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spiegazione delle azioni umane, Dispense di Analisi Dei Dati Per La Ricerca Sociale

Dispensa che spiega le azioni umane

Tipologia: Dispense

2015/2016

Caricato il 31/10/2016

Crysty94
Crysty94 🇮🇹

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Scarica spiegazione delle azioni umane e più Dispense in PDF di Analisi Dei Dati Per La Ricerca Sociale solo su Docsity! Corso di Sociologia e ricerca sociale Prof. C. De Rose DISPENSA 3 SULLA SPIEGAZIONE DELLE AZIONI UMANE Per una riflessione critica sul concetto di causalità e sul carattere nomologico della spiegazione scientifica* Carlo De Rose 1 Sapere scientifico e scienze umane* Il riesame critico del positivismo scientifico che si è sviluppato nel corso del Novecento nell’ambito della filosofia della scienza ha contribuito a chiari- re i fondamenti metodologici della conoscenza scientifica e a ridefinire i principi generali cui do- vrebbero ispirarsi tanto coloro i quali sono impe- gnati nel lavoro di ricerca e nello sviluppo di teorie in grado di spiegare i fenomeni oggetto di osserva- zione, quanto coloro che applicano le conoscenze acquisite nei piú diversi campi della vita umana. Sintetizzando tali principi1, possiamo parlare di conoscenza scientifica di un qualsiasi fenomeno se si verificano le seguenti condizioni: • se si arriva a formulare una spiegazione del fenomeno identificando le condizioni in cui esso si manifesta e le leggi che intervengo- no in tale manifestazione fenomenica; • se si riesce a stabilire quali sono i nessi causali tra i fenomeni correlati; • se le spiegazioni avanzate si fondono su osservazioni o riscontri di natura empirica; • se queste osservazioni o riscontri empirici sono dimostrabili, verificabili e quindi po- tenzialmente riproducibili, fosse anche in modo indiretto o sotto forma di sperimenta- zioni o simulazioni; • se le conoscenze di base che vengono ri- chiamate (senza essere oggetto di dimostra- zione) nella costruzione delle spiegazioni dei fenomeni sono a loro volta già acquisite e validate, ovvero riconosciute dalla comu- nità scientifica. Possono questi principi, considerati irrinuncia- bili per le cosiddette scienze esatte, assumersi co- me riferimento anche per le scienze umane? Questo interrogativo è stato oggetto di un lunga e animata disputa metodologica, nota come Met- hodenstreit, sorta nel 1883 ad opera di alcuni rap- presentanti dello storicismo tedesco.2 Le principali questioni sollevate ruotano intorno al problema della specificità dell’oggetto e del me- todo proprio delle scienze umane (anche dette scienze della cultura o dello spirito) e della difficile assimilabilità di queste alle scienze della natura. Le ragioni addotte a sostegno del riconoscimento di un diverso statuto epistemologico possono essere riassunte come segue: a) diversamente dai fenomeni naturali, le azioni umane sono determinate e orientate da intenzioni, ossia motivi, credenze, sentimenti, valori; tali intenzioni non sono tanto da studiare come cause, ma come fonti di significato delle azioni stesse; b) considerata la specificità delle azioni umane, la loro interpretazione richiede l’adozione di approcci metodologici diversi da quelli adottati per le scienze naturali; tali 2 ** Il testo di questo articolo è in parte tratto da Il soggetto situato, testo già pubblicato dall’autore per l’editore Rubbettino. 1 Qui si richiamano i principi già presentati nell’articolo Il problema della conoscenza e la nascita del pensiero scientifico proposto in questo stesso volume. Ad esso si fa rinvio per un approfondimento sul dibattito che è alla base della revisione e ridefinizione del positivismo scientifico. 2 Una presentazione dei termini chiave di questa disputa è proposta sia da Sparti (1995) che da Borutti (1999). Per maggiori approfondimenti sulle posizioni assunte dai protagonisti di questa disputa si fa invece rinvio a Rossi (1977 e 1994). Il pavone, il gorilla, la leonessa, la gallina o il cro- staceo non attribuiscono un senso intenzionale ai loro comportamenti, ma semplicemente li mettono in atto, e lo fanno istintivamente6. Anche nell’uomo ritroviamo dei comportamenti istintivi che sono espressione della sua natura bio- psichica. Ma ciò che distingue l’uomo da altri esse- re viventi è la sua capacità intenzionale, ecco per- ché affermiamo che il concetto di azione può esse- re applicato soltanto all’uomo. Se la distinzione tra comportamenti animali e azioni umane risulta sufficientemente intuibile, meno ovvi risultano tuttavia i confini tra compor- tamenti istintivi e azioni dell’uomo7. Tale distin- zione riusciamo talora a renderla esplicita con chiarezza, come quando evidenziamo il carattere istintivo dello sbattere delle ciglia contrapponen- dolo al carattere intenzionale dello strizzare l’oc- chio. In altri casi la distinzione è meno certa. Ci si chiede se è istintiva (e in che senso lo è) la paura ed i comportamenti messi in atto allorché si è presi da un simile sentimento, se è istintivo il desiderio sessuale e le comunicazioni d’intesa che si stabili- scono tra un uomo e una donna reciprocamente attratti; se è istintivo l’atteggiamento di protezione materno e se lo è anche quello paterno; se è possi- bile considerare istintivo il gesto omicida che un uomo mette in atto per difendersi da un’aggressio- ne o che sfocia da uno stato di collera o dispera- zione estrema dovuta alla scoperta di un tradimen- to insospettato o di un’aggressione perpetuata ai danni di una persona amata. la spiegazione scientifica delle azioni umane 5 6 Ai fini del nostro discorso qui ovviamente operiamo una semplificazione del concetto di comportamento istintivo la cui trattazione imporrebbe una maggiore differenziazione tipologica. Konrad Lorenz, ad esempio, a proposito del comportamento animale ha introdotto un’importante distinzio- ne tra istinto, inteso come uno stimolo endogeno, e reazione d’orientamento, intesa come il risultato di uno stimolo esogeno. Cosí, se è sicuramente istintivo per le galline il covare le uova, piú complesso deve considerarsi il comportamento messo in atto da un gruppo di leonesse a caccia nella loro strategia di mimetico avvicinamento alla preda e attacco di gruppo. In questo secondo caso, oltretutto, è ipotizzabile che non siano in opera soltanto dei comportamenti istintivi geneticamente trasmessi, ma anche dei comportamenti appresi attraverso l’esperienza. Sui confini tra comportamento istintivo e comportamento appreso si è comunque sviluppato un ampio dibattito interno a quel campo disciplinare che è l’etologia. Per un’introduzione a questo dibattito si veda Fantini (1988). 7 Si fa osservare che alcuni autori utilizzano il termine “comportamento”, senza alcuna aggettivazione, con lo stesso significato che in questo testo attribuisco al termine “comportamento istintivo”, ovvero come manifestazione di tipo istintivo o reattivo da distinguere dall’azione intenzionale. Cosí è, ad esempio, nella definizione che propone Crespi (1989, pp. 13-14) che segue la distinzione weberiana tra agire e comportamento. La scelta di aggettivare il termine caratterizzandolo come istintivo è però dettata da una duplice ragione. In primo luogo perché nel linguaggio comune col termi- ne comportamenti si allude anche alle azioni oltre che ai comportamenti “reattivi” o “riflessi”, il che introduce possibili ambiguità concettuali nell’uso che si fa del termine stesso se non chiaramente esplicitato (su questo punto cfr. anche Schütz 1932, trad. it. 1974, pp. 73-86). In secondo luogo perché nella sociologia come nella psicologia sociale il termine comportamento, benché all’origine sia stato introdotto con una forte connotazione determini- stica per indicare le reazioni abituali a determinate situazioni, rinvia a piú complesse manifestazioni umane non del tutto distinguibili dagli atteggia- menti o dalle azioni intenzionali. 6 Poi c’è da chiedersi se non ci sia da operare anche una differenziazione interna ai comporta- menti, riconoscendo la diversa natura di quelli che possiamo definire comportamenti istintivi in senso stretto rispetto a quelli che si presentano piuttosto come comportamenti reattivi o culturalmente ac- quisiti attraverso processi di apprendimento. 8 Tali interrogativi sollecitano una concettualiz- zazione piú articolata dell’azione. Le distinzioni introdotte tra azioni ed eventi o tra azioni e com- portamenti rappresentano in effetti solo uno stadio preliminare di delimitazione del campo di osserva- zione. Ciò che a questo punto si rende necessario è un approfondimento sui concetti di intenzionalità e intenzione indicati come i caratteri distintivi del- l’azione. Intenzionalità come conferimento di senso Prendendo le mosse dalla fenomenologia di Husserl e dalla traduzione in termini sociologici che ne fa Schütz, il concetto di intenzionalità può essere definito come l’effetto del processo di con- ferimento di senso attraverso il quale il soggetto agente prefigura, dà corso e interpreta il suo agire. Per Schtüz ciò che differenzia l’azione da un sem- plice comportamento involontario e inconsapevole è il suo carattere di progetto9 che nel soggetto agente si sviluppa in primo luogo come anticipa- zione (Vorerinnerung) dell’azione, ovvero, nei termini di Husserl, come un essere-orientato-verso. Alla fase per cosí dire preparatoria o di pre-memo- razione dell’azione, Schütz fa seguire la fase del vissuto, ossia la fase del decorso attuale dell’azione e quella dell’azione compiuta in cui il conferimen- to di senso si produce nella riflessione, attraverso il ricordo, sull’azione stessa. L’intenzionalità che si esprime nel passaggio da una fase all’altra non è necessariamente rappresentabile come un processo coerente di conferimento di senso. L’azione può infatti assumere un significato nel momento in cui essa è pre-figurata e questo significato può risultare assolutamente chiaro al soggetto. Ma tale significa- to può anche “dissolversi” nelle fasi successive perché sostituito da altri significati o a causa di una “inadeguatezza del ricordo” che porta a rielaborare diversamente il