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Storia contemporanea - Dalla grande guerra ad oggi,sabbatucci - vidotto, Sintesi del corso di Storia Contemporanea

riassunti del libro Storia contemporanea. dalla Grande guerra ad oggi di Sabbatucci e Vidotto, tranne cap 16-18-19-20-21-22

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 02/04/2022

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Scarica Storia contemporanea - Dalla grande guerra ad oggi,sabbatucci - vidotto e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! Storia Contemporanea : Dalla Grande Guerra ad oggi Sabbatucci - Vidotto Capitolo 1 - LA PRIMA GUERRA MONDIALE E LA RIVOLUZIONE RUSSA: 1.1 Venti di guerra. L’Europa del 1914 vede l’emergere di nuove potenze, come il Giappone e gli Stati Uniti, lo sviluppo nella produzione industriale e l’estensione del diritto di voto. Non mancavano i conflitti sociali e le tensioni politiche internazionali: 1. Tra Austria-Ungheria e la Russia per il controllo dei Balcani; 2. Tra Francia e Germania per l’Alsazia e la Lorena; 3. Tra la Gran Bretagna e la Germania per la corsa agli armamenti navali. Inoltre l’equilibrio continentale si basava sulla contrapposizione di due blocchi di alleanze: Austria e Germania contro Francia, Russia e Gran Bretagna. La corsa agli armamenti intrapresa dalle maggiori potenze e la forza distruttiva dei nuovi mezzi bellici, rendevano sempre più inquietante e vicina l’ipotesi di un conflitto. La guerra era dunque nell’aria, ma non tutti la temevano: Da una parte le minoranze pacifiste si mobilitavano per impedirne lo scoppio e i socialisti la condannavano in nome degli ideali internazionalisti, dall’altra le classi dirigenti la concepivano come un dovere patriottico nella logica del confronto tra le potenze. C’erano anche uomini politici e finanzieri pronti a sfruttare le opportunità di carriera e di guadagno offerte da una possibile guerra. 1.2. Una reazione a catena. Il Casus belli: Il 28 giugno 1914, uno studente bosniaco, Gavrilo Princip, che faceva parte di un’organizzazione ultranazionalista → Mano Nera ,che si batteva affinché la Bosnia entrasse a far parte di una “Grande Serbia”, uccise l’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie, mentre si trovavano a Sarajevo, capitale della Bosnia. Questo bastò per suscitare la reazione del governo e dei dirigenti austriaci, che vollero rispondere con una lezione alla Serbia e alle sue ambizioni espansionistiche che minacciavano l’integrità dell’Impero. L’Austria compì la prima mossa inviando, il 23 luglio, un ultimatum alla Serbia. Il secondo passo lo fece la Russia promettendo sostegno alla Serbia, sua principale alleata nei Balcani. Forte dell’appoggio russo, il governo serbo accettò solo in parte l’ultimatum, respingendo la clausola che prevedeva la partecipazione di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell’attentato. L’Austria giudicò la risposta insufficiente e, il 28 luglio, dichiarò guerra alla Serbia. Il 31 luglio la Germania inviò un ultimatum alla Russia, intimandole l’immediata sospensione dei preparativi bellici, ma non ottenne risposta. Seguì a 24h di distanza, una dichiarazione di guerra. Il 1 Agosto, La Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare, mobilitò le forze armate. La Germania rispose con un nuovo ultimatum e una successiva dichiarazione di guerra alla Francia → 3 agosto. Fu la Germania quindi a far precipitare la situazione: La Germania soffriva da tempo di un complesso di accerchiamento, ritenendosi ingiustamente soffocata nelle sue ambizioni internazionali. La strategia dei generali tedeschi si basava infatti sulla rapidità e sulla sorpresa, non ammetteva la possibilità di lasciare l’iniziativa in mano agli avversari e costituiva dunque di per sé un fattore di accelerazione della crisi e un ostacolo al negoziato. Il piano di guerra elaborato ai primi del ’900 dall’allora capo di stato maggiore Alfred von Schlieffen, dando per scontata l’eventualità di una guerra su due fronti (l’alleanza franco-russa era operante dal 1894), prevedeva in primo luogo un massiccio attacco contro la Francia, che doveva esser messa fuori combattimento in poche settimane. Raggiunto questo obiettivo, il grosso delle forze sarebbe stato impiegato contro la Russia, la cui macchina militare era potenzialmente fortissima, ma lenta a mettersi in azione. Presupposto essenziale per la riuscita del “piano Schlieffen” era la rapidità dell’attacco alla Francia. A questo scopo era previsto che le truppe tedesche passassero attraverso il Belgio, nonostante la sua posizione di Mariangela Lamanna neutralità, garantita da un trattato internazionale sottoscritto anche dalla Germania. Ciò avrebbe permesso di investire lo schieramento nemico nel suo punto più debole e di puntare direttamente su Parigi. Il 4 agosto, i tedeschi invasero il Belgio per attaccare la Francia da nord-est. La violazione della neutralità belga non solo scosse profondamente l’opinione pubblica europea, ma ebbe anche un peso decisivo nel determinare l’allargamento del conflitto. La Gran Bretagna infatti, non poteva tollerare l’aggressione a un paese neutrale che si affacciava sulle coste della Manica e così, il 4 agosto, dichiarò guerra alla Germania. Si diffuse l’opinione che la guerra fosse giusta, anche tra i socialisti. La Seconda internazionale, nata come espressione della solidarietà tra i lavoratori di tutti i paesi e impegnata nella difesa della pace, cessò di esistere: la prima vittima della grande guerra. 1.3 1914-15: dalla guerra di logoramento alla guerra di posizione La leva obbligatoria permise a molti paesi di schierare subito ingenti truppe, un numero mai visto prima d’ora (più di un milione di truppe per schieramento). La Gran Bretagna nonostante non avesse un leva obbligatoria (introdotta poi nel 1916) raggiunse gli oltre due milioni di unità. Gli eserciti che si sarebbero scontrati potevano contare su fucili a ripetizione (ricarica più veloce tra un colpo e un altro tramite una leva) e di mitragliatrici automatiche. Nonostante le novità tecniche le strategie di guerra non variarono e puntavano tutte a un guerra di movimento. Tutti prevedevano un conflitto veloce; pochi mesi o forse settimane. La minaccia russa si rivelò più seria del previsto e indusse i comandi tedeschi concentrare parte delle forze anche sul fronte orientale. Il 6 settembre i francesi lanciarono un contrattacco; con l’arresto dell’offensiva tedesca sulla Marna, il Piano Schlieffen poteva dirsi fallito. Cominciava così un nuovo tipo di guerra, che vedeva due schieramenti immobili affrontarsi in una serie di attacchi, inframmezzati da lunghi periodi di stasi: la cosiddetta “guerra di logoramento”, o “guerra di trincea”. In una guerra di questo genere, l’iniziale superiorità militare degli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria) passava in secondo piano. Diventava invece essenziale il ruolo della Gran Bretagna, che poteva contare sulle risorse del suo impero coloniale e sulla sua superiorità navale. Altrettanto importante si dimostrava l’apporto della Russia col suo enorme potenziale umano. Divenne un conflitto mondiale soprattutto perché molte potenze minori in tutto il mondo temevano di restare sacrificate da una nuova sistemazione dell’assetto internazionale, mentre altre vollero approfittare della guerra per espandersi territorialmente, quindi decisero di partecipare alla guerra. Nell’agosto 1914 il Giappone dichiarava guerra alla Germania per impadronirsi dei possedimenti tedeschi nel Pacifico. La Turchia interveviva a favore degli Imperi centrali. Nel 1915 L’Italia entrava in guerra contro l’Austria-Ungheria, mentre a fianco dell’Austria e della Germania entrava la Bulgaria; nel campo opposto Portogallo, La Romania e la Grecia. Decisivo fu l’ingresso degli Stati Uniti nell’aprile 1917, che si schierano con l’Intesa, e portano con sé Cina, Brasile e le altre Repubbliche latino-americane. La guerra, pur avendo sempre in Europa il suo teatro principale, assunse sempre più un carattere mondiale, coinvolgendo per la prima volta tutti e cinque i continenti. A fianco della Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia): Giappone, Italia, Portogallo, Romania, Grecia, Stati Uniti, Cina, Brasile, Repubbliche latino-americane. A fianco della Triplice Alleanza (Germania e Austria-Ungheria, e Italia): Turchia e Bulgaria. 1.4 1915: l’intervento dell’Italia. L’Italia entrò nel primo conflitto mondiale nel maggio del 1915, quando la guerra era già iniziata da dieci mesi, schierandosi a fianco dell’Intesa contro l’Impero austro-ungarico fino ad allora suo alleato. Fu una scelta sofferta e contrastata, sulla quale classe politica e opinione pubblica si spaccarono in due fronti contrapposti, solo in parte coincidenti con gli schieramenti tradizionali. Mariangela Lamanna militari, i timori di un cedimento delle truppe. C’erano anche i soldati esaltati della guerra, come le “Sturmtruppen” tedesche o gli Arditi italiani. Il primo conflitto mondiale si caratterizzò anche per l’utilizzo di nuove armi chimiche:proiettili esplosivi che, lanciati sulle trincee nemiche, sprigionavano gas tossici letali. Furono i tedeschi, nella primavera del 1915, a sperimentare per la prima volta queste armi, che in seguito vennero adottate anche dagli altri eserciti, fino a quando l’uso generalizzato delle maschere antigas rese gli aggressivi chimici troppo costosi in rapporto alle perdite inflitte al nemico. Oltre a stimolare la produzione in grande serie di armi vecchie e nuove, la guerra accelerò la crescita di settori relativamente giovani, come quello automobilistico o come la radiofonia. Fra le nuove macchine belliche sperimentate in questi anni, una sola influì in modo significativo sul corso della guerra: il sottomarino. Furono soprattutto i tedeschi a servirsene sia per attaccare le navi da guerra nemiche, sia per affondare senza preavviso i mercantili, anche di paesi neutrali, che portavano rifornimenti verso i porti dell’Intesa. La guerra sottomarina si rivelò subito un’arma molto efficace. 1.7 Il fronte interno Per tutti i paesi che vi parteciparono, la Grande Guerra costituì un campo di sperimentazione di fenomeni legati alla società di massa. Anche i civili furono chiamati a dare il loro contributo nel “fronte interno”: le donne si trovarono a svolgere le funzioni di capofamiglia, e molte di loro sostituirono nei lavori gli uomini arruolati nell’esercito. Fu una guerra totale che coinvolse tutti gli ambiti della vita. I più colpiti furono gli abitanti delle zone di guerra, ma c’era anche il problema di chi risiedeva in un paese diverso dalla propria patria d’origine e poteva trovarsi nella condizione di nemico, e soggetto alla confisca dei beni e a restrizioni personali. Le minoranze etniche che avevano nel passato recente manifestato aspirazioni indipendentiste erano ovunque tenute sotto controllo perché sospettate di scarsa lealtà nei confronti della nazione in guerra. Un caso fu quello degli armeni. Questa antica popolazione di religione cristiana abitava prevalentemente in una regione del Caucaso divisa fra l’Impero ottomano e quello russo. Già alla fine dell’800, e ancor più dopo la rivoluzione dei “Giovani turchi” del 1908, gli armeni di Turchia avevano pagato con persecuzioni e massacri i loro tentativi di ribellione. Nella primavera-estate del 1915, mentre Russia e Turchia si combattevano nel Caucaso (e gli anglo-francesi cercavano di sbarcare sulle coste dei Dardanelli), gli armeni che vivevano nella parte turca di quella regione, sospettati di intesa col nemico russo, furono sottoposti a una brutale deportazione nelle zone interne dell’Anatolia che, per la maggior parte di loro (oltre un milione), si trasformò in sterminio. Approfondimento Genocidio degli armeni 1915-1916 Tra le innumerevoli tragedie che hanno segnato la prima guerra mondiale una delle più grandi e meno conosciute è quella dello sterminio della popolazione armena. Il governo dell'Impero Ottomano prima, quello dei Giovani Turchi poi, si impegna in un vero e proprio genocidio, intenzionalmente sterminando centinaia di migliaia di armeni. È una strage di dimensioni enormi, per decenni coperta dall'oblio. Durante la prima guerra mondiale si compie in Turchia, il genocidio del popolo armeno (1915 – 1923), il primo del XX secolo. Il governo dei Giovani Turchi, preso il potere nel 1908, attua l’eliminazione dell’etnia armena, presente nell’area anatolica fin dal 7° secolo a.C. Il genocidio degli armeni può essere considerato il prototipo dei genocidi del XX secolo. L’obiettivo era di risolvere alla radice la questione degli armeni, popolazione cristiana che guardava all’occidente. Il movente principale è da ricercarsi all’interno dell’ideologia panturchista, che ispira l’azione di governo dei Giovani Turchi, determinati a riformare lo Stato su una base nazionalista, e quindi sull’omogeneità etnica e religiosa. La popolazione armena, di religione cristiana, che aveva assorbito gli ideali dello stato di diritto di stampo occidentale, con le sue richieste di autonomia poteva costituire un ostacolo ed opporsi al progetto governativo. L’obiettivo degli ottomani era la cancellazione della comunità armena come soggetto storico, culturale e soprattutto politico. Non secondaria fu la rapina dei beni e delle terre degli armeni. Il governo e la maggior parte degli storici turchi ancora oggi rifiutano di ammettere che nel 1915 è stato commesso un genocidio ai danni del popolo armeno. I bambini furono uccisi in massa nel corso del Mariangela Lamanna genocidio armeno, strettamente connesso alla guerra. Vennero uccisi in diversi modi: si ricorda la crudeltà e il diffuso tentativo di ucciderli bruciandoli vivi, specialmente dentro le chiese dove molti si erano rifugiati. Alcuni vennero strappati dagli orfanatrofi e affogati nell’Eufrate, altri vennero sottoposti a un caldissimo getto di vapore e immediatamente dopo vennero uccisi, le ragazze più grandi stuprate e uccise. 2000 bambini sopravvissuti furono condotti a Suvar e una parte di loro venne fatta saltare con la dinamite, altri cosparsi di cherosene e bruciati vivi. Oltre alla morte, i bambini videro i propri genitori umiliati, rapiti, percossi. Che ne avessero consapevolezza o meno, il loro futuro venne profondamente condizionato. La scoperta infantile della violenza passò anche attraverso l’incontro con i feriti, la visione degli effetti del conflitto, libri che parlavano di guerra, adulti che parlavano di guerra. La scoperta infantile della violenza passò anche attraverso il materializzarsi della guerra nell’incontro con i feriti, con la narrazione e la visione degli effetti del conflitto, lontane da ogni retorica eroica e dense di crudeltà e morte, sangue e dolore, paura e mutilazione. La guerra produsse una serie di profonde e durature trasformazioni in tutti i paesi che vi furono coinvolti. I mutamenti più vistosi furono quelli che interessarono il mondo dell’economia e in particolare il settore industriale, chiamato ad alimentare la macchina gigantesca degli eserciti al fronte. Le industrie interessate alle forniture belliche (siderurgiche, meccaniche e chimiche in primo luogo) conobbero uno sviluppo imponente, al di fuori di qualsiasi legge di mercato. Strettamente legate ai mutamenti nell’economia furono le trasformazioni degli apparati statali. Ovunque i governi furono investiti di nuove attribuzioni e dovettero farvi fronte con l’aumento della burocrazia. Ovunque il potere esecutivo si rafforzò a spese degli organismi rappresentativi. I poteri dei governi erano a loro volta insidiati dall’invadenza dei comandi militari, che avevano poteri pressoché assoluti per tutto ciò che riguardava la conduzione della guerra e potevano quindi influenzare pesantemente le scelte dei politici. Tutti i mezzi – compresa la censura e la sorveglianza sui cittadini sospetti di “disfattismo” – furono usati per combattere i “nemici interni” e per mobilitare la popolazione verso l’obiettivo della vittoria. Strumento essenziale per la mobilitazione dei cittadini era la propaganda: una propaganda che non si rivolgeva soltanto alle truppe, ma cercava anche di raggiungere in tutti i modi possibili la popolazione civile. I governi di tutti i paesi profusero un impegno senza precedenti per stampare manifesti murali, organizzare manifestazioni di solidarietà ai combattenti, incoraggiare la nascita di comitati e associazioni “per la resistenza interna”. A Zimmerwald e a Kienthal, in Svizzera, nel settembre 1915 e nell’aprile 1916, si tennero due conferenze socialiste internazionali che si conclusero con l’approvazione di documenti in cui si chiedeva una pace “senza annessioni e senza indennità”. Col protrarsi del conflitto i gruppi contrari alla guerra si rafforzarono:fra di essi c’erano i bolscevichi russi, guidati da Lenin, che si erano staccati definitivamente dalla socialdemocrazia e costituiti fin dal 1912 in partito autonomo. 1.8 1917: l’anno della svolta. Il 1917 fu l’anno della svolta. Due novità intervennero a mutare il corso della guerra: La rivoluzione russa e l’intervento degli Stati Uniti nella guerra. - All’inizio di marzo (fine febbraio secondo il calendario russo) uno sciopero generale degli operai di Pietrogrado (questo il nuovo nome assunto dalla capitale russa dopo l’estate del ’14) si trasformò in un’imponente manifestazione politica contro il regime zarista. Quando i soldati chiamati a ristabilire l’ordine rifiutarono di sparare sulla folla e fraternizzarono coi dimostranti, la sorte della monarchia fu segnata: lo zar abdicò il 15 marzo e pochi giorni dopo venne arrestato con l’intera famiglia reale. Si metteva in moto, così, un processo che avrebbe portato in breve tempo al collasso militare della Russia e alla firma dell’armistizio. - Il 6 aprile dello stesso anno gli Stati Uniti dichiaravano guerra alla Germania che aveva ripreso la guerra sottomarina indiscriminata, in precedenza sospesa proprio per le proteste americane. Mariangela Lamanna L’intervento degli USA, pur facendo sentire il suo peso solo dopo parecchi mesi, sarebbe risultato decisivo sia sul piano militare sia su quello economico, tanto da compensare il gravissimo colpo subìto dall’Intesa con l’uscita di scena della Russia. Intanto in Francia e Italia si fecero più frequenti episodi di insubordinazione. E delicata era anche la posizione dell’Impero austro- ungarico, dove prendevano forza le aspirazioni indipendentiste delle “nazionalità oppresse”, ovvero polacchi, cechi e slavi del Sud. Seguì un accordo fra serbi, croati e sloveni per la costituzione, a guerra finita, di uno Stato unitario: la futura Jugoslavia. Per l’Italia fu un anno difficile. I comandi austro-ungarici approfittando della disponibilità di truppe provenienti dal fronte russo, inflissero un colpo decisivo all’Italia → La battaglia di Caporetto si svolse durante la Prima guerra mondiale e vide scontrarsi l’esercito italiano e quello dell’Austria-Ungheria e dei suoi alleati dell’Impero Germanico. L’Italia era entrata in guerra due anni prima, nel 1915, con l’obiettivo di tornare in possesso delle cosiddette “terre irredente”:cioè Trento e Trieste, all’epoca città di lingua italiana ma ancora sottoposte al governo dell’Austria-Ungheria. I principali luoghi di scontro furono le valli e le montagne dell’Altopiano di Asiago, nel Veneto settentrionale, e soprattutto dell’altopiano del Carso, al confine tra l’odierna Slovenia e il Friuli Venezia Giulia, lungo il fiume Isonzo. Per questo Caporetto è chiamata anche “Dodicesima battaglia dell’Isonzo”. All’alba del 24 ottobre 1917 tonnellate di gas tossici e proiettili di artiglieria iniziarono a cadere sulle linee avanzate difese dall’esercito italiano, vicino al piccolo paese di Caporetto, oggi in Slovenia. Nelle ore immediatamente successive migliaia di soldati austriaci e tedeschi attaccarono nella breccia aperta nello schieramento italiano. Dopo una giornata di combattimenti, i generali italiani ordinarono alle loro truppe di ripiegare. Gli attaccanti avanzarono in profondità nel Friuli, mettendo in atto la nuova tattica dell’infiltrazione, che consisteva nel penetrare il più rapidamente possibile in territorio nemico senza preoccuparsi di consolidare le posizioni raggiunte, ma sfruttando invece la sorpresa per mettere in crisi lo schieramento avversario. La manovra fu così efficace che buona parte delle truppe italiane, per evitare di essere accerchiate, dovettero abbandonare precipitosamente le posizioni che tenevano dall’inizio della guerra. La ritirata si sarebbe fermata soltanto quattro settimane dopo, sulla famosa linea del Piave. Quarantamila soldati italiani furono uccisi o feriti e altri 365 mila furono fatti prigionieri. Un secolo dopo, la battaglia è considerata una delle più grandi disfatte inflitte all’esercito italiano, tanto che il suo nome è diventato sinonimo di “sconfitta” nel linguaggio comune. Prima di essere rimosso dal comando supremo, il generale Cadorna gettò le colpe della disfatta sui suoi stessi soldati, accusandoli di essersi arresi senza combattere. In realtà la rottura del fronte era stata determinata dagli errori dei comandi, che si erano lasciati cogliere impreparati dall’attacco sull’alto Isonzo. Paradossalmente questa disfatta ebbe ripercussioni positive sul corso della guerra italiana. I soldati si trovarono inoltre a combattere una guerra difensiva, contro un nemico che occupava una parte del territorio nazionale: ciò contribuì a rendere più comprensibili gli scopi del conflitto e ad aumentare il senso di coesione patriottica, al fronte come nel paese. Fu costituito un nuovo governo di coalizione nazionale presieduto da Vittorio Emanuele Orlando e le forze politiche parvero trovare una maggiore concordia. Anche il cambio della guardia alla testa dell’esercito ebbe effetti positivi sul morale delle truppe: Armando Diaz, il nuovo capo di stato maggiore, si mostrò meno incline di Cadorna all’uso indiscriminato dei mezzi repressivi e più attento alle esigenze dei soldati, cui furono garantiti vitto più abbondante e licenze più frequenti. Inoltre grazie a un’opera sistematica di propaganda, circolò l’idea di una guerra democratica 1.9 La rivoluzione russa: da febbraio a ottobre. Fra tutti gli sconvolgimenti politici e sociali provocati dalla prima guerra mondiale, la rivoluzione russa il più imprevisto, almeno nei suoi sviluppi. Nel marzo 1917 ci fu uno sciopero generale degli operai a Pietrogrado, che si trasformò in manifestazione politica contro il regime zarista: lo zar abdicò e venne arrestato con l’intera famiglia reale. Si formò un governo provvisorio, con l’obiettivo di continuare la guerra e di promuovere la modernizzazione del paese. Mariangela Lamanna passarono al contrattacco. Fra l’8 e l’11 agosto, nella grande battaglia di Amiens, i tedeschi subirono la prima grave sconfitta sul fronte occidentale. Da quel momento cominciarono ad arretrare lentamente. I generali tedeschi capirono allora di aver perso la guerra. Il compito ingrato di aprire le trattative toccò a un nuovo governo di coalizione democratica formatosi ai primi di ottobre con la partecipazione dei socialdemocratici e dei cattolici del centro. Mentre la Germania cercava invano una soluzione di compromesso, i suoi alleati crollavano militarmente o si disgregavano dall’interno. La prima a cedere, alla fine di settembre, fu la Bulgaria. Un mese dopo era l’Impero turco a chiedere l’armistizio. Contemporaneamente, si consumava la crisi finale dell’Austria-Ungheria. Cecoslovacchi e slavi del Sud proclamarono l’indipendenza, mentre i soldati abbandonavano il fronte in numero sempre maggiore. Quando, il 24 ottobre, gli italiani lanciarono un’offensiva sul Piave, l’Impero era ormai in piena crisi. Sconfitti sul campo nella battaglia di Vittorio Veneto, gli austriaci il 3 novembre firmarono a Villa Giusti, presso Padova, l’armistizio con l’Italia che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, il 4 novembre 1918. Intanto la situazione precipitava anche in Germania. Ai primi di novembre i marinai di Kiel, dov’era concentrato il grosso della flotta tedesca, si ammutinarono e diedero vita, assieme agli operai della città, a consigli rivoluzionari ispirati all’esempio russo. Il moto si propagò a Berlino e in Baviera e ad esso parteciparono i socialdemocratici. Il 9 novembre a Berlino un socialdemocratico, Friedrich Ebert, fu proclamato capo del governo, mentre Guglielmo II fuggiva in Olanda e veniva proclamata la Repubblica. L’11 novembre i delegati del governo provvisorio tedesco firmavano l’armistizio nel villaggio francese di Rethondes. La Germania perdeva così una guerra che più degli altri aveva contribuito a far scoppiare e la perdeva per fame e per stanchezza, ma senza essere stata schiacciata sul piano militare e senza che il suo territorio fosse stato invaso da eserciti stranieri. La guerra si chiudeva non solo con un tragico bilancio di perdite umane (8 milioni e mezzo di morti, oltre 20 milioni di feriti gravi e mutilati), ma anche con un drastico ridimensionamento del peso politico dell’Europa sulla scena internazionale. 1.12 Vincitori e vinti. Gennaio 1919, nella reggia di Versailles, si aprirono i lavori per la conferenza di pace. Vi parteciparono i rappresentanti di 32 paesi di tutto il mondo, tranne i paesi sconfitti, chiamati solo a ratificare le decisioni che li riguardavano. Le questioni più importanti, come il compito di ridisegnare la carta politica del Vecchio Continente, furono riservate ai cosiddetti “quattro grandi”, ovvero i capi del governo delle potenze vincitrici: Wilson (Usa), Clemenceau (Francia), Lloyd George (Gran Bretagna), e Orlando (Italia). Quando si discussero le condizioni da imporre alla Germania si formarono due schieramenti: - quelli a favore di una pace democratica - quelli a favore di una pace punitiva. La Francia non voleva accontentarsi dell’Alsazia e della Lorena ma voleva espandersi maggiormente. Ciò incontrò l’opposizione di Wilson e degli inglesi e la Francia dovette rinunciare al confine sul Reno, in cambio della promessa (che non sarebbe stata mantenuta) di una garanzia anglo-americana sulle nuove frontiere franco-tedesche. La Germania poté così limitare le amputazioni territoriali, ma subì, senza nemmeno poterle discutere, una serie di clausole che, se eseguite integralmente, sarebbero state sufficienti a cancellarla per molto tempo dal novero delle grandi potenze. Il Trattato di Versailles, firmato il 28 giugno 1919 fu un’imposizione - un Diktat - subita dalla Germania sotto la minaccia dell’occupazione militare e del blocco economico. Era prevista, oltre alla restituzione alla Francia dell’Alsazia-Lorena, la cessione alla Polonia di Alta Slesia, la Posnania e il cosiddetto “corridoio polacco”, ovvero la striscia della Pomerania, che consentiva alla Polonia di accedere al porto di Danzica, città che veniva anch’essa tolta alla Germania e trasformata in “città libera”. La Germania veniva anche privata delle sue colonie in Africa e in Oceania, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone. In più ci furono anche delle Mariangela Lamanna clausole economiche e militari; la Germania dovette risarcire ai vincitori i danni subiti in conseguenza al conflitto, e fu costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina di guerra, a ridurre l’esercito e lasciare “smilitarizzata” la valle del Reno. D’altra parte, la nuova Repubblica di Austria si trovò ridotta. L’Ungheria, costituitasi in repubblica, nel novembre 1918, perse le regioni slave, ovvero Slovacchia e Croazia. Si vennero formando anche nuove nazioni: 1. I polacchi della Galizia si unirono alla nuova Polonia; 2. I cechi e gli slovacchi confluirono nella Repubblica di Cecoslovacchia, Stato federale; 3. Gli slavi del Sud, cioè abitanti della Croazia, della Slovenia e della Bosnia-Erzegovina, si unirono alla Serbia e al Montenegro per dar vita al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, dal 1929 Regno di Jugoslavia. Inoltre ci fu l’ingrandimento della Romania, il ridimensionamento della Bulgaria e l’estromissione dall’Europa dell’Impero Ottomano che, si trasformava in uno Stato nazionale turco, conservando la sola Anatolia, tranne Smirne che fu assegnata alla Grecia. Furono riconosciute le nuove Repubbliche indipendenti che si erano formate nei territori baltici persi dalla Russia con il trattato di Brest-Litovsk: la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. In totale si contarono 8 nuovi Stati; a essi si sarebbe aggiunto nel 1921 lo Stato libero d’Irlanda, cui la Gran Bretagna concesse l’indipendenza. Un altro punto importante nell'idea di Wilson era la creazione della società delle Nazioni, che venne di fatto creata il 28 giugno 1919 con lo scopo di creare un'unione, una conferenza di stati, per evitare che ci fossero altre guerre. Ma la società delle Nazioni non ebbe alcun potere decisionale e paradossalmente gli Stati Uniti non ne faranno parte perché, nonostante la proposta fosse stata di Wilson, gli Stati Uniti mantennero la loro volontà di rimanere al di fuori dei conflitti europei continuando a mantenersi isolati. Ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace avrebbe dovuto provvedere la Società delle Nazioni. Il nuovo organismo prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti e l’adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori. Ma nasceva minato in partenza da profonde contraddizioni, tra cui particolarmente grave era l’esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della Russia. Il colpo più duro alla Società delle Nazioni, però, arrivò proprio dagli Stati Uniti, cioè dal paese che più di ogni altro ne aveva voluto la nascita: nel marzo 1920, infatti, il Senato statunitense rifiutò di ratificare i trattati di Versailles, che includevano l’adesione al nuovo organismo. Mentre per gli Stati Uniti cominciava una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi continentali, la Società delle Nazioni finì con l’essere egemonizzata da Gran Bretagna e Francia e non fu in grado di prevenire i conflitti che costellarono gli anni fra le due guerre mondiali. Riassunto del Trattato: ● imponeva alla Germania di restituire i possedimenti sottratti alla Francia, Danimarca e Polonia ● la flotta della Germania venne eliminata e la Francia occupò i suoi 2 più importanti bacini industriali: la Saar e la Ruhr ● venne introdotta da Wilson la società̀ delle nazioni, che avrebbe dovuto risolvere i conflitti imponendo sanzioni ai paesi che avrebbero tentato di dichiarare guerra (non la approvarono perché̀ non si raggiunse la maggioranza) ● Il corridoio di Danzica (oggi Gdansk),un porto industriale quasi interamente tedesco, ma adesso circondato dalla Polonia, fu dichiarata dalla Società delle Nazioni (in esecuzione delle deliberazioni di Versailles) «città libera», con annesso diritto dei polacchi ad accedere ai necessari impianti commerciali sulla costa. Questa città, abitata in prevalenza da tedeschi, veniva anch’essa tolta alla Germania e trasformata in “città libera”. ● La Germania venne privata anche delle sue colonie in Africa e in Oceania, spartite tra Francia, Gran Bretagna e Giappone. ● Ma la parte più pesante del Diktat era costituita dalle clausole economiche e militari. Furono l’articolo 231 del Trattato e le sue implicazioni a suscitare le reazioni più rabbiose e i risentimenti più profondi. L’articolo 231, in seguito comunemente noto come la «clausola della colpa della guerra», affermava che la Germania e i suoi alleati erano responsabili del conflitto. Esso fornì la base giuridica dell’obbligo imposto alla Germania di pagare le riparazioni per i danni di guerra, richiesto con grande forza da una vociante opinione pubblica sia in Francia che in Gran Bretagna. La determinazione dell’ammontare delle riparazioni fu Mariangela Lamanna lasciata a una commissione alleata, e nel 1921 fu infine fissato in 132 milioni di marchi d’oro. Finì che il grosso non fu mai pagato. Fu inoltre costretta ad abolire il servizio di leva, a rinunciare alla marina da guerra, a ridurre la consistenza del proprio esercito entro il limite di 100 mila uomini e a lasciare “smilitarizzata” (priva cioè di reparti armati e di fortificazioni) l’intera valle del Reno, che sarebbe stata presidiata per quindici anni da truppe britanniche, francesi e belghe. Erano condizioni umilianti, tali da ferire profondamente l’orgoglio nazionale tedesco. Ma erano anche, agli occhi dei francesi, l’unico mezzo per impedire alla Germania di riprendere la sua posizione di grande potenza. 