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Steven Spielberg (a cura di Andrea Minuz), Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Riassunto del libro "Steven Spielberg" per l'esame "Modelli di regia nel cinema contemporaneo" del prof. Masciullo. *Consiglio caldamente la visione dei film*

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 06/05/2020

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Scarica Steven Spielberg (a cura di Andrea Minuz) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! 1 STEVEN SPIELBERG (consiglio di vedere i film) Presentazione (Paolo Bertetto) Registi-produttori di grande budget si chiedono: cosa vuole il pubblico e quale sia il cinema degli autori. La loro attività si incentra non solo sugli interessi e gusti del pubblico, ma anche sulle potenzialità della macchina filmica. Qui Spielberg ha un ruolo centrale: cosa possa diventare il cinema e i modi di percezione e delineazione del pubblico di massa. Spielberg ha costruito il cinema di grande intrattenimento e forti emozioni, visto e letto su due pieni diversi, uno immediato e pienamente soddisfacente e l’altro sottotestuale, caratterizzato da un insieme di rimandi e di citazioni della storia del cinema. Spielberg, l’America, il cinema (Andrea Minuz) Spielberg è sia il regista americano per eccellenza, ma anche un personaggio pubblico, fenomeno culturale, icona «una persona ai vertici della piramide hollywoodiana». I suoi film hanno una statura “classica” e sono tutt’oggi un punto di riferimento dell’entertainment. Il cinema di Spielberg, a partire da Jaws, ha influito pesantemente sull’immaginario del cinema, coinvolgendo lo spettatore e facendo dell’emozioni del pubblico la materia specifica del film. Spielberg va quindi inquadrato all’interno delle forme del cinema americano, sia in riferimento alla logica espansa della sua produzione e all’attività delle due società, Amblin e DreamWorks. Tuttavia, non è sempre stato ben visto dalla critica più ideologica e assertiva, per principio diffidente degli effetti speciali, dell’entertainment e dei grandi incassi. Tra cinema autoriale e prodotto hollywoodiano, Spielberg è stato collocato dalle parti del “mestiere”, più o meno come Hitchcock prima che la critica francese iniziasse a lodarlo. Spielberg ancora oggi viene archiviato come un astuto filmmaker al servizio dell’intrattenimento, un money-maker, ottimo regista ma privo di un vero e proprio stile. Secondo Morris, i pregiudizi legati a Spielberg hanno influito molto e condizionato l’accoglienza dei film «la maggior parte dei critici ha preso posizione più nei confronti del successo dei film, che sui film in sé». Ogni bibliografia critica su Spielberg lasciava da parte discorsi riguardanti stile, analisi della regia, invenzioni visive e personale rielaborazione del lessico del cinema americano. Per comprendere la cifra autoriale di Spielberg bisogna considerare i film parte di un vasto sistema produttivo e una rete di relazioni da cui Spielberg emerge anzitutto come brand. «Jaws, Raiders e E.T. esistono dentro un’estesa rete commerciale che ha generato un numero enorme di spin-off e licenze di prodotti ancillari». Non si tratta di aspetti accessori ma di ciò che ha reso questi film delle imprese commerciali e finanziarie decisive sia per Hollywood che per la carriera di Steven Spielberg, regista associato a una strabiliante capacità di convertire dei fenomeni culturali in merce. In questo senso, ha giocato un ruolo storico nelle strategie di marketing e della serializzazione quali principi organizzativi imprescindibili dell’industria dell’entertainment. Ha costruito attorno a sé un’identità creativa ben definita in termini registici, ma anche molto ampia ed elastica. Riflettendo sul significato del termine “spielberghiano”, Peter Krämer evoca l’esperienza spettacolare del blockbuster, fantastico, celebrazione dell’infanzia e adolescenza, America suburbana, nostalgia del cinema del passato, famiglia e la capacità di parlare a un pubblico vasto e trasversale. Spielberg porta nei suoi film il «ricordo dei film che ha amato da bambino», considerato quindi come l’archetipo del film fan, un fan che celebra il cinema e il suo immaginario in modi non meno sofisticati dei grandi autori della storia del cinema. Siamo di fronte ad una identità creativa molto estesa «di ciò che Hollywood era e ciò che Hollywood è». Tale identità è inserita dentro una rete di operazioni produttive riconoscibili a Spielberg. Negli anni ’80 e ’90, i film prodotti dalla Amblin ruotano intorno all’”effetto Spielberg”, ma servono anche a rafforzare l’identità del suo cinema: film che ruotano tutti intorno a temi spielberghiani e che vedono sempre un coinvolgimento più o meno evidente del regista. Il brand Spielberg quindi emerge con l’incontro di un sistema di operazioni produttive, regie e in una rete di relazioni, rimandi e collaborazioni che definiscono il complesso di significati e valori che egli incarna agli occhi del pubblico. La cifra artistica però va anche affiancata alle strette collaborazioni 2 che Spielberg intrattiene nei suoi film con la Industrial Light and Magic (ILM) di proprietà di George Lucas, con John Williams, compositore storico di Spielberg con cui ha rinnovato la tradizione sinfonica della musica da film della Hollywood classica. Spielberg occupa un ruolo ambivalente nel contesto del cinema americano dei primi anni ’70, sia in virtù del suo rapporto con l’establishment di Hollywood, la distanza alle pose della controcultura americana, sia per la sua specifica attitudine erede di Capra, DeMille e Ford. Mentre altri registi americani – i movie brats – facevano propria l’idea europea di auteur del film come prodotto, Spielberg era affascinato dall’idea di mettersi al servizio dell’industria e di generi come l’avventura o la fantascienza. S. iniziò con una formazione televisiva, un tassello decisivo per la sua carriera come regista dell’immaginario popolare e maestro dell’entertainment. Allevato dagli studios, scoperto, consigliato e protetto da vari mentori d’eccezione come Sid Sheinberg, CEO della Warner con cui realizzerà undici lungometraggi e due serie televisive, e Lew Wasserman, l’uomo più potente ad Hollywood negli anni ’60. Come dice lo stesso S. «sono stato influenzato più da dirigenti come Sid Sheinberg e da produttori come Zanuck […] che non dai miei coetanei degli anni ‘70. Mi sentivo più figlio dell’establishment». Se Duel rientra nella logica produttiva della New Hollywood, Jaws è invece uno spartiacque decisivo nella storia del cinema americano, legato anzitutto alla «scoperta che un film poteva incassare circa quarantotto milioni di dollari in tre giorni». Jaws spiana la strada al blockbuster, la possibilità di generare una serie di introiti sin lì impensabili attraverso lo sfruttamento dei diritti nei mercati ancillari. Se quindi, insieme a Scorsese, è associato alla rivoluzione cinematografica dei movie brats, dall’altro, insieme a George Lucas, è considerato l’artefice dell’ideologia dell’entertainment che verrà celebrata negli anni ’80, decennio caratterizzato dal trionfo dei grandi blockbuster e dalla nostalgia per l’America degli anni ’50, ben incarnata dalla presidenza di Reagan e dal successo di un film come Back to the future. Gli anni ’80 affermano il definitivo superamento della dicotomia tra arte e industria e la riconversione di ogni settore dello spazio pubblico in spazio mediatico. William Goldman chiamava «l’ecosistema Lucas- Spielberg» o, in modo più sprezzante, Robin Wood apostrofava come la «sindrome Lucas-Spielberg», cioè il dominio di un cinema fondato sulla «regressione infantile dello spettatore», diventerà agli occhi della critica l’antitesi di tutto ciò che aveva caratterizzato la Hollywood renaissance. La classicità hollywoodiana e la cifra old-fashioned del cinema americano è certo una delle chiavi di lettura più utili per comprendere il lavoro di messa in scena di Steven Spielberg. La su regia si muove nella intensified continuity, che secondo David Bordwell definisce la portata spettacolare l’ipertecnologica e, intensiva degli sviluppi contemporanei dello stile classico, fondato sulla linearità e la trasparenza; dall’altro soprattutto nei più recenti film a tema storico emerge con forza la dimensione sempre più rarefatta di un linguaggio ridotto ai suoi termini elementari, come in un ritorno alle strutture essenziali del film classico americano. Nel caso di S., i vecchi film di Hollywood funzionario sia come canone di scrittura e regia, sia come orizzonte di dialogo con lo spettatore. Fascino del cinema spielberghiano si fonda su riattivare nel pubblico la memoria dei classici di Hollywood. Non si tratta solo della lunga sequela di citazioni e omaggi, a volte anche con una complessa costruzione narrativa, ma di una costante verifica della tenuta della forma classica, della sua capacità di continuare a catturare gli spettatori man mano che il peso e lo spazio occupati dal cinema nella società diminuiscono. La matrice ebraica di S. è un’altra chiave di accesso utile per interpretare la dimensione simbolica di alcuni temi specifici, ma più in generale un’eco religiosa da Vecchio Testamento riletta lungo lo sconfinamento del fantastico nel trascendente come in Raiders of the Lost Ark, E.T. ma soprattutto Close Encounters. Frederick Wasser disse: «sin dall’inizio, Spielberg riprende il patrimonio di storie di Hollywood classica ma nel corso degli anni ’80, con le trasformazioni e l’erosione delle istituzioni pubbliche, le sue storie iniziano a prendere una vena via sempre più realistica, facendo del films torico il luogo di rielaborazione dell’agenda politica americana». Minority Report e The Terminal sono sia dentro i codici di genere, sia trasparenti allegorie dell’America post 11 settembre, dei confini tra libertà e sicurezza, dei paradossi dei regimi di sorveglianza e dei dilemmi delle società aperte, senza per questo scadere nel “messaggio” e nelle forme del “film a tesi”. In Close Encounters of the Third Kind «Spielberg fa dell’irrazionale non tanto il veicolo di un’allegoria o di un apologo, ma sostanza stessa di una vera e propria visione del mondo». 