base al loro grado di dipendenza dalla dominazione capitalistica occidentale,come paesi del centro, della periferia e semiperiferia. L’espansione del mondo capitalistico nel sistema mondo genera uno sconvolgimento delle società tradizionali e la formazione di masse di sradicati. Si creano cosi le condizioni, culturali e materiali che favoriscono le migrazioni per lavoro. • Tralascia le motivazioni individuali (desiderio d’avventura, di emancipazione ecc…) • Resta il problema di collegare il livello micro con quello macro specificando come le opportunità strutturali si traducono in azioni individuali e viceversa. NELLO SPAZIO INTERMEDIO: RETI SOCIALI E ISTITUZIONI MIGRATORIE Nel tentativo di superare i limiti delle teorie considerate, i migration studies degli ultimi vent’anni hanno tentato di elaborare alcune spiegazioni che si collocano a un livello intermedio tra micro e macro. Grande fortuna hanno riscosso specialmente le teorie del network, in cui le migrazioni vengono viste come un effetto dell’azione delle reti di relazioni interpersonali tra immigrati e potenziali migranti. I network migratori vengono definiti come “complessi di legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso i vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine” (Massey 1988). Secondo una formula concisa ed efficace, “gli individui non emigrano, i network si”. Grazie alle reti, i processi migratori possono proseguire anche in presenza di condizioni di mercato sfavorevoli. I network collegano migranti e non migranti attraverso il tempo e lo spazio. Le teorie dei network concepiscono le migrazioni come incorporate in reti sociali che attraverso lo spazio e il tempo, sorgono, crescono e infine declinano. La decisione di emigrare non avviene in un vuoto di relazioni sociali bensì si tratta di un fenomeno di natura puramente socalie. Un’evoluzione della teoria dei network è rappresentata dall’approccio definito “transnazionalismo” che tende a combinare la riflessione sul ruolo delle reti di relazioni interpersonali con gli spunti derivanti dalle teorie sistemiche. Al centro dell’attenzione stanno le figure sociali dei transmigranti, che intrattengono molteplici relazioni (familiari, economiche, sociali, ecc.) tra luoghi diversi e creano campi sociali attraverso le frontiere nazionali, assumendo svariate collocazioni, tanto nel luogo di origine, quanto nella società ricevente. Promuovono progetti di miglioramento delle condizioni di vita dei luoghi di origine, sostengono associazioni operanti nella società civile, incoraggiano cambiamenti politici: si tratta di esempi legati soprattutto al rapporto tra latino-americani immigrati negli Stati Uniti e i paesi di provenienza. Gli stessi concetti di immigrato ed emigrante sarebbero ormai obsoleti, di fronte alla capacità di molti migranti di sviluppare reti sociali, stili di vita e modelli culturali che riflettono le caratteristiche sia della società ospitante, sia del contesto di origine: Schiller, Basch e Blanc-Szanton sottolineano in proposito le identità culturali fluide e molteplici che i transmigranti tendono ad assumere, in relazione ai diversi contesti con cui si confrontano. È stato proposto un ampliamento della prospettiva dei network nel senso di una più ampia teoria delle istituzioni migratorie, comprendente le diverse strutture che mediano tra le aspirazioni individuali all’emigrazione e la concreta possibilità di trasferirsi all’estero per inserirsi nel sistema socioeconomico della società ricevente. Le istituzioni migratorie possono comprendere imprese che reclutano lavoratori all’estero, associazioni di migranti, sistemi di parentela, agenzie governative, professionisti dell’intermediazione, specialisti del trasferimento di persone attraverso le frontiere. Si possono così individuare dei processi di strutturazione delle migrazioni, in cui le azioni individuali si incontrano con le risorse fornite dalle istituzioni migratorie, contribuiscono a modificarle, ne fanno nascere di nuove, e sono a loro volta condizionate dal funzionamento di tali istituzioni. INCIDENZA E CONSEGUENZE INATTESE DELLA REGOLAZIONE NORMATIVA Alcune importanti analisi hanno rivalutato l’importanza della regolazione normativa del fenomeno, trascurata dalle teorie classiche. Queste risentivano dell’influenza del contesto della società industriale in rapido sviluppo, in cui gli spostamenti di lavoratori attraverso le frontiere erano molto più agevoli di oggi. A un livello intermedio tra le scelte individuali o familiari e le grandi determinanti strutturali occorre collocare quindi anche la regolazione statuale delle migrazioni, che esercita una specifica influenza selettiva sui flussi. La regolazione normativa esercitata dagli stati riceventi ha influito notevolmente sulla densità, sulla composizione e sulla destinazione dei flussi migratori soprattutto dopo la crisi petrolifera del ’73-’74, la chiusura ufficiale delle frontiere in Europa e le restrizioni imposte in America e in altri tradizionali paesi riceventi. Diversi studi sostengono oggi la prevalenza del fattore politico sugli altri elementi che contribuiscono a determinare le dinamiche migratorie: questo sarebbe l’aspetto più importante dei cambiamenti avvenuti nelle migrazioni internazionali negli ultimi vent’anni. In sintesi, possiamo ricordare alcuni fenomeni: • Nell’ambito dell’Unione Europea, si è inasprita la contrapposizione tra cittadini dei paesi membri insigniti del diritto alla libera circolazione, e cittadini esterni, le cui possibilità di ingresso sono severamente disciplinate, anche attraverso il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne. L’ingresso nell’Unione di nuovi paesi specialmente dell’Est europeo sta ora modificando questo quadro, allentando i vincoli imposti ai cittadini dei paesi neocomunitari, fino a ora soggetti alle medesime limitazioni dei cosiddetti cittadini extracomunitari. • Le migrazioni autorizzate all’ingresso nei paesi che hanno mantenuto la possibilità di immigrazione legale per motivi di lavoro (i principali sono Stati Uniti, Canada e Australia) si sono caratterizzate molto più marcatamente del passato come skilled migrations , ossia migrazioni di lavoratori istruiti e professionalmente qualificati: ingegneri, informatici, scienziati, medici, ecc. • Sono stati indirettamente favoriti flussi migratori non collegati in modo esplicito ai fabbisogni del mercato del lavoro, come quelli derivanti da ricongiungimenti familiari o da richieste d’asilo politico o umanitario; si sono verificati così travasi dall’una all’altra categoria di immigrati e parziali sovrapposizioni o perdite di distinzioni tra di esse. • Nello stesso tempo, migrazioni progettate come temporanee o stagionali sono diventate permanenti, giacché gli immigrati hanno generalmente preferito stabilizzare la loro condizione nel paese ospita tante, anziché rischiare di non potervi più rientrare dopo un periodo di ritorno in patria. • I migranti sono andati alla ricerca di nuove destinazioni, dopo che le precedenti si erano chiuse; in tal modo, i paesi dell’Europa meridionale, dotati di legislazioni meno reattive e caratterizzati da mercati del lavoro ambiguamente ricettivi, hanno cominciato a diventare mete rilevanti dei flussi migratori esterni, sostituendo in parte i tradizionali paesi riceventi dell’Europa settentrionale. • La drastica contrazione, o addirittura abrogazione, delle possibilità di ingresso per lavoro, o nei paesi dell’Europa meridionale la non ammissione – per diversi anni – di questa eventualità, ha poi contribuito notevolmente ad aggravare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. • I provvedimenti di sanatoria, miranti a rimediare agli effetti perversi della chiusura ufficiale delle frontiere e della formazione di sacche di lavoro irregolare, esercitano a loro volta effetti di retroazione sui flussi migratori, generando a loro volta effetti di retroazione sui flussi migratori, generando l’idea che una volta entrati in un paese sviluppato in un modo o nell’altro sarà possibile in seguito regolarizzare il proprio status giuridico. • Il quadro istituzionale e anche il retaggio storico degli stati-nazione esercitano un influsso profondo sui fenomeni migratori anche in un altro senso, allorquando definiscono i criteri di appartenenza alla comunità nazionale e di accesso allo status di cittadino, così come l’impostazione delle politiche di accoglienza e dei rapporti interculturali. In definitiva, per spiegare adeguatamente le migrazioni, sembra necessario adottare un approccio multi causale. Alcune delle spiegazioni che abbiamo considerato sono state formulate con riferimento a determinati flussi migratori o momenti storici. La regolazione normativa filtra le migrazioni ma non è la Causa. CAPITOLO 3 :L’INSERIMENTO NEL MERCATO DEL LAVORO Nonostante l’arrivo di rilevanti flussi di rifugiati per cause belliche o politiche, di migranti per ragioni di ricongiungimenti familiari, la figura centrale dei fenomeni migratori è stata storicamente e rimane ancora oggi quella del lavoratore che attraversa le frontiere per cercare lavoro all’estero. La sociologia si interroga sul destino di questi lavoratori immigrati individuando 3 visioni: 1. VISIONE ASSIMILAZIONISTA È la visione tipica dell’approccio liberale e assimilazionista, sviluppato in America a partire dagli anni 30 con la scuola di Chicago. Gli autori legati a questa scuola affermavano che gli immigrati al loro arrivo nel nuovo paese si collocavano ai gradini più bassi della società lavorando nei settori più sgraditi e abbandonati della forza lavoro nazionale; però tale visione contempla il fatto che pian piano questi immigrati si inseriscono nella società, apprendono la lingua, la cultura e abbandonano le loro abitudini per assimilare il nuovo ambiente, fino ad arrivare ai gradini più alti nella scala sociale, ad un miglioramento della condizione economica favorendo l’arrivo di nuovi immigrati. Il termine assimilazione può essere definito, secondo una formula di Park e Burgess (1924) come “ un processo di interpenetrazione e fusione in cui persone e gruppi acquisiscono le memorie, i sentimenti e gli atteggiamenti di altre persone e gruppi e, condividendo le loro esperienze e la loro storia, sono incorporati con essi in una vita culturale comune. Itinerario tipico secondo una formula americana è quello che vede le generazioni evolversi da una condizione di Peddler a quella di Plumber fino all’approdo tra le fila dei Professionals. Tra i passaggi più significativi di questa teoria ne vanno ricordati 3: a. Assimilazione non è solo processo inevitabile ma auspicabile b. È un fatto individuale in cui le appartenenze etniche e le identità ascritte sono ostacoli da rimuovere c. Assimilazione culturale è la precondizione fondamentale per l’avanzamento nel mercato del lavoro 2. VISIONE STRUTTURALISTA È la visione che caratterizza varie correnti di pensiero, che spaziano dagli approcci di derivazione marxista, all’economia del lavoro istituzionalista e ad altri filoni di pensiero critico. L’impostazione strutturalista afferma che le società riceventi hanno bisogno di immigrati, ma non per questo sono disposte a trattarli in modo paritario e a dare loro opportunità di avanzamento e promozione sociale. Vi è una discriminazione custodia e sorveglianza di immobili….tutte attività modeste ma importanti per il funzionamento quotidiano della vita urbana. • Infine specialmente le donne immigrate vengono assunte dalle famiglie per svolgere compiti domestici e di assistenza agli anziani. Una pluralità di modelli territoriali Il paesaggio del lavoro immigrato nel nostro paese non è uniforme, si possono individuare, in relazione alle marcate differenze territoriali, una pluralità di modelli territoriali che sono principalmente 4: 1. Il primo modello è basato sull’INDUSTRIA DIFFUSA, tipico delle aree territoriali maggiormente cresciute negli ultimi vent’anni. Nei sistemi territoriali a sviluppo diffuso il lavoro degli immigrati e molto più metropolitano e terziario, o al più legato all’edilizia e all’agricoltura anche se gli immigrati sono sempre più richiesti come lavoratori manuali nel sistema dei servizi privati. 2. Il secondo modello e quello METROPOLITANO, che ha in Milano e Roma i suoi epicentri, ma è riconducibile anche ad altre città di dimensioni minori. Qui il lavoro immigrato è fin dagli inizi in larga prevalenza terziario e secondariamente edile, inserito nei circuiti delle attività meno qualificate più instabili delle complesse economie urbane. 3. Un terzo modello e quello delle ATTIVITA’ INSTABILI, precarie e in larga parte irregolari dei contesti economici meridionali, non più legate soltanto all’agricoltura, ma anche all’assistenza, alle pulizie, all’industria turistico-alberghiera e all’edilizia. 4. Infine l’ultimo modello è quello delle ATTIVITA’ STAGIONALI, che rappresenta un modello intermedio tra industria diffusa e attività instabili, si tratta di lavori stagionali destinati all’agricoltura e all’industria alberghiera soprattutto nelle aree turistiche. Immigrazione ed economia sommersa La partecipazione degli immigrati all’economia sommersa e al lavoro in nero è un dato rilevante, ma eterogeneo perché le forme di produzione e distribuzione deregolata variano grandemente anche all’interno di una stessa società ed inoltre è in crescita negli ultimi anni, tutto ciò è derivante da elementi di debolezza e convenienze dei datori di lavoro ma anche da fattori endogeni alla popolazione immigrata come l’azione delle reti etniche e la diffusione di attività indipendenti. Si possono distinguere 3 grandi ambiti, con diversi livelli di continuità, volontarietà e possibilità di evoluzione: 1. Il lavoro dipendente; 2. Il lavoro indipendente; 3. Il lavoro coatto. 3.1. Il lavoro irregolare dipendente: che può essere: • Lavoro occasionale e stagionale cioè il lavoro bracciantile non regolarizzato soprattutto nelle campagne di raccolta che richiedono un utilizzo intensivo di manodopera per periodi di tempo ridotti. • Lavoro semicontinuativo cioè l’inserimento in attività edilizie o nel settore turistico- alberghiero, in relazione agli andamenti ciclici dell’attività. • Lavoro stabile e continuativo come l’occupazione aziendale nel basso terziario, nell’artigianato, nell’edilizia o l’occupazione domestica che pur non essendo formalizzato presenta caratteristiche di continuità nel tempo e stabilità. 3.2. il lavoro irregolare indipendente: E’ il lavoro indipendente marginale, svolto senza regolari licenze e autorizzazioni da immigrati che non hanno altre opportunità di lavoro a disposizione o che evadono dagli obblighi amministrativi e fiscali. In Italia si esplica soprattutto attraverso il commercio ambulante abusivo o semiabusivo. Tale lavoro irregolare indipendente è finalizzato a un progetto di attività autonoma, in cui la situazione irregolare è concepita come una fase provvisoria, che dovrebbe portare ad un’impresa regolarmente operante sul mercato. 