Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Sociologia delle migrazioni - M. Ambrosini, Appunti di Sociologia delle Migrazioni

Riassunto del testo di sociologia delle migrazioni in cui viene affrontato il tema dei migranti da diversi punti di vista.

Tipologia: Appunti

2021/2022

Caricato il 06/11/2022

sara-cavallero1
sara-cavallero1 🇮🇹

4.3

(28)

12 documenti

1 / 45

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Sociologia delle migrazioni - M. Ambrosini e più Appunti in PDF di Sociologia delle Migrazioni solo su Docsity! Sociologia delle migrazioni – M. Ambrosini Parte prima – coordinate e processi fondamentali CAPITOLO 1 – MIGRAZIONI E MIGRANTI 1. L’oggetto di studio e le sue caratteristiche Le migrazioni sono un fenomeno antico come l’umanità, tanto che si può affermare che “gli umani sono una specie migratoria” (Massey et al. 1998). Prima di divenire sedentaria l’umanità è stata nomade per diversi motivi, ma quasi sempre contenente l’idea di migliorare le condizioni di vita. Le migrazioni possono quindi essere viste come una forma di mobilità territoriale della specie umana, soprattutto volontaria. Nell’Atene classica un ruolo economico fondamentale era coperto dai meteci, lavoratori e commercianti forestieri ammessi come residenti e riconosciuti come utili ma privi di diritti politici, della cittadinanza in quanto appartenenti alla polis. Nelle città medievali affacciate sul Mediterraneo, una tipica istruzione erano i fondachi dei mercanti di origine straniera, che formavano insediamenti relativamente stabili, distinti secondo la provenienza, e a volte veri e propri quartieri. Le invasioni turche nei Balcani possono aiutarci a rievocare un tipo particolare di migrazione: quella degli spostamenti dei rifugiati in cerca di scampo. La storia delle colonizzazioni illustra invece un movimento in direzione opposta: per secoli gli europei andarono a insediarsi in modo violento, sopraffacendo le popolazioni native. Alla colonizzazione del Nuovo Mondo si collega poi l’immigrazione forzata di circa 15 milioni di africani, in qualità di schiavi. Chi si accosta al tema della migrazione deve assumere in primo luogo la consapevolezza dell’eterogeneità e della fluidità dei processi etichettabili come migrazioni. La definizione di migrante proposta dalle Nazioni Unite è: una persona che si sposta da un paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel paese da più di un anno. Questa definizione non tiene però conto delle migrazioni interne, né degli spostamenti di durata inferiore a un anno, né di diverse visioni giuridiche di chi siano gli immigrati e i cittadini. Nel linguaggio comune, noi definiamo come immigrati solo una parte degli stranieri che risiedono stabilmente e lavorano nel nostro paese. Lo stesso vale per il termine extracomunitari, un concetto giuridico che ha recuperato il suo significato etimologico, diventando sinonimo di immigrati, con conseguenze paradossali: non si applica agli americani, ma molti continuano ad usarlo per i rumeni. Immigrati sono dunque ai nostri occhi gli stranieri provenienti da paesi che classifichiamo come poveri, non quelli originari di paesi sviluppati. Contiene un’implicita valenza peggiorativa. Sempre attuale è la famosa frase “la ricchezza sbianca”. L’impiego del concetto di immigrato allude alla percezione di una doppia alterità: una nazionalità straniera e una condizione di povertà. Questo mostra che le migrazioni vanno inquadrate come processi e come sistemi di relazioni che riguardano le aree di partenza, quelle di transito e infine quelle di destinazione. Possiamo pertanto distinguere il movimento dell’emigrazione, che si riferisce all’uscita dal paese d’origine, rispetto al movimento di immigrazione, che riguarda l’ingresso nel paese ricevente, e chiamiamo rispettivamente emigranti e immigranti i soggetti che compiono questi spostamenti. Migrazione e migranti sono invece termini più generali. Esiste anche il fenomeno delle migrazioni interne: spostamenti da una regione all’altra dello stesso paese: gli immigrati interni sono cittadini; tuttavia, anch’essi possono essere percepiti e trattati come diversi, discriminati, etichettati e possono attivarsi nella costituzione di reti di relazione basate sulla comune origine e la parentela, alimentando le cosiddette catene migratorie. Possiamo affermare che le migrazioni sono costruzioni sociali complesse in cui agiscono tre principali gruppi di attori: le società di origine, i migranti attuali e potenziali, le società riceventi. La formazione di minoranze etniche riflette l’interazione tra dinamiche autopropulsive delle popolazioni immigrate e processi di inclusione da parte delle società riceventi. Inoltre, possiamo rilevare che dopo la Seconda guerra mondiale le migrazioni internazionali si sono ampliate in volume e destinazioni, interessando un numero sempre maggiore di paesi. Dal 1960 al 2000 le stime disponibili mostrano un aumento della popolazione migrante da 76 a 175 milioni circa, di cui circa 16 milioni sono rifugiati e 900.000 richiedenti asilo. Nel 2009, secondo le stime dell’organizzazione internazionale del lavoro, i migranti hanno superato i 214 milioni. Il 10/15% sarebbe in condizione irregolare. Ci sono peraltro paesi al di fuori dell’area occidentale in cui i migranti rappresentano quote molto elevate dei residenti. Non esiste di per sé una soglia statistica al di là della quale l’immigrazione risulterebbe ingovernabile. Il problema si pone in termini di apertura delle società riceventi ad accogliere persone che vengono dall’esterno. 2. I diversi tipi di immigrati Un aspetto rilevante delle migrazioni contemporanee è il superamento dell’identificazione dell’immigrato con una sola figura sociale; vi sono sia immigrati con motivazioni diverse da quelle del lavoro, sia lavoratori. La regolazione degli ingressi da parte degli Stati riceventi è cresciuta s’importanza. In Europa ha bloccato gli arrivi di lavoratori manuali con contratti di lunga durata, provocando per contro l’aumento imprevisto del ricorso a varie altre motivazioni per l’ingresso: dai ricongiungimenti familiari al rifugio politico e umanitario, senza contare l’immigrazione irregolare. Si possono così distinguere diversi tipi di immigrati: 1. Gli immigrati per lavoro: continuano a trovare lavoro solitamente nei settori e nelle occupazioni meno ambite dei mercati del lavoro dei paesi riceventi. Si tratta spesso di nicchie poco tutelate, esposte alla precarietà. Le donne, muovendosi sempre più spesso come primo migranti, sono sempre più protagoniste delle migrazioni per lavoro. Si inseriscono specialmente nei servizi alla persona e alle famiglie. 2. Gli immigrati stagionali o lavoratori a contratto: sono sottoposti a una regolamentazione specifica, che ne autorizza l’ingresso per periodi limitati, al fine di rispondere a esigenze strutturalmente temporanee e definite di manodopera. 3. Gli immigrati qualificati e gli imprenditori: si tratta per esempio di tecnici informatici, ingegneri, scienziati, personale medico e paramedico, oppure investitori e operatori economici, tanto che si parla di “internazionalizzazione delle professioni”. 4. I familiari al seguito: i ricongiungimenti familiari sono diventati la motivazione più frequente per gli ingressi ufficiali dei cittadini provenienti da paesi esterni in molti paesi dell’Europa centrosettentrionale. 5. I rifugiati e i richiedenti asilo: le due categorie si distinguono per effetto della Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1951, in cui il rifugiato è definito come una persona che risiede al di fuori del suo paese d’origine, che non può o non vuole ritornare a causa di un “ben fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale, opinione politica”. Il richiedente asilo è una persona che si sposta 3. L’immigrazione comincia a stabilizzarsi: cresce la componente femminile e si sviluppano i ricongiungimenti familiari, mentre declinano i rientri in patria. Diminuisce la popolazione attiva, a causa della formazione dei minori. Nel frattempo, partono nuovi emigranti dalle aree meno sviluppate del paese d’origine. 4. L’immigrazione giunge a maturità. La permanenza si allunga, aumentano i ricongiungimenti familiari, cresce nel suo complesso la popolazione immigrata. Lo schema intende rendere conto del fatto che arrivano dapprima soggetti che hanno come obiettivo l’inserimento nelle occupazioni disponibili. Il soggiorno, inizialmente pensato come temporaneo, tende a prolungarsi, e spesso si trasforma in un insediamento stabile. Il passaggio cruciale è rappresentato dall’arrivo o dalla formazione delle famiglie, e con queste aumenta la domanda dei servizi sanitari, abitativi, educativi, e più ampliamente sociali. Le critiche hanno riguardato la rigidità del modello di Bohning, imperniato sull’immigrazione per lavoro di manodopera salariata, e poco sensibile ad altri tipi di flussi, come i rifugiati. Un altro schema in quattro stadi è stato proposto più recentemente dall’influente opera di Castles e Miller, questo conferisce rilievo alla dimensione politico-istituzionale, in termini di esclusione/inclusione degli immigrati, nonché agli atteggiamenti delle società riceventi, sotto forma di accettazione/rifiuto. I suoi stadi sono: 1. Migrazioni temporanee per lavoro da parte dei giovani 2. Prolungamento del soggiorno e sviluppo di reti sociali, basate sulla parentela e sulla provenienza 3. Ricongiungimento familiare, coscienza crescente di un insediamento di lungo termine, progressivo orientamento verso la società ricevente, emergere di comunità etniche con le proprie istituzioni 4. Insediamento permanente che può condurre sia a uno status legale consolidato ed eventualmente all’acquisto della cittadinanza, sia alla marginalizzazione socioeconomica e alla formazione di minoranze etniche discriminate. Questo modello è stato criticato per la sottovalutazione del ruolo autonomo delle donne nei movimenti migratori. Un terzo approccio più flessibile e comprensivo della dimensione dinamica dei processi di inserimento degli immigrati è individuabile nel concetto di ciclo migratorio in cui vengono distinti tre momenti: 1. Marginalità salariale: la condizione di lavoro dipendente e dall’inserimento nella classe operaia. Il termine tipico che indica i residenti stranieri è quello di lavoratore straniero, 2. Un secondo momento compreso in media tra i cinque e i quindici anni dal momento dell’arrivo, in cui avvengono nuovi ingressi, per matrimonio e ricongiungimento familiare. L’immigrazione sviluppa qui una funzione demografica. 