5 George Lucas e Steven Spielberg nel 1981 danno vita a Raiders of the Lost Ark. Il film fu una tappa, un accordo definito dallo stesso regista «senza precedenti» perché destinato a cambiare per sempre la sua carriera. La coppia Lucas-Spielber copre i costi di produzione e marketing, rinunciando ai distribution fees (una delle fonti principali di ricavo per le major). Inusuale per i due registi, e per questo che Radier può essere considerato a tutti gli effetti il film che consacra Spielberg anche come produttore. «L’accordo ha cambiato definitivamente il modo di Spielberg di intendere gli affari e il suo stesso valore come filmmaker». La ricerca dell’Arca dell’alleanza diventa pertanto un macguffin hitchockiano che rinnova quella dinamica del «cinema della nostalgia» che lo stesso Lucas aveva inaugurato nel decennio precedente: tesori mitici da ritrovare e percorsi a tappe da intraprendere, trappole naturali e un impero da evitare (il nazismo). Il viaggio dell’eroe di matrice campbelliana viene riproposto con fanciullesco entusiasmo dalla penna di Lawrance Kasdan, lo sceneggiatore, che si mette al servizio della passione per i riti antichi di George Lucas, la musica travolgente di John Williams, del ghigno da classic star di Harrison Ford e soprattutto della trasparenza registica di S. che orchestra un dispositivo ludico di rara efficacia. Ogni referenza al cinema classico è arricchita negli anni ’80 da un nuovo immaginario tecnologico (film-concerto) ed estetico (riflessione sul pastiche postmoderno). Un approccio al cinema-popcorn rinnovato nei due previsti sequel della serie. Quindi, il successo planetario di Raiders e di E.T. riscrive la geografia produttiva hollywoodiana consentendo a S. di produrre agevolmente successi come The Goonies e il successivo Back to the Future che lancia Robert Zemeckis. Un interesse per la fantascienza di puro intrattenimento che S. confermerà nell’ultimo decennio producendo personalmente la saga di Transformers di Michael Bay. Il 1993 è un anno spartiacque: S. dirige due film che escono nello stesso anno, Jurassic Park e Shindler’s List, due film completamente diversi dove si incontrano le due direttrici più riconoscibili della sua filmografia: riscrittura immaginaria della storia occidentale, partendo dal trauma per eccellenza (Schindler’s List) e il fantastico che si “rimedia” nei nuovi regimi di sguardo creati dalla tecnica, ripopolando le sale con i blockbuster (Jurassic Park). Jurassic Park doveva sfruttare proprio l’esaltazione dell’effetto in campo per attrarre il nuovo pubblico degli anni ’90. L’inizio di una nuova era nonché un fortunatissimo franchise cinematografico. La fine degli anni ’80 segna il rinnovato interesse di S. per i corcevia della storia americana (per estensione, anche occidentale) che hanno messo a dura prova le società democratiche nel corso del ‘900. The Color Purple e Empire of the Sun sono i primi tentativi di confrontarsi con tematiche più impegnate. Un interesse culminato in Shindler’s List che diventa da subito il progetto più rischioso di un’intera carriera: il film più personale – la memoria della Shoah – e il definitivo ingresso nella Hollywood adulta per il regista dei film per bambini. Dopo Schindler’s List, segue Amistad nel 9197 e l’anno seguente, Saving Private Ryan, un film che nasce come il sentito omaggio di un figlio alla generazione die padri che hanno combattuto la IIWW – tra cui Arnold Spielberg, i cui contrasti con il figlio sono durati decenni, trovando una riconciliazione proprio per questo film – che S. gli dedica. La sequenza del D-Day è da tutti i punti di vista, un film-nel-film. S. ricrea l’inferno visivo e sonoro una sorta di piccolo blockbuster anni ’90 innestato in un war movie classico. L’interesse di S. per le vicende della IIWW travalica i confini della regia e si manifesta anche nella produzione di Band of Brothers e The Pacific. In Band on Brothers e Saving Private Ryan si ritrova un volto comunque nei film di S., Yom Hans: 6 collaborazioni, una marca distintiva del suo cinema. La gamma dei personaggi dell’attore ricalca alcuni aspetti della parabola evolutiva della filmografia spielberghiana. Tom Hans fa da capo nella filmografia anni ’90 di S. il componente middle class della società americana incarnata dall’uomo comune travolto da circostanze straordinarie. Tom Hank approda a una nuova fase della sua carriera, con personaggi più maturi che coincidono con il ritorno di S. al cinema classico. L’11 settembre, riposiziona sull’agenda i temi politici e sociali più scottanti: da Lincol, Munich, Bridge of Spies, The Post. Abraham Lincoln diventa nel film di Spielberg un politico abilissimo che vince le sue battaglie proprio sul terreno della retorica. Allo stesso tempo, il cinema di S. diventa sempre più classico, rivendicando ogni utopia della carta costituzionale americana come luce da opporre ai nuovi virus della storia. Molte delle traiettorie analizzate nella filmografia di S. possono essere riassunte in War Horse, l’incontro di due solitudini tra un ragazzo irlandese che ha un difficile rapporto con il padre e un cavallo strappato alle cure materne con cui condividere un reciproco percorso di crescita. Ma anche un film che rinnova la passione per la riscrittura immaginaria 6 della storia filtrata del cinema amato: Joy, il cavallo, riporta la luce della speranza nel buio della guerra come ennesima configurazione della «beatitudine» sprigionata dal «film per bambini». L’ultimo decennio è caratterizzato da una ripresa di temi e motivi legati alla dimensione favolistica. L’animazione aveva da sempre rappresentato un forte motivo di interesse e S. non si era mai cimentato personalmente nella direzione di un film animato. L’occasione arriva nel 2011 con The Advetures of Tintin, dopo 20 anni che il progetto era nel cassetto, grazie anche alla collaborazione con Peter Jackson per il reparto della computer grafica. Ne esce fuori un film interamente realizzato in digitale, in MoCap. Il primo capitolo di una trilogia che stando a quanto annunciato, vedrà Peter Jackson passare alla regia e Spielberg alla produzione esecutiva. Recentemente poi S. si cimenta nella direzione di The BFG, un tentativo di realizzare un nuovo classico per l’infanzia, sul modello di E.T. di cui però non riesce a eguagliare néincassi né popolarità. Come E.T., The BFG è una creatura straordinaria, estremamente sola, che comunica attraverso un buffo linguaggio e ha un acronimo altrettanto memorabile. Jaws (Valerio Coladonato) Una “macchina” di insaziabile voracità. Una formula che riassume il funzionamento e il successo di Jaws che totalizza il maggior incasso del 1975 e segna un passaggio decisivo nella ridefinizione dell’immaginario. Dal making of del film emergono aneddoti che ampliano il ‘mito’ di S.: come quello di uno squalo meccanico che non funziona e non fa paura che fa pensare a S. una soluzione, ovvero insistere sull’attesa e il desiderio di veder finalmente comparire il mostro sullo schermo. Costruire in altri modi la paura, la tensione e la suspance. Vengono enfatizzati i codici generici dell’horror, del thriller e del filone del distaser movie; dall’altro si sacrificano l’introspezione e l’approfondimento sociologico sulla corruzione degli abitanti dell’isola. In un articolo di «The Hollywood Reporter» si dava conto del complesso coordinamento promozionale messo in atto, inclusa la vendita di nove gadget disponibili nelle sale cinematografiche. Creando a tavolino un brand riconoscibile e adattabile a diversi media, anche attraverso l’ubiquità del celebre logo: una ragazza nuda che nuota sul filo dell’acqua, ignara della presenza di un enorme squalo sotto di lei. L’immagine taglia anche lo squalo a metà: significativamente si preannuncia così il meccanismo di frustrazione che impedisce a lungo di vedere l’animale per intero. Un altro livello al quale Jaws agisce come “macchina” è quello del coinvolgimento spettatoriale, dove la critica condannava un mancato approccio introspettivo e la riflessione sugli aspetti filosofici della vicenda. Il diffuso pregiudizio negativo di Jaws riecheggia ancora oggi in ambito accademico. Argomenti simili non rendono conto dell’effettiva complessità del testo filmico, nelle sue scelte tecnico-linguistiche e nella capacità di adattare e rinnovare la scrittura hollywoodiana classica. La fama di Jaws quale «film “responsabile” della chiusura del ciclo della New Hollywood» è legata al suo successo commerciale e al modo in cui ha intercettato e alimentato tendenze più ampie che erano già in atto. Erano anni in cui gli studios concentravano progressivamente le loro risorse in pochi film ad alto budget e, per ridurre il rischio finanziario, puntavano a un recupero immediato, attraverso una distribuzione molto estesa sin dal primo periodo (front loading), piuttosto che uno sfruttamento in profondità. I primi anni ‘70 erano anche una fase di riconfigurazione del rapporto tra il cinema e la televisione: gli studios tentavano di usare la tv come cassa di risonanza per i blockbuster hollywoodiani. La sequenza del “secondo attacco” (https://youtu.be/dtE69rHIt3A) è un riuscitissimo sforzo di orchestrazione del linguaggio cinematografico fino a produrre il massimo effetto di suspance. La lunga inq. Iniziale laterale ci presente le diverse figure della spiaggia. In sceneggiatura erano presenti diversi stacchi, ma «S. invece pone in un unico piano tutti i soggetti centrali della scena, coreografa delle azioni e un movimento di macchina che pass afra le potenziali vittime fino a cogliere il volto vigile e preoccupato del protagonista». L’inq. Iniziale traduce la percezione del controllo visivo, ma quest’illusione è progressivamente infranta da una serie di stacchi che frammentano lo sguardo e così si ha una doppia valenza: l’inadeguatezza del controllo di Brody e poi come se lo squalo stesse scegliendo la sua prossima vittima. L’effetto è poi intensificato dalla durata delle inquadrature. I dialoghi tra Brody e i bagnanti sulla spiaggia funzionano da ostacolo e distrazione alla percezione dello sceriffo, un ulteriore contrapposizione tra mare e terraferma. Questa opposizione spaziale è marcata ulteriormente dalla musica diegetica nella spiaggia anche con la frammentazione dello 7 sguardo e il ritmo accelerato. Il raccordo sonoro manca nella soggettiva dell’animale dentro l’acqua, dove il ritmo del montaggio sembra dettato più da effetti visivi e sonori degli spruzzi d’acqua. Mancano sia un campo d’azione sia un campo d’insieme che permetta di collocare i personaggi nello spazio. I due registri sono nettamente diversi: un montaggio di continuità e uno percettivo. La crescente preoccupazione di Brody inoltre è marcata dai wipe by cuti, dove ad ogni stacco fantasma, il piano si restringe (campo medio → mezza figura → primo piano) ripetuto nella sequenza per tre volte. Ad ogni stacco, il protagonista fa un movimento dle corpo diverso che contribuisce a intensificare la suspance, quello che Steven Rybin definisce «recitazione contenuta» di Scheider. A questo punto, lo stravolgimento del punto di vista ottico e narrativo: una soggettiva sotto l’acqua diretta verso le gambe di Alex. Tema musicale di John Williams e infine l’uccisione del ragazzo. L’ultimo espediente che rende memorabile questa scena è l’”effetto Vertigo” che enfatizza lo sconcerto di Brody e segnala un rialleniamento negli equilibri della narrazione: il pubblico e tutti i personaggi conoscono la minaccia. Il coinvolgimento spettatoriale di questa sequenza si deve alla capacità di S. e dei suoi collaboratori di attivare soluzioni stilistiche specifiche per ogni segmento, pur rimanendo fedele al principio generale della funzionalità del racconto. Fuori e dentro l’acqua. Due ambienti contrapposti della sequenza. Opposizione costruita sui rovesciamenti del punto di vista, nell’incipit e nell’epilogo, due momenti in cui il cinema hollywoodiano tende a condensare le chiavi di lettura e gli elementi salienti del suo funzionamento formale e narrativo. Mettiamo a confronti l’inizio e la fine di Jaws: la prima inq., è un’esplorazione del fondale marino con la mdp immersa e il tema musicale del mostro; l’ultima inq. È invece un campo lunghissimo con la mdp sulla spiaggia e rivolta verso l’acqua. Secondo Michael Walker il finale del film è un’esplicita corrispondenza con l’incipit e lo rende atipico nel quadro della filmografia di Spielberg. L’epilogo aderisce ai principi di circolarità della narrazione e specularità tra inizio e fine, rafforzando la contrapposizione acqua/spiaggia e il rovesciamento dello sguardo. Nella prima sequenza dell’attacco dello squalo, si hanno quattro diversi punti di vista: quello proveniente dalla spiaggia, un’inq. oggettiva ricollegata l desiderio del ragazzo di raggiungere Chrissie in acqua; quello della ragazza alternato tra primi e primissimi piani dove in uno di questi il sole che tramonta che ci permette di stabilire che si tratta di un controcampo; il terzo è il ragazzo sdraiato sulla spiaggia – prima, durante e dopo l’attacco – mentre ripete la battuta «I’m coming» favorendo la sovrapposizione tra l’assalto che sta per compiersi e il mancato atto sessuale; e l’ultimo sono le inquadrature subacquee, soggettive che appartengono allo squalo. Durante lo scontro finale con la bestia, l’allineamento visivo e narrativo dello spettatore è con Brody che da solo si scontra con lo squalo. Il resto della sequenza è diviso in due segmenti che corrispondo ciascuno a un avvicinamento dello squalo e un’aggressione sferrata da Brody. La costruzione dello spazio in una proliferazione dei punti di vista. Il fuori campo nel primo e nel secondo attacco dell’animale è assente. Durante il primo scontro le inq. traducono il pdv dello squalo e includono una parte del suo corpo, quindi una semisoggettiva. Ciò rende lo sguardo dello squalo “concreto”, ancorato a un corpo, invece che disincarnato e puramente meccanico. Semisoggettive di Brody e dello squalo alternate ad altre inq. Delle fauci e del volto. Nel secondo scontro, Brody copisce con una pallottola la bombola d’aria compressa che è riuscito a incastrare nella bocca dell’animale. L’esplosione che ne consegue è l’ultima inq. da un punto di vista subacqueo che si sofferma sulla massa oscura dello squalo smembrato che affonda circondato da riflessi della luce solare, ulteriore richiamo alla stessa inq. Dell’attacco a Chrissie, la cui silhouette nuda era circondata dagli aloni di luce. Una tale funzione per disallineare lo sguardo dello spettatore con lo squalo: nell’incipit siamo “costretti” a vedere attraverso gli occhi dello squalo in una soggettiva tipica del film horror. Ma Jaws condivide anche un’altra dinamica visiva, cioè l’oscillazione tra un difetto e un eccesso di visione che caratterizza il genere horror. A volte vediamo “troppo poco”, cioè non vediamo per intero lo squalo, oppure vediamo “troppo” assumendo uno sguardo disumano o colti di sorpresa da immagini scioccanti. Nella correlazione tra le due inq. subacquee, durante l’ultima si corregge lo statuto dello sguardo, vediamo la stessa soggettiva ma senza la mediazione dello squalo, che quindi la tramuta in una inq. oggettiva. Il modo in cui il mostro viene ucciso suggerisce un’altra chiave di lettura che riguardo il rapporto tra frammentazione e integrità. Jaws instilla il desiderio di vedere lo squalo e allo stesso tempo il film suggerisce il pericolo della frammentazione del corpo umano. Il motivo ricorrente delle mani è un 10 Dalla prima scena all’ultima inquadratura, il film mette in primo piano sia la sua dimensione finzionale che il riferimento al cinema, la sua dimensione autoriflessiva. È proprio questa costante nel cinema di S. di subliminale dimensione meta-cinematografica a facilitarne l’alternanza tra il piano dell’immaginario e quello del simbolico. Uno dei motivi ricorrenti nella costruzione dell’identificazione spettatoriale nei film di S. è il fatto che siamo sempre dentro l’universo del possibile, l’universo del cinema. L’idea di E.T. come una “fuga nella fantasia” è enfatizzata dalla lettura di Peter Pan che la madre fa a Gertie. La resurrezione di E.T., logicamente innescata dal ritorno della navicella, coincide con il momento in cui Elliot e noi spettatori che ci identifichiamo con lui abbiamo fede. La nostra partecipazione emotiva agli eventi è divisa tra il desiderio che E.T. rimanga sulla terra con Elliott e quello che riesca a tornare a “casa”, per riunirsi alla sua “famiglia”. La riapparizione dell’astronave e la “Spielberg face” stampata sulle facce dei protagonisti è la perfetta allegoria dello spettatore seduto in sala, simbolizza il funzionamento del dispositivo cinematografico. Centrale, nella costruzione della popolarità di E.T. non sono solo le molteplici letture, ma la pluralità di spettatori a cui si rivolge. La narrazione e lo spettacolo forniscono meccanismi di identificazione spettatoriale che conducono a varie esperienze, al di là delle competenze interpretative specifiche di ogni individuo. Possiamo vedere E.T. come una favola o come un film che mette in scena la fascinazione per il dispositivo e la finzione. Le reazioni più naïve sono quelle che producono le letture più diffuse o originali. S. gioca quindi con il suo spettatore. L’identità di E(lliot)T – uno diventa ubriaco quando l’altro beve, rappresenta l’immaginaria relazione dello spettatore con l’altro-da-sé. Il rapporto tra Elliott e E.T. funziona cioè come una metafora dei processi di empatia e identificazione che avvolgono spettatore e personaggi di un film. Gli spettatori sono incoraggiati a identificarsi con Elliott nella sua telepatica relazione con E.T.