3.3. il lavoro coatto: Lavoro coatto in azienda: in questa categoria comprendiamo le prestazioni di lavoro dipendente a cui gli immigrati sono costretti, in genere da loro connazionali, a motivo dei debiti contratti al momento dell’ingresso in Italia e garantite dal ritiro del passaporto, o da altre forme di ricatto. La speranza fondamentale dell’immigrato è quella di poter estinguere il debito contratto e iniziare a guadagnare, fino a riuscire a mettersi in proprio. Lavoro coatto nella prostituzione: solo apparentemente questa attività è esercitata liberamente. In realtà, in genere dietro alla donna che si prostituisce c’è una rete di sfruttamento e di costrizione, che parte dal paese di origine e si organizza in Italia. Il funzionamento del mercato del lavoro immigrato La costruzione dell’incontro tra domanda di lavoro italiano e lavoro immigrato dipende dall’interazione tra disposizioni normative, fabbisogni e modalità di reclutamento da parte dei datori di lavoro, autorganizzazione dell’offerta attraverso reti di relazioni interpersonali, appoggio fornito da attori e istituzioni solidaristiche. La domanda di lavoro incontra l’offerta immigrata attraverso due canali:le reti informali create dagli stessi immigrati, e l’azione di istituzioni solidaristiche e servizi specializzati. Di matrice privato-sociale o pubblica che, intrattenendo vari rapporti con le reti sociali autoctone, favoriscono l’incontro tra domanda e offerta. Le disposizioni normative intervengono in questi scambi, favorendo, bloccando, selezionando le possibilità di ricorrere al lavoro immigrato. Ne consegue che il reclutamento avviene soprattutto attraverso conoscenze personali, a cui l’imprenditore si affida nella ricerca dei requisiti metaprofessionali che gli interessano, come l’affidabilità, il senso di responsabilità, la dedizione al lavoro. Capitolo 4: Sul versante dei migranti le funzioni delle reti sociali LE SPECIALIZZAZIONI ETNICHE Capita spesso di osservare che gli immigrati di una certa nazionalità si concentrano in un determinato settore o svolgono la medesima occupazione. È poi frequente associare queste destinazioni occupazionali a presunte attitudini culturali. Le ricerche sul campo tuttavia raramente confermano questo presupposto; non capita spesso che un immigrato svolgesse la medesima attività nel paese d’origine. Incidono piuttosto i legami sociali che producono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, i rapporti interpersonali che diffondono informazioni sui posti disponibili, l’appoggio di parenti e amici che riescono ad influenzare le scelte dei datori di lavoro. Questo ragionamento vale in generale anche per i lavoratori nazionali. Per gli immigrati i fattori relazionali sono ancora più decisivi, giacché essi non hanno per esempio la possibilità di partecipare a concorsi pubblici, non hanno studiato nel paese ricevente e solo in alcuni paesi (non in Italia) riescono a far valere con una certa facilità i titoli di studio conseguiti in patria. Di conseguenza si formano catene di contatti e conoscenze che conducono a colonizzazioni di determinate nicchie occupazionali, abbandonate dai lavoratori nazionali. Il fatto poi che certi lavori si associno alla presenza di immigrati tende a svalorizzarli e accelera l’esodo dell’offerta autoctona. Ritroviamo dunque il concetto di network o di rete sociale. Ricordiamo la definizione che abbiamo riportato, secondo cui le reti migratorie possono essere intese come “complessi di legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso i vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine (Massey). Un’altra definizione più articolata, pone in rilievo alcune delle funzioni che svolgono le reti, parlando di “raggruppamenti di individui che mantengono contatti ricorrenti gli uni con gli altri, attraverso legami occupazionali, familiari, culturali o affettivi. Inoltre, sono complesse formazioni che incanalano, filtrano e interpretano informazioni, articolano significati, allocano risorse e controllano i comportamenti.” Dobbiamo però introdurre una precisazione terminologica. Benché il termine sia impreciso e lasci spazio a una certa ambiguità, nella letteratura internazionale, si parla frequentemente di “reti etniche”, per intendere le reti di persone che condividono una comune origine nazionale, come sinonimo di “reti migratorie”; si parla poi di specializzazioni etniche quando le reti di connazionali si insediano in maniera significativa in una determinata nicchia del mercato del lavoro. Nell’ambito americano ha avuto una certa diffusione il concetto di “enclave etnica”, che indica una peculiare concentrazione residenziale di una popolazione immigrata, capace di dare vita a imprese e istituzioni proprie, che spaziano dalle scuole, alle chiese, dai giornali alle banche (insediamento cubano a Miami in Florida). Si arriva a dire che si può vivere agevolmente nel paese di immigrazione senza neppure conoscere la lingua. Sebbene la costituzione di enclave sia un caso estremo e raro, la formazione di quartieri connotati etnicamente è un fenomeno non nuovo e abbastanza diffuso. È tipico soprattutto di paesi con storie di immigrazione più antiche ed è variamente valutato; come esperienza di ghettizzazione e isolamento sociale degli immigrati o viceversa come modalità insediativa che diversifica e arrichisce il panorama della vita urbana. UN CASO DI COSTRUZIONE SOCIALE DEI PROCESSI ECONOMICI In un mercato del lavoro opaco e scarsamente organizzato, le reti migratorie sono diventate un soggetto determinante rispetto all’incontro tra domanda e offerta. La diffusa destrutturazione del mercato del lavoro italiano si incontra cosi con la regolazione particolaristica costruita dal basso attraverso il bricolage diffuso delle reti migratorie. Questi processi dimostrano quanto il funzionamento del mercato del lavoro sia tributario di fenomeni sociali. Lo studio delle reti migratorie è quindi un modo privilegiato, per osservare come le relazioni sociali intervengono a strutturare l’azione economica, e come la società moderna, e una sua tipica istituzione come il mercato del lavoro, siano intrise di elementi che rimandano al passato, specialmente in determinate nicchie del mercato occupazionale, dove titoli di studio ed esperienze pregresse contano poco; le competenze specifiche sono difficili da testare e doti generiche di affidabilità, disponibilità, deferenza salgono alla ribalta. Soprattutto in questi ambiti, l’accreditamento derivante dall’appartenenza a determinate reti di relazione ed elementi di prossimità o somiglianza nei confronti di chi già svolge quell’occupazione, funzionano da grossolano filtro di selezione. Come osservano Tilly e Tilly teoricamente le assunzioni operate attraverso le reti di contatti sociali riducono l’efficienza del mercato nel realizzare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro; si abbassa infatti la probabilità che le imprese trovino l’occupazione che meglio corrisponde alle loro capacità e aspirazioni. Ma nello stesso tempo, le reti riducono i costi della raccolta delle informazioni da ambo i lati, accelerando la circolazione di notizie riguardo alle nuove opportunità, espandono la conoscenza tacita condivisa dai compagni di lavoro, permettono scambi di favori che torneranno utili in futuro. Ogni mercato del lavoro reticoli a base familiare è infatti di solito alquanto specializzato ossia utilizzabile in ambiti ristretti. Più precisamente il capitale sociale di solidarietà, che produce mutuo sostegno, è in molti casi cospicuo, mentre il capitale sociale di reciprocità, derivante dai rapporti che si formano al di fuori del gruppo di appartenenza e utile per perseguire la mobilità sociale, è carente. Per questa ragione le reti sociali degli immigrati sono una combinazione di fragilità e di forza. Si tratta di reti deboli perché formate da soggetti che nelle gerarchie sociali occupano una posizione subalterna e in molti casi hanno scarse risorse. Nello stesso tempo si tratta in parecchi casi di reti forti, perché giovano di quella che Portes e Sensenbrenner hanno definito “solidarietà vincolata”; i partecipanti sanno di non avere molte altre chances a disposizione, oltre a quella di darsi reciprocamente man forte e cercare di difendere la buona reputazione del gruppo nel suo insieme. Fenomeni di autopromozione. LE DECLINAZIONI DEL SOSTEGNO RECIPROCO Cerchiamo di distinguere le diverse funzioni svolte dalle reti etniche. Il loro statuto di risorsa portante e pervasiva le colloca in una condizione di centralità nei processi di inclusione, perché la loro azione di supporto si esplica in diversi ambiti, tra loro interrelati, che vanno oltre la collocazione occupazionale. Sotto il profilo analitico possiamo individuare: • Nell’ambito dell’accoglienza la stazione di appoggio per i nuovi arrivati sono anzitutto le parentele ed in maniera più ampia la cerchia dei legami di origine basati sulla comune lingua ed origine; • L’area della ricerca del lavoro in cui le reti etniche esplicano delle forme di sponsorizzazione. Spesso in questi processi si affermano vere e proprie figure d broker, intermediari tra datori di lavoro e connazionali alla ricerca di impiego; • L’area della promozione professionale in cui le reti migratorie sono fornitrici di molteplici risorse, che spaziano dal capitale finanziario alla formazione imprenditoriale ma anche nei casi più modesti come nella maggior parte dell’esperienze italiane come il lavoro flessibile e collaborativo di familiari; • Il Passaparola che all’interno delle reti migratorie è il più diffuso canale di approvvigionamento delle informazioni; • Supporto sociale in quanto i parenti e in minor misura i connazionali sono anche la precaria riorsa a cui gli immigrati fanno ricorso nelle molte situazioni di emergenza che non riescono a fronteggiare da soli; • Sostegno emotivo e psicologico appunto le reti migratorie svolgono anche funzioni di questo genere sempre in misura maggiore da parte della parentela e in minore misura da parte dei connazionali. Un’altra questione importante è il grado di organizzazione interna e la capacità di sostegno delle reti migratorie nei confronti dei partecipanti che ci porta a distinguere reti disorganizzate e poco efficaci nel sostenere l’inserimento sociale dei connazionali, e reti dotate di una buona coesione interna e di un alto grado si organizzazione comunitaria efficaci nel promuovere l’inserimento lavorativo soltanto nelle nicchie debolmente qualificate in cui si concentrano i connazionali. LE DIMENSIONI DELLA SOLIDARIETA’ ETNICA Vi sono alcune variabili attraverso le quali si struttura l’azione delle reti migratorie, e che condizionano la loro capacità di sostenere, influenzare, strutturare i percorsi di inserimento degli individui nella società ricevente. Possiamo individuare 5 dimensioni di solidarietà: 1. Dimensione della numerosità F 0 E 0 i gruppi troppo piccoli o troppo numerosi sembrano incontrare maggiori difficoltà nel formare reti etniche funzionali perché i primi rischiano di trovarsi dispersi e soli i secondi invece di non riuscire a conoscere e filtrare i connazionali immigrati e di dover far fronte a una moltiplicazione di domande di aiuto; 2. Dimensione della concentrazione F 0 E 0 ossia l’addensamento territoriale che condiziona la frequenza e l’intensità dei rapporti sociali tra i partecipanti. Occorre però distinguere la concentrazione spaziale (del luogo) e la concentrazione occupazionale( del settore lavorativo); 3. Dimensione della composizione F 0 E 0 che influenza la dotazione di risorse e quindi il capitale sociale che la rete può mettere a disposizione dei membri. Una rete formata da persone scarsamente istruite e neo arrivate e collocate nelle posizioni marginali del mercato del lavoro ha certamente una capacità di sostegno ben diversa da una rete formata da persone istruite da tempo insediate, collocate in posizioni vantaggiose del sistema economico ed in grado di esercitare un’influenza politica. 4. Dimensione della coesione interna F 0 E 0 ossia la forza dei legami che tengono insieme i partecipanti e li vincolano al sostegno reciproco; 5. Dimensione della capacità di controllo sociale F 0 E 0 quando le reti fanno capo ad istituzioni dotate di autorevolezza morale e hanno leader riconosciuti essendo così capaci di influenzare i comportamenti dei membri. Altre variabili incidono sulle dimensioni che abbiamo individuato. 1. La coesione interna e la disponibilità al mutuo aiuto sembrano essere influenzate da un fattore come la distanza geografica. Generalmente chi arriva da più lontano è più selezionato alla partenza, dispone di maggiori risorse in termini di capitale umano e sociale, sa di dover investire in progetti migratori più dilatati nel tempo, acquista consapevolezza nell’importanza della coesione di gruppo per trovare appoggio e reggere i costi psicologici dello sradicamento del trapianto in un nuovo contesto sociale. Chi parte da più vicino affronta costi minori, può arrivare più facilmente senza l’appoggio di solide teste di ponte, può coltivare progetti migratori meno definiti, attuando forme di pendolarismo con la madrepatria. 