3. Un terzo momento in cui la popolazione di origine straniera si stabilizza, i figli entrano nell’adolescenza, sorgono leader e si affermano movimenti che richiedono nuovi rapporti con la società ricevente. Le parti in causa sono chiamate a sviluppare processi di reciproca conclusione, almeno nel senso di considerare gli altri come elementi significativi dell’ambiente in cui tutti vivono. È interessante l’attenzione alle relazioni con le istituzioni della società ospitante. Il progressivo radicamento nelle società riceventi è il fenomeno fondamentale che anche questo contributo pone in rilievo. CAPITOLO 2 – ALLA RICERCA DELLE CAUSE Un primo argomento di studio, nell’analisi dei movimenti migratori, riguarda le cause che li producono e li orientano verso determinati paesi. Come per altri fenomeni sociali, si confrontano al riguardo le due principali prospettive sociologiche: quella macrosociologica, detta anche strutturalista, che assegna il primato alle forze esterne, capaci di condizionare e incanalare l’agire degli individui; e quella microsociologica, che parte invece dall’individuo e lo considera un attore razionale che assume decisioni orientate a massimizzare il proprio benessere. 1. Spiegazioni macrosociologiche: i fattori di spinta La visione dei fenomeni migratori più diffusa nel senso comune è quella che li connette con grandi cause strutturali operanti a livello mondiale e in modo particolare nei paesi di provenienza: la povertà, la mancanza di lavoro, la sovrappopolazione crescente del terzo mondo. A questa visione soprattutto i demografi hanno dato una forma teorica attraverso la distinzione tra fattori di spinta e fattori di attrazione. I migranti oggi si muoverebbero principalmente per effetto della forza dei fattori espulsivi operanti nei luoghi di origine, anche senza disporre di effettive opportunità di accoglienza e di occupazione nelle aree di destinazione. Gli studi demografici ragionano in modo particolare sui tassi di incremento di popolazione sulle due sponde del Mediterraneo, sulla contrapposta distribuzione per età, sull’aumento dell’offerta di lavoro che non trova sbocchi occupazionali. Medianti concetti come quello di pressione migratoria, arrivano alla conclusione che un travaso di popolazione dalla sponda sud verso la sponda nord del mediterraneo è la conseguenza logica di questi squilibri. L’enfasi va sul dato demografico come fattori moltiplicativo degli squilibri economici e sociali. La teoria marxista della dipendenza, secondo cui le migrazioni per lavoro discendono dalle disuguaglianze geografiche nei processi di sviluppo, indotte dalle relazioni coloniali e neocoloniali. Le migrazioni sono quindi conseguenze dell’impoverimento delle regioni del mondo sottoposte al dominio dell’occidente e legate a esso da rapporti di dipendenza. Un’altra versione dell’approccio strutturalista è rappresentata dalle più complesse teorie del sistema-mondo secondo cui la crescente globalizzazione delle comunicazioni e degli scambi incrementa i legami tra diverse aree del pianeta. Le migrazioni sono quindi viste anche in questo caso come un effetto della dominazione esercitata dai paesi del centro su quelli della periferia dello sviluppo capitalistico, derivano dalla disuguaglianza economica e la inaspriscono. Le culture diverse da quella occidentale vengono colonizzate ed emarginate, gli individui sono sempre più socializzati a mentalità e stili di vita tipici del mondo sviluppato. Gli individui si dirigono verso i paesi dominanti e le antiche capitali degli imperi coloniali. A partire da considerazioni analoghe, diversi studiosi della globalizzazione hanno posto in rilievo la contraddizione tra libera circolazione dei capitali, delle merci e delle informazioni e la chiusura delle frontiere rispetto alla mobilità dei lavoratori. Parallelamente, i livelli di controllo e di sorveglianza non sarebbero compatibili con l’aumento degli scambi e delle comunicazioni, oltre ad avere un impatto negativo sulle libertà civili incorporate nel modello di civiltà occidentale. Alla prospettiva del sistema-mondo si collega anche l’idea secondo cui le migrazioni si caratterizzano come processi di costruzione e incessante rielaborazione di relazione tra aree di origine e aree di destinazione dei flussi. In questo senso muove la teoria sistemica delle migrazioni, che tenta di tenere conto di un gran numero di variabili e di relazioni chiamate in causa nella spiegazione degli spostamenti internazionali di popolazione. Le migrazioni vengono collocate nel contesto degli scambi e dei rapporti di varia natura che legano i paesi e le status e di potere all’interno e della possibilità di sfruttamento di alcuni di essi da parte di altri. Pure in queste interpretazioni è carente la considerazione della regolazione politica delle migrazioni, ossia il ruolo dei governi nell’iniziare a favorire, arrestare, prevenire i movimenti migratori. 4. Nello spazio intermedio: reti sociali e istituzioni migratorie I migration studies degli ultimi decenni hanno tentato di elaborare alcune spiegazioni che si collocano a un livello intermedio tra micro e macro. Grande fortuna hanno riscosso specialmente le teorie dei network, in cui le migrazioni vengono viste come un effetto delle reti di relazioni interpersonali tra immigrati e potenziali migranti. I network migratori vengono definiti come complessi di legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti alle aree di origine e di destinazione, attraverso vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine. Su quello che Faist ha definito “the crucial meso-level”, e in modo particolare sul ruolo dei network, si è registrato nel tempo un movimento di convergenza sia dal versante macro sia da quello micro. I network spiegano perché gli immigrati si indirizzano verso determinati paesi o località, grazie a punti di riferimento creati dall’insediamento di parenti, vicini e amici. Le relazioni sociali rappresentano la base per la continuazione delle migrazioni. Così pure attraverso il fenomeno delle rimesse, i migranti svolgono un ruolo attivo nella società di provenienza. I costi e i benefici che entrano nei calcoli individuali sono condizionati dai ponti sociali che attraversano le frontiere. In questi approcci, le decisioni individuali si inseriscono dunque all’interno dei gruppi sociali. Un’evoluzione della teoria dei network è rappresentata dall’approccio transnazionale. Qui l’accento cade sui processi mediante i quali gli immigrati costruiscono relazioni sociali composite. Questo approccio cerca di considerare congiuntamente i due versanti dei flussi migratori, nelle loro relazioni reciproche e negli effetti di retroazione che le migrazioni comportano. I movimenti migratori formano campi sociali attraverso le frontiere nazionali. Oltre a inviare doni e rimesse, oggi promuovono per esempio progetti di miglioramento delle condizioni di vita delle comunità di provenienza. Gli stessi concetti di immigrato ed emigrante sarebbero ormai obsoleti, di fronte alla capacità di molti migranti di sviluppare reti sociali. In tal proposito, si parla di identità culturali fluide e molteplici che i migranti tendono ad assumere, in relazione ai diversi contesti con cui si confrontano. Non solo propone una figura di migrante come attore sociale capace di iniziativa e promotore di mutamenti economici, culturali e sociali, ma suggerisce una visione in cui, se molti migranti continuano a mantenere un’appartenenza e a svolgere un ruolo attivo nei contesti di origine, altri si mobilitano e possono intraprendere a loro volta l’avventura dell’emigrazione. L’approccio transnazionale contribuisce a prendere le distanze dal vecchio assimilazionismo, ossia dall’idea di un percorso unidirezionale, dal vecchio al nuovo ambiente di vita. La realtà del grosso dell’immigrazione è quella di una progressiva interazione nelle società riceventi. I ritorni e le migrazioni pendolari erano più frequenti nel passato di quanto non siano oggi.vi è l’idea di un relativo adattamento ai vincoli esterni, cercando canali alternativi per aggirare le limitazioni alla mobilità. Anche queste teorie appaiono quindi carenti nella considerazione della regolazione politico-istituzionale delle migrazioni. Un altro limite è il funzionalismo implicito; le teorie dei network tendono solitamente a enfatizzare le valenze positive delle reti sociali, trascurando la possibilità che producano effetti di intrappolamento in attività marginali, o addirittura devianti. Alcuni hanno proposto un ampliamento della prospettiva dei network nel senso di una più ampia teoria delle istituzioni migratorie, comprendente le diverse strutture che mediano tra le aspirazioni individuali all’emigrazione e la concreta possibilità di trasferirsi all’estero, associazioni di migranti, sistema di parentela. Si possono così individuare dei processi di strutturazione delle migrazioni, in cui le azioni individuali si incontrano con le risorse fornite dalle istituzioni migratorie. Dal punto di vista dei processi ospitanti, è spesso evocato, ma raramente teorizzato il ruolo delle istituzioni solidaristiche e umanitarie, sorte anzitutto dalle società civili e a volte appoggiate dagli stessi poteri pubblici. Nel caso italiano non può essere trascurato il ruolo delle reti e istituzioni autoctone, che interagendo con le reti etniche, diffondono informazioni, orientano e istruiscono le pratiche, e quindi favoriscono l’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro. Zincone ha posto l’accento sull’<<advocacy coalition>>, formata da sindacati, organizzazioni umanitarie, istituzioni ecclesiali, esperti, che sarebbero un soggetto particolarmente attivo nella tutela degli immigrati irregolari. Il loro intervento rafforza la capacità di azione dei network e di altre istituzioni nella costruzione dei movimenti migratori. Un altro ampliamento delle teorie meso consiste nella costruzione di modelli articolati, in cui il livello intermedio è collocato tra quella macro e quello micro. 