1.13 Il mito e la memoria La prima guerra mondiale fu una grande produttrice di miti,innanzitutto per coloro che la combattevano. La condizione di disagio psicologico oltre che materiale, di sradicamento e spaesamento vissuta dalla maggior parte dei soldati portò molti di loro a sviluppare forme diverse di fuga dalla realtà e dunque a coltivare credenze irrazionali, ad accettare come vere notizie fantastiche, a immaginare apparizioni miracolose o eventi sovrannaturali. Anche negli anni successivi alla fine del conflitto, la guerra continuò a lungo a essere oggetto di rappresentazione e di trasfigurazione mitica. Comune alla dimensione privata e a quella pubblica era il tentativo di elaborare il lutto, di trovare a posteriori giustificazioni ideali a tanta sofferenza, in nome del patriottismo e della difesa della nazione. Ne risultò spesso una visione idealizzata della guerra, che nel ricordo veniva depurata dei suoi orrori e delle sue crudeltà e rivissuta nella chiave dell’eroismo, del volontario martirio: una sorta di santificazione laica di coloro che erano caduti nell’adempimento del dovere. Nuove erano le dimensioni delle celebrazione dei morti, proporzionate alla vastità del conflitto e al numero delle vittime. Nuova la partecipazione emotiva di massa e più esteso l’impegno delle autorità pubbliche nelle iniziative in ricordo dei caduti. Non solo furono eretti grandi mausolei nei luoghi dei combattimenti più sanguinosi, ma in moltissimi centri, compresi i piccoli comuni, sorsero monumenti ai caduti che celebravano il sacrificio dei soldati originari del luogo, i cui nomi erano elencati nel monumento stesso o in apposite targhe. Ai monumenti si aggiunsero parchi e viali “della rimembranza” (questo il nome che assunsero in Italia), luoghi di raccoglimento che dovevano ricordare i caduti e al tempo stesso suggerire l’idea di una continuità della vita, simboleggiata dagli alberi piantati nell’occasione. Una forma nuova di celebrazione collettiva, fu quella del “milite ignoto”: la sepoltura solenne in uno spazio pubblico delle spoglie di un soldato anonimo, scelto in rappresentanza di tutti i combattenti morti e in particolare dei tanti di cui non era stato possibile nemmeno il riconoscimento. In tutti i paesi che la adottarono (cominciarono la Francia e la Gran Bretagna nel 1920, seguite un anno dopo anche dall’Italia, che scelse per la sepoltura l’Altare della patria, sul grande monumento a Vittorio Emanuele II), la celebrazione del milite ignoto fu seguita con grande emozione e partecipazione popolare. Trattati di Pace : ● L'altro trattato particolarmente interessante per la situazione italiana fu il Trattato di Saint Germain 1919 : Intesa - Austria → dissoluzione impero austro-ungarico, fu un trattato durissimo e venne imposto un pesante indennizzo di guerra. L’Austria venne ridotta a un territorio piccolissimo con circa ¼ della popolazione risiedente nella capitale Vienna, ormai sproporzionata rispetto allo Stato. A trarre vantaggio dal crollo dell’Impero asburgico furono gli slavi che costituirono la Polonia, la Jugoslavia e la Cecoslovacchia (che comprende 3 milioni di tedeschi, detti sudeti). L’Italia annesse Tirolo, Trentino e parte della Dalmazia [D’Annunzio parlerà di vittoria mutilata perché non vennero assegnati all’Italia tutti i territori che le erano stati promessi]. Fu ribadita la proibizione di annessione dell'Austria alla Germania. Distruzione armamenti e riduzione dell’esercito. Per quanto riguarda la Russia, vennero favoriti i gruppi controrivoluzionari e vennero riconosciute e protette le nuove repubbliche indipendenti formatesi nei territori baltici: Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania. Si parlò di un cordone sanitario per bloccare ogni eventuale spinta evasiva della Repubblica socialista. Mariangela Lamanna fra poche nazioni etnicamente omogenee e i territori da esse occupati. Una condizione che poteva realizzarsi, con larga approssimazione, nei principali Stati dell’Europa occidentale (Francia, Spagna, la stessa Italia), ma era molto lontana dalla realtà etnico-linguistica della parte orientale del continente, dove popoli diversi erano abituati a convivere sullo stesso territorio e dove l’appartenenza a un gruppo nazionale non costituiva l’unico né sempre il principale riferimento politico. Negli antichi imperi la divisione etnica coincideva spesso con i confini di classe più che con quelli geografici: in ampie zone della Polonia, ad esempio, i signori erano per lo più polacchi o tedeschi, i contadini erano ucraini e polacchi, mentre gli ebrei, concentrati in insediamenti separati (shtetl), si dedicavano prevalentemente al commercio o alle professioni. Nell’Impero ottomano situazioni del genere erano la regola più che l’eccezione e i diversi gruppi etnico-religiosi potevano essere sottoposti a giurisdizioni diverse pur vivendo sulla stessa terra. Date queste premesse, l’applicazione del principio di nazionalità risultava difficile. Una volta elevato il principio nazionale a base di legittimazione degli Stati, quella che era una condizione generalmente accettata nei contesti multietnici divenne un problema da risolvere. La presenza di gruppi che parlavano lingue diverse, seguivano proprie tradizioni o professavano altre religioni rispetto alla maggioranza fu sentita come una minaccia dai membri di comunità nazionali che si volevano omogenee e coese. Paradossalmente, la liberazione dei popoli dalle dominazioni straniere poteva così dar luogo a nuove oppressioni o persecuzioni e scatenare nuovi conflitti a sfondo nazionale. La presenza di gruppi che seguivano proprie tradizioni fu sentita come una minaccia dai membri di comunità nazionali che si volevano omogenee. Si aprì così la strada alle soluzioni più drastiche; in alcuni casi si organizzarono scambi di popolazioni, in altri questi scambi si verificarono in forma cruenta come risultato di un conflitto. Si sarebbe giunti a quelle che oggi chiamiamo “pulizie etniche”, ovvero espulsioni di massa, e infine al caso estremo, lo sterminio. 2.4 Il “biennio rosso”: rivoluzione e controrivoluzione in Europa. Tra il 1918 e il 1920 il movimento operaio europeo fu protagonista di lotte operaie. I lavoratori organizzati dai sindacati diedero vita ad agitazioni che consentirono agli operai dell’industria di difendere o ottenere una riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere a parità di salario. Ovunque si formarono consigli operai che scavalcavano le organizzazioni tradizionali dei lavoratori e che, sull’esempio dei soviet russi, si proponevano come organi di governo della futura società socialista. L’ondata rossa si manifestò nei singoli paesi in forme e con intensità diverse. Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna,conservatori e moderati mantennero il controllo dei rispettivi Parlamenti e la pressione del movimento operaio fu contenuta senza eccessive difficoltà. Germania, Austria e Ungheria, dove le tensioni sociali si sommavano ai traumi della sconfitta e del cambiamento di regime, furono invece teatro di tentativi rivoluzionari, che furono però rapidamente stroncati. Ciò che era stato possibile in Russia non fu dunque possibile negli altri paesi europei, dove borghesia e capitalismo non erano stati prostrati ma piuttosto trasformati dalla guerra e dove lo stesso movimento operaio era legato a una ormai lunga esperienza di azione pacifica all’interno delle istituzioni La rivoluzione d’ottobre aveva accentuato, all’interno del movimento operaio, la frattura fra le avanguardie rivoluzionarie e il resto del movimento legato ai partiti socialdemocratici. Già nel 1918 i bolscevichi avevano acquistato la denominazione di Partito comunista (bolscevico) della Russia. La scissione fu sancita ufficialmente, nel marzo 1919, con la costituzione a Monaco di una Internazionale comunista → Comintern o Terza Internazionale. La struttura e i compiti del Comintern furono fissati nel II congresso, che si tenne, sempre a Mosca, nel luglio del 1920. Fu lo stesso Lenin a fissare in un documento in 21 punti le condizioni da rispettare per poter essere ammessi al nuovo organismo: -i partiti aderenti al Comintern avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, - cambiare il proprio nome in quello di Partito comunista, - difendere in tutte le sedi possibili la causa della Russia sovietica, - rompere con le correnti riformiste espellendone i principali esponenti. Mariangela Lamanna Fra la fine del ’20 e l’inizio del ’21 fu comunque raggiunto l’obiettivo di creare in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e fedeli alle direttive del partito-guida. Nessuna di queste formazioni riuscì però a conquistare il consenso maggioritario delle classi lavoratrici dei paesi più sviluppati. Fra il ‘20 e il ‘21 fu raggiunto l’obiettivo di creare in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico e fedeli alle direttive del partito-guida. In Germania il governo legale, presieduto da Ebert, era formato da esponenti socialdemocratici, compresi gli “indipendenti” dell’Uspd , la frazione di sinistra staccatasi dalla Spd (“Partito socialdemocratico tedesco”) nel 1917. La Spd era contraria a una rivoluzione di tipo sovietico e la loro linea moderata portava allo scontro con le correnti più radicali del movimento operaio, soprattutto con i rivoluzionari della Lega di Spartaco, che si opponevano alla convocazione della Costituente e puntavano tutto sui consigli. Nel gennaio 1919 i berlinesi scesero in piazza; dirigenti spartachisti e leader dell’Uspd decisero di approfittare di questa mobilitazione di massa e diffusero un comunicato in cui si incitavano i lavoratori a rovesciare il governo. La risposta fu inferiore alle aspettative. Durissima fu invece la reazione delle autorità che si servirono per la repressione di squadre volontarie, i Freikorps, ossia “corpi franchi”, formate da soldati smobilitati e inquadrate da ufficiali di orientamento nazionalista e conservatore. Nel giro di pochi giorni i Freikorps schiacciarono nel sangue l’insurrezione berlinese e I leader del movimento spartachista furono trucidati. Il 19 gennaio si tennero le elezioni per l’Assemblea costituente. La convergenza fra socialisti, cattolici e democratici rese possibile la formazione di un governo di coalizione a guida socialdemocratica e, soprattutto, l’approvazione, nell’agosto 1919, di un nuovo testo costituzionale. La Costituzione di Weimar – dal nome della città in cui si svolsero i lavori dell’Assemblea – aveva un’ispirazione fortemente democratica: infatti, prevedeva larghe autonomie regionali, il suffragio universale maschile e femminile, un governo responsabile di fronte al Parlamento e un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo. Nulla servì a riportare la tranquillità nel paese. Nella nuova Repubblica austriaca furono i socialdemocratici a governare inizialmente, mentre i comunisti tentarono più volte di insorgere; ma nel 1920 ci furono le elezioni, che videro prevalere il voto clericale e conservatore. In Ungheria, i socialisti si unirono ai comunisti per instaurare una Repubblica sovietica; il regime guidato dal comunista Bèla Kun cadde sotto l’urto delle forze conservatrici guidate dall’ammiraglio Horthy e delle truppe rumene. L’Ungheria cadde così sotto un regime autoritario sorretto dalla Chiesa e dai grandi proprietari terrieri. 2.5 La Germania di Weimar. Erano molti i fattori che contribuivano a indebolire il sistema repubblicano in Germania, primo fra tutti la frammentazione dei gruppi politici, che rendeva instabili maggioranze e governi. Nel 1921 le potenze alleate stabilirono l’ammontare delle riparazioni che la Germania avrebbe dovuto pagare 132 miliardi di marchi. L’annuncio suscitò in tutto il paese un’ondata di proteste. I gruppi dell’estrema destra nazionalista scatenarono un’offensiva terroristica contro la classe dirigente repubblicana, accusata di tradimento per essersi piegata alle imposizioni dei vincitori. I governi di coalizione fra il 1921-23 si impegnarono a pagare le prime rate delle riparazioni, ma furono costretti ad aumentare la stampa di carta moneta, accelerando così il processo inflazionistico già in atto. La Francia e il Belgio, traendo pretesto dalla mancata consegna di alcuni materiali da parte del governo tedesco, inviarono truppe al bacino della Ruhr, dove molti operai abbandonarono le fabbriche rifiutarono ogni collaborazione con gli occupanti. Per le finanze tedesche rappresentò il definitivo tracollo. Il marco precipitò e il suo potere d’acquisto fu quasi annullato. Chi possedeva risparmi in denaro perse tutto, mentre furono avvantaggiati i possessori di beni reali, quindi come agricoltori, industriali e commercianti. La classe dirigente trovò però la forza di reagire, e nel 1923 si formò un governo di “grande coalizione” presieduto da Stresemann, leader del Partito tedesco-popolare. Il governo ordinò la fine della resistenza passiva della Ruhr e riallacciò i contatti con la Francia; subito dopo decretò lo stato di emergenza. A novembre il Partito nazionalsocialista, guidato da Adolf Hitler, cercò di organizzare un’insurrezione, ma il complotto fallì e Hitler fu condannato a cinque anni di carcere. Quindi, fu emessa una nuova moneta, il cosiddetto “Rentenmark”, e veniva avviata così una politica deflazionistica, basata cioè sulla limitazione del credito e della spesa pubblica e sull’aumento delle imposte. E fu Mariangela Lamanna stabilito nel 1924 un accordo con i vincitori sulle riparazioni, sulla base di un piano elaborato da un uomo politico statunitense, Dawes. Il piano Dawes si basava sull’idea che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo se fosse stata messa in grado di rilanciare la sua economia: prevedeva quindi che l’entità delle rate da pagare fosse graduata nel tempo e che la finanza internazionale, in particolare quella statunitense, sovvenzionasse lo Stato tedesco con una serie di prestiti a lunga scadenza. La Germania rientrava così in possesso della Ruhr, vedeva temporaneamente alleviato l’onere dei suoi debiti e soprattutto otteneva un massiccio aiuto per la sua ripresa economica, che fu in effetti pronta e consistente: in poco tempo l’industria tedesca tornò ai primi posti nel mondo per volume di produzione. Il piano Dawes permise alla Germania di riprendere il pagamento delle riparazioni di guerra e di tornare al gold standard nel 1924. La grande coalizione si ruppe alla fine del 1923. Nelle elezioni presidenziali del 1925 vinse Hindenburg, simbolo del passato imperiale. Negli anni successivi la situazione politica si andò normalizzando e nel 1928 i socialdemocratici riassunsero la guida del governo. 2.6 Il dopoguerra dei vincitori. Francia e Gran Bretagna videro l’obiettivo comune della stabilizzazione sostanzialmente raggiunto sul piano della politica interna; ma la ripresa economica fu lenta. In Francia nel 1926 la guida del governo fu assunta dal leader dei moderati Poincaré, che riuscì a stabilizzare il corso della moneta e a risanare il bilancio statale aumentando ulteriormente la pressione fiscale. Nel dopoguerra cercò di costruire in funzione anti-tedesca una rete di alleanze con la Polonia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la Romania che, nel 1921, si erano unite in un’alleanza → Piccola Intesa. Questa linea di politica estera subì un mutamento nel 1924, con l’accettazione del piano Dawes da parte della Francia. Si inaugurò allora una fase di distensione e di collaborazione fra le due potenze ex nemiche, alla base dell’intesa c’era il progetto di sicurezza collettiva. Il risultato più importante dell’intesa franco-tedesca furono gli accordi di Locarno del 1925, che consistevano nel riconoscimento da parte di Germania, Francia e Belgio delle frontiere comuni tracciate a Versailles, e nell’impegno di Gran Bretagna e Italia a farsi garanti contro eventuali violazioni. Nel 1926 la Germania fu ammessa alla Società delle Nazioni. Mentre nel 1929 fu varato il piano Young che ridusse le riparazioni tedesche dilazionandole in sessant’anni. Anche in Gran Bretagna furono le forze moderate a guidare il paese negli anni critici del dopoguerra. Tra il 1918 e il 1929 i conservatori furono quasi sempre al potere. La novità di questi anni fu il ridimensionamento dei liberali, che consentì al Partito laburista (centro-sinistra) di assumere il ruolo di opposizione ai conservatori, facendo sì che il sistema politico britannico riassumesse la tradizionale forma bipolare. Si verificò nel 1926 un imponente sciopero dei minatori, che chiedevano aumenti salariali e nazionalizzazione del settore minerario, ma non ottennero risultati; il governo cercò di profittare da questo suo successo: furono vietati gli scioperi di solidarietà e fu dichiarata illegale la pratica per cui gli aderenti alle Trade Unions (sindacati) venivano iscritti “d’ufficio” al Labour Party. I laburisti riuscirono però ad affermarsi nelle elezioni del 1929. Si formò così un ministero di coalizione liberal-laburista, che perirà per via della crisi economica mondiale del 1929-30. Un’altra tappa importante di questo periodo di distensione fu il Patto di Parigi del ‘29: con cui tutte le potenze, compresa l’unione sovietica e la Germania, si impegnavano a non risolvere le controversie con la guerra. Questaa situazione di distensione ed equilibrio però si ruppe negli anni ‘30, in coincidenza con la crisi che colpì tutti i paesi. Proprio in questi anni la Francia cominciò a costruire delle fortificazioni difensive lungo il confine tedesco Linea Maginot e questo segnò la fine dello “spirito di Locarno” e della “sicurezza collettiva”. 2.7 La Russia comunista. Nel 1920, appena conclusa la guerra civile, i bolscevichi dovettero affrontare l’attacco improvviso da parte della Polonia, che cercava di approfittare delle difficoltà della Russia per ritagliarsi confini più vantaggiosi. Dopo fasi alterne, si giunse a un trattato di pace. Nel frattempo si stava assistendo a un collasso economico, che la guerra civile finì con l’aggravare ulteriormente. L’abolizione della proprietà terriera e la redistribuzione delle terre ai contadini poveri si risolsero nella creazione di piccole aziende per l’autoconsumo, che però non contribuivano all’approvvigionamento delle città. Le banche furono nazionalizzate e i debiti con l’estero cancellati; ma tutto ciò servì a poco, e il governo fu costretto a stampare carta moneta priva di valore. Si finì così col tornare al sistema del baratto. Mariangela Lamanna All’indomani della guerra il Partito socialista, era schierato su posizioni rivoluzionarie;insistendo nella condanna di tutto ciò che avesse a che fare col passato conflitto, fornì argomenti all’oltranzismo nazionalista e dei gruppi che si formarono nel dopoguerra con lo scopo di difendere “i valori della vittoria”. Fra questi movimenti faceva spicco quello fondato a Milano, nel 1919, il 23 Marzo , da Mussolini: i Fasci di combattimento → movimento che si schierava a sinistra, chiedeva riforme sociali e si dichiarava favorevole alla repubblica, ma che al contempo ostentava nazionalismo e avversione nei confronti dei socialisti. I fascisti, dallo stile politico violento, furono i protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell’Italia postbellica: lo scontro con un corteo socialista, conclusosi con l’incendio della sede dell’ “Avanti”. Le prime elezioni politiche del dopoguerra mostrarono la gravità della frattura che attraversava la società e il sistema politico. Vennero tenute col nuovo metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista, che prevedeva il confronto fra liste di partito, anziché singoli candidati, e che assicurava alle forze politiche un numero di seggi proporzionale ai voti ottenuti, favorendo i gruppi organizzati su base nazionale; i socialisti ottennero un successo clamoroso, ai quali seguiva il partito popolare. Essi però non poterono coalizzarsi tra loro. L’unica maggioranza possibile era quella basata sull’accordo tra popolari e liberal-democratici e Su questa alleanza precaria si fondarono gli ultimi governi dell’era liberale. 3.3 Il ritorno di Giolitti e l’occupazione delle fabbriche. Il ministero Nitti sopravvisse fino al 1920, quando a costituire il governo fu richiamato Giolitti; egli si proponeva fra l’altro la nominatività dei titoli azionari (cioè l’obbligo di intestare le azioni al nome del possessore, permettendone così la tassazione) e un’imposta straordinaria sui profitti realizzati dall’industria bellica. Si sperava che egli sarebbe riuscito a domare l’opposizione socialista con il compromesso parlamentare. I risultati più importanti li ottenne in politica estera, soprattutto con il negoziato diretto con la Jugoslavia, che si concluse nel 1920 con la firma del trattato di Rapallo. L’Italia conservò Trieste, Gorizia e tutta l’Istria, mentre la Jugoslavia ebbe la Dalmazia, salvo la città di Zara, assegnata all’Italia. Fiume fu dichiarata città libera; anche se sarebbe divenuta italiana grazie a un successivo accordo con la Jugoslavia, nel 1924. In politica interna invece ci furono delle serie difficoltà, trovandosi in un periodo delicato come il “biennio rosso”, segnato in tutta Europa da lotte operaie e agitazioni sindacali. Il governo impose la liberalizzazione del prezzo del pane, e avviò il risanamento del bilancio statale. A fallire fu il disegno politico complessivo, che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie, accogliendone le istanze di riforma, esperimento già realizzato in Italia con successo; ma i socialisti erano su posizioni diverse prima, e i popolari erano troppo forti per piegarsi al ruolo subalterno cui Giolitti avrebbe voluto costringerli. I conflitti sociali del “biennio rosso” italiano toccarono il picco più drammatico con l’agitazione degli operai metalmeccanici, tramutata nell’occupazione delle fabbriche. Questa vedeva contrapporsi gli industriali e i metalmeccanici, categoria operaia guidata dalla Federazione italiana operai metallurgici (Fiom), sindacato sul modello dei soviet. Essa, quindi, presenta una serie di richieste economiche e normative, cui gli industriali si opposero. La Fiom, perciò, ordinò ai lavoratori di occupare le fabbriche. Prevalse la linea dei dirigenti della Cgl, che intendevano trasformare la vertenza in una lotta sindacale, esito favorito anche da Giolitti. Si giunse così a un accordo che accoglieva le richieste economiche della Fiom, e affidava a una commissione paritetica l’incarico di elaborare un progetto, in realtà mai realizzato, per la partecipazione dei sindacati al controllo delle aziende. Le polemiche interne al movimento operaio si intrecciarono con le fratture provocate dal II congresso del Comintern, dove erano state fissate le condizioni per l’ammissione. I massimalisti rifiutarono queste condizioni e così al congresso del Psi, del 1921, fu la minoranza di sinistra, guidata da Bordiga, ad abbandonare il Psi per formare il Partito comunista d’Italia → Pci, che nasceva con un programma leninista. Il movimento operaio cominciò ad accusare i colpi della crisi che stava investendo l’economia italiana. In questo quadro si inserì lo sviluppo improvviso del movimento fascista. 3.4 L’offensiva fascista. Il movimento fascista subì un processo di mutazione che lo portò ad organizzare formazioni paramilitari, le squadre d’azione, e a condurre una lotta contro il movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Val Padana, ragione per la quale fu chiamato “fascismo agrario”, poiché era il luogo dove si sviluppò lo squadrismo e dove era forte la presenza delle leghe rosse. Le leghe di molte province avevano ottenuto miglioramenti salariali, ma avevano anche creato un “sistema” inattaccabile: attraverso i loro uffici di Mariangela Lamanna collocamento, controllavano il mercato del lavoro, contrattando con i proprietari il numero di giornate lavorative e distribuendone il carico. Tuttavia, il sistema non era privo di aspetti autoritari e celava contraddizioni. Nel 1920 a Bologna, gli squadristi si mobilitarono per impedire l’insediamento della nuova amministrazione comunale socialista. Vi furono degli scontri e per errore, i socialisti incaricati di difendere il Palazzo d’Accursio, gettarono bombe a mano sulla folla. I fascisti usarono questa occasione come pretesto per scatenare una serie di ritorsioni antisocialiste. I proprietari terrieri allora scoprirono nei Fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe e cominciarono a sovvenzionarli Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove reclute. Il fenomeno dello squadrismo dilagò, estendendosi nel Centro-Nord. L’offensiva ebbe ovunque le stesse caratteristiche : le squadre d’azione partivano in camion verso i centri rurali, e avevano l’obiettivo le sedi socialiste e i loro dirigenti, che furono spesso uccisi, violentati o costretti a lasciare il paese. Il successo dell’offensiva fascista si spiega con fattori di ordine “militare”, ma è dovuto soprattutto al fatto che furono sottovalutati e lasciati perdere, soprattuto la forza pubblica, che era portata a vedere nei fascisti degli alleati nella lotta contro i “rossi”. 3.5 Mussolini alla conquista del potere. Nelle elezioni del Maggio 1921,il disegno di Giolitti si concretizzò con l’ingresso dei candidati fascisti, capeggiati da Mussolini, nei cosiddetti “blocchi nazionali”, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi “costituzionali” (conservatori, liberali, democratici) si unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti di massa. I fascisti ottenevano così una legittimazione da parte della classe dirigente, ma i risultati delusero. Giolitti si dimise, e il suo successore fu l’ex socialista Bonomi, che tentò di far uscire il paese dalla guerra civile, favorendo una tregua d’armi fra le due parti in lotta. Nello stesso anno, fu firmato un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti, con cui le due parti si impegnavano a sciogliere le loro formazioni armate. Il patto rientrava nella strategia di Mussolini, che mirava a inserirsi nel gioco politico “ufficiale” e temeva una reazione popolare contro lo squadrismo; strategia non condivisa dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali : i cosiddetti ras. Questi, sabotarono il patto e misero in discussione l’autorità di Mussolini. Al congresso dei Fasci Mussolini sconfessò il patto di pacificazione, e i ras riconobbero la guida politica di Mussolini e accettarono la trasformazione del movimento fascista in partito,cosa che avrebbe limitato non poco la loro libertà d’azione. Nasceva così il Partito nazionale fascista (Pnf). Il ministro Bonomi cadde nel 1922, e alla guida del governo fu chiamato Facta, un giolittiano. Il nuovo governo non mise freno alla violenza fascista, quindi i riformisti, guidati da Turati, abbandonarono il Psi per fondare il nuovo Partito socialista unitario (Psu). Sconfitto il movimento operaio, il fascismo aveva come prossimo obiettivo la conquista dello Stato, insediandosi al potere. In questa fase Mussolini giocò su due tavoli: Da un lato, intrecciò trattative con esponenti liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo, e rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane, e si guadagnò l’appoggio degli industriali, annunciando di voler restituire spazio all’iniziativa privata; dall’altro lasciò che l’apparato militare del fascismo si preparasse alla presa del potere mediante un colpo di Stato. Prese così corpo il progetto di una marcia su Roma, ossia di una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista del potere centrale. Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una ferma reazione da parte dello Stato con un esercito regolare, cosa che non accadde. Inoltre, Mussolini contava sulla debolezza del governo e la neutralità della monarchia. In effetti, Vittorio Emanuele II rifiutò di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d’assedio, cioè per il passaggio dei poteri alle autorità militari. Mussolini chiese, il ottobre 1922, di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo, e l’ottenne senza incontrare alcuna resistenza. Il paese seguì gli eventi con un misto di indifferenza e di rassegnazione. Pochi capirono che il sistema liberale aveva ricevuto un colpo mortale e che il cambio di governo sarebbe presto diventato un cambio di regime. 3.6 Verso il regime. Mussolini, con meno del 7% dei seggi, riuscì ugualmente a consolidare il suo potere grazie al sostegno delle forze moderate, liberali e cattoliche, i cosiddetti “fiancheggiatori”. Nel dicembre 1922 fu istituito il Gran consiglio del fascismo, che aveva il compito di indicare le linee generali della politica fascista e di servire da raccordo Mariangela Lamanna fra partito e governo. Nel 1923 le squadre fasciste vennero inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, corpo armato di partito che doveva anche disciplinare lo squadrismo e limitare il potere dei ras. L’istituzionalizzazione della Milizia non servì a far cessare le violenze illegali contro gli oppositori, soprattutto i comunisti, costretti a una sorta di clandestinità. I salari subirono una riduzione, riavvicinandosi ai livelli dell’anteguerra. Ciò rientrava nella politica economica del governo, che mirò a restituire libertà d’azione e profitto all’iniziativa privata. Fu alleggerito anche il carico fiscale sulle imprese, privatizzato il servizio telefonico e contenuta la spesa statale, con sfoltimento dei dipendenti pubblici. Sul piano economico e finanziario, la politica ottenne successi: ci fu tra il 1922 e il 1925 un aumento della produzione e il bilancio dello Stato tornò in pareggio Mussolini ebbe il sostegno anche della Chiesa cattolica, poichè dopo l’elezione del nuovo papa Pio XI nel 1922,stavano riprendendo il sopravvento le tendenze più conservatrici. Mussolini, abbandonati i toni anticlericali, si mostrò disposto a concessioni. La riforma scolastica fu varata nel 1923 dal ministro Gentile, e prevedeva l’insegnamento della religione nelle scuole elementari e l’introduzione di un esame di Stato al termine di ogni ciclo di stud: una misura da tempo richiesta dai cattolici, poichè metteva sullo stesso piano le scuole pubbliche e private i. La prima vittima dell’avvicinamento fra Chiesa e fascismo fu il Partito popolare, considerato un ostacolo sulla via del miglioramento dei rapporti con lo Stato. Mussolini impose perciò le dimissioni dei ministri popolari dal suo govern e poco dopo,don Sturzo lasciò la segreteria del Ppi. Mussolini aveva poi il problema di crearsi una sua maggioranza parlamentare. Fu questo lo scopo della nuova legge elettorale maggioritaria, varata nel 1923, la legge Acerbo → essa avvantaggiava la lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa, ovvero con almeno il 25% dei voti, assegnandole i due terzi dei seggi disponibili. Quando nel 1924 la Camera fu sciolta, molti liberali e cattolici conservatori accettarono di candidarsi assieme ai fascisti nelle “liste nazionali”. Le forze antifasciste erano invece divise. Nonostante questo, i fascisti non rinunciarono alla violenza contro gli avversari, anche nel corso delle votazioni. La vittoria fascista assunse così proporzioni clamorose, ottenendo il 65% dei voti. Due mesi dopo un evento tragico intervenne a mutare lo scenario: Delitto Matteotti. Il 10 giugno 1924, il deputato socialista Matteotti fu rapito da un gruppi di squadristi, e fu ucciso a pugnalate. Il suo cadavere venne ritrovato solo due mesi dopo. Dieci giorni prima di essere ucciso,aveva pronunciato alla Camera una requisitoria contro il fascismo, denunciandone le violenze e contestando la validità dei risultati elettorali. La sua scomparsa suscitò nell’opinione pubblica, pur assuefatta alla violenza politica, indignazione contro il fascismo. Sebbene gli esecutori furono individuati ed arrestati, il paese capì che il delitto era il risultato di una pratica oramai consolidata di violenze e impunità, di cui Mussolini e i suoi seguaci portavano l’intera responsabilità. Il fascismo si ritrovò isolato. Tuttavia, l’opposizione non aveva la possibilità di mettere in minoranza il governo. L’unica iniziativa concreta presa dai gruppi antifascisti fu quella di astenersi dai dibattiti parlamentari e di riunirsi separatamente finchè non fosse stata ripristinata la legalità democratica. La cosiddetta “secessione dell’Aventino” aveva significato ideale, ma di per sé era prima di efficacia pratica. Sperarono nell’intervento della Corona, ma il re non intervenn e i fiancheggiatori non tolsero l’appoggio al governo. Pochi mesi dopo l’ondata antifascista rifluì, e Mussolini decise di contrattaccare. Il 3 gennaio 1925, in un discorso alla Camera, il capo del governo si assunse la “responsabilità politica,morale e storica” di quanto era avvenuto, minacciando di usare la forza contro le opposizioni. Nei giorni successivi una raffica di arresti,sequestri e perquisizioni si abbattè sui partiti d’opposizione. Anzicchè provocare la fine del fascismo, la crisi Matteotti aveva accelerato il passaggio alla dittatura. ➔ Approfondimento :3 gennaio 1925: il discorso da cui iniziò la dittatura di Mussolini 3 gennaio 1925. Benito Mussolini, allora Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia, pronuncia alla Camera dei Deputati il celebre discorso sul delitto Matteotti. Tale discorso apre la strada alla dittatura, caratterizzata dalla fine delle libertà civili e dal lancio delle “leggi fascistissime”. Benito Mussolini, leader del Partito Fascista, era stato incaricato dal re Vittorio Emanuele III di formare un governo in seguito all’episodio della marcia prima su Napoli e poi su Roma nell’ottobre del 1922. Iniziò dunque una fase di costruzione del regime autoritario che Mariangela Lamanna dell’economia internazionale. Accanto al mercaato finanziario di Londra, cresceva quello di New York. A partire dal 1921 l’economia statunitense cominciò a crescere a ritmi molto rapidi. La diffusione della produzione in serie, ovvero a catena di montaggio, e i miglioramenti nell’organizzazione del lavoro in fabbrica, dove si affermava il modello fordista-taylorista, favorirono un aumento della produttività e dei salari. Contemporaneamente però, diminuiva il numero degli occupati nell’industria: infatti, gli sviluppi della tecnica avevano diminuito la quantità di lavoro necessaria. E crebbe l’occupazione, invece, nel settore terziario. All’isolazionismo in politica estera fece riscontro una forte egemonia conservatrice; questo rappresentava un problema. La distribuzione dei redditi era squilibrata e comportava l’emarginazione di fasce di popolazione. Si aggiunse a ciò l’ostilità nei confronti delle minoranze etniche. Con l’introduzione di leggi limitative dell’immigrazione, si inasprirono anche le pratiche discriminatorie nei confronti della popolazione nera: la setta del Ku Klux Klan, espressione del razzismo, raggiunse negli Stati del Sud dimensioni di un’organizzazione di massa. Anche cattolici ed ebrei venivano guardati con diffidenza. Nonostante ciò, la borghesia statunitense rimaneva fiduciosa in un continuo crescere dell’economia americana. La conseguenza più palese fu la frenetica attività della Borsa di New York → Borsa di Wall Street. Incoraggiati dalla prospettiva di facili guadagni, i risparmiatori acquistavano azioni per rivenderle a prezzo maggiorato, confidando nella continua ascesa delle quotazioni, sostenuta dalla crescente domanda dei titoli. Questo aveva fatto sì che nel settore industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata rispetto alle possibilità di assorbimento del mercato interno: sia per la natura di quei beni, che non avendo bisogno di essere sostituiti, andavano a “saturare” il mercato, sia per la crisi del settore agricolo, che teneva bassi i redditi dei ceti rurali, limitandone il potere d’acquisto. L’industria statunitense aveva ovviato a queste difficoltà con l’aumento delle esportazioni nel resto del mondo. Si era venuto a creare così un rapporto di interdipendenza fra economia americana ed economie europee. Questo meccanismo poteva incepparsi, perché i crediti statunitensi all’estero erano erogati da banche private e legati a puri calcoli di profitto. Il valore dei titoli a Wall Street raggiunse i livelli più elevati nel 1929. Seguirono poi settimane di incertezza, durante le quali cominciò la tendenza degli speculatori a vendere i propri pacchetti azionari per realizzare i guadagni. La corsa alle vendite determinò, secondo la legge della domanda e dell’offerta, una caduta del valore dei titoli. Il crollo del mercato azionario colpì prima i ceti ricchi e benestanti, che, riducendo la loro capacità di acquisto e di investimento, ebbe conseguenze sull’intera economia nazionale, colpendo tutti gli strati della popolazione. 