significato dell’azione compiuta. (cfr. Schütz, 1932, trad. it. 1974, p. 89)10. Questa articolazione dei momenti dell’azione su cui richiama l’attenzione Schütz suggerisce una serie di considerazioni intorno al concetto di inten- zionalità. Intanto c’è da osservare che l’idea d’intenziona- lità sottesa nella definizione d’azione non equivale a quella di volontà. E’ vero che per Schütz l’azione è il frutto di un’attività “spontanea” che si pone in essere sulla base di un progetto, il quale a sua volta presuppone una qualche condizione di “consapevo- lezza” del soggetto agente, di “evidenza” del senso auto-conferito (cfr. ivi, p. 92). Il carattere sponta- Carlo De Rose 8 A tal proposito è opportuno ricordare la distinzione che opera Weber allorché afferma: «Il confine di un agire dotato di senso nei confronti di un comportamento meramente (per cosí dire) reattivo, non congiunto con un senso soggettivamente intenzionato, è assolutamente fluido. Una parte assai rilevante del comportamento che riveste interesse per la sociologia, in particolare l’agire puramente tradizionale, sta al limite tra l’uno e l’altro. In parecchi casi di processi psico-fisici non è presente un agire dotato di senso, cioè intellegibile, ed in altri esso appare tale soltanto per gli speciali- sti…» (Weber, 1922, trad. it. 1981, p. 4). E’ evidente che nei “comportamenti reattivi” Weber include anche quei comportamenti assunti sulla base di atteggiamenti interiorizzati, fatti propri dal soggetto agente senza che siano veramente associati ad un senso intenzionale. 9 Come Schütz stesso fa osservare, l’idea del carattere progettuale in questo contesto del discorso sull’azione del soggetto agente è mutuata dalla riflessione sull’esserci di Heidegger, anche se assunta con un significato diverso (cfr. Schütz, 1932, trad. it. 1974, p. 80). 10 A proposito del processo di conferimento di senso specificato da Schütz nel presentare l’articolazione delle fasi costitutive dell’azione, Crespi fa notare che esso ha delle implicazioni non solo per il soggetto agente (l’attore), ma anche per gli altri soggetti destinatari o osservatori dell’azione, anch’essi a loro volta coinvolti nella produzione di senso in merito all’azione (cfr. Crespi-Jedlowski-Rauty, 2000, p. 348). neo e consapevole cui fa riferimento Schütz, tutta- via, non è l’espressione di una volontà definibile in termini metafisici. Il conferimento di senso, cioè, non è rappresentabile come il risultato di una mo- nolitica volontà antecedente e indipendente dal costituirsi del soggetto attraverso l’azione. Esso s’iscrive piuttosto all’interno di un contesto moti- vazionale ed intersoggettivo, in cui di volta in volta si produce il progetto dell’azione e che è spiegabile solo in rapporto a quelli che Schütz, in continuità con Husserl, definisce vissuti passati, i quali sono soggetti ad una sintesi continua (cfr. ivi, p.135). L’altra osservazione è che l’intenzionalità del- l’azione presuppone un soggetto intenzionante, ossia un soggetto agente o attore. Nel discorso di Schütz la centralità assegnata al soggetto del- l’azione non risponde all’esigenza di ribadire una concezione antropologica dell’uomo, né a richia- mare l’attenzione su questioni di ordine morale (come l’autonomia e la responsabilità dell’indivi- duo), né a risolvere il dilemma relativo alla libera volontà dell’uomo (volontarismo o determinismo). L’attore è al centro della teoria dell’azione di Schütz in quanto produttore di senso. E il conferire senso, ossia il caratterizzare intenzionalmente un’azione, è a sua volta il prodotto di un processo complesso che non coinvolge l’attore soltanto nella sua individualità, cioè nella sua soggettività, ma nella sua intersoggettività, che è relazione con altri e che è relazione con un mondo di significati co- muni e preesistenti, per cosí dire già disponibili e che fanno parte del vissuto esperienziale di ciascuno.11 Infine c’è da osservare che il carattere di inten- zionalità, per come posto nella sociologia fenome- nologica di Schütz, implica anche uno spostamento di attenzione dal problema dell’attribuzione causa- le al problema del riconoscimento del senso sog- gettivo conferito dall’attore all’azione, o potremmo dire del senso soggettivo che si esprime attraverso l’azione. Una cosa è indagare il senso soggettivo conferi- to all’azione, altra cosa è indagarne la causa. E a tal proposito Schütz prende anche le distanze dal- l’idea di spiegazione causale di matrice positivista, basata su un rapporto legiforme di causa-effetto. Egli piuttosto si riferisce ai motivi dell’azione che, come già ricordato, vanno ricercati nel contesto motivazionale del soggetto agente, contesto che a sua volta si costituisce a livello psichico attraverso i vissuti in cui confluiscono e si sedimentano le esperienze soggettive e intersoggettive. Intenzioni e motivi La distinzione tra intenzioni e motivi cui fa rife- rimento Schütz si rivela cruciale ai fini della nostra riflessione, anche perché permette di stabilire le basi concettuali per la successiva problematizza- zione del modello di spiegazione causale. Per chia- rire meglio tale distinzione è però necessario torna- re a soffermarsi ancora sul carattere intenzionale dell’azione. A tal riguardo può essere utile prendere le mos- se dal tipo di analisi linguistica condotta dalla An- scombe (1957) sul concetto di intenzione e dai si- gnificati che lei isola come pertinenti in rapporto all’idea di azione. Tali significati possono essere riassunti in tre diverse espressioni: a) io ho inten- zione di fare questa o quella cosa; b) io ho fatto ciò intenzionalmente; c) questa cosa è stata fatta con questa o quella intenzione.12 la spiegazione scientifica delle azioni umane 7 11 Schütz riprende il concetto di intersoggettività da Husserl, il quale lo utilizza nel descrivere il processo di riconoscimento dell’altro e dell’in- tenzionalità dell’altro, e per indicare la produzione intersoggettiva di senso, il costituirsi di un mondo comune che è mondo-della-vita (Lebenswelt). Sullo sviluppo che Schütz opera della filosofia di Husserl si veda anche Crespi-Jedlowski-Rauty (2000, pp. 342-50). 12 La citazione è tratta da Ricoeur (1977, p. 65). 10 quando parliamo di motivi non ci riferiamo al pro- posito perseguito – piú o meno razionalmente e coscientemente – con l’azione, ovvero al legame esistente tra l’intenzione dell’azione e l’effetto che si prevede essa possa determinare, quanto piuttosto al nesso esistente, o che si presume esista, tra l’in- tenzione dell’azione e gli antecedenti esperienziali (o condizioni antecedenti) da cui essa ha origine, che per cosí dire la suscitano. Detto in altri termini, i motivi non coincidono con gli scopi dell’azione, benché questi ultimi pos- sano anche essere rappresentati come la logica conseguenza dei primi. Essi vanno pertanto distinti concettualmente. Ciò però non è ancora sufficiente a chiarire come intendere i motivi dell’azione, os- sia come interpretare la natura di quel nesso esi- stente tra ciò che abbiamo indicato come antece- denti esperienziali e l’intenzione dell’azione. Piú precisamente non è chiaro: a) se l’imputazione del- le azioni a dei motivi debba necessariamente pre- supporre il riconoscimento (o la riconoscibilità) di detti motivi; b) se i motivi dell’azione debbano essere riconoscibili razionalmente, ovvero debbano poter spiegare razionalmente l’intenzione del- l’azione, e ciò a prescindere se essa resti solo una pre-figurazione intenzionale o se invece si traduca effettivamente in azione; c) se per motivi del- l’azione bisogna intendere soltanto quei motivi riconosciuti esplicitamente come tali dal soggetto agente; d) se l’imputazione delle azioni a dei moti- vi, ovvero il nesso tra antecedenti esperienziali e intenzione dell’azione, sia da interpretare o meno come una relazione di tipo causale. Nel tentare di dare risposta a tali interrogativi diventa indispensabile differenziare sul piano con- cettuale i motivi dell’azione distinguendoli ulte- riormente dalle ragioni e dai moventi dell’azione. Questi due termini sono abbastanza ricorrenti nella descrizione e interpretazione dei processi che sono alla base delle azioni umane, benché utilizzati con significati diversi e a volte assunti semplicemente quali sinonimi di motivi o anche di cause del- l’azione. Qui ci interessa però attribuire ad essi un significato specifico funzionalmente alla nostra analisi delle condizioni in cui si produce la delibe- razione soggettiva all’azione e dei problemi con- nessi alla sua interpretazione Per ragioni intendiamo quegli antecedenti espe- rienziali, cioè quei vissuti o quelle rielaborazioni dei vissuti, che vengono addotti e rappresentati – dallo stesso soggetto agente o da terzi – come esplicativi o giustificativi del significato attribuito all’azione. Una ragione rappresenta cioè un motivo particolare, ossia un’esperienza, una circostanza, uno stato d’animo o un sentimento, una credenza, un bisogno o un desiderio, un qualsiasi elemento del vissuto, o una sua rielaborazione, che viene identificato – attraverso un processo interpretativo – come determinante del costituirsi dell’intenzione del soggetto agente e del consequenziale tradursi di questa intenzione in azione. Cosí definita, la ragione dell’azione si distingue dai motivi dell’azione per il fatto che: a) ad essa si attribuisce una “evidente” connessione, razional- mente riconoscibile, con l’azione stessa e gli scopi ad essa associati, ovvero con il significato esplici- tamente attribuito ad essa dal soggetto agente; b) tale connessione assume i caratteri di una relazione causale, o perlomeno si configura come una specie particolare di relazione causale. Rinviando ai paragrafi successivi la riflessione sulle implicazioni che derivano dall’assunto causa- listico e razionalizzante implicito in tale qualifica- zione delle ragioni dell’azione – anche dette ragio- ni motivanti – qui ci preme richiamare l’attenzione sulla distinzione concettuale che se ne ricava ri- spetto ai motivi dell’azione. A tal fine, semplifi- cando le valenze concettuali connesse all’uso dei