5. Incidenza e conseguenze inattese della regolazione normativa A un livello intermedio tra le scelte individuali o familiari e le grandi determinanti strutturali occorre collocare anche la regolazione statuale delle migrazioni, che esercita una specifica influenza selettiva sui flussi. Si può parlare di un livello meso-macro, la cui scala normalmente coincide con l’ambito nazionale. La regolazione normativa esercitata dagli Stati riceventi ha influito notevolmente sulla densità, sulla composizione e sulla destinazione dei flussi migratori, soprattutto dopo la crisi petrolifera del ‘73-‘74, la chiusura ufficiale delle frontiere in Europa e le restrizioni imposte dall’America e in altri tradizionali paesi riceventi. Diversi studi sostengono la prevalenza del fattore politico sugli altri elementi che contribuiscono a determinare le dinamiche migratorie. In sintesi, possiamo ricordare alcuni fenomeni rilevanti: - Nell’ambito dell’unione europea si è inasprita la contrapposizione tra cittadini dei paesi membri insigniti del diritto alla libera circolazione, e cittadini esteri, le cui possibilità di ingresso sono severamente disciplinate, anche attraverso il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne. - Le migrazioni autorizzate all’ingresso nei paesi che hanno mantenuto la possibilità di immigrazione legale per motivi di lavoro si sono caratterizzate molto più marcatamente del passato come skilled migration, ossia migrazioni di lavori istruiti e professionalmente qualificati. - Sono stati indirettamente favoriti i flussi migratori non collegati in modo esplicito ai fabbisogni del mercato del lavoro. - Dopo la chiusura delle frontiere nei confronti dell’immigrazione per lavoro, migrazioni progettate come temporanee o stagionali sono diventate permanenti. - I migranti sono andati alla ricerca di nuove destinazioni, dopo che le precedenti si erano chiuse. - Si assiste ora in Europa a un rilancio delle migrazioni temporanee o stagionale, in modo eufemistico “migrazioni circolari”. - La drastica contrazione delle possibilità di ingresso per lavoro ha contribuito notevolmente ad aggravare il fenomeno dell’immigrazione irregolare. - I provvedimenti di sanatoria, miranti a rimediare gli effetti perversi della chiusura ufficiale delle frontiere e della formazione di sacche di lavoro irregolare, esercitano a loro volta effetti di retroazione sui flussi migratori, generando l’idea che una volta entrati in un paese sviluppato in un modo o nell’altro sarà possibile in seguito regolarizzare il proprio status giuridico. - Il quadro istituzionale e anche il portato storico degli stati-nazione esercitano un influsso profondo sui fenomeni migratori anche in un altro senso, allorquando definiscono i criteri di appartenenza alla comunità nazionale e di accesso allo status di cittadino, così come l’impostazione delle politiche di accoglienza e dei rapporti interculturali. La regolazione normativa non può essere considerata una spiegazione delle cause delle migrazioni. La regolazione nazionale dei movimenti migratori è una variabile influente nel mediare tra aspirazioni dei potenziali migranti e concrete possibilità di insediamento nei paesi sviluppati. Per spiegare adeguatamente le migrazioni sembra necessario adottare un approccio multi-causale. Il pensiero sociologico degli ultimi due decenni ha cercato di mostrare che i migranti non rispondono meccanicamente ai differenziali economici e occupazionali, non sono omogenei per orientamenti e motivazioni, e non prendono le decisioni nel medesimo contesto. Di qui scaturisce un nuovo interesse per i processi decisionali e una maggiore attenzione al contesto. Se un’enfasi è oggi post sui migranti come agenti attivi, questo non avviene trascurando le forze economiche e sociali che condizionano e incanalano le azioni individuali. Una spiegazione soddisfacente delle cause delle migrazioni deve infatti tener conto dei fattori che le diverse teorie hanno posto in luce. Si può precisare questo aspetto sottolineando che le reti migratorie mettono a disposizione degli individui quello che è stato definito “capitale sociale etnico”: un capitale sociale specifico che risulterebbe di norma meno efficiente del capitale generalizzato, che è invece più flessibile e quindi spendibile in contesti diversi. In certe circostanze però, l’impiego del capitale sociale etnico e l’impegno a migliorarne la produttività possono diventare un’opzione ragionevole. È possibile quindi arguire che le reti sociali degli immigrati sono una combinazione di fragilità e di forza. Si tratta di reti deboli, perché sono formate da soggetti che nelle gerarchie sociali occupano una posizione subalterna. La migrazione tende infatti a schiacciare verso il basso le caratteristiche individuali dei soggetti coinvolti, appiattendoli sull’immagine collettivizzata del gruppo nazionale. Le specializzazioni etniche sono effetto e causa: derivano dall’azione delle reti, e nello stesso tempo sembrano apparentemente confermare le associazioni tra nazionalità e occupazione. Nello stesso tempo, si tratta in parecchi casi di reti forti, perché si giovano di quello che Portes e Sensenbrenner hanno definito solidarietà vincolata. Il sostegno vicendevole e l’immagine positiva del gruppo di appartenenza presso la società ricevente sono risorse da cui dipende molto del loro futuro. La collettivizzazione degli immigrati sulla base della provenienza tende così a essere rielaborata in termini di autopromozione. Alla collettività dei connazionali si tendono ad attribuire doti positive, spesso in competizione con altri gruppi etnico-nazionali. 4. Le funzioni svolte dalle reti migratorie: come si declina il sostegno reciproco Vi sono diverse funzioni svolte dalle reti etniche: - L’ambito dell’accoglienza e della sistemazione logistica. - L’area della ricerca del lavoro, in cui le reti etniche esplicano una delle più caratteristiche e visibili forme di sponsorizzazione. - L’area della promozione professionale. Questa si identifica di solito con il passaggio al lavoro indipendente. - Il passaparola all’interno delle reti migratorie è poi il più diffuso canale di approvvigionamento delle informazioni rispetto alle molte procedure burocratiche ed esigenze di vita quotidiana che gli immigrati devono affrontare, in contesti poco conosciuti e irti di difficoltà. - Possiamo poi parlare in termini generali di supporto sociale, giacché i parenti e in minor misura i connazionali sono anche la precaria risorsa a cui gli immigrati fanno ricorso nelle molte situazioni di emergenza che non riescono a fronteggiare da soli. - Infine, le reti migratorie svolgono una funzione di sostegno emotivo e psicologico, sono il luogo della condivisione amicale e della socializzazione. Attraverso la frequentazione dei connazionali gli immigrati recuperano, rielaborano, rafforzano e a volte riscoprono la propria identità culturale. 5. All’interno delle reti migratorie: elementi di differenziazione Nella ricerca di lavoro le reti sono decisive all’inizio, poi la loro importanza si attenua. L’accumulazione di esperienza, la socializzazione linguistica, l’apprendimento di una certa capacità di muoversi nel mercato del lavoro e nella società ricevente, l’instaurazione di contatti con la popolazione nativa, riducono il bisogno di fare riferimento alle reti migratorie, anche se queste continuano indirettamente a influenzare i destini occupazionali attraverso la formazione di nicchie etnicamente caratterizzate, con i relativi stereotipi e canali di reclutamento. Il capitale sociale accumulato in un ambito, tipicamente in una certa occupazione, non si trasferisce agevolmente in altri ambiti. Con l’evoluzione del ciclo migratorio possono anche instaurarsi nuove forme di legame con le reti dei connazionali. Le reti migratorie alimentano fenomeni microimprenditoriali, e questi a loro volta contribuiscono alla riproduzione culturale e al consolidamento sociale delle comunità di connazionali. Nelle minoranze che raggiungono un certo livello di stabilizzazione si manifestano di norma domande crescenti di consolidamento/ritrovamento dell’identità culturale. Si può distinguere tra reti a struttura orizzontale in cui i partecipanti sono socialmente collocati più o meno sullo stesso piano, e quindi si trovano, si scambiano informazioni, esercitano forme di mutuo aiuto, secondo codici di reciprocità allargata, e altre che hanno un carattere maggiormente verticale, in quanto fanno riferimento a una persona, a un gruppo o talvolta a un’istituzione che si trova in posizione eminente, traendo anche a volte dei vantaggi dall’asimmetria dei rapporti con i patrocinanti. Vanno poi distinte reti che restano debolmente strutturate ed essenzialmente informali, e reti che evolvono verso configurazioni istituzionali più formalizzate. Un’altra distinzione è quella del genere di reti, è risultato che le donne si appoggiano ai network più degli uomini nei processi migratori. I lavori sulle migrazioni femminili hanno posto in rilievo la formazione e il funzionamento di network in cui donne si organizzano per favorire l’ingresso e l’inserimento lavorativo di altre donne, provvedono alla sostituzione di chi lascia il posto di lavoro, sviluppano forme di socialità e animazione del tempo libero. Un’altra importante questione concerne poi il grado di organizzazione interna. Possiamo distinguere a questo proposito reti disorganizzate e poco efficaci nel sostenere l’inserimento sociale dei connazionali; reti dotate di una buona coesione interna e di un certo grado di organizzazione comunitaria, ma efficaci nel promuovere l’inserimento lavorativo soltanto nelle nicchie debolmente qualificate in cui si concentrano i connazionali; reti coese fino all’isolamento e capaci di dar vita ad attività indipendenti molto basate sul lavoro dei connazionali; reti più flessibili e diversificate al loro interno, con una composizione interna articolata. Nelle reti migratorie si possono individuare poi alcune figure e funzioni tipiche che a volte si sovrappongono, altre volte invece si differenziano. - Lo scout, coloro che hanno aperto una nuova rotta migratoria e diventano il punto di riferimento per gli arrivi successivi. - Il broker, che si specializza nell’intermediazione tra la domanda di lavoro e l’offerta dei connazionali. Hagan parla della figura dell’encargado, un leader della comunità etnica che svolge un ruolo di supervisione e mediazione. Semi ha invece individuato un ruolo di broker specializzato nella ricerca di agganci e conoscenze finalizzate alla regolarizzazione dello status dei connazionali undocumented. - Il leader comunitario, che assume compiti di rappresentanza nei confronti della società ospitante, può avere un ruolo come responsabile associativo od ottenere incarichi professionali, ma può anche essere un leader religioso. - Il provider di determinati servizi, come il posto letto, il lavoro, l’assistenza nel disbrigo di pratiche burocratiche o nel reperimento di documenti, normalmente traendo un lucro dalla sua attività. - Il corriere che non fornisce servizi sui luoghi di immigrazione, ma svolge un ruolo di connessione con la società di origine. 