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STORIA DEL DIRITTO MEDIEVALE E MODERNO, Sintesi del corso di Storia Del Diritto Italiano

Capitoli: Le radici profonde di Europa, il medioevo dei diritti, dalla critica umanista al paradigma della modernità, il diritto nelle culture di antico regime, giusnaturalistiche mo, Illuminismo, codificazioni, gli ordinamenti costituzionali, un secolo giuridico. Legislazione cultura e scienza del diritto in Italia e in Europa, verso un nuovo ordine

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 04/11/2021

Veronica.bondi
Veronica.bondi 🇮🇹

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Scarica STORIA DEL DIRITTO MEDIEVALE E MODERNO e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Diritto Italiano solo su Docsity! Vivienne Offermann Maria Morello Storia del Diritto Italiano 13 ottobre 2020 Verso un diritto universale e la Scuola di Bologna Pag 35/40 Per capire come verrà studiato questo diritto, bisogna attendere la nascita e il funzionamento della prima università, cioè Università intesa come scuola del diritto. Prima di fare il salto e arrivare direttamente allo studio di Irnerio della Scuola di Bologna, bisogna affermare che questo periodo è anche caratterizzato da una valorizzazione del diritto romano, infatti va detto che già nell’XI secolo, , Che però aveva una caratteristica e una fisionomia completamente differente rispetto alla Scuola di Bologna. Si ricorderà che Pavia era stata la capitale del Regno Italico, prima con i Longobardi e poi con i Franchi. In questa fase, il Regno si reggeva su una pluralità di fonti consuetudinarie, per una migliore conoscenza, e grazie all’intervento del Sovrano si pensò di creare una raccolta di testi. Il più importante è il Liber Papiensis, cioè il “Libro di Pavia”, e poi la Lombarda: ©. Il Liber Papiensis, raccoglie tutti gli editti dei Sovrani longobardi, da Rotari ad Astolfo (643-755), raccoglie anche tutti i capitoli franchi e le costituzioni imperiali contenute nel Capitolare Italicum. *. La Lombarda invece, presenta una struttura sistematica, in modo da renderla aderente ai bisogni della pratica e dello studio, e fu questo a decretarne il successo, finendo per rimpiazzare il Liber Papiensis. Al Liber Papiensis va associato anche un altro testo, di natura esegetica, la Expositio ad Librum Papiensem, cioè la spiegazione del Libro di Pavia. Si tratta di una serie di annotazioni al testo normativo contenuto nel Liber Papiensis, che risalgono ad una scuola che operava già a Pavia a partire dal 1070. Quando abbiamo parlato di ripresa e riscoperta del diritto romano, vediamo che soprattutto. , per sciogliere o risolvere casi Es quindi la passo dopo passo, , ma anche come una legge di tutti. Un’altra seconda testimonianza che ci mostra quello che è stato il ricorso durante questo periodo alle fonti giustinianee, viene data dal cosiddetto Placito di Marturi (1076), un’assemblea giudiziale, in cui il giudice, per ristabilire una situazione, applicava una norma data dal Digesto di Giustiniano, si applicava il rimedio della restituito integrum, cioè il ripristino della situazione giuridica precedente al sopruso in oggetto, che riportava la situazione a com’era precedentemente. Ciò rappresenta il passaggio che ha subito , che , che con questo passaggio è diventato un diritto più importante, un diritto universale, di tutti, un diritto generale. 1 Da questo momento in poi, e i troppi silenzi della legge germanica, di questo se ne resero subito conto sia i giudici sia i notai, ma anche una nuova categoria di persone che operarono nell’ambito della legge, cioè i causidici, che erano l'equivalente del nostro procuratore legale di oggi. Odofredo Denari un giurista del 200, disse che per quanto riguarda lo studio del diritto. nello specifico dello studio romano, un certo Pepone avrebbe dato inizio ad uno studio del to. Pepo si propose di effettuare uno studio approfondito delle leggi giustinianee, però allo stesso tempo, Odofredo lo definì come un uomo di poco valore. Odofredo, da un lato esaltò Pepo come un grande studioso del diritto romano e dall’altra parte lo “insultò”, definendolo un uomo di poco conto. Lo definì un uomo di poco conto, perché il suo successore, che studiò il diritto dopo di lui, cioè Irnerio, compì un'opera straordinaria, effettuando lo studio del diritto romano in una situazione particolare, perché fu il primo maestro, il fondatore dello studio del diritto. Quindi può essere che lo definì uomo di poco conto, perché lo paragonò al suo successore Irnerio. Pe era un uomo che si interessò del diritto, infatti | , cioè dottore in legge, . LA RIVOLUZIONE DI IRNERIO Pag 58 Non si ha un'assoluta certezza delle sue origini, non si sa molto nemmeno del suo nome, si era tramandato prima come Wernerius, Yrnerius, Garnerius ecc... una confusione totale per quanto riguarda la certezza del suo nome. L'unica cosa quasi certa è che lui si impose la qualifica di iudex bononiensis, cioè giudice di Non si ha un'assoluta certezza di queste cose, è tutto quello che ci è stato tramandato. Tracce più certe, riguardano la sua attività di causidicus, cioè di procuratore legale; sono stati rinvenuti all'incirca 14 documenti, che vengono collocati tra la fine di giugno del 1112 e la metà di dicembre del 1125. E stata accertata anche la sua presenza tra gli altri giudici, come invitato della contessa Matilde di Canossa, per legittimare l'elezione dell'antipapa Gregorio VIII, che venne nominato contro Papa Gelasio Il. Qualcuno sostiene che, essendo stato una persona esperta di diritto, facesse parte dell'entourage della contessa Matilde di Canossa e che su suggerimento di questa contessa, abbia cominciato a studiare il diritto romano. La storiografia ci dice che , ovvero la normativa di resume che , COSÌ come si venivano a trovare. Irnerio morì a Parigi e venne sepolto nel convento di San Vittore. Odofredo, un giurista che operò in pieno XIII secolo e fu professore a Bologna, ci lasciò un'immagine positiva di Imerio. Affermò che Irnerio fosse un maestro delle arti liberali, quindi ‘a in questo settore. ativa, senza alcun tipo di incarico, a , e studiando , , lucerna del diritto, cioè scoprendo le leggi giustinianee diede luce al diritto. Per questo, , la scienza del diritto. Irnerio, si occupò quindi delle arti liberali, e durante la sua opera di studio del diritto giustinianeo, cominciò a scindere il diritto e a considerarlo come una scienza a sé. ILlavoro che Irnerio svolse, fu esegetico, quindi di analisi di questo testo giustinianeo. 2 cui si richiamavano i rapporti tra padre e figlio. 16-10-2020 Si volle qualificare l'istruzione come una trasmissione del sapere, della cultura, di padre in figli non solo alla scuola di Bologna, ma Con questa Costituzione, Federico | Barbarossa, concedette dei privilegi sia agli studenti sia ai professori 1. Gli studenti potevano circolare liberamente in tutte le terre dell'Impero, grazie ad un salva condotto, un speciale permesso concesso dal'Imperatore, una concessione che nessuna autorità locale, cittadina o signorile poteva contestare. 2. L'esenzione per questi studenti da qualsiasi tributo, non dovevano pagare le tasse, sia nel comune in cui studiavano, ma anche muovendosi liberamente in altri luoghi. 3. Gli studenti non potevano più essere soggetti passivi di rappresaglia, che consisteva nel fatto che vigeva una norma che obbligava qualsiasi abitante di una particolare città, a pagare i debiti dei suoi concittadini. Esempio “lo di Urbino vado a studiare a Bologna, ma se nel frattempo, a Bologna c'è stato un qualsiasi urbinate, che ha contratto dei debiti con un abitante di Bologna, rifiutandosi di pagare, automaticamente colui che ha il debito, può rivalersi su di me”. Colui a cui avanzavano dei soldi con poteva rivolgersi all'autorità cittadina e farsi redigere la cosiddetta lettera di rappresaglia, con cui si chiedeva che il debito venisse saldato. , ovvero il potere di giudicare per qualsiasi forma di reato commesso dallo studente; prima questo potere spettava al vescovo. Questo comportava una forma di controllo da parte del professore sugli allievi. Con il passare del tempo il numero degli studenti aumentò, ed intorno al 1180, cominciano ad unirsi in gruppi. Non si sa con precisione quale sia questo numero, ma si trattava di un numero elevato. Da alcune fonti, si è venuti a conoscenza che i due terzi degli studenti era costituito da studenti stranieri, mentre il rimanente terzo era costituito da studenti di nazionalità italiana, che provenivano dalla stessa città di Bologna. Aumentando gli studenti, si cominciarono a creare non solo problemi di abitazione, ma anche problemi di convivenza all'interno delle mura cittadine. Iniziò ad incrinarsi il rapporto instaurato tra studente e professore, si crearono problemi di convivenza dovuti al prezzo molto alto per le abitazioni, così il corso, e a seconda della loro appartenenza, cominciarono a raggrupparsi in delle comitive (studenti dello stesso paese, regione, che hanno lo stesso pensiero comune) e alla Natio, Nazione, che è Un'insieme di'studenti con particolari esigenze, tutti accomunati da un certo tenore di vita. Con il tempo si diede vita ad una Universitas Scholarium, ovvero una università intesa come un insieme di scolari. * Universitas Ultramontanorum, l'università di coloro che venivano dal di là del monti (tutti gli studenti stranieri); *. Universitas Citramontanorum, raggruppava tutti gli studenti provenienti dalle varie regioni italiane, e all'interno di questa, iniziarono a crearsi una serie di sotto nationes, dei sottogruppi, in base alle diverse regioni italiane. Con il passare del tempo questi Rector, acquisirono ampi poteri: controllavano l'Universitas stessa di cui erano a capo e curavano i rapporti tra gli studenti e la realtà cittadina. Il Rettore doveva essere scelto tra gli studenti appartenenti a quella Universitas, e doveva avere minimo 25 anni, eletto dai suoi colleghi e aveva il compito di tenere le matricole, ovvero un registro in cui erano annotate tutte le generalità del singolo studente. Con il passare del tempo, il Rector si preoccupò anche di raccogliere le collette. Molto presto, tervennero in prima persona nelle trattative tra gli studenti e i professori, quindi Regolavano il rapporto tra studente e professore, cominciando a intervenire in prima persona, cioè mentre la frequenza del corso dipendeva dal contratto stipulato tra i due soggetti, in quel momento, la presenza del Rector si notava anche nella forma di questi contratti. COME SI SVOLGE UNA LEZIONE: , pagato con la colletta, Eralinidispensabile: forniva il posto agli studenti, che pagavano di più o di meno in base a dove desideravano il posto. Chi non aveva i soldi per potersi permettere un posto seduto, doveva seguire la lezione tutto l'anno in piedi. e con il passare del tempo , ma non c'era un pavimento, c'era la paglia per terra, che veniva sostituita due volte l'anno. Di questa pulizia se ne occupava il bidello, che doveva sostituire la paglia soltanto quando fosse malridotta. QUELLO CHE SUCCEDEVA ALL’INTERNO DI UN’AULA: [l'costo dei libri era molto elevato, quindi partire dagli inizi dell'attività di insegnamento, esisteva solo un libro, quello del professore, perché gli studenti non potevano permetterselo. Il professore doveva rispettare alcune regole: si cominciava con il ribelariter disputare, cioè il discutere, aprire una discussione liberamente che serviva per garantire, non solo la chiarezza della discussione, ma anche il dialogo. Con il passare del tempo però, î libri iniziarono ad essere molto più presenti, anche se non vi erano libri a sufficienza per tutti gli studenti, questo perché i libri erano molto rari, e per , quindi un libro corrispondeva a poco più di uno stipendio annuale di un professore. Per fare un volume di diritto di medio spessore, ci volevano all'incirca 100 pecore, perché ogni foglio era di pergamena, rilegato e cucito a mano con i bordi in cuoio, che poi veniva scritto a mano dagli amanuensi. Il libro veniva scritto su due colonne, con ampi margini ai lati della pagina che non veniva numerata fronte e retro come facciamo noi oggi. LA DURATA DEL CORSO: Dipendeva a seconda della disponibilità economica degli studenti, generalmente, se si. Car quindi un professore di diritto, ma ci si doveva accontentare dello svolgimento di lavori di rango inferiore, come il consigliere presso la corte. Una volta completato il ciclo e sostenute tutte le prove/esami, si diventava dottore in entrambi i diritti (diritto civile e diritto canonico). CARATTERISTICHE DI UNA LEZIONE DI DIRITTO: Durante il XIII secolo, bisognava seguire quell'iter, altrimenti non ci si laureava). Innanzitutto , da un minimo di 3/4 anni ad un massimo di 8/9 anni. Addirittura ,, si stabiliva l'iter che il professore doveva seguire, quale sarà il calendario accademico e si stabilivano anche le esigenze per l'eventuale acquisto di libri. (Mentre prima il professore si organizzava con le lezioni e gli argomenti come voleva, ora invece era necessario seguire un calendario ben stabilito, già prefissato). Secondo il più antico statuto della città di Bologna, del 1152, le lezioni dovevano iniziare l'8 ottobre, mentre in uno statuto successivo, del 1317, le lezioni dovevano iniziare il 10 ottobre, solo se il 10 era un giorno lavorativo, se era festivo slittava. Uno. , in quanto era il giorno di San Luca, una festività importante. che avevano partecipato a Sa so fi andare a messa in una chiesa specifica, così come diceva lo statuto, A seconda dei tempi , un tempo apparentemente lungo, ma durante questo anno c'erano 90 giorni di vacanza obbligatoria, in più non si faceva lezione il giovedì, a meno che durante la settimana vi era stato un altro giorno di pausa. e Quelle de mane (di mattina): Quelle della mattina erano le più importanti, si iniziava all'incirca alle 6:30/7:00 e duravano due ore. C'era un obbligo degli argomenti da tenere, , quindi tratte dal Digestum Vetus e dal Codex. Rare volte, il RESA Vetus, veniva sostituito dall’Infortiatum. Per entrare si doveva aspettare il suono della campanella, che prendeva il nome di scolara e si dava vita alla lezione mattutina, chiamata lectura ordinaria. Quelle de sero (di sera): rispetto a quelli della mattina; le lezioni prendevano il , che andavano al di fuori dell'ordinario. In queste lezioni, si approfondivano argomenti o che la mattina non erano stati approfonditi in maniera adeguata, oppure si spiegavano altri argomenti, come lo studio dei primi 3 libri del Codice. , perché non esistevano molti libri, il professore leggeva ex cathedra, cioè dalla cattedra apriva il libro e cominciava a leggere il pezzo della legge giustinianea che era all'ordine del giorno per quella lezione, per questo, la lezione, prende il nome di lectura. Colui che insegna, legge, “legere” nel termine latino, significa insegnare. , gli studenti partecipano attivamente, questo perché avevano una capacità limitata nel comprendere la lezione, quindi chiedevano dei chiarimenti, ma potevano anche intervenire sulla base della complessità o facilità di una lezione. La norma era scritta in latino, nel latino del 533/534, come la scrisse Giustiniano, in questo periodo si era a fine 1200, quindi poteva esserci uno studente che non a ola ne il Ù icato di alcuni termini latini. Rappresentava la spiegazione di una legge riassunta su quel particolare testo, quindi , di conseguenza si differenziava dalla glossa. Abbiamo spiegato come funzionava il sistema delle glosse, scritte mano a mano dallo studente o dal professore a lezione. , non solo per quella che fu la degradazione dei codici manoscritti, ma anche per l’usura dei testi, quindi per facilitare la redazione di nuove glosse e facilitarne la lezione, sì decise di riscrivere per intero dei volumi. Pagine di questi volumi riscritti, erano l'esatta copia del volume precedente, ma vi erano pagine in cui, magari colui che riscriveva non capiva il significato di alcune cose, non vi erano riportate cose fondamentali, quindi si venivano a creare glosse di cui non si sapeva spiegare la provenienza, un po’ per volere, ma anche per dimenticanza. NUOVI MODELLI DIDATTICI Con il passare del tempo, riutilizzando questi nuovi volumi, Si vennero a creare nuovi modelli Gidattici, tra questi abbiamo le Addictiones, le addizioni aggiunte ai commenti già esistenti per spiegare ulteriormente quello un termine. Alla fine del 200 , cioè nei tribunali i giudici e nelle scuole. , redatta da Accursio, chiamata anche glossa ordinaria al Corpus luris Civilis di Giustiniano. Venne chiamata ordinaria perché “ordinaria”, in questo caso, non venne usato come aggettivo per identificare che poteva essere una cosa di tutti i giorni, ma COM'ERA STRUTTURATA LA GLOSSA ORDINARIA E ACCURSIO , non solo nella legge nel suo complesso, ma anche le singole parole che costruiscono la norma. Non vogliamo dire che la glossa Accursiana fosse una raccolta di tutte le glosse attaccate l’una all’altra, non era un materiale grezzo, ma Rialimalesmpilazione, una glossa generale, Con il passare del tempo, mi a ja nella scuola ma anche nei tribunali, nella pratica quotidiana, , che facilitava il lavoro del professore, del giurista, dell'avvocato e Cosi VI: Grazie a quest'opera, si andò avanti nello sviluppo della scuola dei glossatori. , la prima tra tutte , dove si applicava la glossa di Accursio per risolvere ogni possibile caso, che poteva essere risolto con l'applicazione della normativa contenuta nel Corpus /uris Civilis. i, che costituivano un unico sparato di glosse intorno a LE QUESTIONES A partire dalla fine del XII sec. {litta l’attività didattica subì una trasformazione, questo perché non si concludeva con la sola lezione, ma accanto alla lezione, vennero collocate, in giorni particolari dell’anno che coincidevano con i giorni della quaresima, si sceglieva un 10 pomeriggio durante la settimana, tra giorni che erano già stati fissati, tra cui il mercoledì, il venerdì, il sabato o la domenica. , che venivano , se ne disputava aprendone una questione. In questo caso , cioè una questione che emerge da un fatto delle vita reale. Si ebbe un vero e proprio L Si cominciarono a trattare anche i casi della vita, di ciò che succedeva nel mondo esterno, che ora entrava nelle aule. cioè con la sola presenza e la partecipazione di tutti gli studenti di quella scuola, ma potevano essere A queste dispute, si dedicò un apposito incontro settimanale. Con il poesare del tempo, gli statuti universitari, imposero ai professori di fare un tot di Il professore doveva scegliere l'argomento e dopo la discussione avvenuta in aula, doveva redigere il testo in cui venivano riportati tutti i risultati ottenuti, una sorta di relazione di ciò che avveniva e aveva 80 giorni di tempo per presentare questa relazione al bidello generale (capo di tutti i bidelli dello studium). Queste questiones, voluminose, e le Quaestiones Bononiae Disputate, cioè , alcune volte presero il nome di Liber Magnus. questo questi casi specifici, già trattati e discussi dall’Imperatore, di cui si aveva di la soluzione di una determinata legge, erano Casus Legis, quindi COME SI SVOLGEVA UNA QUESTIO (questio) e lo rendeva noto a tutti mediante il bidello generale; questa comunicazione doveva essere fatta 8 giorni prima della disputa del giorno scelto per la questio. All’inizio di questa sorta di riunione in cui si discuteva la questio, , cioè “Quale diritto dovremo applicare?”. Si doveva arrivare ad una soluzione del caso particolare, si interveniva così: Per primo parlava colui che aveva più esperienza e) i Pi at Prima venivano accettati a parlare quelli che parlavano a favore (pro) di quella argomentazione. 1 , come strumenti per la risoluzione di quel particolare caso, , quindi il Corpus luris Canonici e il Corpus luris Civilis, cioè il diritto comune, lo lus Commune. Per risolvere le questio, altri testi letterali, testi di poeti, proverbi, anche se erano fatti tratti dalla vita comune, non si potevano risolvere con lo /us Proprium. , le registrava e adempiva ai suoi obblighi, cioè , ma doveva anche giustificare il perché di quella soluzione, e nel caso che, alcune argomentazioni non venivano ritenute giuste, doveva spiegarne i motivi. LA REPETITIO Un altro E momento didattico era dato dalla Repetitio, una lezione di chiaro. , nacque dallo spunto che derivava da una norma, che veniva spiegata la mattina durante una Lectura. Magari nacque come semplice approfondimento di una norma tratta dal diritto giustinianeo. e raramente veniva fatta dal professore che teneva la Lectura. Nel caso in cui fosse una piccola parte di una norma trattata la mattina, automaticamente esta veniva trattata in modo più specifico con tanti esempi. , Cioè un punto. Quindi il punto, stabiliva le parti da leggere durante la spiegazione, ciò favoriva gli studenti, perché così non dovevano portarsi il peso di tutti i libri, ma portavano solo la dispensa che riguardava l'argomento da trattare. Cosa succedeva se il professore non riesce a rispettare i limiti di tempo? Doveva pagare una penale per ogni impedimento, quindi per evitare che pagasse di tasca sua, si cercava di svolgere la Lectura della mattina in modo dettagliato, ma non troppo, e poi di specificare e chiarire meglio, facendo più esempi, nella Repetitio Secondo gli statuti del 1252, , che svolgevano le lezioni mattutine, Da questa cauzione venivano sottratte le varie penali, se il professore veniva meno a quanto era stato fissato. La penale che doveva pagare, era 3/10 lire, a seconda di come lo stabilivano i Rectores. Addirittura, alcune volte, Nel momento in cui però il professore svolgeva il suo corso in modo preciso, nei tempi prestabiliti, automaticamente, alla fine del corso, gli venivano rimborsate le 25 lire versate inizialmente. UN NUOVO ORDINE PER IL DIRITTO DELLA CHIESA Il Decretum di Graziano Il Diritto Canonico: (pag 71-72-73-74) Sempre in questo periodo, Il riformismo attuato da Papa Gregorio, la lotta per le investiture, caratterizzarono la storia della chiesa fino a questo momento, che raggiunse il suo apice con il concordato di Worms, siglato tra l’Imperatore Erico V e Papa Callisto II, nel settembre del 1122. per quanto riguarda l'Europa Occidentale, . Ratione Loci —> cioè in ragione del luogo —> in base a questo principio, la legge propria di un luogo circoscritto, derogava a quella generale propria, di un più vasto ambito territoriale. Si creava un rapporto tra la legge della piccola comunità locale, con quella di un’altra comunità locale, di dimensioni più ampie. . Ratione Temporis —> cioè la prevalenza della legge nuova sulla vecchia —> per applicare questo criterio, si doveva fare riferimento al principio che la legge successiva abrogava quella precedente che era stata posta in essere per lo stesso argomento. . Ratione Dispensationis —> cioè in applicazione diun metodo —> grazie al quale si fissava una regola, che una volta fissata, e si prevedevano una serie di eccezioni a questa regola. 20-10-2020 Molto presto, il Decretum di Graziano, divenne oggetto di insegnamento nella scuola, ma anche di commento. Fecero riferimento un vasto numero di studiosi della materia, i decretisti, cioè che studiano il decreto. Accanto al decreto, nacquero una serie di glosse e di summe, accadde quanto era accaduto per lo studio del Corpus /uris Civilis. Addirittura, con la diffusione di queste glosse, di questi commenti, al Decretum, si arrivò ad ipotizzare la nascita di un secondo Graziano, cioè si ipotizzò che ce ne fossero stati due, ma in realtà ve ne era solo uno. , quindi lo studio del Decreto, Biaasdattalai pari passoleoniGISiURIOIASI (in ambito scolastico). Entrambi ebbero un successo straordinario, anche se, per quanto riguarda il Decretum fu, sì, un grande successo, ma non potrà mai essere paragonato a quello del Corpus /uris Civilis. , mentre , e trasformare il tutto in un testo fluido, scorrevole, che si sarebbe poi trasformato in Codice. L'obiettivo era quello di distinguere il diritto, civile o canonico, dalla teologia, un tema molto difficile da affrontare, che però Graziano affrontò molto bene. se ci comportiamo bene sulla terra, |, se ci comportiamo male, uindi Ma per riuscire a guadagnare il paradiso, dovrà esserci una sorta di pentimento delle azioni cattive, per poi essere assolto tramite confessione; . Lo dovrà fare , nel senso che . Questo perché il confessore, sacerdote, non è altro che una sorta di ambasciatore di Dio, incaricato da Dio sulla terra, ma Dio è nella posizione, che tutto vede e tutto sa dall’alto, quindi io, se anziché dare due colpi di pistola, l'ho pensato, non lo saprà mai nessuno, tranne me e Dio, perché Dio legge nel ]ensiero e vede tutto. “lo penso di uccidere un persona”, il giudice laico, non è entrato nel mio cervello leggendo il mio pensiero, quindi non sa a quello che stavo pensando, ai fini di quella che è la giustizia terrena, sono una persona santa, che non ha mai ucciso nessuno e non ha mai commesso un reato, come ne posso aver pensato 1, posso averne pensati 10000, che al fine religioso non farà altro che dannarmi all’inferno alla fine della mia vita, mentre per i fini terreni, no. Si vennero a superare una serie di lacerazioni presenti in questi due campi che provocarono anche dei piccoli scontri, mettendo a repentaglio la pace sociale. 