due termini, possiamo dire che, mentre è possibile imputare un’azione ad una ragione e farlo giustifi- cando il nesso logico che esiste tra l’una e l’altra, piú difficile risulta ricondurre l’intenzione del- l’azione ai suoi motivi. Detto in altri termini, l’identificazione della ragione dell’azione è il piú Carlo De Rose delle volte il risultato di una semplificazione dei processi da cui dipendono il costituirsi delle inten- zioni ed il tradursi delle intenzioni in azioni conse- quenziali. Questa semplificazione risponde ad un’esigenza di razionalizzazione dell’intenzione sottesa all’azione, di decifrazione del significato ad essa attribuito, esigenza che è funzionale ad un obiettivo di descrizione o interpretazione del- l’azione stessa. Ma i motivi di un’azione difficil- mente si esauriscono nella ragione addotta per spiegarla, e indicare una ragione non equivale neanche ad averne identificato la causa. Di fatto, identificare una ragione dell’azione significa sostanzialmente operare una selezione tra i motivi dell’azione disponibili, cioè riconoscibili come tali e ai quali si può attribuire una piú evi- dente e immediata connessione logica con l’azione stessa, tale da potersi configurare come una specie di relazione causale17. In questo senso si può dire che la ragione di un’azione è sempre costruita. E ciò vale sia se l’imputazione dell’azione ad una ragione è operata da un osservatore esterno, sia se essa è frutto dell’interpretazione dello stesso sog- getto agente18. La razionalizzazione dell’azione da parte del soggetto agente attraverso l’esplicitazione della sua intenzione non fornisce cioè maggiori garanzie in merito all’effettiva corrispondenza tra ragione addotta e motivi sottostanti all’azione19. Per come definita, la ragione motivante di un’azione può essere chiamata in causa soltanto per spiegare l’agire del soggetto razionalmente conseguente ad un’intenzione, allorché l’azione la spiegazione scientifica delle azioni umane 11 17 Il processo di selezione dei motivi dell’azione cui facciamo riferimento è paragonabile al processo di selezione dei significati e delle cause dell’azione cui fa riferimento Weber allorché mette in evidenza la relatività dell’interpretazione dei fatti storico-sociali prodotti dall’agire umano. «Noi ci chiediamo (…) come sia in linea di principio possibile, e attuabile, l’imputazione di un “effetto” concreto da una “causa” particolare, in con- siderazione del fatto che in verità sempre un’infinità di momenti causali ha condizionato il venire alla luce del “processo” particolare, e che per il presentarsi dell’effetto nella sua forma concreta erano indispensabili senz’altro tutti quei momenti causali» (Weber, 1906, trad. it. 1980, p. 212). 18 La distinzione tra una circostanza e l’altra non è affatto una variabile marginale, come del resto osserva Schütz nella sua analisi critica della teoria weberiana dell’azione: «La definizione di Weber del motivo comprende insieme il nesso significativo vissuto dall’attore stesso, come ragione sensata del suo comportamento, e quello supposto da colui che osservi questo comportamento, sebbene l’autointerpretazione dell’agire da parte del- l’attore e l’interpretazione di questo stesso agire effettuata da un alter ego siano semplicemente incommensurabili proprio per una teoria del “signifi- cato inteso”» (Schütz, 1932, trad. it. 1974, p. 123). Rispetto all’esigenza espositiva di evidenziare la differenza concettuale tra motivi e ragioni del- l’azione, tuttavia, prendere in considerazione contestualmente tale variabile comporterebbe un’eccessiva complicazione del nostro discorso che ci allontanerebbe dall’obiettivo perseguito. Sulle implicazioni inerenti alla posizione del soggetto che interpreta l’azione torniamo però piú avanti, allor- ché affrontiamo il problema della razionalizzazione dell’azione quale forma di spiegazione causale. Qui è sufficiente precisare che l’interpretazione del soggetto agente e quella di un alter ego possono non coincidere nel senso che la ragione dell’azione addotta dall’uno sulla base di un’operazione di autoriflessività può non corrispondere alla ragione dell’azione che invece risulta evidente all’altro. Ciò tuttavia non significa necessariamente che una interpretazione esclude l’altra. Potrebbe anche essere che le ragioni addotte dall’uno e dell’altro siano il risultato di una interpretazione che nasce, oltre che da una diversa percezione degli antecendenti esperienziali che hanno innescato il costituirsi di un’intenzione, anche da una diversa domanda di senso, da un diverso “perché?”. 19 A tal proposito Weber fa osservare che: «abbastanza spesso “motivi addotti” e “rimozioni (cioè, in primo luogo, motivi non confessati) na- scondono proprio all’individuo che agisce la reale connessione nella quale si dispiega il suo agire, di modo che anche testimonianze soggettivamente sincere hanno soltanto un valore relativo.» (Weber 1922, trad. it. 1981, vol. I, p. 9). 12 stessa sia in qualche modo configurabile come un “progetto” (nell’accezione proposta da Schütz). Quando la consequenzialità e la coerenza tra inten- zione e azione risultano incerte e se l’azione – ben- ché possa definirsi intenzionale, cioè non mera- mente reattiva o istintiva – risulta difficilmente interpretabile in termini di deliberazioni razional- mente assunte, piú che di ragione motivante parle- remo allora di movente. Con questo termine qui intendiamo riferirci a circostanze, stati d’animo, sentimenti, credenze, intuizioni del momento, cui il soggetto agente attribuisce un significato e che in rapporto a tale significato soggettivamente attribui- to agiscono in lui come antecedenti in grado di sollecitare – attraverso un processo non necessa- riamente a carattere razionale (nel senso di logica- mente consequenziale e coerentemente orientato al perseguimento di uno scopo) – una deliberazione all’azione. Comprensione e spiegazione L’esplicitazione del rapporto che intercorre tra motivi, intenzioni e azioni, e la distinzione concet- tuale proposta tra motivi, ragioni e moventi, per- mettono a questo punto di affrontare con maggiore consapevolezza la questione relativa alla spiega- zione causale delle azioni umane. Tale questione – che abbiamo indicato come uno dei nodi del dibat- tito epistemologico che nasce alla fine dell’Otto- cento20 e che assume una particolare rilevanza an- che negli sviluppi del pensiero filosofico del Nove- cento e nella ridefinizione dei problemi centrali della teoria della conoscenza – riguarda piú preci- samente il significato ed il ruolo della spiegazione causale nell’interpretazione scientifica tanto dei fenomeni naturali che delle azioni umane. Assumendo posizione contro i principi fonda- mentali del positivismo di Comte e Mill, e respin- gendo sia l’idea dell’unicità del metodo scientifico (monismo metodologico), sia la concezione del sapere scientifico come fondato sulla spiegazione causale, Dilthey sostiene la necessità di ricorrere ad un approccio che potremmo definire di tipo er- meneutico nello studio dei fenomeni storico-socia- li. Riprendendo un’idea già introdotta dallo storico Droysen, infatti, Dilthey sviluppa la famosa distin- zione metodologica tra spiegazione (Erklären) e comprensione (Verstehen) richiamando l’attenzione sull’inadeguatezza del principio di causalità nel- l’interpretazione dei fatti oggetto di studio delle cosí dette “scienze dello spirito” (Geisteswissen- schaften) quali la storia, la psicologia, l’antropolo- gia, la sociologia. La spiegazione appartiene alla logica descrittiva delle scienze della natura interessate a dare ragione dei singoli fenomeni attraverso l’identificazione delle loro cause, ovvero attraverso la determina- zione di leggi generali capaci di giustificare le rela- zioni di causa/effetto ipotizzate. Le scienze dello spirito, invece, non devono spiegare causalmente i Carlo De Rose 20 Nei suoi termini essenziali si tratta in verità di una questione presente da lungo tempo nella riflessione filosofica intorno ai fondamenti della conoscenza (intesa nell’accezione del termine greco episteme, cioè come “conoscenza certa”). La sua problematizzazione può essere rintracciata già nella critica operata dai rappresentanti dello scetticismo antico verso la presunta giustificabilità delle conoscenze e nell’opposizione che essi ne deri- vano verso ogni forma di dogmatismo (cfr. Preti 1993 e Musgrave 1993, trad. it. 1995). Ma è con la nascita del pensiero scientifico moderno e con il serrato confronto che si stabilisce tra razionalisti ed empiristi in merito alle fonti e ai modi della conoscenza, che la questione della spiegazione causa- le, diventa oggetto di una piú attenta definizione, fino a trovare una precisa collocazione nella filosofia positivista con la formalizzazione delle basi logiche del procedimento scientifico da parte di Mill. (Su questo punto si rinvia comunque all’articolo “Il problema della conoscenza e la nascita del pensiero scientifico” presente nello stesso volume.) co-sociali questo obiettivo non è perseguibile per- ché è impossibile determinare tutti gli elementi del processo causale cui ricondurre un certo evento o uno specifico agire umano24. Per Weber, dunque, la spiegazione delle azioni umane da parte delle scienze storico-sociali è sempre una spiegazione parziale, in quanto permette di individuare solo alcuni antecedenti e non la totalità degli anteceden- ti che le determinano. Nella concezione weberiana, come ricorda Rossi, ciò implica che «il rapporto tra una certa condizione o un certo complesso di con- dizioni (considerate come cause di un fenomeno) e il fenomeno da spiegare non è esprimibile in un giudizio di necessità, cioè in un giudizio il quale asserisca che, data quella condizione o quel com- plesso di condizioni, ne deriva immancabilmente come suo effetto quel fenomeno» (cfr. Rossi-Mori- Trinchero, 1975, p. 19). Spiegare gli eventi storici o i modi di agire so- ciale degli individui per Weber non equivale a identificare le leggi causali cui tali fenomeni sono sottoposti, quanto piuttosto le condizioni che li hanno resi o li rendono