6. Le variabili influenti Non è sempre facile distinguere cause ed effetti della solidarietà etnica. Parliamo, quindi, in modo più generale, di variabili che assumono rilievo nell’analisi delle reti migratorie. - Numerosità: secondo alcune interpretazioni gruppi troppo piccoli, o viceversa troppo numerosi, sembrano incontrare maggiori difficoltà nel formare reti etniche funzionanti. I primi rischiano di trovarsi dispersi, i secondi di non riuscire a conoscere e a filtrare i connazionali immigrati e di dovere fra fronte a una moltiplicazione di domande di aiuto. La numerosità va comunque rapportata all’ambito locale. Determinate condizioni, come l’azione di leader religiosi o di istituzioni autorevoli, possono favorire interscambi più allargati, spingendo ad ampliare la disponibilità al mutuo aiuto. - Concentrazione: ossia l’addensamento territoriale che condiziona la frequenza e l’intensità dei rapporti sociali tra i partecipanti. - Composizione: influenza la dotazione e quindi il capitale sociale che la rete può mettere a disposizione dei membri. Gruppi con significative quote di soggetti provenienti dalle classi medie, dotati di competenze professionali almeno in parte spendibili o riconvertibili, con buoni livelli di istruzione, appaiono avvantaggiati. Il livello di istruzione appare, tuttavia, un impatto ambivalente: dato che il mercato del lavoro offre agli stranieri soprattutto lavori poveri, mancano le opportunità di valorizzazione del capitale umano. Gli immigrati istruiti sono quindi spinti verso le medesime occupazioni manuali dei connazionali privi di titoli di studio. Di conseguenza cercano di emigrare una seconda volta verso paesi più aperti alle skilled migrations. - Coesione interna: ossia la forza dei legami che tengono insieme i partecipanti e li vincolano al sostegno reciproco, generando fiducia, scambi di informazione, circolazione di risorse di vario genere, difesa contro la discriminazione o la concorrenza di altri gruppi nazionali. - Capacità di controllo sociale: in parte dipende dagli elementi precedentemente richiamati ma che può essere identificata come un requisito specifico: quando le reti fanno capo a istituzioni dotate di autorevolezza morale e hanno leader riconosciuti, dispongono di maggiore capacità di influenzare i comportamenti dei membri, di sanzionare i casi di devianza, di richiamare il valore della tutela della buona reputazione del gruppo. La frequenza di incontri comunitari con elevato valore simbolico ribadisce il ruolo delle guide morali e innalza la capacità di controllo. Alcuni fattori incidono sulle variabili che abbiamo individuato: 1. La coesione interna e la disponibilità di mutuo aiuto sembrano essere influenzate da un fattore come la distanza geografica. Generalmente, chi arriva da più lontano è più selezionato alla partenza, dispone di maggiori risorse in termini di capitale umano e sociale, sa di dover investire in progetti migratori più dilatati nel tempo, acquista consapevolezza dell’importanza della coesione del gruppo per trovare appoggio e reggere i costi psicologici dello sradicamento e del trapianto nel nuovo contesto sociale. 2. Possiamo poi ricordare l’influenza del fattore tempo: i gruppi arrivati prima tendono a occupare gli spazi disponibili nel mercato del lavoro e ad attivare catene di richiamo a vantaggio dei connazionali, attuando strategie di chiusura nei confronti di altri gruppi di immigrati. delle famiglie nel reggere carichi domestici e assistenziali crescenti. Il ruolo della moglie o madre viene segmentato in diverse incombenze, di cui quelle più pesanti e sgradevoli, o tali da richiedere una presenza continuativa, vengono attribuite ad altre donne, le collaboratrici familiari, sempre più spesso straniere. A causa del nesso con le attività e le relazioni interne alla famiglia, queste occupazioni comportano poi una richiesta di coinvolgimento affettivo. Non si vendono e si comprano soltanto ore di lavoro o prestazioni, ma un modo di essere, di atteggiarsi e di entrare in relazione: si richiede di diventare una persona di famiglia. Dobbiamo distinguere almeno tre profili professionali del lavoro domestico assistenziale: 1. Assistente a domicilio: di anziani con problemi di autosufficienza. Cruciale è poi la domanda di co-residenza, e quindi l’impegno ad accudire le persone anche di notte e possibilmente nei giorni festivi. In questo segmento del mercato è larghissimo l’impiego di donne immigrate in condizione irregolare. Un aspetto positivo di questa situazione sacrificata è invece quello di poter enfatizzare la dimensione sanitaria dell’attività svolta, presentandosi e sentendosi come infermieri/e, impegnati in un’attività socialmente apprezzata come la cura di anziani e malati. 2. Collaboratrice familiare fissa: co-residente, un’occupazione che sembrava destinata a un declino irreversibile per carenza di candidati disponibili. Proprio l’arrivo di donne immigrate l’ha invece rivitalizzata. 3. Colf a ore: rappresenta spesso un’evoluzione dei primi due, per quanto riguarda le donne straniere, ma può anche trattarsi del primo sbocco occupazionale per le donne giunte insieme ai familiari o al seguito del marito. Per le immigrate che sono passate attraverso l’impiego fisso, il lavoro a ore rappresenta una sorta di promozione orizzontale. Qui, infatti, il lavoro si avvicina di più a un normale scambio contrattuale, di un certo numero di ore da dedicare allo svolgimento di compiti assegnati dal datore di lavoro in cambio di una determinata retribuzione, anche se non perde del tutto le connotazioni della dipendenza personale. Diminuisce, invece, la convenienza economica, perché l’autonomia abitativa comporta ingenti costi. Un’altra pista di riflessione concerne l’approfondimento delle differenze tra le donne impegnate nelle attività domestiche e di cura, in termini di condizioni biografiche, vincoli derivanti dalla distanza e dalla nazionalità, orientamenti progettuali, risorse personali. In una ricerca sull’argomento, sono stati individuati i seguenti profili: - Esplorativo: riferito a donne molto giovani, senza carichi familiari, arrivate in Italia e occupate nel settore in modo abbastanza casuale, interessate a sondare le opportunità che il contesto può offrire, a riprendere gli studi. - Utilitarista: relativo a donne di solito piuttosto avanti con l’età, che hanno lasciato in patria figli più granfi, dipendenti dalle loro rimesse ma non intenzionati a raggiungerle. Sono inclini a lavorare e risparmiare il più possibile, pensando di rientrare definitivamente in patria nel giro di qualche anno. - Familista: più vicino all’immagine delle madri transnazionali, donne giovani-adulte, con figli in età minorile lasciati in patria, che aspirano a ricongiungerli con loro in Italia e hanno come prospettiva quella di mettersi in regola. - Promozionale: che riguarda donne della stessa fascia d’età e di varia provenienza, dotate di alti livelli di istruzione, che sperimentano sentimenti di frustrazione per l’attuale collocazione occupazionale. 3. Caratteri e problemi del lavoro nell’ambito domestico La relativa facilità ne trovare occupazioni fi questo genere, anche in mancanza di un regolare permesso di soggiorno, ha come contrappunto una drammatica e perdurante difficoltà a uscirne per inserirsi in attività più qualificate. Ne derivano alcune conseguenze: 1. La prima è la saldatura tra uno stereotipo etnico e uno stereotipo di genere. Si attribuiscono alle donne immigrate, sulla base del semplice connotato etnico della provenienza da determinati paesi, attributi di gentilezza, che le renderebbero particolarmente adatte a rivestire certi ruoli. 2. La seconda conseguenza investe le scelte e le prospettive delle donne immigrate: molte donne si adattano alla situazione rinunciando a perseguire ambizioni di miglioramento sociale. Con il tempo, sembra verificarsi per alcune collettività una sorta di adattamento al ribasso tra offerta e domanda di lavoro. 3. In terzo luogo, vi sono i riscontri non solo di un’estesa violazione degli obblighi contrattuali, ma anche di abusi e prepotenze. Si verificano processi definibili di familiarizzazione: soprattutto gli anziani, tendono a sviluppare attaccamenti affettivi e ad attribuire alle loro assistenti domiciliari attributi di quasi-familiari. La familiarizzazione che si produce negli scambi quotidiani comporta la formazione di legami sinceri, e può comportare anche dei benefici per le lavoratrici. Assistiamo a una riedizione di forme di patronage, in cui i datori di lavoro assumono una sorta di protettorato nei confronti della lavoratrice, trattandola umanamente e aiutandolo in vario modo, per esempio con prestiti o anticipi sui salari. Come ha osservato Parreñas, non manca peraltro alle donne impiegate nel settore domestico la capacità di manipolare queste relazioni paternalistiche a proprio vantaggio. Possono usare a loro vantaggio questa relazione emotiva, usando tatticamente l’espressione di emozioni per negoziare concessioni o adattamenti delle condizioni di lavoro. Si formano famiglie transnazionali in cui in modo particolare madri e figli vivono in paesi diversi. Possiamo parlare di una stratificazione internazionale dell’accudimento: un numero crescente di famiglie dei paesi occidentali riesce a far fronte ai compiti di cura loro richiesti attingendo a un mercato internazionale delle cure domestiche, in cui l’offerta è rappresentata principalmente da donne migranti, a loro volta madri con famiglie da accudire e far crescere. Ne deriva come conseguenza quello che viene definito care drain: in cui il drenaggio riguarda le risorse di cura, sottratte da famiglie dei paesi di origine sotto forma di partenza delle madri per andare a svolgere altrove compiti di accudimento, obbligando i figli e il resto della compagine familiare a fronteggiarne le ricadute in termini di care shortage, di impoverimento dei dispositivi di accudimento e cura. Per molte donne dell’est o del sud del mondo, occupazioni che a noi appaiono dequalificate possono essere viste come strumento di emancipazione. L’indipendenza economica derivante dai salari che guadagnano diventa così una forma primordiale ma essenziale di promozione sociale. La possibilità di provvedere alla famiglia, di favorire spese e investimenti, eleva lo status sociale delle donne migranti nella società di origine. I legami di solidarietà con altre donne, parenti o connazionali, partecipi della medesima esperienza, compensano per quanto possibile la mancanza di una vera famiglia, arrecando sostegno emotivo e molteplici forme di mutuo aiuto. 