15 Mentre il giudice terreno si proponeva di assolvere o condannare, sulla base delle prove che aveva, il sacerdote, in quanto inviato di Dio, poteva o assolvere o condannare, senza dargli l'assoluzione. In questo caso, ci fu, non solo una doppia via da scegliere, ma a seconda di quale via ci si mmetteva, decideva la sorte dell'individuo, che non era una sorte terrena, ma era una sorte eterna, perché Quindi si agiva sotto un duplice aspetto, e l’attività di studio del diritto canonico, continuò anche dopo la morte di Graziano, grazie ai suoi allievi. Nella scuola, si studiava anche il Decretum di Graziano, ma non con la stessa precisione con la quale si studiava il Corpus luris Civilis di Giustiniano. Il diritto civile, era studiato con un metodo esegetico di analisi della legge Giustinianea. | canonisti invece, che partecipavano a questi corsi di diritto, erano un po’ visti come dei subalterni. Il prot Bellomo, affermò che i canonisti, venivano visti, in sede universitaria, come i “parenti. si arrivò addirittura ad affermare che un buon civilista, una volta dottoratosi, poteva anche fare a meno di conoscere il diritto canonico, mentre non vi sarebbe mai stato un buon canonista, se questo non conosceva il diritto civile, quindi si ebbe una netta divisione, cioè, , mentre ‘chi era canonista. ; questo però, solo fino ad un determinato ]eriodo di tempo, Liroquie iure. cioè, nell’uno e nell’altro diritto, /lus Civile e lus Canonicum. Una volta che si era a conoscenza di ambi i diritti, questi venivano applicati con la stessa metodologia in entrambi i casi. La diffusione e il prestigio che ebbe il Corpus /uris Civilis, fece si che il diritto civile fosse riconosciuto anche dalla chiesa cattolica, affianco al diritto canonico, come diritto comune. , Civile e canonico, , Cioè diritto comune. Entrambi questi diritti, diventarono il diritto che venne applicato in tutta l'Europa; tra questa, l'Europa cristiana. Il papato non riconobbe mai il Decretum come testo di legge ufficiale, perché non ne aveva bisogno. La sua utilizzazione però, venne fatta con tutte le caratteristiche sotto ogni punto di vista, ma il fatto che il Papato non lo riconobbe come diritto ufficiale della chiesa, non impedì che il Papato stesso intervenisse a modificare questo diritto, che non poteva rimanere vincolato a tutti i contenuti del Decretum di Graziano, ma ad un certo punto bisognò intervenire per adeguare questo diritto alla realtà così come si evolveva con il passare del tempo. Questo adeguamento, cominciò a spostare l’asse normativo, sull’attività pontificia, quindi assieme alle norme contenute nel Decretum, cominciarono a mettere dentro anche i canoni pontifici, i decreti, nati dai grandi concili e così via. Quindi si inserì altro materiale, posto in essere man mano con l’evolversi dei tempi. , cioè le 5 compilazioni antiche. Antiche perché furono le prime ad essere inserite tra le norme del diritto canonico. Queste compilazioni antiche, dalla più antica alla più recente, ed interessavano il versante della legislazione posta in essere dai pontefici: 1. , perché da alcuni documenti che ci sono pervenuti si parlò della realizzazione di questa composizione durante gli anni in cui era Vescovo della città di Faenza. Era fortemente legato ai metodi utilizzati dalla decretistca, non si accontentò di aggiornare il Decretum di Graziano raccogliendo altro materiale ontificio, ma di Quest'opera era ben strutturata e curata dal punto di vista sistematico, suddivisa in 5. lllbri, ogni libro diviso in titoli e ogni titolo diviso in capitoli. Ciascuno di questi capitoli aveva una rubrica iniziale e in questa si trattava della materia che stava alla base in quel capitolo. Aggiornato in questo modo, il Breviarium fe apparire come un qualcosa di pubblico, invece continuava ad essere un’ , questo perché l’iniziativa era stata presa da Bernardo. Da questa prima forma di realizzazione di un aggiornamento del Decretum, quindi della normativa della chiesa, di diritto canonico, , come se fosse una scelta politica. Con il passare del tempo, il fatto che queste raccolte venissero mandate alla scuola. diventò un’abitudine, quindi quando si realizzava una raccolta la simandava immediatamente alla scuola e questo fatto rappresentò un modo per renderle pubbliche. 3. , redatta tra il 1210 e il 1212, da Clemente III a Celestino III. 4. Quarta compilazione —> quella di Giovanni Teutonico, anche questa molto importante, composta nel 1216, e fu inviata al pontefice per farla riconoscere come ufficiale, anche se non fu così, ma continuò ad essere tramandata nelle scuole. Quinta compilazione —> la compilatio quinta, promossa dal Papa Onorio III e affidata ad un maestro di diritto canonico Tancredi, che era arcidiacono nella città di Bologna. Questa compilatio, del 1220 (che privilegiava la chiesa), , emanate tra il 1216 e il 1226, pubblicata mediante l’invio allo studio. E così come comparivano nella raccolta effettuata da Tancredi Il papa assunse il ruolo di legislatore, ponendo in essere le norme, per tutta la cristianità. Sempre da questo momento, Îl Papa venne considerato verus imoerafor. il vero imperatore. Andando avanti con il tempo, ciascuna di queste compilazioni mantenne la sua tradizionale sistemazione del materiale, quindi tutte vennero realizzate con una struttura di 5 libri. durante questi anni qualche norma è stata abrogata? Non è più stata applicata? Continueranno tutte ad essere applicate? Non è stata applicata più una sola norma, 50 norme, oppure un pezzo soltanto di una norma? 17 cioè il corpo del diritto canonico; prese questo nome per far riflettere la sua somiglianza con al Corpus luris Civilis, cioè al corpo del diritto civile. *. Corpus luris Canonici; *. Corpus luris Civilis; Sebbene ualcosa cambiò, nel senso che , a questo proposito vennero incaricati i Rectores romani, coloro che dovevano correggere questo testo e che avevano l’incarico da parte della chiesa di Roma, quindi da parte del pontefice. così come si era imposto nel corso del tempo, fatta eccezione per qualche piccola correzione, eseguita dai Rectores romani, , Il primo codice di diritto canonico. *Abbiamo affrontato il discorso della scuola, per frequentare i corsi bisognava seguire lezioni, partecipare alle dispute, alle repetitio e così via» le Fino ag i del 1300 non esistevano esami che gli studenti dovevano sostenere, questo perché il professore verificava la capacità dello studente facendolo intervenire a lezione, o notando gli atteggiamenti tenuti durante la spiegazione, quindi il profitto veniva giornalmente controllato a scuola. La prontezza all’apprendimento era considerata anche fuori dall’aula, magari ci si soffermava fuori dall'aula a discutere degli argomenti svolti durante la lezione. Daloo mm porsista nizza] rassteoncIUSiVAlAEgliStUGi: giunto al penultimo anno di frequenza del corso (a Bologna per quanto riguarda lo studio del diritto civile), che sarebbe l’ottavo anno di frequenza (per il diritto canonico sarebbe stato il quinto e il sesto), lo studente cominciava a seguire degli iter più complicati, prove più impegnative. * LEGERE —> Doveva essere in grado di realizzare una lezione, quella delle 7.00 del mattino, che era la più importante, chiamata Lectura; * REPETERE —> Doveva anche ripetere se fosse il caso, doveva essere in grado di saper affrontare una Repetitio, quindi una lezione di quelle che si svolgeva il pomeriggio una volta a settimana. *. DISPUTARE —> Doveva essere in grado di formulare e dare la soluzione a una delle questio disputate; Lo studente doveva saper svolgere queste tre cose davanti ai suoi colleghi, in un primo momento senza alcun tipo di domanda e senza alcuna opposizione, successivamente questo avveniva, quindi lo studente doveva essere in grado di operare in questo modo, alla la presenza di un uditorio con il contraddittorio. E una qualifica particolare, cioè era in grado di fare queste cose, ma in realtà non era ancora un professore e non era ancora dottorato. Subito dopo, Il professore lo interrogava per capirne le conoscenze, non solo sugli argomenti della materia, ma anche verificare le sue qualità morali: 20 chiuse tra il professore e lo studente, che prese il nome di Tentamen, cioè tentativo, un tentativo preliminare per sostenere l’esame final Nel caso in cui questo tentativo andasse a buon fine, il professore diventava il presentatore dello studente all’arcidiacono della cattedrale. Quindi vi era la , cioè baccalario ammesso a sostenere l’esame che si chiamerà “privata”. , descritto come un esame tremendo e molto rigoroso. Se si veniva ammessi a questo esame finale lo si svolgeva a porte chiuse alla presenza di tutto il collegio dei dottori giuristi. Di prima mattina all’alba, al suono della campana che studenti, lo studente. che doveva sostenere l'esame, si recava nella sagrestia della cattedrale, dove lo attendevano il Priore e da una buona parte di Dottori. o ad un altro dottore, ( simile al nostro esame di Laurea). Si stabilivano i Puncta, due argomenti, uno tratto dal Digestum Vetus e dal Codex per quanto riguardava il diritto civile, mentre per il diritto canonico il Decretum di Graziano e dal Liber Extra di Gregorio VIIII. Quindi si sapevano già a priori i testi dai quali si attingevano questi argomenti. Generalmente si affidava tutto al caso, Silprenasvaliibratesitaprvaunalpaginaralcasoy fallatqualelsiliniziavallargonmiento! Nel caso in cui veniva estratta una pagina con un argomento che era già stato oggetto di discussione durante la prima fase dell'esame (tentativo), lo studente doveva aprire un’altra pagina. Lo studente, una volta ottenuti gli argomenti, si ritirava nella sua dimora e aveva poche ore a disposizione per preparare il discorso su quegli argomenti, poi, allo scadere del tempo, , cioè la licenza, diventando Licentiatus in lure, cioè licenziato in diritto civile, canonico o entrambi in base al tipo di esame. , quindi dottore in diritto. Lo studente doveva tenere un ulteriore esame, meno difficile rispetto alla Privata, avveniva in un luogo pubblico, probabilmente all’interno di una cattedrale, alla presenza di moltissime persone, non solo i compagni di corso, ma anche gli studenti delle altre scuole, le autorità ecclesiastiche e civili. , aveva inizio presso l’ora terzia, intorno alle 9.00, si i, da colui che era il relatore della tesi L’attribuzione del titolo di dottorato, veniva conferito dall’autorità ecclesiastica, e (detto Tocco) allo studente. Colui che superava queste tre prove, diventava Doctore. Quest'ultima prova, non era molto complessa, perché poteva essere considerata ripetitiva rispetto ai precedenti, sicuramente un esame dispendioso dal punto di vista economico. Il candidato, prima di superare e presentarsi all’ultima prova, era tenuto a pagare molto, quasi tanto quanto un intero anno di tasse da pagare per gli studi. in occasione di questa cerimonia finale, si regalavano vestiti di ottimo tessuto, si doveva fare il pranzo e una sfilata, un corteo con dei cavalli, come una parata, una festa importante e appariscente. , l'ordinamento entro il quale sia i singoli professori, sia i maestri che gli studenti operavano, venne con il tempo indicato come studium, studio, in quanto non si parlava più di Universitas Scolarium, perch |, si ntendeva solo l’aggregazione degli studenti tra di loro, quindi 21 o l’imperatore o il Pontefice. Questa licenza, Finite queste cerimonie, buona parte dei dottori facevano ritorno in patria e ciascuno di loro, accettava gli impieghi che gli venivano offerti. Bliona parte dei dottori di diritto canonico, una volta tornati in patria, sulla base della loro conoscenza o in base all'importanza della famiglia, , qualcuno di loro poteva diventare anche Pontefice. , nel caso in cui avessero completato l’iter più breve dovevano accontentarsi di lavori più umili, ma , ottenendo la licenza di insegnare in tutto il mondo; venivano chiamati presso le corti dei sovrani sotto il punto di vista giuridico, aiutando i sovrani a nella stesura dei testi legisl: la emanare in futuro. 26-10-2020 IUS PROPRIUM Si indica il diritto proprio, il diritto locale. *. Il Diritto dell’Impero —> Lo /us Civile; * Il Diritto della Chiesa —> Lo /lus Canonicum; (uno per mezzo di due, figura retorica che consiste nell’utilizzo di due parole coordinate per esprimere un unico concetto) i, entrambi conosciuti come /us Commune, ma va detto che all'unità di questo Utrumque lus, di questo lus Commune, non corrispondeva un’unità del il diritto locale, che variava da posto a posto. Non si parlava di uniformità dello us Proprium. Guardando indietro, già dal XI secolo ci fu un notevole cambiamento per quanto riguarda a EE “7 SUI un eri di mode ch avevano cono dl punto di IL REGNO DI SICILIA, DAI NORMANNI A FEDERICO Il Pag. 80 , che aveva provocato un e con quest’ultima aumentavano anche gli scambi, fino ad arrivare ad un stesso, che subì una variazione. Si passò da un mercato che riguardava solamente la realtà cittadina a un mercato con un grande sbocco a livello internazionale Si trattò di una serie di fattori che contribuirono a ripristinare la dimensione cittadina. Contemporaneamente, , conosciute come strutture , In questo caso ci si riferisce al Regnum di Sicilia, che comprendeva tutta la parte meridionale della penisola Italiana, il Regno di Francia e il Regno di Germania dentro le mura della civitas, quindi dentro le mura. e costituiva la forma più nota e diffusa dei vari diritti esistenti a livello territoriale durante il periodo medievale. Il diritto di coloro che vivevano nella città All’interno della città conviveva il filone consuetudinario che già si era consolidato, cioè trasmesso oralmente di generazione in generazione nel corso degli anni. Accanto a questo filone consuetudinario camminava, parallelamente, .il filone legislativo, quindi tutto_il complesso delle regole in vigore all’interno di una comunità locale (città), che 22 In questo Regno, secondo l’obiettivo che si era posto Ruggero II, , quindi principati, ducati, contee e tutte le Universitates cittadine esistenti. Precisazione: quando parliamo di Universitates cittadine, non si tratta delle università affrontate fino ad ora, ma si intende tutto l’insieme degli abitanti di quella città, quindi l'universalità della popolazione che stava su quel territorio. , nella notte di Natale del 1130, nella cattedrale di Palermo. Lui Il fatto che la sua incoronazione a re, fosse stata legittimata dal pontefice, fece si che Ruggero II, potesse avvalersi di questo titolo davanti a tutti gli altri componenti dei vari inserimenti territoriali. Sin dal momento in cui venne incoronato re, si avvalse di un discorso tutto suo, NA , enon vi era alcuna mediazione terrena. , le Assisem, , la giustizia e la difesa, anche dei più deboli, contro ogni possibile soppresso perpetrato da parte degli altri capi a livello locale. , durante il suo Regno, doveva L'ordinamento doveva quindi distinguersi dalla pluralità dei soggetti che ne facevano parte e presiedere dagli interessi del sovrano stesso. Il sovrano rivestiva quella posizione perché non faceva i propri interessi, ma gli interessi pubblici. Addirittura, Ruggero II, all’interno di queste assemblee espresse il suo obbiettivo, e all’interno di queste si arrivò a stabilire che, Il Re diventò che grazie a lui venne riconquistata; fede a cui i siciliani vennero restituiti dopo che vennero liberati dai musulmani. Un primo episodio che cominciò ad affermare il potere che Ruggero Il aveva in campo ecclesiastico avvenne nel 1098 quando Ruggero 1, detto il Gran Conte, era a capo della Sicilia e della Calabria; in quell’anno Papa Urbano Il, mettendo a punto la sua politica generale, e per dare seguito alle riforme gregoriane imposte già da tempo, affidò dei poteri speciali a dei legati a /atere, funzionari che ricevettero questi poteri per andare ad amministrare dei territori dal punto di vista religioso, ma sempre sotto l’autorità del pontefice. Questi funzionari quindi erano come dei messi del pontefice. , pero facendo questa scelta, cioè inviando un suo legato senza aver interpellato prima il Duca (Ruggero | era ancora Conte), , che contestò immediatamente al Papa la sua decisione, ovvero il potere di aver scelto un suo rappresentante senza prima averlo interpellato. Ruggero e, resosi conto della situazione, | poteri però non vennero concessi solo a Ruggero e al suo legittimo successore, si presume che questi poteri dovessero continuare, ma questa concessione nacque come temporanea e quindi poteva essere revocata in qualsiasi momento dal Pontefice una volta presa dal Sovrano, però soprattutto da Gran Conte la mantenne e la utilizzò molto bene, a maggior ragione quando divenne Re. Grazie a ciò doveva decidere lui stesso se magari un vescovo poteva allontanarsi dalla sua sede nel momento in cui veniva chiamato dal pontefice. Il vescovo doveva chiedere il permesso al Re. i I Questi poteri aumentarono con il passare del tempo fino a che Ruggero Il non raccolse pienamente l’eredità. 25 Questo potere press ilmomie di Apostolica Legazia, conosciuta anche come Regia Monarchia di Sicilia. , ma logicamente non si fermò lì, ne allargò, con il passare, sempre più i contenuti. Si arrogò poteri personali che nella realtà dei fatti poteva esercitare solo ed esclusivamente nel nome del Papa. Promosse, approvò, disapprovò anche le nomine dei vescovi, se non fosse stato in accordo con la nomina di un certo vescovo, di quel vescovo non se ne faceva nulla. Addirittura contrariamente alle regole del diritto canonico, , di seguito, cercò di estendere questi poteri a tutto il resto del Regnum (oltre quindi al regno della Sicilia e della Calabria). La Legazia apostolica venne criticata da tutti, ma durò fino al 700. Intorno culto (il Re stabiliva quante funzioni dovevano essere fatte e come ecc ecc.) un’ingerenza totale. L'età Normanna si chiuse verso la fine del XII secolo. PT na su quella di qualsiasi altro soggetto. , attentare all’incolumità del Re, chi semplicemente ne infamava la dignità, chi disubbidiva ai suoi ordini, (quasi fosse una divinità) EEE o EMERSO cosi come vi si incorreva qualora si attentasse alla persona dell’imperatore. Il Re aveva anche il potere di battere moneta, faceva le leggi, e aveva il comando attivo in uerra, tutti i soldati gli dovevano assoluta obbedienza. Di tutti questi poteri si avvalse Federico IL che entrò tante volte in conflitto con il pontefice e fu più volte per questo scomunicato. All'interno dell'ordinamento cittadino, detto Universitas (che risulta dal complesso di tutti gli abitanti senza esclusione di quel particolare territorio , con nomi diversi oltre alle funzioni diverse, Vigevano le consuetudini locali che però, spesso e volentieri, andavano a scontrarsi contro la normativa regia (posta in essere dal sovrano), accaddero per questo una serie di forti tensioni e scontri aperti. In Puglia, nacquero da una sorta di “do ut des”. , dove fosse dallo stesso sovrano Ruggero Il. Violando questi patti, , ad Ariano, una Costituzione , rispettò quelle che erano manifestissime, che non violavano e non contraddicevano la legge Regia. Questo fece si che nacquero i primi scontri, perché Eee” * Le leggi Regie * Le Consuetudini Altre Costituzioni vennero promulgate da Guglielmo | El Malo e Guglielmo Il Buono. 26 Federico Il di Svevia, durante tutto l’arco del XIII secolo, diede vita ad un’intensa attività legislativa e concesse, nei vari anni, dei provvedimenti specifici. *. Da un lato questa convocazione poteva essere intesa come una sorta di regalo che lui fece ad alcuni sudditi a lui fedelissimi di vedere di persona la figura del Re e ascoltare la sua voce. *. Dall’altro latolo fece per promulgare una raccolta di norme, distribuite in tre libri. Questa raccolta di norme prese il nome di Liber Augustalis, conosciuto anche come Liber Constitutionum Regni, libro della costituzione del regno. Suddiviso in tre libri però, poteva essere Jerché al contenuto iniziale, , che Federico Il emanò dopo il 1231. Nella prima stesura, quindi , accorciate, cio Di altre si rinnovò la validità e favorita la diffusione. Alla stesura di quest'opera collaborò, pienamente, il segretario personale di Federico Il, cioè Pier De Le Vigne, giurista e anche fedelissimo collaboratore. Il Liber Augustalis può essere considerato come una delle più importanti espressioni normative che permise di legittimare il potere regio dell’epoca. Faagniooli,, Re di Sicilia, RAMANSAO stanza AA Mae MEnMSSIVI, che era Imperatore del Sacro Romano Impero, quindi rivestiva una doppia carica importantissima. (riconoscimento delle consuetudini cittadine). Ruggero Il infatti lasciò alle città, la libertà di utilizzare le proprie consuetudini, a patto che queste non fossero contrarie allo lus Regium. Federico Il andò al di la di questo semplice riconoscimento. Se nella Legge Regia non si trovava la norma per risolvere quel caso, dovevano fare riferimento alle consuetudini locali. «Non dovevano andare contro alla Legge Regia *. IT Re ne doveva aver constatato la conformità, oppure la non difformità, dalla Legge Regia. bone et approvate, cioè ritenute buone e Infine, in defectu della Legge Regia e delle consuetudines bone et approvate, il giudice poteva fare riferimento allo us Commune. Quella che realizzò con la constitutio puritatem, Federico II, non era altro che una gerarchia delle fonti. QualisraliGirittolenelsitasvevalapplicare? Ce ne diede le direttive lo stesso Federico Il. Ma il fatto che lo Jus Commune venne collocato dallo stesso Re al terzo posto, non significò però che Federico Il volle esprimere un giudizio sfavorevole e che non lo volle accettare, anche se nel corso della storia si sostenne spesso. 