possibili. Il riferimento alle condizioni presuppone cioè una causalità diversa da quella implicita nel riferirsi a delle leggi. Nel primo caso si tratta di un rapporto di causazione possibile (o condizionale), nell’altro di un rapporto di causazione necessaria. Alla concezione naturalistica di causa-effetto Weber contrappone una concezione di spiegazione condizionale, in cui il nesso di causazione ipotizza- ta può risultare piú o meno stringente. Da qui la distinzione che egli adotta tra “causazione ade- guata” e “causazione accidentale” per indicare la ricorrenza sistematica o meno di un fenomeno in corrispondenza di certe condizioni. Spiegare un fenomeno identificandone le sue condizioni o circostanze, non significa che nelle scienze storico-sociali il riferimento a leggi genera- li sia del tutto assente. Ma nei termini del metodo weberiano, e soprattutto nella formulazione che egli propone del procedimento interpretativo pro- prio della sociologia – ossia di quella scienza orientata alla generalità e non alla singolarità degli eventi (che invece è il campo di interesse della sto- ria), il cui oggetto di studio è rappresentato dal- l’agire sociale degli individui – il riferimento a leggi generali, o per lo meno a uniformità di com- portamento, assume piú che altro una funzione eu- ristica, nella costruzione di processi tipico-ideali in rapporto ai quali comparare i processi reali. Resta però il fatto che per Weber la realtà sociale non è sottoposta a leggi necessarie, a relazioni invariabili come avviene per i fenomeni della natura. La spie- gazione dei fenomeni storico-sociali, di conse- guenza, non consiste nello stabilire rapporti neces- sari tra il verificarsi di un fenomeno e determinate condizioni, quanto piuttosto nell’indicare dei rap- porti di condizionamento, descrivibili in termini di probabilità. Le uniformità di comportamento che le scienze storico-sociali arrivano a identificare in relazione a determinate condizioni o a specifiche tipologie di soggetti o gruppi sociali non possono tradursi nell’enuncia-zione di leggi generali, ma la spiegazione scientifica delle azioni umane 15 24 Questa idea della possibilità di un riconoscimento solo parziale degli antecedenti causali dell’azione umana è in verità già presente in Mill che la considera la conseguenza della complessità dei fattori che intervengono sulla formazione del “carattere individuale”. Per il filosofo inglese, tuttavia, ciò di per sé non giustifica la negazione del principio della causalità, né la rinuncia a ricercare leggi in grado di dare ragione dei comportamenti indi- viduali e collettivi (cfr. Mill, 1843, trad. it. 1988, libro sesto). «Le azioni degli individui non potrebbero essere predette con accuratezza scientifica, non fosse altro perché non possiamo prevedere la totalità delle circostanze in cui verranno a trovarsi questi individui. (…) neanche in una combina- zione data di circostanze (presenti), a proposito della maniera in cui gli esseri umani penseranno, sentiranno o agiranno si possono fare asserzioni che siano, nel medesimo tempo, precise e universalmente vere. Questo, però, non accade perché i modi di pensare, di sentire e di agire di ogni persona non dipendano da cause; e non possono esserci dubbi che, se i nostri dati a proposito di un qualsiasi individuo potessero essere completi, anche la conoscenza che attualmente abbiamo delle leggi fondamentali da cui sono determinati i fenomeni della mente sarebbe sufficiente a metterci in grado di predire con discreta certezza quale sarà la condotta o quali saranno i sentimenti di quest’individuo nel maggior numero pensabile di circostanze» (Ibid., p. 1127). 16 nella formulazione di ipotesi interpretative di ca- rattere probabilistico. Detto in altri termini, l’imputazione causale è concepita da Weber come una costruzione concet- tuale, il cui scopo è quello di configurare i feno- meni sociali in un ordine di comprensibilità non in rapporto a degli antecedenti causali, quanto piutto- sto ai significati impliciti nelle forme d’agire che li determinano. In questo modo Weber riesce ad ope- rare una connessione tra l’intendere e lo spiegare, prendendo le distanze tanto dal vago intuizionismo storicista, quanto dal naturalismo ermeneuticamen- te aproblematico dell’approccio positivista. Causalismo e intenzionalismo L’apparato concettuale messo in campo da We- ber per tentare di fare chiarezza sugli aspetti piú controversi del metodo delle scienze storico-sociali fa da sfondo al dibattito che si ripropone nel corso del Novecento intorno ai problemi epistemologici connessi all’interpretazione delle azioni umane. All’interno di questo dibattito è possibile di- stinguere due posizioni principali, le quali riprodu- cono, pur con nuove argomentazioni, la contrappo- sizione già emersa alla fine dell’Ottocento tra posi- tivisti e antipositivisti in merito alle implicazioni metodologiche derivanti dal riconoscimento della specificità delle azioni umane rispetto agli eventi naturali, e ai modi d’interpretare le relazioni causa- li25. Nella prima posizione convergono quegli autori legati alla concezione cosiddetta naturalista del sapere scientifico, i quali sono convinti che, anche quando sia possibile distinguere gli eventi dalle azioni, ciò non toglie che queste, per essere spiega- te, debbano essere analizzate nelle loro connessioni causali, cercando di identificare quelle ricorrenze significative che permettono di ipotizzare l’esisten- za di relazioni legisimili. Nella seconda posizione, invece, ritroviamo quegli autori che considerano il modello nomologico di spiegazione causale inade- guato per l’analisi delle azioni. Tra essi vi sono coloro i quali lo ritengono inadeguato solo nel pre- supposto nomologico – perché esso implicherebbe una presunta regolarità (e dunque deterministica prevedibilità) delle azioni umane che si stabilisco- no in circostanze date – e coloro che ne mettono in discussione il principio ancor piú basilare della spiegazione causale. Da una parte, cioè, ritroviamo gli eredi del pen- siero di Hume e Mill, ossia i sostenitori del princi- pio dell’unità del metodo e della natura nomotetica della conoscenza scientifica. Dall’altra parte, ab- biamo gli eredi di quella corrente critica che trova espressione inizialmente in Dilthey e nello storici- smo tedesco di matrice neokantiana, i quali sosten- gono la necessaria distinzione tra spiegazione e comprensione, rifiutando il principio ontologico di causalità, secondo cui per ogni evento esiste neces- sariamente una causa26. Uno dei nodi teorici verso cui confluisce questo dibattito riguarda il riconoscimento o meno del Carlo De Rose 25 Sulle due tradizioni interpretative che fanno da sfondo al dibattito epistemologico del Novecento si fa rinvio anche alla ricostruzione proposta da von Wright (1971, trad. it. 1977). 26 La formalizzazione di questo principio – cui fanno piú ricorrente riferimento sia i sostenitori che i critici della spiegazione causale – quale fondamento di ogni conoscenza scientifica è quella di Mill. C’è però da osservare che in Sistema di logica deduttiva e induttiva Mill opera un’esposi- zione piú complessa di esso. Egli, ad esempio, riconosce che l’attribuzione di un effetto ad una causa rappresenta una semplificazione dei processi reali che sottostanno al prodursi dei fenomeni. Pur se con un intento teorico diverso, egli infatti insiste sulla distinzione tra causa e condizioni di un evento, precisando che la causa corrisponde semplicemente ad una delle condizioni antecedenti all’evento selezionata come tale perché considerata piú significativa, o perché permette di richiamare l’attenzione su un elemento la cui presenza (o assenza) è piú evidentemente riconoscibile come determinante per il prodursi (o non prodursi) dell’evento stesso (cfr. Mill 1843, trad. it. 1988, pp. 457-70). Sul principio di causalità e sulle implicazioni epistemologiche connesse ai diversi significati attribuiti alle relazioni causali si veda anche Amster- damski (1977). carattere causale del nesso che intercorre tra le ra- gioni (motivi o intenzioni) del soggetto agente e le sue azioni. Coloro che appartengono alla corrente di pensiero di matrice neo-positivista interpretano tale nesso in termini causali, sostenendo che nella descrizione delle azioni umane le ragioni o i motivi assumono una funzione del tutto simile, sul piano logico, a quella delle cause addotte per spiegare gli eventi naturali. Coloro che appartengono alla se- conda corrente di pensiero, invece, considerano logicamente incomparabili il rapporto di causa-ef- fetto esistente tra due eventi naturali descrivibili sulla base di una regolarità legiforme ed il nesso che intercorre tra le intenzioni con cui (o i motivi per cui) un’azione viene compiuta e l’azione stes- sa. Adottando la distinzione introdotta a tal riguar- do da von Wright (1971, trad. it. 1977, p. 120), indichiamo i primi come causalisti, e i secondi come intenzionalisti. L’interpretazione causalista del rapporto esi- stente tra le ragioni (motivi o intenzioni) del sog- getto agente e le sue azioni ha un precursore auto- revole in Mill, il quale, nel chiarire l’applicabilità dei principi della logica deduttiva e induttiva al- l’oggetto di studio proprio delle “scienze morali”, si confronta con la controversia sul libero arbitrio e con il problema del dualismo libertà-necessità. Nel prendere posizione in questa controversia, Mill (1843, trad. it. 1988, p. 1113) pone esplicitamente la questione se la legge della causalità postulata come fondamento di ogni conoscenza scientifica valga allo stesso modo per le azioni umane come per i fenomeni della natura. La sua opinione a ri- guardo è chiara: «dati i motivi che sono presenti alla mente di un individuo e dati, analogamente, il carattere o la disposizione dell’individuo, se ne potrà inferire senza tema di sbagliare, in quale ma- niera agirà quest’individuo: che se avessimo una conoscenza completa della persona, e conoscessi- mo tutte le influenze che agiscono su di essa, po- tremmo predire la sua condotta con una certezza eguale a quella con cui possiamo