2. Possiamo poi ricordare l’importanza del fattore tempo; i gruppi arrivati prima tendono a occupare spazi disponibili sul mercato del lavoro ed attivare catene di richiamo a vantaggio di connazionali, attuando strategie di chiusura nei confronti di altri gruppi di immigrati 3. Occorre ricordare infine la variabile della ricezione societale, ossia l’azione della società ricevente, che si traduce in gradi diversi di accettazione sociale e di apertura, derivante dalle rappresentazioni delle collettività a base etnico- nazionale. Nel caso delle reti migratorie, infatti, bisogna tener conto dei processi di etero definizione del gruppo, oltre che di scelte dei partecipanti. RETI COME RISORSE Benché l’azione delle reti possa avere conseguenze indesiderabili, senza di esse i processi di integrazione degli immigrati sarebbero più ardui ed incerti. Molti esiti dipendono in realtà dalla disponibilità di altri dispositivi di inclusione e promozione sociale degli immigrati nelle società riceventi, nonché dalle modalità di organizzazione e funzionamento delle reti stessi. La vera sfida consiste allora non nel superare le reti migratorie, bensì di poterle considerare risorse flessibili e non esclusive, capaci di offrire sostegno ma non costrittive, in grado di assecondare i processi di integrazione senza vincolare i percorsi soggettivi. Capitolo 5: Il Passaggio al lavoro indipendente IL VERSANTE DELL’OFFERTA DI LAVORO AUTONOMO Il ruolo storico delle minoranza intermediarie, ossia di gruppi etnici o religiosi affermati in società ad economia premoderna, come agenti di connessione, commerciali o creditizi, tra èlite e masse, può essere visto come una cerniera tra l’imprenditoria straniera che interessò alcuni dei padri fondatori della sociologia. In forme diverse, processi simili si ripropongono nelle società contemporanee: gruppi minoritari, socialmente marginali, esclusi da molte opportunità di vita migliore che spinti dal bisogno sviluppano una propensione al lavoro in proprio e alla microimprenditorialità che si inserisce negli interstizi dei sistemi economici dominanti. Se nell’America settentrionale il fenomeno ha tradizioni e dimensioni molto consistenti in Europa assume un importanza crescente, infatti il tasso di lavoro autonomo degli immigrati è cresciuto più di quello degli autoctoni, specialmente nei grandi agglomerati urbani; si è avvicinato e talvolta ha anche superato il livello dei lavoratori nazionali come in Uk (14,1% contro 12%) e Canada (10,4% contro 9,1%) mentre in Germania lo ha quasi raggiunto (9,8% contro 10,9%). Inoltre il passaggio dal lavoro salariato a quello autonomo è più veloce che un tempo. Ancora più interessante è il fatto che mentre fino agli inizi degli anni ’80 la scelta del lavoro autonomo per un immigrato tendeva a coincidere con l’integrazione nel paese ospitante, ossia con la naturalizzazione, negli ultimi due decenni questo legame non si rileva sempre stringente. Anzi, l’aspetto più interessante è rappresentato dall’emergere di capacità imprenditive in minoranze culturalmente poco integrate, specialmente nel contesto nordamericano. Anche in Italia il fenomeno sta cominciando ad acquisire una consistenza significativa, non più limitata ad esperienze circoscritte come quelle dei ristoranti o delle ditte di confenzioni per conto terzi a titolarità cinese. Naturalmente i valori medi registrati non danno ragione alle differenze tra i contesti locali e tra i diversi gruppi nazionali. L’analisi di tali diversità e l’approfondimento delle ragioni della maggiore o minore partecipazione al lavoro autonomo degli immigrati, rappresenta dunque una questione di rilievo nell’ambito della letteratura su quello che viene definito “ethnic business”. Prendiamo ora in esempio le principali ipotesi esplicative sviluppate dalla ricerca socioeconomica in questo campo, cominciando da quelle più antiche e numerose, che hanno privilegiato il versante dell’offerta di iniziativa imprenditoriale, cercando le ragioni delle diversità incontrate nelle caratteristiche interne delle popolazioni immigrate: • I primi contributi enfatizzano spiegazioni di tipo culturale F 0 E 0 ovvero basate sul background psicologico, religioso, professionale, socioculturale di alcuni gruppi etnici che li renderebbero più propensi di altri alle attività commerciali e al lavoro autonomo, grazie ad una adesione particolarmente profonda a valori come l’indipendenza, l’autodisciplina, la frugalità, l’attitudine al rischio, l’applicazione sul lavoro. La diaspora ebraica è il più noto esempio di minoranza solidale, culturalmente coesa e capace di sviluppare attività imprenditoriali. È evidente al riguardo l’influsso della teoria weberiana delle origini religiose del capitalismo. Associata ai fattori culturali è pure l’enfasi sui “vantaggi etnici”, rappresentati dalla disponibilità di lavoro coetnico affidabile e poco costoso, dalle norme morali interne alle collettività immigrate che plasmano i rapporti tra imprenditori e dipendenti, dalle forme di supporto e assistenza che i connazionali possono fornire, sotto forma di accesso al capitale e a informazioni utili. • Un secondo filone di contributi può essere classificato sotto l’etichetta di teoria dello svantaggio F 0 E 0le prime formulazioni vengono attribuite a Newcomer e a Collins e colleghi. In questa prospettiva, la scelta del lavoro autonomo è data come risposta alle difficoltà di inserimento collocazione sociale. In tutti questi casi si tratta di gruppi di immigrati che si concentrano in una determinata dislocazione spaziale e organizzano una varietà di imprese, destinate a servire dapprima il mercato interno del gruppo, soprattutto per prodotti specifici e difficilmente reperibili all’esterno, poi la popolazione in generale. Elemento basilare dell’enclave è il fatto che una quota significativa della forza lavoro di immigrati sia occupata in imprese di proprietà di altri immigrati. La nascita di queste imprese è ricondatta da Portes all’arrivo di immigrati già introdotti nel loro paese in attività commerciali e affaristiche e quindi esperti nell’atre di comprare e vendere. È questo il requisito critico: se mancano figure di questo tipo, il gruppo tende a rimanere confinato nel lavoro subordinato. Un secondo fattore necessario per avviare un’attività imprenditoriale è naturalmente il capitale. Il terzo fattore richiesto è il lavoro, che però forse è il meno problematico, visto il bacino apparentemente inesauribile di amici, connazionali, parenti alla ricerca di occupazione. Elemento centrale nella teoria di Portes è dunque la funzionalità e in una certa misura la volontarietà della segregazione occupazionale (non necessariamente residenziale) degli immigrati. L’enclave etnica oggi come per il caso delle middle man minorities viene visto come un caso particolare di economia etnica. • Un’altra spiegazione è proposta da Light che ha tentato una integrazione fra la teoria culturale e quella dello svantaggio F 0 E 0 egli sottolinea anzitutto il ruolo delle risorse etniche collettive distinguendole dalle risorse di classe(tipiche della borghesia) che rendono gli individui più o meno atti a intraprendere attività imprenditoriali. Alcuni gruppi immigrati hanno sviluppato tassi di imprenditorialità più elevati della media perché hanno potuto disporre di particolari risorse, di cui la popolazione nativa mancava. Le risorse etniche collettive comprendono quelle caratteristiche del gruppo nel suo insieme che risultano vantaggiose per l’iniziativa imprenditoriale, e che possono essere ricondotte a quattro categorie; dotazioni culturali “ortodosse”, ossia coerenti con le norme vigenti nella società d’origine, soddisfazione relativa per l’esperienza migratoria, solidarietà interna reattiva nei confronti della società esterna, orientamento ad una permanenza limitata nel tempo. IL VERSANTE DELLA DOMANDA E I TENTATIVI D’ INTEGRAZIONE Le diverse interpretazioni dell’imprenditorialità immigrati fin qui richiamate prestano il fianco ad una obiezione; anche se con accentuazioni diverse enfatizzano il versante dell’offerta.Da alcuni anni si rileva maggiore consapevolezza delle connessioni tra imprenditoria immigrata e sistemi economici delle società ospitanti. L’approfondimento della domanda di piccola imprenditoria, nelle sue interazioni con l’offerta di lavoro indipendente, si sta rilevando essenziale per comprendere le ragioni e le forme dello sviluppo di imprese etniche. Le analisi di Sassen a cui abbiamo già fatto riferimento ci aiutano a comprendere come la trasformazione nei modelli di consumo nell’ultimo decennio, e i cambiamenti dell’economia urbana incoraggino la proliferazione di piccole imprese. Come abbiamo visto nelle metropoli rigenerate dalla globalizzazione economica, il lavoro ricco degli strati professionali privilegiati genera una diffusa domanda di lavoro povero, sia nei servizi alle imprese, sia nelle attività di manutenzione, sia nei servizi alle persone e alle unità familiari quindi questi sistemi economici manifestano l’esigenza di operatori in grado di organizzare il lavoro e di produrre in maniera efficiente i servizi richiesti. La penetrazione degli immigrati in questi ambiti è anche favorita dalla diminuzione di offerta imprenditoriale da parte dei nativi in cerca di occupazioni più sicure, gratificanti e socialmente considerate. È stata quindi avanzata per il caso Americano l’ipotesi di una tripartizione delle economie metropolitane: 1. Area Centrale F 0 E 0 composta da industrie ad alta intensità di capitale in cui proprietari e lavoratori sono per lo più i nativi; 2. Area Semiperiferica F 0 E 0 economie etniche promosse da gruppi specifici di immigrati; 3. Area Periferica F 0 E 0 in cui altri gruppi etnici, i più deboli o i nuovi arrivati competono alla ricerca di occupazioni dipendenti. Aldilà della validità di questo schema che tende a semplificare eccessivamente una realtà complessa come quella della struttura occupazionale delle metropoli, il dato interessante consiste nell’individuazione di uno strato sociale a sé stante di operatori economici immigrati che svolgono vitali compiti di connessione e di fornitura di servizi. Se questi contributi pongono in rilievo l’importanza della domanda, l’analisi del caso olandese proposta da Boissevain si sofferma sul ruolo della regolamentazione dell’attività economica esercitata dai pubblici potere per comprendere le direttrici dello sviluppo delle attività indipendenti di immigrati. Non solo infatti questi ultimi si indirizzano verso settori che presentano basse soglie all’ingresso in termini di capitale e di qualificazione tecnico-professionale, ma tendono anche ad addensarsi in ambiti in cui la regolamentazione è meno rigida. L’azione dei poteri pubblici ha quindi un ruolo nella strutturazione dell’offerta di attività indipendenti da parte delle popolazioni immigrate. Questa idea è stata rilanciata, a un più alto livello di generalizzazione da Engelen; economie nazionali in cui è maggiore l’affidamento allo scambio di mercato per la regolazione dell’economia e la fornitura di servizi (mercificate) offrono maggiori chances all’azione imprenditoriale di economie più regolate dalle istituzioni pubbliche (demercificate). Per il caso italiano è empiricamente rilevante l’effetto della liberalizzazione delle possibilità di aprire attività individuali e società cooperative in seguito alla legge Turco-Napolitano. In seguito a essa, i valori sono rapidamente cresciuti, e hanno potuto affacciarsi al lavoro indipendente anche componenti nazionali che si trovavano in precedenza bloccate dalla clausola di reciprocità. In questo scenario, in cui il fenomeno del lavoro indipendente degli immigrati è inserito all’interno delle trasformazioni delle economie delle società ospitanti, merita un approfondimento il contributo di Waldinger e colleghi che hanno tentato di collegare in modo organico lo sviluppo dell’imprenditoria etnica con le esigenze dei sistemi economici avanzati. Il loro modello interpretativo enfatizza esplicitamente la “struttura delle opportunità” che stanno a fronte degli immigrati cosi come la distribuzione delle risorse e le modalità con cui sono rese disponibili alle minoranze etniche. Pertanto, l’attività economica degli immigrati viene studiata come la conseguenza interattiva del perseguimento di opportunità attraverso una mobilitazione di risorse mediate dai reticoli etnici in condizioni storiche uniche; nello stesso tempo può essere studiata come un modo con cui gli immigrati e le minoranze etniche possono rispondere all’attuale ristrutturazione delle economie occidentali. Il punto chiave del contributo di Waldinger, quello dell’interazione tra opportunità offerte dai mercati e offerta di imprenditorialità da parte degli immigrati, è stato successivamente ripreso, analizzato criticamente e ampliato da Light e Rosenstein. Essi distinguono le risorse etniche specifiche e le risorse etniche di utilità generale dove le prime forniscono a chi le possiede un vantaggio peculiare in un particolare contesto di mercato, e le seconde si riferiscono a risorse che consentono risposte versatili ogni tipo di domanda economica come il senso degli affari, il capitale umano e le risorse finanziarie. I COSTI DELL’INTRAPRENDENZA Un aspetto che molta letteratura tende a trascurare è quello dei costi umani dell’eccezionale impegno lavorativo solitamente richiesto dallo sviluppo di attività indipendenti da parte di stranieri obbligati a muovere da una condizione svantaggiata all’interno di contesti generalmente sfavorevoli. Diverse analisi hanno approfondito negli ultimi anni gli aspetti critici del fenomeno. donne, e in quanto immigrate: sono svantaggiate da stereotipi di genere che si sommano a stereotipi “etnici”, o comunque miranti a etichettare gli immigrati in senso collettivo e svalorizzante. A queste due forme di discriminazione, spesso ne viene aggiunta una terza: la discriminazione di classe. A volte viene aggiunto un quarto attributo, che aggrava la condizione di una parte delle donne immigrate: il colore della pelle, e in modo particolare l’essere definite “nere”. LA CONCETRAZIONE NEL LAVORO DI CURA L’impiego di donne immigrate in attività domestiche (di pulizia e di cura) e’ sempre più comune nel mondo sviluppato, e in Europa questo settore rappresenta il più importante serbatoio di opportunità occupazionali per le nuove arrivate, in condizione giuridica regolare o irregolare. Il fenomeno ha dunque dimensioni mondiali e rispecchia una tendenza “all’importazione di accadimento e amore dei paesi poveri verso quelli ricchi”. La tradizionale divisione di ruoli tra uomini e donne tende a trasferirsi su scala globale: i paesi ricchi del Primo mondo assumono la posizione di privilegio che spettava un tempo agli uomini, accuditi e serviti dalle donne nella sfera domestica, essendo impegnati nel lavoro nel mercato esterno; gli immigrati (e le immigrate) dai paesi poveri assumono invece le funzioni femminili, sostituendo le donne nel prodigare servizi domestici, accadimento e cure pazienti alle persone. L’assorbimento di donne immigrate (e talvolta anche di uomini) nel lavoro domestico e di cura sta d’altronde ricevendo in questi anni sempre maggiore attenzione da parte della ricerca italiana, analogamente a quanto avviene all’estero. Le donne immigrate appaiono come la parte più accettata dell’universo dei migranti; quella che nel suo complesso suscita meno timori e resistenze, anche quando e’ irregolare; quella che trova più facilmente lavoro, e tutto sommato incontra meno difficoltà anche sul versante abitativo. Per contro, quali che siano i loro livelli di istruzione, le esperienze professionali pregresse, le competenze, le capacità e le aspirazioni, la nostra società non sembra trovare altro da offrire alle donne immigrate che occupazioni di collaboratrice familiare e addetta all’assistenza di persone anziane. Una domanda di lavoro femminile cosi caratterizzata in campo domestico-assistenziale si rivela del resto molto congruente con il modello “familistico” di welfare, tipico del nostro come degli altri paesi mediterranei, posto in rilievo in modo particolare da Espino-Andersen: il sistema di protezione sociale italiano e’ basato essenzialmente su trasferimenti di reddito, soprattutto sotto forma di pensioni, e meno su servizi pubblici alle persone e alle famiglie, rispetto ai paesi dell’Europa settentrionale e centrale. Dobbiamo distinguere almeno tre profili professionali del lavoro domestico- assistenziale. 