4.3 Il dilagare della crisi. La recessione economica si diffuse rapidamente in tutto il mondo, ad eccezione dell’Urss. Fra il 1929 e il 1932 la produzione mondiale di manufatti diminuì. I prezzi caddero sia nel settore industriale sia in quello agricolo; i disoccupati aumentarono esponenzialmente. A tutto ciò si aggiunse la decisione, presa nel 1930, dal presidente Usa → Hoover, di inasprire il protezionismo per difendere la produzione interna. Questo indusse gli altri paesi ad adottare analoghe misure di difesa della propria bilancia commerciale. Molti Stati, inoltre svalutarono le loro monete, per rendere più competitivi i prezzi delle proprie merci e favorire le esportazioni; si avviarono reazioni a catena che ebbero l’effetto di rendere instabili i rapporti di cambio tra le diverse monete. Conseguenza fu la contrazione drastica del commercio internazionale, che si ridusse del 60%. Anche i paesi meno sviluppati, in America Latina, Asia e Africa, pagarono un ingente prezzo. Le loro economie si basavano sull’esportazione verso i paesi più ricchi. Nel contempo, in quei continenti si accelerava la crescita demografica; perciò non solo la ricchezza prodotta diminuiva, ma si doveva distribuire a un numero sempre più elevato di persone. Così, il divario tra i paesi più ricchi e quelli meno toccò punte massime. Infine, al crescente allentamento dei legami commerciali e finanziari corrispose l’assenza di collaborazione tra gli Stati. 4.4 La crisi in Europa. In Europa al declino delle attività produttive e commerciali si sovrappose una crisi finanziaria imponente, che cominciò prima in Austria e in Germania, dove il fallimento di alcune importanti banche portò al collasso dell’intero sistema del credito. Questi due crolli provocarono un’allarme sulla solidità delle finanze del Regno Unito, in quanto molti capitali britannici erano stati investiti in quei due paesi, e sulla tenuta della sterlina. Le banche dovettero far fronte a un ritiro precipitoso dei capitali stranieri, e a richieste di conversione delle sterline nel loro equivalente in oro. Nel 1931, esauritesi le riserve auree della Banca d’Inghilterra, la moneta fu svalutata. Quando la crisi ebbe inizio, i Mariangela Lamanna governi si preoccuparono di mettere ordine nei bilanci statali e cercarono di ridurre il deficit, tagliando la spesa pubblica: vennero così ridotti gli stipendi ai dipendenti pubblici, diminuite le prestazioni sociali fornite dallo Stato, e furono imposte nuove tasse. Questi provvedimenti compressero ulteriormente la domanda interna, aggravando la recessione e la disoccupazione. In Germania le conseguenze della crisi si fecero sentire più che in ogni altro Stato europeo, a causa della stretta integrazione fra l’economia statunitense e quella tedesca, gravata dalle riparazioni. La crisi mise in difficoltà il governo di coalizione, che cadde, e il nuovo cancelliere, il cattolico-conservatore Bruning, attuò una politica di sacrifici. Lo scopo fu in parte raggiunto nel 1932, quando una conferenza internazionale ridusse le riparazioni e ne sospese il versamento per 3 anni (i pagamenti non furono mai ripresi). Ma aumentò di molto la disoccupazione. In Francia la crisi giunse in ritardo, nel 1931, ma durò più a lungo, fino al 1938, perché i governi vollero legare il loro prestigio alla difesa della moneta nazionale, il franco, ritardandone fino al 1937 la svalutazione. La crisi coincise con un periodo di instabilità politica francese: fra il 1929 e il 1936 si succedettero diciassette governi. In Gran Bretagna il ministero, guidato dal laburista MacDonald, cercò di fronteggiare la crisi con un programma che prevedeva un taglio del sussidio ai disoccupati. Questo programma incontrò l’opposizione delle Trade Unions, le associazioni sindacali, nerbo del movimento laburista. Nel 1931 MacDonald ruppe col suo partito e si accordò con i liberali e i conservatori per la formazione di un “governo nazionale”. Quindi, svalutò la sterlina, adottando un sistema di tariffe doganali, che privilegiava gli scambi commerciali nell’ambito del Commonwealth. Nella maggior parte dei paesi la ripresa fu lenta: un rilancio produttivo si ebbe solo alla fine del decennio e fu dovuto all’incremento delle spese militari, conseguente all’aggravarsi delle tensioni internazionali. 4.5 Il New Deal di Roosevelt. Nel novembre 1932, dopo tre anni di crisi, si tennero negli Stati Uniti le elezioni presidenziali, dove vinse il democratico F.D. Roosevelt. Già nella campagna elettorale Roosvelt seppe far valere le sue doti di comunicatore, instaurando con i cittadini un rapporto diretto. Diventato presidente, avrebbe aperto un nuovo canale di comunicazione con i cittadini: le “Conversazioni al caminetto”, trasmissione radiofonica in cui illustrava le sue scelte, con tono familiare. Nel discorso che aveva ufficializzato la sua candidatura il 2 luglio 1932, Roosevelt annunciò di voler inaugurare un New Deal =nuovo patto nella politica degli Stati Uniti: un nuovo corso che si sarebbe caratterizzato per un più energico intervento dello Stato nei processi economici. Fu avviato nei cosiddetti 100 giorni, primi mesi della presidenza di R, con una serie di provvedimenti per arrestare la crisi: si cercò, prima di tutto, di ristrutturare e risanare, con aiuti pubblici, il sistema creditizio, sconvolto dai fallimenti bancari; si proseguì facilitando i prestiti, aumentando i sussidi di disoccupazione e svalutando il dollaro, per rendere più competitive le esportazioni.A queste misure di emergenza,il governo affiancò alcuni provvedimenti, caratterizzati dall’uso di nuovi e originali strumenti di intervento : L’Agricultural Adjustment Act si proponeva di limitare la sovrapproduzione nel settore agricolo, assicurando premi in denaro. Il National Industrial Recovery Act imponeva alle imprese operanti dei “codici di comportamento” volti ad evitare, con accordi sulla produzione e sui prezzi, una concorrenza troppo accanita. Infine ci fu l’istituzione della Tennessee Valley Authority → ente con il compito di sfruttare le risorse idroelettriche nel Tennessee. Quest’ultimo rappresentò un successo sia sul piano economico sia su quello propagandistico. Tuttavia, le altre iniziative ebbero effetti lenti e contraddittori. Il calo della produzione agricola causò l’espulsione dalle campagne di masse di lavoratori. Quindi, aumentarono i disoccupati. Per porre rimedio, il governo federale allargò il flusso della spesa pubblica. Nel 1935 furono varate una riforma fiscale, una legge sulla sicurezza sociale, che garantì la pensione di vecchiaia e riorganizzò l’assistenza statale a favore dei bisognosi, e una nuova disciplina dei rapporti di lavoro. Con le sue misure progressiste in campo sociale Roosevelt si guadagnò l’appoggio del movimento sindacale da una parte, mentre dall’altra i risultati non sempre brillanti diedero spazio al formarsi di una coalizione avversa a lui. Tra il 1935 e il 1936 la Corte suprema degli Stati Uniti, massimo organo del potere giudiziario, cercò di bloccare le riforme di Roosevelt, che reagì ripresentandole con lievi modifiche. In generale, Roosevelt non riuscì a risanare veramente l’economia americana, che sarebbe giunta a una ripresa solo con lo sviluppo della produzione bellica. 4.6 Il nuovo ruolo dello Stato. Mariangela Lamanna La crisi del 1929 fece precipitare la fiducia nella capacità del mercato di autoregolarsi e di espandersi per forza propria. Molti subirono il fascino delle alternative al sistema: dal collettivismo integrale dell’Urss di Stalin agli esperimenti corporativi proposti, ma mai attuati, dal fascismo italiano e dai regimi autoritari di destra. Dopo la crisi lo Stato assunse nuovi compiti. Si passò all’adozione di misure di controllo statale, e all’assunzione da parte dei poteri pubblici di un ruolo attivo nel promuovere l’espansione economica. In alcuni casi, come Usa, con l’espansione della spesa pubblica; in altri, come Italia, mediante l’assunzione da parte dello Stato di imprese industriali in difficoltà; in altri ancora, come Gran Bretagna e paesi Scandinavi, si puntò sull’elaborazione di programmi di sviluppo che si proponevano di orientare l’attività economica. Il più importante tentativo di sistemazione teorica giunse nel 1936 con l’economista inglese Keynes, e la pubblicazione del volume “Occupazione, interesse e moneta. Teoria Generale”, che aprì un capitolo nuovo nella storia della scienza economica. Egli riteneva che i meccanismi spontanei del capitalismo non fossero in grado di gestire un’utilizzazione ottimale delle risorse. Ciò lo indusse a criticare le politiche deflazionistiche che, riducendo il potere d’acquisto dei privati mediante il contenimento della spesa pubblica, aggravavano nelle situazioni di crisi l’economia. Queste linee rispecchiavano molto il New Deal. Politiche analoghe sarebbero state adottate dai governi occidentali dopo la fine della seconda guerra mondiale. 4.7 Nuovi consumi e comunicazioni di massa. Dopo il 1929 l’Occidente industrializzato subì un processo di impoverimento, che però non impedì che nuovi modelli di consumo si affermassero. Nel corso degli anni ‘30, il processo di urbanizzazione accelerò a causa della crisi in cui versava il settore agricolo. La crescita delle città significava lo sviluppo del settore edilizio. Ci furono conseguenze non solo sull’economia, ma anche sul modo di vivere delle masse urbane. Infatti, le case di nuova costruzione,in particolare quelle destinate ai ceti medi, erano fornite di acqua corrente e di elettricità; inoltre, queste venivano edificate in zone periferiche, che rese necessario lo sviluppo dei trasporti pubblici e della motorizzazione privata. La grande crisi determinò anche un miglioramento nelle retribuzioni e nei livelli di consumo di quei lavoratori che avevano mantenuto il lavoro e che, con il calo dei prezzi agricoli, avevano potuto ridurre il reddito riservato ai consumi alimentari. La produzione europea di veicoli a motore, fece registrare consistenti progressi, anche se rimase un bene riservato a pochi. Discorso analogo per la produzione degli elettrodomestici. I più costosi continuarono ad essere beni di lusso, ma gli apparecchi domestici, come la radio, che non costavano troppo, videro ampia diffusione anche fra i ceti medio-inferiori. I primi apparecchi per la trasmissione del suono senza fili erano stati realizzati già a fine XIX secolo da Marconi; dopo la prima guerra mondiale, la radio si trasformò da mezzo di comunicazione fra singoli soggetti in strumento di diffusione di programmi di informazione e di svago destinati al pubblico. Le prime trasmissioni si ebbero negli Usa nel 1920, per diffondersi anche nei paesi europei, a opera di enti statali, sul modello della BBC, che imponevano un canone di abbonamento. Come mezzo di informazione la radio non temeva confronti e con il suo sviluppo la diffusione della stampa subì un rallentamento, tant’è che cominciò a puntare più sull’immagine: da qui si svilupparono le riviste illustrate. La radio segnò una nuova era nel campo delle telecomunicazioni.Verso la fine degli anni ‘20 con l’invenzione del sonoro, il cinema divenne uno spettacolo “completo”, come il teatro di prosa, con la differenza che la proiezione di un film era meno costosa, ed era alla portata di un pubblico vastissimo. Divenne lo spettacolo popolare per eccellenza, era anche un veicolo attraverso cui imporre immagini e personaggi.. Con il cinema, Nacque anche il fenomeno del “divismo” di massa, ossia quel particolare rapporto di attrazione che lega il pubblico agli attori più popolari. . Inoltre, attraverso il cinema si potevano anche divulgare messaggi ideologici e visioni del mondo, infatti, la propaganda era affidata ai cinegiornali d’attualità, proiettati in apertura di spettacolo. Lo sviluppo delle comunicazioni di massa cambiò radicalmente il modo di concepire e usare il tempo libero ed ebbe effetti rivoluzionari in tutti i settori dell’attività umana. Questi mezzi contribuirono alla “spettacolarizzazione” della competizione politica. 4.8 La scienza e la guerra. Negli anni fra le due guerre mondiali, la rivoluzione scientifica e tecnologica continuò. A partire dagli anni ‘20 i fisici Fermi, Dirac, Chadwick, Curie, Schrodinger e Heisenberg portarono avanti gli studi e gli esperimenti sul nucleo dell’atomo, avviati già a inizio secolo da Rutherford e Bohr. Alla fine degli anni ‘30, si scoprì che dalla Mariangela Lamanna Papen e il generale Schleicher. Si risolsero in fallimento. Nelle due successive elezioni politiche, i nazisti si affermarono come il primo partito tedesco, con il 37% dei voti. Nel gennaio 1933 Hitler accettò di capeggiare un governo in cui in nazisti avevano solo 3 ministri su 11. 5.4 La costruzione del regime. Dopo pochi mesi Hitler instaurò un regime totalitario. L’occasione per una prima stretta repressiva fu offerta dall’incendio appiccato alla sede del Reichstag, il Parlamento nazionale, il 27 febbraio, con conseguente arresto di un comunista olandese squilibrato, indicato come l’autore. Ciò fornì il pretesto al governo per una operazione di polizia contro i comunisti e per una serie di misure eccezionali, che annullavano le libertà di stampa e di riunione. Nelle successive elezioni i nazisti ottennero il 44% dei voti. Hitler mirava all’abolizione del Parlamento e il Reichstag appena eletto lo assecondò approvando una legge che conferiva al governo i pieni poteri. A giugno la Spd (Partito socialdemocratico tedesco) fu sciolto, mentre il Partito tedesco-nazionale, espressione della destra conservatrice, si sciolse da sé su pressione dei nazisti; stessa cosa fece il Centro cattolico. A luglio Hitler vara una legge che proclamava il Partito nazionalsocialista unico partito legale in Germania. In novembre, una nuova consultazione elettorale di tipo “plebiscitario”, su lista unica, faceva registrare un 92% di voti favorevoli. Di fronte a Hitler restavano due ostacoli: l’ala estremista del nazismo, ovvero le SA di Rohm, poco disposte a sottomettersi; la vecchia destra, impersonata da Hindenburg e dai capi dell’esercito, che chiedevano a Hitler di frenare il suo estremismo. Hitler, che già aveva provveduto a formare una sua milizia personale, le SS, “squadre di difesa”, decise di risolvere il problema con un massacro. Nella notte del 30 giugno 1934, la “notte dei lunghi coltelli”, le SS assassinarono Rohm e le SA. Hindenburg morì nello stesso anno. Hitler si trovò a cumulare le cariche di cancelliere e capo dello Stato. Gli ufficiali dovettero quindi prestare giuramento di fedeltà a Hitler, che nel 1938 assumeva il comando supremo delle forze armate. Con la vittoria di Hitler in Germania, si assistette nell’Europa centro-orientale al rafforzamento delle tendenze dittatoriali e militariste, come in Ungheria, Polonia, Jugoslavia e Bulgaria, e alla nascita di nuove dittature di stampo monarchico-fascista, come in Grecia nel 1936 e in Romania nel 1938. Crebbero anche i movimenti antisemiti. ➔ Approfondimento : NOTTE DEI LUNGHI COLTELLI La notte dei lunghi coltelli, fu l’epurazione avvenuta per mano delle SS che ebbe luogo in Germania per ordine di Adolf Hitler nella notte fra il 30 giugno e il 1º luglio del 1934, coinvolgendo i vertici delle SA – le squadre d’assalto naziste – riuniti nella cittadina di Bad Wiessee, unitamente ad altri oppositori del regime, vecchi nemici o ex compagni politici di Hitler, e anche alcune persone estranee alla vita politica o militare tedesca.Secondo i dati forniti il 13 luglio dallo stesso Cancelliere del Reich, furono assassinate 71 persone, ma il totale delle vittime fu stimato tra le 150 e 200; di 85 di esse si conosce il nome. Le esecuzioni iniziate il 30 giugno proseguirono fino alle 04:00 del 2 luglio quando Hitler vi pose ufficialmente termine. I vertici delle SA erano stati decapitati, e insieme erano stati eliminati vecchi ufficiali da sempre ostili al regime nazista e oppositori della classe conservatrice. Lo stesso giorno i giornali pubblicarono i due telegrammi che il Presidente Hindenburg aveva spedito a Hitler e a Göring per ringraziarli dell’azione condotta. Il giorno successivo, 3 luglio, il Governo licenziò una legge elaborata dal giurista Carl Schmitt consistente in un unico articolo che così recitava: “le misure prese il 30 giugno, il 1 e 2 luglio 1934 per reprimere gli attentati alla sicurezza del paese e gli atti di alto tradimento sono conformi al diritto in quanto misura di difesa dello Stato”. Questa legge di fatto autorizzava, senza possibilità di giudizio posteriore, qualunque azione che Hitler ritenesse necessaria a difesa dello Stato. 5.5 Politica e ideologia del Terzo Reich. Con Hitler presidente, nasceva il Terzo Reich, il Terzo Impero. Nel nuovo regime si realizzava quel “principio del capo” (Fuhrerprinzip) che costituiva un punto cardine della dottrina nazista. Al capo, o Fuhrer (“duce”), spettavano le decisioni più importanti, ma anche la fonte suprema del diritto. Non era solo la guids del popolo, ma anche colui che sapeva esprimere le autentiche aspirazioni. Mariangela Lamanna Il rapporto tra capo e popolo passava solo attraverso la mediazione del partito unico e delle altre organizzazioni del regime, come il Fronte del lavoro, o le organizzazioni giovanili, come la Hitlerjugend (“Gioventù hitleriana”). Compito di queste organizzazioni era trasformare i cittadini in una comunità di popolo disciplinata, dalla quale erano esclusi i cittadini di origine straniera, e soprattutto gli ebrei. Essi erano allora in Germania una ristretta minoranza, erano concentrati nelle grandi città e occupavano le zone medio-alte della scala sociale, in quanto commercianti, intellettuali e artisti. La discriminazione fu ufficialmente sancita, nel 1935, dalle cosiddette “leggi di Norimberga”, dal nome della città in cui si tenevano i congressi del Partito nazista. Queste tolsero agli ebrei la nazionalità tedesca, i diritti politici, e proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei. A quesri, fu impedito di avere attività industriali e commerciali e di esercitare professioni come la medicina e l’avvocatura, di ricoprire incarichi statali. Ciò si accompagnava a una crescente emarginazione dalla vita sociale, che spinse molti ebrei ad abbandonare la Germania. Dal 1938 la persecuzione antisemita subì un’ulteriore accelerazione, quando, traendo pretesto dall’uccisione di un tedesco per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un pogrom in tutta la Germania. La notte tra il 9-10 novembre del 1938 fu chiamata “notte dei cristalli”, per via delle molte vetrine di negozi degli ebrei che furono infrante, oltre alle sinagoghe, abitazioni, ebrei uccisi e molti altri arrestati. La notte del 9 novembre 1938, in tutta la Germania e in Austria, i Nazisti distrussero diverse sinagoghe e le vetrine di negozi posseduti da cittadini ebrei (un evento conosciuto come il pogrom della Notte dei Cristalli). Tale episodio segnò il momento di passaggio a una nuova fase di distruzione, nella quale il genocidio sarebbe diventato l’obiettivo centrale dell’antisemitismo nazista. In realtà, il programma di difesa dell’integrità della “razza” non si accanì solo contro gli ebrei, ma comportò anche la sterilizzazione forzata per i portatori di malattie ereditarie e la soppressione dei malati di mente incurabili. Queste pratiche suscitarono reazioni che indussero il regime a sospendere il programma, detto di “eutanasia”. Dal punto di vista politico: l’opposizione comunista fu quasi annientata.L a socialdemocrazia, fece sentire la propria voce solo attraverso gli esuli; i cattolici finirono con l’adattarsi al regime, incoraggiati dalla Chiesa di Roma, che nel 1933 stipulò un concordato col governo nazista, assicurandosi la libertà di culto e la non interferenza dello Stato negli affari interni al clero. Debole furono le resistenze offerte dalla maggioranza protestante; solo la minoranza di ministri del culto si oppose attivamente, e fu perseguitata. La debolezza dell’opposizione era da ricondurre anche all’efficenza dell’apparato repressivo e terroristico nazista; infatti, i diversi corpi di polizia, come la Gestapo e le SS, controllavano la vita pubblica e privata del cittadini. Ma anche i campi di concentramento incutevano molta paura negli oppositori. Inoltre i successi di Hitler in politica estera, la ripresa economica e la diminuzione della disoccupazione, grazie all’impulso dato ai lavori pubblici, erano fattori importanti di consenso. Altro fattore essenziale fu la capacità del nazismo di imporre formule e miti capaci di toccare le corde profonde dell’anima popolare, Attraverso la stampa, i discorsi del Fuhrer e i film di propaganda, il nazismo propose ai tedeschi un’utopia antimoderna reazionaria e “ruralista”, una società patriarcale di contadini-guerrieri. Fu il primo governo a istituire in tempo di pace un ministero per la Propaganda, affidato a Goebbels. Inoltre la stampa fu sottoposta a controllo e gli intellettuali furono inquadrati in un’organizzazione nazionale, la Camera di cultura del Reich, e dovettero fare atto di adesione al regime. Infine, tutti i momenti più significativi della vita del regime furono scanditi da feste e cerimonie pubbliche. Nella grande adunata, cittadino trovava in quei momenti di socializzazione che la vita delle grandi città non offriva spontaneamente. 5.6 L’Urss e l’industrializzazione forzata. In questi anni, lavoratori e intellettuali antifascisti guardavano con speranza all’Unione Sovietica: il paese che tentava di costruire una nuova società fondata sui principi del socialismo e che si presentava come l’estrema riserva dell’antifascismo mondiale. L’Urss non era stata toccata dalla crisi, grazie al suo isolamento economico, e anzi, stava avviando un processo di industrializzazione. La decisione di porre fine alla Nep fu presa da Stalin tra il 1927-28, per dare priorità all’industrializzazione, che avrebbe potuto fare dell’Urss una grande potenza militare, in grado di competere con le potenze capitalistiche. Primo ostacolo alla costruzione di un’economia totalmente collettivizzata e industrializzata furono i contadini benestanti, i kulaki, accusati di affamare le città non consegnando allo Stato la quota di prodotto dovuta, e di Mariangela Lamanna venderla sul mercato arricchendosi sulle spalle del popolo. Dal 1929 i kulaki furono espropriati delle terre, bestiame e mezzi di produzione, e inquadrati a forza nelle fattorie collettive, i cosiddetti kolchozy. Contro questa linea si oppose Bucharin, convinto teorico della Nep, ma la maggioranza del Partito si schierò con Stalin. Bucharin e i suoi seguaci furono condannati nel 1930 come “deviazionisti di destra”. I contadini che si opponevano alle requisizioni e resistevano al trasferimento nelle fattorie collettive furono considerati “nemici del popolo”, fucilati o arrestati, oppure deportati nella Russia settentrionale. Alle conseguenze della repressione, si sommarono quelli di una nuova carestia, culminata negli anni 1932-33. Gli effetti furono terribili in termini di costi umani, ma anche il bilancio economico fu disastroso. In compenso l’eccesso di popolazione nelle campagne fu ridotto. Lo scopo di Stalin, di quella che egli definì “rivoluzione dall’alto”, era favorire l’industrializzazione mediante lo spostamento di risorse economiche e di energie umane. Il primo piano quinquennale per l’industria fu varato nel 1928; la crescita del settore fu imponente, in quanto la produzione industriale nel 1932 aumentò del 50%. Col secondo piano quinquennale (1933-37) la produzione aumentò del 120%. I risultati furono consentiti anche dal clima di entusiasmo ideologico e patriottico che Stalin seppe suscitare nella classe operaia tramite gli obiettivi. Gli operai furono sottoposti a una disciplina severissima, ma furono stimolati da incentivi materiali che premiavano i lavoratori più produttivi. Caso esemplare fu il minatore Stachanov, che diede origine al movimento di esaltazione del lavoro, detto stachanovismo. L’eco dei successi dell’Urss galvanizzarono i comunisti di tutto il mondo; meno noti furono i costi umani e politici dell'impresa. 5.7 Lo stalinismo, le grandi purghe, i processi. Anche Stalin, come Hitler e Mussolini, finì con l’assumere in Urss un ruolo di capo assoluto, depositario della “autentica” dottrina marxista-leninista, e garante della sua corretta applicazione.Le attività intellettuali dovevano ispirarsi alle direttive del capo e dei suoi interpreti autorizzati, tra cui Zdanov, assurto nel 1930 al ruolo di controllore di tutto il settore culturale. Ci fu una rigida censura delle arti, che furono costretti a funzione propagandistico- pedagogica entro i canoni del cosiddetto realismo socialista, ovvero dovevano limitarsi all’esaltazione della realtà sovietica. La storia fu riscritta per mettere in luce il ruolo di Stalin, e persino il settore delle scienze naturali fu messo sotto controllo. Stalin combattè, già dal 1928, anche chi era solamente sospettato di andare contro le sue disposizioni, o contro di lui. Vittime principali erano i contadini e tutti colori che potevano essere accusati di ostacolare lo sforzo produttivo. Nel 1934 l’assassinio (probabilmente organizzato dallo stesso Stalin) di Kirov, astro nascente del gruppo dirigente comunista, fornì il pretesto per una serie di arresti, che colpirono gli stessi quadri del partito. Cominciava così la stagione delle “grandi purghe”, epurazioni di massa che periodicamente colpivano dirigenti politici o cittadini, giustificate con la necessità di combattere traditori. Milioni di persone furono deportate in campi di lavoro, chiamati col termine tedesco “Lager”, come per esempio l’ “Arcipelago Gulag”. Peggiore fu la sorte di coloro che furono sottoposti a pubblici processi, dove le confessioni venivano estorte con la tortura, in cui gli imputati si confessavano colpevoli di complotti. Furono così eliminati gli antichi oppositori di Stalin, ma anche molti stretti suoi collaboratori. Le “grandi purghe” provocarono una notevole impressione in Occidente, ma nel complesso la denuncia allo stalinismo non ebbe grande rilievo; lo impedivano la scarsità di informazioni sulle reali dimensioni del fenomeno. L’immagine di Stalin riuscì a passare indenne. 5.8 Le democrazie e i fronti popolari. L’avvento al potere di Hitler diede un colpo definitivo all’equilibrio internazionale faticosamente costruito nella seconda metà degli anni ‘20. . Prima importante decisione del governo nazista in politica estera fu, nel 1933, il ritiro della delegazione tedesca dalla conferenza internazionale di Ginevra, dove le grandi potenze cercavano di giungere a un accordo sulla limitazione degli armamenti. Seguì il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni. Anche l’Italia fascista si preoccupò per le mire aggressive tedesche. Quando in Austria, nel 1934, gruppi nazisti tentarono di impadronirsi del potere e uccisero il cancelliere Dollfuss, al fine di preparare l’unificazione fra Austria e Germania, Mussolini reagì facendo schierare quattro divisioni al confine italo-austriaco; Hitler fu costretto a far marcia indietro. Nell’aprile 1935 Hitler reintrodusse in Germania la costrizione obbligatoria vietata dal trattato di Versailles; questa violazione portò i rappresentanti dell’Italia, Francia e Gran Bretagna a riunirsi a Stresa, dove ribadirono Mariangela Lamanna dipendevano anche i corpi femminili. Nel complesso queste strutture svolsero una funzione importante nella fascistizzazione del paese. La società fascista incontrava però ostacoli: il maggiore era rappresentato dalla Chiesa, che rappresentava l’unico centro di aggregazione sociale e culturale (il 99% della popolazione era di fede cattolica). Consapevole di ciò, Mussolini cercò un’intesa col Vaticano, e intrattennero delle trattative segrete che si conclusero nel 1929 con i Patti Lateranensi I Patti Lateranensi si articolavano in tre parti distinte: • Un trattato internazionale, con cui la Santa Sede poneva ufficialmente fine alla “questione romana” riconoscendo la sua capitale e vedendosi riconosciuta la sovranità sullo “Stato della Città del Vaticano”; • Una convenzione finanziaria, con cui lo Stato si impegnava a corrispondere alla Santa Sede una somma, equivalente all’importo delle annualità previste dalla “legge delle guarentigie”, dopo la presa di Roma; • Un concordato, che regolava i rapporti interni fra la Chiesa e il Regno d’Italia, intaccando il carattere laico dello Stato. Esso stabiliva anche che i sacerdoti fossero esonerati dal servizio militare, che il matrimonio religioso avesse effetti civili, che l’insegnamento della dottrina cattolica fosse fondamento dell’istruzione pubblica, che le organizzazioni dipendenti dall’Azione cattolica potessero continuare a svolgere la propria attività al di fuori di ogni partito politico. Per il regime fascista questi patti furono un successo. Mussolini consolidò la sua area di consenso nelle prime elezioni plebiscitarie con il 98% di voti favorevoli. In realtà però l’elettore non aveva tanta scelta. Fu un successo soprattutto per la Chiesa, contando che essa acquistò una posizione di privilegio nei rapporti con lo Stato. Altro ostacolo era la monarchia, in quanto il re restava la più alta autorità dello Stato; a lui spettavano il comando supremo delle forze armate, la scelta dei senatori e il diritto di nomina e revoca del capo del governo. In caso di crisi interna, il potere sarebbe tornato al re, e ciò rappresentava per il fascismo una debolezza. ➔ Approfondimento : Opera nazionale Balilla Sintesi e strumento principale dell’organizzazione militare dell’infanzia, nonché punto di incrocio fra il tempo della scuola e quello per lo svago, fu l’Opera nazionale Balilla, che Mussolini chiamò «la pupilla del Regime» L’ Opera Nazionale Balilla (ONB), istituita nel 1926 con la legge del 3 aprile n. 2247, inquadrava, attraverso una rigida educazione fascista, i giovani sino ai diciotto anni. Al momento della fondazione era esclusivamente maschile, ma dal 1929 vennero incluse anche le ragazze: le Piccole italiane (8-14 anni) e le Giovani italiane (14-18 anni). Ne Il capo-squadra Balilla – il «catechismo» dei piccoli fascisti 50 – si descriveva innanzitutto l’uniforme → che comprendeva camicia nera, fazzoletto azzurro chiuso da un fermaglio riproducente l’immagine del duce, pantaloni corti di panno grigioverde, cintura a fascia nera e fez nero. I punti di riferimento del Balilla dovevano essere il duce, lo spirito di corpo e il cameratismo, la disciplina e la subordinazione, lo sprezzo del pericolo, l’ordine e il rispetto per i simboli del fascismo, la cura per la divisa e gli strumenti di guerra. La formazione delle bambine – era scritto in La capo-squadra Piccola Italiana – era invece fondata sul principio dell’educazione femminile romana: creare la donna di casa e la madre del soldato. Solo una minima parte delle bambine italiane poteva probabilmente permettersi la complessa e costosa uniforme prevista → camicetta bianca di «panama» con colletto rivoltato a due punte; gonna di lana nera a pieghe; calze bianche lunghe; scarpe nere con tacco basso; berretto di maglia di seta nera a cono terminante in alto con un bottoncino e in basso con un orlo di cinque centimetri; distintivo cucito sul lato sinistro della camicetta; numeri della Centuria ricamati in seta giallo oro su dischetti di panno nero e appuntati sui due lembi del colletto; guanti bianchi di filo; mantella di lana nera per il periodo invernale. Il loro inno recitava: «E noi saremo buone, forti e soavi insieme, pronte al tuo cenno, Duce sí! Per l’Italia e per il Re». I loro doveri comprendevano l’adoperarsi per la pace e al contempo prepararsi alla guerra, servire la patria spazzando la propria casa, essere pronte a una perenne mobilitazione nella quale il ruolo della donna doveva essere quello di difendere la trincea domestica. I Figli della lupa raggruppavano maschi e femmine fino agli otto anni. In seguito, i maschi diventavano Balilla dagli otto agli undici anni, Balilla moschettieri dagli undici ai tredici, Avanguardisti dai tredici ai quindici, Avanguardisti moschettieri dai quindici ai diciassette, Giovani fascisti dai diciassette ai ventuno. Le bambine, invece, si dividevano in Piccole italiane dagli otto ai quattordici anni, Giovani italiane dai quattordici ai diciassette e Giovani fasciste dai diciassette ai Mariangela Lamanna ventuno. «Il Giornale del Balilla» nato nel 1923 diventò via via uno strumento di propaganda dai toni esaltati e coerenti, e assunse infine il ruolo di organo ufficiale dell’Opera nazionale Balilla. 