è in parte perché il punto di vista offre analogie ottiche con quello di E.T., in parte perché E.T. è esperito attraverso la focalizzazione di Elliott. I punti di vista delle inquadrature si allineano con quelli di E.T. ancor prima che Elliott lo incontri. D’altro canto, E.T. mette in scena insieme alla nostalgia per la famiglia perduta anche il sentimento della perdita. Per quanto gli spettatori accettino l’identificazione suggerita dal film, sono costretti nel corso del racconto ad affrontare tre abbandoni: quando E.T. si separa da Elliott nella foresta, quando si separa da Elliott e sembra stia ormai morendo e quando se ne va via con l’astronave. Esaminare E.T. in relazione ad alcuni modelli narrativi offre in tal senso ulteriori indizi circa la popolarità e la portata universale del suo racconto. Le narrazioni sono costruzioni trans-storiche e trans-culturali in grado di attraversare le epoche e i confini specifici delle culture, sono della nostra realtà. L’equilibrio di E.T. è l’armonia della foresta all’inizio del film quando l’arrivo degli umani costringe l’astronave a ripartire lasciando indietro E.T., un momento che rappresenta la frattura e portando l’alieno in un mondo che non conosce. Tutti i modelli narrativi canonici sono spinti da una mancanza nei confronti di qualcosa, una perdita, spesso simbolizzata da un oggetto smarrito. E.T., aiutato da Elliott, incarna così la forza necessaria per sopravvivere nel mondo sconosciuto dove ha luogo l’avventura e per ristabilire una comunicazione con il suo mondo ordinario (casa). Da qui il conflitto tra bambini e adulti. Alla fine, il nuovo equilibrio e una nuova risoluzione possono ritrovarsi solo attraverso il ritorno a casa di E.T. simile è la linea narrativa di Elliott costruita attorno a un mondo e un equilibrio perduto (la famiglia) dopo l’abbandono del padre. E.T. diviene per forza oppositiva che mantiene aperto il conflitto tra Elliott e suo padre assente, cioè Elliott e l’ordine costituito del patriarcato e del mondo degli adulti. Secondo Levi-Strauss, le strutture narrative creano significati così come li crea la mente umana. Descrizione e definizione delle esperienze che, risultano estremamente efficaci. l’opposizione generale è rappresentata da natura contro cultura. Natura, positiva. Cultura, negativa. La narrazione guarisce quella ferita che rimane aperta nelle esperienze reali della nostra esistenza. L’horror e la fantascienza riaffermano spesso distinzioni che si sono confuse: i vampiri o gli zombie richiedono l’espulsione dal regno dei vivi; in Jurassic Park combinano in modo mostruoso natura e tecnologia. Gli eroi che abbracciano sia natura che cultura, eliminano o ripristinano di conseguenza le opposizioni. Sia Keys che E.T., che usa la tecnologia per costruire il suo trasmettitore, oltrepassano il divario. Muovendosi dall’immaginario (natura) al simbolico (cultura). E.T. è conforme a questo e altri modelli narratologici. Tale aspetto aiuta a spiegare la sua capacità di suscitare apprezzamento in modo così diffuso. La tipicità di E.T. è connessa a un processo inconscio. Questo fattore non ne 11 giustifica il successo, ma acquista un particolare significato se posto in relazione agli aspetti discussi in precedenza. Il film di S. manifesta e celebra, un’attitudine carnevalesca, dalla loro diffidenza per l’autorità, dalla perdita di individualità attraverso la telepatia e il travestimento, così come il corpo di E.T. si definisce in una profonda ambiguità sia in termini di età che di gender. Jurassic Park (Davide Persico) Jurassic Park mette in gioco un particolare rapporto con la realtà, ridefinendo lo statuto dell’immagine filmica. È un’esperienza di visione che trasforma il visibile e lo intensifica ulteriormente, creando al contempo immagini in cui il reale e artificiale si fondono perfettamente in una sorprendente costruzione illusiva. Il film sui dinosauri, un fenomeno di massa anche a livello produttivo, un’operazione commerciale ambiziosa e di grande portata. Martellante campagna pubblicitaria, grande investimento sul merchandising, il tutto prima che il venga girato. L’innovazione tecnica, cioè l’utilizzo del digitale, consente al regista tutta una serie di scelte all’avanguardia per l’epoca, pure a livello produttivo. La figura del dinosauro ha sempre stimolato l’immaginario dove il cinema l’aveva già sperimentata con nuove tecnologie innovative, ma certamente inferiori rispetto a Jurassic Park. Da Jurassic Park il procedimento dello stop motion che aveva caratterizzato il cinema dai tempi del muto viene abbandonato per una computer grafica che risulterà molto più efficace dal punto di vista della resa delle immagini. Il film di S. costituirà un vero e proprio spartiacque, chiudendo un periodo e aprendone un altro ricco di sperimentazioni sempre più innovative. Secondo Mithcell, il film «ha aperto la strada alla transizione delle tecniche analogiche basate sulla robotica, l’animatronica e la clay animation, all’animazione digitale». Prima del 1993, l’interazione tra esseri di fantasia all’interno della medesima inquadratura mostrava una separazione netta a livello strutturale. Chi ha incastrato Roger Rabbit rappresentava per il 1988 un’innovazione per l’epoca, in cui umani e cartoni interagiscono tra loro. Nonostante la separazione netta tra umani e cartoni, vi è una certa continuità. Quello che manca è la costruzione di figure che mimetizzano alla perfezione con soggetti in carne e ossa. Juraissc Park ribalta completamente la questione crea soggetti irreali attraverso una costruzione più efficace del reale. Rappresenta un grado di mimetizzazione davvero sorprendente che non ha più dei referenti profilmici da inserire nell’immagine per farli muovere con lo stop motion. La CGI consente a Jurassic Park anche di lavorare sulla simulazione dei movimenti dei dinosauri con una resa plausibile e veritiera. Il film elabora un nuovo approccio al realismo, e su tutto quello che concerne il cinema stesso. L’operazione che fa Spielberg è quella di conferire un carattere realista attraverso un’immagine completamente costruita e ricreata, ma che rende bene un meccanismo di mimetizzazione/occultamento della finzione, un’immediatezza trasparente. L’immagine ricostruita non riguarda solo i dinosauri, ma anche gli ambienti. C’è un ribaltamento del concetto di realismo ontologico tanto caro a Bazin. L’immagine (fotografica) sarebbe il prodotto formale della luce, indipendente dalle scelte del regista, con buona pace di Deleuze. Secondo questo approccio il cinema sarebbe per eccellenza realistico. Come sostengono Elsaesser e Buckland «il cinema è realistico perché l’immagine fotografica produce un’impronta indicizzante della realtà». Quello che fa Jurassic Park è infrangere questi punti di forza, ricollocandoli in un altro orizzonte. l’atto creativo è tutt’altro che indipendente dall’intervento del regista, o degli accorgimenti tecnici della stessa macchina produttiva. L’azione del regista nega la possibilità riproduttiva del cinema in maniera automatica. L’inscrizione di elementi non reali (i dinosauri) ridisegna i confini del realismo attraverso una modificazione radicale della realtà largamente intesa. la realtà si piega alle esigenze produttive del film e di conseguenza allo stesso mondo diegetico. È la realtà stessa a cambiare statuto. I residui del profilmico – i soggetti umani – interagiscono con il prodotto della grafica computerizzata senza impaccio ma non grande credibilità, affermando un’illusione di realtà senza precedenti per l’epoca. L’immagine digitale di Jurassic Park non è il prodotto di una trasformazione ottica, meccanica e fotochimica, essa «è generata da codici digitali numerici»; che ne trasformano la realtà «raffigurata sulla base di un logaritmo [algoritmo]». Il film inaugura una sorta di biopicture «un’immagine a cui sono stati conferiti movimento e apparenza di vita per mezzo delle tecnoscienze. «essa fonde la “vita spettrale” delle immagini (l’inquadratura, il fantasmatico) con una nuova tecnica di vita, che trova la 12 sua incarnazione nei fenomeni della clonazione e dello sviluppo dell’immagine e dell’animazione digitale». Jurassic Park mette in scena questo controllo dei codici digitali che andrà sempre più affermandosi per dare possibilità molteplici nella costruzione perfetta