27 Iper NE E . dall'ambiente familiare e cittadino, riunendosi all’interno di un monastero come un conclave; * Potevano rimanere tra la gente, stando in aperto contatto con ogni singola persona, in modo tale da poter ricavare da questo rapporto, le lamentele, ogni suggerimento che gli veniva dato. Lo potevano fare fino al completo espletamento del loro incarico. Una volta realizzato questo incarico nasceva lo Statuto. , Cioè coloro che erano chiamati a riformare lo Statuto. Con iltempo, queste commissioni di Reformatores, si riunirono, periodicamente, qualche volta l’anno, per procedere alla cancellazione delle norme abrogate o alla sostituzione di una norma o del pezzo di norma che componeva lo Statuto. , costituito da legum periti, da notai, da iudices, si , i dottori in diritto (civilisti o canonisti) o Doctores in Utroque lure (entrambi i diritti). Questi Doctores in lure, svolgevano un ruolo importante, perché insegnavano in molte Scuole di diritto, che risultavano sempre più popolate da giovani provenienti da ogni dove dell'Europa cristiana; scuole che si avvalevano anche della possibilità di rapporti internazionali, professori che mantenevano rapporti a livello internazionale, anche perché Possiamo citare Sinibaldo dei Fieschi, dottorato all’Università di Bologna e poi tornato nella sua città natale, per essere subito dopo richiamato presso la sede pontificia, in quanto venne infatti ricordato come sommo pontefice, con il nome di Papa Innocenzo IV. 27-10-2020 Dopo la scuola di Bologna Da Irnerio in poi, quindi dalla scuola di Bologna in poi, la maggior parte dei giuristi insegnarono, non solo nelle scuole ma, una volta dottorati, esercitavano la loro professione nei tribunali. Solus Imperator Leges facere potest, cioè solo l’imperatore può creare la legge, quindi il potere legislativo era nelle mani dell’imperatore, non inteso solo come carica laica (ad esempio l’Imperatore del Sacro Romano Impero), ma come massima carica ecclesiastica, quindi il Papa che poneva in essere la normativa. Il potere legislativo era nelle mani dell’Imperatore perché il porre in essere la legge era un potere che poteva essere annoverato tra gli “lura Regalia”, cioè tra i diritti regali (ricordiamo la “Constitutio habita promulgata da Federico | Barbarossa che aveva chiesto l’intervento dei 4 dottori fedelissimi di Irnerio per avere conferma di quali fossero gli “lura regalia” che spettavano all'Imperatore). Quindi il potere legislativo faceva parte degli “lura regalia”, che facevano parte della “Summa Maiestas” del principe, inteso come autorità suprema. Secondo gli “lura regalia”, le istituzioni cittadine (città, comuni ecc.) non avevano potere di promulgare norme giuridiche. Tuttavia se la “Summa maiestas” apparteneva solo all'imperatore, l'assemblea comunale non aveva potere di fare una legge, quindi se i comuni avessero posto in essere delle norme, lo avrebbero fatto in maniera illegale arrogandosi abusivamente di un potere. A partire dalla prima metà del XIII secolo, alcuni Doctores intransigenti, cominciarono a negare validità allo statuto, perché dicevano che lo statuto non aveva valore, in quanto l'assemblea comunale, quindi il comune, non aveva alcun potere legislativo, non aveva la capacità di emanare una norma. Alcuni giuristi consideravano questo statuto come qualcosa di illegittimo, mentre altri cominciarono a constatarne l’esistenza, cominciarono a considerarlo come un Factum, un qualcosa che c’era e che era stato fatto, altri, addirittura, 30 sostenevano che lo statuto dovesse essere necessariamente disprezzato, perché posto in essere da persone che non avevano alcun potere per farlo, quindi era stato posto in essere da impostori che avevano creato questa normativa solo per portare avanti i propri interessi. Solo alla fine del XIII e gli inizi del XIV, i Doctores in Jure Civili, cioè i dottori in diritto civile, cominciarono ad affrontare il problema della giustificazione del potere normativo, che doveva essere giustificato, ma veniva esercitato dal Re nel Regnum, dalle assemblee cittadine nei comuni, ma veniva anche esercitato nelle corporazioni (corporazioni di arte e mestiere) che erano molte, anche le confraternite. Queste entità, non facevano altro che esercitare in modo massiccio questo potere legislativo. Una buona parte di giuristi, sviluppò una particolare dottrina per giustificare l'esercizio di questo potere legislativo. L’imperatore era la sola e suprema autorità terrena in grado di esercitare questo potere, quindi solo a lui spettava il potere normativo, ma così come l’imperatore poteva delegare ad altre sue persone, l'esercizio di alcuni suoi poteri, come per esempio il potere giurisdizionale, delegava questo potere ai giudici, ecco che l’imperatore poteva intervenire delegando ad altri questo potere normativo. Questa possibilità, che l’imperatore concedeva ad altre persone, era detta Permissio che, secondo la teoria di questi giuristi, rendeva legittimo il potere locale e allo stesso tempo conferiva validità alle norme dello statuto. | giuristi, affermarono che la Permissio, non potesse durare molto, era nelle mani dell’imperatore, che la concedeva ad un comune, che poteva poi emettere il suo statuto, che sarebbe stato riconosciuto a pieno, ma nel momento in cui vi fosse stato qualcosa che non andava, l’imperatore poteva tirarsi indietro, negando un ulteriore utilizzo di questo potere legislativo, lo faceva anche senza alcuna giustificazione, quindi era un permesso a procedere al legiferare. BARTOLO DA SASSOFERRATO E BALDO DEGLI UBALDI Uno tra i più importanti giuristi del periodo, Bartolo da Sassoferrato, nel 1343, elaborò una sua dottrina della lurisdictio che, secondo lui, doveva diventare attributo stabile di ogni ordinamento locale. Partiva dal presupposto che la matrice di ogni fenomeno giuridico, stava, non solo nella persona, ma soprattutto nella volontà dell’imperatore, quindi partiva tutto dalla sua volontà. Imperatore che era Lex Animata Terris, cioè la legge animata sulla terra, ed era sui poteri che aveva, che doveva essere delineata la figura della iurisdictio. Una volta centrati tutti i poteri dell’imperatore, potevano essere riprodotti su una scala inferiore per un qualsiasi altro ordinamento, quindi i poteri su scala maestosa funzionavo nell'impero perché vi era l’imperatore, ma in un comune, in una città o in un altro ordinamento più piccolo, bisognava ricreare questo modello su scala più piccola, quindi sia ordinamento cittadino, sia Regnum, sia una Corporazione. L’unica cosa fondamentale, era che questo ordinamento più piccolo, doveva essere in grado di funzionare. Introducendo la iurisdictio, Bartolo da Sassoferrato, non riuscì ad eliminare la dottrina della Permissio, che continuò a rimanere in vita, ad essere difesa da un allievo di Bartolo, Raniero Arsendi da Forlì, conosciuto come Raniero da Forlì. Il quadro, così come venne tratteggiato da Bartolo, fu ricomposto grazie alle intuizioni di un suo allievo, Baldo degli Ubaldi, che trattò in modo approfondito le tesi del suo maestro e arrivò alla conclusione di una legittimazione di qualsiasi forma di ordinamento. Baldo degli Ubaldi partiva dal presupposto che alla base della Permissio e alla base della lurisdictio, vi era un principio fondamentale, quello che l’ordinamento che si voleva legittimare doveva essere funzionante. Secondo Iui, i poteri nelle mani dell’imperatore, non potevano essere considerati rappresentativi, ne allo stesso modo, da essi poteva derivare il potere che poi acquisivano le entità minori. Secondo Baldo l’attenzione doveva essere concentrata sul funzionamento di quella particolare entità. Si doveva partire dal presupposto che la societas a cui si faceva riferimento, doveva essere funzionante, ciò serviva a giustificare i suoi poteri normativi. Diceva che non aveva 31 importanza il fatto che i poteri derivassero dall’imperatore nell'impero, o dal re nel regnum, dal comune, dalla corporazione, tutto ciò che aveva rilevanza, era che questa entità fosse funzionante, dal momento in cui funzionava, il suo ordinamento sarebbe stato considerato legittimo. La cosa importante secondo Baldo, era che dovesse esserci un aggregato di uomini che si doveva reggere bene, doveva essere funzionante, ma perché potesse funzionare occorreva che avesse in se già delle norme valide, alle quali obbedire. Il rispetto di quest’ultime, avrebbe portato al funzionamento di questo meccanismo. Un volta riconosciuto il potere legislativo, di porre in essere delle norme, ogni singola entità locale, cominciò a difendere la propria normativa facendo rispettare il proprio statuto. All’interno degli statuti, era contenuta la disposizione in cui veniva fissata una gerarchia delle norme, una gerarchia delle fonti normative, che doveva essere rispettata dai giudici locali nel tribunale. Si stabilì che per cercare una soluzione alle liti, i giudici dovevano applicare prima di tutto lo statuto, se in questo non si trovava una norma adatta che poteva far risolvere la lite, si doveva attingere alle consuetudini cittadine, questo in terza e ultima istanza, se anche nelle consuetudini non si trovava la norma adatta, il giudice poteva attingere allo lus Commune (Nel regnum Sicilia, al primo posto vi era legge regia, poi le consuetudini a patto che fossero approvate dal sovrano e infine il diritto comune). Per i giuristi, la legge doveva essere misurata secondo i precetti della giustizia. Si partiva dal presupposto che la legge doveva essere giusta, non importava se fosse economicamente conveniente o meno, ma doveva essere giusta, perchè non doveva rispondere agli interessi di chi l'aveva posta in essere. Il problema della giustizia della legge, si doveva porre sotto il profilo dell’equitas. L’equità a partire da irnelio, si percepiva e poteva essere individuata nelle cose, tramite ogni rapporto umano. Questa equità però non poteva essere considerata giustizia se non si esercitava un intervento da parte dell’autorità suprema, che dava a questa equità un valore cogente. Questa autorità suprema era l’imperatore, che rappresentava la Lex animata Terris, quindi per Irnelio, l’imperatore era l’unica persona in grado di trasformare l’equità in giustizia, questo perché era all'Imperatore che il popolo romano delegava il suo potere originario, l’imperatore del sacro romano impero. Da questo si deduce che tutte le leggi poste in essere dall'imperatore erano leggi giuste, che rappresentavano a pieno la giustizia. Si parlava di leggi giuste che si distinguevano dall’equità, ma nella realtà erano ad essa strettamente connesse; dal momento in cui una legge veniva creata con equità, posta in essere dall’Imperatore, non poteva prescindere dall’equità. Affinché l’equitas potesse essere trasformata in giustizia, secondo il pensiero di irnelio, la voluntas doveva essere espressa dal’imperatore, ma lui, per esprimere il suo volere, doveva suggellare quello che diceva e che voleva porre in essere in una norma, con la sua auctoritas. Se l’imperatore non metteva l’auctoritas, non si aveva il passaggio dall’equità alla giustizia. Doveva suggellare con la sua auctoritas, in quanto si rivelò necessario dare potere e rigore alla norma posta in essere nell'ordinamento. Occorreva quindi che avvenisse questo passaggio, nel senso che allo lus Strictum doveva corrispondere lo lus Scriptum, cioè la norma così come era stata creata, diventava cogente e doveva essere imposta, per essere rispettata, da un’autorità suprema. Il far rispettare questa norma, significava che per chi la doveva rispettare, ci doveva essere una costrizione processuale, in caso di inadempimento. Alcuni giuristi arrivarono a dire che la norma, cogente era già esistente, perché dal momento in cui veniva posta in essere da un’autorità suprema esisteva già, bastava solo interpretarla. Interpretare la legge, significava saperla applicare nel modo più umano e misericordioso possibile. | sapientes civitatis, i legum periti, i doctores in iure, dovevano saper interpretare la legge (sia la legge civile che la legge canonica). Tutti i professori di diritto dovevano essere in grado, grazie alla loro interpretazione della legge, di ricostruire ciò che l’imperatore (diritto civile) o il papa (diritto canonico) avevano 32 GLI STUDENTI DOPO IL DOTTORATO La maggior parte degli studenti dottorati ogni anno, ultimando l’iter di studi, a seconda delle sedi universitarie, tornavano nella propria città e portavano con se, un bagaglio materiale di libri, appunti di lezioni, tutto il materiale discusso durante le lezioni, e un bagaglio giuridico, tutto quello che avevano appreso e cominciavano ad operare come Legum Periti o come Doctores, in diritto civile o canonico o in Utroque lure. Una volta dottorati, la possibilità di trovare lavoro, per loro, era altissima, ciò avveniva indipendentemente dall’abito che indossavano (abito religioso o laico). Gli ecclesiastici una volta diventati dottori, tornavano nella loro terra d’origine, nel monastero da dove erano partiti, ma spesse volte, venivano chiamati a svolgere ruoli importanti all’interno di un monastero, di una chiesa, o venivano chiamati a Roma per intraprendere la carriera a gradi più elevati. I laici, venivano chiamati a lavorare nelle città come funzionari o incaricati di affari in un comune o in una signoria, che con le loro conoscenze, cercavano di dare un nuovo assetto a livello normativo e politico-istituzionale. Tra i Doctores laici, i più fortunati erano quelli che vivevano nelle città vescovili e nelle città universitarie, perché riuscivano a mantenere vivi i contatti con il mondo degli studi e degli affari, anche politici, trovavano nelle corporazioni di arti e mestieri o nelle singole confraternite, un valido organismo che gli permetteva di mantenere vive le loro capacità. Già dalla fine del 300, questi dottori, cominciarono a rivestire degli incarichi importanti, che non compromettevano la loro indipendenza, anzi la fecero apparire ancora più grande. Cominciarono a lavorare nella stesura di verbali delle assemblee maggiori o minori, dei vari parlamenti che componevano i vari ordinamenti, questo era un fatto importante a livello assembleare, a livello delle singole unità locali, perché un verbale redatto da uno luris Peritus, o da un Doctor era più importante rispetto ad un verbale scritto da una persona qualunque. Per quanto riguarda le realtà più grandi ed importanti, poteva succedere ad un giurista, signore locale, che gli veniva assegnato un compito importante, ad esempio quello di ambasciatore, inviato in altri paesi, alla corte imperiale o alla corte pontificia. Per questa missione importante ci si avvaleva di giuristi dottori, che affiancavano gli uomini politici in arme e andavano a costituire delle commissioni, costituite da un numero vario di componenti, che svolgevano un duplice lavoro: prima di partire per l’ambasceria, preparavano in modo dettagliato le domande che dovevano fare. Subito dopo, al ritorno in patria, dovevano essere ingrato documentare in modo analitico i risultati dell'operazione svolta, si dovevano riportare le discussioni e in modo molto dettagliato, le risposte ottenute. Molte volte, i doctores, venivano assunti per redigere delle lettere di natura privata, scritte per rappresentare situazioni, per chiarire punti di vista che riguardavano un affare personale o affari riguardanti una famiglia intera, ma potevano anche riguardare problemi concernenti la realtà di un’entità locale, che riguardavano una città intera. Un’altra attività esercitata e ben remunerata dai giuristi fu quella relativa agli scritti attinenti all’attività forense, attività che poteva essere realizzata ed esplicata dal punto di vista consultivo. UMANESIMO GIURIDICO - PRIMA E SECONDA SCOLASTICA Mentre si affermarono dei fenomeni riguardanti la giurisprudenza del 300, si svilupparono in Europa sia la giurisprudenza pratica (praticata nei tribunali) che l’usus modernus pandectaturum, cioè l’uso moderno in forma moderna, rivisitata delle pandette del digesto di Giustiniano. Durante il secolo XVI e XVII si formarono e svilupparono nell'Europa occidentale due correnti di pensiero, definite dalla storiografia col nome di Umanesimo Giuridico e la prima e Seconda Scolastica. 35 Queste due correnti di pensiero concorrevano all’obiettivo di mettere in crisi il diritto comune. Ci riuscirono, ma non lo annientarono definitivamente, non si ebbe il collasso definitivo del diritto comune, ma si tratterò di una crisi che comporterò giorno dopo giorno, una lenta agonia. Non si arrivò mai alla morte dello ius commune, cosa che avvenne una volta per tutte con l’avvento della codificazione. Entrambe le correnti di pensiero, colpirono l’equilibrio del sistema iuris del diritto comune, che garantiva la vita allo iuris commune e allo stesso tempo agli iura propria. Misero in crisi la funzione ordinatrice dello ius commune e concorsero a ridisegnare, in alcune Nazioni dell'Europa una nuova figura di giurista. Il giurista da questo momento in poi non fu più il giurista così come era stato inteso fino a quel momento. Il giurista, con l'avvento dell’Umanesimo Giuridico e della Seconda Scolastica, doveva essere letterato, filosofo e con la seconda scolastica doveva essere teologo. Da questo momento in poi colui che veniva chiamato ad interpretare la legge doveva avere anche altre conoscenze, doveva essere più letterato e più filologo per gli esponenti dell’umanesimo giuridico, ma doveva applicare anche le idee che stavano alla base della chiesa per quanto riguardava la Seconda Scolastica. La Seconda Scolastica si affermerò come conseguenza delle scoperte geografiche. 30-10-2020 UMANESIMO GIURIDICO E LA SECONDA SCOLASTICA L’Umanesimo Giuridico, incise sull’autorità del diritto comune, sulla sua pretesa e predicata certezza, sulla sua eternità ed universalità. Propose prospettive storiche completamente diverse, propose un’incertezza, una mutabilità di questo diritto e disgregò la dimensione e la determinazione a livello teorico dello ius commune. Lo spazio occupato in modo esclusivo dal giurista, cominciò ad essere occupato dallo storico o letterato. Cominciarono ad essere sviluppate le prime sperimentazioni a livello filologico, quindi la funzione che fino a quel momento aveva avuto il giurista, fu ridimensionata, la sua figura cambiò radicalmente. Contestualmente, si tentò di sostituire allo lus Commune l’insieme di legislazioni regie o principesche, che cominciarono a sorgere in quel periodo. Periodo in cui nacquero gli stati nazionali. Queste legislazioni regie, non vennero più considerate lus Proprium, ma diritto generale. Fino a quel momento, cos'era il diritto generale? Era il diritto comune, inteso come lus Commune, quindi Corpus luris Civilis e Corpus luris Canonici. Secondo gli Umanisti, doveva rompersi il rapporto tra lus Commune e lus Proprium, il diritto del regno non doveva più essere considerato come lus Proprium, ma come diritto generale ecomune, rispetto alla maggioranza dei piccoli diritti locali, costituiti dalle varie consuetudini di ogni luogo e dai vari statuti. Cosa succedé al diritto comune del periodo tardo-medievale? Diventò un diritto residuale o venne inteso come un diritto di cui bisognava tener conto, però dal punto di vista culturale. Bisognava studiarlo solo per avere una cultura, conoscerlo anche sulla base di quello che il diritto offriva, per quanto riguardava il Corpus luris Civilis infatti, Giustiniano ci ha offrì una serie di figure giuridiche e istituti molto preziosi. Erano quindi strumenti operativi che dovevano essere necessariamente applicati, servivano per la vita quotidiana, ma non si potevano applicare così come vennero tramandati, bisognava modificarli adeguandoli alla realtà moderna del 1500. Quindi lo lus Commune aveva valore in quanto Imperio Rationis, cioè non aveva più importanza in ragione dell’impero, ma aveva valore sulla base dell’impero della ragione, quindi doveva essere adottato sulla base della ragione umana. 36 Cosa succedé ai giuristi di un tempo, cioè a chi aveva studiato il vecchio diritto e a chi era a conoscenza del vecchio diritto comune? Continuavano ad operare, ponendosi su una scena diversa, cominciarono ad adattarsi alle nuove circostanze, quindi cominciarono a lavorare come consiglieri del principe, oppure lavorare nelle corti, diventando cortigiani. Anche la visione della magnificenza dei libri di Giustiniano cambiò. Non aveva più una visione esclusiva, dovevano essere modificate le modalità con cui ci si avvicinava a questo diritto e le modalità con cui si cercava di applicarlo. Cambiò il punto di vista del giurista, che doveva essere anche letterato, storico e filologo. Cambiò l'approccio a questo diritto, alla normativa Giustinianea, perché era una normativa che poteva valere per quel periodo, ma difficilmente poteva essere applicata così com'era. L'approccio nei confronti del diritto Giustinianeo andava modificato, quindi chi si accingeva a studiare il diritto Giustinianeo avrebbe incontrato nella sua strada, dei temibili concorrenti. Questi nuovi studiosi del diritto, partivano dal presupposto che il diritto comune doveva essere relegato nel passato, andava utilizzato solo per conoscere la storia passata, era considerato utile, in quanto permetteva di svelare e spiegare la realtà del mondo antico. In questo nuovo approccio di studio del diritto romano, il giurista antico vide il suo spazio di azione limitato dal letterato, dallo storico e dal filologo. Vi erano alcuni gruppi di giuristi, che rinnovarono da subito, l'approccio allo studio di questo diritto e cercavano di farlo in modo da trovare delle corrispondenze al diritto da applicare nella vita reale. Vi erano anche giuristi che eliminarono quasi del tutto lo studio del diritto comune, lo resero inutile, perché lo ritenevano ormai passata, non applicabile. Altri giuristi mantenevano il diritto comune come il diritto generale, diritto per eccellenza, sostenevano fosse utile continuare a studiare e applicare il diritto così com'era stato fatto fino a quel momento. L’Umanesimo Giuridico, aveva pochi rappresentati in Italia, in Germania e in Spagna, si sviluppò soprattutto in Francia, dove riuscì a mettere in crisi il rapporto tra lo lus Commune ei vari diritti locali, quindi mise in crisi il sistema di diritto comune. In Francia si sviluppò il Mos Gallicus, e alcuni giuristi rivendicarono il valore del diritto francese sui vari diritti particolari esistenti (Francia divisa in due). INDIRIZZI METODOLOGICI DIFFERENTI Sulla base di questi concetti che si svilupparono in Francia, si può parlare di indirizzi metodologici differenti, che variavano a seconda dell’approccio nei confronti del diritto comune. Alcuni giuristi, accusavano di irrazionalità il diritto romano, quindi tutto quello che Giustiniano scrisse e fece nella sua compilazione era qualcosa di irrazionale. Altri proponevano invece, la possibilità di concedere un’ordine razionale al diritto ereditato fino a quel momento, ma questo andava rielaborato in base al cambiamento dei tempi. Altri ancora invece, studiavano la compilazione Giustinianea e la utilizzavano come semplice testimonianza della storia passata. In ciascuno di questi tre settori, i rappresentati di spicco erano: Appartieneva alla prima linea dell’Umanesimo Giuridico, un giurista, Francesco Hotman, che visse in pieno 500 e scrisse l’Antitriboniano, Antitribonian (Triboniano era il presidente della commissione chiamato a presiedere sui lavori per la stesura del Corpus luris Civilis di Giustiniano), con il termine Antitriboniano, si capisce quale era il metodo di approccio con la compilazione Giustinianea (una persona che chiama un’opera in questo modo, sarà una persona che va totalmente contro al lavoro svolto da Triboniano). In quest'opera, Hotman, mise a nudo le manchevolezze e gli errori commessi dal legislatore bizantino, le criticò fortemente, allo scopo di valorizzare al massimo il diritto nazionale francese. Lo scopo era quello di annullare completamente la legislazione bizantina, posta in essere da Giustiniano, per esaltare e valorizzare il diritto nazionale francese. 