6.2 Un totalitarismo imperfetto. L’immagine dell’Italia al tempo è quella di un paese fascistizzato. I dati ci dicono però che l’Italia continuò a svilupparsi normalmente. La popolazione aumentò, si accentuò l’urbanizzazione, la quota degli addetti all’agricoltura calò, mentre quella degli occupati nell’industria aumentò del 3%, come quella del terziario. L’Italia continuava ad essere un paese arretrato rispetto alle maggiori potenze europee, ma questa arretratezza economica e civile fu funzionale al regime fascista e alla sua ideologia, in quanto si basava su un “ritorno alla campagna”. Il regime difese il matrimonio e la famiglia, come garanzia di stabilità e cercò di incoraggiare l’incremento della popolazione: furono aumentati gli assegni famigliari dei lavoratori, istituiti premi per le coppie più prolifiche, imposta una tassa sui celibi; inoltre ostacolò il lavoro delle donne e il principio di emancipazione femminile. Il fascismo dall’altra parte però era proiettato verso un sistema totalitario moderno e la creazione di un “uomo nuovo”, e in questa utopia era limitato dall’arretratezza, anche perché era difficile far arrivare il messaggio anche nei piccoli paesi poco collegati. Nel 1927 venne varata la “Carta del lavoro”; anche se non bastò a ripagare i lavoratori della scomparsa dei sindacati liberi, della perdita di autonomia organizzativa e contrattuale, e del calo dei salari. Anche per questo il consenso maggiore veniva dalla media e piccola borghesia; infatti i ceti medi furono favoriti dalle scelte economiche del regime e si videro aprire nuovi canali di ascesa sociale dalla moltiplicazione degli apparati burocratici 6.3 Scuola, cultura, informazione. In coerenza con la sua aspirazione al controllo totale della società, Il fascismo dedicò molta attenzione alla scuola, già ristrutturata nel 1923 con la riforma Gentile: che mirava ad accentuare la severità degli studi e sanciva il primato delle discipline umanistiche,considerate il principale strumento di formazione della classe dirigente. Una volta consolidatosi,il regime si occupò di fascistizzare l’istruzione con il controllo degli insegnanti e dei libri scolastici e, dal 1930, l’imposizione di testi unici per le elementari. L’università godette di maggiore autonomia, ma non la usò per contestare il fascismo. Nel 1931 fu imposto a tutti i docenti il giuramento di fedeltà al regime; chi si rifiutò (pochi) perse la cattedra. In generare gli ambienti di alta cultura aderirono al regime. Capillare fu il controllo del regime sull’informazione e sui mezzi di comunicazione di massa. Affidata istituzionalmente al ministero per la Cultura popolare → Minculpop, creato nel 1937 a imitazione di quello nazista per la propaganda, la sorveglianza sulla stampa era in realtà esercitata personalmente da Mussolini. Il controllo sulle trasmissioni radiofoniche fu affidato, dal 1927, a un ente di Stato denominato Eiar (progenitore della Rai). La radio ebbe una diffusione lenta in Italia. Dopo il 1935 si affermò come essenziale canale di propaganda, e vennero installati apparecchi nelle scuole, negli uffici pubblici e nelle sedi di partito. Anche il cinema fu oggetto privilegiato del regime, e ricevette sovvenzioni, che avevano lo scopo di favorire la produzione nazionale e di limitare la penetrazione dei film statunitensi. Sulla produzione cinematografica il regime esercitò un controllo elastico, volto più a bandire le pellicole politicamente e socialmente scabrose che non a introdurvi temi di propaganda; per questo bastavano i cinegiornali d’attualità, prodotti da un ente statale, l’Istituto Luce, e proiettati nella sale. 6.4 La politica economica e il mondo del lavoro. In campo economico, la formula fatta propria dal regime fu “corporativismo”: idea che nasce nel Medioevo, dall’esperienza delle corporazioni di arti e mestieri, e consisteva nella gestione diretta dell’economia da parte delle categorie produttive, organizzate in “corporazioni” distinte per settori di attività e comprendenti sia imprenditori e il lavoratori dipendenti. Però un vero sistema corporativo non vide mai la luce e rimasero un puro progetto. Quando infine, le corporazioni vennero istituite nel 1934, tutto si risolse nella creazione di una nuova burocrazia sovrapposta a quelle già esistenti e prima di rappresentatività in quanto designata dall’alto. Il fascismo però riuscì a realizzare interventi nell’economia, ma non inventò un sistema nuovo, e non mantenne nemmeno una politica economica coerente. Nei suoi primi anni di governo, dal 1922 al 1925 il fascismo aveva adottato una linea liberista, di incoraggiamento all’iniziativa privata, che provocò incremento produttivo, un riaccendersi dell’inflazione, un crescente deficit negli scambi con l’estero e una diminuzione della lira. Mariangela Lamanna Nel 1925 venne inaugurato un nuovo corso fondato sul protezionismo, sulla deflazione, sulla stabilizzazione monetaria e su un più accentuato intervento statale nell’economia. Prima misura fu l’aumento del dazio sui cereali, volta a favorire la produzione cerealicola nazionale, che fu accompagnata da una campagna propagandistica detta “battaglia del grano” e all’impiego di tecniche più avanzate, che avrebbe favorito anche le industrie produttrici di concimi e macchine agricole. Lo scopo fu in parte raggiunto, ma il prezzo fu il sacrificio di settori, come l’allevamento, e delle colture rivolte all’esportazione. Seconda misura fu quella per la rivalutazione della lira. Nel 1926 il duce fissò l’obiettivo “quota novanta”, ossia 90 lire per una sterlina, come prima del primo conflitto mondiale. L’obiettivo fu raggiunto, grazie a una restrizione del credito e con l’aiuto di un prestito concesso da banche statunitensi. I prezzi diminuirono e la lira recuperò il potere d’acquisto perduto, ma i lavoratori si videro tagliare i salari, molte piccole e medie aziende agricole entrarono in crisi, perché strozzate dal calo dei prezzi dei loro prodotti. Nel settore industriale furono colpite le imprese che lavoravano per l’esportazione. Tutto ciò avvantaggiò le grandi industrie e favorì i processi di concentrazione aziendale. Le conseguenze della crisi mondiale furono in Italia meno drammatiche che in altri paesi europei, ma la recessione si fece sentire: il commercio con l’estero si ridusse e l’agricoltura un nuovo colpo a causa del calo delle esportazioni e dell’ulteriore tracollo dei prezzi. La disoccupazione aumentò. La risposta del regime: sviluppo dei lavori pubblici come strumento per rilanciare la produzione e l’intervento diretto dello Stato a sostegno dei settori in crisi. Furono realizzate strade e nuovi edifici pubblici, fu varato un “risanamento” del centro storico della capitale, che provocò la distruzione di antichi quartieri, e fu avviato un programma di bonifica integrale, che avrebbe dovuto portare al recupero e alla valorizzazione delle terre incolte. Il progetto, ostacolato da difficoltà finanziarie e dalle resistenze dei grandi proprietari, fu attuato parzialmente. Fu però portato a termine, dal 1931 al 1934, la bonifica dell’Agro Pontino, furono trasferiti contadini provenienti da zone depresse e furono costruiti villaggi rurali e “città nuove” come Sabaudia e Littoria (l’odierna Latina). In difficoltà erano soprattutto le grandi banche “Banca Commerciale” e “Credito italiano”, che nel dopoguerra avevano assunto il controllo di importanti gruppi industriali. Per evitare che la crisi di questi gruppi trascinasse con sé le banche, il governo intervenne creando nel 1931 un nuovo istituto di credito → l’Istituto mobiliare italiano (Imi), col compito di sostituire le banche in difficoltà nel sostegno alle industrie in crisi, e nel 1933 all’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), che assumeva il controllo di imprese italiane, fra cui l’Ansaldo, l’Ilva e la Terni. Queste scelte non si tradussero in una fascistizzazione dell’economia, poiché Mussolini si affidò a tecnici, come esperti di agraria. Già nella metà degli anni ‘30 l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi, e quindi il regime si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari. Nel 1935 Mussolini decise di insistere con la politica “autarchica”, consistente nella ricerca di una maggiore autosufficienza economica, soprattutto nel campo dei prodotti e delle materie prime, utili in caso di guerra: più intenso sfruttamento del sottosuolo, incoraggiamento alla ricerca applicata nel campo delle fibre artificiali e dei combustibili sintetici. I risultati furono mediocri. Le spese militari sottrassero risorse ai consumi e agli investimenti produttivi, accentuando l’isolamento economico del paese, ottenendo effetti positivi solo nell’industria bellica. Cominciava per l’Italia una stagione di economia di guerra, durata fino al conflitto mondiale. 6.5 La politica estera e l’Impero Fino ai primi anni ‘30 le aspirazioni imperiali del fascismo si tradussero in una generica contestazione dell’assetto europeo uscito dai trattati di Versailles; ciò almeno fino al 1935 quando l’Italia fascista decise di attaccare l’Impero etiopico, allora unico Stato indipendente del continente africano. A spingere Mussolini verso l’impresa furono motivi di politica internazionale e interna: con la conquista dell’Etiopia intendeva dare uno sfogo alla vocazione imperiale del fascismo, ma anche creare un’occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi economici e sociali del paese. Quando l’Italia diede avvio all’invasione dell’Etiopia, Francia e Gran Bretagna chiesero al Consiglio della Società delle Nazioni di adottare sanzioni economiche, consistenti nel divieto di esportare in Italia merci necessarie all’industria di guerra; sanzioni che ebbero efficacia limitata, sia perché il blocco non era esteso alle materie prime, sia perché non impegnava gli Stati che non facevano parte della Società delle Nazioni, come gli Stati Uniti e la Germania, ma crebbero la frattura fra il regime fascista e le democrazie europee e consentirono a Mussolini di presentare l’Italia come vittima di una congiura internazionale. Mariangela Lamanna determinarono una situazione intricata. Il nazionalismo arabo, in quegli anni, era ancora un movimento in embrione. Nel 1915 i britannici si accordarono con uno di questi capi, Hussein Ibn Ali, emiro di Mecca (città santa dell’islam), e fondatore della dinastia hashemita, promettendo l’appoggio alla creazione di un grande regno arabo indipendente comprendente l’Arabia, la Mesopotamia e la Siria, in cambio di una collaborazione militare contro l’Impero ottomano. Nel 1916 Hussein lanciò le sue tribù beduine in una “Guerra santa” contro i turchi.In realtà le vere intenzioni della Gran Bretagna sul futuro dei territori arabi sottratti all’Impero ottomano erano diverse. Nel 1916 francesi e britannici firmarono un patto segreto, gli accordi Sykes-Picot, per la spartizione della zona compresa tra la Turchia e la penisola arabica: alla Francia la Siria e il Libano, alla Gran Bretagna la Mesopotamia e la Palestina. Come compenso alla rinuncia al grande regno arabo, la Gran Bretagna creò due nuovi Stati, governati dalla dinastia hashemita, sotto controllo britannico: l’Iraq (l’antica Mesopotamia) e la Transgiordania (l’attuale Giordania). Nel 1932 nacque un altro Stato, l’Arabia Saudita, fondato nella penisola arabica dal sovrano Ibn Saud, che aveva sottratto alla dinastia hashemita il controllo dei luoghi santi dell’islam. In Palestina il governo britannico aveva riconosciuto con la cosiddetta Dichiarazione Balfour, nel 1917, il diritto del movimento sionista a creare qui una sede nazionale per il popolo ebraico; essa faceva salvi i “diritti civili e religiosi” delle comunità non ebraiche, ma mirava principalmente a legittimare l’immigrazione sionista. Tra il 1920-21 scoppiarono i primi violenti scontri tra i coloni ebrei e i residenti arabi. Negli anni ‘30, dopo l’avvio delle persecuzioni razziali in Europa, il flusso degli immigrati ebrei aumentò, suscitando tensioni e risentimento nella popolazione araba. Era l’inizio di un conflitto che si sarebbe protratto per tutto il Novecento e oltre. 7.4 La lotta per l’indipendenza in India. Fra le grandi potenze coloniali, la Gran Bretagna fu la prima che si orientò verso un ridimensionamento della sua posizione imperiale, attraverso la concessione graduale di autonomie ai suoi possedimenti extraeuropei. Questa tendenza la portò alla rinuncia al protettorato britannico sull’Egitto, che fu trasformato nel 1922 in regno autonomo e ottenne nel 1936 la piena indipendenza, anche se la Gran Bretagna conservava la presenza militare nel paese, e controllava, insieme alla Francia, la Compagnia del Canale di Suez. Tappa importante fu rappresentata dalla Conferenza imperiale che si tenne a Londra nel 1926, e nella quale i dominions bianchi (Canada, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda), che già godevano di una semi-indipendenza, furono riconosciuti come “comunità autonome ed uguali, unite dal comune vincolo di fedeltà alla Corona d’Inghilterra e membri del Commonwealth britannico”, ossia una libera federazione fra Stati. Il paese in cui il processo di emancipazione assunse valore esemplare fu l’India: la più importante, sul piano economico e strategico, fra le colonie britanniche, quella il cui controllo era considerato essenziale da parte del Regno Unito, ma anche quella in cui le aspirazioni all’indipendenza si sono fatte sentire maggiormente, già prima della Grande Guerra, nel Congresso nazionale indiano: un organismo nato alla fine dell’Ottocento come rappresentanza dei notabili. Grazie all’aiuto dato dall’India alla Gran Bretagna nella guerra, quest’ultima le promise un lento avvio verso l’indipendenza nel 1917 che però non bastò a bloccare lo sviluppo del movimento nazionalista. Quando nel 1919 le truppe britanniche repressero una manifestazione popolare di protesta, la frattura fra colonizzatori e colonizzati si approfondì irrimediabilmente. Nel Congresso nazionale indiano, trasformatosi nel 1920 in partito politico, e fra la popolazione di religione induista, riscuoteva sempre maggiori consensi la predicazione di un leader indipendentista nuovo, Gandhi. Adottando forme di lotta basate sulla resistenza passiva, sulla non violenza e sul rifiuto di collaborazione con i dominatori, e avendo come obiettivo la rottura del sistema delle caste, Gandhi acquistò in breve tempo popolarità e fece del nazionalismo indiano un movimento di massa. I britannici risposero alternando gli interventi repressivi alle concessioni. Nel 1919, con il Government of India Act, si diede maggiore spazio agli indiani nei ranghi dell’amministrazione, fu attuato un limitato decentramento e venne consentita a una minoranza l’elezione di propri organismi rappresentativi. Nel 1935 il diritto di voto fu esteso al 15% della popolazione e vennero ampliati gli spazi di autonomia delle singole province. La piena indipendenza si sarebbe realizzata dopo la seconda guerra mondiale. Mariangela Lamanna 7.5 La guerra civile in Cina. Per tutta la prima metà del Novecento, la Cina fu sconvolta dalla guerra civile. La Repubblica democratica creata dalla rivoluzione del 1911 ebbe vita travagliata. Il suo padre fondatore, Sun Yat-sen, leader del Kuomintan,il Partito nazionalista cinese , fu costretto all’esilio dopo due anni di governo. Il regime autoritario imposto dal generale Yuan Shi-kai nel 1913 non assicurò al paese tranquillità, anzi, venuto meno il potere imperiale, la Cina precipitò in una situazione di semi-anarchia. Il governo non aveva forza sufficiente né per imporre la sua autorità alle province, dove i governatori militari, cosiddetti “signori della guerra”, si comportavano come capi feudali, né per opporsi al Giappone, che entrato in guerra contro la Germania nel 1915, mirava a sostituirsi alle potenze europee nel controllo delle zone più ricche della Cina. Nel 1917 la Cina prese la decisione di intervenire nel conflitto a fianco dell’Intesa, ma non servì a molto. Alla conferenza di pace, come Stato vincitore, la Cina fu sacrificata dalle grandi potenze occidentali che riconobbero al Giappone il diritto di subentrare alla Germania sconfitta nel controllo economico della regione dello Shantung. Questa ennesima umiliazione ebbe l’effetto di risvegliare l’agitazione nazionalista, che si raccolse attorno al Kuomintang e a Sun Yat-sen, tornato dall’esilio. Nel 1919 scoppiarono dimostrazioni di protesta; alla base di queste agitazioni c’era l’alleanza fra la gioventù intellettuale, la borghesia industriale e commerciale e la classe operaia. Sun Yat-sen, che nel 1921 formò un proprio governo a Canton, ebbe anche l’appoggio del Partito comunista cinese, fondato nello stesso anno da un gruppo di intellettuali, fra i quali Mao Zedong, influenzati dalla rivoluzione russa. Anche l’Unione Sovietica sostenne attivamente la causa di Sun Yat-sen, e inviò aiuti economici e militari al governo di Canton e indusse il Partito comunista ad aderire in blocco al Kuomintang. L’alleanza tra nazionalisti e comunisti non sopravvisse alla morte, nel 1925, di Sun. Il suo successore, Chiang Kai-shek, esponente dell’ala destra del Kuomintang, era più diffidente nei riguardi dei comunisti. I contrasti cominciarono nel 1926, quando Chiang iniziò la campagna per scacciare il governo di Pechino. Nel 1927 a Shanghai, massimo centro industriale cinese e roccaforte dei comunisti, le milizie militari furono sconfitte dalle truppe di Chiange il Partito comunista fu messo fuori legge. Dopo aver conquistato Pechino nel 1928, Chiang cercò di riorganizzare l’economia e l’apparato statale secondo modelli di tipo occidentale, venati di autoritarismo. Il suo progetto però si scontrava contro la difficoltà data da un paese diviso. Da un lato c’erano i comunisti che, sconfitti nelle città, cominciarono a organizzare “basi rosse” nelle campagne; dall’altro sopravvivevano in alcune province i “signori della guerra”, aiutati dal Giappone, che era ostile al potere statale in Cina. Nel 1931 i giapponesi invasero la Manciuria, regione sotto la sovranità cinese ai confini della Siberia, e qui vi crearono uno Stato- fantoccio → il Manchukuo. L’inerzia di Chiang e lo scarso appoggio fornito dalle potenze occidentali diedero nuovo spazio all’azione dei comunisti. Decisiva fu la strategia di Mao Zedong, che rovesciò la teoria marxista in modo radicale. All’inizio degli anni ‘30 i comunisti fecero proseliti fra i contadini, delusi dalla mancata riforma agraria. Nel 1931 fu fondata una “Repubblica sovietica cinese”. Costretto a combattere su due fronti, Chiang decise di dare la priorità alla lotta contro i comunisti, e lanciò nel 1931-34 campagne militari. Militanti, accerchiati nello Hunan, decisero di evacuare e di trasferirsi nella regione settentrionale dello Shanxi. Ne giunsero a destinazione meno di 10 mila, dopo una marcia durata un anno. Con la “lunga marcia”, Mao Zedong riuscì a salvare il nucleo dirigente comunista e a ricostituire il partito proprio nelle zone in cui c’era la minaccia giapponese. Tuttavia, parte dell’esercito iniziò a chiedere la fine della guerra civile e si giunse così nel 1937 a un accordo stipulato fra comunisti e nazionalisti, che si impegnavano a costituire un fronte unito contro il nemico giapponese. 7.6 L’imperialismo giapponese. La partecipazione alla prima guerra mondiale aveva consentito al Giappone di consolidare la sua posizione di massima potenza asiatica. Il dinamismo dell’economia, in particolare le grandi concentrazioni industriali e finanziarie, ovvero gli zaibatsu, la crescita demografica e la struttura della classe dirigente, spingevano il Giappone verso una politica imperialistica, con obiettivo: la sottomissione della Cina. Questa politica era giustificata con le esigenze di un paese troppo popoloso rispetto alla sua limitata estensione territoriale, ma anche sulla rivendicazione di una superiorità culturale e razziale. Durante il primo decennio postbellico, le spinte imperialistiche si conciliarono col modello liberale. Già negli anni ‘20, però, fecero la loro comparsa movimenti autoritari di destra, ispirati al modello dei fascismi Mariangela Lamanna occidentali e alla cultura tradizionalista (difesa delle antiche strutture sociali e familiari, culto dell’imperatore come suprema autorità). Queste tendenze furono favorite sia dalla grande crisi, sia dalle preoccupazioni suscitate dai progressi dei partiti di sinistra nelle prime elezioni a suffragio universale, che si tennero nel 1928. Cominciò così per il Giappone, in concomitanza con gli Stati europei, una stagione di autoritarismo, che sfociò in forme fasciste con un colpo di Stato, represso dall’esercito nel 1936, divenuto poi regime a partito unico nel 1940, e che si risolse in una repressione antioperaia. Con l’appoggio dell’imperatore Hirohito, al trono dal 1926, gli zaibatsu assunsero peso nelle scelte politiche giapponesi; infatti gestirono la politica imperialistica in Estremo Oriente e fecero firmare il patto anti-Comintern con la Germania. 7.7 L’Oriente in guerra. Nel luglio 1937 uno scontro fra militari giapponesi e cinesi, presso Pechino, fornì al governo nipponico il pretesto per lanciare un attacco in forze contro la Cina. L’Estremo Oriente asiatico entrò da questo momento in stato di guerra, anticipando lo scontro mondiale. I due erano in forte dislivello militare e industriale, che vedeva il Giappone in vantaggio da questo punto di vista. Nel 1937 i giapponesi raggiunsero Nanchino, allora capitale della Cina, e la occuparono: dovuti soprattutto ai bombardamenti giapponesi, i morti furono moltissimi, e in gran parte civili, tanto che l’evento fu denominato “stupro di Nanchino”. Nel 1939 il Giappone occupava parte della zona costiera, il Nord-Est industrializzato e le città più importanti, a cominciare da Nanchino, dove fu insediato un governo-fantoccio. Da qui in poi la guerra cino-giapponese cominciò ad intrecciarsi con il secondo conflitto mondiale, che dal 1941 avrebbe avuto in Asia orientale un teatro decisivo. 7.8 L’Africa coloniale. I nuovi fermenti politici che si manifestarono negli anni fra le due guerre interessarono solo marginalmente la parte del continente africano chiamata “Africa nera” o “Africa Subsahariana”. Nonostante il miglioramento delle condizioni sanitarie (causa principale dello sviluppo demografico del continente), la lenta diffusione dell’istruzione di base, l’aumentata partecipazione al commercio internazionale e la crescita dei grandi centri urbani, la condizione (s.) di marginalità economica e di subalternità politica delle popolazioni africane, escluse dalla partecipazione al governo dei loro paesi, rimase sostanzialmente immutata. Tuttavia, qualcosa cominciava a cambiare. Il servizio militare offriva la possibilità ai giovani di uscire dalle comunità di villaggio ed era occasione per fare nuove esperienze e di socializzare. Nacquero così, negli anni ‘20, le prime organizzazioni autonome dei nativi: la Young Baganda Association in Uganda, il National Congress of British West Africa in Ghana, la East Africa Association in Kenya, il National Democratic Party in Nigeria, e altre. Fra il 1919 e il 1927 si tennero, in capitali europee, quattro congressi panafricani, dove furono lanciate per la prima volta proposte di federazione fra le colonie. Il tema dell’indipendenza era ancora assente da questi dibattiti, dove si affrontavano questioni specifiche, come la lotta contro la discriminazione razziale. 7.9 L’America Latina fra le due guerre mondiali. Negli anni ‘20 e ‘30 anche i paesi latino-americani risentirono della grande crisi economica, che ridusse i tradizionali flussi commerciali e fece crollare i prezzi delle materie prime e delle derrate alimentari, ovvero prodotti agricoli di largo consumo. Gli effetti furono accentuati dallo stretto legame con gli Usa, che si erano sostituiti alla Gran Bretagna nel ruolo di potenza egemone dell’intero continente. Alcuni Stati subirono passivamente la crisi, altri come il Brasile, l’Argentina, il Cile e il Messico, reagirono promuovendo un processo di diversificazione produttiva, che consentì lo sviluppo di settori dell’industria manifatturiera per sopperire alle esigenze del mercato interno. Questi mutamenti influenzarono anche gli equilibri politici dei singoli Stati; nei paesi ancora legati al sistema della monocoltura continuarono a prevalere le vecchie oligarchie terriere, in un’alternanza di instabili regimi liberali e dittature personali, da militari come Batista a Cuba (1933) e Somoza in Nicaragua (1936), destinate a durare. Nei paesi in via di industrializzazione, invece, dove era già emerso un nucleo di classe operaia, la crisi ebbe effetti più complessi. Anche gli Stati più importanti sperimentarono forme di autoritarismo. Nel 1930, in Argentina un colpo di Stato militare rovesciò le istituzioni democratiche: seguì una serie di governi conservatori. In Brasile una rivolta popolare contro le vecchie oligarchie, appoggiata dalle forze armate, portò al potere Vargas, liberal-progressista, governatore del Rio Grande do Sul, uno degli Stati in cui era divisa la Repubblica federale brasiliana. Mariangela Lamanna molto dura. L’esito fallimentare provocò un terremoto nei vertici militare, tant’è che Badoglio fu costretto alle dimissioni, e suscitò nel paese una diffusa sfiducia. A dicembre i britannici passarono al contrattacco sul fronte libico, e in poche settimane conquistarono l’intera Cirenaica, infliggendo agli italiani molte perdite; Mussolini fu costretto ad accettare l’aiuto della Germania. Nel 1941, con l’arrivo dei primi reparti tedeschi, le truppe dell’Asse cominciarono una controffensiva, che portò alla riconquista della Cirenaica. Intanto l’Africa orientale italiana, ovvero l’Etiopia, la Somalia e l’Eritrea, stava cadendo nelle mani della Gran Bretagna. Anche nei Balcani il fallimento delle iniziative italiane finì con l’aprire la strada all’intervento della Germania. Nel 1941 la Jugoslavia e la Grecia furono travolte, mentre i britannici erano costretti a ritirarsi. L’Italia si trovò quindi a svolgere, assieme alla Germania, il ruolo di potenza occupante nei Balcani, vedendosi assegnate una parte della Slovenia, zone della Croazia, della Dalmazia, del Montenegro e parte del territorio greco. Hitler non aveva più rivali in Europa ed si dedicò a un nuovo obiettivo: la conquista dello “spazio vitale” a Est ai danni dell’Urss. 8.5 1941: l’entrata in guerra di Urss e Stati Uniti. Con l’attacco tedesco all’Unione Sovietica la guerra entrò in una nuova fase: un altro fronte si aprì in Europa orientale, e la Gran Bretagna non fu più sola a combattere. Lo scontro si radicalizzò. Stalin si illuse che Hitler non avrebbe scatenato l’attacco a Est prima di aver chiuso la partita con la Gran Bretagna. Quando il 22 giugno 1941 l’offensiva tedesca, denominata in codice “operazione Barbarossa”, scattò su un fronte che partiva dal Baltico e arrivava fino al Mar Nero, i sovietici furono colti impreparati. All’offensiva prese parte anche un corpo di spedizione italiano. Tuttavia, l’attacco decisivo verso Mosca fu sferrato troppo tardi, e fu bloccato dal maltempo. In dicembre i sovietici lanciavano la loro prima controffensiva, allontanando la minaccia da Mosca. In questo momento i tedeschi erano ancora padroni dell’Ucraina, della Bielorussia e delle regioni baltiche. Ma Hitler aveva mancato l’obiettivo di mettere fuori causa l’Urss ed era costretto a tenere l’esercito immobilizzato nelle pianure russe, alle prese con un duro inverno. Guidata personalmente da Stalin la guerra difensiva dei sovietici risultò efficace. Si trasformò così in una guerra d’usura, in cui l’elemento decisivo era costituito dalla capacità di compensare il logorio degli uomini e dei materiali; in questo tipo di guerra la Germania era destinata a perdere il vantaggio dovuto alla superiorità tecnica e strategica. Allo scoppio del conflitto, gli Stati Uniti avevano ribadito la loro linea di non intervento, ma una volta rieletto nel 1940 Roosevelt si impegnò in una politica di aperto sostegno economico alla Gran Bretagna. Nel 1941 fu approvata una legge, detta “degli affitti e prestiti”, che consentiva la fornitura di materiale bellico a quegli Stati la cui difesa fosse considerata vitale per gli interessi americani. La marina militare Usa fu incaricata di scortare fino all’Islanda aiuti, e fu autorizzata a rispondere a eventuali attacchi. Questa politica ebbe il suo suggello ufficiale nell’incontro fra Roosevelt e Churchill nell’agosto 1941 per la creazione della cosiddetta Carta Atlantica → un documento in otto punti, in cui i due statisti ribadivano la condanna dei regimi fascisti e fissavano le linee di un nuovo ordine democratico da costruire a guerra finita: rispetto dei principi di sovranità popolare e di autodecisione dei popoli, libertà dei commerci, libertà dei mari, cooperazione internazionale, rinuncia all’uso della forza nei rapporti fra gli Stati. A trascinare gli Stati Uniti nel conflitto fu l’aggressione improvvisa subita nel Pacifico da parte del Giappone: principale alleato asiatico di Germania e Italia, cui era legato, dal 1940, da un patto di alleanza militare → patto tripartito. Il Giappone aveva approfittato del conflitto europeo per allargare le sue aspirazioni espansionistiche a tutti i territori del Sud-Est asiatico. Nel 1941, i giapponesi invasero l’Indocina francese, cosicché Usa e Gran Bretagna reagirono decretando il blocco delle esportazioni verso il Giappone. A dicembre, l’aviazione giapponese attaccò, senza previa dichiarazione di guerra, la flotta degli Stati Uniti ancorata a Pearl Harbor (Hawaii) e la distrusse. I giapponesi, nel 1942, controllavano Filippine, Malesia e Birmania britanniche, e Indonesia olandese; e minacciavano l’Australia e l’India, costringendo la Gran Bretagna a distogliere forze dal Medio Oriente. Pochi giorni dopo, anche Germania e Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti: il conflitto diveniva mondiale. Gli anglo-americani e i sovietici si posero subito il problema di elaborare una strategia comune nella conferenza che si tenne a Washington nel 1941-42, nella quale tutte le 26 nazioni in guerra contro Germania, Italia e Giappone, quindi anche paesi del Commonwealth e rappresentanti di Stati occupati dai tedeschi, sottoscrissero Mariangela Lamanna il patto delle Nazioni Unite: gli alleati si impegnavano a tener fede ai principi della Carta Atlantica, a combattere le potenze fasciste e a non concludere con esse paci separate. 8.6 Resistenza e collaborazionismo nei paesi occupati. Nel 1942 le potenze dell’Asse Roma-Berlino-Tokyo raggiunsero la loro massima espansione territoriale. Tra l’altro contavano anche degli alleati “minori”: Finlandia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovacchia, Croazia e Francia di Vichy. Olanda, Norvegia e Boemia erano governate da “alti commissari” tedeschi. Spagna, Turchia e Svezia, formalmente neutrali, erano di fatto incluse. L’Italia continuava ad avere un ruolo marginale. Sia la Germania sia il Giappone cercarono di costruire nelle zone sotto il loro controllo un “nuovo ordine”, basato sulla supremazia della nazione eletta. Mentre il Giappone si appoggiò ai movimenti indipendentisti, la Germania non concesse nulla alle aspirazioni dei popoli ad essa soggetti, ma solo totale subordinazione, o sterminio. Trattamento duro e inumano fu riservato ai popoli slavi, considerati razza inferiore e destinati, nei piani di Hitler, a una condizione di semi-schiavitù: l’Europa orientale doveva diventare colonia agricola del Reich, ogni traccia di industrializzazione doveva essere cancellata, e l’istruzione superiore bandita. Il sistema di sfruttamento, di terrore e di sterminio portò alla Germania vantaggi, come una riserva di forza-lavoro gratuita e materie prime, però costrinse i tedeschi a mantenere nei territori occupati contingenti di truppe: ciò suscitò nelle popolazioni soggette moti di ribellione. Episodi di resistenza all’occupazione si manifestarono già nella prima fase della guerra in tutti i paesi invasi dai tedeschi, ma le file della Resistenza si ingrossarono dopo l’attacco tedesco all’Urss, che portò i comunisti di tutta Europa a impegnarsi attivamente contro il nazismo. Comunque, non sempre le diverse forze nella Resistenza riuscirono a stabilire una linea d’azione comune. Sebbene Stalin, nel 1943, decise lo scioglimento del Comintern, i comunisti erano guardati con sospetto dagli anglo-americani. Accordi unitari furono ugualmente raggiunti in Francia e in Italia, ma la collaborazione si rivelò impossibile in quei paesi dell’Europa orientale e balcanica, dove più fondato era il timore che i comunisti fungessero da strumenti per piani egemonici dell’Urss, come la Jugoslavia. Tuttavia, la Resistenza rappresentò solo una faccia della realtà dell’Europa occupata: qui vi era anche una parte consistente della popolazione che accettò di collaborare con i dominatori. In alcuni paesi i tedeschi si servirono di esponenti dei fascismi locali, in altri trovarono il sostegno di movimenti separatisti. 8.7 La Shoah. Prima ancora che il conflitto mondiale avesse inizio, nel 1939, Hitler aveva ribadito la necessità di liberare la Germania dalla presenza degli ebrei. La minaccia hitleriana divenne realtà già nelle prime fasi del conflitto: prima ci furono i massacri indiscriminati, poi la deportazione degli ebrei in appositi campi di lavoro e di prigionia, e infine dal 1941, ovvero successivamente l’invasione dell’Urss, anche l’eliminazione fisica dei deportati. Cominciava così quell’operazione di sterminio pianificato, che sarebbe stata definita Shoah =catastrofe. Inizialmente furono reparti speciali di SS a eseguire fucilazioni di massa, come nel 1941 nella fossa di Babi Yar, in Ucraina. Ma questa procedura richiedeva tempi lunghi. In Polonia erano state impiegate, dal 1941, camere a gas mobili su autocarri diesel; intanto era iniziata la costruzione del primo campo di sterminio. Soprattutto ad Auschwitz cominciarono a giungere, nei carri bestiame piombati, i deportati provenienti da tutta Europa: all’arrivo veniva compiuta una selezione tra i più deboli, gli anziani e i bambini, che venivano immediatamente portati nelle camere a gas alimentate dai fumi sprigionati da un insetticida a base di acido cianidrico. Nel complesso gli ebrei sterminati furono 6 milioni. Alle vittime ebree si devono aggiungere anche gli zingari, sinti e rom, ma anche prigionieri sovietici e civili polacchi. L’ossessione ideologica antiebraica non si spense nemmeno negli ultimi mesi di guerra. La condanna di questi orrori sarebbe diventata nel tempo un principio basilare della coscienza occidentale e avrebbe dato impulso allo sviluppo di una giustizia penale internazionale incaricata di colpire i responsabili dei “crimini contro l’umanità. 8.8 Le battaglie decisive. Fra il 1942 e il 1943, l’avanzata delle potenze dell’Asse si arrestò e la guerra subì una svolta decisiva. Nel Pacifico la spinta offensiva dei giapponesi fu fermata dagli americani, nelle due battaglie del Mar dei Coralli e delle isole Midway. I giapponesi rinunciarono alle azioni offensive, limitandosi a difendere. Intanto nel 1942 nell’Atlantico, dove i tedeschi avevano condotto la guerra sottomarina contro i convogli che trasportavano armi e Mariangela Lamanna approvvigionamenti dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, gli alleati riuscirono a limitare le perdite. A segnare la svolta furono due grandi battaglie di terra combattute in Egitto e in Russia: 1. Nel 1943, in Nord Africa, le truppe italo-tedesche e quelle britanniche si affrontarono, con conseguente ritirata fino alla Tunisia degli italo-tedeschi; 2. Nella città industriale di Stalingrado, punto nodale della difesa sovietica nel settore sud-est, ci fu lo scontro decisivo fra tedeschi e sovietici, dove all’attacco tedesco seguì il contrattacco sovietico, che chiuse i primi in una morsa. Hitler, quindi, ordinò la resistenza a oltranza, sacrificando un’intera armata, che fu costretta ad arrendersi. Frattanto, nel novembre 1942, un contingente anglo-americano era sbarcato in Algeria e in Marocco, accerchiando le forze dell’Asse. La strategia di Churchill si scontrava con le richieste di Stalin, che premeva per uno sbarco immediato nell’Europa del Nord, ma prevalse Churchill. Nella conferenza che si tenne a Casablanca, in Marocco, nel 1943, si decise che per prima sarebbe stata attaccata l’Italia. 