4. Il protagonismo femminile Il protagonismo femminile si esplica a diversi livelli: 1. In prospettiva storica e con riferimento ai contesti di emigrazione, è stato notato che le stesse migrazioni temporanee maschili comportavano un aumento di autonomia delle componenti femminili, che assumevano la guida della famiglia. 2. Le migrazioni femminili sono più dipendenti da ragioni familiari di quelle maschili. Le rimesse rimandate in patria ne mostrano tangibilmente l’attaccamento verso i familiari. Anche la scelta di un impiego nel settore domestico può derivare dalla necessità di disporre un reddito stabile con cui aiutare la famiglia. Proprio il fatto di procurare risorse che servono al gruppo familiare innalza lo status delle donne migranti e ne aumenta il potere decisionale in seno alle famiglie. Le donne migranti diventano il perno delle strategie di mobilità sociale o di difesa dello status familiare. 3. In altri casi, l’emigrazione può essere invece la conseguenza della rottura di un matrimonio, una risposta alla separazione o alla vedovanza. Contiene in ogni caso un potenziale emancipativo, che spesso precede l’emigrazione e in ogni caso viene sostenuto e rafforzato dall’indipendenza economica acquisita. 4. Nel mercato del lavoro, non sempre le donne immigrate sono penalizzate rispetto ai loro partner. In alcune congregazioni indù, ad esempio, le donne hanno ruoli di rilievo, e li usano a riplasmare attivamente i contenuti della tradizione culturale affinché riflettano il loro status accresciuto. In altri termini, immettono principi femministi nella cultura etnica indù. 5. La stessa dedizione alla sfera domestica e familiare è stata riscatta e riletta come luogo di protagonismo e iniziativa, tanto nei contesti delle società tradizionali, quanto nei contesti di immigrazione. Qui sono proprio le donne, quando hanno sufficiente libertà di movimento e possibilità a costruire reti sociali, a gestire importanti funzioni di mediazione culturale, soprattutto sotto il profilo della conservazione delle abitudini e rituali. Pratiche come quella del prestito a rotazione, gestite principalmente dalle donne, sono state viste come luoghi in cui si rinsaldano i legami sociali nei contesti di inserimento. 6. Anche nei rapporti con la società ospitante, le donne migranti sono state viste come tessitrici di rapporti promotrici di processi di integrazione. 5. Le famiglie in emigrazione: oltre gli stereotipi La famiglia rappresenta un fattore di normalizzazione delle condizioni di vita dei migranti, che attraverso la formazione o la ricostituzione di una compagine familiare accrescono i rapporti con le istituzioni e con la società locale e assumono pratiche sociali e stili di vita più simili a quelli della popolazione autoctona. Le famiglie migranti sono state viste alternativamente come unità coese, portatrici di valori normativi e pratiche sociali tradizionali; oppure al polo opposto, come vittime di processi di disintegrazione e perdita di influenza normativa nell’impatto con il mondo occidentale. La famiglia immigrata è stata vista come un luogo in cui si realizza un’interazione dinamica tra dimensioni strutturali. Fanno incontrare nuove norme e valori. Di contro, codici culturali e simbolici che gli immigrati portano con sé dalla madrepatria continuano a influenzare valori familiari, norme e comportamenti. Per esempio, i tassi di matrimoni endogamici restano normalmente elevati. Tre osservazioni pongono in discussione le visioni convenzionali delle migrazioni familiari. 1. Il concetto di famiglia che viene applicato agli immigrati p definito dai paesi riceventi. L’oggetto famiglia immigrata di cui discutiamo, magari ponendone in rilievo le difficoltà di 4. Il percorso monoparentale: in cui uno solo dei genitori emigra, seguito da uno o più figli 5. Il percorso simultaneo: contraddistinto dall’arrivo contemporaneo o molto ravvicinato di entrambi i coniugi, e a volte di interi nuclei familiari 6. Il percorso delle famiglie miste: formate da partner di origine diversa in cui proprio la nascita dei figli e le scelte educative possono accendere conflitti tra i coniugi, nei quali entrano in gioco le differenze culturali e religiose. 7. Il caso in cui l’esperienza migratoria provoca una crisi del legame coniugale e il partner immigrato allaccia una nuova unione nel paese in cui si è stabilito Il ricongiungimento è comunque un fattore di normalizzazione della presenza degli immigrati, il cui profilo sociale e demografico tende così ad avvicinarsi a quello della popolazione autoctona delle stesse fasce d’età. 8. La produzione di nuove identità familiari: matrimoni e coppie miste Un’altra importante dimensione dei fenomeni migratori che investe le relazioni di genere e il ruolo femminile è rappresentata dai matrimoni e dalle coppie miste. Da alcune ricerche è emerso il fenomeno dell’acquisto di mogli in paesi più poveri, anche per mezzo di agenzie specializzate e di appositi cataloghi. Ricompare d’altronde nella considerazione dei matrimoni misti un vecchio fantasma, quello della perturbazione dell’ordine sociale, soprattutto allorquando un uomo straniero sposa una donna nativa. Nel nostro paese, il matrimonio misto rappresenta, non solo sotto il profilo giuridico, la più agevole porta d’accesso alla comunità nazionale, per quanti non possono vantare ascendenze etniche italiane. Gli studiosi si interessano soprattutto dei matrimoni interetnici o a mescolanza multipla, in cui la diversità di razza, di religione e di nazionalità si presentano spesso simultaneamente. In questo senso si può dire che la mixité è un concetto relativo. Perché si parli di mixité bisogna che venga percepita una diversità tra i partner, la cui connotazione si è modificata nel tempo. Per contro, non è necessario che uno dei partner sia straniero o nato all’estero: si parla di matrimoni misti anche nel caso di figli o di nipoti di immigrati, in possesso della cittadinanza. Marcatori come il colore della pelle o il credo religioso o il cognome sono sufficienti a introdurre la percezione di un elemento saliente di diversità. CAPITOLO 7 – I FIGLI DELL’IMMIGRAZIONE 1. La socializzazione dei figli dei migranti Un importante problema è quello del passaggio da immigrazioni temporanee a insediamenti durevoli. Bastenier e Dassetto hanno fatto notare che ricongiungimenti familiari, nascita dei figli, scolarizzazione, incrementano i rapporti tra i migranti e le istituzioni della società ricevente, producendo un processo di progressiva cittadinizzazione dell’immigrato. Dunque, la nascita e la socializzazione dei figli dei migranti, producono uno sviluppo delle interazioni: rappresentano un punto di svolta dei rapporti interetnici. Ne deriva una preoccupazione fondamentale, quella del grado, delle forme, degli esiti dei percorsi di incorporazione delle popolazioni immigrate nella società ricevente. Una questione del genere rimanda evidentemente all’identità e all’integrazione della società nel suo complesso. Non tutte le posizioni sul tema inclinano però al pessimismo. Va ricordata almeno la prospettiva ispirata ai cultural studies e al postmodernismo, in cui i giovani di seconda generazione diventano gli alfieri della costruzione di nuove identità sociali. La questione delle seconde generazioni diventa la cartina di tornasole degli esiti dell’integrazione di popolazioni alloctone. Definire le seconde generazioni è però meno scontato di quanto non appaia. Confluiscono in questa categoria concettuale casi assai diversi, che spaziano dai bambini nati e cresciuti nella società ricevente, agli adolescenti ricongiunti dopo aver compiuto un lungo processo di socializzazione nel paese d’origine. Alcuni preferiscono parlare di minori immigrati, giacché il termine seconda generazione dovrebbe riferirsi primariamente ai minori nati nella società ricevente da genitori immigrati. Semmai, si può parlare di minori o di giovani o di persone di origine immigrata, ma prevale ampiamente nella letteratura internazionale, nonostante le obiezioni, il concetto di seconda generazione. Un altro nodo problematico è rappresentato dal momento dell’arrivo: fino a che età è lecito parlare di seconde generazioni? Il più controverso è lo status dei ragazzi e delle ragazze immigrati tra i 15 e i 18 anni, specialmente quando si tratta di minori non accompagnati, che emigrano da soli, anche se spesso in relazione a strategie familiari. Rumbaut ha colto questa difficoltà di inquadramento del tema, introducendo una visione graduata. Ha proposto pertanto il concetto di “generazione 1.5”, e aggiungendo poi la generazione 1.25 e quella 1.75: la generazione 1.5 è quella che ha cominciato il processo di socializzazione e la scuola primaria nel paese d’origine, ma ha completato l’istruzione scolastica all’estero; la generazione 1.25 è quella che emigra tra i 13 e i 17 anni; la generazione 1.75 si trasferisce all’estero nell’età prescolare. Con riferimento al caso italiano potremmo distinguere: - Minori nati in Italia - Minori ricongiunti - Minori giunti soli - Minori rifugiati - Minori arrivati per adozione internazionale - Figli di coppie miste Lo stesso concetto di generazione non è privo di ambiguità: può riferirsi infatti alla discendenza alle classi di età, alle coorti demografiche, ai periodi storici. 