37 La città di Salamanca, aveva un’importante università, che divenne il fulcro di questa nuova corrente di pensiero, in quanto vi si aggregarono le nuove forze spirituali e le nuove idee che in quel periodo si stavano affermando e stavano sconvolgendo l’antica e vecchia Europa. Tra i capiscuola di questo nuovo pensiero, troviamo Francisco de Vitoria, che nacque nel 1492, lui si trasferì a Parigi, dove frequentò l'università e approfondì i suoi studi dal 1506 al 1528, approfondì i suoi studi teologici nella direttiva della Prima Scolastica di San Tommaso d'Aquino. Studiò la Summa teologica, che era come un testo di base che portò ad una nuova fase, una nuova teologia. Il punto centrale dell’opera di Francisco, era costituito da interessi teologici, era un teologo, ma non era una teologia come lo era sempre stata, ma era nuova, perché si apriva al resto del mondo e si mostrava curiosa delle anime degli indios, che fino a questo momento erano perfetti sconosciuti. Secondo lui, il diritto romano, non era più in grado di fornire una risposta agli inquadramenti normativi che le scoperte geografiche avevano portato alla luce. La prima domanda che ci si pone è: dal punto di vista giuridico, dal punto di vista della legge, a chi appartengono questi territori? Ma la domanda più importante è: Che status bisogna attribuire a questi indios? Che legge hanno? Se non la hanno? Come si fa a tenerli a bada? Come si può conoscere il diritto che devono rispettare? Siccome questa nuova scienza giuridica non sembrava in grado di dare una copertura soddisfacente, con il suo diritto, a tutti icambiamenti che vi erano stati, ecco che Francisco rivendicò il primato del ruolo del teologo, anzi, ma non teologo soltanto, ma giurista teologo, cioè l’unica persona in grado di fornire l’interpretazione dei segni della volontà di Dio. Quello che il giurista teologo si doveva impegnare a capire e spiegare era quale fosse la volontà di Dio, come questa volontà doveva inserirsi nella realtà del mondo. L’indagine da cui partì Francisco doveva essere effettuata sulla natura, un'indagine, che partendo dalla natura, doveva riguardare e studiare il modo in cui Dio aveva modellato la natura stessa. Il giurista teologo, secondo Francisco, doveva ricercare nella natura la volontà di Dio e doveva presentarsi come interprete di questa natura. Doveva essere in grado di creare norme, strutture sociali, predisporre per il legislatore delle norme giuridiche, che dovevano corrispondere a quella particolare natura, che era così perché era Dio a volerlo. Quello che noi chiamiamo “Diritto Umano”, non dovrà essere altro se non una proiezione della volontà divina, ma anche una creazione dell’uomo, in quanto esso dovrà essere in grado di interpretare tutti i segnali di questa volontà di Dio, che si esplicava nella natura. Francisco, disse che l'osservazione della natura, doveva far dimenticare l’idea che tutti gli uomini siano uguali, un’idea fantasiosa, ma se si dimentica quest'idea, a maggior ragione, non si deve pensare al fatto che tutti gli uomini possono avere gli stessi poteri e diritti. Questo perché secondo Francisco, Dio non vuole, nel mondo in cui creò la natura, che tutti gli uomini siano uguali. Dio ha voluto che tutti gli esseri umani non fossero uguali. Da questo principio, ne deriva il fatto che se non sono uguali, esisteranno persone degne e non degne, abili e incapaci, ricchi e poveri, potenti e deboli. Se tutti gli uomini, per volere di Dio sono disuguali, da questo principio scaturisce che ci deve essere necessariamente una persona, quella più forte, che dovrà comandare su tutti gli altri, questo perché, se tutti gli uomini fossero uguali, si disgregherebbe la res publica (sarebbero troppi a voler comandare). Dal fatto che dalla volontà divina emerga il fatto che tutti gli uomini non sono uguali, significa che alcuni saranno di status superiore, altri di status inferiore, alcuni liberi, quindi tanti altri schiavi e così via. In questo modo, secondo Francisco, si cominciava a giustificare, non solo il dominium sulle cose, ma anche il dominium sulle persone. Se si esercitava il dominium si dava una giustificazione al fatto che i più abili, i più potenti, erano sicuramente più ricchi, ma giustificava anche il dominium sulle persone, quindi una cosa molto brutta, la schiavitù. Si giustificava la conformazione giuridica, dal punto di vista giuridico, della schiavitù. 40 L'uomo giurista teologo cosa doveva fare? Doveva guardare con questi occhi alla natura così come Dio la creò e doveva proporsi come interprete della volontà divina, grazie alla quale fu creata la natura. L'attuazione del diritto nel settore della teologia (teologia che tutto comprende e tutto domina), aveva come effetto quello di attrarre il ruolo del giurista in un ruolo nuovo, quello della religiosità. Campo anche della chiesa, universale, che governava la religiosità, quindi il diritto comune da applicare a tutta l'Europa cristiana, non fu più limitato a quella zona, ma doveva essere allargato ad altre province, territori nuovi dell’orbe terrestre. Francisco, considerava l’intero mondo, con la conoscenza di questi nuovi territori, come una totalità e unità di res publiche cristiane. Una Repubblica che era parte di tutta la terra, anche una semplice provincia cristiana era parte di tutta la Repubblica. Tuto ciò per spiegarci la domanda di prima “che diritto avranno gli indios? Che religione avranno per fare parte di questa res publica che fa parte dell’orbe cristiana, dovranno essere cristiani, ma se non lo sono? Il sistema di diritto comune divenne inadeguato per interpretare i motivi originali di questo nuovo mondo, che era in formazione. Il diritto comune quindi, apparve insufficiente, perché fu pensato per la sola Europa cristiana, quindi per tutti i fideles cristi. | giuristi erano indifferenti rispetto a ciò che accadeva nei territori aldilà della cristianità, non sapevano nemmeno dell’esistenza di questi nuovi territori e si rivelavano diffidenti nei confronti di ogni cosa che potesse apparire come una novità. Cambiò il pensiero, non era più rivolto solo allo studio del diritto che doveva essere applicato ai fideles cristi, ma doveva essere applicato anche ad altri. Bisogna chiedersi “Qual'è la legge con cui gli indios hanno vissuto fino ad ora?” Bisognava in ogni caso pensare ad una legge da imporgli, si scatenò così l’impeto missionario e si consolidò l’intransigenza della fede e della sacra inquisizione. Scomparirono tutti i possibili modelli di una pluralità di lura Propria (cristiani), che si raccordava allo lus Commune (cristiano). Non fu un caso che dopo molti secoli, dove le leggi giustinianee vennero accettate e considerate come testi sacri e completi, si cominciò a delinearne i difetti, nacque il problema dell’incertezza di questo diritto e relativamente a questa problematica si pose la Seconda Scolastica. Oltre Francisco, citiamo Domenico de Soto, Fernando Vasquez e Juan de Sepulveda. JUAN DE SEPULVEDA Uomo di corte e uomo di chiesa, storico di Carlo V e recettore di Filippo II. Affrontò in modo radicale la conversione degli indios al cattolicesimo, scrisse un’opera in cui affrontò i temi classici della Seconda Scolastica. La prima domanda che si pose era se fosse giusto continuare la guerra contro gli indios, se era giusto togliergli i loro possessi, i beni terreni, se fosse giusto ucciderli (si uccidevano quando opponevano resistenza). In quest'opera si mostrò subito la risposta alle domande, risposta affermativa, arrivò infatti a giustificare ogni possibile atrocità nei confronti degli indios, tutto doveva essere fatto a queste persone affinché potessero essere spogliati dalle loro cose ed essere assoggettati e persuasi più facilmente e convertiti alla nuova fede. Così subentrò l’opera dei padri predicatori. Anche lui era convinto che tutti gli uomini fossero diversi per volere di Dio, che quindi fosse giusto uno ius regime giuridico diverso, che doveva dare concretezza e realizzare questa diversità. Di conseguenza, lui, arrivò a ritenere giusta la schiavitù, la ritenne proiezione giuridica di difetti naturali degli schiavi. Non confermò solo i presupposti della Seconda Scolastica, ma procedette, andando oltre al limite consentito, presuppose soluzioni estreme, crudeli, infatti 41 sosteneva che fosse giusto fare guerra agli indios, perché erano nati inferiori, era giusto spogliarli dei loro averi con qualsiasi mezzo possibile. Quindi, se un indios non cedeva i suoi beni, lo si poteva uccidere con qualsiasi mezzo. Tutto ciò per riuscire a convertire il maggior numero di persone appartenenti a questa razza. Addirittura nel 1550, Juan, pubblicò un’opera, apologia pro libro de justis belli causis, cioè a giustificazione della cause giuste della guerra, la cui fusione non andò in circolazione, ma fu censurata dalla censura accademica, dai suoi stessi colleghi dell’università. (02-11-20) UGO GROZIO Agli inizi del 1600 comparve Ugo Grozio, l'Europa poteva dirsi caratterizzata da una serie di traffici a livello internazionale che andavano tra l'Europa e l'Africa Occidentale e le Americhe. Questi scambi, consistevano in delle merci molto povere che venivano scambiate in Africa per merci di valore superiore. Gli schiavi sbarcati in America lasciavano il loro posto per dei prodotti agricoli coltivati nelle Americhe. Con un solo viaggio si riuscivano a realizzare tre tipologie di proventi. In questo contesto di sviluppo economico si inserì la personalità di Ugo Grozio, che pubblicò nel 1609, in forma anonima, la sua prima opera, intitolata Mare Liberum. Le riflessioni contenute in questo volume riguardavano la libertà di commercio e la libertà di navigazione. Queste riflessioni, ponevano il motivo per cui venne scritta, e l'intento di Ugo Grozio. L'intento si riferiva al tema delle norme universali, norme che si potevano condividere sulla base di un riconoscimento di un'autorità politica universale (l'Imperatore), oppure autorità nazionale (il Re), però si trattava di un diritto universale che non dipendeva dai valori etico religiosi, in quanto strettamente legati alla frammentarietà politica e religiosa che aveva interessato l'Europa fino a quel momento (frazionata sia dal punto di vista politico che religioso). La fama di Ugo Grozio, fu affidata alla sua opera più importante, De /ure Belli ac Pacis, cioè il diritto della guerra e della pace, pubblicata a Parigi. La scrisse durante i suoi anni di prigionia e utilizzò ampiamente la letteratura giuridica spagnola, che studiò negli anni del carcere. Grozio, sfruttò tutte le possibilità che vennero messe alla luce dalle nuove impostazioni metodologiche e soprattutto dalle riflessioni portate avanti dalla Seconda Scolastica, però, queste impostazioni metodologiche, le reinterpretò con originalità, all'interno del contesto di una visione complessiva, sintetica e sistematica di tutto il diritto. La matrice ideologica era data dal rapporto, dalle considerazioni che Grozio fece del concetto di natura. Da qui, nacque una visione che l'autore aveva di vari istituti giuridici, secondo una sistemazione particolare: partì dal concetto di natura sistemandolo in modo diverso rispetto al tipo di sistemazione che vi era stato fino a quel momento, infatti, non si rifece alla sequela dei libri e dei titoli del Digesto. Si allontanò anche dalla classica tripartizione di persone res actiones, che caratterizzò, a partire da Gaio, la suddivisione delle varie opere. In Ugo Grozio, la religiosità cambiò segno, cioè, secondo lui, l'uomo doveva riflettere sulla sua stessa natura, su se stesso, suoi propri istinti e sulla possibilità, se ce ne fosse una, di tenere a freno e disciplinare i suoi istinti. L'uomo si doveva affidare alla natura voluta da Dio, ma prima di affidarsi a questa doveva affidarsi a se stesso, alla propria natura individuale, alla propria capacità, alle sue capacità di vedere e capire. Da quel momento in poi, la natura, nel pensiero di Grozio, si colorò di ragione umana, perché per capire e per riflettere su se stesso, l'uomo doveva essere in grado di ragionare. La ragione umana era la ragione dell'uomo che indagava cercando di conoscere. 42 Il parere del giurista, in questo caso, prendeva il nome di consilium sapienti iudiciale, consiglio del sapiente in giudizio. Questo consilium, nel diritto medievale, costituì una delle pietre miliari per la costruzione di un sistema di raccordo tra //s Commune e lus Proprium (con lus proprium, ci riferiamo al diritto consuetudinario, al diritto regio e a quello statutario). Un'altra categoria di consilia era quella dei consilia sapientis pro veritate, cioè consigli nati da questi giuristi, per dare la verità. Giuristi che davano consigli ai pontefici, imperatori, sovrani, principi, signori feudali, a tutte le categorie di persone che li richiedevano, privati che potevano essere anche laici ed ecclesiastici. Richiedevano questi consilia anche solo per per difendere la propria proprietà, i loro crediti e le loro rendite, per qualsiasi motivo che riguardava la loro persona. | consilia, erano richiesti e dati attraverso diverse forme: | privati formulavano una domanda, al giurista, che si articolava nella narrazione di un fatto e nel dubbio giuridico connesso, oppure nella descrizione di un fatto, la contestazione riguardo ad un bene, oppure una contestazione già sorta o che potrebbe sorgere, la qualificazione di questa contestazione, oppure chiedevano semplicemente un parere, formulando quesiti ai quali, i giuristi, dovevano rispondere con un “Sl” o un “NO”. Se il consiglio richiesto era molto complesso, le domande venivano scritte su un foglio di pergamena, oppure su un apposito registro, che i giuristi tenevano nel proprio studio, messo a disposizione dei clienti, però, chi viveva lontano e voleva avvalersi del consilium di un giurista, poteva scrivergli, formulando la sua richiesta su una lettera. In questo ultimo caso, la risposta del giurista, veniva data sempre tramite una lettera; invece nel caso in cui si faceva la richiesta nel registro, il consilium veniva messo per iscritto, in risposta sotto, nel registro. A partire dal XIII secolo, la documentazione crebbe tantissimo ed aumentarono le richieste e le risposte a questi consilia. Sulla base della complessità della domanda fatta, a dare il consilivym non era un semplice giurista, ma anche più giuristi. Il prezzo da pagare era molto elevato, non tutti potevano permetterselo. Era elevato per il compenso dovuto al singolo consulente o collegio dei giuristi e perché era corrisposto a colui che metteva la firma. Il prezzo poteva arrivare allo stipendio semestrale di un professore che insegnava nelle università più celebri (a Firenze si pagava uno stipendio annuale di 40 fiorini per un prof di filosofia all'università, 25 fiorini per un prof. Di medicina all'università e a Bologna, un consilium, veniva pagato anche 100 fiorini). Col passare del tempo, si cominciarono ad organizzare delle vere e proprie raccolte di consilia, che venivano raccolte in un volume, sulla base dell'argomento trattato. | giuristi avevano interesse ed esigenza di rendere evidenti i consilia da loro fatti, quindi raccolsero in volumi tutti i loro consilia, soprattutto se si trattava di consigli dati a principi, a sovrani o a grandi ordinamenti pubblici (ci sono rimasti molti consilia di Bartolo da Sassoferrato). Collegata a questa forma di giurisprudenza consulente, apparve in una nuova prospettiva un nuovo indirizzo, che si consolidò in pieno 1600, cioè la giurisprudenza pratica. Tra gli esponenti di questa giurisprudenza pratica, possiamo annoverare un grande giurista italiano, Giovan Battista De Luca, originario di Venosa, nacque nel 1614, romano d'adozione, era un cardinale che operò in piena età della controriforma, un periodo caratterizzato da una grande intransigenza religiosa, periodo in cui si affermò la sacra inquisizione. Il cardinale De Luca fu un apprezzato giure consulto, cresciuto nella pratica del Foro, quindi operava direttamente nel tribunale, coltivando vasti interessi di studio. Il De Luca seguì vie particolari: 1. Nella stesura delle sue opere, alternò l'utilizzo della lingua volgare all'utilizzo del latino (la lingua volgare è quella che diventò il nostro italiano), era una novità del panorama della cultura europea del momento. In volgare venne redatta la sua opera più importante 45 e diffusa, ovvero il Dottor Volgare, opera in cui affrontò tutte le problematiche relative alla convivenza civile e cominciò a sistemare tutti i vari istituti di diritto privato. La scelta della lingua italiana ci testimonia il suo intento, intendeva l'uso della lingua italiana come uno strumento che sarebbe maggiormente servito a divulgare il diritto, quindi avrebbe reso la divulgazione del diritto più semplice, questo perché grazie all'utilizzo della lingua volgare, il diritto comune avrebbe avuto più possibilità di essere conosciuto anche al di fuori dell'ambito forense. maneggiarlo tutti i giorni. Per enunciare questo suo intento divulgativo della lingua volgare, De Luca, indirizzò il Dottor Volgare agli “Infarinati”, che erano coloro che pur non professando il diritto, erano costretti a trattarlo ogni giorno, di conseguenza dovevano averne una infarinatura. 2. In quest'opera, si interrogò sia sulla figura del giudice che sul ruolo dell'interpretazione, che proponeva a questo scopo, una gerarchia delle fonti di diritto comune. Per quanto riguarda la possibile soluzione delle varie questioni giuridiche, era necessario che vi fosse un ruolo prevalente, visto che la normativa era disorganizzata e disordinata, vi doveva essere qualcuno in grado di prevalere, questo ruolo prevalente doveva essere la decisione dei grandi tribunali. Le decisioni prese nell'ambito dei grandi tribunali, dovevano essere sovraordinate per autorevolezza e dovevano esserlo anche nei confronti dei consilia dei giuristi, di conseguenza, a prevalere, erano le decisioni dei grandi tribunali. Il De Luca, nella trattazione delle sue opere partiva da due convinzioni di fondo: 1. Bisognava essere uomini di buon senso; 2. Bisogna ascoltare, non solo la voce della ragione, ma soprattutto la voce della ragionevolezza, diceva che essere ragionevole era sicuramente un buon pregio, perché si dava segno di equilibrio e attenzione per le varie esigenze, che non dovevano essere solo razionali, ma anche relazionali e sentimentali; Partiva dalla convinzione che l'uomo non fosse composto solo dal cervello, ma anche da anima e cuore, quindi l'uomo aveva un bisogno non eliminabile di convivere e allo stesso tempo instaurare una serie di rapporti con gli altri. Tutte le decisioni che l'uomo doveva prendere durante la sua vita, non dovevano derivare solo dalle regioni dell'intelletto, ma da ragioni che dovevano rispecchiare le convenienze sociali. Il pensiero del De Luca venne espresso anche in un’altra opera, il Teatrum Veritatis ac lustitiae, cioè il Teatro delle Verità e della Giustizia, una monumentale raccolta di massime giurisprudenziali, estrapolate da un’enorme quantità di sentenze giudiziarie. In quest'opera, costituita da 21 volumi, si accolsero migliaia di allegazioni e più di 2500 pareri forensi, che riguardavano la materia di diritto civile, diritto canonico, feudale e municipale e così via. Questi pareri forensi, si maturarono nell’esercizio della prassi giudiziaria. Questo fenomeno si espanse anche in Germania, andando a toccare particolari settori del diritto, quasi si volessero individuare sia principi che semplici figure proprie diun macro sistema diverso. Cominciarono a nascere particolari settori del diritto, in questo periodo, la più importante è quella del diritto commerciale ed è proprio in questo settore che cominciarono ad affermarsi grandi personalità, come ad esempio Stacca e il genovese Staccia, giuristi importanti, che operarono nel settore commerciale. La stessa cosa può dirsi del diritto processuale, sia civile che penale, dove vi erano personalità importanti come Prospero Farinacci e Giulio Claro. Questo nuovo tipo di giurisprudenza, cominciò a confrontarsi da subito con un nuovo potere, il potere dello Stato Moderno, quindi si scontrava quotidianamente con il problema dell’utilizzazione allo stesso tempo di /ura Propria e lus Commune, quindi si impegnava a cogliere il diritto locale, tutti gli elementi di consonanza, tutti i contenuti e le forme, principi e linguaggio che avevano una comunanza con il diritto comune. Si orientava a tener conto sempre del diritto comune, ma secondo una prospettiva nuova, cioè si doveva cominciare a riordinare la materia per singoli settori omogenei anche per 46 argomenti. Quindi tutti gli istituti che apparivano sparsi nella compilazione giustinianea, da questo momento vennero trattati in maniera sistematica. Cominciò a nascere il diritto per ogni singolo settore e si iniziò a parlare dell’avvento della codificazione e della nascita delle costituzioni. SITUAZIONE ITALIANA DOPO LA PACE DI UTRECHT Dopo la Pace di Utrecht del 1713, e durante tutto il 700, in Italia si definì un assetto politico istituzionale, relativamente stabile. Gli unici due casi anomali, erano la Sicilia e la Sardegna, perché con la Pace di Utrecht, in queste due zone, vi erano state delle situazioni particolari. In Sicilia, dopo essersi insediati i Savoia, questi abbandonarono nel giro di 5 anni l'isola, ottenendo in cambio la Sardegna, che venne unita al Piemonte e dall'unificazione di queste due regioni nacque un nuovo regno, cioè il Regno di Sardegna, sotto gli appartenenti di Casa Savoia. La Sicilia, rimasta senza guida, passò, per poco tempo, al dominio dell’Austria, ma mantenne l'originaria denominazione di Regno di Sicilia. Realizzando un quadro complessivo, vi era la presenza di stati di differenti dimensioni. Nella parte Nord-Occidentale della penisola italiana vi era il Regno di Sardegna, composto da Piemonte, Sardegna e per poco tempo Liguria) ; Nel territorio dell’attuale Lombardia, vi era il Ducato di Milano; Ad Oriente del Ducato di Milano vi era la Repubblica di Venezia, che occupava però buona parte del rimanente territorio; In Toscana vi era il Granducato di Toscana; AI Centro della Penisola vi era lo Stato Pontificio (comprendeva molte delle nostre attuali regioni dell’Italia centrale, quindi buona parte di Lazio, tutta l'Umbria, le Marche e Emilia, inglobando anche Bologna); A Sud vi erano tutte le altre regioni e i due regni, il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia; Questi singoli ordinamenti, erano caratterizzati dalla presenza di famiglie/dinastie importanti, comei Savoia nel Regno di Sardegna, i Borgone in Sicilia e a Napoli e i Lorena nel Granducato di Toscana. Nella storia complessa e travagliata di questi ordinamenti, difficile da ricostruire a livello politico e istituzionale, si possono individuare alcune linee costanti. Queste linee, segnarono la via di problematiche a livello giuridico, che rivestivano un ruolo centrale, come ad esempio la titolarità e l’esercizio del potere legislativo, chi deteneva il potere di fare la legge e chi ne fosse titolare. Secondo un'antica pratica si riteneva che ogni principe ritenesse legittimo il legiferare entro il proprio ordinamento, era vero che ognuno di questi principi potesse legiferare nel proprio regno (es. i Savoia che fecero le leggi nel regno di Sardegna), però esisteva il vecchio e obsoleto diritto comune, che continuò ad essere ancora utilizzato nei tribunali. Nel 700 incominciò a consolidarsi una fiducia nuova in capo al principe, che doveva avere una capacità particolare, quella di dare ordine a tutta la società, affidata al suo potere, che sarà definito “illuminato”. 