8.9 Dallo sbarco in Sicilia allo sbarco in Normandia. La campagna militare contro l’Italia ebbe inizio nel giugno 1943, con la conquista alleata dell’isola di Pantelleria. Successivamente i contingenti anglo-americani sbarcavano in Sicilia e si impadronivano dell’isola mal difesa; ciò determinò il crollo del regime fascista, ma anche l’occupazione da parte dei tedeschi dell’Italia centro-settentrionale. Intanto i sovietici dell’Armata rossa, dopo aver respinto l’ultima offensiva tedesca nella battaglia di Kursk, iniziarono un’avanzata che si sarebbe conclusa solo nel 1945 con la conquista di Berlino. Queste vittorie consentirono all’Unione Sovietica di accrescere il suo peso in seno alla “grande alleanza” anti-nazista: il suo nuovo ruolo emerse nella conferenza interalleata di Teheran, dove Stalin ottenne dagli anglo-americani l’impegno per uno sbarco in forze sulle coste francesi. tedeschi avevano munito tutta la zona costiera di imponenti fortificazioni difensive, il cosiddetto “vallo atlantico”, e fu perciò necessario un lungo lavoro di preparazione. L’operazione Overlord - questo il nome in codice dello sbarco in Normandia - scattò nel 1944, quando gli attaccanti riuscirono a sbarcare. Gli alleati sfondarono le difese tedesche e dilagarono nel Nord della Francia: in agosto entravano a Parigi, già liberata dai partigiani. Poche settimane, a luglio, prima Hitler era scampato a un attentato organizzato dagli alti ufficiali e da esponenti della vecchia classe dirigente tedesca. 8.10 L’Italia: la caduta del fascismo e l’armistizio. Nel 1943 grandi scioperi operai, partendo da Torino, avevano interessato tutti i maggiori centri industriali del Nord. La protesta era il sintomo di disagio popolare legato al carovita, ai disagi alimentari, e agli effetti dei bombardamenti aerei alleati; ma in essa aveva avuto parte anche l’iniziativa di nuclei clandestini comunisti. A determinare la caduta di Mussolini fu una sorta di congiura che faceva capo al re, e vedeva le componenti moderate del regime unite nel tentativo di portare il paese fuori da una guerra ormai perduta, e di assicurare la sopravvivenza della monarchia. Il pretesto formale per l’intervento del re fu offerto da una riunione del Gran consiglio del fascismo, tenutosi il 25 luglio 1943 e conclusasi con l’approvazione di un documento, in cui si chiedeva al sovrano a riassumere le sue funzioni di comandante supremo delle forze armate. Mussolini fu, quindi, convocato da Vittorio Emanuele III, invitato a rassegnare le dimissioni e arrestato dai carabinieri, mentre come capo del governo fu nominato Badoglio. L’annuncio fu accolto dalla popolazione con manifestazioni di esultanza, e la gente sfogò il suo risentimento contro sedi e simboli del regime. I tedeschi si affrettarono a rafforzare la loro presenza militare nella penisola per prevenire la defezione dell’alleato. Ad ogni modo, Il governo Badoglio proclamò che l’impegno bellico italiano sarebbe continuato, ma intanto allacciò trattative segretissime con gli alleati per giungere a una pace separata: quello che l’Italia dovette sottoscrivere fu un atto di resa, firmato a settembre. Quando l’armistizio fu reso noto con un messaggio radiofonico, questo gettò l’Italia nel caos. Abbandonate a sé stesse, le truppe si sbandarono senza poter opporre ai tedeschi una resistenza organizzata, i quali intanto procedevano all’occupazione dell’Italia centro-settentrionale. Attestatisi su una linea difensiva, la linea Gustav, che andava da Gaeta a Pescara, i tedeschi riuscirono a bloccare l’offensiva alleata fino all’inizio del 1944. Solo nel maggio le armate alleate riuscirono a sfondare le linee nemiche. 8.11 Resistenza e guerra civile in Italia. L’Italia, quindi, fu spezzata in due entità statali distinte, in guerra l’una con l’altra: nelle regioni meridionali già liberate il vecchio Stato monarchico sopravviveva, esercitando la sua sovranità sotto il controllo degli alleati. Nelle regioni settentrionali il fascismo rinasceva sotto la guida dei nazisti. Roma fu dichiarata “città aperta”, ovvero zona non di guerra, nell’agosto 1943, ma solo per quanto riguarda il patrimonio architettonico. Mariangela Lamanna Stati, due superpotenze continentali e multietniche: gli Stati Uniti, per superiorità economica e militare, e l’Unione Sovietica, per l’imponente apparato industriale e militare, ma anche in quanto occupava la metà orientale del continente europeo. Tra Usa e Urss nell’ultimo anno di guerra erano emerse delle divergenze sul futuro del mondo e dell’Europa: gli Stati Uniti puntavano a una ricostruzione nel segno dell’economia di mercato e della libertà degli scambi internazionali, mentre l’Unione Sovietica pretendeva la punizione degli Stati aggressori, con adeguate riparazioni economiche e garanzie territoriali contro ogni possibile attacco, e con questo l’Urss richiedeva di spingere le proprie frontiere il più possibile a Ovest, richiesta che gli alleati occidentali erano disposti ad accogliere. Tuttavia, nell’aprile 1945 Roosevelt morì, e il successore Truman si mostrò meno aperto alle istanze di Stalin. Nei paesi occupati dall’Armata rossa le possibilità che l’influenza sovietica si affermasse nel rispetto della volontà popolare erano nulle, così l’Urss decise di puntare sui partiti comunisti locali. I contrasti emersero già nella conferenza interalleata di agosto, e sei mesi dopo Churchill denunciava il comportamento dei sovietici in Europa orientale, al quale Stalin rispose dandogli del guerrafondaio:la “grande alleanza” era ormai in frantumi. I lavori della conferenza di pace nel 1946 a Parigi si interruppero. Nonostante l’assenza di un accordo generale, furono fissati i nuovi confini fra Urss, Polonia e Germania: l’Unione Sovietica incamerava le ex Repubbliche baltiche, parte della Polonia dell’Est e della Prussia orientale; la Polonia, a sua volta, si rifaceva a ovest a spese della Germania. Fra il 1946-47 i contrasti si approfondirono : Gli Usa si dichiararono pronti ad intervenire militarmente in sostegno dei paesi “minacciati”, e venne esposta nel 1947 la “dottrina Truman”, che non metteva in discussione gli assetti raggiunti, ma mirava a impedire che l’Urss li modificasse a proprio vantaggio. Si parlò per questo di “teoria del contenimento”. Il rapporto conflittuale fra le due superpotenze avrebbe dato origine a un nuovo sistema bipolare imperniato su due blocchi contrapposti: 1. Blocco “occidentale”, che riconosceva l’egemonia degli Usa e si ispirava agli ideali della democrazia, del libero scambio e dell’iniziativa individuale; 2. Blocco “orientale” guidato dall’Urss e organizzato secondo i principi del comunismo e dell’economia pianificata, in base a un’etica anti-individualista della disciplina e del sacrificio. Cominciava così quella che il giornalista americano Lippmann definì “Guerra fredda” → una guerra combattuta con le armi dell’ideologia e della propaganda fra due blocchi che rappresentavano due modelli di governo e ideologie fra loro incompatibili. Le due non si combatterono mai direttamente, perché nel 1949 anche l’Urss si dotò dell’arma nucleare. Un conflitto atomico avrebbe avuto conseguenze terrificanti per il mondo intero. Tuttavia, non mancarono le occasioni di scontro, e risorse immense furono utilizzate nella corsa agli armamenti e nella ricerca a fini militari. Per entrambe il vincolo di politica estera, ossia la subordinazione di ogni istanza alla compattezza dei rispettivi blocchi, divenne prioritario e la lotta politica interna fu condizionata dalle logiche della guerra fredda. Se nei paesi occupati dall’Armata rossa le forze non comuniste erano ridotte al silenzio, in Europa occidentale i partiti legati all’Urss venivano esclusi: unica eccezione la Grecia, dove fra il 1946-49 si combatté una guerra civile fra comunisti e forze di governo filo-occidentali conclusasi con la vittoria delle seconde. 9.3 Ricostruzione e riforme. Mentre il controllo sovietico si esercitava per lo più con mezzi coercitivi, l’influenza degli Stati Uniti assumeva anche le forme di una egemonia culturale: con l’imitazione dei modelli di vita d’oltreoceano si creò un rapporto tra le due sponde dell’Atlantico, e il mito americano parve incarnare le speranze degli europei. Gli Stati Uniti si impegnarono per rilanciare le economie dei paesi europei: nel 1947 fu lanciato un programma di aiuti economici all’Europa, che prese il nome di European Recovery Program (Erp), o anche “piano Marshall”. All’inizio degli anni ‘50 le economie europee, grazie a questi aiuti, superarono i livelli produttivi dell’anteguerra. Il processo di ricostruzione si accompagnò, in una prima fase, a una spinta verso le riforme sociali e al ricorso all’intervento statale. Negli Stati Uniti Truman, rieletto nel 1948, rimase fedele al New Deal, e incrementò i programmi di assistenza; ma il suo programma sociale, denominato → “Fair Deal”, si realizzò solo in parte, a causa delle resistenze del Congresso e dei democratici del Sud, contrari all’integrazione razziale. L’abolizione dei controlli sulle attività industriali e il deficit del bilancio statale provocarono un aumento del costo della vita; ne seguirono un’ondata di agitazioni operaie, cui il Congresso rispose approvando, nel 1947, contro il volere del presidente, il Taft-Hartley Act, che limitava la libertà di sciopero nelle industrie di interesse nazionale. Mariangela Lamanna In Francia, intanto, nazionalizzazioni e politiche sociali furono varate dal governo provvisorio presieduto da De Gaulle nel 1944-45. Nel 1946 fu varato un piano quadriennale → piano Monnet, d’ispirazione liberista. In Italia, invece, gli strumenti di intervento sull’economia introdotti durante il fascismo furono mantenuti in vita, e altri sperimentati In Gran Bretagna, dove nelle elezioni del 1945 vinsero i laburisti di Attlee, il nuovo governo: nazionalizzò le industrie elettriche e carbonifere, la siderurgia e i trasporti; introdusse il salario minimo e il Servizio sanitario nazionale, che prevedeva la gratuità delle prestazioni mediche; riformò la fiscalità in senso progressivo ed estese il sistema di sicurezza sociale. Furono gettate così le basi di uno Stato Sociale o Welfare State, che ambiva ad assistere il cittadino. 9.4 L’Urss e le “democrazie popolari”. Il lancio del piano Marshall irrigidì le contrapposizioni della guerra fredda, in quanto il piano aveva come destinatari tutti i paesi europei, compresi quelli dell’Est, ma i sovietici respinsero il progetto e imposero di fare altrettanto ai paesi dell’Europa orientale. Anche i comunisti dell’Occidente si mobilitarono contro il piano, il che contribuì, in Francia e in Italia, alla rottura delle coalizioni di governo. Per coordinare l’azione dei partiti “fratelli”, Stalin decise nel 1947 la formazione del Cominform, ovvero l’Ufficio d’informazione dei partiti comunisti: prevedeva quindi l’imposizione del modello sovietico ai paesi occupati dall’Armata rossa, realizzata attraverso le forzature delle istituzioni democratiche, che venivano di fatto svuotate dall’attribuzione ai comunisti delle posizioni chiave. Gli altri partiti furono gradualmente sciolti, le elezioni furono manipolate, fino a trasformarsi in plebisciti dall’esito scontato, l’iniziativa privata fu cancellata e tutte le attività economiche furono portate sotto il controllo pubblico. Caso a parte fu la Cecoslovacchia: paese socialmente sviluppato, che in politica estera seguiva una linea non ostile all’Urss e in cui i comunisti avevano ottenuto la maggioranza relativa nelle libere elezioni del 1946. Il governo era guidato dal leader comunista Gottwald, e si fondava sull’alleanza fra i partiti di sinistra. La coalizione si ruppe nel 1948, quando si trattò di decidere l’accettazione degli aiuti del piano Marshall, sostenuta dalla maggioranza e osteggiata dai comunisti, i quali lanciarono una violenta campagna contro le altre forze politiche, costringendo il presidente Benes ad affidare il potere a un nuovo governo da loro controllato. Nel maggio 1948 le elezioni si tennero col sistema della lista unica e il presidente Benes si dimise. Ancora diverso fu il caso della Jugoslavia, dove i comunisti sotto la guida di Tito si imposero da soli al potere con violenza contro i loro avversari. La rottura ci fu nel 1948, quando si manifestarono le ambizioni jugoslave di svolgere un ruolo-guida fra i paesi balcanici: i comunisti jugoslavi furono accusati di “deviazionismo”, ed espulsi dal Cominform. La dirigenza jugoslava, però, resistette e cominciò a sperimentare una linea autonoma in politica estera, basata sull’equidistanza fra i due blocchi, mentre in politica economica si optò per un equilibrio fra statizzazione e autonomia gestionale delle imprese. Dalla fine della guerra, la Germania era divisa in quattro zone di occupazione: statunitense, britannica, francese e sovietica. La capitale Berlino era a sua volta divisa in quattro zone. Usa e Gran Bretagna avviarono, nel 1947, l’integrazione delle loro zone, introducendo una nuova moneta, liberalizzando l’economia e rivitalizzandola con gli aiuti del piano Marshall. Stalin reagì con la prova di forza del blocco di Berlino: nel 1948 i sovietici chiusero gli accessi alla città, nella speranza di indurre gli occidentali ad abbandonare la zona ovest. Gli americani quindi organizzarono un ponte aereo per rifornire la città, finché nel 1949 i sovietici tolsero il blocco, e furono unificate tutte e tre le zone occidentali della Germania, compresa quella francese, e fu proclamata la creazione di una Repubblica tedesca, con capitale Pankow. Ad aprile fu firmato il Patto atlantico, un’alleanza difensiva fra i paesi dell’Europa occidentale, gli Usa e Canada → il patto prevedeva un dispositivo militare, la Nato (Organizzazione del trattato del Nord Atlantico). Nel 1951 aderirono la Grecia e la Turchia, nel 1955 anche la Germania federale. L’Urss rispose stringendo, nel 1955, con i paesi satelliti un’alleanza → il Patto di Varsavia, basata anch’essa su un’organizzazione militare integrata. L’impostazione del modello collettivistico sovietico ebbe conseguenze sull’Europa orientale: i latifondisti furono spazzati via; il ceto contadino si ridusse; il ceto operaio si espanse. Fra il 1946-48, furono nazionalizzate le miniere, le industrie siderurgiche e meccaniche, e l’intero settore commerciale. Inoltre furono lanciati piani di sviluppo con priorità all’industria pesante. La crescita produttiva fu notevole. Questo sviluppo fu, però, condizionato dalla subordinazione delle economie dei paesi “satelliti” a quella dello “Stato-guida” Urss. I tassi di cambio all’interno dell’area del rublo, la quantità e i prezzi dei beni scambiati, furono regolati attraverso il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), fondato a Varsavia Mariangela Lamanna nel 1949. Tra l’altro, il modello di sviluppo imposto comportò una compressione del tenore di vita della popolazione. Tutto ciò fece nascere agitazioni sociali antisovietiche, con protagonista il ceto operaio Per tenere unito il suo “impero”, l’Urss dovette quindi esercitare un controllo forte sui partiti comunisti dei paesi satelliti: furono attuate massicce “purghe” nei confronti dei dirigenti comunisti dell’Est europeo sospettati di velleità autonomistiche. 9.5 Rivoluzione in Cina, guerra in Corea. Dopo il conflitto mondiale, la Repubblica cinese era diventata una potenza vincitrice. Fallito ogni tentativo di accordo, Chiang Kai- shek lanciò, nel 1946-47, un’offensiva militare, contando sul sostegno degli Stati Uniti. I comunisti riuscirono a contrattaccare, con l’appoggio delle masse contadine: il fronte nazionalista si andò sfaldando. Nel 1949 cadde Nanchino, capitale della Cina nazionalista, e Chiang riparò nell’isola di Taiwan. In ottobre fu proclamata a Pechino la nascita della Repubblica popolare cinese, che procedette a misure radicali: le banche e le grandi e medie industrie furono nazionalizzate, così come il commercio estero, mentre la terra fu distribuita fra i contadini. L’Urss stipulò subito col regime un trattato di amicizia e di mutua assistenza, ma la dirigenza sovietica guardò con preoccupazione all’emergere di una nuova potenza capace di contestare all’Urss il suo ruolo di Stato-guida: il contrasto emerse dopo pochi anni. La prova più drammatica dell’estensione del confronto fra i due blocchi si ebbe, nel 1950, in Corea. Alla fine del secondo conflitto mondiale, la Corea, annessa all’Impero giapponese nel 1910, in base agli accordi tra gli alleati, era stata divisa in due zone: • La Corea del Nord, governata da un regime comunista guidato da Kim Il Sung; • La Corea del Sud, in cui si era insediato un governo nazionalista appoggiato dagli Usa. Nel 1950 le forze nordcoreane, armate dall’Urss, invasero il Sud. Gli Stati Uniti reagirono inviando in Corea un contingente, che agiva sotto la bandiera dell’Onu, in quanto il Consiglio di sicurezza aveva condannato la Corea del Nord e autorizzato l’invio di truppe. I nordcoreani furono respinti e gli americani oltrepassarono il 38° parallelo. Fu la Cina di Mao a intervenire in difesa dei comunisti, con l’invio di falsi volontari, che riuscirono a respingere gli americani sulle posizioni di partenza. Nel 1951 Truman accettò di aprire trattative con la Corea del Nord, e nel 1953 si tornò alla situazione precedente, con la Corea divisa in due da una “Zona demilitarizzata”. Gli effetti della crisi coreana furono di ampia portata: l’eventualità di una guerra nucleare sembrava concreta. Da qui ne conseguì un vasto riarmo americano e un’accresciuta sensibilità degli Usa alla minaccia comunista nel Pacifico. 9.6 Il Giappone: da nemico ad alleato. Questi accadimenti in Asia resero sempre più essenziale, nel sistema delle alleanze degli Usa, il ruolo del Giappone: paese che dovette rinunciare alle sue ambizioni espansionistiche, ma anche adeguare le sue istituzioni ai modelli occidentali. La nuova Costituzione, approvata nel 1946, era scritta in realtà da americani, e trasformava l’autocrazia imperiale in una monarchia parlamentare (l’imperatore Hirohito poté conservare il trono). Fu varata, inoltre, una vasta riforma agraria. Il Giappone divenne base logistica e fornitore dell’esercito americano. Dagli anni ‘50 le grandi imprese sarebbero diventate il motore principale di una ripresa economica, favorita dall’assistenza degli Usa, oltre che da una stabilità politica. La quasi assenza di spese militari imposta dal trattato di pace consentì un tasso di investimento elevatissimo. Merito della classe imprenditoriale fu quello di puntare sui settori in crescita e sulle tecnologie d’avanguardia. Ciò permise al Giappone di mantenere per il ventennio 1950-70 un tasso di sviluppo medio del 15% annuo (il triplo di quello dell’Occidente industrializzato) e di invadere il mondo con i prodotti della sua industria. 9.7 Guerra fredda e coesistenza pacifica. Il quinquennio che va dalla crisi di Berlino del 1948 alla fine del conflitto in Corea (1953) fu il periodo più buio della guerra fredda: la minaccia di un conflitto nucleare imminente condizionò negativamente la politica interna delle maggiori potenze coinvolte. Nell’Urss, Stalin rispose accentuando i connotati autocratici e repressivi del suo regime. Tornarono le purghe, mentre i condizionamenti sulla vita intellettuale e artistica si fecero più soffocanti. Negli Usa si scatenò una campagna anticomunista, che ebbe come suo principale ispiratore il repubblicano McCarthy, donde l’espressione “maccartismo”. Nel 1950 il Congresso adottò l’Internal Security Act, strumento giuridico per emarginare coloro che fossero sospettati di filocomunismo o di simpatie di sinistra. Gli eccessi si protrassero fino al 1955. Nelle elezioni presidenziali del 1952 vinse il repubblicano Eisenhower. Nel Mariangela Lamanna L’isola di Cuba, dove si era affermato il regime socialista di Fidel Castro, fu sentita negli Usa come una minaccia alla sicurezza del paese. Kennedy tentò di soffocare il regime cubano, sia boicottandolo economicamente, sia appoggiando i gruppi di esuli anti- castristi che tentarono, nel 1961, una spedizione armata nell’isola: si risolse in un totale fallimento. L’Urss offrì ai cubani assistenza economica e militare, e iniziò anche l’installazione nell’isola di basi di lancio per missili nucleari. Nel 1962 le basi furono scoperte da aerei-spia americani, cosicché Kennedy ordinò un blocco navale attorno a Cuba, per impedire alle navi sovietiche di raggiungere l’isola; alla fine Kruscev cedette e acconsentì a smantellare le basi missilistiche, ma in cambio gli Usa si impegnarono ad astenersi da azioni militari contro Cuba, e a ritirare i loro missili nucleari dalle basi Nato in Turchia. Lo scontro mancato riaprì la strada del dialogo fra le superpotenze: nel 1963 Usa e Urss firmarono un trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, anche se continuarono quelli sotterranei. Nello stesso periodo entrò in funzione una linea diretta di telescriventi, la cosiddetta “linea rossa”, fra la Casa Bianca e il Cremlino, che serviva a scongiurare il pericolo di una guerra “per errore”. Nel 1964 Kruscev fu estromesso da tutte le sue cariche, e sostituito da una nuova “direzione collegiale”. Nel novembre 1963 Kennedy fu ucciso in un attentato; a lui subentrò, e fu poi fu rieletto nel 1964, il vicepresidente Lyndon Johnson. 9.10 Nuove tensioni nei due blocchi: guerra del Vietnam e crisi cecoslovacca. Fra il 1964-75 gli Usa furono coinvolti in una guerra nel Vietnam contro il comunismo. Dopo il ritiro della Francia dalla penisola indocinese, gli accordi di Ginevra del 1954 avevano diviso il Vietnam in due Repubbliche: - quella del Nord, retta dai comunisti di Ho Chi-minh; - quella del Sud, governata da un regime semidittatoriale appoggiato dagli Usa, che cercavano di sostituirsi al dominio francese. Contro il governo del Sud si sviluppò un movimento di guerriglia → il Vietcong, guidato dai comunisti. Preoccupati, gli Usa inviarono nel Vietnam del Sud un contingente. Sotto Johnson, la presenza Usa in Vietnam si trasformò in intervento bellico. Nel 1964, in risposta a un attacco subito, il presidente, con l’autorizzazione del Congresso, ordinò il bombardamento di alcuni obiettivi militari nel Vietnam del Nord. In seguito, i bombardamenti divennero sistematici, mentre crescevano le dimensioni del corpo di spedizione. La continua dilatazione dell’impegno militare americano, detta escalation, non fu sufficiente a domare la lotta dei Vietcong, che godevano di appoggi fra le masse contadine, né a piegare la resistenza della Repubblica nordvietnamita, aiutata da Russia e Cina: l’esercito statunitense entrò in una profonda crisi. Negli Usa il conflitto vietnamita apparve ai settori più progressisti dell’opinione pubblica come una guerra ingiusta, contraria alle tradizioni della democrazia americana. Vi furono manifestazioni, e molti giovani in età di leva rifiutarono di indossare la divisa. Nel 1968 i Vietcong lanciarono una grande offensiva, e in marzo Johnson decise la sospensione dei bombardamenti sul Nord. Il suo successore, il repubblicano Nixon, avviò negoziati ufficiali con il Vietnam del Nord e i Vietcong, e ridusse l’impegno militare statunitense. Tuttavia, allargò le operazioni belliche agli Stati confinanti, il Laos e la Cambogia, nel tentativo di tagliare ai Vietcong le vie di rifornimento. Nel 1973, americani e nordvietnamiti firmarono a Parigi un armistizio, che prevedeva il graduale ritiro delle forze statunitensi. La guerra continuò fino a quando, nel 1975, i Vietcong e le truppe nordvietnamite entrarono a Saigon, capitale del Sud, mentre i membri del governo Usa abbandonavano la città. Poco prima i guerriglieri comunisti cambogiani avevano conquistato la capitale della Cambogia, Phnom Penh, cacciandone il governo filoamericano. Nell’agosto 1975 il Laos cadde nelle mani dei partigiani comunisti. L’Indocina era così diventata comunista. Gli Usa dovettero registrare la prima grave sconfitta della loro storia. Nel frattempo, il gruppo dirigente salito al potere dopo Kruscev, guidato dal nuovo segretario del Pcus Breznev, accentuò la repressione del dissenso. In economia, fu varata una riforma che accordava alle imprese più autonomia, ma i risultati non furono brillanti. In politica estera, attuò una più decisa politica di riarmo, che assorbì quote crescenti del bilancio, a scapito del tenore di vita dei cittadini. Inoltre, fu ribadito con i fatti il vincolo di subordinazione dei paesi satelliti; solo la Romania di Ceausescu riuscì a conquistare una certa autonomia, sia nelle scelte economiche sia in politica internazionale. I dirigenti sovietici si mostrarono, invece, intransigenti nei confronti dell’esperimento di liberalizzazione avviato in Cecoslovacchia nel 1968, e culminato nella cosiddetta “primavera di Praga”. Nel gennaio salì alla segreteria del Partito comunista cecoslovacco Dubcek, leader dell’ala innovatrice: egli varò un programma che cercava di conciliare il mantenimento del sistema economico socialista con l’introduzione di elementi di pluralismo economico e politico (compresa la presenza di diversi partiti), con libertà di stampa e di opinione. Verso primavera, la Cecoslovacchia visse una stagione di radicale rinnovamento politico e di fermento intellettuale. Nonostante l’esperienza cecoslovacca fosse sempre controllata dai comunisti, essa fu sentita come una minaccia dall’Urss. Nell’agosto 1968, l’Urss e altri paesi del Patto di Varsavia occuparono Praga e il resto del paese. Non vi fu una reazione armata, ma solo una efficace resistenza passiva, mentre un congresso clandestino del partito tenuto in una fabbrica a Praga confermava nel loro ruolo i dirigenti riformisti, vanificando il tentativo Mariangela Lamanna sovietico: fu un successo di breve durata. Gli uomini della resistenza furono emarginati e sostituiti, e Dubcek stesso fu sostituito alla guida del partito da Husàk, con il quale cominciò la fase della “normalizzazione” e si chiuse ogni residuo di libertà. 9.11 La Cina di Mao Zedong. Nel frattempo, la Cina di Mao Zedong accentuava i tratti radicali e collettivistici del suo regime e si proponeva, in concorrenza con l’Urss, come guida e modello per i movimenti rivoluzionari di tutto il mondo: mentre l’Urss si proponeva come garante di un ordine mondiale “bipolare”, la Cina tendeva a contestare lo status quo internazionale, e ad appoggiare la causa dei movimenti rivoluzionari del mondo. L’esperimento maoista si sarebbe risolto in una tragedia umana, economica e politica. Negli anni ‘50 il regime comunista aveva nazionalizzato i settori industriale e commerciale, e si era dotata di una propria industria pesante; inoltre con la riforma agraria del 1950 aveva distribuito le terre fra i contadini, creando tante piccole aziende agricole. Quindi aveva obbligato le aziende familiari a riunirsi in cooperative, controllate dalle autorità statali. mentre nel settore industriale si era ottenuta una rapida crescita, meno soddisfacenti erano stati i risultati nel settore agricolo, sul quale incombeva l’onere di sfamare una popolazione in continuo aumento. Per il rilancio della produzione agricola, la dirigenza comunista varò, nel 1958, una nuova strategia definita “grande balzo in avanti”: le cooperative furono riunite in unità più grandi, le “comuni popolari”, ciascuna doveva tendere all’autosufficienza economica. L’intera popolazione fu sottoposta a un controllo sempre più stretto. I risultati furono fallimentari: la produzione agricola crollò, provocando carestia e costringendo la Cina a massicce importazioni di cereali. Altra conseguenza fu la precipitazione dei rapporti con l’Urss; infatti, i sovietici criticarono la strategia e, nel 1959-60, richiamarono i loro tecnici, infliggendo un duro colpo all’economia cinese. L’Urss, inoltre, rifiutò di fornire assistenza nel campo nucleare. I cinesi replicarono accusando l’Urss di “revisionismo”. Nel 1969 la tensione sarebbe sfociata in scontri armati. Il fallimento della strategia diede spazio, all’interno del gruppo dirigente comunista, alle componenti meno ostili all’Urss, rappresentate dal presidente Liu Shao-chi. Mao, avvalendosi del sostegno dell’esercito, si appellò ai giovani, esortandoli a ribellarsi contro i dirigenti sospettati di percorrere la “via capitalistica”. Si scatenò così una rivolta generazionale: gruppi di giovani guardie rosse mettevano sotto accusa insegnanti e dirigenti politici, intellettuali e funzionari, molti internati in “campi di rieducazione” e sottoposti a torture, alle quali spesso non sopravvissero. L’intento era quello di un radicale mutamento nella cultura e nella mentalità collettiva, da qui il nome di “rivoluzione culturale”, e di superare gli ostacoli alla realizzazione del comunismo. Anche in paesi lontani dalla Cina si formarono movimenti giovanili ispirati al pensiero di Mao. La rivoluzione culturale si esaurì nel giro di tre anni: dal 1968 Mao Zedong cominciò a frenare il movimento, che stava provocando spaccature nella base comunista e rischiava di ledere l’economia. Ruolo importante fu svolto da Chou En-lai, che rappresentò la continuità del potere istituzionale: egli negli anni ‘70 avviò una linea di normalizzazione anche in campo internazionale, resa necessaria dall’isolamento economico. Questa si tradusse in una apertura agli Usa, sancita nel 1972 dall’ammissione all’Onu della Cina comunista al posto della Repubblica “nazionalista” di Chiang Kai-shek. Cominciava una fase di transizione che sfocerà, dopo la morte di Mao e Chou nel 1976, in un mutamento anche sul piano interno. Capitolo 10 - LA DECOLONIZZAZIONE E IL TERZO MONDO: 10. 1 La crisi degli imperi coloniali. Per oltre quarant’anni, fino agli anni ‘80, la scena internazionale fu dominata dal confronto “bipolare” fra i due grandi blocchi. Negli stessi anni si sovrappose un processo di trasformazione, che ebbe per protagonisti i paesi asiatici e africani sin allora oggetto del dominio coloniale. Il numero degli Stati indipendenti oggi sono circa duecento. Il processo di decolonizzazione, cioè lo smantellamento del sistema coloniale con l’accesso all’indipendenza dei popoli afroasiatici, ricevette la spinta decisiva dal secondo conflitto mondiale. Un fenomeno analogo si era in parte verificato durante il primo conflitto mondiale, ma le promesse di emancipazione implicite nel messaggio wilsoniano erano state disattese dalle grandi potenze europee. Nel secondo dopoguerra le due superpotenze vincitrici, gli Usa, nati da una rivoluzione anticoloniale, e l’Urss, contraria all’imperialismo, trovavano una convergenza nell’opporsi al colonialismo. Dopo la creazione della Carta atlantica del 1941, il principio di autodeterminazione si impose. Il processo di decolonizzazione si compì attraverso vicende alterne, che risentirono sia della natura dei nazionalismi locali, sia del numero alto della colonizzazione bianca, sia delle politiche dei paesi europei. Ci furono due vie alla decolonizzazione: - da una parte, la Gran Bretagna, che aveva praticato forme di dominio “indiretto” fondato su deleghe a élite locali, avviò un ritiro graduale dalle colonie, mediante la concessione di Costituzioni e di organismi rappresentativi. Cercava così di trasformare l’impero in una comunità di nazioni sovrane, associate nel Commonwealth; - dall’altra, la Francia oppose resistenza ai movimenti indipendentisti, e praticò una politica Mariangela Lamanna “assimilatrice”, che pretendeva di riunire Francia e colonie in un’unica compagine politica e concedeva ai popoli parità di diritti. L’eredità coloniale lasciò tracce durevoli, sul piano materiale, ma anche su quello delle abitudini, della cultura, della lingua (si pensi al caso dell’India, dove l’inglese continuò a svolgere la funzione di lingua nazionale). Sul piano delle istituzioni politiche, però, la democrazia parlamentare di tipo europeo si affermò solo in pochi paesi: quasi ovunque ci fu una prevalenza di regimi autoritari. 10.2 L’indipendenza dell’India. Il processo di emancipazione ebbe la sua prima tappa nel 1947, quando la Gran Bretagna accettò di privarsi del subcontinente indiano, sede di antiche civiltà e di religioni (l’induismo, il buddismo, l’islamismo), ma anche terminale di scambi commerciali che avevano svolto il ruolo decisivo nell’affermazione della Gran Bretagna come potenza industriale. Negli anni fra le due guerre, cresciuto in India un movimento indipendentista, organizzato nel Partito del Congresso sotto il mahatma Gandhi. Durante il secondo conflitto gli indiani avevano aiutato i britannici in guerra, con un esercito volontario. Nel contempo, il Partito del Congresso, guidato dal 1941 da Nehru, aveva continuato a promuovere il movimento di resistenza non violenta alla dominazione britannica. A guerra finita si aprirono i negoziati per il trasferimento della sovranità, che si conclusero nel 1947: l’esito fu diverso da quello auspicato da Gandhi. La componente musulmana reclamò la creazione di un proprio Stato, accordata dai britannici. Nacquero due Stati: l’Unione indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan musulmano, geograficamente diviso in due dal 1971, in seguito alla secessione della sua parte orientale: il Pakistan vero e proprio a ovest, e il Bengala orientale, l’odierno Bangladesh, a est. La creazione dei due Stati non impedì gli scontri fra le due comunità, che assunsero a tratti le proporzioni di una vera guerra. Inoltre sono da ricordare le due guerre che India e Pakistan avrebbero combattuto, nel 1948 e nel 1965, per il controllo della regione del Kashmir, a maggioranza musulmana ma assegnata all’Unione indiana. Gandhi fu assassinato da una estremista indù nel 1948. Primo capo del governo dell’India indipendente Nehru rimase alla guida fino alla sua morte nel 1964, lasciando il paese con gravi problemi interni: la povertà cronica delle campagne; il sovraccarico demografico; tensioni fra diversi gruppi etnici e religiosi che convivevano; la permanenza di abiti mentali arcaici e di divisioni legate al vecchio sistema delle caste. Tuttavia, malgrado alcuni aspetti autoritari esercitati prima da Nehru, poi da sua figlia Indira Gandhi, primo ministro nel 1966-77 e nel 1981-84, le istituzioni democratico-parlamentari lasciate in eredità dalla dominazione britannica riuscirono progressivamente a consolidarsi. In Pakistan, la vita democratica fu interrotta da dittature militari e poi, recentemente, minacciata dalle correnti islamiche integraliste. 