2. Seconde generazioni, coesione sociale e processi di integrazione De Wind e Kasinitz parlano di ansietà di assimilazione e sottopongono a critica l’idealizzazione del melting pot del passato: l’americanizzazione era allora considerata un progetto da perseguire, e l’assimilazione nella società americana era vista come desiderabile e inevitabile allo stesso tempo. Il caso delle seconde generazioni immigrate rimanda alla tensione tra l’immagine sociale marginale e collegata a occupazioni umili dei loro genitori, e l’acculturazione agli stili di vita e alle rappresentazioni delle gerarchie occupazionali acquisite attraverso la socializzazione nel contesto delle società riceventi. L’aggregazione dei giovani intorno a identità religiose ed etniche e l’insorgere di manifestazioni anche violente di conflitto sociale nelle periferie ad alta concentrazione di popolazioni immigrate viene interpretata da diversi studiosi come l’effetto di una dissonanza tra socializzazione culturale ed esclusione socioeconomia. I giovani arabi e musulmani delle periferie difficili si definiscono così perché sono etichettati come tali dalla società francese, e poi perché questa identità simbolica assume un valore aggregante e una carica oppositiva nei confronti di una società escludente. Degli studiosi hanno messo in rilievo le accresciute difficoltà dell’integrazione delle seconde generazioni di oggi, giungendo a parlare di declino delle seconde generazioni. Portes e Rumbaut sottolineano in proposito l’incidenza di due ordini di fattori: 1. Le trasformazioni dell’economia americana, in cui stanno declinando le occupazioni industriali stabili e i gradini delle carriere gerarchiche tradizionali. 2. La differenza razziale, così come viene percepita e stigmatizzata dalla società ricevente: i migranti di oggi sono in maggioranza di colore, restano fisicamente distinguibili e quindi vengono colpiti con maggiore intensità da processi di etichettatura. Perlman e Waldinger ridimensionano la tendenza verso l’affermazione di una struttura economica polarizzata. Inoltre, le definizioni delle differenze razziali non sarebbero un punto di partenza per l’analisi delle forme di discriminazione, bensì gli esiti di processi di costruzione sociale. 3. L’integrazione delle seconde generazioni: visioni a confronto Diverse visioni o Una parte delle analisi sulle seconde generazioni riprende l’impianto strutturalista: anche i figli degli immigrati sono permanentemente svantaggiati e condannati all’esclusione dalle occupazioni migliori. Si studia quello che viene definito il paradosso dell’integrazione: mentre i genitori spesso rimangono relativamente invisibili, inseriti in occupazioni in cui si trovavano pochi lavoratori nazionali, i figli si proiettano verso un arco molto più ampio di opportunità. Da questi processi discenderebbe una crescente etnicizzazione della povertà in Europa, con il rischio della formazione di una underclass permanentemente esclusa dal mercato del lavoro. Thrananrdt con riferimento al caso tedesco, propone una visione più articolata degli esiti della seconda generazione. Thrananrdt interpreta queste differenze in relazione alla capacità di auto- organizzazione, di negoziazione e di rappresentazione del proprio insediamento delle popolazioni immigrate, rifiutando di vedere queste ultime solo come clienti, oggetto di pratiche sociali attuate da altri, ma ponendo in rilievo il loro ruolo di attori che partecipano ai processi, interagendo con le istituzioni della società ricevente. o All’estremo opposto di un ideale arco delle posizioni teoretiche stanno le letture neo- assimilazioniste. Brubaker distingue in proposito due significati basilari del concetto di assimilazione, uno generale e astratto, l’altro specifico e organico. Nel primo significato, l’aspetto centrale è la crescita e similarità o somiglianza. Assimilare significa diventare simili. Nel secondo significato, assimilare significa assorbire o incorporare, implica un concetto di assorbimento. Brubaker sottolinea due aspetti: - Gli adolescenziali: per lo più di sesso femminile di età compresa tra i 14 e i 16 anni, e sono prevalentemente nati in Italia. È quindi un’identità tipicamente adolescenziale. Deriva dal desiderio di libertà e autonomia tipica dell’età. - Gli integrati: quasi adulti, senza rilevanti differenze tra maschi e femmine, e tra nati in Italia o all’esteri. Si tratta di ragazzi e ragazze che non fanno riferimento agli attributi etnici per definirsi, ma per i quali sono più importanti altri elementi. Non emerge un conflitto. - I ribelli: per lo più maschi e nati all’estero, senza differenze d’età. I giovani maschi che non hanno ancora rielaborato la separazione e il successivo ricongiungimento. Il legame con il paese d’origine sia ancora forte conseguenza di una migrazione non voluta e non pienamente accettata. - I conservatori: da una parte giovani nati in Italia da genitori di origine straniera che si fanno ambasciatori della cultura d’origine. Dall’altra parte, giovani emigrati nella preadolescenza e che hanno ormai superato il trauma del distacco e rielaborato la migrazione. Le proprie origini sono rinnovate e ribadite dai giovani conservatori con l’adozione di un’identità etnica. 5. Le istituzioni mediatrici: la scuola La seconda istituzione influente è la scuola. Vi sono diversi fattori che influenzano: 1. Un polo della questione è rappresentato dalle risorse e strategie delle famiglie. Sulla base delle ricerche disponibili, si può affermare che il livello di istruzione dei genitori anche per i figli degli immigrati rappresenta il più importante predittore del successo scolastico. 2. Il secondo polo è identificabile invece nel funzionamento dei sistemi scolastici delle società riceventi, dal loro grado di apertura nei confronti di alunni con un retroterra linguistico e culturale diverso. 3. Un terzo fattore influente sulle traiettorie di inclusione delle seconde generazioni e sulle stesse prestazioni è il contesto di ricezione dell’immigrazione. La possibilità di entrare legalmente, il riconoscimento delle credenziali educative acquisite in patria, e molti altri fattori intervengono a plasmare la chance di inserimento e di promozione sociale degli immigrati. Per quanto riguarda il successo scolastico una prima ricerca è un importante lavoro di taglio demografico. L’aspetto più preoccupante che la ricerca pone in luce riguarda proprio i risultati scolastici: i ragazzi di origine straniera vengono bocciati e abbandonano gli studi molto più spesso dei coetanei e dei genitori italiani. I rischi maggiori di dispersione scolastica riguardano i ragazzi giunti in Italia ad un’età più avanzata, soprattutto nell’adolescenza. L’inserimento in classi inferiori all’età anagrafica e le ripetenze provocano una diffusa situazione di ritardo scolastico, crescente in relazione ai livelli di istruzione. L’altra ricerca approfondisce proprio l’aspetto del successo scolastico. Si tratta di un’indagine sul successo scolastico dei giovani ecuadoriani inseriti nella scuola secondaria superiore nel contesto genovese. La disuguaglianza tra i due gruppi non si verifica tanto a livello di risultati scolastici, quanto piuttosto nella scelta preventiva degli indirizzi di studio. Un altro risultato non scontato riguarda il maggior livello di impegno scolastico espresso dai ragazzi di origine immigrata. Anziché assomigliare alle famiglie autoctone, le famiglie immigrate mostrano a questo riguardo una significativa peculiarità, mentre si avvicinano ad esse per un altro aspetto saliente: l’influenza positiva di una famiglia integra, in cui i figli vivono insieme ad entrambi i genitori biologici. 6. Socialità e processi di identificazione: il caso delle bande Le strategie identitarie. La questione più avvertita è senza dubbio quella delle aggregazioni di strada a carattere etnico, note come bande o gang. Oggetto delle ricerche sono stati i numerosi adolescenti giunti nel capoluogo ligure in tempi molto rapidi. Le loro aggregazioni spontanee, e una serie di episodi come risse, o forme di delinquenza, sono state collegate in uno schema cognitivo unitario, che ha portato alla nascita di un vero e proprio genere giornalistico, quello delle baby gang. Nella sfera della socialità, le aggregazioni spontanee dei ragazzi di origine straniera segnalano a un tempo un deficit d’integrazione sociale e una produzione di nuove identità. La condizione di esclusione può diventare l’anticamera della marginalità o può dar luogo alla costruzione di nuove identità sociali. Ha così luogo un lavoro incessante di rielaborazione dell’immagine di sé e di ridefinizione della propria identità. Nell’emigrazione l’aggregazione tra pari, coetanei e connazionali non è solo il luogo in cui stare insieme, ma anche una risorsa da cui attingere modelli di comportamento. Le ricerche genovesi hanno approfondito in modo particolare le funzioni delle aggregazioni di strada e le potenzialità che offrono. Barrios e Brotherton attribuiscono alle organizzazioni di strada tre funzioni: la recovery, ossia la fuoriuscita da esperienze di vita traumatiche e la reintroduzioni in uno spazio collettivo che offre autostima e benessere; il renaming, ossia la risignificazione della realtà circostante a partire dalle proprie condizioni e dai propri bisogni di gruppo sociale marginale; la reintegration, ossia il reinserimento sociale all’uscita dal carcere, in un’organizzazione che diventa una sorta di famiglia che accoglie. Queirolo Palmas illustra bene i processi di reinvenzione dell’etnicità che danno forma a questa ricerca di sé, parlando di giovani che non hanno costruito una casa a distanza, la nostalgia dell’esilio culturale, hanno invece dato forma ad una casa che attraversa le frontiere. 7. Seconde generazioni e nuove identità culturali Quattro traiettorie idealtipiche delle seconde generazioni 1. Confluenza negli strati svantaggiati della popolazione: con scarse possibilità di fuoriuscita da una condizione di esclusione. Il concetto di downward assimilation pone in evidenza come l’emarginazione strutturale comportino il rischio dell’assunzione di un’identità etnica reattiva, contrapposta ai valori e alle istituzioni della società ricevente. 2. Assimilazione culturale elevata: si contrappone una bassa integrazione sotto il profilo strutturale. 3. Integrazione selettiva: la conservazione di tratti identitari minoritari diventa una risorsa per i processi di inclusione e in modo particolare per il successo scolastico e professionale delle seconde generazioni. 