47 quella dell’unicità del soggetto giuridico, cui appunto il codice, dal momento della sua prima creazione era destinato. L’unicità del soggetto giuridico fu un concetto che nacque come conseguenza della Rivoluzione Francese. (Unicità del soggetto giuridico= la legge è uguale per tutti, non avrà più distinzione degli individui delle varie classi. Tutti sono uguali davanti alla legge). In questo contesto, al centro di questa costruzione, secondo Muratori, vi era il principe, che aveva il ruolo di assicurare l’equilibrio della costruzione. Per assicurare questo l’equilibrio, doveva intervenire ogni volta che si presentasse un problema. Per ciascun settore vigevano delle norme completamente differenti. La capacità giuridica non era una capacita uniforme, esistevano limitazioni/negazioni, privilegi ed esenzioni, cioè, il ceto nobile era più privilegiato dell'ultimo individuo esistente sulla faccia della terra, ma esistendo privilegi ed esenzioni esistevano anche uomini liberi e schiavi. L'ordine imposto a questa normativa era razionale, un ordine naturale secondo Muratori, ma era tale nella misura in cui non si doveva mettere in discussione ne la suddivisione, ne l'articolazione della società per ceti. Non si doveva neanche discutere l’autorità del principe enemmeno il potere che aveva di governare lo Stato. Questi quindi erano i limiti dell’assolutismo del 700. Queste prime forme di legislazione non potevano essere considerate come Codici, ne tanto meno le varie classi esistenti come la borghesia e anche le classi più umili come i lavoratori della terra si riconobbero in questo insieme di norme non codificate. PRESUPPOSTI DELLA CODIFICAZIONE La codificazione del diritto si realizzò nella parte continentale dell'Europa, cioè nella parte Occidentale, tra la fine del 700 e inizi dell’800. Questo iter che portò alla codificazione, fu il frutto di un lunghissimo procedimento di elaborazione culturale, che prese piede e si sviluppò lungo tutto l’arco del XVIII secolo, ma in realtà aveva i suoi presupposti già a partire dal secolo precedente, cioè il 1600, secolo caratterizzato dal diffondersi della cultura umanistica (parlando dell’umanesimo giuridico abbiamo detto che il diritto comune comincia ad entrare in crisi). Prima di arrivare al completamento di questa evoluzione ci furono una serie di tentativi per mettere ordine nella dimensione giuridica, per cercare di venire fuori dal disordine dell’antico regime, caratterizzato dalla divisione della società in ceti, e società che poteva avere anche una struttura corporativa e di stampo feudale. Abbiamo detto che le norme diritto giustinianeo e le norme di diritto canonico avevano quel rilievo particolare perché gli era stato dato e con il passare del tempo continuato ad essere dato dai giuristi, grazie alla loro interpretazione. Quello che contava non era in se la lettera del testo normativo, ma era l’interpretazione che di quella norma dava il giurista, quindi, se si leggeva la norma, non era importante in se, ma era importante perché bisognava attenersi a quella particolare interpretazione, che costituiva dei punti certi e sicuri. Spesso e volentieri, su una norma, si creava una “communis opinio”, cioè un’opinione comune, che con il passare del tempo, sulla base dell’evolversi delle situazioni, delle condizioni e sull’estendersi dei vari sistemi interpretativi, si vennero a creare delle opinioni comuni, che provocarono un ulteriore aggravamento del disordine e incertezza, una confusione totale nel sistema di diritto comune. Per esempio: un giurista interpretava quella norma a modo suo, poteva essere anche la più esatta in assoluto delle interpretazioni, ma per il semplice fatto che su questa stessa norma era già stata creata una communis opinio, a prevalere era la communis opinio, perché in realtà, quella che prevaleva era sicuramente l’autorità del giurista di fama più elevata (es. Bartolo). Per delimitare questa confusione, si cercò di assegnare un valore specifico all'opinione di alcuni giuristi di fama, oppure, in alcuni casi, come per la Germania, si cercò di dare una maggiore autorità al supremo tribunale camerale dell'impero. Si cercò di aumentare questa autorità cercando di fissare dei principi che fossero vincolanti per i casi simili successivi. In realtà però, queste possibilità (communis opinio, oppure il ruolo di una certa importanza attribuito come nel caso della Germania al tribunale Camerale dell’im pero) rappresentarono 50 dei palliativi, in quanto l'oscurità e l'incertezza del diritto non furono completamente limitate, non riuscirono neanche ad essere messe da parte. Addirittura, in questo periodo si cominciò ad estendere la legislazione principesca. Il sistema quindi continuò ad essere attaccato oltre ogni limite, perché si mostrava sempre più incerto e oscuro. Se a tutto questo caos si aggiunge anche un ulteriore incremento della legislazione principesca che nello stesso tempo si impose come legge certa, alla fine si creò sempre più incertezza, che subì un peggioramento nel 700, quando a queste problematiche si unirono le contestazioni degli illuministi, che consideravano questo sistema irrazionale e ingiusto, privo di fondamento e si continuò a richiedere frequentemente che questo sistema venisse cambiato nella sua interezza, completamente soppiantato. | tentativi di miglioramento di questo sistema furono numerosi, però nella maggioranza dei casi non arrivarono ad una soluzione operativa. Un miglioramento avvenne con l'avvento della Codificazione dell’800, con cui si voltò pagina. Venne annientato completamente il diritto comune. Da quel momento in poi, venne intrapreso un nuovo cammino che portò alla codificazione. Nell'ambito del pensiero politico e giuridico, la figura di spicco in questo frangente storico era Jean Bodin, considerato uno dei massimi teologi della sovranità, che doveva essere interpretata tenendo conto del modello della Monarchia della Francia del suo tempo. Bodin nacque nel 1530 e morì a fine secolo. Per sovranità si intende qell potere assoluto e perpetuo, caratteristico dello stato. Bodin per spiegare il suo pensiero partì dallo stato di natura, inteso come una fase anteriore (alla costituzione) alla realizzazione delle relazioni sociali. Lo Stato quindi nasceva dopo una situazione di scontro, generalizzato, caratteristico dello stato di natura. Per tutelare gli individui e proteggere la proprietà si individuò un capo. Generalmente si sceglieva una persona ritenuta più forte e più violenta, in quanto solo una persona di questo genere poteva riuscire ad imporre la propria volontà. La scelta di questo individuo bastò a legittimare, in capo a questa persona il potere assoluto che doveva perpetuo. Questo capo doveva essere grado di fare delle leggi, aveva tutto il potere nelle sue mani, quindi doveva fare le leggi senza avere il consenso di nessuno. Nella realizzazione delle leggi che doveva fare, non doveva neanche tenere conto delle leggi fatte dai suoi predecessori. Per Bodin, le leggi realizzate da questo capo, che deteneva il potere assoluto e perpetuo, erano una cosa pubblica e comune a tutti, dipendevano dalla pura e semplice volontà del sovrano. Egli infatti come faceva le leggi le poteva anche abrogare. A differenza di una legge pattuita tra due persone, non poteva essere abrogata se non c’era il consenso di entrambe le parti, quindi non poteva essere abrogata in senso unilaterale, il sovrano, nella costruzione di Bodin, doveva essere /egibus solutus, cioè doveva poter liberamente derogare alle leggi, quindi poteva anche non rispettarle. Però non significava che il sovrano non fosse sottoposto a dei limiti. Bodin disse che il sovrano aveva dei limiti, però si trattava di limiti estremi, che erano i comandi posti da Dio, come ad esempio i dieci comandamenti, o le leggi fondamentali imposte da Dio. Quest'ultima definizione rappresenta un elemento di particolare interesse in quanto pone il principio dell’esistenza di regole, che esistono in un livello sovra ordinato, cioè sono regole riguardanti la stessa natura/struttura del regno, il suo assetto fondamentale, e sono inscindibilmente connesse con la corona. Erano regole fondamentali che sancivano l’intangibilità del territorio e arrivarono anche a regolare la successione al trono. Queste regole erano fondamentali secondo Bodin, ma non derivano da un contratto, perché all'origine dello Stato, secondo la costruzione di Bodin, non esisteva alcun contratto sociale. Di conseguenza se non vi era un contratto bisognava dire che anche se esistevano queste leggi fondamentali, non era previsto alcun diritto di resistenza da parte degli individui, non era prevista cioè la possibilità per gli individui per ribellarsi al sovrano, nel momento in cui questo con il suo comportamento con delle particolari leggi violasse il patto originario. Secondo Bodin quindi, non esisteva contratto sociale, ma esisteva un atto di sottomissione, cioè il potere veniva trasmesso a questa persona più forte e violenta con un atto di sottomissione. 51 THOMAS HOBBES Per Hobbes il diritto era solo la legge del Sovrano (il Sovrano come lo immaginò Hobbes era diverso dal Sovrano come lo pensò Bodin). C’era un problema teorico, quello di riuscire a giustificare questa diversità tra i due sovrani, che si affermò come conseguenza del rapporto sovrano-diritto, di conseguenza quindi rapporto stato-diritto. Anche Hobbes partì dal mito della natura, cioè dallo stato di natura, che era uno stato pre- politico. Per Hobbes in questo stato di natura i diritti di ognuno erano determinati dalla possibilità di usare la propria forza (forza individuale). Il diritto di natura, cioè lo "ius naturale”, comportava di usare il proprio potere nel modo più ampio possibile. Ciascun individuo aveva diritto a tutto e su tutto, compreso il corpo di un altro individuo, quindi un individuo poteva liberamente ucciderne un altro. Lo stato di natura quindi era uno stato di guerra che rendeva impossibile il poter parlare di sicurezza dell’individuo (la sopravvivenza). L’ individuo non era mai sicuro, era sempre in continuo stato di guerra con l’altro. Sulla base di un principio naturale l’uomo tendeva sempre a mantenere una certa sicurezza, se fosse possibile, e si passò dunque al sorgere di un stato civile, che permise di eliminare e sopprimere l’uso individuale che ciascun individuo poteva fare della forza. Lo Stato venne così istituito grazie a questo contratto, il singolo individuo o l'assemblea di uomini invitata dalla maggioranza, aveva il diritto di rappresentare l’intera collettività, anche coloro che si mostrarono, durante questa fase di scelta, contrari. Tutto ciò che veniva fatto dal Sovrano doveva essere considerata come azione fatta dalla comunità, e tutto ciò garantiva la pace e la protezione di ciascun individuo nei confronti degli altri. Questo procedimento generò una serie di diritti in capo al Sovrano: la po sibilità di prescrivere delle regole riguardanti l'esercizio della proprietà e la possibilità di emanare delle norme in vista del mantenimento della pace pubblica, che regolassero il comportamento di questi uomini in modo tale da mantenere la pace. AI sovrano competeva anche il diritto di giudicare, cioè lui aveva la possibilità di esaminare e di decidere tutte le controversie, che potevano riguardare questioni di diritto, sia di diritto naturale che di diritto civile, ma anche riguardanti questioni di fatto. Anche in questo caso, si deve dire che si ubbidiva alla legge, non per il contenuto della legge stessa, ma per la volontà di chi la emanava. Le legge quindi era l'ordine di quella specifica persona, in cui, per esempio, conteneva in se già il principio dell’obbedienza. La legge era quella posta in essere dallo Stato a cui i cittadini non potevano opporre resistenza, ad eccezione nel caso che non fosse promulgata in forma corretta o in una forma che gli impedisca di essere perfettamente conoscibile. Per quanto riguarda lo Stato, Hobbes affermò che la società umana fosse un prodotto artificiale, che traeva origini dai peggiori istinti dell’uomo. La società umana nasceva da una guerra tra gli uomini, e poi c'è questo patto sociale che crea lo Stato. Se l'origine dello Stato era quella di creare una guerra tra gli uomini il risultato era che lo Stato non poteva avere altra sembianza se non quella del mostro. E fu a questo proposito che Hobbes lo identificò con il Leviatano, cioè un mostro marino, mitologico. Lo Stato doveva avere le sembianze di un mostro, terribile, in grado di domare, di riuscire a pacare gli animi belligeranti di ogni singolo individuo. Il Sovrano di Hobbes aveva il vincolo delle clausole presenti all’interno del contratto sociale. Si trattava di una serie di limiti posti al potere del Re, che se venivano violati dal parte del Sovrano stesso, venivano negate le possibili garanzie nei confronti degli individui, allora il suddito aveva la possibilità di resistere al Sovrano, poteva ribellarsi (secondo il pensiero di Bodin non poteva accadere). Per spiegare i presupposti della codificazione, si possono citare alcuni tentativi iniziati già a partire dal 500 e perpetuati fino al 700 inoltrato. Si trattò di tentativi per mettere ordine a tutto il materiale giurisprudenziale e legislativo. Non fu possibile individuare una effettiva linea evolutiva in questo particolare momento. 52 Si partì col presupposto che l’esercizio del commercio non doveva essere conseguenza di una cooptazione in un ambiente corporativo, ma doveva essere inteso come un privilegio concesso dal Sovrano. Venne mantenuta salva però l’iscrizione come membro a quella particolare Corporazione. Si intervenne anche nel campo dei contratti commerciali, della banca rotta, della giurisdizione mercantile, ma anche nell’ambito dei contratti e per quanto riguardava la fase delle scritture contabili. Nel 1681 venne promulgata un’altra ordinanza, quella della Marina, facente parte di quello del disegno di Colbert, divisa in 5 libri, si proponeva di disciplinare i contratti marittimi, cioè i contratti utilizzati dagli operatori mercantili, che usavano la via marina per trasportare le merci. Questa ordinanza ebbe un successo tale che venne ricopiata nella sua interezza e riprodotta come secondo libro del Codice di Commercio francese del 1807. Ebbe una influenza talmente particolare, che si estese ben oltre i confini francesi. Addirittura venne tenuta da conto, quando si cominciò a preparare la stesura del Codice di Navigazione Italiano, del 1942. Queste ordinanze francesi possono essere considerate come dei codici? La risposta è negativa, in quanto è vero che rappresentavano un passaggio importante, nel tentativo di mettere ordine alle varie fonti normative vigenti, ma non si posero affatto come legge unica per regolare quella particolare materia. Si trattava di fonti concorrenti, che lasciavano, ancora una volta, aperta la via all’interpretazione dei giuristi. Regolamentarono quella particolare materia, ma in realtà lasciarono ancora in vigore il diritto comune. 06-11-2020 COMPILAZIONI LEGISLATIVE NELL’ITALIA DEL SETTECENTO La stagione delle riforme in Italia ebbe inizio con una raccolta normativa ufficiale, quella piemontese del 1728. Si trattava delle costituzioni di sua maestà il re di Sardegna. Una prima redazione venne effettuata nel 1728, una seconda redazione nel 1729. Si trattava di materiale normativo molto vasto suddiviso in sei libri, che avevano argomenti molto vari e spaziavano dal diritto penale al diritto civile, al diritto pubblico alla procedura. Formalmente si trattava di una legge che possiamo definire speciale, quindi non venne a mutare il rapporto tra il diritto particolare, cioè lo “ius proprium” e il diritto comune. Il sistema delle fonti, da sempre basato sulla contrapposizione tra le due sfere giuridiche tradizionali, cioè “ius commune” e “ius proprium” rimase in quel caso specifico intatto. Come vedremo meglio quando affronteremo il discorso sull’altro articolo relativo al divieto di citare le autorità dottrinali e ai giudici di motivare le sentenze, vediamo che con queste costituzioni all'operatore del diritto si impose di rinunciare ad uno strumento tradizionale, molto efficace dal punto di vista giurisprudenziale. Nello specifico, cominciò ad essere introdotto un nuovo tipo di trattazione, cioè la trattazione orale. Si cercò di tenere da conto l’importanza della disputa che doveva chiudere il procedimento, bisognava chiarire i vari punti trattati dalle parti in causa e bisognava metterli per iscritto. Abbiamo parlato quindi di questo tentativo di riforma, di questa prima redazione delle costituzioni del re di Sardegna. LA CONSOLIDAZIONE Vediamo adesso come possiamo identificare nominalmente questo tentativo di operazione di politica del diritto. Generalmente questo tipo di lavoro veniva chiamato “Consolidazione”, secondo la terminologia utilizzata dal professore Mario Viora. Si trattava cioè del frutto di un lavoro di selezione, ma anche di sintesi di un qualcosa che esisteva già, di una normativa già esistente. Gli elementi che contraddistinguevano questo genere di compilazione erano l'utilizzo di materiale normativo precedente e già esistente e la non esaustività per quanto riguarda la materia trattata, in quanto questo tipo di compilazione presupponeva innanzitutto ancora la vigenza del diritto comune, come diritto che doveva continuare ad essere applicato in via 55 suppletiva anche se generale. Comunque, l’utilizzo suppletivo del diritto comune continuava ancora a persistere. AI contrario, vediamo che i Codici si proposero invece sia per la sistematica che per i contenuti, che vennero nettamente innovativi ed esaustivi per quanto riguarda la materia trattata. Inoltre, vediamo che, a differenza dei Codici, le Costituzioni Sardo-Piemontesi mancarono di un presupposto fondamentale rispetto al Codice, cioè l’unificazione del soggetto di diritto. Queste Costituzioni, cioè sia la prima edizione del 17283 che la seconda edizione del 1729, vennero riformulate nel 1770 sotto Carlo Emanuele III, ma rimasero anche in questo caso, ben salde alla cultura giuridica e vennero considerate come un efficace tentativo di riforma, di razionalizzazione e allo stesso tempo di semplificazione del diritto, ma mantennero sempre le caratteristiche che abbiamo già considerato per le prime due edizioni. La Toscana Un altro caso interessante, avutosi nello stesso periodo, riguarda la Toscana dove nel 1745 Francesco di Lorena diede disposizioni affinché si procedesse ad una rifusione e ad un ricongiungimento generale di tutto il diritto toscano esistente attraverso la realizzazione di un qualcosa di molto simile a quanto era stato fatto dai Savoia, ma con un intento nuovo, quello di rafforzare il diritto locale particolare nei confronti, non solo del diritto comune, ma anche della dottrina del diritto comune. In questo caso specifico, l’incarico venne affidato ad un giurista e uomo di Stato, Pompeo Neri, che si propose di non andare ad intaccare completamente il diritto romano, ma soltanto di ritoccare le norme che avevano contribuito un po’ a modificarlo. Quindi predispose una compilazione di diritto patrio (nel senso di diritto locale, in quanto era composto da consuetudini, dagli statuti e dalla legislazione granducale) nel rispetto del sistema tradizionale delle fonti giuridiche. Il diritto patrio era anche il diritto degli operatori giuridici, del lavoro quotidiano svolto all’interno delle aule di giustizia, che andava, secondo l’obiettivo di Pompeo Neri, messo semplicemente in una posizione tale da renderlo certo. Però vediamo che il tentativo di Pompeo non ebbe alcun esito, quindi l’iniziativa fallì. ANALISI AREE GEOPOLITICHE Volendo completare l’analisi delle varie compilazioni che si erano affermate nel Settecento occorre procedere secondo un esame delle varie aree geo politiche, tenendo conto anche del movimento di idee, cioè l’Illuminismo, che in quel momento agitava la cultura europea. In area germanica e della Prussia, con precisione, questo territorio si presentava caratterizzato da una varietà di piccoli territori e principati, ognuno con la propria autonomia e ognuno che si mostrava, perlomeno nei confronti degli altri, particolarmente forte. La società era divisa in ceti o stati (nobili, cittadini, contadini), ognuno di questi ceti aveva le proprie prerogative e i propri organi rappresentativi. Durante il Settecento, re Federico Guglielmo | e re Federico Il portarono avanti una politica accentrata, che comportava la compressione, spesse volte in anche in maniera violenta, delle autonomie di questi territori e la riduzione delle conseguenze di ordine giuridico dovute all’appartenere ad uno stato/ceto anziché ad un altro. Nel 1731 fu nominato cancelliere il giurista Samuel Cocceius e gli venne affidata una sorta di riorganizzazione giudiziaria e la ricompilazione di tutte le leggi vigenti. Ma fu proprio Federico II, che poteva essere considerato come modello di dispotismo illuminato, a prospettare l’anno successivo, cioè nel 1746, un ripudio netto del diritto romano latino e si propose di approntare invece, su base prussiana, un diritto territoriale tedesco fondato sulla ragione naturale e sulle costituzioni del paese, riprendendo a questo proposito del riformismo legislativo, quindi la necessità di avere leggi chiare, ma anche il venir meno delle pratiche interpretative, la necessità di avere un corpo unitario di leggi e infine si andava diffondendo sempre di più una certa ostilità per il diritto romano. In Prussia, l’opera di riforma riguardò soprattutto il settore della procedura. 56 Nel 1747 fu promulgato un regolamento giudiziario per la Pomerania, regolamento che in seguito divenne il Regolamento giudiziario generale ripubblicato nel 1781. Questo regolamento si rivelò un successo soprattutto per quanto riguardava il campo processuale, rispetto a quella alla tradizione del processo romano-canonico, cioè il processo basato sulla struttura e sulle modalità del diritto romano-canonico. Si intervenne su temi dibattuti da parecchio tempo, si imponeva la trattazione orale e pubblica in sede processuale, ma anche la motivazione della sentenza. Gli sforzi di Cocceius si rivelarono, però, un fallimento sul terreno del diritto sostanziale, in quanto la sua opera fu scritta in modo poco chiaro e discorsivo, ebbe un impianto sicuramente di tipo romanistico e allo stesso tempo fu considerata come non tedesca e, in quanto tale, fu completamente rinnegata dal sovrano prussiano. Se andiamo a vedere la situazione austriaca, dal punto di vista politico-istituzionale anche il progetto degli Asburgo apparve molto simile ai vari progetti che ci erano stati in Prussia. Certamente, però, il contesto statuale, etnico e politico apparve completamente diverso e sicuramente molto meno omogeneo. Si auspicava, quindi, un processo di accentramento, che però doveva essere realizzato in un quadro amministrativo molto più complicato, ricco di parecchie specificità locali e in costante cambiamento. Intorno alla prima metà del Settecento, su iniziativa dell'imperatrice Maria Teresa, si cominciò a lavorare alla realizzazione di un corpo normativo di diritto privato per le “province ereditarie”, cioè il nucleo fondante della monarchia Asburgo, che comprendeva anche due città italiane, cioè Trieste e Gorizia. L’esito di questo progetto si ebbe nel 1766, quando fu promulgato il Codex theresianus, che si rivelò, dopo poco, un fallimento, in quanto la sistematica era ancora una volta quella di stampo romanistico e si divideva in tre libri, cioè il diritto delle persone, il diritto delle cose, i diritti reali e le obbligazioni. Quindi, nonostante avesse qualche pregio, in realtà questa compilazione non venne mai adottata. Le cose andarono, invece, in maniera diversa, per quanto riguarda il settore penalistico. Nel 1768 venne promulgata la Constitutio theresiana criminalis con cui si realizzò una sorta di rifusione del materiale normativo preesistente. Rimasero le distinzioni di “status”, che però continuarono ad avere particolare rilievo solo per quanto riguardava le modalità di applicazione delle pene, rimase il rigore sanzionatorio, ma anche la crudeltà delle pene sulla base delle leggi esistenti. Negli ultimi decenni del 1700, una significativa realizzazione si ebbe anche in Italia con il “Codice estense” del 1771, conosciuto anche come Codice di leggi e costituzioni per gli Stati di sua Altezza Serenissima, promulgato da Francesco Ill duca di Modena. Con questo codice, il duca di Modena Francesco III innovò nel settore processuale e in quello dell’interpretazione giuridica. Ritornando ancora una volta in Prussia, vediamo che nel 1781 venne promulgato il Regolamento giudiziario generale, che fu considerato il primo codice processuale iluministico, in quanto rifletteva a pieno la cultura illuministica. In nome dell’accentramento burocratico e dell’accrescimento del potere del sovrano, questo regolamento si pose un duplice obiettivo, cioè il superamento in tutte le sue fasi del processo di diritto comune romano e la lotta contro le giurisdizioni che i vari diritti particolari riservavano sulla base dell’appartenenza ad un singolo ceto. Il giudice, rispetto al passato, assunse maggiori poteri nei confronti delle parti ed era fortemente vincolato dalla legge esistente. Si introdusse per la prima volta la motivazione della sentenza. Nel 1794 venne promulgato l’ALR, cioè un diritto territoriale comune per gli Stati, che, in una struttura federale, costituiva nel suo insieme il regno di Prussia. L’ALR risultava costituito da un’introduzione e da due parti, la prima di diritto civile, la seconda di diritto civile, ma relativamente a materie particolari, che prima della codificazione ottocentesca erano considerate collegate all’organizzazione politica dello Stato (quali il diritto di famiglia, le successioni). Nella seconda parte, trovavano collocazione anche materie riguardanti il diritto 57 Dopo la discussione in Consiglio di Stato e l'eventuale nuovo testo così come ne veniva fuori con le piccole o anche più grandi modifiche predisposte dal consiglio, il progetto non fu presentato al tribunato nella sua interezza, ma fu suddiviso in tante parti man mano che il lavoro procedeva. Le diverse parti furono approvate ciascuna singolarmente come se si trattasse di una legge asé e poi alla fine furono fuse e andarono a costituire il Codice civile, che prese il nome di Codice civile dei francesi, approvato