predire un qual- siasi evento fisico.» (ivi, p. 1114). Per Mill, come anche per Hume, i motivi e le disposizioni sono all’origine dei modi di agire in- dividuali ed il nesso tra essi può considerarsi cau- sale. Il non poter prevedere con certezza la condot- ta di una persona non dipende dal fatto che le azio- ni derivano da un’imperscrutabile volontà che de- termina se stessa, cosí come sostengono i fautori del libero arbitrio (cfr. ivi, p. 1113). Al contrario, ogni modo d’agire, cosí come ogni volizione, ha per Mill una causa (o meglio un insieme di cause), ha precisi antecedenti. Tra questi antecedenti e l’azione esiste un rapporto di causazione, che non consiste soltanto in una mera successione, ma che è spiegabile sulla base di regolarità legisimili. Tan- t’è che se ad un dato momento, per un determinato individuo, si conoscesse l’insieme degli anteceden- ti significativi della propria storia individuale e l’insieme delle disposizioni caratteristiche della psicologia umana, sarebbe possibile inferirne le azioni da lui molto probabilmente messe in atto, il che, secondo Mill, non rappresenta di per sé una negazione della libertà umana (cfr. ivi, p. 1114-23). Una concezione non molto dissimile da quella di Mill si riscontra nelle argomentazioni di quei neo-positivisti che difendono una interpretazione causalista del nesso esistente tra ragioni e azioni. Tra questi bisogna collocare certamente Carl Gu- stav Hempel, che con il suo tentativo di trasferire il modello di spiegazione basato sulle “leggi di co- pertura” anche allo studio delle azioni umane ha rimesso in discussione la significatività della di- stinzione tra scienze idiografiche e scienze nomote- tiche. Hempel sostiene che la spiegazione delle azioni non è dissimile, nella sua struttura logico-formale, dalla spiegazione di qualsiasi altro genere di even- ti. Il che significa che è possibile spiegare l’azione intenzionale ricorrendo al modello di spiegazione nomologica, ossia identificando gli antecedenti o le condizioni iniziali che caratterizzano la situazione la spiegazione scientifica delle azioni umane 17 20 La concezione nomologica della conoscenza, d’altra parte, rappresenta l’aspetto maggiormente oggetto di critiche da parte di coloro i quali sosten- gono la necessità di adottare un diverso approccio interpretativo nell’analisi della azioni umane. Tale concezione è considerata inadeguata sotto un du- plice profilo: a) perché pretende di estendere a qualsiasi genere di eventi, dunque anche alle azioni umane, l’assunto positivista fondamentale della regolarità dei fenomeni naturali; b) perché, in con- seguenza di questo assunto, adotta un principio di causalità di matrice humeana, secondo cui cause simili producono effetti simili. Le obiezioni avanzate verso la concezione no- mologica della conoscenza e verso l’interpre-ta- zione causalista del rapporto esistente tra motivi (ragioni o intenzioni) e azioni riguardano in primo luogo la loro applicabilità nell’interpretazione de- gli eventi storici. Uno degli interpreti di maggior rilievo di questa posizione critica è William Dray che, a partire dal noto saggio Leggi e spiegazioni in storia (1957, trad. it. 1974) mette in discussione l’adeguatezza del modello di spiegazione fondato sulle leggi di copertura, precisando che, nel caso degli eventi storici, la sua inapplicabilità non è do- vuta al fatto che tali leggi siano troppo complesse per essere ricostruite o troppo banali per essere menzionate.32 Secondo Dray, questa giustificazione della de- bolezza delle spiegazioni storiche suggerita da Hempel non è pertinente per il semplice fatto che le spiegazioni storiche non implicano alcuna legge empirica, non presuppongono alcuna legge di co- pertura per giustificare il nesso ipotizzato tra le condizioni del prodursi di un evento e l’evento stesso. E non potrebbe essere diversamente, dal momento che gli storici non sono interessati a spiegare classi di eventi simili – quali ad esempio le rivoluzioni – ricollegandole causalmente ad altre classi di eventi, bensí sono interessati agli eventi singoli in quanto tali. Non è ciò che tutte le rivolu- zioni hanno in comune il fenomeno storico da spiegare, bensí il decorso unico e irripetibile di ciascuna di esse (cfr. Ivi., pp. 71-2). Gli storici propongono spiegazioni plausibili degli eventi che studiano, situandoli in un contesto sociale, culturale o politico dato, ricollegandoli ad altri eventi di volta in volta identificati e giudicati come significativi per la comprensione dello svol- gersi dei fatti. Ma le spiegazioni suggerite non im- plicano l’assunzione di ipotesi generali sulla classe degli eventi in questione (ammesso che si possa stabilire che le diverse rivoluzioni appartengono ad una medesima classe di eventi). Affermare che «Luigi XIV morí impopolare perché perseguí una politica nociva agli interessi nazionali della Fran- cia» non equivale, cioè, a ipotizzare una legge che stabilisca che «i governanti che ignorano gli inte- ressi dei sudditi diventano impopolari» (cfr. Dray 1957, trad. it. 1974, pp. 44-8). Leggi simili, oltre- tutto, sarebbero facilmente confutabili, obbligando gli storici a ricorrere a formulazioni sempre piú generali, che però risulterebbero dotate di uno scarso potere esplicativo per dar conto dei singoli eventi. Né, a parere di Dray, rappresenta una soluzione accettabile quella avanzata da Hempel introducen- do la variante probabilistico-induttiva del suo mo- dello di spiegazione nomologica. Ciò per due di- verse ragioni. In primo luogo perché le leggi pro- Carlo De Rose 32 Dopo la pubblicazione nel 1942 del saggio The function of general laws in history, tra Dray ed Hempel si stabilisce un confronto serrato che si sviluppa attraverso alcuni loro scritti pubblicati tra gli anni Cinquanta e Sessanta (vedi soprattutto Dray 1957, trad. it. 1974; Dray 1964, trad. it. 1969; Hempel 1962, trad. it. 1979; Hempel 1965, trad. it. 1986) in cui riecheggiano le posizioni anche di altri rappresentanti delle due opposte tradizioni di pensiero cui abbiamo fatto cenno. Operando delle inevitabili semplificazioni, di questo confronto qui si richiamano solo alcune delle argomentazioni utili a chiarire i principali motivi di divergenza in merito al modo di intendere la spiegazione delle azioni umane con particolare riguardo al lavoro interpretativo degli storici. Per una ricostruzione piú analitica dei termini del confronto Hempel-Dray si rinvia invece alla sintesi proposta da Nannini (1992) oltre che alle considerazioni critiche e per molti versi chiarificatrici delle questioni teoriche sottostanti a tale confronto offerte sia da von Wright (1971, trad. it. 1977), sia da Aron (1972-74, prima ed. postuma 1989, trad. it. 1997). babilistiche rispondono logicamente ad un’esi- genza di previsione piú che di spiegazione a poste- riori, e dunque presentano un fattore d’ambiguità concettuale rispetto al processo di ricostruzione tipico degli eventi del passato. Ha poco senso, cioè, valutare la probabilità dell’insorgere di una rivoluzione in determinate circostanze allorché si deve spiegare la rivoluzione francese. In secondo luogo, perché una legge probabilistica implica lo- gicamente un riferimento ad una classe di eventi e non a singoli eventi. Piú precisamente, come os- serva anche Donagan (1964, trad. it. 1979), una legge probabilistica non spiega induttivamente eventi singoli, ma offre misure di tendenza utili a spiegare (o prevedere) eventi o fenomeni di carat- tere collettivo (mass-events). Se, d’altra parte, bisogna intendere l’applicabi- lità della spiegazione probabilistica in storia nel senso che una spiegazione può essere valida anche quando l’ipotesi generale che dovrebbe giustificar- la sia formulabile solo in modo approssimativo, allora «l’impressione che si ricava è che, per quan- to le leggi in questione siano e universali nella forma e strettamente connesse con la spiegazione che ricoprono, sia purtroppo impossibile dire che cosa esse siano» (Dray 1957, trad. it. 1974, p. 51). Ad un simile giudizio Hempel ribadirebbe che i suoi modelli di spiegazione sono comunque da considerarsi dei tipi ideali o delle schematizzazioni teoriche dei modi concreti di costruire le spiega- zioni; mentre Popper richiamerebbe l’attenzione sulla distinzione che bisogna operare tra “contesto della scoperta” e “contesto della giustificazione”, al fine di non confondere il processo che porta al- l’identificazione delle possibili cause di un feno- meno – processo che egli ritiene venga sistemati- camente messo in atto anche dagli storici – con il processo che porta alla costruzione di teorie in grado di giustificare gli eventi in rapporto a qual- che legge generale (cfr. Popper 1957, trad. it. 1975). Ciò che però sta dietro alle obiezioni di Dray è una critica piú basilare che riguarda il prin- cipio di inferenza di matrice humeana sotteso al modello di spiegazione nomologica, secondo cui per giustificare una relazione causale, ossia per giustificare un perché, bisogna riferirsi ad una qualche regolarità empirica (cfr. Dray 1957, trad. it. 1974, pp. 84-5). Il potere esplicativo di un resoconto storico, allorché propone la spiegazione di un evento, non dipende dal fatto che esso indichi sotto quale legge o regolarità sussumere l’evento in questione, ma perché piú semplicemente lo rende intelligibile, collocandolo in un preciso contesto e identificando dei nessi di fatto – non di regola – esistenti con altri eventi. Ai fini dell’intelligibilità di questi resoconti, secondo Dray, non risulta significativo neanche tentare di spiegare le azioni umane facendo riferi- mento a delle regolarità disposizionali, cosí come suggerisce Hempel mutuando l’idea dal modello di spiegazione delle azioni umane proposto da Ryle. Ma nel prendere le distanze da Hempel su questo punto specifico Dray propone una giustificazione concettualmente controversa. Egli infatti sostiene che non è possibile spiegare un’azione in termini causali operando delle generalizzazioni, anche se limitate a dei caratteri disposizionali, perché la spiegazione di un’azione consiste semplicemente nel