e coerente dei dinosauri stessi. L’immagine digitale sopperisce a un limite strutturale di quella analogica. Una nuova realtà attraverso un inganno sensoriale. Lavora su un controllo totale die codici digitali e cinematografici per dare un risultato perfetto all’interno della diegesi. Questo risultato che costruisce in teoria un’unità spazio- temporale, all’interno della quale due eventi distinti sembrano verificarsi in sincrono. L’apertura di un’unità spazio-temporale presuppone una trasformazione dell’immagine – e del mondo diegetico – in cui, proprio perché stratificata, ha al suo interno diversi livelli di composizione. L’immagine digitale creata da Jurassic Park simula «degli eventi impossibili in un contesto reale (ma plausibili in un mondo alternativo). Elementi eterogenei vengono impressi in un’unica inquadratura dove i dinosauri creati digitalmente interagiscono all’interno di live action. In secondo luogo, i movimenti di macchina riescono a integrare la mdp con gli attori, i dinosauri e i vari effetti speciali, amalgamando il tutto a livello compositivo. S. riesce a integrare la sica ottica degli umani (il motion blur) con quella digitale dei dinosauri, facendo credere che entrambi i soggetti agiscono all’interno dello stesso contesto visivo. Il discorso tecnico-filosofico si inserisce anche nella narrazione e nella messa in scena. La coesistenza di esseri umani reali che hanno un residuo profilmico evidente ed esseri digitali che fingono di averlo, si realizza attraverso dinamiche diverse. Si può considerare il film come una lotta di questi due mondi per l’egemonia visiva, per la conquista della posizione (e del ruolo) nell’inquadratura, per il dominio della dimensione spaziale che non sempre è naturale. Nella sequenza d’apertura, il rapporto tra umani e dinosauri è legato a una presenza iniziale dei primi, e un occultamento dei secondi, è come se queste inquadrature mostrassero un’evoluzione dell’immagine nel rapporto tra realtà e finzione, tra umani reali e dinosauri artificiali, assegnando a entrambi lo stesso statuto a livello diegetico. All’inizio le due “realtà contrapposte” sono separate: il rettile in una gabbia, situazione di negazione di se stesso come immagine del mondo. L’immagine del rettile viene negata allo spettatore ma anche ai personaggi addetti al trasporto della gabbia. Il film inizia con l’illusione di controllare i dinosauri. Tutta la narrazione scaturisce da una precarietà dei sistemi di sicurezza, dell’occultazione e relegamento dei dinosauri predatori nei loro recinti, nel loro habitat, nella loro condizione di esistenza naturale artificialmente costruita. Ma anche nella dimensione spaziale che li configura come tracce, come frammenti, come residui visivi della loro interezza. Il rapporto tra le due entità avviene attraverso un’evoluzione visiva inscritta nella narrazione che man mano diminuisce la loro distanza. Inizialmente il rapporto che si instaura è quello di sola osservazione. Un’altra occasione per avvicinarsi all’animale è offerta dal ritrovamento di un triceratopo in pessime condizioni di salute che necessita di assistenza medica. In questo caso però, è un animatronic che funziona senza interventi digitali. Dallo smarrimento iniziale si passa a una sorta di osservazione diretta, dal vero. Un’osservazione diretta avviene anche nella sequenza in cui si assiste alla schiusa dell’uovo di velociraptor. Questi rapporti sono supportati da un intento prettamente scientifico. Anche il tour che illustra i procedimenti di creazione dei dinosauri è basato in parte sull’osservazione: i visitatori sono collocati in una sorta di sala cinematografica che ne afferma la condizione spettatoriale. Ma a un certo punto, Alan e gli altri ribaltano la loro situazione di partenza, ed entrano nello schermo che nel frattempo si è aperto come una vera e propria porta verso il laboratorio genetico. Il ribaltamento della condizione spettatoriale influisce anche sulla narrazione. Il venir meno alla distanza tra lo schermo e il suo spettatore anticipa anche quella tra umani e dinosauri; e la coesistenza nella stessa inquadratura diventa più che altro una lotta per la conquista visiva di una specie sull’altra. L’azione violenta del dinosauro nascosto e la morte dell’operaio nell’apertura è dettata dalla volontà di mostrarsi, di non essere relegato in una gabbia, e diventare così oggetto di visione e di esibizione esplicita nella propria fisicità digitale e artificiale. Essa ha un grado di verosimiglianza con gli esseri umani: portatori di un’istanza di realtà e un grado di verità più forti. Sulla volontà di primeggiare all’interno del visibile, possiamo dire che il desiderio di un’entità che non è al momento né soggetto di sguardo che agisce né oggetto di sguardo che si esibisce va in direzione di una processualità che la trasforma in un vero e proprio soggetto vedente. È capace di innescare la seconda parte del film e determinare così la fuga dei soggetti umani dal campo visivo dei dinosauri. In Jurassic Park, la supremazia del campo visivo 15 risponde dunque a un’interpretazione di tipo “melodrammatico” in modo più ovvio che a un’estetica e a un’ermeneutica “modernista”. Il cinema popolare in questo caso sta sul versante dell’eccesso, del perverso o del compulsivo, piuttosto che essere caratterizzato da un’estetica del distaccamento e della distanza. L’eroe di S. è un giocatore d’azzardo, uno che prende rischi, uno showman. Schindler si definisce come un uomo in grado di avere la meglio negli affari grazie al proprio fascino e alla capacità di convinzione. Schindler’s List è un film serio e sofisticato utilizzando la forma del melodramma creando una rappresentazione e facendo identificare gli spettatori. Anche S. presenta la vita nei campi e in una scena controversa mostra le donne che si spogliano ed entrano nella stanza delle docce. In questa sequenza presta attenzione a direzionare lo sguardo sullo sfondo, dove una lunga fila di persone scompare giù per le scale di un bunker, verso le camere a gas. La suspance e il melodramma sono qui al servizio della “tragica ironia” da cui lo spettatore è obbligato a dedurre ciò che non può essere mostrato, mentre la manipolazione dell’aspettativa, della suspance e del sollievo per il salvataggio delle donne da Auschwitz crea un adeguato ed estremo contrappunto. A differenza di Holocaust, S. si confronta con il problema di come dare voce agli individui e al contempo di rappresentare la collettività. La nozione stessa di “lista” p un potente dispositivo per tenere in considerazione una collettività, un gruppo, sebbene la continua esternazione di nomi dà ad ogni individuo una dignità e destino. S. ha la rara capacità di conferire una portata drammatica a una risonanza emozionale alla rappresentazione di una folla «in cui i bambini vengono portati via in camion verso qualcosa di peggiore, le madri corrono verso di loro urlando». S. rimanendo dentro i termini narrativi del racconto hollywoodiano, si affida ad alcuni dispositivi del romanzo storico classico, filtrando da eventi attraverso un eroe capace di creare un vasto consenso, il cui coinvolgimento lo colloca in un certo senso al di fuori del palcoscenico della storia. Allo stesso modo, ci si può chiedere se il finale ottimistico sia un dispositivo necessario perché la storia raggiunga una vasta audience, o se, sia un imperdonabile insulto ai sei milioni di morti durante i trasferimenti e nei campi. Cheyette conclude il suo pezzo in modo emblematico: «Sicuramente è possibile provare a comprendere sia Lanzmann che S. senza essere accusati di essere dei negazionisti dell’Olocausto». S. ha optato per il cinema e per la storia: in contrasto con Holocaust, Schindler’s List è sia altamente “intertestuale” che consapevole del suo essere cinema. S., dunque, non solo è a conoscenza dei film e dei prodotti televisivi hollywoodiani americani che hanno affrontato storie legate all’Olocausto, ma conosce anche il cinema europeo che dagli anni ’70 ha trattato soggetto del fascismo. Ha inoltre visto alcuni dei film tedeschi presi in discussione: la breve trasformazione dal bianco e nero al colore era utilizzata per la prima volta, con un effetto simile, da Reitz in Heimat, ed è evidente anche un parallelismo con i film di Fassbinder. Esprimendo lo specifico punto di vista degli ebrei, Schindler’s List ha tra i suoi temi l’annullamento delle capacità delle vittime, la distruzione di oggetti sacri e di artefatti culturali. O carrelli che seguono i bagagli degli abitanti del ghetto dentro gli angoli nascosti della stazione sono strazianti immagini di profanazione e di distruzione di un’intera cultura. S. vede qui il destino del ghetto di Cracovia anche nel contesto di generale svalutazione della cultura materiale che va di pari passo con la produzione industriale e la guerra. Il film di S. è quindi intimamente legato con la storia del cinema e con i filmmaker europei, in questo senso la Polonia è centrale. S. è un regista consapevolmente americano ma anche un regista che rivendica