con la legge 21 marzo del 1804, che riuniva le 36 leggi anteriori emanate a partire dal marzo del 18083 fino al marzo del 1804. Nonostante che venne approvato a pezzetti, mediante anche leggi successive, il testo del codice apparve come un testo coordinato e compatto allo stesso tempo. Con la legge di promulgazione del codice, si stabilì l'abrogazione di tutto l’antico diritto nelle materie trattate dal codice, quindi le consuetudini, le ordinanze e soprattutto il diritto romano cessarono di avere qualsiasi vigenza, anche solo suppletiva. Quindi dal 21 marzo 1804 il diritto comune cessò di esistere, non si parlò più di diritto comune e non fu un diritto che poteva più essere applicato. Il Codice civile dei francesi fu, a livello europeo, il primo a fare tabula rasa delle tradizionali fonti del diritto, il tutto a favore della legge dello Stato ed impose in modo completo e univoco l’unificazione del soggetto di diritto. Il codice nacque come codice civile dei francesi, ma subito dopo l’incoronazione imperiale di Napoleone prese il nome di Code Napoléon. Il codice civile era suddiviso in tre libri, preceduti da un titolo preliminare, Della pubblicazione, degli effetti e dell’applicazione delle leggi in generale, costituito da soli sei articoli, però di particolare importanza, ritenuti fondamentali e per questo collocati come premessa al codice civile. Questo titolo trascende il codice, si riferisce solo ed esclusivamente alla legge generale. Ecco quindi che venne posto all’inizio del codice civile perché questo codice doveva essere il codice civile per eccellenza, non solo il codice per eccellenza rispetto a tutti gli altri codici, ma il codice civile rispetto a tutti gli altri codici riguardanti la stessa materia. La suddivisione in tre libri risentiva dell’ideologia liberale del momento. Nel primo libro erano trattati i diritti delle persone e della famiglia; nel secondo quelli dell’individuo sulla proprietà e le cose e nel terzo le regole riguardanti l'appropriazione delle cose e della proprietà. Il primo libro del codice, cioè quello riguardante i diritti delle persone e della famiglia, risultava suddiviso in 11 titoli, conteneva le norme di Stato civile, quindi gli appositi registri di nascita, di morte, di matrimonio, che, come abbiamo accennato per quanto riguardava la legislazione fatta nel “diritto intermedio”, essendo sancito dal codice, da questo momento fu tenuto dall'autorità pubblica con l’introduzione del matrimonio civile e la persistenza della prevalenza del marito sulla moglie, anche se questa venne ritenuta meno ampia rispetto al periodo precedente, cioè al periodo di Ancien régime. Fu sancito anche il divorzio con tutte le sue caratteristiche, quindi la filiazione, l'adozione, la patria potestà ecc. Punti salienti del Codice Il matrimonio venne confermato nella sua qualità di contratto di diritto civile, ma allo stesso tempo come un contratto solenne, che richiedeva particolari requisiti di forma. Il matrimonio religioso, se celebrato, eventualmente, poteva seguire solo quello civile. Quindi, prima in ogni caso si doveva sempre fare il matrimonio in forma civile. L’età per prestare il proprio consenso a questo contratto e potersi sposare fu aumentata a 15 anni per le donne e 18 anni per gli uomini, il tutto anche se la maggiore età, come si affermava nel codice, si raggiungeva a 21 anni e il consenso parentale era necessario a 21 e 25 anni. In caso di contrasto tra i genitori, a prevalere era sempre il parere del padre. Quindi si fissarono due età, rispettivamente per la donna e per l’uomo, per contrarre il matrimonio, però in realtà c’era sempre bisogno del consenso parentale fino a 21 anni per la donna e fino a 25 anni per l’uomo. Si registrò un prepotente ritorno al concetto o istituto di “patria potestà”. 60 Relativamente ai rapporti in ambito familiare, si stabilì la funzione preminente del marito, si sosteneva infatti che la società familiare non poteva reggersi se uno dei due coniugi non era gerarchicamente sottoposto all’altro e a questo proposito basta citare l’art. 213 del codice, in cui si stabiliva che il marito doveva protezione alla moglie, ma la moglie allo stesso tempo doveva obbedienza al marito; la donna sposata doveva avere per domicilio lo stesso domicilio del marito e aveva bisogno del consenso del marito per stare in giudizio, per poter acquistare o alienare beni; aveva l'obbligo di adempiere ai doveri coniugali e in caso contrario il marito aveva la possibilità di ricorrere alla forza pubblica. La donna era, inoltre, considerata incapace nella gestione del cosiddetto patrimonio familiare. Quindi la gestione del patrimonio era affidata esclusivamente al marito. Per quanto riguarda il divorzio, questo era ritenuto, anche se se ne era già parlato precedentemente nel periodo del diritto intermedio, un punto qualificante del nuovo diritto civile francese. Con il codice, il divorzio venne ammesso in maniera meno ampia rispetto a quanto trattato nelle leggi precedenti, ma soprattutto in maniera meno ampia di quanto fu discusso nei vari progetti di codice precedenti. Per poter divorziare in questo momento non era più sufficiente la sola incompatibilità di carattere, né tantomeno poteva essere presentata la scusa della pazzia. Il divorzio continuò ad essere ammesso per consenso comune e con la prova che la vita comune fosse diventata insopportabile e questo doveva essere ammesso anche con un riscontro testimoniale, cioè era necessario avere dei testimoni che affermassero questo. Tra le cause di divorzio, c'erano gli eccessi, le sevizie e le ingiurie, ma causa di divorzio era anche l’adulterio della donna. L’adulterio del marito, invece, diventava causa di divorzio solo ed esclusivamente nel caso in cui comportasse pubblico scandalo e questo avveniva in particolare quando il marito portava la concubina nella casa coniugale. Per quanto riguarda la filiazione, i figli maschi vennero equiparati alle figlie femmine; i diritti vennero concessi anche ai figli naturali che, seppure avessero dei diritti alimentari e patrimoniali, erano esclusi dalla vita familiare e si ottenne il riconoscimento volontario della filiazione in tutti i casi, tranne in caso di incesto e di adulterio. La ricerca della paternità era espressamente vietata dal codice, ma era ammessa quella della maternità. Il codice dava ancora una volta la possibilità di scegliere il regime dotale, secondo una disciplina che si rifaceva specificatamente al diritto romano. Secondo la tradizione romana, infatti, i beni dotali, anche secondo il Codice civile francese, erano sottoposti all’amministrazione del solo marito, mentre i cosiddetti beni parafernali, beni che erano di proprietà della moglie, ma non entravano a far parte della dote, con il correttivo dell’autorizzazione maritale per la vendita o eventualmente per una comparazione in giudizio, venivano sottoposti all'amministrazione ed erano oggetto di godimento solo da parte della donna. Quindi c’era una distinzione netta tra beni dotali e beni parafernali. Il secondo libro del codice era diviso in quattro titoli; venne comunemente citato come libro della proprietà e dei beni. La conquista rivoluzionaria della possibilità di acquisire la proprietà di quasi tutti i beni trovò in questo libro del codice il suo punto di forza e questo venne dimostrato dal fatto che qualcuno sostenne che il Codice civile francese, per questo motivo, poteva essere considerato il codice della proprietà borghese. Quindi, ritornando al discorso sulla proprietà, possiamo dire che l’assolutezza, la pienezza e l'esclusività della proprietà ne costituirono il simbolo e resero il “Codice Napoleone” il prototipo dei codici ottocenteschi. L'art. 544 recita che /a proprietà è il diritto di godere e di disporre delle cose nella maniera più assoluta purché non se ne faccia un uso vietato dalle leggi oppure dai regolamenti. Quindi il diritto di godere della proprietà (cose che sono proprie) corrisponde ad un istituto tipico della tradizione romanistica e medievale, cioè l’usufructus (diritto di godere delle cose proprie); il diritto di disporre era inteso in questo caso specifico sulla base di quello che veniva sancito nell’art. 537, che stabilisce che i privati hanno la libera disponibilità dei beni che gli appartengono con le modificazioni stabilite dalla legge. Quindi l’usufrutto, secondo l’antica tradizione romanistica, non è altro che l’esercizio della libertà di disporre di un bene secondo quanto sancito dall’art. 537. 61 Il terzo libro del codice risultava costituito da 20 titoli e riguardava tutte le molteplici differenti maniere tramite le quali si poteva acquistare la proprietà. All’interno di questo libro confluiva anche la materia successoria, come la materia delle obbligazioni e la materia contrattuale. Per quanto riguarda il tema delle successioni, oltre all’equiparazione dei figli maschi e femmine, si ebbe il rifiuto del fedecommesso e di ogni privilegio a favore di qualche figlio, il riconoscimento di quote abbastanza consistenti di legittima. Significativi furono anche i casi di ammissione della volontà testamentaria e soprattutto la validità del testamento olografo accanto a quello pubblico. Quindi possiamo dire che nel terzo libro del codice francese trovarono posto tutte le norme e tutti gli istituti che regolavano, sempre nel rispetto dell'autonomia privata, l'appropriazione individuale dei beni, la loro eventuale circolazione e il loro sfruttamento a vantaggio del singolo cittadino. | principi generali che stavano alla base del codice possono essere sintetizzati in tre punti salienti 1. Lalibertà e l'autonomia individuale; 2. Il diritto di ogni cittadino di poter disporre dei beni necessari a soddisfare le sue necessità; 8. L'aspettativa di poter disporre ed eventualmente di realizzare quest’aspettativa nella misura più ampia possibile, quindi un’aspettativa di disporre e realizzare nella misura più ampia possibile la propria volontà. Tutto questo comportava una piena libertà da parte dell’individuo; Considerato nella sua interezza, il codice Napoleone risultava composto da 2281 articoli, che riconoscevano l’autonomia del singolo cittadino, ma allo stesso tempo affermavano, per la prima volta in modo quasi onnicomprensivo per il settore riguardante il diritto privato, la statualità del diritto. Il sistema di diritto comune venne cancellato definitivamente e con esso venne cancellata ogni forma di particolarismo sia locale che personale, quindi particolarismo come conseguenza dell’appartenenza ad un particolare ceto oppure ad una particolare famiglia, ma anche ad una particolare città o corporazione. Di fronte alla tanto discussa complessità ed eterogeneità dell’epoca del diritto comune, il codice da questo momento avrebbe dovuto rappresentare per il cittadino la garanzia di poter conoscere con semplicità ogni singola regola a cui ispirare il proprio operato. C'erano delle differenze, anche per quanto riguardava il piano della struttura e della forma. Il codice rappresentava sicuramente qualcosa di profondamente nuovo; era costituito da espressioni precise e sintetiche, generali ed astratte allo stesso tempo, che erano coordinate tutte tra di loro in un unico complesso organico. Quindi il codice rappresentava qualcosa di veramente nuovo, un taglio netto nei confronti del passato, della legislazione principesca, che spesso e volentieri, andando avanti, si impose con la spesso discordante interpretazione dei giuristi di diritto comune. L’uniformità e l'omogeneità del sistema rappresentavano una vera e propria garanzia per ogni cittadino ed esprimevano un principio fondamentale, quello dell'uguaglianza civile, ma allo stesso tempo vedeva realizzarsi un nuovo diritto positivo, voluto dal legislatore statuale e valido solo ed esclusivamente entro i confini di quello stato. Quindi venne superato completamente il particolarismo giuridico, ma fu sostituito allo stesso tempo da un nuovo di tipo di particolarismo, quello statuale. Iniziò in questo modo una nuova fase del diritto, che vedeva affermarsi il Positivismo Giuridico e la vigenza in ogni singolo Stato di un ordinamento giuridico a sé, cioè ogni Stato doveva avere il proprio diritto. Da tutto questo ne derivò un cambiamento radicale del ruolo del giurista e del giudice. Eliminato il diritto comune, il giurista non poteva più essere interpellato per interpretare la legge, quindi il giurista da semplice ricostruttore ed espositore della norma contenuta nel sistema di diritto comune, per poterla poi riferire al singolo caso concreto, abbandonò questo ruolo e si trasformò in semplice delegato, in quanto applicò al caso concreto la 62 diritto successorio, uno sulla libertà commerciale ecc...tutti editti promulgati negli anni 80 del 700 (fine del 700). Nel 1782, entrò in vigore il Regolamento Giudiziario Civile, che conferiva alle varie province austriache una procedura civile uniforme. Nel 1787, con il perseguire dei lavori in campo civilistico, avvenne la realizzazione di un primo codice, chiamato Codice Giuseppino, che venne promulgato nei vari territori dell'Impero, compresa la Galizia, però non era un codice completo, si trattava del solo primo libro, che parlava delle persone, della cittadinanza, del matrimonio, della patria potestà, della filiazione ed altri istituti. Fu solo il primo libro ad essere realizzato, che doveva costituire una piccola parte di tutto un complesso normativo, di un intero codice. Il fatto più significativo, era dato dal fatto che l’incarico per la realizzazione di un progetto, venne dato al giurista Martini, cui Leopoldo Il (nuovo Imperatore), diede l’incarico, nel 1790, per la realizzazione di un nuovo codice. Leopoldo Il, non era altro che Pietro Leopoldo di Toscana, che era successo al fratello Giuseppe nel trono imperiale. Il progetto del giurista Martini, può essere considerato come un corpo normativo, che riguardava solo il diritto privato, infatti venne escluso a priori lo studio del diritto commerciale. A questo corpo normativo, spettava il merito di essere riuscito, almeno per il primo momento, ad unificare, anche se non completamente, il soggetto di diritto. Quindi si incominciò anche in Austria, a parlare di unificazione del soggetto giuridico, ma non era un’unificazione completa. Testo del progetto del Martini: Aveva un andamento didattico filosofico, non aveva le caratteristiche positive che un codice doveva avere. Addirittura si ammise l’etero-integrazione, che comportò al mantenimento in vita del tanto criticato diritto comune, quindi per integrarsi, il codice, cercava qualcosa che era all’esterno. In conclusione: anche questo progetto, in realtà si mostrò come un vero e proprio insuccesso. Un nuovo momento di revisione, prese piede quando la Francia stava lavorando alla stesura del suo Codice Civile. Una nuova commissione, iniziò i lavori nel 1801 e li terminò nel 1806. Il progetto, durante questo iter, venne respinto più volte dal Governo, subendo una serie di revisioni, fino a quando l'Imperatore Francesco I ne dispose la promulgazione, che avvenne il 1 giugno 1811. Il testo però, entrò in vigore il 1 gennaio 1812. Era suddiviso in 3 parti, secondo lo schema tradizionale: il diritto delle persone, il diritto sulle cose (comprensivo di successioni, obbligazioni e del risarcimento del danno), le disposizioni comuni (diritti di persone e cose). Confrontato con il Codice Civile Francese, il Codice Austriaco, se guardato nei dettagli mostrava una certa propensione verso le categorie generali e astratte. Era un codice breve, in quanto si dava la possibilità al giudice e al giurista, di trarre, da queste norme di principio, disposizioni dettagliate. Per quanto riguarda il suo contenuto, l’ABGB riorganizzò e mise in ordine una vasta serie di fonti, a partire dal diritto romano, dal diritto canonico e anche i singoli diritti territoriali e pronunciai austriaci. Esaminando il contenuto, il diritto di famiglia all’interno dell’ABGB, non ebbe un’impronta tipica della famiglia così come questa famiglia venne trattata nel Codice Francese (Cod Civil). La moglie non era sottoposta all’autorizzazione maritale e poteva disporre liberamente dei beni parafernali. Il Codice, presentava anche delle caratteristiche riguardanti la moderazione, anche una duttilità, un adeguamento alla realtà sociale del grande Stato austriaco, che si presentava multinazionale, multilingue e multireligioso. 65 Una costituzione complessa di questo Stato, che spingeva, in un certo senso, anche verso la tolleranza, verso un approccio più malleabile nei confronti dei problemi che potevano nascere tra i soggetti, ma soprattutto nei problemi che potevano nascere nel rapporto tra Stato e sudditi. L’ABGB, ebbe un ruolo fondamentale anche per l’Italia, infatti dopo il 1816, cominciò ad essere applicato nei territori del Lombardo-Veneto, dove rimase in vigore fino a tutta l’età risorgimentale, precisamente rimase in vigore in Lombardia fino alla seconda guerra di indipendenza del 1859, in Veneto e nel Friuli fino al 1866 (anno della terza guerra d’indipendenza). Nonostante fosse stato, nel suo complesso, giudicato positivamente, e nonostante sia rimasto in vigore per un tot di tempo anche in territorio italiano, ’ABGB, non era un modello per la normativa civilistica italiana, sia pre che post unitaria (in realtà poi, la dottrina venne divisa, e alcune persone affermarono che alcune cose erano state prese dal codice austriaco), anche se per alcuni esponenti della dottrina non era vero. IL COSTITUZIONALISMO Attualmente, nella società contemporanea, appare come cosa certa che l'ordinamento giuridico di uno Stato sia retto da una Costituzione. Cos'è una Costituzione? È un documento solenne, in forma scritta, che è in grado di imporsi su tutte le altre fonti del diritto, al punto da poter essere considerata Legge Fondamentale dello Stato. Si tratta di un’acquisizione recente, perché fu solo a partire della seconda metà del XVIII secolo (seconda metà 1700), che gli ordinamenti statali cominciarono a dotarsi di testi costituzionali e soprattutto di testi costituzionali scritti. Cosa vuol dire il termine Costituzione? Deriva dal latino Constitutio, dal verbo constituere, cioè istituire e fondare. Nel diritto romano, con il termine Constitutio, si designavano i procedimenti legislativi presi dall’Imperatore. Nel Medioevo e nella successiva età moderna, il termine Constitutio, e tutti itermini corrispettivi che equivalgono alla nostra traduzione italiana di Costituzione, divennero sinonimi di legge. A partire dal XII secolo fino al XVIII, cioè in quell'età conosciuta come età di Diritto Comune, le costituzioni non furono altro che provvedimenti legislativi emanati dal sovrano o dai pontefici. A questo proposito, si possono ricordare le costituzioni del Re di Sardegna, emanate nel 1728 da Vittorio Amedeo II, ma vanno ricordate anche le Costituzioni Modenesi del 1771. Accanto al significato del termine Costituzione, dal XVII e XVIII secolo, ne emerse un'altro: Costituzione = “legge fondamentale dello Stato”, cioè quel complesso di norme su cui si fonda l'ordinamento giuridico dello Stato. A partire dalla Rivoluzione Americana e dalla Rivoluzione Francese, del XVIII secolo, il termine Costituzione diventò sempre più sinonimo di —> Costituzione Liberale, quindi quando si parla di Costituzione in questo frangente storico, bisogna intendere la Costituzione Liberale. Apparve emblematico l’art.16 della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino —> dichiarazione dei diritti francese promulgata il 26 agosto del 1789. Articolo 16 —> “Ogni società nella quale la garanzia dei dirittinon è assicurata, e non è determinata la separazione dei poteri, non ha una Costituzione”, quindi si può dedurre che una Costituzione o è liberale o non è Costituzione. Va specificato che i termini “costituzione” e “costituzionalismo” non devono essere identificati. Con il termine Costituzione —> si definiscono, durante l’età moderna, le norme fondamentali dello Stato. 66 Con il termine Costituzionalismo —> si intende il movimento che si è imposto per cercare di realizzare dei documenti costituzionali, improntato su principi liberali o liberal- democratici. LE 13 COLONIE INGLESI DEL NORD AMERICA Si erano costituite in maniera differente tra di loro sulla costa Atlantica, sulla base di una carta coloniale, che fu concessa, a mo di privilegio, da parte del Re d’Inghilterra. Verso la fine del XVIII secolo, queste 13 Colonie, avevano un ordinamento molto simile, che consentiva loro di godere di autonomia. A capo avevano un governatore di nomina regia, che si avvaleva, nella su attività di Governo, della collaborazione di un consiglio locale. Vi era anche un’assemblea di rappresentanti di coloni, liberamente eletta da loro, che aveva anche il potere legislativo, quindi di norme, che però non potevano andare contro i provvedimenti presi dal Parlamento inglese e che dovevano essere approvati dal Re. Era un’autonomia legislativa un po’ vincolata. | coloni, potevano disporre, a livello locale, di una rappresentatività, che mancava totalmente nei confronti del Parlamento inglese, in quanto i coloni, in sede parlamentare, non erano rappresentati. Le colonie americane pagavano i tributi richiesti senza però avere a loro favore, il fatto di poter mandare i loro rappresentanti nel Parlamento di Londra. Il malcontento da parte dei coloni, aumentò tantissimo con l'approvazione dello Stamp Act del 1765, con cui il Parlamento di Londra introdusse delle marche da bollo. Lo Stamp Act, consisteva nell’im posizione di un tributo, senza aver avuto l’approvazione dei contribuenti, quindi una violazione del principio: “No Taxation Whitout Rapresentation”, cioè nessuna tassa senza avere una rappresentanza. Questo provvedimento, era stato emanato dal Parlamento Inglese, dove non erano presenti i rappresentanti delle colonie americane. Prese piede immediatamente un movimento di protesta che portò alla convocazione, a New York, di un'assemblea, che prese il nome di: Stamp Act Congress, che come primo obiettivo si poneva la proclamazione dell’illegittimità dei tributi non approvati dagli abitanti delle colonie. Nonostante l’abrogazione dello Stamp Act, avvenuta nel 1766, la tensione rimase alta, a causa di provvedimenti presi dalle autorità inglesi, che comportarono l'imposizione di dazi doganali e altri tributi alle popolazioni delle colonie. Il conflitto si inasprì ulteriormente con i tumulti di Boston del 1770 e del 1773. In un suo tentativo di mantenere calma la situazione, re Giorgio III emanò nel 1774 alcuni provvedimenti restrittivi sulla libertà delle colonie. In tutta risposta, le colonie americane convocarono a Philadelphia un congresso, cioè il primo congresso continentale (settembre 1774). In questo congresso si dichiararono illegittime, in quanto incostituzionali, le leggi ritenute intollerabili. L’anno successivo, iniziò la guerra tra la Madre Patria Inglese e le Colonie Americane. L’evoluzione degli avvenimenti, favorì l'affermazione della tesi indipendentista, cioè si i a pensare ad una forma di indipendenza da parte di queste colonie. Il secondo congresso continentale si insediò a Philadelphia nel maggio del 1775. In questo congresso si invitarono formalmente le 13 colonie americane a dotarsi, ognuna, di un proprio testo costituzionale. Tra le varie carte costituzionali emanate dai vari Stati in questo contesto, assunsero un notevole rilievo la dichiarazione dei diritti della Virginia del giugno 1776; questa dichiarazione dei diritti fu redatta a Williamsburg dal corpo rappresentativo, che si riunì in piena e libera convenzione. La dichiarazione dei diritti, così com’è stata formulata, può essere considerata la più importante tra le prime dichiarazioni dei diritti. iziò Il principio più importante e più significativo fu quello sancito nell'articolo 1 della Virginia— > “Tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti e possiedono certi diritti innati dei quali, all’atto di costituirsi in società, non possono per contratto privare se stessi né la loro propria posterità (cioè non se ne possono privare perché realizzando una 67 che si limitavano a disciplinare le varie competenze e il funzionamento dei vari organi dello Stato, non addentrandosi