rendere riconoscibile la razionalità del soggetto che la mette in atto, ossia il fondamento razionale dell’azione stessa. Questo genere di spiegazione delle azioni, che Dray definisce spiegazione razionale, offre però ad Hempel un’argomentazione a sostegno della sua tesi secondo cui una spiegazione necessita sempre di un riferimento a qualche regolarità. Se, come afferma Dray, spiegare un’azione equivale a mo- strare che quell’azione «era la cosa da farsi per le ragioni date, piuttosto che semplicemente la cosa da farsi in tali occasioni, magari in conformità a certe leggi» (Ivi, p. 172), resta pur sempre da chia- rire se la ricerca del fondamento razionale del- l’azione non costringa, in ultima analisi, a ipotizza- la spiegazione scientifica delle azioni umane 21 22 re una regolarità di comportamento, ovvero una disposizione tipica capace di rendere comprensibi- le l’azione stessa. A tal riguardo, Hempel fa osser- vare che, nel suo modello di spiegazione razionale, Dray assume un principio di razionalità senza arri- vare a riconoscere che la razionalità nel senso psi- cologico-descrittivo implica comunque una carat- teristica disposizionale. Descrivere l’azione facen- do riferimento ad un agente razionale significa, cioè, presupporre un insieme di disposizioni, cia- scuna delle quali può considerarsi come una ten- denza a comportarsi – regolarmente, oppure con una certa probabilità – in modo abbastanza univo- co o caratteristico in circostanze simili. Spiegare un’azione in termini di ragioni o di razionalità del soggetto agente equivale, dunque, a presentare l’azione come conforme a qualche tendenza gene- rale, oppure come una manifestazione di una qual- che regolarità riscontrabile empiricamente (cfr. Hempel 1965, trad. it. 1986, pp. 208-9). Questa critica alla spiegazione razionale propo- sta da Dray, oltretutto, è condivisa non solo da molti rappresentanti del positivismo logico piú di- rettamente aderenti alle posizioni teoriche di Hem- pel, ma anche da quegli autori che pure sono di- stanti da una concezione causalista della spiega- zione degli eventi storici. Tra questi è da segnalare Raymond Aron, che nella sua analisi critica del dibattito Hempel-Dray rileva un difetto logico di fondo insito nella distinzione tra spiegazione cau- sale e spiegazione razionale. Nel tentativo di giu- stificare il processo interpretativo degli storici, Dray si focalizza sul carattere razionale dell’azione introducendo, secondo Aron, un doppio livello d’ambiguità. Da una parte, egli finisce per sovrapporre il problema del riconoscimento della razionalità del- l’azione – o piú precisamente dei “principi di azio- ne” che guiderebbero il soggetto – con la spiega- zione, sottovalutando il fatto che qualificare un’azione come razionale, o adatta alle circostan- ze, non equivale a dare spiegazione di una deter- minata condotta, ossia del perché tale condotta è stata assunta. «La spiegazione che fa riferimento ad un principio di azione o ad una “buona ragione” non è, in quanto tale, una spiegazione, poiché una ragione può essere certo una “buona ragione” – nel senso di principio a cui riferirsi per giustificare una condotta –, senza che però questo principio abbia di fatto la minima influenza su di noi.» (Aron 1972-74, trad. it. 1997, pp. 183-4). D’altra parte, il riferimento a dei principi d’azione lascia supporre – anche se probabilmente non è questa l’intenzione di Dray – che la condotta del soggetto agente presa in considerazione non poteva svolgersi diversa- mente, assegnando un carattere deterministico alla stessa spiegazione dell’azione, e fornendo cosí un elemento di sostegno all’interpretazione causalisti- co-nomologica. Gli elementi di debolezza del modello di Dray, tuttavia, non giustificano, a parere di Aron, l’assun- to di Hempel secondo cui una spiegazione ha vali- dità solo nella misura in cui la connessione causale tra fatti singoli sia dedotta da proposizioni genera- li. D’altronde, osserva sempre Aron, non si può neanche costruire la spiegazione di un’azione muovendo dal presupposto che la condotta indivi- duale non sarebbe potuta essere diversa. Il che si- gnifica che i resoconti storici non servono a dimo- strare la necessità di nessi causali esistenti tra i fat- ti, quanto piuttosto a rendere intelligibili le deci- sioni e le condotte assunte dai soggetti coinvolti in questi fatti in funzione della loro intenzionalità e della situazione esistente, ovvero della percezione e della conoscenza della situazione esistente da parte dei soggetti stessi. «Il lavoro dello storico consiste proprio nell’individuare come chi ha agito nella storia vedeva il mondo e come, sulla base di questa visione del mondo, ha preso questa o quella decisione.» (Ivi, p. 189). Piú che identificare delle relazioni di causa-ef- fetto come vorrebbe la tradizione dell’oggetti-vi- smo scientifico, il problema dello storico è quello di rendere le azioni intelligibili. Si tratta, osserva Carlo De Rose mento e della credenza è quella che Davidson defi- nisce la ragione primaria per cui un soggetto agen- te effettua un’azione. Tale ragione primaria non consiste semplicemente in una giustificazione del- l’azione in termini del senso del soggetto agente. Essa rappresenta allo stesso tempo la causa del- l’azione, per lo meno in tutti quei casi in cui effet- tivamente il soggetto agente compie l’azione per- ché ha quella ragione. Certamente si può far rilevare che ai fini della spiegazione delle azioni conoscere l’intenzione non equivale necessariamente a conoscere la ra- gione primaria in ogni suo dettaglio (cfr. Ivi., p. 47). Ma da ciò non ne deriva che le ragioni che razionalizzano un’azione non possano considerarsi delle cause. A tal proposito, dunque, non regge neanche l’obiezione di Melden, secondo cui una ragione non può considerarsi una causa dell’azione in quanto non può essere logicamente distinta da questa. Una simile obiezione, infatti, avrebbe una sua plausibilità solo se ciò comportasse una irrico- noscibilità dei termini della relazione causale. De- scrivere un’azione riconducendola alla ragione primaria, tuttavia, non significa confondere l’azio- ne con la ragione, come descrivere un evento in base alla sua causa non significa confondere l’evento con la sua causa. Né, d’altronde, risulta accettabile, secondo Da- vidson, l’idea che le relazioni causali siano empiri- che piuttosto che logiche e che, di conseguenza, considerandosi la relazione tra intenzioni e azione di carattere logico, ne consegua che essa non possa essere causale. Certamente le ragioni primarie, come i desideri e le volizioni, non spiegano le azioni allo stesso modo in cui il carattere di solubi- lità dello zucchero permette di spiegare, e verifica- re empiricamente, lo sciogliersi di una zolletta di zucchero nell’acqua. Ma ciò non significa che tali ragioni non possano perciò essere descritte, e non agiscano di fatto, come cause (cfr. Ivi., p. 54-6). Infine, non risulta neanche giustificato rinuncia- re alla spiegazione causale adducendo la non ap- plicabilità del modello nomologico alle azioni umane, come allo stesso modo non è condivisibile l’assunto hempeliano secondo cui un fenomeno può considerarsi spiegato soltanto se è possibile identificare una legge di copertura in grado di giu- stificarlo. Le generalizzazioni operate dagli scien- ziati sociali nel connettere ragioni e azioni non so- no riconducibili a delle leggi su cui fondare atten- dibilmente delle previsioni. Né si tratta di raffinare tali generalizzazioni muovendo, come suggerisce Hempel, da un livello di maggiore generalità verso una conoscenza di relazioni causali piú cogenti. Un simile orientamento nomologico, cioè, presuppone una concezione dell’uomo in cui il processo che sta alla base dell’azione si risolve comunque in modo deterministico, senza neanche tener conto che la ragione del soggetto agente identificabile ex post facto non è che una ragione fra le tante che si possono considerare intervenienti in un’ottica pre- dittiva di quel genere d’azioni. Non essere in grado di stabilire delle leggi pre- visionali, osserva Davidson, non impedisce di sta- bilire delle singole spiegazioni causali valide, né svuota di significato il fatto di avanzare delle gene- ralizzazioni. Fermo restando che l’operare delle generalizzazioni non assolve la stessa funzione dello stabilire delle leggi, e che una singola spiega- zione causale non implica necessariamente un rife- rimento a qualche connessione legiforme. Pur riconoscendo che il carattere logico genera- le delle spiegazioni mediante ragioni non è sostan- zialmente diverso da quello delle spiegazioni nelle scienze fisico-naturali, Davidson richiama l’atten- zione sul fatto che le leggi implicitamente assunte in esse rappresentano soltanto delle generalizza- zioni che riguardano delle attribuzioni agli indivi- dui di atteggiamenti, credenze, desideri e tratti ca- ratteriali. Tali generalizzazioni non sono da assimi- lare a delle leggi perché il loro fondamento non è da rintracciare, come invece suggerisce Hempel, in una comune caratteristica di razionalità. D’altra parte, l’assunzione della razionalità, quale fonda- la spiegazione scientifica delle azioni umane 25 26 mento di una teoria della decisione funzionale ad un modello di spiegazione di tipo nomologico, in- troduce un elemento d’ambiguità nell’analisi del- l’azione, perché confonde certe ricorrenze o persi- stenze nelle preferenze e credenze degli individui come espressioni di processi razionali. Certo può essere utile disporre di conoscenze generali in me- rito a queste preferenze e credenze perché ciò met- te a disposizione una “saggezza nomica riguardo all’umanità”, ma queste conoscenze non trasfor- mano una spiegazione mediante ragione in una spiegazione nomologica, tutt’al piú ne aumentano il valore in termini di plausibilità (cfr. Davidson 1976, trad. it. 1992, pp. 362-4). La spiegazione e le sue declinazioni Se nella ricostruzione che ne fa Davidson alcuni elementi di contrapposizione tra causalisti e inten- zionalisti sembrano trovare una possibile ricompo- sizione, sullo sfondo di