10.3 Le guerre d’Indocina. In tutto il Sud-Est asiatico il confronto ebbe esiti diversi. In Birmania (oggi Myanmar) e in Malesia (oggi Malaysia) entrambe colonie britanniche, indipendenti rispettivamente nel 1948 e nel 1957, prevalsero le forze nazionaliste e la guerriglia comunista fu sconfitta. In Indonesia il movimento nazionalista, guidato da Sukarno, ottenne l’indipendenza dall’Olanda nel 1949, e cercò di seguire una politica autonoma rispetto ai due blocchi. Nel 1965, a seguito di un fallito tentativo rivoluzionario dei comunisti, Sukarno fu costretto a cedere il potere ai militari del generale Suharto. Nel Regno di Thailandia le forze moderate mantennero il potere. Nelle Filippine, cui gli Usa concessero l’indipendenza nel 1946 conservando privilegi economici e basi militari, governi di carattere spesso autoritario, come quello di Marcos, al potere nel 1965-86, dovettero fronteggiare la guerriglia condotta dai comunisti e dai gruppi separatisti musulmani. Nel Vietnam i comunisti, sotto la guida di Ho Chi-minh, avevano assunto un ruolo preminente nella Lega per l’indipendenza, detta Vietminh, che era stata costituita nel 1941 per combattere la dominazione francese. Nel 1945, Ho Chi-minh proclamò nella capitale Hanoi l’indipendenza dalla Francia e la nascita della Repubblica democratica del Vietnam, ma i francesi occuparono la parte meridionale del paese. Nel 1946 ci fu uno scontro tra francesi e le forze del Vietminh, che si concluse nel 1954, con la vittoria dei secondi: la forza francese fu costretta a capitolare. Gli accordi di Ginevra sancirono il ritiro dei francesi da tutta la penisola indocinese, quindi anche dal Laos e dalla Cambogia, e la divisione provvisoria del Vietnam in due Stati: uno comunista al Nord, l’altro filo-occidentale al Sud. Tutto ciò avvenne prima della guerra del Vietnam con gli Stati Uniti. 10.4 Il mondo arabo e la nascita di Israele. Dall’inizio del Novecento, in tutti i paesi del Medio Oriente e della sponda Sud del Mediterraneo, si era sviluppato un movimento nazionale arabo, in lotta prima contro la dominazione turca, poi contro l’influenza europea. Nel corso della Grande Guerra il movimento tentò di subentrare nel controllo dell’area al moribondo Impero Ottomano. Successivamente, durante il secondo conflitto mondiale la regione mediorientale aveva visto crescere la sua importanza strategica, a causa delle sue risorse petrolifere. A guerra finita, nel 1946 la Gran Bretagna riconobbe l’indipendenza della Transgiordania, e la Francia ritirò le sue truppe dalla Siria e dal Libano. L’Iraq aveva ottenuto l’indipendenza dai britannici già nel 1932. Insieme all’Egitto, all’Arabia Saudita e allo Yemen, questi paesi formarono, nel 1945, la Lega degli Stati Mariangela Lamanna petrolifere. Un tentativo di svolta si ebbe nel 1951, quando divenne primo ministro Mossadeq. La decisione di nazionalizzare l’industria petrolifera provocò la reazione del governo britannico, che ottenne la collaborazione degli Usa, preoccupati di una possibile penetrazione sovietica nell’area. Nel 1963 un colpo di Stato militare, organizzato dai servizi segreti anglo-americani, depose il primo ministro e restituì il potere assoluto allo scià. 10.9 L’indipendenza dell’Africa nera. Per i paesi dell’Africa a sud della fascia sahariana l’emancipazione fu più tardiva, ma anche più rapida, dal momento che le potenze coloniali avevano perso potere. La grande stagione dell’emancipazione africana si aprì nei territori britannici, con l’indipendenza del Ghana nel 1957. Fra le colonie francesi la prima fu la Guinea nel 1958. Nel 1960 ottennero l’indipendenza diciassette nuovi Stati: fra questi la Nigeria, il Congo belga, il Senegal e la Somalia. Nel 1961 fu la volta del Tanganica, e nel 1963 di Zanzibar, che nel 1964 si unirono, dando vita alla Repubblica di Tanzania, sotto la guida di Nyerere. Il Kenya, prima di raggiungere l’indipendenza nel 1963, fu insanguinata dalla campagna terroristica condotta dai Mau-Mau, cui rispose la repressione dei britannici. Nella Rhodesia del Sud, 1965, il governo razzista di Ian Smith proclamò unilateralmente l’indipendenza e l’uscita dal Commonwealth. Solo nel 1980 il paese fu restituito alla maggioranza nera, e prese il nome di Zimbabwe. Ultima roccaforte del potere bianco nel continente rimaneva l’Unione Sudafricana, dominion britannico di fatto indipendente, le cui truppe avevano combattuto a fianco degli alleati nella seconda guerra mondiale. Qui il dominio della forte minoranza bianca si reggeva su un regime di segregazione razziale, detta apartheid, che portò all’uscita del Sudafrica dal Commonwealth, nel 1961, e a condanne da parte dell’Onu. Il tentativo di concentrare una parte della popolazione nera in piccoli Stati semi-indipendenti non servì a spegnere la protesta della maggioranza nera, organizzata nell’ African National Congress (Anc), fuori legge dal 1960. Un caso di decolonizzazione cruenta fu quello del Congo, lasciato dalla dominazione belga in condizioni di arretratezza. L’indipendenza, concessa nel 1960 senza alcuna preparazione, si accompagnò a una guerra civile e al tentativo di secessione della ricca provincia mineraria del Katanga. IL capo del governo congolese e leader del movimento indipendentista, Lumumba, fu ucciso dai secessionisti nel 1961 ma l’unità del paese fu ristabilita solo con l’intervento di truppe delle Nazioni Unite. Il conflitto nel Congo non fu un caso isolato: in Nigeria, il tentativo secessionista del Biafra, nel 1966-68, fu represso. In Etiopia, dopo il colpo di Stato che nel 1974 rovesciò l’imperatore, portando al potere i militari capeggiati da Menghistu, si inasprirono le lotte degli indipendentisti in Eritrea, prima colonia italiana, inglobata dall’Etiopia nel 1947. Questi conflitti misero in evidenza la fragilità delle istituzioni degli Stati africani: per ottenere l’indipendenza accettarono le frontiere tracciate dai colonizzatori, e gli stessi apparati amministrativi ereditati dall’epoca coloniale. Del resto non esistevano facili alternative. Comunque, l’organizzazione statale consentì un ridimensionamento del potere dei capi-tribù. In pochi anni, questi istituti lasciarono il posto a dittature monopartitiche e a regimi militari di stampo autoritario o dispotico, come la dittatura di Amin in Uganda nel 1971-79. All’instabilità politica si aggiungeva una condizione di debolezza economica, che rischiava di provocare una rinnovata dipendenza dai paesi industrializzati; contro queste forme di neocolonialismo si fecero più forti, dagli anni ‘60, le spinte a una decolonizzazione radicale, ispirata al socialismo marxista e appoggiata dall’Urss: la Tanzania, il Congo Brazzaville e il Benin scelsero di rompere con l’Occidente, a favore di un mercato interno e pilotato dallo Stato. In seguito, anche l’Etiopia, e soprattutto l’Angola e il Mozambico, giunti all’indipendenza nel 1975 dopo una lotta contro il dominio del Portogallo. La scelta del modello socialista non risparmiò i paesi dove persistevano povertà cronica, carestie, disgregazione sociale, emarginazione dal mercato mondiale. 10.10 Il Terzo Mondo: non allineamento e sottosviluppo. Nel 1955 si riunirono in Indonesia i rappresentanti di 29 Stati afro asiatici che avevano raggiunto l’indipendenza, o che avevano combattuto per emanciparsi: fra questi la stessa Repubblica popolare cinese. Era presente come Stato osservatore anche la Jugoslavia di Tito. La conferenza Asia-Africa si concluse con l’approvazione di un documento, che proclamava l’eguaglianza fra tutte le nazioni, il sostegno ai movimenti impegnati nella lotta al colonialismo e il rifiuto delle alleanze militari egemonizzate dalle superpotenze. Univa questi paesi la lotta al colonialismo e comuni interessi e aspirazioni, che non potevano essere contenuti nella logica della competizione fra i due blocchi: facevano parte, insomma, di un “Terzo Mondo”. Si tennero periodicamente riunioni, in cui si cercò di rinsaldare il legame fra i paesi “terzi”. Nella conferenza del 1961 i leader del movimento lanciarono la formula del “non allineamento”: gli Stati del Terzo Mondo si proponevano così una politica di neutralismo attivo, destinato a erodere l’egemonia delle superpotenze, le aspirazioni neutraliste finirono col ridursi ad affermazioni di principio. Man mano che il movimento si allargava, si accentuava la sua eterogeneità: accanto a paesi di osservanza filo-occidentale, fra cui l’Iran, la Thailandia, le Filippine e l’Arabia Saudita, vi figuravano Stati legati all’Urss, come Cuba e il Vietnam. Comune denominatore economico del Terzo Mondo è il sottosviluppo e povertà. I paesi di nuova indipendenza presentavano caratteristiche comuni: Mariangela Lamanna - la carenza di strutture industriali; - l’arretratezza dell’agricoltura, caratterizzata da produttività bassa; - crescente emarginazione dalle grandi correnti degli scambi internazionali; - sproporzione fra le risorse disponibili e una popolazione in aumento. Intorno al 1960, nei paesi definiti “sottosviluppati” o “in via di sviluppo”, il prodotto pro capite era inferiore di 10 volte a quello dei paesi industrializzati. Inoltre, l’analfabetismo era ancora molto diffuso, le infrastrutture civili e le attrezzature igienico- sanitarie carenti, con conseguenze sul piano della mortalità, a causa del dilagare delle epidemie. Anche la sottoalimentazione era realtà molto diffusa. Diseredati si riversavano nelle bidonvilles, agglomerati di baracche costruite con mezzi di fortuna, delle città capitali. L’allargamento dell’orizzonte mondiale provocato dalla decolonizzazione fece sì che la povertà di massa che affliggeva i due terzi del globo diventasse una smentita a quel principio di uguaglianza dei popoli, che era la base del nuovo ordine affermatosi. Problematica amplificata, inoltre, dall’atteggiamento “rivendicazionista” assunto da parte dei paesi del Terzo Mondo nei confronti dell’Occidente sviluppato, accusato di aver costruito il suo benessere sullo sfruttamento coloniale, e dunque chiamato a dividere questo benessere con i paesi più poveri: si sviluppò una tendenza politica e culturale, il “terzomondismo”, che individuò nel superamento delle disuguaglianze l’obiettivo politico prioritario. 10.11 Dittature e populismi in America Latina. Al movimento dei non allineati parteciparono quasi tutti i paesi dell’America Latina. Essi, da un lato, rientravano nella categoria del “Terzo Mondo” per via degli squilibri sociali e le estese aree di arretratezza; dall’altro, la condivisione dei modelli culturali europei li avvicinava all’Occidente. Inoltre alcuni paesi come il Brasile, l’Argentina e il Messico, durante WW2, avevano avviato un processo di crescita economica. Quando cessò, però, riemersero i problemi di arretratezza, accentuati dalla crescente dipendenza dagli Usa: se in alcuni casi, i capitali statunitensi concorsero alla crescita industriale, in altri, come nei paesi più poveri (le cui economie, basate sulle monocolture agricole, erano dominio riservato delle grandi corporations), gli statunitensi si trovarono alleati alle oligarchie terriere locali nel combattere il rinnovamento. Quindi, gli Usa assunsero una funzione di tutela sull’intero continente: crearono, nel 1948, l’Organizzazione degli Stati americani, volta alla cooperazione economica fra i paesi del continente, con lo scopo politico di impedire che l’instabilità politica aprisse spazi alla penetrazione comunista. A farsi interpreti delle spinte al cambiamento, in assenza di forti partiti operai, furono i ceti medi urbani: anche a questo è dovuta la soluzione politica del populismo in molti paesi dell’America Latina. Di stampo populista fu il regime instaurato in Argentina da Peron, eletto presidente nel 1946, che avviò una politica di incentivi all’industria e di aumenti salariali, di lotta contro i monopoli e di nazionalizzazione dei servizi pubblici. La sua prassi politica autoritaria ricordava i regimi fascisti: aveva infatti anche i seguaci, chiamati descamisados. Osteggiato dai conservatori e, a causa del dissesto finanziario e dell’aumento dell’inflazione, anche dai ceti medi, Peron fu rovesciato nel 1955 da un colpo di Stato militare, e costretto ad abbandonare l’Argentina. Da allora il paese visse anni agitati. Nel 1972, furono gli stessi militari a sollecitare il ritorno dell’esule Peron, rieletto alla presidenza della Repubblica nel 1973, ma che non riuscì a portare l’ordine; né meglio seppe fare la moglie Isabelita, salita alla presidenza dopo la sua morte. Nel 1976, i militari decisero di riprendere il potere: la dittatura militare, per combattere i movimenti di opposizione, usò metodi brutali. Essi fallirono di nuovo. In Brasile si era sviluppato, negli anni ‘30, il primo esperimento di governo populista dell’America Latina, quello di Vargas. Rovesciato nel 1945 dai militari, Vargas tornò al potere nel 1950, ma si scontrò con difficoltà analoghe a quelle dell’Argentina. Nel 1954, esautorato nuovamente dai militari, Vargas si suicidò. I suoi successori seguirono una politica di non allineamento nelle relazioni internazionali, e rilanciarono i progetti di industrializzazione e modernizzazione, ma non riuscirono a cancellare gli squilibri. Nel 1964 un nuovo colpo di Stato, appoggiato dagli Usa, riportò al potere i militari, che imposero una svolta autoritaria, Mariangela Lamanna basata sulla repressione dei conflitti sociali e sull’incoraggiamento all’afflusso dei capitali stranieri (=immettere nel paese capitali stranieri): l’economia registrò buoni risultati a prezzo, però, di più squilibri. A Cuba il regime dittatoriale di Batista fu rovesciato, nel 1959, dopo una guerriglia iniziata da un movimento rivoluzionario, guidato da Fidel Castro → avviò una riforma agraria, che colpiva il monopolio esercitato dalla United Fruit Company, corporation statunitense, sulla coltivazione della canna da zucchero, principale risorsa dell’isola. Gli Usa assunsero un atteggiamento ostile e iniziarono un boicottaggio economico verso l’isola, imponendo l’embargo nei suoi confronti. Castro si rivolse, quindi, all’Urss, che si impegnò ad acquistare lo zucchero cubano a prezzi superiori a quelli del mercato internazionale, e a rifornire l’isola di petrolio e macchinari. L’economia fu in parte statalizzata, e venne istituito un regime a partito unico. Nell’Uruguay il regime liberale, indebolito dalla crisi economica e dalla guerriglia urbana messe in atto dal movimento clandestino dei tupamaros, fu rovesciato nel 1973. In Cile nel 1970 il socialista Allende aveva assunto la presidenza, a capo di una coalizione di Unità popolare. Egli tentò di realizzare un programma di nazionalizzazioni e riforme sociali, ma dovette scontrarsi con una situazione di dissenso economico, con l’opposizione della borghesia, con l’ostilità degli Usa, e con le intemperanze estremiste di una parte dei suoi stessi seguaci. Nel 1973 Allende fu rovesciato da un colpo di Stato militare e ucciso: il potere fu assunto dal generale Pinochet, che schiacciò le opposizioni, e diede vita a un regime dai tratti autoritari. Capitolo 11 - L’ITALIA REPUBBLICANA: 11.1 L’Italia nel 1945. Fra il 1945-49, l’Italia entrò in una nuova fase della sua storia unitaria: si diede un nuovo ordinamento repubblicano, una nuova Costituzione democratica, e un nuovo sistema politico, destinato a dar forma a quella che è stata definita “Prima Repubblica”. Con la fine del WW2 l’Italia aveva recuperato libertà e unità territoriale; tuttavia, la produzione industriale era scesa, quella agricola si era dimezzata e il patrimonio zootecnico distrutto per tre quarti. Inoltre, l’inflazione era aumentata, ridimensionando i salari reali. Il sistema dei trasporti era in buona parte disarticolato, mentre milioni di abitazioni erano stati distrutti dai bombardamenti: gli italiani rimasti senza casa erano costretti a coabitazioni forzate, o cercavano rifugio in edifici pubblici. La fame, la mancanza di alloggi e l’elevata disoccupazione rendevano precaria la situazione dell’ordine pubblico. Problema serio, poi, era costituito da quegli ex partigiani che intendevano liquidare i conti del ventennio con misure di giustizia sommaria nei confronti dei fascisti. Ma la minaccia più grave veniva dalla malavita: In Sicilia, si assisteva a una ripresa del fenomeno mafioso, favorita anche dal comportamento delle autorità americane, che non avevano esitato, al momento dello sbarco, a servirsi di noti esponenti della malavita italoamericana per stabilire contatti con la popolazione. Inoltre, si era sviluppato qui un movimento indipendentista, condizionato da forte presenza mafiosa; il movimento, che disponeva di un proprio esercito clandestino, fu affrontato dai governi del dopo-liberazione, ma molti dei suoi aderenti sopravvissero, dando vita ad episodi di banditismo. Le vicende seguite all’armistizio avevano indebolito il potere statale, e avevano scavato nella compagine nazionale una profonda frattura, che si sovrapponeva alle tradizionali spaccature fra Nord e Sud: le due metà avevano vissuto esperienze diverse, in quanto al Sud vi era l’occupazione alleata, al Nord quella tedesca. Dovettero affrontare questi problemi i partiti che si erano raccolti nel Comitato di liberazione nazionale, e che già esercitavano un ruolo di governo. Quindi, ci fu una crescita della partecipazione politica. Importanti in questo periodo furono i partiti di sinistra: il Partito socialista (Psiup), guidato da Nenni, e il Partito comunista, nato nel 1921, il quale traeva forza proprio dal contributo offerto alla lotta antifascista. Quest’ultimo, guidato da Togliatti, era un autentico partito di massa, e aspirava a mantenere un ruolo di governo, senza allentare il suo legame con l’Urss e senza accantonare del tutto l’opzione rivoluzionaria. Fra gli altri partiti, l’unico in grado di competere con le sinistre per numero di aderenti era la Democrazia cristiana (Dc), che si richiamava all’esperienza del Partito popolare di Sturzo, ne ricalcava il programma, ispirato alla dottrina sociale cattolica (rifiuto della lotta di classe, rispetto per il diritto di proprietà, riforme agrarie), e ne ereditava la base contadina e piccolo-borghese. Inoltre, godeva dell’appoggio della Chiesa, e si presentava come la forza principale del fronte moderato. Il Partito liberale, che raccoglieva parte della classe dirigente pre-fascista, poteva contare adesioni illustri, come Einaudi e Croce, oltre che il sostegno della grande industria e dei proprietari terrieri. Tuttavia, era ormai compromesso. Fra i partiti laici, il Partito repubblicano si distingueva per l’intransigenza sulla questione istituzionale. In una posizione particolare, fra l’area liberal-democratica e quella socialista, si collocava il Partito d’azione (Pda): forte del contributo dato alla lotta partigiana, il Pda si faceva promotore di riforme sociali Mariangela Lamanna Chiesa di papa Pio XII mobilitò tutte le sue organizzazioni in una propaganda a sostegno della Dc; gli Usa annunciarono la sospensione degli aiuti del piano Marshall, in caso di vittoria delle sinistre. Socialisti e comunisti risposero facendo appello ai lavoratori: ma la loro propaganda fu danneggiata da una stretta adesione alla causa dell’Urss di Stalin. Le elezioni si risolsero in un successo del Partito cattolico, ovvero la Dc, che ottenne il 48% dei voti e la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera. Il peso della sconfitta ricadeva sul Psi, che vedeva dimezzata la sua rappresentanza parlamentare, e pagava così l’allineamento sulle posizioni del Pci. L’insofferenza della sinistra esplose dopo le elezioni, a luglio, il segretario Togliatti fu ferito gravemente da un giovane di destra che gli sparò. Nelle principali città militanti dei partiti di sinistra scesero in piazza e fabbriche vennero occupate. In Toscana il moto assunse un carattere insurrezionale. Altra conseguenza fu la rottura all’interno della Cgil: la componente cattolica diede vita a una nuova confederazione, la Confederazione italiana sindacati lavoratori (Cisl). Dopo i sindacalisti repubblicani e socialdemocratici fondarono una terza organizzazione, l’Unione italiana del lavoro (Uil). Con le elezioni del 1948 gli elettori italiani non scelsero solo il partito che avrebbe governato il paese, ma si espressero anche in favore di un sistema economico e di una collocazione internazionale. Sul piano economico, fino a quel momento non furono introdotte forme strutturali di rilievo, ma con le nuove elezioni il ministero del Bilancio fu tenuto dall’economista liberale Einaudi: egli attuò una manovra economica che aveva come scopi principali la fine dell’inflazione, la stabilità monetaria e il risanamento del bilancio statale. La manovra si attuò su tre distinti livelli: -una serie di inasprimenti fiscali e tariffari, - una svalutazione della lira, che doveva favorire le esportazioni e incoraggiare il rientro dei capitali; - una restrizione del credito, che limitò la circolazione della moneta. La “linea Einaudi” ottenne i risultati sperati: la lira recuperò potere d’acquisto, i capitali esportati rientrarono in Italia, i ceti medi risparmiatori riacquistarono fiducia, gli stessi salariati si giovarono del calo dei prezzi. Ebbe però costi sociali, soprattutto sul versante della disoccupazione. Gli aiuti statunitensi furono utilizzati per finanziare le importazioni di derrate alimentari e materie prime, ma non per sviluppare la domanda interna. Però nel 1950 furono raggiunti i livelli produttivi dell’anteguerra. L’adozione di un modello fondato sull’iniziativa privata ebbe come risultato anche una crescente integrazione con le economie dell’Occidente, e contribuì a definire la collocazione internazionale del paese. Nel 1948, furono gettate le basi per il Patto atlantico, e il governo italiano accettò la proposta di adesione, nonostante l’opposizione. L’adesione fu approvata dal Parlamento nel 1949. 11. 5 De Gasperi e il centrismo. Gli anni della prima legislatura repubblicana, 1948-53, segnarono il periodo di massima egemonia della Dc sulla vita politica nazionale. Nonostante contasse sulla maggioranza assoluta dei seggi, la Dc mantenne l’alleanza con i partiti laici minori. Inoltre, appoggiò la candidatura alla presidenza della Repubblica del liberale Einaudi nel 1948. Fu questa la formula del centrismo. Componente essenziale della politica centrista era un moderato riformismo, che rafforzasse la base di consenso popolare dei partiti di governo. L’iniziativa più importante fu la riforma agraria del 1950, che prevedeva l’esproprio e il frazionamento di parte delle grandi proprietà terriere nel Mezzogiorno, nelle isole e nel Centro-Nord. Gli obiettivi a lungo termine erano l’incremento della piccola impresa agricola e il rafforzamento del ceto dei contadini indipendenti, considerato fattore di stabilità sociale ed egemonizzato dalla Dc, attraverso la Confederazione dei coltivatori diretti. La riforma, però, non servì a contenere la migrazione dalle campagne. Inoltre, fu varata la legge che istituiva la Cassa per il Mezzogiorno, ente che aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali, attraverso il finanziamento statale per le infrastrutture e il credito agevolato alle industrie localizzate nelle aree depresse. I primi interventi adottati dalla Cassa mirarono al miglioramento dell’agricoltura e alla costruzione di infrastrutture atte a favorire l’industrializzazione: strade, acquedotti, linee elettriche. Dal 1957, la sua politica fu orientata verso il sostegno diretto, attraverso crediti agevolati alle industrie dei cosiddetti “poli di sviluppo”. Le riforme varate dai governi centristi, tra cui la legge Fanfani (sul finanziamento alle case popolari) e la riforma tributaria Vanoni del 1955 (che introduceva l’obbligo della dichiarazione annuale dei redditi), furono avversate dalla destra. D’altro canto le sinistre continuarono a condurre una dura opposizione. Nonostante la ripresa produttiva, la disoccupazione si mantenne su livelli elevati e i salari restavano bassi. I partiti di sinistra reagirono mobilitando le masse operaie in una serie di manifestazioni, mentre il governo intensificò l’uso dei mezzi repressivi (anche armi da fuoco): le forze di polizia furono potenziate con la creazione dei reparti celeri. Il ministro degli Interni Scelba, nel 1955, divenne il simbolo di una politica illiberale e repressiva. De Gasperi tentava quindi, di rendere inattaccabile la coalizione centrista attraverso una modifica dei meccanismi elettorali: il sistema scelto fu quello di assegnare il 65% dei seggi alla Camera al gruppo di partiti “apparentati”, ossia uniti da una preventiva dichiarazione di alleanza, che ottenesse almeno la metà +1 dei voti. La riforma elettorale, ribattezzata dalle sinistre “legge truffa”, fu approvata nel 1953. Tuttavia, nelle elezioni di giugno la coalizione di governo fu sconfitta: la Dc perse i consensi, mentre ne Mariangela Lamanna guadagnarono monarchici e neofascisti. Comunque, il premio di maggioranza non scattò e la legge fu abrogata: De Gasperi si dimise. I successivi governi a guida democristiana continuarono ad appoggiarsi sulla maggioranza centrista. Nel frattempo,la crescita economica si consolidava, e si rafforzavano i legami con l’Europa, ribaditi nel 1957 con l’adesione italiana alla Comunità europea. Novità importante, sul piano delle istituzioni, fu l’insediamento, nel 1956, della Corte costituzionale: composta da magistrati e da membri nominati dal Parlamento e dal presidente della Repubblica, la Corte avrebbe svolto una funzione importante nell’adeguare la vecchia legislatura ai principi costituzionali. Nel 1958 si sarebbe insediato il Consiglio superiore della magistratura. Nella Democrazia cristiana emergeva la nuova generazione cresciuta nell’Azione cattolica degli anni ‘30, favorevole all’intervento statale nell’economia. Il principale esponente, Fanfani, cercò di rafforzare il partito, collegandolo alle imprese di Stato: in particolare all’Eni, ente nazionale idrocarburi. Nel 1956 fu creato il ministero delle Partecipazioni statali, col compito di coordinare l’attività delle aziende di Stato. Passaggio importante verso nuovi equilibri fu rappresentato dalle ripercussioni dei fatti d’Ungheria del 1956: mentre il Pci approvò l’intervento sovietico, il Psi lo condannò. Fu Nenni a guidare la svolta autonomista, con cui il Psi si rendeva disponibile a una collaborazione con la Dc e i partiti laici. 11.6 Il “miracolo economico”. L’economia giunse al culmine tra il 1958-63: furono chiamati gli anni del “miracolo economico”, in cui l’Italia ridusse molto il divario dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Lo sviluppo interessò soprattutto l’industria manifatturiera e i settori siderurgico, meccanico e chimico. Ampio fu il rinnovamento degli impianti e delle tecnologie. La crescita industriale fu alimentata dallo sviluppo delle esportazioni. La diffusione dei prodotti italiani, la solidità della lira, la stabilità dei prezzi, e le Olimpiadi di Roma nel 1960, contribuirono a rafforzare l’immagine dell’Italia. Tra i fattori del miracolo, contarono: la politica di libero scambio; la modesta entità del prelievo fiscale; lo scarto fra l’aumento della produttività e il basso livello dei salari, che consentì alti profitti e tassi di investimento molto elevati. La compressione salariale era il risultato della disponibilità di manodopera a basso costo, dovuta al costante flusso migratorio dalle zone depresse a quelle più progredite. L’Italia divenne un paese industriale. Limitata, invece, fu la modernizzazione delle attività agricole. La crescita economica si accompagnò al miglioramento delle condizioni dei lavoratori: il calo della disoccupazione accrebbe la capacità contrattuale dei sindacati, che riuscirono a ottenere notevoli miglioramenti salariali; questi aumenti, però, ebbero l’effetto di ridurre i margini di profitto e di mettere in moto un processo inflazionistico. Nel 1963-65, la crescita economica conobbe una battuta d’arresto, per poi riprendere dal 1966 con ritmi più lenti. Negli anni del boom, la società italiana subì trasformazioni: l’Italia entrò nella civiltà dei consumi. Il fenomeno più vistoso fu il massiccio esodo dal Sud verso il Nord, e dalle campagne verso le città, nel 1951-61. I livelli di istruzione migliorarono e la dieta degli italiani divenne più ricca, soprattutto per il consumo di carne. Tuttavia, i costi umani e sociali furono pesanti. L’espansione delle città avvenne senza un adeguato intervento dei poteri pubblici: il difficile inserimento degli immigrati meridionali evidenziò il divario fra il Nord e il Sud. Comunque, le differenze cominciarono ad attenuarsi: ebbe inizio un processo di integrazione legato alle comuni esperienze lavorative, alla scolarizzazione e alla diffusione di alcuni consumi di massa. La televisione e l’automobile furono i simboli principali di questo cambiamento. Gli apparecchi televisivi entrarono nelle case dal 1954, con trasmissioni della Rai. Ma il boom cominciò con il “miracolo economico”. La televisione passava una lingua comune, e modelli culturali di massa. Il boom della motorizzazione privata, invece, coincise col successo delle nuove utilitarie prodotte dalla Fiat. 11.7 Il centro-sinistra e le riforme. I mutamenti economici si accompagnarono con l’ingresso dei socialisti nell’area di governo: esso suscitò speranze di rinnovamento, ma anche, nell’opinione pubblica moderata, timori. Nel 1960 il presidente del Consiglio Tambroni formò un governo “monocolore”, composto da soli democristiani con l’appoggio del Movimento sociale italiano (Msi): questo suscitò le proteste dei partiti laici e della sinistra della Dc. La tensione esplose a giugno, quando il Msi fu autorizzato a tenere il suo congresso nazionale, nonostante l’opposizione delle forze democristiane: ciò suscitò una rivolta popolare. Il governo cedette, il congresso fu rinviato, e altre manifestazioni furono represse. Tambroni fu sconfessato dalla stessa Dc e costretto a dimettersi. Fu formato un nuovo governo monocolore, presieduto da Fanfani, che ottenne l’astensione dei socialisti nel voto di fiducia in Parlamento, aprendo così una stagione politica del centro-sinistra (con la Pri e Psdi): la nuova alleanza fu sancita dal congresso della Dc nel gennaio 1962. I socialisti non facevano parte del governo. Venne compiuta una nazionalizzazione dell’industria elettrica con la creazione dell’Ente nazionale per l’energia elettrica (Enel). Fu approvata la legge di riforma, che istituiva la scuola unica, abolendo gli istituti professionali. Ebbe, invece, vita breve la nuova tassazione dei titoli azionari. L’attuazione delle regioni fu rinviata. La politica di programmazione non si tradusse in pratica, in quanto avrebbe richiesto consensi politici e sindacali più ampi. Le elezioni del 1963 registrarono una perdita di Mariangela Lamanna voti di democristiani e socialisti, il successo dei liberali, che si erano opposti all’apertura a sinistra, e il rafforzamento dei comunisti. Un governo di centro-sinistra “organico” (cioè con la partecipazione di ministri socialisti accanto a quelli democristiani, socialdemocratici e repubblicani) si formò, sotto la presidenza di Moro, e nacque su basi più moderate. Il processo riformatore fu bloccato, anche per il manifestarsi dei primi segni di sofferenza dell’economia. Moro fu incline a risolvere i contrasti col compromesso, anche a costo di un progressivo svuotamento dei contenuti originari del programma di governo. Il Psi pagò la partecipazione al governo con una nuova scissione: nel 1964 la minoranza di sinistra diede vita al Partito socialista di unità proletaria (Psiup). All’indebolimento dei socialisti, corrispose la crescita del Pci: nel 1964 Togliatti morì, indicando nel cosiddetto “memoriale di Yalta” una linea che riaffermava l’originalità della “via italiana al socialismo”. Tuttavia, il Partito comunista restava in una posizione di isolamento. Capitolo 12 - LA CIVILTÀ DEI CONSUMI: 12.1 La crescita demografica. Tra il 1950-70 gli abitanti della Terra aumentarono del 50%, la vita media dell’uomo salì a oltre 70 anni nelle zone più sviluppate, e da 40 a 50 nei paesi più poveri. Le cause furono molteplici: i progressi della medicina e della chirurgia; l’uso di nuovi farmaci; la pratica delle vaccinazioni di massa; la diffusione di essenziali princìpi igienici, la maggior quantità di cibo disponibile e la qualità dell’alimentazione. La crescita della popolazione non si distribuì in modo omogeneo fra le diverse aree del pianeta: nel Terzo Mondo il regime demografico delle società arretrate (alti tassi di natalità e alti tassi di mortalità) fu modificato solo per quanto riguarda la mortalità, mentre i ritardi nel processo di modernizzazione impedirono che si affermasse il controllo delle nascite, mantenendo tassi di natalità molto elevati. Nei paesi industrializzati, la fase di slancio demografico si protrasse negli anni 1940-50: il periodo del cosiddetto baby boom. Una crescita determinata da fattori psicologici, ma anche segno del grande sviluppo economico postbellico. Dopo la metà degli anni ‘50, riprese il sopravvento, in Europa e negli Usa, la tendenza al calo della natalità. Questo fenomeno, che aveva come cause la minor durata dei matrimoni (ci si sposava più tardi e si divorziava più spesso) e l’abitudine al controllo delle nascite, si accompagnò ai processi di modernizzazione: l’incremento del lavoro femminile, i costi crescenti per l’educazione e il mantenimento dei figli, la ristrettezza degli spazi abitativi, la preoccupazione per il benessere materiale e la minor influenza delle religioni tradizionali, come quella cattolica contraria al divorzio e alla contraccezione. La tendenza alla limitazione delle nascite, fu favorita dalla diffusione delle nuove pratiche anticoncezionali, come i contraccettivi orali: ebbe conseguenze rivoluzionarie sulla mentalità e sul costume, che portò alla liberalizzazione dei comportamenti sessuali. 