1. il primo, generalmente il più faticoso ed esigente, anche in termini psicologici, e’ quello di assistente a domicilio di anziani con problemi di autosufficienza. Oltre ai normali compiti di cura della casa, vengono qui richieste prestazioni di tipo assistenziale e parasanitario, come quelle di lavare, tenere in ordine, mettere a letto e alzare le persone assistite, tenere sotto controllo il loro stato di salute, a volte medicare, somministrare farmaci. 2. Il secondo profilo e’ quello della collaborazione familiare fissa, coresidente, un’occupazione che sembrava destinata a un declino irreversibile per carenza di candidati disponibili. Il lavoro in questo secondo ambito e’ solitamente meno pesante, ma non meno costrittivo per l’autonomia personale e la vita privata. Se i giorni di riposo e gli orari sono generalmente più rispettati, la qualità del rapporto di lavoro dipende molto dall’atteggiamento della padrona di casa e dei suoi familiari. 3. il terzo profilo e’ quello della colf a ore. Rappresenta spesso un’evoluzione dei primi due, per quanto riguarda le donne straniere, ma può anche trattarsi del primo sbocco occupazionale per le donne giunte insieme ai familiari o al seguito del marito. Il vantaggio di questa occupazione e’ infatti quello di svincolarsi dalla convivenza con i datori di lavoro, di acquisire autonomia personale, socializzazione di una nuova generazione rappresenta un momento decisivo per la presa di coscienza del proprio status di minoranze ormai insediate in un contesto diverso da quello della società d’origine. ▲ Definire le seconde generazioni e’ però meno scontato di quanto non appaia. Confluiscono in questa categoria concettuale casi assai diversi, che spaziano dai bambini nati e cresciuti nella società ricevente, agli adolescenti ricongiunti dopo aver compiuto un ampio processo di socializzazione nel paese d’origine. Alcuni preferiscono parlare di “minori immigrati”, giacché il termine “seconda generazione” sembra riferirsi primariamente ai minori nati nella società ricevente da genitori immigrati. Ma il corrispettivo “minori immigrati” appare ancora meno soddisfacente, giacché classifica come immigrati bambini e ragazzi nati in Italia (o in altri paesi riceventi) e che legittimamente potrebbero presentarsi come “italiani” o “italiani col trattino”, aggiungendo al nostro il riferimento al paese d’origine dei genitori; non comunque come immigrati, per la semplice ragione che non si sono mai trasferiti nel nostro paese da un altro luogo di origine. Semmai, si può parlare di minori o di giovani o di persone “di origine immigrata”, ma prevale ampiamente nella letteratura internazionale, nonostante le obiezioni, il concetto di seconda generazione. ▲ Un altro nodo problematico e’ rappresentato dal momento dell’arrivo: fino a che età e’ lecito parlare di “seconda generazione”? Se sui bambini in tenera età nati all’estero e trapiantati durante i primi anni di vita in un nuovo paese non si riscontrano grandi obiezioni, più controverso e’ lo status dei ragazzi e delle ragazze immigrati tra i 15 e i 18 anni, specialmente quando si tratta di minori non accompagnati, che emigrano solo, anche se spesso in relazione a strategie familiari. Rumbaut ha proposto il concetto di “generazione 1,5” e’ quella che ha cominciato il processo di socializzazione e la scuola primaria nel paese d’origine, ma ha completato l’educazione scolastica all’estero; la generazione 1,25 e’ quella che emigra tra i 3 e i 17 anni; la generazione 0-5 si trasferisce all’estero nell’età prescolare (0-5 anni). SECONDE GENERAZIONI, COESIONE SOCIALE E PROCESSI DI INTEGRAZIONE La questione delle seconde generazioni, come abbiamo rilevato, e’ cruciale rispetto alla ridefinizione dell’integrazione sociale delle società riceventi, in presenza di popolazioni immigrate ormai stabilmente insediate e destinate a rimanere. In America, e sempre più anche in Europa, si paventa la trasformazione da un paese unificato da una cultura e da una lingua comune in una lasca confederazione di comunità etnico- linguistiche seperate. Il caso delle seconde generazioni immigrate rimanda alla tensione tra l’immagine sociale modesta e collegata a occupazioni umile dei loro genitori, e l’acculturazione agli stili di vita e alle rappresentazioni delle gerarchie occupazionali acquisite attraverso la socializzazione nel contesto delle società riceventi. Da questo punto di vista, il problema delle seconde generazioni si pone non perché i giovani di origine immigrata siano culturalmente poco integrati, ma al contrario perchè, essendo cresciuti in contesti occidentali, hanno assimilato gusti, aspirazioni, modelli di consumo propri dei loro coetanei autoctoni. Studiosi hanno posto in rilievo le accresciute difficoltà dell’integrazione delle seconde generazioni di oggi, giungendo a parlare di “declino delle seconde generazione”. Portes e Rambaut sottolineano in proposito l’incidenza di due ordini di fattori. ▲ In primo luogo, pesano le trasformazioni dell’economia americana verso una struttura socioeconomica “a clessidra”, in cui stanno scomparendo le occupazioni industriali stabili e i gradini delle carriere gerarchiche tradizionali, che offrivano agli immigrati e specialmente ai loro figli la possibilità di inserirsi nella classe media, e di puntare eventualmente, con le generazione successive, verso i livelli superiori delle gerarchie professionali ▲ In secondo luogo, incide la differenza razziale, cosi come viene percepita e stigmatizzata dalla società ricevente: i migranti di allora erano bianchi, e potevano confondersi piu’ agevolmente con la maggioranza anglosassone; quelli di oggi sono in grande maggioranza di colore, restano fisicamente distinguibili, sono più facilmente assimilabili con le minoranze interne, e quindi vengono colpiti con maggiore intensità da processi di etichettatura che ne condizionano le opportunità di integrazione e di progresso sociale. INCLUSIONE: VISIONI A CONFRONTO 1. Una parte delle analisi sulle seconde generazioni riprende l’impianto strutturalista: anche i figli degli immigrati sono permanentemente svantaggiati e condannati all’esclusione dalle occupazioni migliori. L’insuccesso scolastico sanziona la discriminazione sociale. Queste posizioni sono diffuse tra gli studiosi europei, e riflettono un contesto meno ricettivo verso l’insediamento e permanente di immigrati di quello statunitense, canadese o australiano. 2. All’estremo opposto di un ideale arco delle posizioni teoriche stanno le letture neoassimilazioniste. Pur abbandonando gli aspetti più ingenui e normativi del vecchio assimilazionismo, tali per cui era “doveroso” che gli immigrati abbandonassero al più presto stili di vita e abiti mentali derivanti dalla società ricevente, questi studiosi sostengono che l’assimilazione continua ad avvenire sempre e comunque, anche inintenzionalmente. Brubaker distingue in proposito due significati basilari del concetto di assimilazione, uno generale e astratto, l’altro specifico e organico. Nel primo significato, l’aspetto centrale e’ la crescente somiglianza. Nel secondo significato, assimilare significa assorbire o incorporare, trasformare in una sostanza della propria natura. 3. Altre interpretazioni si situano in una posizione intermedia tra il polo strutturalista della discriminazione permanente e il polo liberale dell’assimilazione inevitabile. Capitolo 8: La regolazione dell’immigrazione LA REGOLAZIONE DELL’IMMIGRAZIONE La questione della regolazione e del controllo delle migrazioni è diventata negli ultimi anni di grande attualità. Lo stesso concetto di frontiera, tra l’altro, con quelli connessi di passaporto, visto, permesso di soggiorno, è relativamente recente e si è affermato compiutamente soltanto con la prima guerra mondiale. In precedenza, dopo le guerre napoleoniche era prevalsa una regolazione relativamente lasca e liberale. Inoltre sappiamo che nel passato erano soprattutto le società di provenienza a frapporre ostacoli o addirittura a proibire l’uscita dei loro cittadini, giacchè prevaleva la preoccupazione di non perdere artigiani qualificati, manodopera per l’agricoltura, baionette per l’esercito. Nel novecento, la proibizione dell’emigrazione è stata una cifra politica dei regimi totalitari: basti pensare all’epoca fascista in Italia, o alla repressione della libertà di movimento cittadini attuata per decenni in Europa dai paesi del blocco comunista. La variazione nel tempo delle politiche di regolazione è stata colta da Hammar, che ha suddiviso la storia delle migrazioni in Europa in quattro periodi: 1. Il primo è quello delle grandi migrazioni transoceaniche, iniziato verso il 1830, quando appunto gli spostamenti internazionali erano poco controllati o comunque non richiedevano visti e permessi, il interna provocati dalle ristrutturazioni delle economie, la trasformazione e i timori provocati dal processi di unificazione economica e politica, spiegano l’elevata sensibilità politica delle tematiche migratorie. POLITICHE DI CONTROLLO DELLE MIGRAZIONI: POSIZIONI A CONFRONTO Soffermiamo ora la nostra attenzione sugli approcci che si sono proposti di interpretare motivazioni ed obiettivi delle politiche di controllo delle migrazioni. Un tentativo di classificazione di queste politiche è stato proposto da Sciortino che distingue due filoni di pensiero. • Il primo situa le politiche migratorie attuate dagli stati nel contesto del sistema politico internazionale, in relazione alla loro collocazione nella mappa geopolitica del sistema- mondo. Le politiche di controllo delle migrazioni sono considerate, in questa prospettiva, come il luogo di mediazione tra forze di mercato, che spingono nel senso dell’apertura delle frontiere all’offerta di lavoro straniera, e logiche politiche, che tendono invece a chiudere i confini e a limitare la distribuzione di servizi e diritti di protezione sociale ai soli cittadini. • Il secondo filone studia invece le differenze tra i paesi nel mediare tra queste spinti divergenti, giacché le politiche di controllo assumono profili ed equilibri diversi. In proposito, si possono distinguere vari modelli interpretativi. Riprendiamo qui per sommi capi la classificazione proposta da Meyers. ▲ Un primo approccio è quello marxista e neomarxista, secondo il quale i fattori economici e i processi politici determinano le politiche migratorie. Agli immigrati si applica infatti la categoria marxiana di “esercito industriale di riserva”, una forza lavoro debole e pronta ad accettare qualunque condizione di lavoro, con la funzione di contenere le rivendicazioni e la capacità di mobilitazione della classe operaia nativa. Il capitalismo quindi influenzando l’azione deio governi, richiama ridimensiona o espelle gli immigrati in relazione agli andamenti economici. Gli interessi della classa capitalista sono peraltro disomogenei, giacchè le componenti più forti di solito preferiscono un’immigrazione regolata, mentre quelle che si trovano a competere in mercati poco remunerativi tendono a favorire l’ingresso di immigrati irregolari, che possono sfruttare. L’immigrazione inoltre, inserendosi ai livelli più bassi del sistema occupazionale, innalza lo status dei lavoratori autoctoni, con l’effetto di diminuire l’intensità del conflitto di classe. ▲ Un secondo approccio è definibile in termini di identità nazionale, in quanto sostiene che la storia peculiare di ciascun paese, la sua concezione della cittadinanza e della nazionalità, cosi come in dibattiti interni sull’identità della nazione e i conflitti sociali interni, plasmano le politiche migratorie, mentre un minor livello viene attribuito ai fattori esterni. L’analisi è quindi condotta in chiave storica, per singoli paesi, riandando alle origini della costruzione della nazione. Tre distinzioni emergono in proposito: 1. Tra società di insediamento, storicamente disposte ad accettare migrazioni su vasta scala (USA, Canada, Australia) e stati etnici (quelli europei) che tendono invece a rifiutarle. 2. Tra paesi etnicamente e culturalmente omogenei e paesi eterogenei 3. Tra paesi in cui il codice della cittadinanza privilegia lo ius sanguinis (per essere cittadini occorre essere figli di cittadini) e quelli orientati allo ius soli (è sufficiente nascere nel paese, anche da genitori stranieri) Contano però anche i problemi interni; l’inquietudine sociale alimenta infatti il timore di perdere l’identità nazionale e di rischiare un collasso dell’unità del paese, che a sua volta produce nazionalismo e xenofobia. ▲ Un terzo approccio è interpretabile come centrato sulla società o sulla politica interna, poiché assuma che lo stato serva come arena neutrale per il confronto tra gruppi di interesse e partiti: le scelte politiche sono quindi il risultato di negoziazioni e compromessi tra questi interessi, o a volte riflettono il fatto che uno dei gruppi in competizione è riuscito ad appropriarsi del potere statale. Questi gruppi sono rappresentati da imprenditori e gruppi etnici, che tendono a favorire l’immmigrazione, e sindacati e gruppi nazionalisti, che tendono a fermarla. ▲ Una prospettiva che invece considera lo stato come attore è quella istituzionale, in cui si pone in rilievo il ruolo dell’amministrazione, intesa come apparato burocratico, nell’elaborazione delle politiche nei confronti di immigrati e rifugiati. Non manca chi sottolinea la differenza tra “stati forti” più capaci di resistere alle pressioni esterne e “stati deboli”, in cui le pressioni degli attori sociali penetrano con successo nelle istituzioni pubbliche e incidono sulle politiche. ▲ Un quinto approccio è classificabile come realistico ed è tipico degli studi sulle relazioni internazionali. Articolano in “realismo classico” e “neorealismo”, vede lo stato come attore principale e lo considera come un attore unitario e razionale, preoccupato prima di tutto della sicurezza nazionale. ▲ Il sesto approccio può essere definito liberale o neoliberale. In contrasto con i realisti, ha una visione più ottimistica della crescente interdipendenza internazionale e dello sviluppo di istituzioni sovrannazionali, che vede come veicoli per la diffusione della democrazia e della cooperazione economica. Da inoltre rilievo ad attori non statali, come le organizzazioni internazionali e le imprese multinazionali, che entrano nell’arena delle relazioni interstatali. Nell’approccio neoliberale rientra anche la teoria della globalizzazione, secondo la quale la sovranità degli stati e la loro autonomia stanno indebolendosi; varie pressioni da quelle economiche a quelle relative ai diritti umani, da quelle determinate dalle organizzazioni internazionalio a quelle prodotte internazionalmente dalle lobby etniche e umanitarie, tendono ad erodere gli spazi d’azione dei governi nazionali nel definire le politiche migratorie. Un’altra classificazione utile per inquadrare le politiche di regolazione delle migrazioni è quella proposta da Brochmann, basata non sui fondamenti teorici, ma su un elemento sostantivo e