questo dibattito restano tuttavia aperte due questioni teoriche sostanziali. La prima di esse riguarda il significato da attri- buire alla spiegazione causale nel processo di in- terpretazione delle azioni umane, non risultando del tutto chiaro né il modo di intendere la causalità, né i tipi di spiegazione possibili. Ai fini di una piú precisa formalizzazione del modello interpretativo delle azioni umane, ciò che impone un’ulteriore riflessione è l’effettiva centra- lità che il principio di causalità assume nella co- struzione della conoscenza scientifica. Russel, ad esempio, mette in discussione questa centralità, arrivando a considerare il concetto di causa come un concetto che appartiene piú alle argomentazioni filosofiche che non a quelle proprie della scienza (cfr. Russel 1912-1913, trad. it. 1964). Senza spin- gersi a negare significatività al concetto di causa, altri autori richiamano invece l’attenzione sulla necessità di distinguere forme diverse di causalità. Vi sono relazioni tra fenomeni che si prestano ad essere interpretate come relazioni di causa-effetto, altre che invece richiedono il ricorso ad altri con- cetti affini, quali quelli di funzione, cui fa riferi- mento lo stesso Russel, o di condizione. Sul concetto di condizione si sofferma in parti- colare von Wright, il quale fa osservare come nel- l’uso comune il termine causa è utilizzato per indi- care la condizione sufficiente del prodursi di un fenomeno. L’identificazione della condizione suffi- ciente, tuttavia, spesso è il risultato di una sempli- ficazione del sistema di condizioni e circostanze che rendono possibile il prodursi di un fenomeno, semplificazione che è ricorrente proprio nelle spie- gazioni delle azioni umane. La condizione suffi- ciente indicata come causa, cioè, è sovente solo una delle condizioni che intervengono rendendo possibile il prodursi del fenomeno. Di fatto, met- tiamo in atto processi esplicativi diversi a seconda delle relazioni di condizione implicate e ricono- sciute (cfr. von Wright 1971, trad. it. 1977, pp. 78- 83). La scelta della condizione da assumere come causa dipende dal contesto dell’indagine, dalla si- tuazione che si sta analizzando e dalla possibilità di isolare dei fattori che possono considerarsi par- ticolarmente significativi; la cui presenza o assen- za, cioè, può essere interpretata come fattore de- terminante del prodursi del fenomeno da spiegare. I fattori assunti come cause sono generalmente quelli cui si attribuisce un effetto di modificazione di una situazione preesistente. Nel caso delle azio- ni umane questi fattori sono identificati nelle ra- gioni del soggetto. Tra tutti i fattori che rendono Carlo De Rose possibile il fenomeno o l’azione se ne assume qualcuno cui si assegna il ruolo di causa, mentre gli altri possono considerarsi delle semplici condi- zioni, alcune delle quali possono essere riconosciu- te e descritte, altre possono anche restare ignote o comunque ignorate perché in qualche modo consi- derate scontate35. Da ciò se ne desume, come ri- corda Amsterdamski, che la distinzione tra causa e condizione, e di conseguenza anche la spiegazione causale, ha sempre un valore relativo, nel senso che: «quella che in una determinata situazione è la causa, in un’altra sarà una pura e semplice condi- zione, e viceversa» (cfr. Amsterdamski 1977, pp. 839-40). I concetti di causa e condizione rispondono ef- fettivamente a domande diverse e svolgono un ruo- lo diverso nella costruzione della spiegazione delle azioni umane. Il fatto di identificare una relazione causale piuttosto che un’altra, pertanto, non dipen- de in sé dal carattere oggettivo di questa relazione, quanto dall’esigenza esplicativa di chi deve inter- pretare l’azione o il fenomeno che si produce. Per un giudice che deve valutare la responsabi- lità di un uomo che, guidando di sera in città ad alta velocità in un leggero stato di ebbrezza, non riesca ad arrestare in tempo la sua auto in corsa provocando la morte di un anziano intento ad at- traversare la strada, la ricerca della causa è indiriz- zata verso quelle condizioni rilevanti ai fini del giudizio da emettere sulla base del quadro norma- tivo esistente. Egli non è interessato a stabilire se quel tipo di incidente mortale sia la conseguenza necessaria di una guida ad elevata velocità in una situazione di non perfetto auto controllo dovuto all’assunzione di alcolici. Egli non è neanche inte- ressato a riconoscere tutte le condizioni che hanno determinato l’incidente mortale. Il suo obiettivo consiste soltanto nel valutare se tra i comporta- menti del conducente ve ne sia qualcuno che abbia un rilievo in termini di responsabilità soggettiva e che può essere assunto come causa dell’incidente. Lo stesso incidente, tuttavia, potrebbe anche essere spiegato adducendo altre cause, ossia prendendo in considerazione altre condizioni che sono alla base del prodursi degli eventi. Un ingegnere meccanico chiamato a controllare l’automobile potrebbe iden- tificare la causa dell’incidente nel non perfetto fun- zionamento dei freni, il quale spiegherebbe il lun- go spazio d’arresto della vettura nonostante il ten- tativo di frenata d’emergenza messo in atto. L’av- vocato difensore dell’automobilista potrebbe indi- care la causa dell’incidente nella scarsa visibilità della strada dovuta alla temporanea assenza d’il- lumina-zione nel quartiere. Per il medico che con- duce l’autopsia, la morte dell’anziano, uomo affet- to da una cardiopatia acuta, potrebbe non essere la diretta conseguenza dell’impatto con la vettura, ma di un arresto cardiaco dovuto al forte spavento su- scitato dalle circostanze. Per la madre dell’auto- mobilista, infine, la causa dell’evento potrebbe consistere nello stato di disperazione del figlio in- dotto dall’ennesimo litigio con la moglie. L’inefficace sistema frenante dell’automobile, la mancata illuminazione della strada al momento dell’incidente, la cardiopatia dell’anziano, il litigio con la moglie, sono cioè condizioni che potrebbero spiegare la morte dell’anziano allo stesso modo di cui la spiegano l’eccesso di velocità o lo stato d’ebbrezza dell’automobilista. Decidere quale di queste condizioni considerare come causa dipende dalle domande cui bisogna dare risposta. E dipende anche dal rilievo che ciascuna delle condizioni ri- conoscibili assume in rapporto allo scopo persegui- to nella costruzione di una spiegazione. Al giudice la spiegazione scientifica delle azioni umane 27 35 Che l’identificazione della causa sia il risultato di una selezione tra molteplici condizioni (o antecedenti) dell’evento o azione che si vuole spiegare è un fatto posto chiaramente in evidenza già da Mill, il quale fa osservare che la causa vera e propria di un fenomeno consiste comunque nell’insieme delle condizioni che lo rendono possibile e non solo in quella condizione piú direttamente associata alla manifestazione del fenomeno stesso. «Se, pur tenendo all’accuratezza, non enumeriamo tutte le condizioni, questo accade soltanto perché nella maggior parte dei casi alcune condi- zioni saranno intese senza venire espresse, o perché, per lo scopo che ci proponiamo, possono essere trascurate» (Mill 1843, trad. it. 1988, p. 460). 30 stione che si pone all’attenzione è il riconoscimen- to del senso che assumono queste azioni, ovvero il riconoscimento degli scopi, delle finalità, degli obiettivi implicitamente o esplicitamente perseguiti dai soggetti che mettono in atto i comportamenti o atteggiamenti presi in considerazione. Affermare, ad esempio, che la gente è scesa in piazza per ma- nifestare contro i fenomeni d’intolleranza razzista è già un dare spiegazione del fenomeno. E nei ter- mini di MacIver si tratta di una spiegazione causa- le, benché il manifestare non sia un evento che precede (nel senso in cui intende Hume) lo scende- re in piazza. Ciò che precede è l’intenzione di ma- nifestare, la quale intenzione, che si qualifica sulla base dell’obiettivo perseguito, agisce a tutti gli ef- fetti come causa. Gli obiettivi sono tuttavia solo un aspetto del- l’azione, la cui piena comprensione spesso richiede di considerare anche i motivi dei soggetti agenti, ovvero le loro disposizioni. E’ per questa ragione che MacIver fa riferimento anche al “perché dei motivi”, mettendo in guardia sul fatto che motivi e obiettivi spesso si confondono l’uno nell’altro, ma vanno concettualmente distinti: «I soldi ed il pote- re, quando sono ricercati dall’uomo, sono degli obiettivi; l’ambizione, l’avidità, l’invidia, la gelo- sia non sono chiaramente degli obiettivi bensí dei motivi. (…) Il motivo è un aspetto della personalità dell’agente, non qualcosa che egli fa o porta a compimento» (MacIver 1942, trad. it. 1998, p. 80). Quest’accezione di motivo dell’azione quale aspetto della personalità del soggetto agente non è del tutto convincente, e lascia nel vago la stessa idea di personalità. Ma nel quadro di una disamina dei possibili significati e forme della spiegazione causale ciò che qui ci interessa mettere in risalto è soprattutto il richiamo che MacIver opera a favore di una distinzione tra livelli diversi della spiega- zione delle azioni umane. La spiegazione degli obiettivi, cioè, non esaurisce la spiegazione del- l’azione, risultando oltretutto piú semplice della spiegazione dei motivi38. Ma l’una e l’altra hanno una struttura autonoma perché rispondono a do- mande diverse. D’altra parte, osserva sempre MacIver, la spie- gazione delle azioni umane a volte richiede anche di oltrepassare la dimensione della personalità e di ricercare risposte ai comportamenti individuali nel- la cultura della società di appartenenza. E’ in que- sta prospettiva che egli ritiene utile distinguere due ulteriori tipi di perché cui corrispondono altrettanti modi costruire spiegazioni delle azioni umane. Il primo di questi è quello che egli definisce il “perché del modello”. I comportamenti individuali spesso non sono spiegabili in termini strettamente teleologici, ma assumono significato soltanto se iscritti all’interno di schemi piú generali, che non sono il risultato di alcuna intenzionalità