12.2 Il boom economico. Questo periodo di sviluppo ininterrotto e di benessere crescente fu definito “età dell’oro”: l’Europa occidentale, gli Usa e i Giappone vissero, tra il 1950 (fine della fase più difficile della ricostruzione) e il 1973 (inizio della “crisi petrolifera”) una crescita rapida e costante, in cui il prodotto pro capite aumentò del 4% all’anno. Il boom cominciò negli Usa subito dopo la guerra: la crescita americana, grazie anche agli aiuti del piano Marshall, trainò a sua volta la ripresa dell’Europa occidentale e del Giappone. Gli Usa, pur conservando il primato economico sul mondo occidentale, videro ridursi le distanze dai propri alleati. L’espansione si basò principalmente sull’industria, in particolare sui settori legati all’uso di tecnologie avanzate e alla produzione di beni di consumo durevoli (automobili, elettrodomestici, televisori), che raggiunsero una diffusione di massa. L’agricoltura ebbe uno sviluppo più lento, ma il processo di modernizzazione del settore si estese, consentendo un aumento della produttività, mentre gli addetti al settore scendevano. Al contrario, crebbe la quota degli addetti al settore terziario: il tasso di disoccupazione medio dei paesi industrializzati scese. La forte domanda di manodopera contribuì ad avviare una crescita dei redditi da lavoro, che favorì l’espansione dei consumi, la diffusione del benessere materiale e la riduzione delle disuguaglianze. Lo sviluppo poté giovarsi di alcune condizioni favorevoli: l’immissione nei processi produttivi di nuova forza-lavoro più giovane e meglio qualificata; il costo basso delle materie prime, come il petrolio, che aveva preso il posto del carbone come principale fonte energetica; le scoperte scientifiche e le innovazioni tecnologiche, che consentirono anche di ridurre i costi di produzione; la concentrazione delle imprese, che spesso assunsero dimensioni multinazionali, operando in diversi contesti geografici, consentendo alti tassi di investimento per l’innovazione e per la razionalizzazione dei costi; i risparmi accumulati dai cittadini, che consentivano un elevato livello di investimenti; l’opera dei governi, con gli interventi statali in sostegno della crescita. Alla crescita della produzione, corrispose l’espansione del commercio internazionale, grazie alla migliore efficienza dei mezzi e delle tecniche di trasporto merci, alla politica di liberalizzazione promossa dagli Usa, e all’opera di organismi internazionali (il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale) o di accordi interstatali (il Gatt), che fissarono un sistema di regole per il commercio e garantirono cambi stabili tra le monete. La dimensione globale del boom fu uno dei tratti più caratteristici. Anche paesi socialisti dell’Europa orientale registrarono tassi di crescita elevati: nel loro caso, tuttavia, il rigido Mariangela Lamanna detti “ghetti neri”, delle grandi città: erano ispirate all’ideologia rivoluzionaria del Black Power, che univa la protesta sociale alla rivendicazione di una propria identità culturale. Dal 1966-67 la rivolta giovanile si estese in Europa occidentale e in Giappone, dove prese forme più ideologizzate. In Francia la mobilitazione dei movimenti di estrema sinistra diede luogo a un episodio clamoroso: nel 1968 Parigi fu teatro di una violenta guerriglia urbana, che vide contrapposti studenti e forze di polizia. Anche per questo il “Sessantotto” assunse un significato simbolico, che andava al di là dei risultati modesti ottenuti dal movimento. Inoltre, mancò nel movimento un’adeguata riflessione critica sui regimi comunisti: affascinati dalla Cuba di Castro o dalla Cina di Mao, i giovani ribelli dedicarono scarsa attenzione ai regimi autoritari dell’Est Europa. Tuttavia, le lotte del ‘68 lasciarono un segno: rilanciarono il mito di una trasformazione rivoluzionaria della società, crearono nuove forme di mobilitazione, e riproposero le pratiche della democrazia diretta. 12.8 Il nuovo femminismo. L’ondata di contestazione si accompagnò a un rilancio della questione femminile. Nel dopoguerra permanevano, infatti, norme discriminatorie e barriere, che ostacolavano l’accesso alle professioni. Il problema principale stava negli squilibri e nei ruoli interni alla famiglia tradizionale, strutturata in base a un modello patriarcale, e in un’immagine convenzionale, ereditata dalla cultura tradizionale e riproposta dalla pubblicità e dai mass media, che confinava la donna a un ruolo subalterno. Alle lotte tese al miglioramento della condizione delle donne, attraverso misure legislative (legalizzazione dell’aborto volontario, riforma del diritto di famiglia, accesso alle professioni) andava affiancata una battaglia culturale volta a sconfiggere gli stereotipi. Questa problematica fu al centro della nuova corrente femminista, che ebbe origine negli Usa a metà anni ‘60, che presentava un cambio di impostazione rispetto alla fase precedente, sia per la radicalità degli obiettivi, sia per la novità dei metodi di lotta: la contestazione di tutti i modelli culturali legati al maschilismo, la valorizzazione dei caratteri femminili, l’autonomia dagli altri gruppi, il rifiuto dell’organizzazione politica tradizionale, e l’adozione del collettivo femminista come principale forma di aggregazione e di militanza. Negli anni ‘70 il movimento delle donne allargò ovunque il suo seguito, ma conobbe anche le prime divisioni interne: da una parte si insisteva sulla parità con l’uomo; dall’altra si tornava a rivendicare la specificità femminile, attraverso la rivalutazione di tratti tipici delle donne: la spontaneità, la dolcezza, la capacità di vivere i sentimenti, la conoscenza dei problemi emotivi. Anche la militanza femminista perse visibilità, ma i suoi effetti sono tuttora operanti. 12.9 Chiesa e società: il Concilio Vaticano II. La società consumistica trovò un avversario anche nella Chiesa di Roma. I cattolici costituivano ancora, negli anni ‘60, la più numerosa fra le comunità di credenti, e guardarono con preoccupazione il progressivo declino delle pratiche religiose tradizionali nelle aree industrializzate. La reazione sfociò in un tentativo di rinnovamento interno, con maggiore attenzione alla mutata realtà sociale e internazionale: il mondo cattolico maturò una accettazione delle istituzioni democratico-rappresentative, ma facendo proprio il principio della libertà religiosa come diritto fondamentale della persona. Il nuovo corso ebbe inizio col pontificato di Giovanni XXIII, salito al soglio nel 1958: egli cercò di rilanciare il ruolo ecumenico della Chiesa, e di instaurare un dialogo con le realtà esterne al mondo cattolico. La svolta fu sancita in due celebri encicliche: nella prima, la “Mater et Magistra” del 1961, il papa condannava l’egoismo dei ceti privilegiati e dei paesi ricchi, per incoraggiare il riformismo politico ed economico; la seconda, la “Pacem in Terris” del 1963, era dedicata ai rapporti internazionali, e conteneva un appello alla cooperazione fra i popoli e una proposta di dialogo con le religioni non cattoliche e con gli stessi non credenti. L’atto più importante del papa fu la convocazione di un Concilio ecumenico, cioè un’assemblea dei vescovi di tutto il mondo, il Vaticano II: apertosi nel 1962 il Concilio si prolungò fino al 1965 sotto il pontificato di Paolo VI, che continuò la svolta. Dal Concilio la Chiesa uscì rinnovata, sia nell’organizzazione interna (per il maggior peso assunto dal collegio dei vescovi rispetto al papa e alla Curia romana), sia nella liturgia: l’innovazione fu l’introduzione della messa nelle lingue nazionali, anziché in latino. Inoltre, fu affermata la necessità del dialogo con le altre Chiese, in vista di una possibile futura riunificazione della Cristianità. Nacquero in molti paesi nuove correnti e nuovi movimenti, che cercarono di coniugare il messaggio cattolico con l’impegno nelle lotte sociali: gruppi di “cattolici del dissenso” si formarono in Italia e in Francia (fine anni ‘60), e spesso andarono a confluire nei partiti di sinistra o nei movimenti del ‘68. In America Latina la partecipazione di sacerdoti e di gruppi cattolici alla lotta contro le dittature fu addirittura all’origine della nuova “teologia della liberazione”, che reinterpretava il messaggio cristiano, nel quadro di una concezione marxista della storia: fu ufficialmente condannata dalla Chiesa. D’altra parte, le novità suscitarono anche la reazione di un gruppo di prelati, che facevano capo all’arcivescovo francese Lefebvre: essi contestarono le innovazioni, come la messa in volgare, ma anche lo spirito stesso del Concilio, rivendicando il primato dell’unica verità . Il movimento tradizionalista diede vita a un vero e proprio scisma, ufficializzato nel 1988, raccogliendo però l’adesione di minoranze. Mariangela Lamanna Capitolo 13 - ANNI DI CAMBIAMENTO: 13.1 La fine dell’ “età dell’oro”: la crisi petrolifera. Negli anni ‘70, siinterruppe il ciclo espansivo dell’economia mondiale: si trattò di una svolta dalle conseguenze traumatiche. Fu segnata soprattutto da due eventi. 1. Il primo, nel 1971, fu la scelta degli Usa di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, convertibilità che costituiva il pilastro del sistema monetario internazionali disegnato dagli accordi di Bretton Woods del 1944, e basato su rapporti di cambio fissi fra le monete dei paesi aderenti. Tale decisione era il segno delle difficoltà dell’economia americana, non più in grado di garantire con le sue riserve auree il cambio: iniziò una fase di instabilità, segnata dalla tendenza all’inflazione. 2. Il secondo, fu la decisione presa dai principali paesi produttori di petrolio, nel 1973, in seguito alla guerra arabo- israeliana, di quadruplicare il prezzo della materia prima: fu l’inizio di una progressiva ascesa delle quotazioni del greggio. Lo “shock petrolifero” colpì i paesi industrializzati che dipendevano dalle importazioni per il fabbisogno energetico, poiché sprovvisti di proprie riserve petrolifere, come l’Italia e il Giappone: fu il fattore scatenante della crisi economica. Ovunque, fra il 1974-75, la produzione industriale fece un brusco calo, per poi riprendere a crescere a partire dal 1976, ma con ritmi più lenti. La recessione produttiva si accompagnò a una generale crescita dell’inflazione, con tassi di aumento del costo della vita: questo fenomeno inedito, definito “stagflazione” (stagnazione+inflazione), era dovuto all’origine esterna dell’inflazione (aumento dei prezzi del petrolio e delle materie prime) e alla maggiore rigidità dei salari. Sul piano sociale, la conseguenza fu la crescita della disoccupazione, anche se il problema era attutito dalla presenza di “ammortizzatori sociali”, come i sussidi di disoccupazione e le sovvenzioni statali alle industrie in crisi. Tuttavia, a subire gli effetti della crisi fu lo stesso modello del Welfare State: la crescita della spesa pubblica, non più sostenuta da un adeguato sviluppo produttivo, costrinse i governi ad aumentare la pressione fiscale, suscitando critiche contro lo Stato assistenziale e contro l’intervento pubblico in economia, e un ritorno in auge delle teorie liberiste e del monetarismo. Da qui, l’avvento al potere dei conservatori in Gran Bretagna con Margaret Thatcher, nel 1979, e l’elezione alla presidenza Usa del repubblicano Reagan, nel 1980, La crisi petrolifera rivelò un’insospettata fragilità dei paesi più avanzati. 13.2 I problemi dell’ambiente. Il primo problema che la crisi petrolifera rese evidente fu quello del carattere limitato ed esauribile delle risorse naturali del pianeta: alla protesta ideologica contro la società dei consumi si sovrappose una critica animata dai movimenti ambientalisti, o verdi, attenta alle tematiche dell’ecologia e fondata sulla denuncia delle minacce portate dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione all’equilibrio naturale del pianeta. Il degrado dell’ambiente era iniziato con la prima rivoluzione industriale, ma si era aggravato soprattutto per il crescente utilizzo dei combustibili fossili, prima il carbone poi il petrolio: il traffico automobilistico sarebbe diventato la maggiore fonte di inquinamento a livello mondiale. Se si voleva continuare a sostenere la crescita economica senza compromettere irrimediabilmente le condizioni ambientali, già dagli anni ‘70, appariva necessario utilizzare fonti di energia alternative ai combustibili fossili. I governi da un lato adottarono politiche di risparmio energetico, cercando di limitare la circolazione dei mezzi di trasporto privati e di contenere i consumi di elettricità, dall’altro promossero la ricerca e l’uso di nuove fonti di energia. Usa, Francia, Germania federale e Giappone, puntarono sullo sviluppo delle centrali nucleari, in grado di fornire energia a costi inferiori, ma contestate dagli ecologisti per i problemi legati allo smaltimento delle scorie e per i danni che potevano provocare in caso di incidenti: come dimostrò, nel 1986, il disastro della centrale nucleare di Cernobyl’ in Ucraina. Altrove si riscoprì il carbone, o si avviò lo sfruttamento dell’energia solare e di quella eolica: energie pulite e inesauribili, il cui impiego stentò ad affermarsi a causa delle difficoltà tecniche e degli elevati costi iniziali. Tra gli anni 1980-90, l’emergenza ambientale sembrò ridimensionarsi, e la scoperta di nuovi giacimenti petroliferi rallentò la spinta alla ricerca di fonti alternative: ci fu una nuova fase di crescita produttiva. Tuttavia, non venne meno per questo l’attenzione per i problemi ecologici: la ricerca di uno sviluppo sostenibile, capace cioè di conciliare crescita produttiva e tutela dell’ambiente, restò al centro dei dibattiti scientifici, dell’attività dei governi e delle organizzazioni internazionali. La Commissione sull’ambiente e sullo sviluppo delle Nazioni Unite si espresse al riguardo col rapporto Brundtland del 1987. Anche i governi avviarono politiche ambientaliste. Nel 1992, in una conferenza dell’Onu, oltre 140 paesi si impegnarono a limitare l’inquinamento atmosferico, e a perseguire uno sviluppo economico sostenibile: i risultati furono mediocri. Così, nel 1997, un nuovo vertice internazionale sull’ambiente elaborò un nuovo documento, il Protocollo di Kyoto, che aveva lo scopo di obbligare gli Stati a ridurre le emissioni di anidride carbonica entro un quindicennio: questo programma, che implicava alti costi per l’ammodernamento degli impianti, non fu condiviso né dagli Usa, né dalle potenze industriali emergenti, come la Cina e l’India. 13.3 Crisi delle ideologie e terrorismo. Negli anni 1960-70, la cultura egemone era quella di sinistra, sia nella versione riformista, sia nella versione rivoluzionaria: entrambe si basavano sul presupposto di un’illimitata capacità espansiva del sistema economico. Dall’avvento della crisi petrolifera, queste e altre certezze cominciarono a venir meno: la crisi energetica metteva in discussione la prospettiva di uno sviluppo industriale continuo, e inoltre le Mariangela Lamanna trasformazioni economiche e le nuove tecnologie ridimensionavano il peso numerico e politico della classe operaia. D’altra parte l’Urss vedeva appannarsi la sua immagine per gli insuccessi in campo economico, e alcuni partiti comunisti dell’Europa occidentale cominciarono a prenderne le distanze. Delusioni vennero anche dagli Stati comunisti come Cina, Cuba, Vietnam e Cambogia, che mostrarono il loro carattere dispotico, inizialmente considerati esempi alternativi all’Urss. Si parlò di “grande riflusso”, per indicare la caduta dei progetti di trasformazione politica e sociale: veniva messa in discussione la stessa capacità delle ideologie di interpretare la realtà e porsi come veicoli di trasformazione sociale. La generale caduta della tensione politica finì col lasciare isolate e incontrollabili le componenti estremiste e violente dei movimenti di contestazione giovanile, attivi alla fine degli anni ‘60. Si assistette così, in alcuni paesi dell’Europa occidentale, a una esplosione di terrorismo politico, attuato da piccoli gruppi clandestini militarizzati: le Brigate rosse in Italia, la Raf (“Frazione dell’Armata rossa”) attiva in Germania, il gruppo di Action directe in Francia; queste agivano sulla base di parole d’ordine ispirate a una versione estremizzata del marxismo-leninismo, e colpivano con attentati, omicidi, ferimenti e sequestri personaggi o istituzioni che loro identificavano “da abbattere”. Questo terrorismo era ispirato, nel modello organizzativo, ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo, soprattutto a quello palestinese. Tra gli anni 1970-80 i gruppi terroristici italiani e tedeschi furono sconfitti prima politicamente, nel fallito tentativo di mobilitare la classe operaia, poi sul piano dell’azione repressiva, con l’arresto dei suoi componenti. Tuttavia, il terrorismo come fenomeno internazionale, spesso finanziato e strumentalizzato da Stati contro altri Stati, non scomparve e si espresse attraverso azioni sanguinose: la più grave fu l’attentato al papa Giovanni Paolo II nel 1981 da parte di un terrorista turco, sospettato di legami con i servizi segreti dell’Europa dell’Est. 13.4 Gli Stati Uniti: da Nixon a Reagan. Il repubblicano Nixon, eletto per la seconda volta presidente Usa nel 1972, pose fine all’impegno militare in Vietnam, ma fu travolto nel 1974 da uno scandalo legato alla campagna elettorale: il caso Watergate, nome dell’albergo dove collaboratori del presidente avevano condotto un’operazione di spionaggio ai danni del Partito democratico. Nixon fu costretto a dimettersi. Dopo due anni di presidenza del vice di Nixon, il repubblicano Ford, Il democratico Carter, diventato capo dello Stato nel 1976, promosse una politica fondata sul riconoscimento del diritto di autodeterminazione e sulla difesa dei diritti umani: questa linea, opposta a quella realista di Nixon, da un lato contribuì a rendere tesi i rapporti con l’Urss, dall’altro fu criticata, in quanto lasciava spazio all’affermazione di regimi ostili agli Usa in Africa, in America Latina e in Medio Oriente, come Iran. Nelle elezioni del 1980 fu sconfitto da Reagan, ex attore, esponente dell’ala destra del Partito repubblicano; egli si presentò con un programma liberista, basato sulla riduzione delle tasse e della spesa pubblica. Inoltre, promise di adottare in politica estera una linea dura nei confronti dell’Urss e di tutti i nemici degli Usa, incarnando l’orgoglio nazionalista. Il suo successo, confermato nelle elezioni del 1984, si dovette anche al buon andamento dell’economia che, fra il 1983-86, riprese a marciare grazie allo sviluppo dei settori di punta, legati all’elettronica e alle produzioni militari. D’altra parte, i settori industriali, come la siderurgia e la meccanica, conobbero un netto declino e molte imprese entrarono in crisi poiché private di sussidio pubblico. Le disuguaglianze sociali si accentuarono, in seguito al taglio delle spese per l’assistenza e per le pensioni. In compenso, l’inflazione fu contenuta, la disoccupazione fu riassorbita, e il dollaro tornò ad essere la moneta forte dell’economia mondiale, nonostante il permanere di un deficit nel bilancio dello Stato, dovuto alla continua crescita della spesa militare. Il mantenimento di un alto livello di armamenti costituì un elemento essenziale nella strategia di Reagan, tesa a far valere il peso militare degli Usa. Va ricordato anche l’appoggio di Reagan all’Iniziativa di difesa strategica (Sdi), mirante a creare una sorta di scudo elettronico spaziale capace di neutralizzare, mediante raggi laser, qualsiasi minaccia missilistica: progetto criticato, in quanto rischiava di mettere in moto nuove spese militari in entrambe le superpotenze. Gli Usa intensificarono la fornitura di armi ai gruppi armati, che combattevano contro i regimi filocomunisti sia in America Latina, sia in Afghanistan. Inoltre, intervennero con azioni punitive contro i paesi accusati di favorire il terrorismo internazionale: clamoroso fu l’attacco aereo lanciato nel 1986 contro la Libia di Gheddafi, in risposta a un attentato in cui erano rimasti vittime militari statunitensi. La linea interventista e aggressiva seguita da Reagan, e poi nel 1988 dal suo successore, George Bush, non impedì però l’avvio di un dialogo con l’Urss. 13.5 L’Unione Sovietica: da Breznev a Gorbacev. Tra il 1960-80 l’Urss di Breznev vide accentuarsi il declino economico e politico: il settore agricolo era inefficiente e incapace di sopperire al fabbisogno alimentare del paese, costretto a importare i cereali; l’apparato industriale era grande, invecchiato, orientato a obiettivi militari, e inadeguato a tenere il passo con la domanda di beni di consumo; la burocrazia era invasiva. Si inasprì, inoltre, l’attività repressiva nei confronti degli intellettuali dissidenti, molti esiliati, condannati o internati in cliniche psichiatriche. Nel 1975 l’Urss partecipò alla conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Csce), sottoscrivendo gli accordi finali, che garantivano il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà politiche fondamentali. Eppure in questi anni, l’Urss riuscì a profittare della debolezza degli Usa per avvantaggiarsi nella corsa agli armamenti, e per ampliare la sua influenza in tutti i continenti. Il risultato fu il riacutizzarsi delle tensioni internazionali, in quella che fu chiamata “Seconda guerra fredda”, e che Mariangela Lamanna rapido sviluppo economico, e che non si riconosceva più nelle strutture del regime clericale e autoritario. Il re, quindi, chiamò alla guida del governo Suarez: furono legalizzati i partiti e i sindacati liberi, e fu approvata per referendum, nel 1978, una Costituzione democratica. La democrazia spagnola si consolidò e sopportò il cambio di potere che si verificò, nel 1982, con la vittoria elettorale dei socialisti di Gonzalez. 13.9 L’America Latina e la fine delle dittature. Negli anni ‘80, ci fu un complessivo fallimento delle dittature militari e dei regimi populisti. La prima dittatura a cadere fu quella instaurata in Argentina dai generali: nel 1982, il governo procedette all’occupazione delle isole Falkland, tenute da secoli dalla Gran Bretagna. Tuttavia, il governo britannico Thatcher reagì inviando navi, aerei e truppe. Gli argentini furono ricacciati. I generali furono costretti a dimettersi e a convocare, nel 1983, libere elezioni, che furono vinte dal radicale Alfonsin. In Brasile, dove già negli anni ‘70 i militari avevano allentato le maglie della dittatura, le prime libere elezioni presidenziali si tennero nel 1985. Fra il 1984-85, si ebbero libere consultazioni in Perù, Uruguay e Bolivia. Nel 1988, in Cile il regime di Pinochet fu sconfitto in un referendum indetto dallo stesso dittatore: le elezioni presidenziali del 1989 videro la vittoria del candidato delle opposizioni, il democratico Aylwin. Nel 1989 fu rovesciata anche la dittatura del generale Stroessner in Paraguay. Il consolidamento della democrazia trovava degli ostacoli, anche di natura economica. In Argentina le conseguenze dell’inflazione logorarono l’esperimento di Alfonsin e determinarono, nelle elezioni del 1989, l’affermazione del candidato peronista Menem. Anche in Brasile l’inflazione portò a una crisi istituzionale, che vide il presidente de Mello, eletto nel 1989, costretto a dimettersi alla fine del 1992. In Perù, dove un movimento di guerriglia di ispirazione maoista, chiamato “Sendero luminoso”, si era reso sospendendo la Costituzione ed esautorando il Parlamento. In Colombia la minaccia più grave era l’attività dei grandi trafficanti di droga: grazie agli enormi profitti realizzati, e al fatto che la coltivazione della coca rappresentava la principale risorsa di intere regioni poverissime, i narcotrafficanti potevano condizionare, con la corruzione e con la violenza, l’operato dei poteri locali e degli stessi governi, non solo della Colombia, ma anche del Messico. Travagliata era la situazione dei piccoli Stati dell’America centrale, dove la fine delle ultime dittature, come Somoza in Nicaragua (1979) e Duvalier a Haiti (1986) non si tradusse in democrazia. Ulteriore fattore di tensione fu costituito, negli anni ‘80, dagli avvenimenti del Nicaragua, dove un gruppo rivoluzionario di sinistra, il movimento sandinista (da Sandino, eroe nazionale e protagonista della lotta anti-imperialista negli anni ‘20) prese il potere nel 1979. Si creò una forte tensione, sfociata nell’appoggio degli Usa di Reagan ai movimenti armati anti-sandinisti, i contras. Solo nel 1989 si giunse a una tregua, in seguito alla quale i contras sospesero la guerriglia, in cambio della promessa del governo di convocare libere elezioni: si tennero nel 1990, e furono vinte dal fronte delle opposizioni anti-sandiniste. La sconfitta dei sandinisti accentuava l’isolamento di Cuba, dove il regime di Fidel Castro era messo in seria difficoltà dal collasso dell’Urss, suo principale partner economico. Mentre il quadro politico dell’America Latina, in questi anni, in generale si stabilizzò, quello economico si presentò contraddittorio. Quasi tutti i paesi latino-americani furono travagliati dall’inflazione, con tassi di aumento dei prezzi vertiginosi, e dovettero contemporaneamente far fronte a un carico di debiti con l’estero, contratti per finanziare ambiziosi programmi di sviluppo. 13.10 Nuovi conflitti nell’Asia comunista. Amara fu la delusione dell’opinione pubblica progressista di fronte alle vicende che seguirono la presa del potere da parte dei comunisti in Vietnam, Cambogia e Laos. Dopo la conquista, nel 1975, di Saigon, i nordvietnamiti ignorarono le promesse di autodeterminazione e di riconciliazione fra le due metà del paese, attuando una politica di annessione del Sud da parte del Nord, e di sistematica emarginazione, non solo dei sostenitori del vecchio regime, ma anche dei capi della guerriglia contro l’occupazione americana. Inotre, l’economia fu collettivizzata, e nel 1978 la comunità di origine cinese fu espropriata dei suoi averi: di conseguenza, migliaia di persone abbandonarono il paese. In Cambogia, i guerriglieri comunisti, i khmer rossi, sotto la guida di Pol Pot, misero in atto, tra il 1976-78, uno dei più sanguinari esperimenti di rivoluzione sociale: nell’intento di cancellare ogni traccia della vecchia società e di costruirne una nuova, i comunisti cambogiani consumarono uno spaventoso massacro, eliminando fisicamente, ma anche provocando la morte per fame. Inoltre, il denaro fu abolito e templi, biblioteche e istituzioni furono distrutti. Appoggiato dalla Cina, il regime di Pol Pot costituiva però un ostacolo per i piani del Vietnam, che intendeva ridurre l’intera Indocina sotto la sua influenza, e lo stava già facendo col Laos. Nel 1978, vietnamiti, insieme a gruppi di esuli cambogiani, invadevano il paese e vi installavano un governo “amico”, rovesciando quello dei khmer rossi, i quali, col segno della Cina, avrebbero continuato la guerriglia. Nel 1979 i cinesi effettuarono una spedizione punitiva nel Vietnam del Nord, senza raggiungere lo scopo di costringere il governo vietnamita a ritirare le truppe dalla Cambogia. Solo nel 1988, grazie alla mediazione dell’Onu, le forze vietnamite cominciarono a ritirarsi, e nel 1991 si giunse a un accordo fra le fazioni in lotta, che avrebbe portato alla restaurazione della monarchia e alla convocazione di libere elezioni. 13.11 La Cina dopo Mao. Dopo la morte di Mao Zedong, nel 1976, si aprì nella Cina comunista un processo di revisione interna con Mariangela Lamanna esiti radicali. Artefice principale della “demaoizzazione” fu Deng Xiaoping, dirigente storico del comunismo cinese, emarginato ai tempi della rivoluzione culturale: riabilitato per iniziativa del primo ministro Chou En-lai, Xiaoping assume, nel 1981, la guida del partito e dello Stato. Egli promosse una serie di modifiche nella gestione dell’economia: furono reintrodotte le differenze salariali e aumentati gli incentivi per i lavoratori; la direzione delle aziende fu ricondotta a criteri di efficienza; fu incoraggiata l’importazione di tecnologia dai paesi più sviluppati; i contadini ebbero la possibilità di coltivare i propri fondi e di venderne i prodotti sul mercato libero; furono introdotti nel sistema elementi di economia di mercato. Come nell’Urss ai tempi della Nep, si formarono nuovi strati privilegiati di manager, piccoli imprenditori agricoli, tecnici e commercianti, mentre si affermavano modelli di vita di tipo “consumistico”. Proprio il contrasto fra modernizzazione economica e il mantenimento della struttura burocratico-autoritaria del potere fu all’origine, alla fine degli anni ‘80, di un fenomeno di contestazione: protagonisti della protesta furono gli studenti dell’Università di Pechino, che diedero vita, nel 1989, a pacifiche manifestazioni di piazza per chiedere più libertà e democrazia. Il gruppo dirigente comunista rispose con una brutale repressione militare e con l’epurazione dei vertici del partito. Ciò suscitò reazioni sdegnate in tutto il mondo democratico. Tuttavia, la protesta influì solo marginalmente nei rapporti commerciali fra la Cina e l’Occidente: troppo forte era l’interesse. Il regime cinese sarebbe riuscito, così, a sopravvivere. 13.12 Il Giappone: successi economici e debolezza politica. Fra i numerosi “miracoli economici”, quello del Giappone fu il più straordinario: paese povero di materie prime e con una densità di abitanti fra le maggiori del mondo, uscito dalla guerra in condizioni disastrose, il Giappone era diventano negli anni ‘60 la terza potenza economica del mondo. Negli anni ‘80 il suo prodotto nazionale superava addirittura quello sovietico, facendo di quella giapponese la seconda economia mondiale. La crisi petrolifera colpì il Giappone e provocò la prima brusca caduta della produzione, ma fu superata rapidamente. Tuttavia, sul piano politico, la tradizionale stabilità del paese fu messa a dura prova da una serie di scandali finanziari, che investirono il Partito liberal-democratico e lo portarono a perdere, nelle elezioni del 1992, la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Anomala fu la posizione internazionale del paese, in quanto privo di una adeguata forza militare propria; il Giappone vedeva, intanto, crescere le pressioni da parte dei suoi alleati per un maggiore contributo alle spese per la propria difesa, e per le attività delle Nazioni Unite. Capitolo 14 - LA CADUTA DEI COMUNISMI IN EUROPA: 14.1 Un impero in crisi. Negli anni ‘70, l’immagine dell’Urss aveva subito un inesorabile declino: se la crisi si verificò, ciò fu dovuto in primo luogo alla sconfitta dell’Urss nella competizione con l’Occidente sul terreno dello sviluppo, del benessere economico e della giustizia sociale. Ma il fattore che rese irreversibile la crisi fu l’impossibilità di riformare un sistema che si era fino ad allora tenuto in piedi grazie al suo carattere “chiuso”, e al potere militare. Nel momento in cui il riformismo di Gorbacev aprì le prime brecce nel sistema, l’intera costruzione crollò, e con essa crollarono anche gli equilibri internazionali. Ad Approfittarne per prima fu la Polonia: nel 1980-81 era, infatti, nato un sindacato indipendente a forte base operaia, e di dichiarata ispirazione cattolica, chiamato Solidarnosc, guidato dal leader Walesa. Tra l’altro, la Polonia era sempre stata la più refrattaria all’imposizione del modello comunista. Il clero, inoltre, aveva svolto funzione di salvaguardia dell’identità nazionale: funzione che risultò rafforzata con l’ascesa al soglio pontificio, nel 1978, del polacco Wojtyla, col nome di Giovanni Paolo II. Nel 1981, il generale Jaruzelski assunse la guida del governo e del Partito operaio polacco (Poup), equivalente del Partito comunista. Di fronte al ruolo politico crescente di Solidarnosc, Jaruzelski assunse i pieni poteri (si parlò di “autogolpe”) e mise fuori legge Solidarnosc, i cui maggiori dirigenti furono arrestati. In seguito, allentò le misure repressive e cercò di riallacciare il dialogo con la Chiesa e con lo stesso sindacato indipendente, che continuava a operare in semi-clandestinità. Dopo la svolta di Gorbacev in Urss, il dialogo si intensificò, fino all’apertura, nel 1989, di un tavolo ufficiale di negoziato: ne uscì un accordo su una riforma costituzionale, che prevedeva lo svolgimento di libere elezioni, che si tennero nello stesso anno, e videro la vittoria di Solidarnosc. Si aprì così la strada alla nascita di un governo di coalizione, presieduto dall’economista cattolico Mazowiecki. Gli avvenimenti polacchi diedero avvio a una reazione a catena che, tra il 1989-90, avrebbe messo in crisi l’intero sistema delle “democrazie popolari”. In Ungheria, dove nel 1989 era stato deposto il vecchio Kadar, i nuovi dirigenti comunisti riabilitarono i protagonisti della rivolta del 1956, legalizzarono i partiti e indissero libere elezioni per l’anno successivo. Ma la decisione più importante fu la rimozione dei controlli polizieschi e delle barriere di filo spinato al confine con l’Austria: si apriva, così, una breccia nella “cortina di ferro”, che da mezzo secolo impediva la libera circolazione delle persone fra le due Europe. 14.2 Il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca. Nel 1989, migliaia di cittadini della Germania comunista (la Ddr) abbandonarono il loro paese per Mariangela Lamanna raggiungere la Repubblica federale attraverso l’Ungheria e l’Austria: la fuga di massa mise in crisi il regime comunista, costringendo alle dimissioni il segretario Honecker. I nuovi dirigenti avviarono un processo di riforme interne, e liberalizzarono la concessione dei visti d’uscita dal paese e dei permessi di espatrio. Il 9 novembre 1989 i berlinesi si riversarono nei varchi aperti, li oltrepassarono e infine, in un’atmosfera di festa, cominciarono a smantellare materialmente il muro: il Crollo del Muro di Berlino, che coincise con l’apertura dei confini fra le due Germanie, rappresentò la fine della guerra fredda e della divisione in due blocchi dell’Europa, ed ebbe come conseguenza il rilancio della questione dell’unità tedesca. Nel 1990 si tennero libere elezioni nella Germania dell’Est: la vittoria andò ai cristiano-democratici che, in accordo con i loro compagni di partito allora al governo nella Germania Ovest, accelerarono i tempi per la liquidazione di una entità statale, la Ddr, ormai privata di legittimità e svuotata di funzione storica. Il governo, guidato da Kohl, riuscì in pochi mesi a preparare l’operazione della riunificazione del paese, e a fare accettare anche all’Urss la nuova realtà di una Germania unita e integrata nell’Alleanza atlantica: i due governi tedeschi firmarono un trattato per l’unificazione economica e monetaria. In ottobre 1990, entrò in vigore il trattato di unificazione politica, accettato dalle ex potenze occupanti, compresa l’Urss. Non fu varata una nuova Costituzione e non vi fu bisogno di una nuova moneta: ai tedeschi orientali fu consentito di convertire la loro valuta in marchi a un tasso di cambio favorevole. Nei due decenni successivi, il divario fra le due parti si sarebbe ridotto: La Germania tornava ad essere uno Stato unitario, il più forte economicamente e politicamente dell’intero continente europeo. 