cruciale come l’organizzazione dei controlli applicati ai migranti. Vengono così distinti controlli esterni e controlli interni, per ognuno dei quali si può individuare una dimensione esplicita e un’altra implicita. Possiamo cosi identificare: 1. Controllo esterni espliciti: sono rappresentati dai sistemi dei visti, dei permessi di soggiorno, delle regole per l’ingresso e la permanenza, messi in campo dagli stati nazionali per governare l’accesso al proprio territorio; 2. Controlli interni espliciti: si sviluppano in parte come conseguenza delle imperfezioni dei controlli esterni, per intercettare gli immigrati che soggiornano illegalmente sul territorio anche quando sono entrati regolarmente, come nel caso dei cosiddetti overstayers (coloro i cui permessi di soggiorno sono scaduti), e sono affidati principalmente alle forze armate; 3. Controllo esterni impliciti: hanno a che fare con forme di regolazione non dichiarata o indiretta in materia di ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri, come nel caso delle modifiche restrittive apportate da vari paesi al concetto di “rifugiato” o dell’introduzione di nuove definizioni, come quella di “paese terzo sicuro”, per addossare ad altri l’onere dell’accoglienza dei richiedenti asilo; 4. Controlli interni impliciti: si riferiscono ai processi di chiusura sociale che assumono la forma di barriere invisibili nei confronti dell’accesso degli immigrati a economici riceventi e ciò rischia di condizionare pesantemente i risultati della lotta contro l’immigrazione illegale. Alcune voci però hanno contestato la visione ormai canonica della “Fortezza Europa” sempre più arroccata e impermeabile all’ingresso di cittadini esterni (provenienti dai paesi poveri). La metafora della Fortezza Europa è contraddetta da 3 aspetti dell’esperienza migratoria europea degli ultimi anni: a)la crescita netta del volume a partire dal 1985; b)il ragguardevole incremento delle migrazioni temporanee, specialmente dall’Europa dell’Est, accompagnato da una diffusione di movimenti transfrontalieri di vario tipo; c)lo spostamento infine verso una posizione favorevole a nuovi ingressi da parte dei responsabili politici nazionali ed europei, dopo anni di retorica sullo stop all’immigrazione. Altri contributi hanno colto invece i limiti strutturali degli sforzi governativi per controllare le migrazioni, chiamando in causa più ampiamente, oltre ai mercati, i fattori che inducono la partenza nelle società di origine, il ruolo delle strutture intermediarie che favoriscono i trasferimenti, a partire dai network di connazionali, i differenti interessi e la frammentazione delle competenze all’interno degli stessi apparati statali. I governi appaiono cosi più deboli, condizionati, contraddittori nella loro azione, specialmente nell’attuazione operativa delle decisioni politiche, di quanto la produzione normativa o i discorsi ufficiali facciano pensare. Due studiosi olandesi, Penninx e Doomernik hanno messo a fuoco in maniera più analitica le ragioni del limitato successo degli sforzi politici per regolare le migrazioni, ponendo in risalto i seguenti aspetti: • Solo eccezionalmente i governi dei paesi riceventi intervengono sul complesso di variabili che operano nei paesi d’origine favorendo l’emigrazione • La regolazione dell’immigrazione è spesso una risposta a breve termine, in genere formulata sotto la pressione delle opinioni pubbliche, nei confronti di processi a lungo termine; • Gli strumenti politici, anche nelle società riceventi, si focalizzano solo su una parte dei movimenti migratori e su un numero limitato di variabili; per esempio, difficilmente possono incidere sullo status degli immigrati naturalizzati, protetti dalle convenzioni internazionali o insigniti di uno status di residenti stabili; • Le regole scontano una tensione tra il riconoscimento di diritti individuali e la gestione dei flussi migratori: ad esempio, la definizione di quote di ingresso può riguardare l’immigrazione per lavoro, ma non l’ammissione di rifugiati o i ricongiungimenti familiari; • Le popolazioni immigrate insediate stabilmente rappresentano a loro volta un importante fattore nei processi migratori complessivi, contribuendo a produrre nuova immigrazione; d’altronde, la restrizione dei loro diritti contrasterebbe con le politiche volte all’integrazione e alla partecipazione alla vita delle società riceventi. Non vanno altresì dimenticati alcuni fattori addizionali che condizionano l’attuazione o l’impatto delle politiche migratorie. In primo luogo, l’applicazione di politiche restrittive nei confronti di certe categorie di stranieri può interferire con altri importanti obiettivi politici , come l’apertura al turismo internazionale o l’incremento degli scambi culturali. In secondo luogo, può cozzare con i valori etici delle società democratiche. Infine le organizzazioni che dovrebbero attuare le politiche hanno sovente molte responsabilità e priorità a fronte di risorse scarse e limitate; pensiamo ad esempio ai compiti connessi alla sicurezza che impegnano le forze di polizia. Le difficoltà pratiche a chiudere le porte dell’immigrazione sono confermate dal fatto che tutti i paesi europei ammettono qualche forma di immigrazione per lavoro, oltre ai ricongiungimenti familiari e all’accoglienza dei rifugiati. Le possibilità di ingresso legale oggi disponibili, tra molte cautele e resistenze, nei maggiori paesi europei, si collocano prevalentemente ai due poli estremi della struttura occupazionale: o si tratta di autorizzazioni per lavoro stagionale, soprattutto in agricoltura e nell’industria turistica, oppure di lavoratori ad alta qualificazione, soprattutto nei settori tecnologicamente avanzati. • In Germania, nel 2000 è stata introdotta la carta verde, per l’ammissione sul territorio di cittadini extracomunitari con competenze documentate nel settore informatico e delle comunicazioni. Tra l’agosto del 2000 e il febbraio del 2001, sono state rilasciate poco più di 5.000 carte verdi, rispetto alle 20.000 programmate. La nuova legge sull’immigrazione (approvata nel marzo del 2002 e annullata a dicembre per un vizio procedurale) prevede l’introduzione di un sistema a punti, volto a incentivare a determinate condizioni l’arrivo di personale qualificato. • In Francia sono pure concessi permessi di soggiorno per lavoratori qualificati, che hanno conosciuto un certo incremento, passando da 7.500 nel 2000 a 9.600 nel 2001. I valori restano comunque lontani da quelli americani. Crescono inoltre i permessi per i lavoratori stagionali, destinati specialmente all’agricoltura, da 7.900 nel 2000 a 10.800 nel 2001. • In Gran Bretagna, il sistema dei permessi di soggiorno per lavoro ha subito modificazioni sempre più restrittive, al punto che oggi soltanto i lavoratori altamente qualificati sono effettivamente bene accolti. Per questi è stato varato nel 2002 l’High Skilled Migrant Programme, basato su un sistema a punti, che tiene conto dell’istruzione scolastica, dell’esperienza professionale, della retribuzione percepita nell’ultimo anno, dei traguardi raggiunti nel proprio settore di attività. Nel primo anno il programma ha interessato però soltanto 1.300 persone, per lo più esperti finanziari europei e americani. Per gli altri lavoratori, l’autorizzazione deve essere richiesta dal datore di lavoro, che deve dimostrare di aver provato a impiegare per la stessa posizione un cittadino britannico; il contratto di lavoro deve preesistere all’ingresso. • In Italia vige un sistema di quote di ingresso programmate annualmente, che resta destinato in assoluta prevalenza a saturare i fabbisogni di lavoro manuale ed esecutivo, e negli ultimi anni ha privilegiato in maniera più marcata la componente del lavoro stagionale. Un aspetto su cui riflettere è rappresentato dal fatto che le autorizzazioni all’ingresso sono congegnate in modo da premiare i paesi che hanno sottoscritto accordi con l’Italia per contrastare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. Si caricano quindi di valenze che hanno poco a che fare con i fabbisogni di manodopera della nostra economia, tanto che è stato il ministero degli Esteri a preoccuparsi negli ultimi anni di sollecitare i decreti relativi ai flussi autorizzati. Tendono a diventare una complemento della politica di controllo delle frontiere e, in questa vesta, potrebbero persino creare reiterate anche in periodi di recessione economica. Alcune restrizioni si sono abbattute sul diritto d’asilo e sulla possibilità di ingresso per ragioni umanitarie. Questo canale d’altronde è stato sempre più utilizzato quando si sono severamente ristrette le possibilità di immigrazione economica. Negli ultimi anni sono state varate delle misure volte ad ostacolare l’ingresso nei paesi europei tradizionalmente più generosi con i rifugiati e a far diminuire il numero dei postulanti. Tra queste la più incisiva è quella che responsabilizza i paesi di transito o di primo ingresso; è li, alla periferia dell’Unione europea, che il rifugiato deve presentare domanda d’asilo, e comunque viene attribuito a questi l’obbligo di accoglierlo. Frontiere sempre più chiuse, contro interconnessioni sempre più fitte e pressioni di vario genere a favore dei nuovi ingressi; in questa cornice si inserisce il fenomeno dell’immigrazione irregolare, con i suoi attori, processi, intermediari e persino “agenzie” specializzate. Le politiche di controllo comportano infatti, come ovvia conseguenza, che non tutti i migranti che di fatto si trovano in un determinato territorio possiedono un’autorizzazione al soggiorno. Coloro che non ne godono sono usualmente distinti in due gruppi; immigrati irregolari e clandestini (oltre alle vittime del traffico). Questa distinzione ha un valore più analitico che operativo. Benché la situazione di semplice irregolarità si emarginata) formata da istituzioni religiose, associazionismo volontario, sindacati, esperti è particolarmente generoso nei loro confronti. Inoltre un immigrato irregolare può attendere sempre un provvedimento di sanatoria per accedere allo status di residente legale. Ne consegue che una fase di soggiorno illegale e lavoro sommerso è un tratto quasi normale del percorso biografico dei migranti oggi residenti in Italia. In questo scenario possono essere individuati alcuni tratti rilevanti dei provvedimenti di sanatoria attuati in Italia: ▲ Il carattere collettivo e di massa: a differenza di altri paesi, in cui le regolarizzazioni sono provvedimenti individuali, concessi caso per caso, legati a una residenza prolungata ma senza scadenze temporali di presentazione, nel nostro paese la strada adottata è stata quella di provvedimenti con termini rigidi, concepiti e organizzati in modo tale da produrre affollamenti e code agli sportelli, lunghi tempi di attesa, difficoltà di esame approfondito delle istanze, con l’inevitabile ricerca di escamotage e soluzioni di comodo. ▲ La ricorrenza periodica, a scadenze abbastanza ravvicinate: la sanatoria varata dal governo Berlusconi è stata la quinta nell’arco di quindici anni. È difficile non pensare agli effetti discorsivi che questo dato comporta sulle aspettative e sulle strategie di chi punta a emigrare per cercare lavoro in un paese europeo: nel contesto internazionale, l’Italia rischia di apparire come un paese in cui, se si riesce ad entrare, non mancano le opportunità di impiego nell’economia sommersa e nel giro di qualche anno è relativamente facile ottenere un permesso di soggiorno. ▲ Le grandi dimensioni raggiunte, specialmente dall’ultimo provvedimento: l’Italia è già, per dimensioni demografiche, il maggior paese dell’Europa meridionale, ed è il più interessato dalle migrazioni internazionali. Le quattro sanatorie varate tra il 1986 e il 1998 hanno riguardato 790.000 persone; l’ultima da sola ha legalizzato il soggiorno di altre 650.000. Nonostante la presenza probabile di un certo numero di regolarizzazioni di comodo, va osservato che si stratte del 46% del numero complessivo degli immigrati titolari di permesso di soggiorno. ▲ Gli elevati livelli di discrezionalità lasciati di fatto alla macchina burocratica e ai funzionari che concretamente esaminano le istanze: un problema che esiste in generale per quanto riguarda il trattamento degli immigrati, e non solo in Italia, ma che proprio in occasione delle sanatorie dà luogo a casi clamorosi di disparità di trattamento, di contestazioni prolungati e persino di peregrinazioni da una Questura all’altra, alla ricerca di quella più disponibile ad accogliere le ragioni dell’immigrato regolarizzando. Capitolo 9: Le politiche per gli immigrati TRE MODELLI DI INCLUSIONE Vi sono tre principali modelli di inclusione delle popolazioni immigrate: temporaneo, assimilativo, pluralista. 1. Il primo modello e’ quello dell’immigrazione temporanea, esemplificato, almeno fino alla riforma del ’99, dal caso tedesco, e comunque rintracciabile in gran parte delle esperienze europee del dopoguerra. Qui l’immigrazione e’ stata vista come un fenomeno contingente, di lavoratori che venivano chiamati in quanto necessari per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro, ma che non dovevano mettere le radici: ci si attendeva che tornassero in patria dopo un certo periodo, per essere eventualmente sostituiti da altri. Agli inizi, il permesso di soggiorno era collegato al permesso di lavoro, e il licenziamento comportava automaticamente l’espulsione. In alcuni casi, si è tentato di imporre forme di rotazione della manodopera immigrata, negando il permesso di soggiorno dopo un certo numero di anni di permanenza e richiamando nuovi immigrati. Anzi i paesi che adottavano questo modello rifiutavano di definirsi come paesi di immigrazione e parlavano, come nel caso tedesco, di “lavoratori ospiti”(gastarbeiter). Un modello di questo tipo risponde ad una concezione funzionalistica dell’immigrazione, strettamente subordinata alle convenienze del paese ricevente e nella quale l’integrazione dei lavoratori ospiti è limitata al minimo.nello stesso tempo non è ammesso o è severamente ostacolato il ricongiungimento familiare. Castles parla di esclusione differenziale, in quanto gli immigrati sono incorporati in certe aree della società, soprattutto il mercato del lavoro, ma si vedono negato l’accesso ad altre (come la cittadinanza e la partecipazione politica). Tipica di questo modello è una concezione chiusa, “etnica” della cittadinanza, attribuita in base al principio del Ius sanguinis, ossia dalla discendenza da cittadini del paese. Questo rende assai arduo e spesso impossibile la naturalizzazione degli immigrati. Anche le seconde e persino le terze generazioni non accedono automaticamente alla cittadinanza e sono considerate straniere. Abbiamo parlato di questo modello al passato. Va tuttavia notato che da alcuni anni, in Germania, si assiste a un revival del modello nei confronti della nuova immigrazione per lavoro, in una versione che potremmo definire compromessa, o addirittura just in time: si tratta dell’ammissione di lavoratori stagionali, per pochi mesi, in risposta a carenze di manodopera in determinati settori. 