4. Assimilazione lineare classica: l’avanzamento socioeconomico si accompagna all’acculturazione nella società ricevente, e questa a sua volta comporta il progressivo abbandono nell’identificazione con un’appartenenza etnica minoritaria e di pratiche culturali distintive. La condizione delle seconde generazioni è dunque per definizione ambigua, in bilico tra appartenenza ed estraneità. Come ha mostrato la ricerca pioneristica di Andall su un piccolo campione di giovani di origine africana a Milano, essere neri ed essere italiani sono ancora categorie percepite come reciprocamente esclusive. Il tema della cittadinanza sta a cuore a questi giovani, mentre avvertono come un’ingiusta discriminazione gli ostacoli frapposti al pieno riconoscimento della loro appartenenza alla società italiana. La cittadinanza è quindi percepita in primo luogo come riconoscimento formale, come documento ufficiale che consente di fissare la propria residenza senza restrizioni. In secondo luogo, viene la cittadinanza come partecipazione alla vita pubblica, qui l’accento viene è posto sulla possibilità di essere legittimati a parlare e di essere ascoltati. La dimensione della cittadinanza come appetenza e identificazione risulta invece fluida e articolata. Soprattutto tra i giovani nati in Italia da genitori stranieri si profila l’aspirazione a coltivare forme di identificazione plurime e differenziate. La società ricevente è chiamata a sviluppare investimenti adeguati nell’inclusione dei nuovi residenti, dando pratica attuazione al diritto alla somiglianza che sta alla base di ogni progetto di integrazione concepita come uguaglianza fi trattamento di opportunità. invece come circoli o club, dei quali si può entrate a far parte se si è ammessi da chi è già membro di diritto. La terza, più, liberale è invece paragonabile a un quartiere, in cui ci si può trasferire e risiedere a piacere. La concezione della cittadinanza come famiglia trova un corrispettivo nel diritto di sangue. In Italia nel ’92 il codice della cittadinanza è stato riformato nel senso di prevedere un più agevole recupero della cittadinanza italiana. Gli anni di residenza legale necessari sono stati infatti portati a dieci, ridotti a quattro per i cittadini di altri paesi e dell’Unione Europea. Rimane invece relativamente facile diventare italiani per matrimonio. Zincone ha parlato di rafforzamento, di fronte all’immigrazione di una concezione etnica, familiare dell’appartenenza. Il diritto di sangue continua a rappresentare il principio largamente prevalente di attribuzione della cittadinanza, come mostra il caso del trattamento riservato ai discendenti di antichi emigranti: alcuni autori parlano persino di una tendenza alla rietnicizzazione della cittadinanza. Anche la tendenza verso l’idea della cittadinanza come quartiere mediante la naturalizzazione per diritto di residenza appare oggi meno netta che nel recente passato. In Italia la legge quadro del ’98 ha introdotto la carta di soggiorno, conseguibile dopo cinque anni di residenza continuativa, portati a sei dalla nuova legge Bossi-Fini. In diversi paesi europei possono votare ed essere eletti nelle elezioni per le amministrazioni locali. Il tema del voto e soprattutto delle possibilità di naturalizzazione, assume grande rilievo come soluzione per porre rimedio a una contraddizione posta in rilievo ancora da Walzer: gli stranieri tollerati in quanto lavoratori disposti a sobbarcarsi le mansioni più ingrate, ma esclude dai processi decisionali. Questa per Walzer è una forma di tirannia. Cittadinanza sociale → Marshall → tre elementi della cittadinanza marshalliana sono stati acquisiti in una sequenza che parte dai diritti civili, si estende ai diritti politici e infine include i diritti sociali. Per gli immigrati, la sequenza si inverte: i diritti sociali sono stati i primi a essere convessi. Diritti sociali non supportati da una base di diritti politici rischiano però di restare fragili e revocabili. Doppia cittadinanza → fino a pochi decenni fa la cittadinanza e la lealtà politica verso una specifica comunità politica nazionale erano considerate inseparabili. Oggi si può invece notare una graduale e lenta ma fondamentale evoluzione da un’esclusiva sovranità degli Stati ad un crescente riconoscimento delle legittime istanze e dei diritti degli individui. Secondo questa prospettiva, i migranti stanno gradualmente acquisendo una facoltà formalmente riconosciuta di esercitare diritti di cittadinanza in più di uno stato sovrano. Tipicamente europeo è un altro allargamento, in direzione di una cittadinanza sovrapposta che non rinnega la cittadinanza nazionale, ma vi aggiunge una cittadinanza sovranazionale nell’ambito dell’Unione Europea, che conferisce alcuni diritti esercitabili al di fuori dei confini del proprio paese. Ne deriva una stratificazione civica con la formazione di una gerarchia che vede al livello più basso gli immigrati irregolari, poi nell’ordine quanti dispongono di un permesso di soggiorno limitato nel tempo, i lungo residenti con uno statuto stabile, i migranti interni all’Unione Europea; infine, sul gradino più alto, i cittadini a pieno titolo. La cittadinanza appare un concetto politico più fluido e mobile, il cui significato convenzionale è soggetto a continui conflitti e rinegoziazioni. Ong, in questa prospettiva, parla di cittadinanza flessibile. I diritti umani prima strettamente connessi alla nazionalità, ora si applicano sempre più anche ai residenti non cittadini. Allo stesso tempo, nella formazione di identità miste, il paese di origine diventa fonte di identità, e il paese di destinazione una fonte di diritti. Si collega a questo filone il dibattito sulla possibilità di denazionalizzare la cittadinanza, introducendo idee come quella di cittadinanza transnazionale o cittadinanza globale. Bosniak distingue in proposito quattro significati della cittadinanza: 1. Legale: designa lo status formale di membro di una comunità politica: lo status formale di cittadino rimane largamente legato allo stato nazionale. 2. Cittadinanza e diritti: le rivendicazioni postnazionali hanno più spazio, in nome dell’universalità dei diritti umani riconosciuti a livello internazionale, trascendendo la giurisdizione dei singoli stati nazionali. 3. Partecipazione attiva: alla vita politica, un numero crescente di persone è coinvolto in pratiche politiche democratiche attraverso i confini, nella forma di movimenti sociali transnazionali. 4. Identificazione e solidarietà: l’immigrazione mostra che di fatto le persone possono mantenere appartenenze e legami che trascendono i confini nazionali. Una forma di cittadinanza transnazionale ormai codificata in molte legislazioni nazionali è la possibilità di votare all’estero per l’elezione delle istituzioni politiche della madrepatria. Queste politiche rispondono secondo Baubock a tre aspettative: 1. Alimentare il senso di appartenenza alla patria 2. Mantenere vivo l’impegno nell’invio di rimesse 3. Poter contare sulla mobilitazione dei connazionali nei paesi riceventi come strumento di politica estera. La constatazione dell’esclusione dai diritti politici ha altresì indotto a individuare e valorizzare alcune possibili forme di partecipazione politica indiretta. In molti paesi l’associazionismo immigrato ha assunto con gli anni crescente importanza e svariate funzioni che spaziano dalla rappresentanza politica alla fornitura di servizi. La sindacalizzazione è consistente. L’adesione rischia di essere però perseguita e vissuta come domanda di tutela più che di partecipazione. I principali significati contenuti nel termine cittadinanza sono: - Appartenenza a uno stato: e alla sua giurisdizione, che comporta il diritto a risiedere liberamente sul territorio e a uscire e rientrare dai suoi confini - Emancipazione: la condizione di persona adulta che decide di sé stessa e partecipa alle decisioni pubbliche. - Dotazione comune: un insieme di protezioni e benefici garantiti dai poteri pubblici. - Standardizzazione: ossia la condizione di uguaglianza tra i cittadini, superando differenze e particolarismi locali, religiosi, etnici, linguistici. 3. La dimensione locale Si riscontra una crescente consapevolezza della dimensione locale dell’appartenenza sociale e della cittadinanza. Lo scambio quotidiano in cui si ridefinisce l’identità delle persone deve molto alle interazioni e ai contatti che si producono a livello locale, così come varie misure di politica sociale dipendono dalle istituzioni operanti a livello locale. A livello locale si sono sviluppate tuttavia anche politiche di esclusione degli immigrati. È cresciuta la consapevolezza della possibilità che i governi locali possano operare non per l’integrazione, ma per l’esclusione degli immigrati, sia in termini di esclusione formale sia garantendo formalmente parità di accesso. Decentramento e autonomia dei poteri locali tendono altresì a istituire sensibili differenze nei dispositivi di accoglienza all’interno dello stesso paese. Un tentativo di proporre una tipologia delle politiche locali per gli immigrati in Europa è stato compiuto da Alexander; il suo approccio collega le politiche locali a diverse visioni delle relazioni tra autoctoni e stranieri, riproducendo a livello decentrato le impostazioni delle politiche nazionali come il lavoratore-ospite, l’assimilazionista e il pluralista, con l’aggiunta di una sorta di punto zero in cui la presenza degli immigrati viene semplicemente ignorata dalle autorità locali. Le politiche locali non seguono tuttavia in modo meccanico le impostazioni nazionali, ma sovente si discostano, dovendo fronteggiare a livello periferico i fallimenti delle politiche nazionali. Alexander distingue quattro ambiti di azione politica: 1. Giuridico-politico: in cui trovano luogo istituzioni come i comitati consultivi degli immigrati e le relazioni con le associazioni rappresentative 2. Socioeconomico: dove si collocano le misure relative all’inclusione nel mercato del lavoro, nei servizi scolastici e educativi, nei servizi sociali, nonché la gestione dell’immigrazione come problema di ordine pubblico 3. Culturale-religioso: riferito ai rapporti con le istituzioni religiose delle minoranze e alla consapevolezza pubblica della diversità etnica 4. Spaziale: relativo alle politiche abitative, al trattamento delle enclave etniche, all’uso simbolico dello spazio Due elementi fondamentali che accomunano i modelli di intervento locale si riferiscono all’ottica emergenziale e alla preoccupazione di rendere poco visibili gli interventi stessi. I processi di naming e framing elaborano lo schema cognitivo, di lettura e interpretazione della realtà, che predispone il terreno per le scelte propriamente politiche, a loro volta influenzate dalle scelte politiche attuate in precedenza e dagli assetti organizzativi consolidati. Emerge qui il ruolo delle burocrazie di strada, ossia degli operatori dei servizi che interagiscono direttamente con i beneficiari dei servizi. Questi processi producono uno scarto tra la dimensione delle politiche dichiarate e quelle politiche in uso, che si riferisce ai comportamenti effettivi. 