individua- le, ma che esercitano ugualmente una grande in- fluenza sull’orientamento soggettivo. Quando ci s’interroga sulle azioni individuali, la spiegazione fornita può dar conto dei processi soggettivi di produzione di senso, ma in molti casi tali processi si riducono ad una adozione di senso già stabilito e assunto come ovvio. «…in una miriade di attività gli uomini seguono un modello pre-definito, un Carlo De Rose 38 Il perché dei motivi, secondo MacIver, spesso agisce “oscuramente” dietro il perché dell’obiettivo, risultando irriconoscibile allo stesso sog- getto agente. Avviene cosí che il piú delle volte si tenta di dare ragione delle azioni umane costruendo delle spiegazioni incentrate sugli obiettivi piut- tosto che sui motivi, perché fare riferimento ai motivi imporrebbe una piú complessa ricostruzione della personalità dei soggetti agenti. Tale difficoltà, osserva sempre MacIver, risulta però «inferiore quando indaghiamo i motivi di un gruppo, specialmente un largo gruppo che agisce concordemente, rispetto a quando ci accingiamo ad esplorare i motivi di una singola personalità.» (MacIver 1942, trad. it. 1998, p. 81). modello socialmente imposto o culturalmente ac- cettato. In un certo senso, ogni attività realizza un esempio di stile stabilito, lo “imita”, lo “riprodu- ce”. Il nesso è tra la copia ed il modello anteceden- te, l’esempio e l’esemplare, la personificazione particolare e lo stile dominante.»39 (MacIver 1942, trad. it. 1998, p. 81). L’interrogativo che si affianca al “perché del modello” è il “perché della congiuntura sociale”. MacIver introduce quest’ulteriore distinzione nel tentativo di tener conto del fatto che le spiegazioni dei comportamenti collettivi, e degli effetti macro sociali che essi producono, non sono sempre ana- lizzabili in relazione al significato che essi hanno in quanto comportamenti individuali, benché ispi- rati a modelli culturali socialmente condivisi. Detto in altri termini, i perché che attengono ai fenomeni macro sociali richiedono una struttura della spie- gazione che prenda in considerazione non solo gli aspetti teleologici connessi alle azioni individuali, ma anche le interazioni che si stabiliscono tra que- ste azioni. Queste interazioni non sono spiegabili ricorrendo agli stessi nessi causali richiamati per dar conto degli orientamenti individuali, ma ri- chiedono l’identificazione di nessi causali propri, ossia interni alle dinamiche macro-sociali. Ad esempio, spiegare l’orientamento professionale degli individui nella moderna società industriale non permette in sé di stabilire perché la divisione del lavoro proceda in modo concomitante con l’avanzare della tecnologia. I nessi causali da ipo- tizzare sono diversi, anche se non sono tra loro del tutto indipendenti. Studiare gli effetti sociali di numerose azioni individuali o di gruppo dirette a scopi diversi im- pone una ricostruzione piú complessa degli esiti delle azioni individuali, non solo per i singoli sog- getti agenti, ma per l’insieme della società coinvolta.40 Il tipo di spiegazione causale da co- struire in questo caso si allontana ancor di piú dal modello di causazione connesso all’intenzionalità, dal momento che gli esiti dell’insieme dei compor- tamenti individuali non sono equiparabili a quelli di «un’azione concordata diretta ad un obiettivo, come quando gli uomini cooperano per costruire una macchina. Questi modelli emergono piuttosto dalla combinazione di diverse attività rivolte a scopi meno comprensibili (…). Essi sono per la maggior parte involontari cosí come gli esagoni costruiti dall’ape mellifica. (…) La risposta diretta a questo perché non è nei fini ricercati dagli uomi- ni, ma è solo nella prospettiva della loro interazio- ne e combinazione» (Ibid., p. 83). Restando ancora sulle azioni umane, ai perché distinti da MacIver per dar conto della varietà di spiegazioni causali se ne potrebbero aggiungere anche altri che hanno a che fare con i valori e i sen- timenti, due aspetti questi della dimensione moti- vazionale dell’azione non chiaramente esplicitati né a proposito dei “perché degli obiettivi”, né dei “perché dei motivi”.41 E ancora si potrebbero di- stinguere i “perché dei bisogni psicologici”, ovvero la spiegazione scientifica delle azioni umane 31 39 L’idea di nesso causale cui fa riferimento MacIver in questo caso va intesa in termini socio-psicologici e non in termini di necessità. Ciò che egli vuole sottolineare è l’influenza esercitata dai modelli culturali esistenti, senza per ciò ipotizzare uno svuotamento del momento interpretativo proprio dell’attore sociale. Per l’influenza che esercitano, tuttavia, i modelli culturali di un’epoca, di una società, non possono che essere considerati nei nessi causali ipotizzati per spiegare i comportamenti individuali. 40 A proposito dalla non coincidenza tra il livello individuale dell’azione e quello collettivo, ovvero delle conseguenze non previste delle azioni umane, il perché della congiuntura sociale cui fa riferimento MacIver richiama quel fenomeno già distinto da Merton (1949, trad. it. 1983) come “effetti di composizione delle azioni individuali”, trovando eco nelle considerazioni metodologiche che Boudon sviluppa in Effetti “perversi” del- l’azione sociale (1977, trad. it. 1981). 41 Qui ci riferiamo ai valori e ai sentimenti quali fondamento motivazionale dell’azione individuale alludendo allo stesso significato attribuito ai termini da parte di Weber allorché distingue l’agire sociale determinato in modo razionale rispetto al valore e quello determinato affettivamente (cfr. Weber 1922, trad. it. 1981, pp. 21-3). 32 quei perché che introducono spiegazioni causali delle azioni richiamando gli aspetti comuni della struttura psicologica umana, e non solo, come in- vece propone MacIver, i tratti distintivi della per- sonalità, quelli cui egli allude a proposito della spiegazione fondata sul “perché dei motivi”. Ma a prescindere dalla completezza o meno di questa tipologia, la questione epistemologicamente piú significativa implicata nell’argomentazione di Ma- cIver riguarda il riconoscimento della specificità dei modelli di spiegazione di volta in volta intro- dotti dai differenti interrogativi. MacIver, diversamente da coloro i quali tendo- no a sbarazzarsi del concetto di causalità, ritiene che riconoscere significati diversi ai perché che introducono le spiegazioni dei fenomeni naturali e delle azioni umane (individuali e collettive) non è di per sé una prova della debolezza di tale concet- to. Il vero problema non deriva dall’inutilità del concetto di causa. Non è rinunciando a spiegare i fenomeni in termini causali, cioè, che si risolvono le ambiguità intrinseche al principio di causa-effet- to. Semmai si tratta di riconoscere che esistono forme diverse di causazione che impongono ap- procci interpretativi differenziati.42 Il che ha delle implicazioni non solo su un piano strettamente epi- stemologico, ma anche su quello metodologico. Il concetto di “causazione”, cui MacIver ricorre tentando di tracciare una linea di demarcazione rispetto al principio di causalità inteso in termini di causa-effetto, rappresenta in un certo senso la ri- sposta al problema di riconoscere l’esistenza di nessi causali senza perciò teorizzare modelli di spiegazione basati su presupposti nomotetici. Nella prospettiva metodologica di MacIver, i diversi per- ché introducibili nella costruzione della spiegazio- ne delle azioni umane rappresentano la base della sua argomentazione contro ogni riduzionismo o manocausalismo. Le azioni umane per MacIver sono il risultato di intrecci causali complessi, ri- spetto ai quali perde anche di significato la con- trapposizione tra positivisti e antipositivisti, tra spiegazione e comprensione. Ciò di cui c’è biso- gno è un metodo “causale-significativo”, in grado di tener conto allo stesso tempo delle interazioni di tipo causale che si stabiliscono tra i soggetti indi- viduali ed il loro ambiente, e della produzione sog- gettiva di senso che si manifesta nello stesso carat- tere intenzionale delle azioni. All’origine delle intenzioni: un problema aperto Lo snodo concettuale verso cui confluisce il tentativo di MacIver di conciliare il principio cau- sale con il problema ermeneutico del riconosci- mento del significato dell’azione in relazione al tipo di domanda che sta alla base della costruzione della spiegazione, riporta la nostra attenzione anco- ra una volta sul ruolo delle intenzioni in rapporto alle azioni, permettendoci di introdurre la seconda questione teorica che resta per cosí dire sospesa nel dibattito tra causalisti e intenzionalisti. Ci si riferi- sce alla questione dell’origine delle intenzioni. Pur supponendo che gli intenzionalisti accettino di considerare le spiegazioni mediante ragioni co- me una specie di spiegazione causale, e che i cau- salisti ne riconoscano la validità benché non sia possibile stabilire quali siano le leggi generali sotto cui ricadono le azioni descritte da tali spiegazioni, resta da chiarire in che modo bisogna intendere le intenzioni. Stabilire se tra intenzioni e azioni esista o meno un nesso causale, e, qualora esista, se si tratti di una causalità di carattere deterministico e legifor- Carlo De Rose 42 Ad una conclusione simile perviene anche von Wright, il quale afferma che "Nel cercare di valutare l’importanza della causalità per la scienza, è opportuno ricordare che la parola “causa” e la terminologia causale in generale sono usate in una grande varietà di significati. Non solo le “cause” relative alle cose umane sono molto differenti dalle “cause” degli eventi naturali, ma anche entro le scienze naturali la causalità non costituisce una categoria omogenea." (1971, trad. it. 1977, p. 59). Soveria Mannelli, 1996. DONOGAN A. (1964), trad. it. Una riconsiderazione del- la teoria di Popper e Hempel, in Predaval Ma- grini M. V. (a cura di), Filosofia analitica e co- noscenza storica, La Nuova Italia, Firenze 1979, pp. 135-166. DRAY W. (1957), trad. it. Leggi e spiegazioni in storia, Il Saggiatore, Milano 1974. 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