2. Il secondo modello puo’ essere definito assimilativo, ha come principale espressione storica il caso americano del passato, e sul suolo europeo ha trovato in Francia la manifestazione piu’ esplicita. In questo caso l’orientamento delle politiche e’ verso una rapida omologazione anche culturale dei nuovi arrivati. Vige infatti una concezione “repubblicana” della nazione come comunità politica, aperta all’immissione di nuovi venuti, a patto che aderiscano alle regole della politica democratica e adottino la cultura della nazione. E’ un modello che punta all’integrazione degli individui, intesi come soggetti sprovvisti di radici rispetto ad una comunità di provenienza e retaggi tradizionali. I migranti per poter far parte a pieno titolo della nazione devono rendersi indistinguibili dalla maggioranza della popolazione e le istituzioni devono accompagnarli in questo processo secondo il principio di eguaglianza. La naturalizzazione è cosi relativamente agevole, non comporta tempi lunghissimi e richiede condizioni minimali; oltre ad alcuni anni di soggiorno, la fedina penale pulita, la conoscenza della lingua ed eventualmente alcune conoscenze di base circa la storia ed i fondamenti costituzionali della nazione. Le seconde generazioni accendono alla cittadinanza automaticamente, in base al principio dello Ius soli. La convinzione della superiorità del proprio modello civile e nazionale ha in genere informato gli atteggiamenti dei responsabili politici circa la capacità di assimilare gli stranieri in quanto individui, mentre la formazione di comunità minoritarie è stata a volte scoraggiata (vedi caso francese), in quanto foriera di appartenenze parziali contrapposte alla nazionalità. La pretesa uguaglianza sul piano del diritto ha inoltre ritardato la presa di coscienza di discriminazioni di fatto subite dagli immigrati nel lavoro, sistema educativo, nei rapporti sociali. 3. Il terzo modello e’ quello pluralista, in cui si convergono esperienze storiche, matrici culturali, orientamenti politici diversi. Può’ essere distinto in due varianti. La prima e’ quella liberale o laissez faire tipica degli Stati Uniti degli ultimi decenni, in cui le differenze culturali sono tollerate, ma non favorite da un impegno diretto dello stato. La seconda introduce invece politiche multiculturali esplicite, che implicano la volontà del gruppo di accettare le Possiamo quindi parlare di un modello implicito di inclusione degli immigrati, a lungo ignorati dalle politiche ufficiali o soggetti a misura parziali ed emergenziali. In questo contesto problematico, la legge Turco-Napolitano ha tentato di dare organicità alle politiche migratorie, contemperando enfasi sulla parità giuridica e rispetto delle differenze culturali non lesive dei diritti individuali. Quanto alle politiche degli ingressi, la novità più rilevante era rappresentata, oltre che dal rilancio del sistema delle quote, dall’istituto dello sponsor, che forniva garanzie per consentire l’accesso e il soggiorno in Italia per un anno di una persona in cerca di lavoro, all’interno delle quote predeterminate. La legge Bossi-Fini ha eliminato quest’ultima possibilità e introdotto una regolamentazione più restrittiva degli ingressi e delle possibilità di soggiorno degli immigrati. Per vari aspetti, l’impostazione soggiacente richiama il sistema dei lavoratori ospiti, ammessi sul territorio in maniera temporanea, collegata a specifiche esigenze economiche e dunque reversibile. CITTADINANZA E DIRITTI Secondo il filosofo americano Walzer si possono individuare tre concezioni della cittadinanza. La prima concepisce le comunità nazionali come famiglie, di cui si diventa membri soltanto per nascita o per matrimonio: e’ la più antica e la più restrittiva. La seconda vede invece come circoli o club, dei quali si può entrare a far parte se si e’ ammessi da chi e’ gia membro di diritto. La terza, più liberale, e’ invece paragonabile a un quartiere, in cui ci si può trasferire e risiedere a piacere. I tre criteri individuati da Walzer non si ritrovano esattamente nei sistemi giuridici, ma possiamo senz’altro dire che la concezione della cittadinanza come famiglia trova un corrispettivo nel diritto di sangue (ius sanguinis): per essere cittadini di un determinato paese, occorre essere figli o almeno discendenti, di persone originarie di quel paese. È un’idea particolarmente radicata nei paesi che hanno avuto un’importante storia di emigrazione verso l’estero; questi in genere hanno voluto mantenere un legame con i propri concittadini sparsi nel mondo, incoraggiandoli a mantenere l’identità nazionale e consentendo un agevole “rientro” ai loro discendenti, nella patria ancestrale; la Germania ne è stata un caso emblematico fino alla riforma del 1999, ma anche l’Italia ha avuto una concezione analoga della cittadinanza. Anzi, nel ‘92, proprio quando il paese si era aperto alla immigrazione internazionale, il codice della cittadinanza è stato riformato nel senso di prevedere un più agevole recupero della cittadinanza italiana per i discendenti dei nostri antichi emigranti, inasprendo allo stesso tempo le regole e prolungando i tempi di attesa necessari per gli stranieri che intendono chiedere la naturalizzazione. Gli anni di residenza legale infatti sono stati portati a 10, ridotti a 4 per i cittadini di altri paesi dell’Ue. La concessione della cittadinanza inoltre non è automatica, ma l’amministrazione dello stato si riserva un’ampia discrezionalità nel valutare l’opportunità dell’inserimento dello straniero nella comunità nazionale. Rispetto ad altri casi, è invece particolarmente facile diventare italiani per matrimonio (si parla di ius connubi) mentre diversi altri paesi hanno reso questa tipologia di norma molto più severa per evitare frodi. Sono sufficienti per chi sposa un cittadino o una cittadina italiana, sei mesi di residenza legale sul territorio nazionale, oppure 3 anni dalla data del matrimonio. A livello europeo il criterio del diritto di sangue sta perdendo terreno a vantaggio del diritto di suolo (ius soli), che possiamo solo in parte equiparare al circolo di Walzer: per il diritto di suolo, e’ la nascita sul territorio a porre le premesse per poter richiedere o in altri casi per ottenere automaticamente la cittadinanza del paese. Proprio in Germania l’innovazione legislativa è andata in questa direzione, anche se nei fatti restano ancora pochi gli immigrati di seconda o terza generazione che hanno potuto accedere alla cittadinanza tedesca. Ritroviamo invece l’idea della cittadinanza come quartiere nell’evoluzione giuridica verso la naturalizzazione per diritto di residenza (ius domicilii). Negli Stati Uniti possono ottenere la cittadinanza gli stranieri maggiorenni, muniti di permesso di soggiorno, che hanno abitato in maniera continuativa nel paese per almeno cinque anni, e dimostrano di conoscere la lingua e la storia americana. Nel 2002, le naturalizzazioni hanno raggiunto la cifra record di 574.000. In Svezia si può diventare cittadini dopo cinque anni di residenza legale, ed e’ ammessa anche la doppia cittadinanza; In Canada e’ possibile ottenere la cittadinanza dopo meno di tre anni di soggiorno, tanto che l’85% degli immigrati recenti sono diventati cittadini canadesi; in Australia sono sufficienti due anni di permanenza legale. Weil, comparando 25 leggi sulla cittadinanza di paesi avanzati, e’ giunto a concludere che si sta verificando un processo di convergenza che combina, in modo relativamente liberale, elementi di ius sanguinis e ius soli. Mentre la Germania si e’ aperta verso il riconoscimento della cittadinanza ai figli di immigrati, altri paesi, come Il Regno Unito, che avevano tradizioni più liberali, hanno ridefinito in senso restrittivo i criteri di accesso. Tre fattori hanno favorito questa convergenza: l’influenza dei valori democratici, la stabilizzazione dei confini nazionali e un’esperienza comune di società di immigrazione. Anche quando non accedono alla naturalizzazione, gli immigrati residenti da lungo tempo sono in genere destinatari di un pacchetto di garanzie e di diritti più consistente di quello dei nuovi arrivati. Di solito hanno titoli di soggiorno più stabili e più difficilmente revocabili del semplice permesso di soggiorno, conseguibili dopo 5 anni di residenza continuativa, portati a 6 dalla nuova legge Bossi- Fini. In alcuni paesi, come la Svezia, gli immigrati da diversi anni possono votare ed essere eletti nelle elezioni per le amministrazioni locali. Appaiono possibili anche aperture al voto nei referendum e nelle elezioni europee. Più complicate e di fatto improbabile appare la concessione del diritto di voto alle elezioni politiche nazionali. I più liberali semmai preferiscono la strada di una più rapida naturalizzazione, includendo gli immigrati nella comunità dei cittadini. Anche per questa barriera insormontabile, lo statuto giuridico degli immigrati lungoresidenti tende ad essere rafforzato e viene considerato un caso intermedio tra quello dello straniero e quello del cittadino a pieno titolo. Si è rispolverato l’antico termine inglese di “denizen”. Il tema del voto, almeno locale, e soprattutto della naturalizzazione, assume grande rilievo come soluzione per porre rimedio a una contraddizione posta in rilievo come la soluzione per porre rimedio a una contraddizione posta in rilievo ancora da Walzer: gli immigrati hanno nelle società sviluppate uno statuto simile a quello dei meteci nell’Antica Atene, ossia di stranieri tollerati in quanto lavoratori disposti a sobbarcarsi le mansioni più ingrate, ma esclusi dai processi decisionali della polis. Questa per Walzer e’ una forma di tirannia: alcuni decidono anche per gli altri, che pure risiedono stabilmente nello stesso territorio e sono sottoposti alle medesime leggi. Il ragionamento può essere integrato osservando che gli immigrati, quando lavorano regolarmente, accedono a un pacchetto di benefici previdenziali collegati al lavoro dipendente; assistenza sanitaria, pensionistica, antinfortunistica e tutela contro la disoccupazione. I loro figli se nascono o vengono ammessi sul territorio, possono accedere all’istruzione su un piano di parità con i cittadini nazionali. È il nucleo di quello che Marshall, nel suo classico lavoro (2002) ha definito “cittadinanza sociale”. Nel percorso normale, i tre elementi della cittadinanza marshaliana vengono acquisiti in una sequenza che parte dai diritti civili (libertà parola, opinione, protezione proprietà, diritto ottenere giustizia), si estende a quelli politici (partecipazione all’esercizio del potere, come elettore ed eventualmente come eletto), per includere infine i diritti sociali. Per gli immigrati, la sequenza invece si inverte; i diritti sociali, almeno quelli basilari collegati al lavoro dipendente, sono stati i primi ad essere concessi. La ragione sta nel fatto che si voglia equiparare il costo del lavoro degli immigrati con quello dei lavoratori nativi, abbattendo il rischio di concorrenza al ribasso nelle condizioni d’impiego. Però diritti sociali non supportati da una base di diritti politici rischiano però di restare fragili e revocabili, apparendo come una sorta di concessione che la comunità dei cittadini a pieno titolo fa a chi arriva dall’esterno e non gode del beneficio dell’appartenenza. Questo cruciale problema mostra le difficoltà di tenuta dello schema di Marshall di fronte all’arrivo e all’insediamento di popolazioni immigrate. Nella sua impostazione lo stato-nazione era visto LA DIMENSIONE LOCALE Le politiche nazionali forniscono un inquadramento imprescindibile per i processi di incorporazione degli immigrati nelle società riceventi, ma molte misure e interventi specifici vanno poi sviluppati a livello locale, dove le persone concretamente vivono. Si riscontra dunque una crescente consapevolezza della dimensione locale dell’appartenenza sociale e della cittadinanza. Lo scambio quotidiano in cui si ridefinisce l’identità delle persone deve molto alle interazioni e ai contatti che si producono a livello locale, alle condizioni concrete di vita e alle opportunità di conseguire un’esistenza migliore. Un territorio con le sue istituzioni e le sue politiche sociali, può dunque esercitare un ruolo attivi nel configurare forme più avanzate di inclusione dei migranti nella comunità locale e nel promuovere rapporti pacifici e reciprocamente arricchenti tra vecchi e nuovi residenti. Anche il tema delle differenze culturali, difficilmente accolto a livello di legislazioni nazionali, può trovare a livello locale maggiori possibilità di ricezione. Decentramento e autonomia dei poteri locali tendono altresì a istituire sensibili differenze nei dispositivi di accoglienza all’interno dello stesso paese. Un tentativo di proporre una tipologia delle politiche locali per gli immigrati in Europa e’ stato compiuto da Alexander, sulla base di materiali di ricerca relativi a 25 contesti urbani. Il suo approccio collega le politiche locali a diverse visioni delle relazioni tra autoctoni e stranieri, riproducendo a livello decentrato, a grandi linee, le impostazioni delle politiche nazionali che abbiamo considerato in precedenza, con l’aggiunta di una sorta di “punto zero”, in cui la presenza di immigrati viene semplicemente ignorata dalle autorità locali. Vengono quindi individuati: ▲ Un modello transitorio, in cui l’immigrazione e’ vista come un fenomeno di passaggio, sostanzialmente ignorato, che non sollecita un’assunzione di responsabilità e non viene fatto oggetto di politiche vere e proprie, se non come reazioni ad hoc a situazioni di crisi. ▲ Un modello lavoratore ospite, in cui l’immigrazione e’ vista come una necessità economica temporanea, e le politiche locali assumono compiti limitati, di risposta a bisogni di base; ▲ Un modello assimilazionista, in cui l’immigrazione e’ considerata come un fenomeno permanente, ma la sua alterità culturale e’ ritenuta passeggera: le politiche locali puntano all’integrazione a lungo termine, attraverso politiche generali, basate sugli individui e non su criteri etnici, miranti a promuovere pari opportunità di inclusione; ▲ Un modello pluralista, postmoderno, in cui l’immigrazione non solo e’ assunta come un tratto permanente, ma si accetta il fatto che la sua alterità sia destinata a persistere. Le politiche locali si svolgono pertanto al riconoscimento della diversità all’interno di città multiculturali, allo sviluppo di azioni positive per l’empowerment delle minoranze e al sostegno delle organizzazioni comunitarie. Alexander distingue inoltre quattro ambiti di azione politiche, in ognuno dei quali si riscontrano approcci e misure diverse a seconda dei modelli di riferimento: 1. giuridico-politico, in cui trovano luogo istituzioni come i comitati consultivi degli immigrati e le relazioni con le associazioni rappresentative; 2. socioeconomico, dove si collocano le misure relative all’inclusione nel mercato del lavoro, nei servizi scolastici ed educativi, nei servizi sociali, nonchè la gestione dell’immigrazione come problema di ordine pubblico; 3. culturale-religioso, riferito ai rapporti con le istituzioni religiose delle minoranze e alla consapevolezza pubblica della diversità etnica; 4. spaziale, relativo alle politiche abitative, al trattamento delle enclave etniche, all’uso simbolico dello spazio . in Italia le ricerche sulle politiche locali per gli immigrati sono ancora scarse. Possiamo ricordare però la ricerca diretta da Zucchetti sulle politiche degli enti locali delle città capoluogo della Lombardia. Due elementi fondamentali accomunano i modelli di intervento locale e si riferiscono all’ottica emergenziale e alla preoccupazione di rendere poco visibili gli interventi stessi. La stessa ricerca distingue cinque dimensioni delle politiche locali, articolate come un continuum tra due polarità: 1. intervento settoriale e intervento globale: rispetto a una delega settoriale, di solito nell’ambito dei servizi sociali, si rilevano tentativi di passare ad approcci piu’ organici e coordinati. 