nei rapporti economici dei cittadini. Dopo il preambolo iniziale, la Carta Costituzionale americana del 1787, prevedeva una Repubblica presidenziale, che aveva alla base la concezione della divisione dei poteri, ispirata al principio di Montesquieu. Il potere legislativo era affidato ad un organo bicamerale, il Congresso, che era composto da: Camera dei Rappresentanti, eletta ogni 2 anni dai cittadini degli Stati americani, in proporzione al numero della loro popolazione; Senato, che rappresentava in modo paritario i vari Stati Membri, questo sistema paritario veniva dato dall’elezione di 2 senatori per stato, a prescindere dall’entità della popolazione di questi stati e aveva un mandato di 6 anni. Il Senato però, veniva rinnovato per 1/3 ogni 2 anni; Presidente della Repubblica, cui spettava il potere esecutivo, veniva eletto dal popolo americano ogni 4 anni, con un sistema di elezione indiretta tramite Grandi Elettori e si avvaleva della collaborazione di un vicepresidente. Il Presidente, disponeva del Potere di Veto Sospensivo: si applicava nei confronti delle leggi approvate dal Congresso; una volta che il Presidente dava il suo veto, questo poteva essere superato solo da una successiva approvazione delle 2 camere di quella legge, però con una maggioranza dei 2/3. | Ministri non erano responsabili nei confronti del Parlamento, perché si imponevano come fiduciari del Presidente. Vi era un rigido principio della separazione dei poteri, e incompatibilità tra l'appartenenza al Congresso e l’esercizio di funzioni esecutive. Esisteva un’unica forma di responsabilità prevista per il potere esecutiva, derivante dalla Procedura di Impeachment, di derivazione inglese. Questa procedura, si basava su 2 fasi della messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica, deliberata dalla Camera dei Rappresentanti, ma il giudizio doveva essere emesso dal Senato. Il potere giudiziario, era affidato a giudici elettivi, il tutto sempre sul modello inglese, era un potere del tutto indipendente dagli altri due poteri e a tutela dell'ordinamento costituzionale, vigeva una Corte Suprema, composta di nove membri vitalizi, nominati dal Presidente degli Usa, però dopo aver ottenuto il consenso del Senato. In questo testo costituzionale degli Stati Uniti d'America del 1787, non era prevista una dichiarazione dei diritti e per colmare questo deficit, questa lacuna, solo quattro anni dopo nel 1791, si approvarono i primi 10 emendamenti, che costituivano e potevano essere paragonati ad una piccola dichiarazione dei diritti. Tra questi emendamenti, il primo emendamento stabiliva l'assoluta laicità dello Stato e il riconoscimento di una certa libertà religiosa. Complessivamente, questa Costituzione degli USA, per quanto piccola, si rivelò, con il passare degli anni, sempre più vitale, al punto che continua ad essere in vigore, anche se con ulteriori emendamenti, dopo più di due secoli di vita. Ha alcune particolari novità: il testo scritto, una completa divisione dei poteri, la scelta di una soluzione federalista, la previsione nel testo costituzionale di una revisione del testo e l’esistenza di una Corte Suprema, chiamata a dirigere ogni eventuale contrasto di natura costituzionale. IN EUROPA Gli avvenimenti americani, si rivelarono di grande effetto e si imposero sulla cultura giuridica europea del tempo. La dottrina si suddivise in gruppi e non mancavano coloro che auspicavano che l'esempio degli USA, potesse essere seguito anche in Europa. Altri addirittura, sostenevano che l'esperimento poteva ritenersi riuscito, ma solo per gli USA, non poteva applicarsi, questo tentativo di Costituzione, al territorio Europeo. Territorio europeo in cui non esisteva una diffusissima proprietà privata, un’Europa dove erano ancora presenti numerose istituzioni feudali, quindi si trattava di una realtà molto diversa da quella americana. LA FRANCIA 70 In questo momento viveva una grave crisi finanziaria e per questa, si impose al sovrano la convocazione degli Stati Generali, che erano l'organo rappresentativo dei 3 ordini del Regno di Francia, cioè: * Il Clero * La Nobiltà * Il terzo Stato Si trattava di un organo che veniva convocato dal sovrano, sulla base dei tradizionali obblighi di natura feudale del Consilium e dell’Auxilium (consiglio e aiuto), ma venivano convocati senza alcuna periodicità prestabilita, venivano convocati ogni volta che ve ne fosse il bisogno. Ciò avveniva ogni volta che il sovrano si trovava nella necessità di ascoltare i rappresentanti si questi 3 stati, i rappresentanti della Nazione, e di verificare il loro consenso all’imposizione di tributi straordinari o di altre misure di rilievo, una sorta di consenso aperto da dare al sovrano. Il Re si ritrovò in questa particolare necessità di convocare gli Stati Generali, nei primi giorni di maggio del 1789; Stati Generali che però era da molto che non venivano convocati, l’ultima volta nel 1614, e il sovrano in quel momento li convocò con la speranza di riuscire a superare, ottenendo il loro appoggio, la situazione finanziaria che si manifestava complicata. Per la preparazione di questo evento, si procedette alla stesura dei Quaderni delle Lamentele, cioè quaderni compilati con rimostranze da presentare al Re, che precedentemente venivano scritti dalle parrocchie, ma successivamente anche dalle circoscrizioni superiori, si trattava di una documentazione cospicua (consistente), dalla quale emergeva però un notevole senso di insoddisfazione, su temi che riguardavano al vita dello Stato, come per esempio: l’amministrazione della giustizia, le sopraffazioni dei signori feudali e dei vari funzionari inviati dal re, ma anche una eccessiva pressione fiscale, il mantenimento in vita di un privilegio insostenibile, cioè la mancanza di libertà e soprattutto la mancanza di un testo costituzionale scritto, che continuava ad essere richiesto dalla popolazione. La situazione, si rivelò critica: sin dall’inizio della convocazione dei 8 Stati, nell’89, un punto fondamentale fu’ quello della votazione per ordini. Le votazioni avvenivano così: ogni Stato, riunito a parte, votava riguardo un particolare argomento, con voto finale di ciascuno Stato, per cui i primi 2 potevano imporsi sul terzo. Questo era il “Sistema per Ordine” (ognuno votava per conto suo). A questo modo di votare, si contrappose il “Voto per Testa”, cioè si contavano tutti i voti dati da ciascun convenuto, anche se ciascuno Stato si riuniva parte. Questa soluzione del Voto per Testa, era la soluzione già accettata e preferita dal terzo Stato, appunto perché era lo Stato più numeroso, quindi se ognuno votava, automaticamente la somma di tutti i voti risultava più numerosa di quelli degli altri 2, quindi su una decisione da prendere avrebbe vinto il terzo Stato. Questo metodo per Testa, non era ben visto dagli altri 2 stati, che cercarono di ostacolarlo in ogni modo. Dopo qualche mese di discussioni, il terso Stato rafforzato ulteriormente nella sua posizione anche da un piccolo gruppo di esponenti del clero, il 17 giugno, si proclamò assemblea nazionale, e tre giorni dopo, tutti i componenti dell'assemblea si impegnarono a rimanere uniti sino al momento in cui non sarebbero riusciti a realizzare un testo costituzionale per la Francia. Fecero il Giuramento della Palla Corda, perché realizzato fuori dal Palazzo Reale, in una stanza adibita a palestra in cui si giocava a questo gioco. Nei giorni seguenti, il re, cercò di riprendere in mano la situazione, ma non ci riuscì, anzi, dovette riconoscere l’esistenza di quest’assemblea nazionale, che dal 9 luglio assunse la designazione di Costituente. Mentre la corte francese stava preparando un’azione militare, il popolo parigino insorse —> 14 luglio —> Presa della Bastiglia —> il popolo parigino insorse, riuscendo a salvare l'assemblea nazionale costituente, annientando in modo definitivo l’Ancien Regim e di conseguenza annientò l’assolutismo monarchico. | primi di agosto, l'assemblea pose fine al regime feudale e al sistema del privilegio. A partire dei primi giorni di luglio del 1789, l'Assemblea Nazionale diede vita ad un comitato composto da 30 membri, che aveva l’incarico di preparare il testo della nuova Costituzione, ma il 14 luglio, dopo gli eventi della Bastiglia, si decise di far precedere questo testo costituzionale, da una dichiarazione dei diritti, per la cui realizzazione il generale Lafaiettes presentò una sua proposta di testo. 71 Non tutti si mostrarono favorevoli a questa impostazione, in quanto vi era chi non voleva affatto una dichiarazione dei diritti, chi la voleva, ma non voleva che la dichiarazione venire collocata prima degli articoli della Costituzione, altri ancora accettavano una nuova dichiarazione dei diritti, ma affermavano che andavano affiancati con quella dei doveri. Dopo una lunga discussione, l'assemblea decise, all'unanimità, per la realizzazione di una dichiarazione, che doveva essere collocata prima del testo costituzionale e per la realizzazione di questa dichiarazione, diede l’incarico ad un'apposita commissione. Per una possibile dichiarazione dei diritti, vennero presentati moltissimi progetti, qualcuno accettabile rispetto ad altri. La discussione venne portata per le lunghe e fu’ molto animata. In definitiva: iltesto venne approvato il 26 agosto 1789. Il testo era nato da un collage fra tutte le possibili proposte presentate in precedenza, che non ne favorì una completa omogeneità dal punto di vista espositivo della dichiarazione dei diritti. Il preambolo risultava molto solenne e molto pomposo. A questo preambolo, fecero seguito 17 articoli, che enunciavano prima i diritti naturali dell’uomo, alla cui realizzazione e conservazione doveva rivolgersi ogni singola associazione politica, poi venivano trattati i punti fondamentali, che dovevano essere rispettati dalle associazioni politiche per realizzare i propri scopi. Articolo 1 della dichiarazione dei diritti: di ispirazione Reossouniana, in cui si affermano i principi di libertà e uguaglianza. Articolo 2: il fine dell'ordinamento è la conservazione di questi diritti naturali, che sono imprescrittibili, in quanto sono interventi all’uomo in quanto tale e sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la possibilità di resistere all’oppressione. Questa stretta connessione tra il principio di libertà, proprietà e sicurezza, mostra con chiarezza la caratteristica borghese di questa dichiarazione, sia per quanto riguarda la sua collocazione storica, sia per quanto riguarda i suoi limiti. Buona parte della storiografia sottolineò il fatto che questa dichiarazione, era una dichiarazione negativa, astratta e garantista, contro un possibile ritorno al vecchio regime e di conseguenza al regime dei privilegi. Era anche negativa, astratta e garantista contro i sommovimenti sociali, a favore di chi si trovava nella situazione di godere della libertà, di avere la proprietà e che pretendeva una certa sicurezza e difesa. Per pretendere tutti questi diritti fondamentali, si doveva arrivare ad affermare il diritto di resistenza contro l’oppressore. 10/11/2020 LA DICHIARAZIONE DEI DIRITTI La Dichiarazione dei Diritti francese fu stata definita negativa, astratta e anche garantista. Andando avanti e passando ad esaminare gli altri articoli, vediamo che l’art. 3 parlava della sovranità nazionale, che stava solo nella nazione, la quale era una e indivisibile. Quindi la sovranità non apparteneva al re, così come si affermava durate l’Antico Regime, ma non apparteneva neanche ad ogni singolo componente della popolazione o ogni singolo abitante della Francia, in questo caso, ma apparteneva alla nazione in generale, che doveva essere considerata come un soggetto distinto da ogni singolo cittadino, che la componeva. | cittadini, quindi, facevano parte della nazione, che era l’unica ad essere titolare della sovranità. Secondo una concezione diffusasi in Europa verso la fine del XVIII secolo, la nazione risultava costituita da tutti coloro che avevano qualcosa in comune, cioè un destino politico per una lunga tradizione di vita associata. Questo destino politico che li accomunava era caratterizzata dalla presenza di alcuni fattori. Innanzitutto, la stessa lingua; il fatto che questi individui abitavano lo stesso territorio e vivevano nello stesso posto, avevano la stessa religione e appartenevano alla stessa razza e non fossero di razze diverse, ma anche il fatto che avevano consuetudini sociali e consuetudini a livello giuridico che fossero le stesse. La nazione, secondo questa concezione, comprendeva di conseguenza la parte più consapevole di un popolo, cioè quella parte di popolo che era destinata a vivere in maniera unitaria, quindi accomunata da questi principi che erano alla base. 72 ha ispirato il testo costituzionale del 1791 fu senz'altro il principio di una rigida separazione di poteri e questo ci viene testimoniato dal fatto che esisteva un’incompatibilità, ad esempio, con le funzioni di ministro con quelle di deputato. Era completamente assente l’istituto della fiducia parlamentare e mancava anche il divieto per il re di sciogliere l'assemblea, quindi il re non avrebbe mai potuto sciogliere l'assemblea legislativa. Va ricordato che esisteva un istituto particolare, cioè il “référé législatif”, con il quale si impediva alla Corte di Cassazione di pronunciarsi in via definitiva a quelle che erano le norme controverse. Nel caso in cui esistesse un conflitto con il giudice di merito, c’era la possibilità di rivolgersi ad una sola fonte, cioè il legislatore. Quindi il potere legislativo, attraverso l'emanazione di una legge che potrebbe essere definita “interpretativa”, in caso dubbio diventa l’unica fonte che poteva fissare un’interpretazione autentica, che sarebbe stata vincolante “erga omnes”. Nel momento in cui ci fosse un dubbio, bisognava rivolgersi al potere legislativo, che sarebbe stato in grado di emanare una norma interpretativa che permetteva di chiarire in caso dubbio e serviva a riuscire a sciogliere il nodo della controversia. La Costituzione del 1791 ha avuto una vita molto breve; durò pochissimo perché si accentuarono fortemente i contrasti tra il sovrano e l'assemblea, soprattutto nel momento in cui si venne a sapere che il sovrano aveva delle relazioni segrete con le potenze straniere. In parole povere, il sovrano si era messo d’accordo con le nazioni straniere, che avevano dichiarato guerra alla Francia, quindi era passato dalla parte del nemico. Tutto questo provocò un colpo di Stato che fu effettuato il 10 agosto del 1792. Il re Luigi XVI venne deposto e, già a partire dal mese successivo, tutti i cittadini di sesso maschile senza alcuna distinzione di censo furono chiamati ad eleggere una nuova assemblea, cioè la “Convenzione nazionale”, che il 22 settembre del 1792 proclamò la Repubblica. Proclamata la Repubblica, certamente bisognava attuare una riforma della Carta costituzionale, però vediamo che a prima vista una riforma della Carta costituzionale sembrava impossibile soprattutto come primo motivo per il procedimento complicato che serviva per riformarla (il sistema di revisione previsto). Il nuovo clima politico che si era venuto a creare, essendo passati da una monarchia ad una repubblica, contribuì a suggerire l'adozione di una nuova Carta costituzionale, che però in questo particolare momento storico doveva necessariamente riflettere quello che era l'orientamento prevalente, cioè un orientamento democratico e allo stesso tempo radicale. La Convenzione, in questo arco di tempo, mantenne l’impegno di governare, anche se temporaneamente e con dei particolari limiti, la Francia grazie ai pieni poteri ottenuti per poter andare avanti e cominciò ad adoperarsi per redigere la nuova Carta costituzionale. La Convenzione preparò un nuovo progetto di Costituzione, ma un nuovo colpo di Stato, avvenuto nel mese di maggio del 1798, fece subito accantonare questo progetto. Un nuovo testo fu approvato dalla Convenzione nel giugno del 1793 e subito dopo approvato dal popolo mediante l’istituto del referendum. Quindi non solo fu approvato dalla Convenzione, ma poi fu sottoposto all'approvazione del popolo mediante l’istituto del referendum. Questa nuova Costituzione, promulgata nel giugno del 1793, risultava più piccolina rispetto a quella precedente. Era composta da 124 articoli, preceduta da una nuova Dichiarazione dei diritti, questa volta un po’ più lunga e composta da 85 articoli (quella del 1789 era composta da 17 articoli). Questo nuovo testo costituzionale riprendeva in parte il progetto precedente, che era stato accantonato, però lo semplificava e in un certo senso si può parlare di attenuazione del cosiddetto principio della separazione dei poteri. Si manifestò una certa forma di subordinazione del potere esecutivo al corpo legislativo. La sovranità nazionale venne sostituita dalla sovranità popolare. Parlando di sovranità popolare, non dobbiamo far altro che ammettere il fatto che ogni singolo cittadino era detentore di una piccola porzione della sovranità. Quindi, mentre prima era la nazione ad avere la sovranità, adesso era la popolazione la sovranità popolare; ogni singolo componente della popolazione francese aveva la sua “fettina” di sovranità. Di conseguenza, sulla base di questi principi, si cominciò a parlare di “suffragio universale”. Le libertà vennero precisate in maniera più dettagliata; alle garanzie di tipo liberale se ne aggiunsero altre che possiamo definire di tipo sociale, quali ad esempio il diritto all'assistenza sociale e il diritto all'istruzione. Venne inoltre riconosciuto anche il diritto di resistenza all’oppressione. Bisognava resistere all’oppressione e allo stesso tempo si poteva parlare di dovere all’insurrezione. Quando il governo violava i diritti del popolo, allora 75 l'insurrezione diventava per il popolo il più sacro dei diritti e allo stesso tempo il dovere più indispensabile, quindi era un diritto e un dovere sacrosanto ribellarsi al governo che violava dei diritti. Il principio della separazione dei poteri, già presente nella Costituzione del 1791, scomparve del tutto in questo nuovo testo costituzionale. Non si parlò più di “principio della separazione dei poteri”, ma si cominciò a parlare di “limiti delle funzioni pubbliche”. Quindi, in un certo senso esistevano dei limiti nell’ambito di ciascun potere. Il potere legislativo e monocamerale era eletto a suffragio universale maschile con un mandato molto breve, infatti il mandato durava un anno. Quindi, ogni anno si sarebbe andati a votare. II potere legislativo era chiamato a svolgere un ruolo che possiamo definire centralissimo all’interno dell’ordinamento costituzionale. Esisteva un nuovo sistema, cioè quello del “silenzio assenso” ed esisteva anche il cosiddetto istituto del “veto popolare”. Quindi, il popolo esercitava, mediante questi due sistemi o istituti, un controllo su quella che era la funzione legislativa. Silenzio assenso —> se mi sto zitto, vuol dire che mi sta bene. Veto popolare —> non mi va bene, impongo il veto e blocco tutto. Le funzioni in mano al potere esecutivo apparivano fortemente limitate; la magistratura manteneva il suo carattere elettivo, così come nel precedente testo, in tutte le sue varie articolazioni, quindi dal giudice di grado più basso fino alle categorie più alte. Questa Costituzione del 1798 non entrò mai in vigore perché si venne a creare una particolare situazione di emergenza, provocata dalla guerra contro alcune potenze europee, che indusse la Convenzione a decretare nell'ottobre del 1793 in questo modo: il governo sarebbe stato rivoluzionario fino alla pace, quindi bisognava rinviare l’entrata in vigore della nuova Carta costituzionale alla fine della guerra. La pace, però, in realtà non arrivò subito. La Convenzione finì così con l’esercitare il governo al di fuori di ogni norma costituzionale; una volta venne influenzata da alcuni specifici gruppi, altre volte da altri e il governo in questo modo, essendo un po’ sballato fra i vari gruppi, in questo frangente poteva essere considerato come preda di possibili soluzioni rivoluzionarie. Spesse volte, l'operato del Governo, si rivelava in contraddizione con i principi garantistici sanciti nella dichiarazione dei diritti. Questo fu’ il periodo che passò con l'appellativo di “Periodo del Terrore”. In questo periodo ci furono esecuzioni sommarie, fu spesso e volentieri usata la ghigliottina e vi fu un continuo sospetto dei rivoluzionari nei confronti di tutti coloro che potevano essere oppositori, convinti che questi oppositori fossero complici del nemico in guerra e quindi contrari ai principi rivoluzionari. Una nuova fase della storia, ma soprattutto della storia costituzionale francese, successiva al Colpo di Stato del 1794, venne caratterizzata da un clima politico più moderato e un chiaro ritorno alle concezioni liberali, si fanno quindi passi indietro. La Costituzione del 1793, che appunto non entrò in vigore, venne abbandonata del tutto, perché si riteneva troppo legata alla cultura democratico-radicale. La Convenzione venne epurata di tutti gli elementi additati come elementi del regima passato, cioè venne fatto un repulisti; la Convenzione, ripulita di questi elementi approvò, nell’Agosto del 1795, un nuovo testo costituzionale: si trattava di una Costituzione rigida e molto lunga, composta da 377 articoli e preceduta da una dichiarazione dei diritti e dei doveri, composta da 81 articoli. Questa nuova dichiarazione, riprese l'impostazione generale della prima dichiarazione per eccellenza, cioè quella del 1789, ma eliminò qualsiasi riferimento al diritto naturale e al diritto di resistenza. Si evitò di conferire una perpetuità all’idea della naturalità e alla durata di questi diritti. La separazione dei poteri, tornò ad essere il principio ispiratore di tutto l'ordinamento costituzionale e questo principio venne interpretato in modo restrittivo, al punto tale da firmare una serie di incompatibilità e di limitazioni. Il potere legislativo, diventò questa volta, un potere bicamerale: una prima camera, composta dal consiglio dei 500, che proponeva le leggi, la seconda camera, composta dal 76 Consiglio degli Anziani, che potevano o sanzionarle o respingerle nella loro interezza, senza però poter apportare alcun emendamento. Entrambi questi Consigli, venivano eletti a Suffragio Censitario e avevano un mandato della durata di 3 anni. L’esecutivo, appariva staccato dal potere legislativo, risultava composto da un direttorio, costituito da 5 membri, che decadevano a votazione, quindi ogni anno veniva sostituito un suo componente e quello nuovo veniva scelto da una lista predisposta dal Consiglio dei 500. La lista da cui si doveva attingere, veniva quindi predisposta dal Consiglio dei 500, però la scelta era effettuata dal Consiglio degli Anziani. Il direttorio, una volta costituito, per poter governare, si avvaleva della collaborazione di un certo numero di Ministri, il numero variava da un minimo di 6 a massimo 8. Il potere giudiziario, era costituito da una Magistratura elettiva. Si comincia a parlare di Magistratura Elettiva perché poteva essere considerata come conseguenza della sfiducia dell'ambiente rivoluzionario, in particolare verso i giudici togati, che operarono in un clima differente, e si conferma il ruolo subordinato della magistratura rispetto agli altri due poteri. La Costituzione del 1795, e i mutamenti avvenuti durante il periodo del Direttorio, ebbero un’influenza o rilievo particolare in Italia, in quanto le Repubbliche se si erano formate in Italia, con l'avvento dell’armata Napoleonica, dal 1796 al 1799, guardarono a questa Costituzione come ad un modello possibile da poter seguire e utilizzare. Periodo in cui in Italia nacquero le cosiddette Repubbliche Sorelle (la Cispadana, la Cisalpina, la Repubblica Partenopea ecc...). Nel 1799, vi fu un nuovo Colpo di Stato, a Novembre: Napoleone Bonaparte, prese il potere e assunse la qualità di Primo Console. Subito dalla sua presa di potere, venne nominata una commissione ristretta, ispirata da Seyès, e controllata direttamente dall’occhio di Napoleone. Questa commissione aveva l’incarico di redigere una nuova Carta Costituzionale. Secondo l’idea di Seyès, questa Carta doveva essere colta e oscura; oscura nel senso che non doveva essere compresa dagli altri, quindi, la Costituzione, doveva essere colta e oscura perché favoriva nel non disturbo dell’azione di Governo. Si arrivò così ad un nuovo Testo Costituzionale, composto da 95 articoli, priva di qualsiasi dichiarazione dei diritti. Questa Costituzione, entrò in vigore a Natale del 1799, ma venne sottoposta ad una successiva approvazione degli elettori, quindi del Corpo Elettorale a Suffragio Universale, ma questa volta venne usata una nuova tecnica di voto: il voto palese, quindi molta gente poteva votare contro il Testo Costituzionale, voluto da Napoleone. Questa Costituzione, venne presentata da un breve Proclama, che la presentò al popolo francese e poteva essere considerato importante soprattutto nella sua seconda parte, in cui si rassicurò il popolo dicendo che sarebbero stati rispettati i veri principi del Governo rappresentativo, che sarebbero stati stati tutelati i diritti sacri della proprietà, il diritto dell'uguaglianza, della libertà, ma poi si diede un colpo di coda: prima si esaltarono questi diritti che dovevano essere rispettati, ma alla fine la seconda parte si concluse in maniera brusca, perché i cittadini dovevano prendere atto che la rivoluzione era fissata sui principi per cui era iniziata; questi principi vennero realizzati, quindi automaticamente la rivoluzione finiva, non si poteva più parlare di rivoluzione e non si poteva più andare oltre. La rivoluzione, da quel momento in poi, poteva essere considerata come un capitolo chiuso. Questa nuova Carta Costituzionale era incentrata su un potere esecutivo molto forte, che era nelle mani di 3 consoli: Il primo console, era lo stesso Napoleone e aveva un potere decisionale effettivo, era da lui che partivano le scelte da farsi entro le Liste di Fiducia. Dall’esecutivo partiva anche l’iniziativa legislativa. | progetti di legge, venivano predisposti dal Consiglio di Stato, per conto del potere esecutivo, venivano inviati alle due assemblee legislative, cioè il Tribunato e il Corpo Legislativo. Una volta presentata una proposta di legge, il Tribunato aveva il compito di discutere i progetti, ma la legge non veniva mai approvata lì. Una volta effettuata la discussione, i progetti di legge, passavano al Corpo Legislativo, che, sentiti i delegati del Tribunato e del TT 13-11-2020 LA SITUAZIONE ITALIANA A partire dal 1847, l’ambiente italiano, era in continuo fermento, perché l’Italia, in quel momento storico, viveva una situazione critica, contrassegnata da una serie di tumulti che ostacolarono il quieto vivere della penisola italiana. L'ambiente liberale era in pieno fermento e questa situazione caotica aveva indotto alcuni Principi della penisola a fare delle concessioni ai sudditi, riguardanti temi particolari come la censura, si arrivò addirittura a concedere soluzioni simili alle Libertà di Stampa odierne. Una libertà che era richiesta e sentita dagli intellettuali liberali del tempo. LA RIVOLUZIONE SICILIANA DEL 1848 Il 12 di Gennaio 1848, a Palermo, il nuovo anno si presentò agitato, infatti scoppiò un moto popolare per rivendicare l'autonomia dell’isola e allo stesso tempo per ripristinare la Costituzione del 1812. Tutto ciò creò un periodo di scompenso anche nel Regno di Napoli e nella stessa capitale (Napoli); Napoli in cui il Re Ferdinando Il si convinse che per riuscire a superare questo problema, bisognasse promettere qualcosa, ma questo qualcosa doveva essere una Costituzione, in quanto tutti aspiravano ad avere un Testo Costituzionale. 