la propria identità ebraica. È un film cioè che segna la presa di coscienza di S. come ebreo americano. Schindler’s List «prova ancora una volta che, per S., c’è una forza nel mondo che è più grande del bene e più grande del male, questa forza è rappresentata dal cinema. E lui non è del tutto solo in questa “teodicea cinematografica”». Qualsiasi cosa si possa pensare sia di Schindler’s List che di Shoah, il trattamento del soggetto che entrambi i film offrono allo spettatore è determinato dai rispettivi generi di riferimento e dall’altra è legato al fatto che i due casi si lavora con mezzi dichiaratamente differenti, sul confine di ciò che ho chiamato il loro essere “unito” e “frantumato”. Queste posizioni, tuttavia, sono in netto contrasto con i loro risultati economici e di conseguenza con il posto che occupano nella sfera pubblica. Sia Lanzmann che S. usufruiscono dell’interesse mediatico alimentato da Schindler’s List per costruirsi le loro rispettive posizioni. Lanzmann ha criticato S. dicendo che il regista americano ha fatto un film «tipico degli ebrei americani, desiderosi di appropriarsi dell’Olocausto». Una critica simile lanciata da Reitz per Holocaust. Per Lanzamann questo potrebbe, nel dar sfogo al risentimento, aver suggerito 16 incompatibilità più profonde, ponendo in risalto il fatto che S. ha effettivamente “interpretato” l’Olocausto. Decidendo di chiudere il film con gli ebrei di Schindler che si recano sulla sua tomba, Schindler può essere visto come un Mosè che guida il suo popolo fuori dalla persecuzione egiziana, mentre lui, come tutti i veri profeti, è proibito raggiungere la terra promessa. S. si è appropriato di una particolare visione, non tanto dell’Olocausto, quanto di un riscatto ebreo sovrapposto a una retorica americana di immigrati, colonizzatori e padri fondatori. Minority Report (Pietro Masciullo) Minority Report viene realizzato subito dopo A.I. Artificial Intelligence e sembra portare a termine una tendenziale ibridazione tra l’ottimistica “beatitudine” di un film come Close Encounters o E.T. e gli sviluppi socio-tecnologici del XXI secolo che prefigurano le “tenebre” di un’imminente War of the Worlds. Minority Report si inserisce in una stagione oramai storicizzata di film di fantascienza apocalittica (distaser movie, incubi distopici) che prefigurano le fobie per il radicale salto di paradigma esperienziale che i nuovi media a base informatica stavano generando su larga scala proprio in quegli anni. Un coerente discorso sul genere classico attualizzandone i motivi: pericolo del totalitarismo tecnocratico alla pervasività dei nuovi dispositivi di controllo, dimensioni temporali alternative alla difesa del libero arbitrio. Il film alla sua uscita viene recepito come un’urgente riflessione sul 11 settembre: Frederick Wasser – nel suo studio dedicato alle riscritture immaginarie delle principali questioni politico-culturali nei film di S. – interpreta Minority Report come un film storico, «il film che ha inavvertitamente anticipato la risposta preventiva del governo americano all’attacco subito». Lo sforzo maggiore era di progettare gli spazi urbani di Washington DC, e così S. ha riunito un team di scienziati, architetti, scrittori e informatici per immaginare un panorama architettonico e mediale come credibile estensione del presente. Minority Report viene utilizzato come testo paradigmatico per comprendere la nuova logica della “premediazione”. Con la tendenza a immaginare scenari futuri – dal terrorismo internazionale alle crisi economiche – i nuovi media digitali anestetizzano le paure globali della nostra epoca presupponendo un necessario controllo degli eventi futuri. Immaginare l’impatto sociale di tecnologie ancora in fase di progettazione mitiga le ansie provocate dallo stato di innovazione tecnologica permanente tipico della cultura digitale. Rimediare eventi e tecnologie del futuro implica un’ambigua colonizzazione dello stesso ad opera di dispositivi di controllo sempre più pervasivi. Se nella diegesi le facoltà divinatorie dei Precog vengono certificate come un sistema giudiziario bypassando il libero arbitrio, extradiegeticamente Minority Report coglie le questioni più rilevanti in termini geopolitici – una su tutte la legittimità della guerra preventiva – contribuendo al dibattito sui confini democratici della nuova società de controllo. La prima sequenza del film (https://youtu.be/6yt9aMZQWyU) ha un valore paradigmatico: i loghi della 20th e della DreamWorks sono ibridati nelle loro configurazioni di paratesti introduttivi con distorsioni in computer grafica. Questo scivolamento da paratesti nella diegesi è una dinamica che S. ha già adottato nell’incipit di Raiders. Partono i titoli di testa, si intravedono due figure: un uomo, una donna e un bacio in primo piano. Poi dissolvenza incrociata, dettaglio di un paio di forbici insanguinate. Pochi frame di una vasca da bagno piena di sangue; poi un uomo sale le scale stringendo nella mano le forbici – il semiplongée dall’alto in riferimento a Hitchcock in Suspicion. L’uomo scopre i due amanti, si avventa li uccide poi stacco sulle stesse forbici che trapassano l’occhio di un cartonato di Lincoln (che sarà un futuro film di S. nel 2012). Stacco successivo, l’uomo inforca i suoi occhiali e dice alla donna: «Sai quanto sono cieco senza metterli». La prima frase che ascoltiamo in Minority Report allude pertanto alla visione annebbiata e alla necessaria mediazione di superfici riflettenti per interpretare fenomeni. Tutte le piccole memorie esterne presenti nel film avranno forma e consistenza simile a lenti trasparenti attraverso cui immagazzinare immagini. Le inq. Deformano spazi e volumi fino all’iride oculare che inizia ad apparire in dissolvenza incrociata. Stacco successivo un dettaglio stretto dell’occhio della vittima alla Hitchcock in Psycho per poi staccare sull’occhio vivo di Agatha alla 2001: Odissea nello spazio. Le frammentarie previsioni dei tre Precog ci vengono restituite dal film con un palese mediazione estetica che origina una fuga di significati da analizzare attentamente. Il dispositivo del pre-crime si mette ora in moro: una pallina di legno viene incisa col nome delle due vittime. Stacco, una porta a vetri si apre lasciando passare il capitano John Anderton 17 e il suo primo contatto umano è con un’impiegata incinta. Il tema della paternità è uno dei più importanti che i due sceneggiatori aggiungono al racconto di Philip. K. Dick, un tema, on a caso, profondamente spielberghiano. L’entrata in campo del protagonista accolto dalla donna incinta anticipa ogni motivo del suo conflitto interiore che si risolverà in una speculare inq. nel finale del film. Suona l’allarme, un’altra pallina di legno esce con il nome dell’assassino. John entra nella sala d’investigazione, indossa i suoi guanti interattivi e si affaccia dalla finestra interna che dà sul “Tempio”, la piscina dove vivono i Precog che, secondo Nigel Morris, è una sofisticata metafora del dispositivo cinematografico novecentesco. Cruise inizia ls sua performance interattiva che inaugura un nuovo paradigma nel rapporto con le immagini «il display mostra nel senso che mette a disposizione, rende accessibile. Esibisce, non scopre. “rende presenti” le immagini. Ce le pone di fronte, nel caso intendessimo utilizzarle, ce le mette in mano». Quindi: che statuto hanno le immagini previsualizzate dai Precog? Esternalizzazioni di spettri interiori che aprono le configurazioni del film ad articolazioni formali di tipo espressionista. Successivamente, la registrazione tecnica di quelle stesse immagini le “rende disponibili” nel display touch di John che inizia il suo lavoro di investigatore: costruisce un nuovo montaggio che gli consenta di scoprire il luogo esatto dell’omicidio. John porta con sé un piccolo dischetto musicale con dentro la Sinfonia n.8 di Franz Schubert, l’Incompiuta, incompiuta come sono tutte le visioni dei Precog che forniscono informazioni parziali da completare «spazzolando le immagini» con il gesto delle mani. La mdp asseconda le interazioni del protagonista con fluidi movimenti semicircolari che attraversano il set sono potenziati dall’uso di lenti grandangolari e da occasionali inquadrature angolari dal basso». Un terzo piano di riflessione su questa sequenza e precisamente sulle inquadrature de presente diegetico di Howard Hawks. L’uomo esce di casa, prende il giornale e scruta con sospetto un passante dall’altra parte della strada. Il montaggio di questa sezione temporale procede per classici establishing shots. Stacco, interno casa, le forbici tenute in mano dal figlio di Howard e Sara, che perforano nuovamente la maschera di cartone di Abraham Lincoln – l’icona dei principi costituzionali di libertà – mentre il ragazzino ripete a memoria il discorso di Gettysburg come mito di fondazione da recitare a scuola. Quest’inquadratura presenta i segni di un’iscrizione eidetica, perché coagula in un’unica immagine l’universo distopico mutuato dal racconto di Dick e ogni urgente referenza all’attualità