2. intervento socioassistenziale e intervento promozionale: la prima fase degli interventi si e’ ispirata a una concezione degli immigrati come soggetti svantaggiati da assistere, le tendenze piu’ vanno nella direzione dell’emancipazione degli immigrati, visti come risorsa per lo sviluppo locale e come attori in grado di partecipare attivamente alle iniziative che li riguardano. 3. informalità/spontaneismo e strutturazione dell’intervento: in diverse realta’ locali gli interventi per gli immigrati sono scarsamente istituzionalizzati, in base alla preferenza per approcci “leggeri” e poco visibili, in altre sono maggiormente formalizzati, con strutture ad Hoc 4. iniziative frammentate e attivazione di una rete: il quadro prevalente rivela scarso coordinamento e carente collaborazione tra le diverse istituzioni; quando esiste una rete, e’ frutto dell’azione del responsabile del servizio, più che una scelta istituzionale. 5. delega e concorrenzialità nei rapporti con volontariato e privato sociale: un dato acquisito e’ in tutte le realtà locali il massiccio apporto del Terzo settore. Il coinvolgimento da parte dell’ente locale deriva però’ soprattutto, anche in questo caso, dall’iniziativa spontanea degli operatori. IL RUOLO DELLE INIZIATIVE SOLIDARISTICHE Un approccio alla classificazione delle attività svolta dal settore solidaristico a sostegno degli immigrati può essere elaborato a partire dalle tre classi di organizzazioni non profit identificate da Douglas(’87); le “organizzazioni propriamente caritative” o di cura nei confronti delle categorie dei beneficiari; “i gruppi di pressione” che svolgono l’attività di advocacy (cioè di tutela dei diritti) a favore dei soggetti socialemente (e politicamente) deboli; le “organizzazioni di mutuo aiuto”, derivanti dall’autorganizzazione di quanti condividono una determinata condizione di bisogno. Ponendo in relazione la tipologia di Douglas con gli interventi a favore della popolazione immigrata, possiamo agevolmente assimilare i gruppi di mutuo aiuto con le reti e l’associazionismo etnico. L’attività di cura nel caso italiano, può invece essere distinta in due categorie ; quella prestata su base propriamente volontaria, con un utilizzo esclusivo o quasi esclusivo di personale non retribuito e in genere non specializzato; e quella svolta da organizzazioni strutturate che utilizzano personale retribuito e specializzato, giovandosi di finanziamenti soprattutto pubblici (anche se non adeguati rispetto ai bisogni). Le modalità di azione dell’associazionismo nei confronti degli immigrati possono essere quindi suddivise in almeno quattro idealtipi, in molti casi come sempre mescolati e intrecciati nelle esperienze concrete: un primo tipo è quello del tradizionale associazionismo caritativo, caratterizzato dall’aiuto diretto alle persone in difficoltà, offerto su base volontaria e composto di prestazioni a bassa soglia; il secondo è definibile come associazionismo rivendicativo( di advocacy), o di tutela dei diritti, attivi soprattutto sul fronte dell’iniziativa politica e culturale, come la lotta contro gli abusi e discriminazioni o la richiesta di cambiamenti legislativi; infine va sottolineato l’emergere di quello che può essere definito associazionismo imprenditivo, che tende a organizzarsi in forma cooperativa e a fornire agli immigrati servizi più complessi. Da ultimo occorre ricordare l’associazionismo promosso dagli immigrati. All’interno di quest’ultimo gruppo vanno distinte associazioni formali e reti etniche informali spesso frutto del’autorganizzazione degli immigrati, secondi i canoni del mutuo aiuto, in genere sulla base della comune nazionalità. Si può però affermare che complessivamente le donne sono vittime di reato, piuttosto che soggetti attivi. Un problema che rientra nella questione più generale della vittimizzazione (o auto vittimizzazione) degli immigrati: in quanto componenti socialmente deboli, sono sistematicamente più esposti della popolazione nativa ad abusi e sfruttamento, sia da parte di altri immigrati, sia ad opera di cittadini nazionali. Una parte dei reati ascritti agli immigrati dipende dalla loro condizione di stranieri dallo status, soggetti a controlli e limitazioni della libertà di movimento: i reati di declinazione, di false generalità, resistenza a pubblico ufficiale e più specificatamente di violazione delle leggi contro l’immigrazione, rimandano alle modalità di ingresso nel nostro e negli altri paesi. Si tratta dei cosiddetti reati di immigrazione per i quali la denuncia non si riferisce ad un delitto, ma al semplice fatto di trovarsi sul territorio senza essere in regola. IMMIGRATI E DEVIANZA: LE INTERPRETAZIONI Anche su questo argomento la riflessione sociologica propone tuttavia interpretazioni diverse. Proprio questo tema fa discutere e divide maggiormente gli studiosi dei processi migratori; l’alta sensibilità politica e sociale del tema influisce anche nel dibattito scientifico. Possiamo distinguere, a proposito della devianza degli immigrati, due scuole di pensiero. 1. La prima, definibile come scuola “classica” assume i dati statistici sul fenomeno come un punto di riferimento sostanzialmente obiettivo e quindi veritiero. Osserva pertanto che gli immigrati, nell’Italia di oggi come in altri paesi, sono sovrarappresentati tra i denunciati, i condannati e i carcerati. L’analisi dei dati statistici mostra che i tassi di devianza degli immigrati sono variabili nello spazio e nel tempo: in certi periodi e paesi, gli immigrati sono più ligi alle leggi della popolazione nativa, in altri accade il contrario. In Europa e in America negli anni sessanta, le ricerche criminologiche avevano dimostrato che gli immigrati stranieri non commettevano più reati degli autoctoni. Dalla fine degli anni ’70 invece è avvenuta una inversione di tendenza in diversi paesi, e i tassi di criminalità degli stranieri hanno cominciato ad aumentare. Questo fattore si spiega con due diversi fattori. Sono innanzitutto aumentati i reati commessi da persone prive di un titolo di soggiorno valido; ma è anche cresciuta la devianza degli immigrati regolari, e specialmente delle seconde generazioni. In entrambi i casi, l’aumento della devianza effettiva rifletterebbe un contesto migratorio in cui sarebbero diventati prevalenti i fattori di spinta, rispetto a quelli di attrazione, e sarebbero peggiorate le condizioni e prospettive degli stessi immigrati regolari e dei loro figli. La varianza del fenomeno nel tempo smentirebbe poi la tesi secondo cui gli immigrati sarebbero vittime di discriminazioni sistematiche da parte delle istituzioni preposte alla tutela dell’ordine pubblico (polizia, magistratura…) Nel caso dell’Italia contemporanea, il fattore che sembra maggiormente incidere sulla devianza e’ individuato nell’ingresso irregolare e nella conseguente precarietà delle condizioni di vita, giacchè una percentuale di reati che oscilla tra il 70% e il 90% e’ attribuita a immigrati privi di permessi di soggiorno. Per altri è invece soprattutto l’impossibilità di guadagnarsi onestamente di che vivere e la conseguente precarietà delle condizioni di vita a provocare l’abnorme concentrazione della devianza tra gli immigrati in condizione irregolare. 2. La seconda prospettiva può essere definita “critica” e considera la devianza degli immigrati come l’effetto di una costruzione sociale della realtà che assume le caratteristiche di una profezia che si auto-adempie: giacché gli immigrati sono oggetto di chiusure sociali e pregiudizi, le società’ riceventi sbarrano la strada di un’integrazione paritaria e rafforzano i controlli repressivi nei loro confronti. I pregiudizi generano etichettature e discriminazioni; queste compromettono l’accesso all’opportunità di condurre una vita dignitosa guadagnandosi da vivere con mezzi leciti; la caduta nella devianza e’ la conseguenza dell’esclusione della società normale. Secondo Palidda le forme di inserimento degli immigrati dipendono dal contesto in cui avviene la migrazione, storicamente variabile tra condizioni più o meno favorevoli all’accoglienza di nuovi immigrati. La produzione e la riproduzione di comportamenti devianti tra gli immigrati, di conseguenza, si correla con tre fattori macrosociali: a) il degrado delle società di origine e la diffusione di modelli devianti; b) politiche migratorie proibizioniste, che hanno reso di fatto quasi impossibile immigrare regolarmente; c) l’affermazione di un modello sociale, nelle società riceventi che produce esclusione sociale e criminalizzazione. Un assetto socioeconomico che confina gli immigrati nella marginalità provoca inoltre il discredito del tradizionale modello migratorio, basato sulla motivazione alla riuscita attraverso il lavoro e i sacrifici; specie tra i giovani questo modello avrebbe perso credibilità a vantaggio di modelli devianti. Alcune componenti dell’universo migratorio sono poi avvertite come particolarmente minacciose , quindi sottoposte a maggiori controlli e a sanzioni più severe. Qui pesano i processi di etichettatura. Non sfugge ai sostenitori della posizione critica il fatto che una parte dei reati attribuiti agli immigrati derivino dalla loro condizione di irregolarità del soggiorno; si parla in proposito di una “produzione istituzionale della devianza”. La responsabilità di questa condizione, anziché essere attribuita agli immigrati, viene addossata alle società riceventi e alle loro politiche migratorie. Tutto il funzionamento della macchina giudiziaria fa poi si che gli immigrati provenienti dai paesi meno sviluppati siano i più soggetti alla carcerazione preventiva, non riescano a difendersi adeguatamente, subiscano condanne più pesanti e non abbiano accesso alle misure alternative alla detenzione in carcere. Anche il funzionamento delle procedure di espulsione incide sul rapporto tra irregolarità e devianza, è più probabile infatti e non solo in Italia, che vengano fermati e trattenuti gli individui provenienti da paesi che hanno sottoscritto accordi per la riammissione degli immigrati espulsi. Ne deriva una selettività implicita degli stessi controlli di polizia. Le critiche a quella che viene a volte definita “criminalizzazione” degli immigrati sono talvolta ancora più radicali. Secondo alcuni studiosi la stessa raccolta e analisi di dati sulla devianza degli immigrati è già l’esito di un processo di stigmatizzazione attuato dalla società ricevente, che individua gli immigrati come una categoria sociale minacciosa, da tenere sotto controllo. Anche la costruzione sociale dell’immigrazione come problema per la sicurezza pubblica diventa tuttavia una realtà con cui fare i conti. Di fatto, anche la maggior parte degli studiosi che si collocano in una prospettiva critica condividono alcuni assunti con l’approccio classico: che tra gli immigrati si riscontrino tassi elevati di coinvolgimento in alcuni reati; che questo fenomeno si correli in modo marcato con l’irregolarità dell’ingresso; che sia più frequente in alcune componenti della popolazione. Tra gli stessi immigrati irregolari, esposti alle medesime condizioni di marginalità, il coinvolgimento in attività illegali mostra infatti andamenti diversi. Per spiegare queste differenze due olandesi Engbersen e van der Leun hanno ricorso al concetto di “struttura di opportunità differenziale” tratto da un classico lavoro di Cloward e Ohlin. La struttura di opportunità degli immigrati irregolari può essere suddivisa in 3 assi istituzionali: 1. Il “grado di accessibilità delle istituzioni formali” del welfare state, come le cure mediche, l’educazione, l’alloggio, il mercato del lavoro. 2. Il “ grado di accessibilità delle istituzioni informali”, tre delle quali sono particolarmente importanti: la rete di familiari, amici, conoscenti, che possono favorire l’insediamento; l’economia sommersa che può offrire comunque lavoro; i trattamenti selettivi nelle azioni di controllo da parte degli operatori istituzionali. 