4. Il ruolo delle iniziative solidaristiche Terzo settore → settore solidaristico → diviso da Douglas in tre classi di organizzazioni no profit: le organizzazioni propriamente caritative (di cura; si possono dividere in due categorie: su base volontaria e organizzazioni strutturate che utilizzano personale retribuito e professionalizzato), i gruppi di pressione (di tutela dei diritti), le organizzazioni di mutuo aiuto (condividono una determinata condizione di bisogno). Questi ultimi possono essere assimilati con le reti e l’associazionismo etnico. Le modalità di azione dell’associazionismo nei confronti degli immigrati possono essere quindi suddivise in almeno quattro idealtipi: 1. Associazionismo caritativo: aiuto diretto alle persone in difficoltà. 2. Associazionismo rivendicativo: attivo soprattutto sul fronte dell’iniziativa politica e culturale. Hanno svolto un ruolo attivo nella spinta all’innovazione legislativa. 3. Associazionismo imprenditivo: tende a organizzarsi in forma cooperativa e a fornire agli immigrati servizi più complessi. Fornisce servizi con una logica più professionale, di impresa sociale, che assume solitamente la figura giuridica della cooperativa. 4. Associazionismo promosso dagli immigrati: nel nostro paese è ancora debole e poco attrezzato per fornire servizi. L’associazionismo formale rappresenta un fenomeno diffuso, ma molto fragile e soggetto a un elevato turnover. Le reti etniche sono invece indubbiamente molto vitali, anche se alquanto differenziate a seconda dei gruppi nazionali. 4. Teorie fenomenologiche: legano i fenomeni xenofobi a una trasformazione sociale in cui certe promesse politiche non possono più essere mantenute e si diffondono tensioni anomiche in ampi strati della società, ponendo in crisi l’identità collettiva e la sicurezza di sé. Non si deve ritenere che la xenofobia sia un fenomeno tipico delle ideologie conservatrici e posizioni politiche di destra. Non è neppure vero che il pregiudizio colpisca soltanto gli stranieri. Le società riceventi costruiscono la figura dell’immigrato, inquadrandolo in modo da produrre nella sua collocazione sociale una perdita di status. Balbo e Manconi → occorre cautela nell’etichettare come razzismo ogni espressione di disagio, di protesta o anche di pregiudizio nei confronti degli immigrati. Un altro ordine di considerazioni riguarda l’evoluzione del razzismo intellettuale elaborato, un pensiero razzista frutto di una costruzione intellettuale che ambisce a una dignità scientifica. Qualsiasi teoria che stabilisca una priorità o un’inferiorità intrinseca di gruppi razziali o etnici, in base alla quale si riconosca agli uni il diritto di dominare o di eliminare gli altri, presunti inferiori. Al centro del razzismo classico o biologico stava dunque la nozione di razza, basata sulla continuità tra l’aspetto fisico e le qualità intellettuali e morali, nonché sulla superiorità della dimensione collettiva su quella individuale. Esistono due forme di razzismo classico: - Eterorazzizzazione: la razza sono gli altri, diversi e inferiori, da sterminare o sottomettere - Autorazzizzazione: la razza siamo noi, gli eletti, insigniti di un diritto naturale al dominio. Taguieff parla di razzismo differenzialista che prende allora la forma di un’esaltazione delle differenze. Le identità culturali vengono dunque concepite come rigide, non modificabili. Taguieff parla di mixofobia → orrore della mescolanza tra gruppi umani. L’approccio essenzialista → attitudini e comportamenti individuali vengono spiegati in base all’appartenenza, ascritta e immodificabile, a una certa categoria collettiva. Il neorazzismo si impadronisce di determinati argomenti dell’antirazzismo, come elogio delle differenze. 3. I processi discriminatori Taguieff → discriminazione = trattamento differenziale e ineguale delle persone o dei gruppi a causa delle loro origini, delle loro appartenenze o delle loro opinioni, reali o immaginarie. Il che comporta l’esclusione di certi individui dalla condivisione di determinati beni sociali. Occorre notare che non sempre e necessariamente il pregiudizio etnico si traduce in discriminazione razziale, così come varie forme di discriminazione non implicano necessariamente dei pregiudizi<i. va poi osservato che non tutte le preferenze accordate ai membri del gruppo sociale di appartenenza sono illegittime e vanno etichettate come forme di discriminazione. Un altro problema deriva dal fatto che non sempre gli interessati sono consapevoli di subire della discriminazione. Diverse forme di discriminazione razziale: - Forme esplicite o dirette di discriminazione: una serie di scelte che generano di fatto una chiusura. A volte il problema si pone in termini di discriminazione tra immigrati di diversa provenienza. Nel dibattito internazionale nelle procedure di selezione del personale e nei successivi sviluppi di carriera si evoca l’influenza di quei fattori che vengono sinteticamente definiti “le tre A”: accento, ascendenza, apparenza. - Discriminazione istituzionale: limitazioni della possibilità di accedere a determinate occupazioni, diritti o benefici attuata dalle istituzioni pubbliche delle società riceventi, sulla base della cittadinanza, senza che questi vincoli siano rilevanti per la mansione e senza che sia in gioco una questione di scurezza nazionale. 1. Una manifestazione è rappresentata dalle norme della reciprocità: certe facoltà sono concesse ai cittadini stranieri solo a patto che nel paese da cui provengono le medesime opportunità siano riconosciute ai cittadini italiani. La norma della reciprocità presenta almeno tre inconvenienti: è di difficile applicazione sul piano burocratico, rischia di impedire al nostro paese di fruire dell’apporto economico e professionale di talenti stranieri, subordina l’autonomia normativa dello stato italiano alla volontà politica di altri. 2. Un secondo esempio è rappresentato dall’impiego pubblico: in Italia, come in molti altri paesi, soltanto chi gode della nazionalità italiana può accedervi. 3. Un terzo esempio di decimazione istituzionale è ravvisabile nella ritrosia a riconoscere i titoli di studio rilasciati da paesi esterni al sistema occidentale, la cui convalida è soggetta a procedure complicate e costose, che spesso per di più alla fine consentono soltanto un riconoscimento parziale. 4. Un quarto caso è rappresentato dalle politiche locali di esclusione degli immigrati da determinati benefici, oppure dal varo di regolamentazione volte direttamente a inasprire i controlli, o tendenti a limitare le loro opportunità di insediamento e promozione. - Discriminazione implicita o indiretta: ricorre quando disposizioni e pratiche sociali apparentemente neutre, giustificate, dotate di fondamenti razionali, adottando criteri generali, di fatto penalizzano o favoriscono alcuni gruppi etnici. Si parla anche in questo caso di discriminazione oggettiva. La differenza tra discriminazione istituzionale e discriminazione indiretta può essere rintracciata in due aspetti: nella seconda non si danno elementi dichiarati di esclusione, e in secondo luogo, possono ricadervi anche fenomeni non connessi alle norme e all’azione delle istituzioni pubbliche. A volte la discriminazione implicita può essere l’effetto involontario di atteggiamenti o disposizioni che intenderebbero di per sé favorire gli immigrati. - Discriminazione statistica: l’attribuzione a un intero gruppo sociale di atteggiamenti, caratteristiche, comportamenti, effettivamente osservabili in alcuni soggetti appartenenti al gruppo. Spesso si traduce in discriminazione diretta. Banton distingue la discriminazione statistica da quella categoriale giacché quest’ultima è per definizione rigida, mentre la prima è sensibile all’esperienza contraria, ossia può essere corretta sulla base del riscontro fattuale. 4. La discriminazione sui luoghi di lavoro Rathzel → distingue quattro forme di discriminazione sui luoghi di lavoro: 1. Discriminazione nella gerarchia occupazionale esistente: i lavori meno attraenti, più pericolosi, più dannosi per la salute e peggio pagati sono attribuiti in larga misura a lavoratori di origine immigrata. 2. Discriminazione al di fuori della gerarchia occupazionale: pratiche e tese a collocare i lavoratori immigrati al di fuori della struttura organizzativa, come il ricorso a contratti a breve termine. 3. Discriminazione attraverso il trattamento egualitario: l’applicazione, formalmente ineccepibile, di regole universalistiche a casi e situazioni che meriterebbero invece una maggiore flessibilità e considerazione delle diversità etnico-culturali. 4. Discriminazione nelle relazioni di lavoro quotidiane: le vessazioni informali e ricorrenti, inflitte dai compagni e dagli immediati superiori ai lavoratori immigrati, magari sotto forma di battuta scherzosa. Questa classificazione ha il merito di tenere conto di un’ampia gamma di comportamenti discriminatori riferibili ai contesti lavorativi: - Nell’accesso all’impiego - Nelle modalità di assunzione - Nella concentrazione settoriale e occupazionale - Nelle opportunità di carriera - Nell’esposizione a rischi infortunistici e malattie professionali - Nella possibilità di accedere al lavoro autonomo 5. Un’ipoteca sul futuro Un trattamento ingiusto nei confronti degli immigrati e dei loro figli ha presto o tardi ricadute sulla qualità della convivenza nelle società riceventi. L’apertura all’altro, la capacità di riconoscerlo come simile e di includerlo su un piano di parità sarà un terreno decisivo per la costruzione del futuro di società avviate ineluttabilmente verso un futuro di multietnicità. In questo orizzonte si possono distinguere due aspetti della questione: 1. Ruolo delle istituzioni pubbliche: il superamento delle forme ingiustificate di discriminazione istituzionale e di esclusione degli immigrati stranieri da opportunità e benefici. Se la tutela dell’uguaglianza è un principio acquisito, un risvolto più controverso della questione riguarda la cosiddetta discriminazione positiva: in alcuni paesi sono stati introdotti dei correttivi per i candidati provenienti dalle minoranze. 2. Interazioni sociali quotidiane: qui le azioni discriminatorie possono erigere barriere contro le forme più esplicite di discriminazione, come quelle riferite al linguaggio. Le azioni possibili si spostano sulle vie più lunghe e impervie della promozione culturale e educativa.