14.3 la fine delle “democrazie popolari”. L’abbattimento della “cortina di ferro” provocò la caduta di tutti i regimi comunisti dell’Europa orientale. In Cecoslovacchia, nel 1989, ci fu una serie di manifestazioni popolari che costrinse alle dimissioni il gruppo dirigente comunista. Il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica lo scrittore democratico Havel: il passaggio di potere si realizzò senza spargimento di sangue, tanto che si parlò di “rivoluzione di velluto”. Così come pacifico fu il processo di democratizzazione nella maggior parte delle ex “democrazie popolari”: oltre che in Polonia, dove le elezioni del 1990 portarono alla guida dello Stato Walesa, i regimi comunisti caddero anche in Ungheria, in Bulgaria e in Albania. Fece eccezione la Romania, dove la dittatura personale di Ceausescu fu travolta, nel dicembre 1989, da un’insurrezione popolare: dopo un sanguinoso tentativo di repressione, Ceausescu fu catturato e messo a morte insieme alla moglie. Caso ancora diverso fu la Jugoslavia, dove già dal 1980 (morte di Tito) si era aperta una crisi economica e istituzionale, e si erano fatti più difficili i rapporti fra i diversi gruppi etnici. Quindi, i paesi ex satelliti dell’Urss dovettero affrontare i problemi legati alla riconversione dell’apparato produttivo in funzione del mercato, con la chiusura di molte imprese di Stato e la conseguente crescita della disoccupazione. Sul piano politico, ci fu una proliferazione di forze politiche, come il Forum democratico in Ungheria, e il Forum civico in Cecoslovacchia. I gruppi dirigenti comunisti furono per lo più sconfitti nelle prime elezioni libere. Tuttavia, in casi come la Polonia, la Romania e l’Ungheria, ritornarono al potere sotto nuove denominazioni. Comunque, le istituzioni democratiche non furono rimesse in discussione. 14.4 La dissoluzione dell’Urss. Successivamente, presero vigore anche le spinte centrifughe interne all’Unione Sovietica, che subì una progressiva disgregazione. Nel 1990, la stessa Repubblica russa, la più grande e popolosa dell’Unione, rivendicò la propria autonomia dal potere federale ed elesse alla propria presidenza il riformista radicale Boris Eltsin, confermato da un’elezione popolare a suffragio diretto. La crisi dell’Urss si acutizzò nel 1990-91, con l’aggravarsi della situazione economica: Gorbacev cercò di mediare fra le spinte liberalizzatrici e le pressioni del partito, alternando concessioni e interventi repressivi, e proponendo un nuovo patto federativo che allargasse gli spazi di autonomia delle Repubbliche sovietiche. Questo fragile equilibrio si ruppe nel 1991, quando degli esponenti della dirigenza sovietica tentarono un colpo di Stato per bloccare il processo di rinnovamento, che sequestrarono lo stesso Gorbacev. Tuttavia, il colpo di Stato, organizzato senza adeguata preparazione, fallì di fronte a un’inattesa protesta popolare e al mancato sostegno delle forze armate: a Mosca, ad agosto, una folla si raccolse a presidio delle libere istituzioni appena conquistate, ponendo i golpisti davanti alla scelta fra repressione o ritirata. Decisivo fu in quest’occasione il ruolo di Eltsin che, dopo aver capeggiato la resistenza popolare, si propose come detentore del potere. Il fallimento del golpe, inoltre, accelerò la crisi dell’autorità centrale, che produsse un effetto valanga: le prime a rivendicare la Mariangela Lamanna ai metodi usati nella raccolta di fondi per la campagna elettorale. Queste accuse, non provate o prive di rilievo penale, non ne scalfirono la popolarità. Nel 2000, scaduto il secondo mandato, le elezioni presidenziali furono vinte dal figlio di Bush: i primi atti si ispirarono a una linea conservatrice in politica interna (tagli alle tasse, contenimento della spesa pubblica) e orientata, in politica estera, alla tutela degli interessi nazionali. La strategia “neoisolazionista” di Bush junior non poté, tuttavia, attuarsi appieno: l’attentato alle Twin Towers di NY dell’11 settembre 2001 avrebbe costretto gli Usa a un impegno su scala mondiale, in nome della lotta contro il terrorismo. Capitolo 15 - L’UNIONE EUROPEA: 15.1 Il progetto europeo fra utopia e realismo. La fine della WW2 aveva privato l’Europa del suo ruolo di centro della politica mondiale: da qui era nata una nuova spinta alla creazione di una comunità integrata su scala continentale. Questa prospettiva federalista, fondata cioè su una federazione politica, non riuscì, però, ad affermarsi. Inoltre, in un’Europa divisa in due, il progetto non poteva che riguardare la sola metà occidentale. Prevalse, così, un approccio meno ambizioso e più concreto, ben esemplificato dall’istituzione della Ceca nel 1951, e poi della Comunità economica europea nel 1957: un approccio detto “funzionalista”, e che privilegiava la messa in comune di funzioni e compiti specifici, trasferendone la gestione dalle autorità nazionali a quelle comunitarie: un’integrazione graduale e settoriale. Ma l’approccio empirico consentì di mantenere in vita la prospettiva comunitaria, e di costruire il nucleo di un’entità sovranazionale. 15.2 L’allargamento della Cee. Tra il 1973-86, la Comunità economica europea (Cee), allargò i suoi confini, e raddoppiò il numero dei suoi membri, da sei a dodici: grazie all’adesione di Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca, e poi dei paesi mediterranei (Grecia, Portogallo e Spagna), che si erano liberati da regimi autoritari. Fu un passo avanti. Nell’immediato, però, l’allargamento suscitava problemi nella gestione delle politiche comunitarie, e faceva risaltare le distanze economiche e culturali: tutto questo rendeva più lento il cammino verso l’integrazione politica, vero obiettivo della costruzione europea. Tuttavia, il processo non si arrestò. Nel 1974, si decise che i capi di governo dei paesi membri si sarebbero incontrati a scadenze regolari, dando vita di fatto a un nuovo organismo, il Consiglio europeo, che avrebbe avuto la responsabilità di tracciare le linee-guida del processo di integrazione; invece, alla Commissione europea restavano affidati i compiti operativi, come l’attuazione dei singoli provvedimenti e la gestione delle risorse finanziarie. Inoltre, si stabilì che il Parlamento europeo sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini, con scadenze quinquennali, in base alle leggi elettorali vigenti nei singoli paesi; i poteri del Parlamento, con sede a Strasburgo e a Bruxelles, non mutarono. Le prime elezioni per il Parlamento europeo si tennero nel 1979. Al fine di rilanciare il processo di integrazione economica, compromesso dalla crisi petrolifera, e di proteggere le economie nazionali dall’instabilità valutaria, entrò in funzione il Sistema monetario europeo (Sme): un sistema di cambi fissi fra le monete dei paesi membri, cui aderirono tutti i membri della Cee, salvo la Gran Bretagna. Mariangela Lamanna 15.3 La creazione dell’Unione Europea. I dodici paesi membri della Comunità europea (sarebbero diventati quindici nel 1995, in seguito all’adesione di Austria, Svezia e Finlandia) decisero di dare nuovo impulso al processo di integrazione: nel 1985, firmarono gli accordi di Schengen (Lussemburgo), che impegnavano gli Stati membri ad abolire entro dieci anni i controlli alle frontiere sul transito delle persone. Nel 1986, fu sottoscritto l’Atto unico europeo, che affrontava gli aspetti riguardanti l’economia e quelli relativi al rafforzamento della cooperazione politica. Si stabiliva, inoltre, che entro il 1992 sarebbero state rimosse le residue barriere alla circolazione delle merci e dei capitali, e si introduceva il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio europeo dei ministri, le cui decisioni sin allora potevano essere bloccate dal veto di ogni singolo Stato. Le direttive dell’Atto unico divennero esecutive con la firma, nel 1992, nella città olandese di Maastricht, di un nuovo trattato che istituiva l’Unione europea → sanciva la completa unificazione dei mercati a partire dal 1993, e allargava l’area di competenza delle istituzioni europee a campi nuovi, fra cui la ricerca, l’istruzione, la sanità pubblica e la tutela dei consumatori. Si prevedeva, tra l’altro, una politica estera e di sicurezza comune (Pesc). Importante fu, però, l’impegno a realizzare entro il 1999 il progetto di una moneta comune: si stabiliva, come condizione per l’adesione all’Unione monetaria, l’adeguamento a una serie di parametri comuni, detti “criteri di convergenza”, che avrebbero dovuto garantire la solidità della nuova moneta: tassi di inflazione contenuti, cambi stabili per un periodo di almeno due anni prima dell’entrata in vigore della moneta unica, deficit statale annuo non superiore al 3% del prodotto interno lordo, e debito pubblico non superiore al 60%. 15.4 L’euro e le politiche di austerità. Il cammino si rivelò pieno di difficoltà, sia perché non era facile coordinare le decisioni dei singoli governi nazionali, sia perché la libertà di circolazione dei capitali favoriva le operazioni speculative contro le valute deboli: nel 1993 Gran Bretagna e Italia furono costrette a svalutare le loro monete. Inoltre, gli sforzi dei governi per adeguarsi ai parametri, mediante tagli alla spesa pubblica, soprattutto nei settori come l’assistenza sanitaria, pensioni, e trasferimenti agli enti locali, provocarono proteste, testimoniate dall’esito dei referendum sull’Unione tenuti in alcuni paesi. Le politiche restrittive, infatti, aggravavano la crisi dei sistemi di Welfare, e rendevano difficile l’uso della spesa pubblica per creare nuovi posti di lavoro. Per tutti gli anni ‘90, la disoccupazione si mantenne su livelli elevati. D’altronde, Il trattato di Maastricht non fece che mettere a nudo quei caratteri distorsivi che affliggevano le economie del Vecchio Continente, e le rendevano poco competitive: l’eccesso di spesa pubblica, che distoglieva risorse dagli investimenti produttivi; la difficile sostenibilità finanziaria dei sistemi di sicurezza sociale; la rigidità del mercato del lavoro, orientato più alla tutela dei “garantiti”, che alla creazione di nuove opportunità. Da questo punto di vista, i parametri europei ebbero effetti salutari sulle politiche economiche di paesi come l’Italia. Nel 1998, venne ufficialmente inaugurata l’Unione monetaria europea (Ume), con la partecipazione di undici Stati: restarono fuori la Grecia, che non aveva raggiunto i parametri (ammessa poi nel 2001), la Gran Bretagna, la Danimarca e la Svezia, che rinviarono l’adesione per loro scelta. Inoltre, venne istituita la Banca centrale europea (Bce), che assorbiva funzioni come l’emissione di moneta e il controllo del tasso di interesse. Quindi, si fissò al 1999 l’entrata in vigore negli scambi finanziari della moneta unica, destinata, nel 2002, a sostituire interamente le valute nazionali. 15.5 La scena politica europea tra XX e XXI secolo. Il progetto europeo finì col condizionare le scelte di governi e forze politiche. In un primo momento, parve che a farne le spese fossero i partiti di matrice socialista, costretti a confrontarsi con problemi poco congeniali ai loro orientamenti di fondo. In Germania, la coalizione fra cristiano-democratici e liberali, guidata da Kohl, prevalse per la quarta volta consecutiva nelle elezioni del 1994. In Francia, la coalizione di centro-destra portò alla presidenza della Repubblica, nel 1995, il gaullista Chirac. In Spagna, nel 1996, al potere salirono i conservatori di Aznar. Successivamente, la tendenza si invertì: le forze di ispirazione progressista si affermarono in Italia (1996), in Francia (1997) e in Gran Bretagna, dove nel 1997 i laburisti di Tony Blair prevalsero sui conservatori. In Francia, la vittoria delle sinistre, presentatesi con un programma che prevedeva fra l’altro la riduzione dell’orario di lavoro a trentacinque ore settimanali, suonò come un’implicita protesta contro l’applicazione troppo rigida delle regole stabilite a Maastricht. Nel 1998, in Germania vinsero i socialdemocratici di Schroder. Nel decennio successivo, conservatori e progressisti continuarono ad alternarsi. In Francia, le elezioni parlamentari del 2002 videro il ritorno al potere dei gaullisti, che nel 2007 portarono alla presidenza Sarkozy, poi sconfitto nel 2012 dal socialista Hollande. In Spagna, le elezioni del 2004 riconsegnarono il governo ai socialisti, guidati da Zapatero, confermato poi nel 2008, ma, anche in seguito alla crisi economica che aveva colpito il paese, perse le elezioni anticipate del 2011, e cedette la guida del governo al leader dei popolari Rajoy. In Germania, nel 2005, l’equilibrio fra i due partiti principali portò ad un accordo programmatico sulle misure necessarie per il rilancio dell’economia, e alla nascita di un governo di grande coalizione, presieduto dalla cristiano-democratica Merkel, che si sarebbe affermata nuovamente nel 2009, questa volta in coalizione Mariangela Lamanna con i liberali. In Gran Bretagna, l’esperienza di Blair, logorato anche dalla scelta di schierare il paese a fianco degli Usa nell’impopolare guerra contro l’Iraq, si concluse nel 2007, con le dimissioni di Blair, che lasciò la carica al suo collega di partito Gordon Brown. 15.6 L’allargamento dell’Unione tra progressi e resistenze. All’inizio del nuovo secolo, il cammino verso l’integrazione politica tornò a farsi più lento. Nel contempo, però, si accelerava il processo di allargamento, che avrebbe portato l’Unione a coincidere di fatto con l’Europa geografica (Russia esclusa). Richieste di associazione furono avanzate, negli anni ‘90, da tutti gli Stati dell’Europa ex comunista, e anche da paesi della sponda sud del Mediterraneo, tra cui la Turchia. Con Bulgaria, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Romania, Slovacchia, Slovenia, oltre a Polonia, Ungheria e Repubblica ceca (questi ultimi tre già membri della Nato) i negoziati per l’adesione ebbero inizio nel 1997 e, dopo una valutazione dei requisiti, fu deciso dal 2004 l’ingresso di dieci Stati: Bulgaria e Romania furono ammesse nel 2007, portando a 27 il numero degli Stati membri. Con l’ammissione della Croazia, nel 2013, il numero salì a 28. Questo allargamento riaccese il dibattito sul ruolo delle istituzioni comunitarie, e sulla loro capacità di offrire all’Europa una guida forte. Nel 2000, allo scopo di riformare l’Unione e di potenziarne l’azione, rispetto a quella dei governi nazionali, i paesi membri decisero di dar vita a una “Convenzione”, composta da parlamentari e rappresentanti dei governi, con il compito di redigere una Carta costituzionale della Ue. La Convenzione, nel 2001, presentò un progetto di Costituzione, che sarebbe stato approvato nel 2003: il documento conteneva un elenco dei principi generali alla base dell’Unione, e uno schema di riforma delle istituzioni comunitarie. Per un verso, tuttavia, il progetto comunitario appariva a molti calato dall’alto, e non riusciva a trovare un adeguato consenso popolare: nel 2005, gli elettori della Francia e dell’Olanda, entrambi paesi fondatori della Comunità europea, chiamati a decidere mediante referendum sulla ratifica della Costituzione, si pronunciarono per il “no” con margini netti. Nel 2007, un tentativo di rilanciare il processo di integrazione venne da un vertice europeo tenuto a Lisbona: i capi di Stato e di governo dei paesi membri si accordarono su un nuovo trattato di riforma, che correggeva, limitandone le ambizioni, la Convenzione di Nizza, ma allargava le competenze delle autorità europee in materia di energia, di sviluppo, di immigrazione e di lotta contro la criminalità. I progressi compiuti sul piano istituzionali, però, non bastarono a restituire slancio al processo di unificazione: anche perché, dal 2007, l’Europa intera fu colpita dalla crisi economica più grave mai verificatasi dopo il WW2. La crisi diede visibilità alle forze avverse all’integrazione. Inoltre, le difficoltà finanziarie dei paesi più deboli misero in allarme le più forti economie dei paesi del Nord, timorosi di doversi accollare gli oneri di eventuali insolvenze. Si cominciò, così, a parlare di una possibile uscita dall’Ue dei membri inadempienti, come la Grecia e la stessa Italia, gravati da un pesantissimo debito pubblico. D’altronde poi, ad abbandonare il progetto sarebbe stato, nel 2016, un paese “forte” come la Gran Bretagna: con la sua fuoriuscita, denominata “Brexit”, la costruzione europea subiva la sua prima defezione. Capitolo 17 - DECLINO E CRISI DELLA PRIMA REPUBBLICA: 17.1 Contestazione e riforme. La fine degli anni ‘60 fu caratterizzata in Italia da una radicalizzazione dello scontro sociale: la mobilitazione, cresciuta nel 1968, portò all’occupazione di facoltà universitarie, a manifestazioni e a scontri con le forze dell’ordine. La contestazione giovanile, pur riprendendo i temi degli altri movimenti studenteschi dei paesi occidentali (anti-imperialismo, protesta contro la guerra del Vietnam, anti-autoritarismo e avversione alla civiltà dei consumi) si caratterizzò in Italia per una connotazione marxista e rivoluzionaria: rifiuto della prassi politica tradizionale, esaltazione della democrazia, della pratica assembleare e dell’egualitarismo. Promosso da una minoranza borghese, per poi allargarsi a strati sociali più ampi, il movimento studentesco, dal 1968, individuò il suo interlocutore privilegiato nella classe operaia. L’operaismo fu anche il tratto distintivo di nuovi gruppi politici, destinati a vita breve, che nacquero tra il 1968-70 e che, per sottolineare il distacco dai partiti rappresentati in Parlamento, furono chiamati “extraparlamentari”: Potere operaio, Lotta continua, Avanguardia operaia. Autoritaria fu l’Unione dei marxisti-leninisti, ispirata all’esperienza della Cina di Mao e della rivoluzione culturale. Legata alle lotte, fu la nascita nel 1969 del Manifesto, costituitosi per iniziativa di dissidenti espulsi dal Partito comunista. Tutto ciò, coincise con un’intensa stagione di lotte dei lavoratori dell’industria, nel 1969, culminata nel cosiddetto “autunno caldo”: le lotte ebbero come protagonista la figura dell’operaio massa, ossia il lavoratore scarsamente qualificato, spesso immigrato (dal Sud al Nord), sul quale gravavano i disagi dell’inserimento. Questi conflitti aziendali si caratterizzarono per l’adozione dell’assemblea come momento decisionale e per la radicalità delle richieste: furono messe in discussione le disparità salariali tra gli operai con diverse qualifiche. Le tre maggiori organizzazioni sindacali (Cgil, Cisl e Uil) riuscirono a prendere in mano la direzione delle lotte e a pilotarle verso la firma di contratti nazionali, che assicurarono vantaggi salariali: queste tre, inoltre, avviarono un processo di parziale unificazione, sfociato Mariangela Lamanna fine di una ristrutturazione autoritaria dello Stato. Lo scioglimento della Loggia, nel 1981, non cancellò l’immagine di una connessione tra la classe politica e la malavita comune. Il dilagare delle organizzazioni criminali (la Mafia, la Camorra e la ‘Ndrangheta) si configurava come un’aperta sfida ai poteri dello Stato. L’episodio più drammatico fu, nel 1982, l’assassinio del generale Dalla Chiesa. Esiti positivi ebbe, invece, la lotta contro il terrorismo di sinistra: la svolta si delineò nel 1980, quando alcuni terroristi arrestati decisero di denunciare i compagni in libertà. Il numero dei pentiti, così impropriamente chiamati coloro che accettavano di collaborare con la giustizia, andò aumentando, grazie anche a una legge del 1980, che concedeva sconti di pena come compenso per il contributo fornito dagli imputati allo svolgimento delle indagini. Il numero degli attentati calò, e i principali gruppi clandestini, sempre più isolati, cessarono di esistere. 17.5 La crisi del sistema politico. La fine dell’emergenza terroristica non restituì, tuttavia, credibilità al ceto politico fondato sull’alleanza fra Dc e Psi. Tutto ciò alimentava un senso diffuso di sfiducia nei confronti dei partiti, approfondiva il distacco fra classe politica e società civile, e faceva crescere la polemica contro le disfunzioni del sistema. L’accordo che, nel 1985, consentì l’elezione alla presidenza della Repubblica del democristiano Cossiga non evitò il riproporsi dei contrasti tra Psi e Dc, quest’ultima decisa a rivendicare, in quanto partito di maggioranza relativa, la guida del governo. Si giunse, così, nel 1987, alla crisi del governo Craxi. Le elezioni del 1987 segnarono un’affermazione del Psi e un nuovo calo dei comunisti, cui fece riscontro una ripresa della Dc. Ma la novità fu l’apparizione di nuovi gruppi: il movimento dei Verdi, nato nel 1986, e le Leghe regionali, riunite nella Lega Nord sotto la guida di Bossi. Queste ultime, impostando la loro propaganda sulla polemica contro il centralismo statale e la pressione fiscale e sulla rivendicazione di una identità separata per le regioni del Nord, ma facendo anche leva su pregiudizi anti-meridionalisti, avrebbero ottenuto notevoli successi. Dopo le elezioni, la maggioranza di pentapartito si ricostituì, consentendo la formazione di nuovi governi a guida democristiana. Tuttavia, né quello formato nel 1988 dal segretario della Dc De Mita, né quello costituito nel 1989 da Andreotti riuscirono a condurre in porto riforme politiche significative: ora era tutto il sistema politico ad essere messo sotto accusa. Le radici della crisi furono individuate nel meccanismo elettorale proporzionale, nella debolezza dell’esecutivo, nell’impossibile alternanza al governo di schieramenti contrapposti. 17.6 Una difficile transizione. Ormai è consuetudine indicare con “Seconda Repubblica” l’assetto politico-istituzionale determinatosi in Italia, negli anni ‘90, con il crollo dei vecchi partiti, la nuova legge elettorale maggioritaria e il rinnovamento della classe politica, in direzione di un sistema bipolare. La nascita del nuovo sistema fu fu dovuta all’incombere delle scadenze legate all’ingresso dell’Italia nell’UE. Segnali negativi venivano anche dall’economia: dal 1990 la crescita si interruppe. Molte imprese italiane perdevano competitività sui mercati internazionali, anche perché penalizzate dall’inefficienza della pubblica amministrazione. Il tutto mentre l’inflazione restava elevata e il deficit del bilancio statale non accennava a ridursi, il che costringeva lo Stato a continue emissioni di titoli. Sul piano della vita politica, la prima novità fu la trasformazione del Pci nel nuovo Partito democratico di sinistra (Pds): questa decisione, nel 1991, avrebbe dovuto “sbloccare” la principale forza di opposizione e porre le premesse per una ricomposizione della sinistra italiana nel segno del riformismo democratico. Tuttavia, questo progetto si scontrò con le diffidenze che permanevano fra il Psi, ancora al governo, e il nuovo Pds, indebolito dalla scissione dell’ala, che diede vita al partito di Rifondazione comunista. Nel frattempo, si consolidavano, nel Settentrione, le posizioni della Lega Nord. In generale, la proliferazione di piccoli movimenti esasperava la frammentazione dello schieramento parlamentare e rendeva più difficile la governabilità. Per ciò le forze politiche cominciarono a prendere in considerazione una nuova legge elettorale capace di dare maggiore stabilità all’esecutivo. Nel 1991, il successo di un referendum abrogativo di parti della legge elettorale fu un risultato importante per il suo significato di protesta nei confronti del sistema vigente. Altra sollecitazione giungeva dal presidente della Repubblica Cossiga, che dichiarò di voler cambiare il sistema. Le elezioni del 1992 registrarono novità: venivano sconfitti la Dc e il Pds, mentre crescevano le forze politiche, come i Verdi e la Lega Nord, che si affermava come quarta forza politica nazionale. La coalizione di governo conservava una maggioranza parlamentare molto ridotta. Dopo le elezioni, in coincidenza di un attentato della mafia in cui morì Falcone, il Parlamento elesse alla presidenza della Repubblica il democristiano Scalfaro. D’altra parte, da poco un nuovo scandalo stava coinvolgendo uomini politici accusati di aver preteso e ottenuto tangenti per la concessione di appalti pubblici. L’inchiesta “Mani pulite” svelava un diffuso sistema di finanziamento illegale dei partiti e dei singoli uomini politici, che fu denominato “Tangentopoli” → destinatari principali erano la Dc e il Psi. Tra il 1992-93, esponenti politici di primo piano, come Craxi, furono costretti ad abbandonare le responsabilità di partito. Nel 1994, Andreotti fu accusato da alcuni pentiti di collusioni con la mafia: accuse destinate poi a cadere nel processo, giudicate infondate. Inoltre, la situazione era resa drammatica dall’offensiva mafiosa contro i poteri dello Stato: nel maggio 1992 un attentato uccise il magistrato Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Mariangela Lamanna Giustizia, la moglie e tre agenti della scorta; a luglio, il magistrato Borsellino e cinque agenti furono uccisi da un’autobomba. Entrambi erano figure notissime, in prima fila nella lotta alla mafia: la loro morte scosse l’opinione pubblica e stimolò il potenziamento dell’azione di magistratura e polizia, che avrebbe portato, nel 1993, all’arresto del “capo di capi” dell’organizzazione mafiosa, Riina. Il nuovo governo, presieduto dal socialista Amato, entrato in carica nel 1992, si trovò ad affrontare un difficile compito. Alla crisi dei partiti e all’allarme della criminalità organizzata, si aggiungevano la crisi produttiva e la crescita del debito pubblico, che rischiavano di compromettere gli impegni presi dall’Italia a Maastricht. Il governo affrontò il problema finanziario prima con interventi fiscali, poi con una manovra volta a contenere le spese, insieme alla privatizzazione di alcune grandi imprese pubbliche. Restava aperto,però, il problema delle legge elettorale: nel 1993, i cittadini approvarono a maggioranza il quesito che introduceva il sistema maggioritario uninominale al Senato. Quindi, Amato rassegnò le dimissioni, e chiamò il governatore della Banca d’Italia Ciampi, che formò il governo composto da tecnici e politici. Il nuovo esecutivo si impegnò a favorire il varo di una riforma elettorale che recepisse il principio maggioritario, e prometteva di proseguire l’opera di risanamento delle finanze pubbliche. Le nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato estendevano ad entrambe il sistema maggioritario uninominale, ma prevedevano una quota di seggi (25%) da assegnare con il sistema proporzionale: si trattava della fine della “Repubblica dei partiti”. 17.7 La “rivoluzione maggioritaria”. Col varo del nuovo sistema elettorale, i partiti della vecchia maggioranza cercarono di rinnovarsi: il Psi, uscito di scena Craxi, si diede nuovi dirigenti, senza però riuscire a rilanciale la sua immagine; la Dc decise di tornare alle origini assumendo, nel 1994, il nome di Partito popolare italiano (Ppi). Tuttavia, una consistente minoranza ostile alle correnti di sinistra abbandono il Ppi, e diede vita a una nuova formazione, il Centro cristiano democratico (Ccd). Anche a destra si registrarono mutamenti: il segretario del Msi Fini avviò la trasformazione del suo partito in Alleanza nazionale. L’elemento di maggiore novità fu l’ingresso in politica dell’imprenditore televisivo Berlusconi: annunciò nel 1994 la sua “discesa in campo” con l’obiettivo di ricompattare uno schieramento moderato ormai disperso. Egli riuscì a fondare un proprio partito, Forza Italia, che si presentava con un programma di ispirazione liberale, ma riuscì anche a mettere assieme una doppia alleanza elettorale: con la Lega Nord nell’Italia settentrionale (Polo delle libertà) e con Alleanza nazionale nel Centro-Sud (Polo del buon governo). Confluirono in questo schieramento anche i radicali di Pannella e il Ccd. Sul fronte opposto, il Pds coagulò intorno a sé tutte le forze di sinistra, da Rifondazione comunista ai Socialisti, ai Verdi. Isolati e deboli apparivano, invece, il Ppi e il Patto d’Italia di Segni, che si collocavano nel centro. Le elezioni politiche del 1994 decretarono il successo delle forze raccolte intorno a Berlusconi, che ottennero la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera: Forza Italia si affermò come primo partito. Dalle elezioni usciva, quindi, un quadro politico trasformato. Si delineava un confronto fra due schieramenti contrapposti, destinati, come è tipico di un sistema politico bipolare, ad alternarsi al governo: un centro-destra guidato da Berlusconi e un centro-sinistra gravitante intorno al Pds. Tuttavia, la nascita di una democrazia dell’alternanza si rivelò difficile: mentre Berlusconi bollava i suoi avversari come eredi del comunismo, la sinistra accusava Berlusconi di attentare ai fondamenti antifascisti della Repubblica, e denunciava il suo conflitto di interessi in quanto grande imprenditore. Alla conflittualità fra i due poli, si aggiungeva l’eterogeneità delle coalizioni che si erano costituite in vista della prova elettorale: Berlusconi aveva formato come abbiamo visto un nuovo governo con gli alleati della Lega, di Alleanza nazionale, del Ccd e altri esponenti di centro. Tuttavia, l’alleanza si rivelò fragile, soprattutto perché la Lega, che aveva ottenuto un alto numero di seggi nei collegi uninominali, manifestava di voler riprendere la sua libertà d’azione, scontrandosi con le altre componenti. In novembre, Berlusconi fu raggiunto da un avviso di garanzia della magistratura per una vicenda di tangenti, da cui poi sarebbe uscito prosciolto: il governo, però, fu costretto a dimettersi per il ritiro della fiducia da parte della Lega. Nel 1995, Dini formò un esecutivo di tecnici, con l’obiettivo di contenere la spesa pubblica (fu varata una riforma delle pensioni) e di portare il paese a nuove elezioni. Dini si dimise a dicembre. Nell’imminenza delle nuove elezioni i due schieramenti principali si riorganizzarono: novità fu la nascita dell’Ulivo, un nuovo contenitore politico di centro-sinistra, che raccoglieva il Pds, il Ppi e altri gruppi minori attorno alla candidatura di Prodi, economista di area cattolica. L’Ulivo avrebbe poi stipulato un accordo elettorale con Rifondazione comunista. Sull’altro fronte, il Polo delle libertà riuniva Forza Italia, Alleanza nazionale e altri gruppi minori, con leader Berlusconi. La Lega decideva, invece, di correre da sola. Nelle elezioni del 1996 l’Ulivo si impose, ottenendo la maggioranza assoluta al Senato e quella relativa alla Camera, mentre il Pds, alla cui guida c’era D’Alema, scavalcava Forza Italia, affermandosi come primo partito. Clamoroso fu il successo della Lega, che superò il 10% nazionale. Forte di questo risultato, Bossi avrebbe cercato di compattare il movimento, spostandolo su posizioni separatiste: a tal fine promosse manifestazioni culminate in una “dichiarazione di indipendenza della Padania”. 17.8 Il centro-sinistra e la scelta europea. Il nuovo governo Prodi schierava nelle sue file esponenti politici e tecnici di peso: al suo governo spettava il compito di equilibrare la politica di rigore con la tutela dei ceti meno protetti, e di rilanciare l’economia Mariangela Lamanna e l’occupazione. Il primo obiettivo fu quello di ridurre il deficit del bilancio statale entro il 3% del prodotto interno lordo, parametro fissato a Maastricht per l’ammissione nel sistema della moneta unica europea. Una serie di interventi fiscali e di tagli alla spesa pubblica consentirono all’Italia di rientrare nel Sistema monetario europeo alla fine del 1996, e di ottenere nel 1998 l’ingresso nell’Unione monetaria europea, cui sarebbe seguita l’introduzione, dal 2002, dell’euro in sostituzione della lira. Per rendere stabili i risultati raggiunti, occorreva però agire sul fronte del Welfare: i correttivi da introdurre avrebbero portato a calcolare le nuove pensioni non più in base all’ultima retribuzione (sistema retributivo), ma in base ai contributi versati nella vita lavorativa (sistema contributivo). Tuttavia, i tentativi di intervento del governo provocarono le resistenze dei sindacati e l’opposizione di Rifondazione comunista. Nell’ottobre 1998, Rifondazione comunista negò la fiducia al governo Prodi, che fu costretto a dimettersi. Si formò, quindi, un nuovo governo di centro-sinistra, presieduto da D’Alema, leader dei democratici di sinistra (Dc, nuova denominazione assunta nel 1998 dal Pds), sostenuto dall’Ulivo e la parte della Rifondazione: l’ascesa al governo di D’Alema non riuscì a spegnere le micro- conflittualità interne alla maggioranza. In due occasioni, tuttavia, si manifestò un largo consenso tra le forze politiche: nell’elezione di Ciampi alla presidenza della Repubblica, nel 1999, e nel sostegno alla partecipazione italiana alle operazioni militari contro la Serbia per il Kosovo, in sintonia con gli Usa e gli alleati della Nato. In politica interna, D’Alema non resse alla prova delle elezioni regionali del 2000: quindi, si dimise, e al suo posto fu chiamato Amato come capo di un altro governo di centro-sinistra. Egli approvò, nel 2001, una legge costituzionale, che introduceva modifiche all’ordinamento italiano: furono ampliati i poteri legislativi delle regioni in materia di sanità, istruzione, lavori pubblici, agricoltura, turismo, e riconosciute maggiori autonomie ai comuni, alle province e alle aree metropolitane (grandi città). La riforma mirava a togliere spazio alle rivendicazioni federaliste della Lega. Ragazz* vi prego di non girare i riassunti o rivenderli perchè vi assicuro che sono frutto di molto lavoro. Vi ringrazio per la fiducia e spero possiate trovarvi bene. Mi scuso per qualche errore di battitura ma ho provato a farli il più velocemente possibile. Grazie! Mariangela Lamanna