del post 11 settembre: la democrazia americana rischia la “cecità”? Nel film di S. del 2002 ogni informazione sui presunti omicidi va invece rivelata interpretando immagini e tracce sonore frammentate – come Blow- up e The Conversation – attraverso costanti inscrizioni «nel testo filmico di segmenti realizzati in funzione dell’esplicita produzione di una intenzionale configurazione metacinematografica o metafilmica». In questa prima sequenza i tre paradigmi di visione sono messi in fertile dialettica intermediale: 1) le configurazioni e il montaggio alternato del linguaggio classico 2) le distorsioni visive espressioniste e le successive marche enunciative dello stile moderno associate 3) le interazioni con immagini tridimensionali nei nuovi ambienti mediali immersivi che tendono alla virtual reality. La sequenza iniziale è assente dal racconto originale ed è una sequenza in grado però di anticipare molti nodi estetici e molti enigmi concettuali ricorrenti nel cinema hollywoodiano del XXI secolo. Queste considerazioni sono avvalorate dalla piccola sequenza successiva introdotta da una dissolvenza in nero e da una frase: «Immaginate un mondo senza omicidi». Uno spot della Pre-crime che funziona come raddoppio autoriflessivo. Uno stacco ci porta infatti all’estrema periferia della città, chiamata “il letamaio”, dove John Anderton corre incappucciato in cerca id stupefacenti che leniscano il suo senso di colpa. La netta demarcazione tra i quartieri ricchi e poveri è quindi estremizzata sia a livello scenografico, sia nelle radicali scelte fotografiche. Queste dimensioni urbane l’esperienza di visione allude a un unico sistema integrato che ibrida gli spazi fisici di Washington con le icone infografiche tridimensionali. La smart city del futuro presuppone dispositivi di sorveglianza dislocati in maniera reticolare dove ogni soggetto viene costantemente identificato tramite scansioni retiniche creando enormi database che ridiscutono nel profondo il concetto di privacy novecentesco. L’occhio è sempre messo in discussione. Agatha non può vedere se non nel futuro; Howard è cieco senza occhiali; l’occhio di Lincoln è perforato; lo spacciatore di John ha gli occhi cavati; Anderton sarà costretto a sostituire a sostituire i suoi occhi clandestinamente per evitare i dispostivi di controllo. L’apparato visivo diventa un portale/database di informazioni proprio come nell’universo di Blade Runner dove la scansione retinica del test Voight-Kampff può certificare 20 in Israele: movimento di pana mano e S. segue una folla che entra di corsa in un bar per assistere ancora una volta tramite uno schermo tv agli eventi appena accaduti a Monaco. Immagini in b/n, pubblicità della CocaCola in lingua ebraica. Dopo aver insistito sui dettagli dei volti degli avventori del bar (sempre in mdp a mano) il regista torna con un altro dettaglio sullo schermo televisivo. Montaggio alternato al terzo setting, la Palestrina. S. riproduce con un movimento di macchina precedente stavolta indirizzato dentro l’abitazione di una famiglia araba, dove un terzo schermo televisivo mostra le stesse immagini, con un commento ancora in inglese, ma sottotitolato in arabo. Decine di persone osservano. Arriviamo al quarto schermo, ripreso con inquadratura fissa che mostra avvenire in profondità ciò che vediamo in tv, in tempo reale e in b/n. villaggio olimpico di Monaco, i terroristi tengono sotto ostaggio gli atleti israeliani, e assistiamo, sia in tv che sullo sfondo a un militante di Settembre nero che esce sul balcone con una calzamaglia su viso. Un’immagine iconica del massacro, ripresa, fotografata e riprodotta dalle televisioni e dai quotidiani di tutto il mondo qui sul piccolo schermo con un innesto di repertorio e, simultaneamente, rappresentata sullo sfondo dell’inq. tramite una messa in scena di finzione. Un quinto schermo, immagini a colori, camera fissa, mostrati i tentativi di negoziazione operati dal governo tedesco per far rilasciare gli ostaggi. Lento pan rivela la sagoma di una donna di fronte a una finestra che osserva la tv preoccupata e pensierosa. S. colloca quindi lo spettatore all’interno della ricezione internazionale dell’evento, filtrato attraverso cinque schermi televisivi provenienti da altrettante parti del mondo. L’evento che precede l’operazione contro-terroristica viene raccontato dal regista attraverso la sua televisione, ovvero nel mondo in cui aveva 25 anni, assieme al padre da migliaia di kilometri di distanza, lo seguì in diretta nel 1972. Il regista invita lo spettatore a trarre da qui le informazioni necessarie, lasciandogli comporre, 30 anni dopo, i frammenti archivistici del primo evento traumatico della storia occidentale e mediato in diretta dalla televisione. In questa operazione di sguardo retrospettivo sul passato irrompe la trappola dello «specchietto retrovisore» di McLuhan in cui ogni “vecchio” mdium finisce per essere contenuto nel “nuovo”: il futuro è già nel presente, ma bisogna staccare gli occhi dallo specchietto retrovisore della macchina in corsa per accorgersene. La sequenza continua seguendo quattro direttrici intermediali: a) palesato il meccanismo di costruzione e trasmissione delle immagini dentro uno studio televisivo; b) il montaggio alternato che connette idealmente analoghe modalità di consumo mediale dell’evento in diversi contesti, introducendo anche i parenti delle vittime e dei terroristi che seguono la sorte dei propri cari; c) entrano in gioco in chiave spersonalizzata, i servizi segreti israeliani che osservano inermi; d) gli stessi membri di Settembre nero assistono all’organizzarsi dell’operazione contro-terroristica in televisione, osservano come si sviluppa «soltanto in uno show». Come ha osservato Thomas Nachreiner, gli schermi di Munich «estendo lo spazio locale dell’evento nello spazio più ampio dell’esposizione televisiva». Il massacro di Monaco 1972 è dunque ri-mediato dalla televisione senza che vengano introdotti, nei primi dieci minuti, personaggi o situazioni drammaturgiche che saranno poi oggetto del resto del film. Il montaggio alternato amplifica da un lato il realismo percettivo introdotto dagli schermi e dalla macchina a mano, velocizzando e “televisizzando” le connessioni tra immagini di repertorio e finzione; dall’altro finisce per incrementare la suspance narrativa, rendendo lo spettatore parte dell’universo del consumo mediale dell’epoca. L’assenza della colonna sonora agisce nella medesima direzione: sottrarre la componente finzionale al racconto storico e lasciare ai soli raccordi ambientali il compito di restituire autenticamente lo spirito del tempo. La riflessione di Munich sui media preponderante nella prima parte del film, ma continua almeno in tre altre occasioni specifiche in cui la squadra speciale di Avner assiste, in televisione, alle operazioni di rappresaglia che Settembre nero dissemina in tutto il mondo. In tutta evidenza, quella tipica messa in scena in forma autoriflessiva della pervasività degli schermi (e dei media) nel mondo contemporaneo, caratteristiche di alcuni tratti del cinema moderno, così come di molto cinema americano degli anni ’70 – Nashville, Network. Dopo quasi dieci minuti dall’inizio, viene introdotto il primo personaggio del film, che assiste dal divano di casa alle immagini televisive della partenza dall’aeroporto di Monaco verso Israele che salme degli undici ebrei assassinati. Avner non è uno dei tanti spettatori che abbiamo visto consumare quelle immagini di fronte al televisore: è l’unico, presentato con un movimento di macchina circolare di 180° che passa da una semi-soggettiva introduttiva, nella quale identifichiamo da subito il nostro sguardo, a un classico primissimo piano, Avner spegne il televisore. Solo dopo questo atto di censura, 21 la narrazione drammaturgica del film può avere inizio. Ulteriore elemento all’identificazione del punto di vista con quello del personaggio principale è fornito dalla sequenza del viaggio da Tel Aviv a Ginevra che introduce un’altra dimensione di intermedialità ai vari livelli in cui si sviluppa il racconto. Seduto sull’aereo che lo conduce in Svizzera, Avner guarda fuori dal finestrino e immagina ciò che non è stato mostrato dalle immagini televisive, ma che abbiamo parzialmente visto nel preambolo. Uno zoom si avvicina verso la superficie del vetro del finestrino che, più che mostrare ciò che c’è fuori, finisce per riflettere, come fosse un ulteriore schermo, ciò che immagina Avner. L’immagine riflessa poi invade la totalità dello schermo: la fotografia livida, l’utilizzo del ralenti, la forte presenza della colonna sonora e dell’eco del sonoro ambientale, conferiscono a quetse immagini una dimensione onirica che contrasta con le icone “televisizzate” della sequenza precedente. Una trasposizione di un sogno riflessa sul vetro in cui assistiamo al brutale omicidio dei due atleti israeliani. Dopo aver visto assieme ad Avner le immagini da lui proiettate nella sul finestrino, zoom- out, e ritorniamo al mondo “reale”, nella cabina dell’aereo dove