3. Le “ possibilità di accesso ai circuiti criminali” in cui pure esistono disuguaglianze. Un punto assai discusso della questione concerne poi le svariate sfaccettature del rapporto tra costrizione e consenso. Se è ingenuo pensare che le donne straniere che si prostituiscono in Italia o in altri paesi siano tutte vittime ignare o rapite con la forza, sarebbe altrettanto sbagliato acconsentire alla visione opposta, secondo la quale si tratterebbe di persone consapevoli che hanno deciso liberamente di guadagnarsi da vivere offrendo servizi di tipo sessuale, sottoscrivendo contratti con chi fornisce loro appoggio logistico e organizzativo in cambio di una parte dei proventi. Occorre dunque, in una prospettiva sociologica, porre in luce i processi che concorrono alla costruzione sociale dell’offerta di prostituzione straniera, esplorando i territori intermedi tra i due poli dell’assoluta costrizione e della scelta libera e consapevole. È dunque sempre necessario domandarsi come sia stato costruito il consenso e quali vincoli lo sostengano. In primo luogo lo scompenso drammatico tra domanda e offerta di migrazione genera il primo e fondamentale anello del traffico di esseri umani, rappresentato dal debito contratto, che comporta la soggezione ai creditori. Alla costruzione del consenso contribuiscono altri dispositivi che servono a piegare la capacità di autodeterminazione delle donne immesse nel mercato del sesso, che spaziano dalle minacce alle promesse. Ma questo non basterebbe se non dovessimo fare i conti con forme più sottili e ambigue di manipolazione della libertà personale. Ad esempio la manipolazione affettiva, ossia quel senso di ambivalenza che si prova nei confronti dello sfruttatore per il fatto che sia il solo punto di riferimento disponibile. Infine nel processo di costruzione della cooperazione delle vittime del traffico, va richiamato il problema dell’asimmetria informativa ossia che le uniche info che giungono alle donne arrivano attraverso i loro sfruttatori. Capitolo 11: Pregiudizio, discriminazione, razzismo PREGIUDUZI E STEREOTIPI: I PROCESSI DI ETICHETTATURE Possiamo prendere le mosse da un’indagine effettuata in Olanda negli anni settanta del secolo scorso. I ricercatori chiesero a due persone di rispondere alle medesime inserzioni pubblicitarie per la ricerca di personale. Le risposte erano le più simili possibili: l’età era la medesima, l’esperienza lavorativa era più o meno la stessa, le lettere erano scritte allo stesso modo. L’unica differenza era la razza: uno dei rispondenti era bianco, l’altro di colore. Spesso soltanto il rispondente di razza bianca era invitato per un colloquio. Anche quando erano invitati entrambi, nella maggior parte dei casi la scelta cadeva sul candidato di razza bianca: per i ricercatori, fu una netta conferma della persistenza della discriminazione razziale. Si potrebbe pensare che il problema, in un paese avanzato e aperto come l’Olanda, sia stato superato. Ma una decina d’anni fa l’esperimento e’ stato ripetuto, questa volta in uno studio sulla selezione del personale nelle agenzie di lavoro temporaneo, e di nuovo la discriminazione razziale e’ risultata essere una pratica diffusa. In Gran Bretagna, altro paese con una solida tradizione di impegno contro le discriminazioni, ricerche analoghe hanno prodotto gli stessi risultati: nel settore medico, negli anni novanta, i ricercatori scoprirono che, a parità di curriculum, i candidati con un nome asiatico avevano la metà delle possibilità di essere ammessi a un colloquio di selezione per un posto in ospedale, rispetto a quelli con un nome anglosassone. Alla base del pregiudizio ci sono dei meccanismi operativi tipici dei processi cognitivi delle mente umana: la conoscenza richiede classificazione, ossia distinzione e ordinamento degli “oggetti” in categorie in una certa misura precostituite. Noi conosciamo un certo pezzo di arredamento come “tavolo” perché ci appare simile ad altri oggetti che abbiamo imparato a classificare entro la categoria definita con il termine tavolo. Tendiamo quindi a conoscere generalizzando, ossia costruendo categorie collettive e riconducendo a esse i casi individuali che, a un sommario esame, ci sembrano riconducibili alle categorie con cui abbiamo già familiarità. Questo modo di operare comporta preziosi risparmi di energie: pensiamo per esempio al fatto che il camice bianco, in un ospedale, ci aiuta a identificare immediatamente una persona come medico; oppure la divisa. Il problema nasce quando i processi di categorizzazione danno luogo a forme di generalizzazione indebita, che consistono nell’attribuire a tutti i membri di un determinato gruppo sociale alcuni comportamenti o caratteristiche rilevate o sperimentate con uno o con alcuni individui del gruppo, tanto più quando si applicano a qualità morali e intellettuali delle persone. Dai pregiudizi nascono gli stereotipi, ossia rappresentazioni rigide, standardizzate, per lo più intrise di valutazioni stigmatizzanti, che si applicano a gruppi sociali considerati collettivamente, appiattendo le differenze tra i casi individuali e semplificando la definizione della realtà. Questo avviene quando si comincia a pensare e a ripetere, per esempio che “gli africani sono pigri”, o che “gli zingari rubano”, o che “gli albanesi sono violenti”, oppure che i “cinesi sono mafiosi”; o anche, per citare esempi piu’ miti am non meno pericolosi, che le “filippine sono brave domestiche, docili e sorridenti”, o che i marocchini “sono commercianti nati”, e si potrebbe continuare a lungo. Sono tutti stereotipi a base “etnica”: per il fatto di presentare certi caratteri somatici, tra i quali spicca la pigmentazione della pelle, o di appartenere a una popolazione straniera o minoritaria, definita in modo spesso sommario sulla base della nazionalità, dell’area geografica di provenienza o della religione, ai singoli individui vengono attribuite determinate caratteristiche e attitudini, positive o più spesso negative. Questi processi di categorizzazione si incontrano con un’altra dinamica psicosociale, l’etnocentrismo, ossia la tendenza a distinguere il proprio gruppo (talvolta definito in-group) dagli altri gruppi (out-group) e a conferire una preferenza sistematica agli “interni” nei confronti degli “esterni”. Un derivato del pregiudizio etnico e dell’etnocentrismo e’ la xenofobia, ossia l’atteggiamento di rifiuto o di paura nei confronti degli stranieri, che nell’esperienza delle società interessate dall’immigrazione internazionale si esprime principalmente come ostilità nei confronti degli immigrati. LE DERIVE RAZZISTE: PRATICHE E IDEOLOGIE Questo complesso di atteggiamenti si traduce in quello che Taguieff, uno dei maggiori studiosi della questione, definisce, “pensiero razzista ordinario”, ossia il razzismo diffuso, vago, non tematizzato, che consiste “nell’interpretare la distinzione tra Noi e Loro, o tra Noi e gli Altri, come una distinzione tra due specie umane, la prima delle quali, viene giudicata più umana della seconda,o persino la sola veramente umana delle due”. Come già aveva notato Max Weber , l’ostilità razziale tende ad acutizzarsi in determinati frangenti e in certi gruppi sociali; si collega infatti a processi di mutamento sociale che innescano in alcune componenti della società che si sentono più minacciate dai nuovi arrivati. Il desiderio di marcare le distanze sociali, ribadendo cosi una superiorità giustificata da null’altro che l’apparenza etnica, fonda le forme popolari di razzismo. Si comprende perché forme più dirette e marcate di pregiudizio razziale e di xenofobia siano usualmente più diffuse nelle classi inferiori delle società riceventi, ossia nelle componenti della società che sotto il profilo abitativo sono più a contatto con i nuovi arrivati e desiderano distinguersi da loro. Da questo punto di vista, non è dunque la distanza o l’ignoranza a generare il razzismo, ma la vicinanza che genera la paura del contatto, della mescolanza o della competizione. Non va dimenticato che altre forme di pregiudizio etnico sono tipiche delle classi superiori; la percezione degli immigrati come minaccia per la sicurezza o per l’ordine sociale o la tendenza a ritenere gli immigrati utili solo nel svolgere determinate mansioni esecutive. La complessità del fenomeno ha dato luogo a diversi tentativi di spiegare le ragioni per cui si sviluppano le diverse manifestazioni di xenofobia e razzismo. Seguendo Wimmer possiamo distinguere quattro approcci: 1. Teorie della scelta razionale: xenofobia e razzismo deriverebbero dalla rivalità competitiva tra immigrati e popolazione autoctona per l’accesso a risorse scarse, come i posti di lavoro e l’edilizia sociale. Secondo alcuni l’ostilità non deriverebbe dalla competizione effettiva, ma piuttosto dalla percezione di equità e differenza, di legittimità o illegittimità della competizione. 2. Teorie funzionaliste: sono quelle che riconducono la xenofobia alla differenza culturale e all’incapacità di assimilarsi degli immigrati, in quanto provenienti da società arretrate, che non hanno conosciuto la riforma protestante e l’illuminismo, oppure in quanto sprovvisti di adeguati livelli di istruzione e qualificazione professionale. 3. Teorie fenomenologiche discorsiva, le più recenti, che legano i fenomeni xenofobi a una trasformazione sociale in cui certe promesse politiche, come quella del welfare state, non possono più essere mantenute e si diffondono tensioni anomiche in ampi strati della società, ponendo in crisi l’identità collettiva e la sicurezza di sé che sarebbero necessarie per gestire relazioni pacifiche con le popolazioni immigrate: l’ostilità verso gli stranieri diventa allora un modo per rinsaldare l’identità nazionale e suoi confini. Il razzismo conosce poi una variabilità nel tempo, quanto a bersagli dell’ostilità, e può spostarsi su altri gruppi etnici o nazionali, di solito neoarrivati. Non dovremmo dimenticare però che in tempi neppure troppo lontani, in America e nell’Europa settentrionale, gli immigrati etichettati come diversi e inferiori erano in primo luogo proprio gli italiani. Le ricerche storiche hanno mostrato che persino la percezione delle differenze fisiche, “razziali”, dipende dall’accettazione sociale. Come spiegava Ignatiev in un libro dal titolo emblematico, Come gli irlandesi divennero bianchi, gli immigrati irlandesi, al loro arrivo in America, non erano considerati di razza bianca, e non solo a livello popolare, ma anche con dovizia di argomentazioni “scientifiche”, erano bollati come “i negri d’Europa”. Non si deve neppure ritenere che la xenofobia sia un fenomeno tipico di ideologie conservatrici e posizioni politiche di “destra”. Nell’America del primo Novecento, un autorevole sociologo progressista come Edward Ross si schierò contro i nuovi ingressi di immigrati negli Usa e soprattutto contro la possibilità che i loro tratti culturali entrassero a far parte del patrimonio comune del paese. Non è neppure vero che il pregiudizio colpisca soltanto gli stranieri. Come abbiamo già ricordato, Foot (2003) ha giustamente rilevato che l’immigrazione meridionale a Milano nel dopoguerra era colpita da pregiudizi molto simili a quelli che oggi riguardano gli immigrati stranieri. Solo quando irlandesi, polacchi e italiani in Usa e i meridionali nel Nord Italia, hanno conosciuto una sufficiente mobilità sociale, la percezione della differenza razziale si è modificata; in questo senso si può dire che la razza ha rappresentato per loro uno status acquisito e non ascritto. La storia non va però univocamente nella direzione del graduale superamento dei pregiudizi. Calavita ha mostrato, studiando l’immigrazione dei braccianti agricoli messicani verso gli Usa, che la percezione di una differenza razziale non è originaria, ma è intervenuta in un secondo tempo, come effetto del confinamento dei lavoratori messicani in una nicchia occupazionale precaria, priva di opportunità di miglioramento. Le società riceventi dunque esercitano delle pressioni che determinano una “perdita di status” degli immigrati. Non è tuttavia sempre chiaro quando atteggiamenti e comportamenti diffusi possono essere definiti razzisti. Infatti occorre cautela nell’etichettare come razzista ogni espressione di disagio, di protesta o anche di pregiudizio nei confronti degli immigrati. Si rischia altrimenti di innescare discriminazione di questo tipo: per il solo fatto di essere immigrato, un soggetto e’ escluso da un certo rapporto economico. La possibilità di discriminazione e’ insita in uno dei capisaldi delle nostre società, ossia il libero mercato, con il connesso diritto da parte dell’imprenditore di scegliere liberamente chi assumere o con chi intrattenere rapporti economici. Va tuttavia osservato che molti paesi, compreso il nostro, si sono dotati di leggi per proteggere immigrati e minoranze etniche almeno contro le forme più evidenti di discriminazione, e che nel paese liberista per eccellenza, gli Stati Uniti, il sistema giudiziario e’ particolarmente severo in proposito. 2. A volte però la discriminazione e’ insita nelle stesse norme giuridiche. Si parla allora di discriminazione istituzionale. Questa consiste in limitazioni della possibilità di accedere a determinate occupazioni, diritti o benefici, attuata dalle istituzioni pubbliche delle società riceventi, sulla base della cittadinanza, senza che questi vincoli siano rilevanti per la mansione e senza che vi sia una questione di sicurezza nazionale. Una manifestazione, apparentemente “ragionevole” di discriminazione istituzionale è rappresentata dalle norme sulla reciprocità. Un secondo esempio è rappresentato dall’impiego pubblico. In Italia come in molti paesi, soltanto chi gode della nazionalità italiana può accedervi. Un terzo esempio è ravvisabile nella ritrosia a riconoscere i titoli di studio rilasciati da paesi esterni al sistema occidentale. 3. La discriminazione implicita o diretta, spesso intrecciata con quella istituzionale, tanto da essere a volte identificata con essa, ricorre invece quando disposizioni e pratiche sociali apparentemente neutre, giustificate, dotate di fondamenti razionali, adottando criteri generali, di fatto penalizzano o favoriscono alcuni gruppi etnici. Quando, per esempio, nel mercato del lavoro i requisiti professionali richiesti o le pratiche di reclutamento sono in teoria uguali per tutti, ma nella pratica trattano alcune componenti etniche più favorevolmente di altre. Si parla anche in questo caso di discriminazione oggettiva, che può operare senza la volontà di discriminare, e chi si può desumere “in base alla enorme sproporzione tra eventi diritto o aspiranti a una certa posizione appartenenti a un gruppo minoritario e coloro che la ottengono di “fatto”. 4. Molto frequenti nel mercato del lavoro sono infine comportamenti riconducibili a forme di discriminazione statistica. Si intende con questo termine, coniato dall’economia del lavoro americana, l’attribuzione a un intero gruppo sociale di atteggiamenti, caratteristiche, comportamenti, effettivamente osservabili in alcuni soggetti appartenenti al gruppo. LA DISCRIMINAZIONE SUI LUOGHI DI LAVORO La ricerca di Rathzel in Germania ha distinto quattro forme di discriminazione sui luoghi di lavoro. 4.1. Discriminazione nella gerarchia occupazionale esistente: si riferisce al fatto che i lavori meno attraenti, più pericolosi, più dannosi per la salute e peggio pagato sono attribuiti in larga misura a lavoratori di origine immigrata. 4.2. Discriminazione al di fuori della gerarchia occupazionale: si riferisce a pratiche applicate solo a lavoratori immigrati, tese a collocarli al di fuori della struttura organizzativa, come il ricorso a contratti a breve termine, o l’imposizione di obblighi extracontrattuali, come quello di pulire l’area di lavoro loro e dei colleghi. 4.3. Discriminazione attraverso il trattamento egualitario: si riferisce all’applicazione di regole universalistiche a casi e situazioni che meriterebbero invece una maggiore flessibilità e considerazione delle diversità etnico-culturali: per esempio, e’ considerato normale che i lavoratori musulmani vengano assegnati ai turni di lavoro che cadono durante le festività natalizie, ma non che si venga loro incontro durante il periodo del Ramadam. 4.4. Discriminazione nelle relazione di lavoro quotidiane: si riferisce non ai comportamenti aziendali, ma alle vessazioni informali e ricorrenti, inflitte dai compagni e dagli immediati superiori ai lavoratori immigrati, magari sotto forma di battuta scherzosa, oppure attraverso la contestazione