il protagonista bacia la fede prima di rimuoverla dal dito. Questa breve sequenza anticipa altre due scene oniriche che, nel corso del film, completeranno ai nostri occhi il quadro delle immagini dell’accaduto: a) sogno di Avner, in cui la narrazione del massacro passa dal villaggio olimpico all’aereoporto; b) il montaggio alternato in cui Avner immagina e visualizza, durante l’amplesso con la moglie, le fasi finali degli omicidi. Le immagini-mentali di Avner si configurano come «immagini eidetiche», proiezioni di oggetti ideali che non dipendono dall’esperienza sensibile del protagonista, ma unicamente dalla sua immaginazione. L’immaginazione di Avner proietta fuori da sé lo scarto delle immagini mancanti. In questo modo, S. propone sia una ri-mediazione che una ri-figurazione dell’immaginario storico dell’accaduto attraverso gli occhi di Avner, una ri-locazione della storia sul vetro di un finestrino che si fa schermo riflettente e visibile di paure, sogni e immaginazioni. Un vetro-specchio che rappresenta da un lato una «soglia di separazione e di divisione tra de mondo», una «misteriosa superficie che consente l’intensificazione del rapporto con sé stesso e la produzione di un’avventura narcisistica». Dopo la presentazione della cronaca dei fatti e adottato l’utilizzo degli inserti documentari attraverso la riconfigurazione del repertorio, su decine di schermi, il percorso delle “nuove” immagini di Munich passa attraverso un processo di allucinazione traumatica articolato in tre falsi flashback. Immagini del massacro ri-figurate dalla mente di Avner, frutto dell’immaginazione del protagonista e agiscono, internamente, nella graduale mutazione della sua identità. S. costruisce l’intero racconto attorno allo sguardo di Avner. La sequenza dell’omicidio di Kamal Adwan è paradigmatica. (https://youtu.be/1RZzTFOSHKc) In questa sequenza lo sguardo di Avner è impallato dal camion bianco e, a differenza di Schindler non riesce a vedere la bambina con il maglioncino rosso (citazione al film del 1993) che risale dentro casa. Avner dopo il primo omicidio ha già perso la sua innocenza, e il suo cinismo non gli consente di accorgersi della bambina dal maglioncino rosso. Soltanto quando si rende conto della Mercedes ferma nuovamente di fronte al palazzo di Kamal, capisce insieme a Carl di dover di nuovo abortire l’operazione. Irrompe il sonoro extra-diegetico in flash forward: in sottofondo un rumore ovattato di un’esplosione seguita dalla sirena dell’ambulanza che anticipa di pochi secondi l’audio della conclusione della sequenza – che richiama una tecnica utilizzata in Salvate il soldato Ryan. Così uccidere un innocente sembra scampato: la bambina esce di casa, rientra in macchina e si allontana. Il camion che oscurava la visuale se ne va. La missione riprende e Kamal salta in aria. Gli altri omicidi del film seguono meccanismi analoghi di costruzione della suspance ma nella sequenza a Parigi c’è un elemento simbolico. È introdotta la possibilità che in un’operazione di questo tipo possa rimanere ucciso un innocente nella fattispecie una bambina. Il regista alterna l’utilizzo di situazioni di suspance e colpi di scena a momenti di discussione morale ed etica che rallentano il ritmo forsennato della prima parte. S. inizia a integrare lo sguardo israeliano con un punto di vista “arabo”, perseguendo due obiettivi principali: complicare la drammaturgia creando indirettamente un “dialogo” con l’altro mondo e alimentando una presunta superiorità morale israeliana sui palestinesi; dall’altro ridiscutere eticamente la giustezza delle azioni compiute da Mossad, inserendole in un meccanismo di promiscuità ideologica dove “cane mangia cane” e nessuna violenza appare giustificabile. Dopo l’azione di Parigi, Avner inizia a dubitare della sua identità israeliana, di far crescere sua figlia in Israele, di voler essere un eroe nazionale come suo padre. È l’assenza del padre refrain del cinema 22 spielberghiano, ad assumere qui una portata metaforica sul piano etico di costruzione identitaria. James Schamus note come tutte le vittime di Avner siano maschi che assumono caratteristiche paterne; ancor di più come il personaggio di Papà, leader della misteriosa organizzazione francese Le Group ha una funzione riempitiva dello scarto tra identità israeliana (il padre-fantasma) e la sua nuova identità di ebreo diasporico (il papà dislocato cui si affida). Il richiamo continuo all’esistenza di un padre mai rappresentato viene traslata sul rapporto problematico che Avner inizia a vivere con il suo paese, Israele, e che lo porterà nel finale a fare yerida (immigrazione di ebrei israeliani in Europa e America). Relazione costantemente mediata dalla memoria, diretto o indiretta, della Shoah, rappresentata dalla madre di Avner, ebrea tedesca sopravvissuta allo sterminio che tenta di convincerlo a rimanere in Israele. Avner si distingue in quanto portatore di una nuova identità di ebreo «dissociato», sia dalla memoria della Shoah (la madre) sia dalle radici territoriali (il padre). Il rapporto problematico tra Avner e Israele richiama implicitamente quello tra S. e l’identità ebraica americana. Questa relazione è incarnata nella sequenza “intermediale” di Munich, in particolare dall’utilizzo della musica diegetica dell’Hatikvah. (https://youtu.be/yuwgO8jrLPk) S. utilizza l’Hatikvah in una duplice funzione: sul testo come forma esplicita/metaforica – gli atleti nelle bare che tornano a casa dalla Germania, lo scenario della Shoah In Europa, momento originario delle più corpose migrazioni sioniste dopo la IIWW; l’altra fa da contrappunto predittivo – Avner che parte da Israele per la sua missione e che, alla fine del film, deciderà di non tornare a casa, facendo yerida. L’uso della musica si fa riferimento auto-riflessivo e di contrappunto al film di S. del 1993. S. decide di chiudere Schindler’s List con l’utilizzo extra-diegetico di un brano, scritto vent’anni dopo la fine della Shoah per commentare una scena di aliyah. Allo stesso tempo l’operazione contro-terroristica di Munich inizia diegeticamente con una canzone sionista per sottolineare un altro ritorno a casa: quello delle salme degli ebrei su territorio tedesco, dirette verso Gerusalemme. «se Schindler’s List termina su una nota di trionfante sionismo, Munich solleva dei dubbi se non sull’essenza del sionismo stesso, quantomeno sulle strategie e le operazioni condotte dalla sua incarnazione politica, ovvero lo Stato d’Israele». Cosa è cambiato nei dieci anni che separano i due film? Non soltanto la fine (aliyah vs yerida) ma anche la scena iniziale di Schinlder’s List che viene esplicitamente ripresa dal finale di Munich. (https://www.youtube.com/watch?v=0bR6pUOhZo4) Con l’intensificazione emotiva della conversazione, S. passa definitivamente a un campo/controcampo sui primi piani dei due. Ennesimo rimando a Schindler’s List: la prima sequenza del film del ’93 a colori, in cui una famiglia di ebrei polacchi, in piedi attorno a un tavolo mentre prega e benedice il pane, si dissolve dall’inquadratura prima di riuscire a spezzarlo. Avner esorta Ephraim compiere insieme, lontani da casa, quell’atto mancante, mai concluso a causa della Shoah. Si confrontano con due diversi modi di concepire la casa, la famiglia, l’ebraismo: un ebreo dislocato dell’autore, e un ebreo israeliano. S. intende mettere in discussione il ruolo di Israele come il migliore Stato possibile in cui gli ebrei possono vivere nel mondo. Nel frame ifnale, in lontananza, dallo skyline di Manhattan svetta un dettaglio del contesto prima nascosto, le Torri gemelle del World Trade Center, finite di costruire durante l’operazione “ira di Dio”. Da Settembre nero all’11 settembre il cerchio di Munich si chiude: le immagini del conflitto globalizzate e «clonate» dagli schermi all’inizio del film si trasformano in un’allegoria della “guerra del terrore” occidentale, rimediata sia dalla memoria del trauma per eccellenza dell’identità ebraica (la Shoah) sia da quello più recente dell’identità americana (le Torri gemelle). Non si tratta solo die rimandi tra la Shoah, il conflitto arabo-israeliano e l’11 settembre di cui si è detto, ma anche della mediazione continua dello sguardo “americano”: il titolo del film, la lingua in cui è girato, l’uso della colonna sonora diegetica e dei personaggi di nazionalità americana. Se il massacro di Monaco prima, e l’operazione contro-terroristica poi, spostano i confini del conflitto israelo-palestinese in Europa, S. trasforma dunque una storia locale e continentale in un dilemma etico ebraico, occidentale, ma prima di tutto americano. Ready Player One (Mauro Di Donato) L’avventura produttiva di RPO inizia nel 2010 quando la Warner acquista i diritti del romanzo di Ernest Cline prima che questo venga pubblicato. La sceneggiatura è scritta da Zak Penn e vede il contributo dello stesso Cline. L’intreccio gira intono a un gruppo di “gunter” (eggs hunters) risoluti a portare a termine le sfide e a battere sul tempo la multinazionale IOI che nel frattempo ha assoldato