11 29 Gennaio del 1848, Ferdinando II, promise la Costituzione. Tutta queste sommosse in Italia, non fecero altro che far preoccupare lo stesso Re di Sardegna, Carlo Alberto, che diversamente da come operò Ferdinando Il, non intese concedere una Carta Costituzionale, sia lui che i suoi Ministri erano fortemente ancorati alla loro posizione iniziale, quindi la Monarchia era assoluta, non si poteva parlare di una concessione di una Carta Costituzionale. Il loro atteggiamento però, cominciò a cambiare subito a fine mese, quando Ferdinando Il promise la Carta Costituzionale per il Regno di Napoli; e già ai primi di Febbraio, la concessione di una eventuale Carta Costituzionale sembrava, per il Re di Sardegna, qualcosa di inevitabile, questo perché nel frattempo anche a Firenze, il Granduca di Toscana promise ai suoi sudditi la concessione di una Carta Costituzionale, lo promise solennemente già l'11 Febbraio 1848. Ecco che il Re di Sardegna cambiò opinione e, sempre nel Febbraio del ’48, promise una Carta Costituzionale, lo fece con il Proclama di Moncalieri dell’8 Febbraio 1848. Il testo della Costituzione Napoletana, venne emanato il 10 febbraio ’48, quello del Granducato di Toscana il 17 Febbraio ’48 e lo Statuto Albertino venne promulgato il 4 Marzo ’48. Questi tre Testi Costituzionali, avevano una caratteristica comune: erano Carte Octroyees (Carta Costituzionale concessa). Erano tutte Carte Costituzionali dello stesso tipo, concesse dal sovrano e tutte collegate alla Carta Costituzionale Francese, concessa dalla Monarchia francese nel 1830. Anche nello Stato Pontificio venne concessa, il 14 Marzo, una Carta Costituzionale da Papa Pio IX e alla fine del mese un’altra Carta Costituzionale venne concessa nel Ducato di Parma. Erano tutte carte concesse dalle autorità (Papa, Granduca ecc...). Ci furono però due Carte Costituzionali che non somigliavano a quelle già viste, infatti lo Statuto fondamentale del Regno di Sicilia del 10 Luglio 1848, non era una Costituzione concessa dal sovrano, ma era una Carta Costituzionale approvata da una assemblea, in netta contrapposizione dalla Carta concessa nel Regno di Napoli da Ferdinando Il. Della stessa fattispecie era la Costituzione della Repubblica Romana, promulgata il 3 Luglio 1842. LO STATUTO ALBERTINO Lo Statuto Albertino, prese anche il nome di “Carta fondamentale dello Stato Sabaudo”, venne promulgata il 4 Marzo 1848. Si poneva su un piano diverso rispetto a tutti gli altri 80 provvedimenti che la precedettero e segnò un mutamento di indirizzo della politica di Carlo Alberto di Savoia. *Passo indietro: Bisogna dire che le riforme che erano state fatte da Carlo Alberto, a partire dal 1847, non modificarono il regime assolutistico della Monarchia Sabauda, si rivelarono lontane da una soluzione di tipo rappresentativo verso la quale Carlo Alberto si espresse in modo negativo già da Gennaio, quando si cominciò a profilare l’idea di una concessione di una Carta Costituzionale. In realtà, la scelta operata da Carlo Alberto non si pose come il compimento delle riforme già attuate a partire dall'anno precedente, ma era quasi costretto ad operare in questo modo da parte dell’opinione pubblica, in quanto la concessione della Costituzione non rappresentava altro che l’unico possibile rimedio per evitare il peggioramento della situazione, che era già critica nei vari Stati che componevano il territorio italiano; era già stata concessa a Napoli, Pio |X aveva la prospettiva della concessione di una Costituzione, vi erano anche una serie di tumulti a Genova che fecero si che si diffondesse l’idea che questa ribellione potesse passare solo nel momento in cui i sudditi si vedevano riconosciuta una Costituzione.* Davanti a questa situazione, Re Carlo Alberto di Savoia, pensò in un primo momento di abdicare pur di non rinunciare al suo potere assoluto che, a partire dagli anni 20 dell’800, si impegnò a mantenere con un solenne giuramento che sottoscrisse a Parigi nel 1823. Però, il Ministro degli interni, nonché suo fedelissimo consulente, Giacinto Borrelli, riuscì a fargli cambiare idea, in quanto gli disse che l’unica soluzione per salvare la Monarchia era quella di introdurre un sistema rappresentativo, quindi che scegliere il sistema rappresentativo sarebbe stato il male minore rispetto a quanto poteva accadere se i moti sarebbero continuati. Venne così preparata, velocemente, una dichiarazione di principi che dovevano essere posti alla base della carta Costituzionale e sarebbero stati presentati al popolo mendicante un Proclama, quello di Moncalieri dell’8 Febbraio 1848, che si presentò alla popolazione quasi come un tono paternalistico. Nel concedere questa Carta Costituzionale, Carlo Alberto rispolverò un vecchio termine medioevale, cioè non parlò ne di Carta Costituzionale ne di Costituzione, il termine era quello di Statuto. Egli concedette questa Carta Costituzionale perché costretto dai fatti, questo lo dimostrò dal fatto che non parlò di cittadini in questa Carta, ma continuò a parlare di sudditi, come se si trattasse di una Monarchia assoluta e invitò i suoi sudditi a fidarsi di questo atto di benevolenza del Re. Per quanto riguarda la redazione di questa Carta Costituzionale, si decise di tenere sott’occhio e di “copiare” la Carta Costituzionale francese del 1814, ma nella sua versione rivista e ricorretta del 1830, che a sua volta era stata ripresa anche per il Belgio nel 1831. Si scelse questa Carta nello specifico, perché era quella che apparve più adatta e in grado di conciliare le istituzioni rappresentative con le impostazioni conservatrici della Monarchia Sabauda; impostazioni conservatrici a cui Carlo Alberto non volle rinunciare. Nonostante ciò, lo Statuto presentò alcuni elementi di originalità, che riflettevano a pieno le tradizioni di Casa Savoia e le impostazioni caratteristiche dello Stato Sabaudo. [Per fare un esempio: la religiosità di Carlo Alberto e la forte influenza che la Monarchia Sabauda aveva da sempre subito da parte della chiesa cattolica, ma anche per dare una sorta di continuità con le istituzioni passate, si decise nella stesura della Carta Costituzionale di mettere all’art.1 che la religione cattolica apostolica romana fosse la sola religione dello Stato; gli altri culti erano tollerati, ma in conformità delle leggi. Questa affermazione, poteva trovare qualche analogia con l’art. 6 della Costituzione del 1814, ma non trovava alcun riscontro nella Carta Costituzionale del 1830, che non attribuì alcun privilegio al culto cattolico, che per la Carta Costituzionale del 1830 non aveva una posizione di preminenza.] Lo Statuto Albertino, risultava costituito da 84 articoli e si trattava di una Costituzione concessa ai sudditi da parte del Re, che allo stesso tempo si impegnava a conservare 81 perpetua ed irrevocabile, in quanto era lui da solo in grado di provvedere al mantenimento e alla irrevocabilità di questa costituzione. In questo contesto si rivelò chiaro come non fosse possibile un meccanismo di Revisione Costituzionale. La dottrina parlò dello Statuto Albertino come di una Costituzione flessibile, quindi introdotta cona legge ordinaria e modificabile semplicemente con un’altra legge ordinaria. Nel complesso, la forma esterna dello Statuto restò sempre la medesima nel corso degli anni, nella Carta venne apportata soltanto la modifica dell’art.77, che riguardava la bandiera. In realtà, lo Statuto, subì giorno dopo giorno, una serie di modifiche che non riguardarono la Carta scritta, ma la prassi, quindi si affermarono comportamenti diversi da ciò che era scritto nella Carta Costituzionale. Nello Statuto Albertino mancava una dichiarazione dei diritti, una mancanza dovuta al fatto che lo Statuto era solamente una carta concessa. Per quanto riguarda il riconoscimento dei diritti dei sudditi, erano diritti non sanciti da una dichiarazione, ma erano diritti che venivano concessi dal sovrano. Il sovrano si autolimitava e quindi concedeva parte dei suoi diritti ai sudditi. Contrariamente a quanto avvenuto nelle altre Carte Costituzionale, nello specifico quella francese (modello dello Statuto A.), questi diritti non erano molto approfonditi nella Carta Costituzionale, gli si dedicò poco spazio, 9 articoli, dal 24 al 32. Pochi articoli se paragonati a tutti gli articoli riguardanti la figura del sovrano, cioè dal 1 al 28. Nella Carta Costituzionale non si parlava di cittadini, questo termine comparse una sola volta nell’intitolazione. Articoli riguardanti i diritti dei sudditi: - L'articolo 24, prevedeva l’eguaglianza di tutti gli individui di fronte alla legge e prevedeva il godimento dei diritti civili e politici. - L'articolo 25, richiamava una serie di doveri dei sudditi, quasi a voler ribadire che per loro non esisteva alcun riconoscimento di diritto innato, i diritti che avevano li avevano perché il sovrano si era autolimitato e glieli concesse. - L'articolo 26, si occupava della libertà individuale. - L'articolo 27, si occupava dell’inviolabilità del domicilio. - L'articolo 28, della libertà di stampa, ma con una restrizione, si parlava di libertà di stampa, ma per quanto riguardava la pubblicazione dei libri a contenuto religioso, prima che un libro poteva essere pubblicato doveva passare sotto il controllo ecclesiastico. - L'articolo 29, si occupava del diritto di proprietà. - L'articolo 32, si occupava del diritto di riunione, con delle limitazioni, si parlava sì di diritto di potersi riunire, però se ne escludeva la riunione nei luoghi pubblici, nei luoghi aperti al pubblico e il diritto di riunione non poteva essere associato al diritto di associazione. La sovranità, secondo lo Statuto Albertino non apparteneva alla Nazione, ma apparteneva al Re, che da sovrano quale era, si limitava e si trasformò in Principe Costituzionale, quindi il tutto avvenne sulla base di un’autoriduzione delle prerogative e diritti del sovrano. Solo successivamente, il 21 Aprile 1861, si cominciò a parlare, grazie a questa legge, di Re per la volontà della Nazione, oltre che per grazia di Dio, quindi il concetto di Nazione entrò a condizionare la sovranità. Il Testo Statutario però, non parlò mai di sovranità della Nazione, cosa che invece avvenne in Francia a partire dalla prima Costituzione del 1791 e nella Costituzione del 1830, su cui Filippo d’Orleans aveva giurato prima di salire al trono. Per quanto riguardava l’ordinamento dello Stato, lo Statuto configurò un sistema costituzionale puro, fondato su una distinzione di poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario. Questi 3 poteri erano esercitati rispettivamente da 3 organi diversi: - Il potere esecutivo era esercitato dal sovrano. - Il potere legislativo era esercitato dal Parlamento. - Il potere giudiziario era esercitato dai giudici. 82 spese erano minime, quindi non essendoci nemmeno un rimborso spese, questo costituiva come una sorta di censo elettorale, cioè si poteva essere eletti solo se si aveva la possibilità economica di muoversi liberamente. Le sedute delle Camere erano pubbliche e le deliberazioni prese al loro i terno risultavano valide solo se prese con la maggioranza assoluta dei membri. Il procedimento di formazione di una legge: lo Statuto prescrisse che il progetto di legge doveva essere discusso articolo per articolo e doveva essere fatto all’interno di apposite giunte (come commissioni nominate) da ciascuna Camera e solo dopo l’approvazione di uno dei due rami, il progetto poteva passare all’altra Camera; una volta passato all’altra Camera passava al Re che lo sanzionava. Tra i vari modi di votazione, il più rapido era quello per Alzata e Seduta, un altro modo di votazione era quello per Divisione e anche per Scrutinio Segreto, nel senso che si creavano due settori: i pro e i contro. I progetti di legge potevano essere presentati anche dal Re, dai Ministri o dai parlamentari e per diventare legge dovevano essere approvati nello stesso identico testo, da entrambe le Camere, senza rispettare un ordine di precedenza, fatta eccezione per le leggi tributarie e di bilancio, che dovevano necessariamente essere approvate prima dalla Camera dei Deputati. La volontà del Re, entrava quindi anche a far parte del procedimento di formazione della legge, dato che questa poteva unirsi al Parlamento. Una volta che il sovrano si fosse assicurato del corretto procedimento di formazione e del passaggio definitivo del progetto in ambe le Camere, promulgava la legge, quindi le due Camere e il Re, rispecchiavano i "tre poteri legislativi”. La dottrina ci parla di tre poteri legislativi tra virgolette perché bastava che uno di essi soltanto fosse contrario che per quella sessione il progetto non poteva più essere riprodotto, ma bisognava aspettare la sessione successiva per ripresentarlo ed eventualmente modificarlo. L'articolo 5 dello Statuto Albertino, affermava che il potere esecutivo apparteneva solo al Re; i Ministri erano considerati solo suoi collaboratori. Lo Statuto non parlava e non si occupava della figura del Presidente del Consiglio. *Il Presidente del Consiglio è una figura che si affermò con il passare degli anni soprattutto nei Governi a partire da Cavour in poi e si affermerà nella prassi, ma l’art.5 dello Statuto non venne modificato.* Come stabilito nell’art.4, la figura del Re era sacra ed inviolabile, quindi qualcuno doveva pur rispondere per gli atti fatti dal sovrano; ecco allora che subentra la “responsabilità dei Ministri”, che erano responsabili, quindi ogni atto doveva essere controfirmato dal Ministro responsabile. Lo Statuto non stabilì però quali fossero i tipi di responsabilità, da un lato si presupponeva che si trattasse di responsabilità politica verso le Camere, ma non tutti erano d’accordo; sicuramente era una responsabilità giuridica per ogni singolo contenuto di ogni provvedimento, una responsabilità che doveva essere valutata per via giurisdizionale ordinaria. I Ministri erano nominati e revocati dal Re, potevano essere anche parlamentari, era il Re a decidere. Avevano accesso al Parlamento per ogni problema ritenuto di loro competenza. Ogni Ministro agiva nel presupposto della fiducia regia; quando questa fiducia mancava, il Re poteva sostituire i suoi Ministri. La funzione giurisdizionale: lo Statuto vi dedicava una brevissima sezione, e in essa si può notare uno sforzo di conciliare le impostazioni del costituzionalismo europeo con le tendenze conservatrici della Monarchia Sabauda. Lo Statuto accoglieva il principio della inamovibilità dei giudici ai sensi dell’articolo 69, ma lo limitava notevolmente stabilendo che i giudici non potevano essere trasferiti, ma di questo dovevano essere esclusi i giudici inferiori. Quelli superiori, potevano essere spostati 85 da una sede all’altra dopo 3 anni di esercizio della processione, però soprattutto per quanto riguardava l’inamovibilità dei giudici inferiori, era stata in parecchi casi raggirata. La giustizia quindi emanava da Re, che aveva anche il potere di concedere la grazia e di nominare i giudici. La Magistratura, non costituiva uno dei tre poteri, così come erano stati evocati da Montesquieu, non era un potere autonomo, ma secondo lo Statuto Albertino poteva essere considerato come un ordine giudiziario inquadrato all’interno del Ministero della Giustizia. L'articolo 73, escludeva in modo definitivo il valore precedente alle decisioni prese dai supremi Tribunali Statali. Le autonomie statali venivano regolamentate nell’art.74, che si limitava ad affermare che le istituzioni comunali e provinciali erano regolate dalla legge. IN CONCLUSIONE: una delle lacune più grandi ed evidenti dello Statuto Albertino consisteva nella sua mancanza di eventuale revisione, di conseguenza alla Carta Sabauda, soprattutto se paragonata alla Carta Belga del 1831, poteva essere attribuita la caratteristica di elasticità, e proprio grazie a questa potè subire adattamenti e trasformazioni con il passare del tempo, senza che il Testo subisse una revisione formale. 16-11-2020 11 1814 rappresentò un anno di fondamentale importanza non solo per la storia del diritto tedesco, ma per tutta la storia giuridica europea. In questo anno vennero pubblicati due celebri saggi, uno di Thibaut, l’altro di Savigny. IL SAGGIO DI THIBAUT E L'IDEA RELATIVA AL CODICE Nel suo saggio, che dal punto di vista cronologico precedeva quello di Savigny, Thibaut insisteva su un argomento fondamentale, cioè sulla necessità di realizzare un Codice civile in Germania. Infatti quest'opera si intitolava “Sulla necessità di un comune Codice civile per la Germania” e partiva dal presupposto che fosse necessaria la codificazione per la Germania e bisognava farlo sotto l’influenza di due grandi modelli, cioè il Codice civile francese del 1804 e il Codice civile austriaco del 1811. Thibaut preannunciò una grande coesione nazionale, di cui l’unità della legislazione avrebbe dovuto fungere da “elemento stabilizzatore e da specchio fedele”. Secondo Thibaut, un Codice civile si imponeva come necessario per tanti motivi, primo fra tutti era quello di agevolare in tutti i sensi l’unità territoriale e questo era quello che lui stesso definì “scopo politico”. Poi serviva per formare un sentimento tedesco, che avrebbe dovuto essere “genuino” e questo era il motivo “etico- politico”. Ma serviva anche per favorire l’unificazione del diritto privato, che però doveva essere accompagnata dall'emergenza di un diritto germanico, cioè si doveva parlare di unificazione del diritto privato, ma nello stesso tempo doveva emergere un diritto germanico, quindi un diritto apposito per la nazione germanica e questo era l’obiettivo che possiamo definire di “politica del diritto”. L’unificazione del diritto “sub-specie codicis” (= sotto la specie del codice) avrebbe generato sicuramente il sentimento da tutti auspicato, cioè una certezza nei rapporti giuridici, che avrebbe comportato la felicità della nazione. Quindi, creando un diritto che si rivelasse certo, ci sarebbe stata una felicità della nazione e perlomeno essa non avrebbe avuto problemi relativi all’incertezza del diritto. IL SAGGIO DI SAVIGNY AI contrario, Savigny nel suo saggio negava in maniera provocatoria che fosse auspicabile la realizzazione di un Codice unico. Addirittura, partiva dal presupposto che questo progetto non poteva essere realizzato perché in Prussia non esistevano giuristi di livello tale da riuscire a porre in essere una codificazione. C'erano i giuristi in Prussia, ma non si sarebbero potuti rivelare incapaci di compiere un’opera di così tanta grandezza. Il rischio, come dice Savigny, era un rischio gravissimo e consisteva nel riuscire a promulgare un aggregato di disposizioni e non un corpus organico. Il rischio era quindi quello di riuscire a creare un qualcosa che si rivelasse del tutto differente rispetto a quello che ci si auspicava, cioè 86 ottenere un risultato completamente diverso. Se ci fosse aspettata la realizzazione di un corpus organico, ma si sarebbe rischiato di fare tutt'altro, cioè di porre in essere un aggregato di disposizioni disorganiche tra di loro, quindi tante norme accozzate tra di loro, che avrebbero creato solo scompiglio. Quindi Savigny riteneva a questo proposito che leggi circoscritte, ognuna per un determinato settore, avrebbero potuto rivelarsi più adeguate per dare una normativa o un ordine alla società e arrivò ad una conclusione: perché fare un Codice quando era possibile porre in essere delle normative ciascuna per una particolare materia? Ci serviva una legge per il diritto penale? Avremmo fatto una legge di diritto penale, senza il bisogno di fare un Codice di diritto penale anche perché i giuristi in quell’epoca si rivelavano, a suo parere, incapaci. Quindi particolari normative, ciascuna per la propria materia, avrebbero potuto mettere ordine alla società. Savigny sottolineò, inoltre, quella che lui stesso definì l’essenzialità irriducibile di una scienza giuridica che doveva avere innanzitutto coscienza della propria forza e doveva essere in grado di svilupparsi in maniera organica. Egli intitolò il suo saggio “Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza”, però l’opera fu conosciuta da tutti con il titolo tedesco abbreviato o, meglio ancora, con la prima parola del titolo in tedesco, cioè “Beruf”. Il nucleo centrale di questo saggio e allo stesso tempo il nucleo centrale della polemica con Thibaut era costituito da un’idea fondamentale, cioè che non spettasse agli apparati del potere legislativo il compito di realizzare e porre in essere un Codice. Egli partiva dal presupposto che non era affatto realistico pensare che un Codice, una volta posto in essere, potesse essere imposto ad un popolo seguendo quelli schemi che sono sicuramente razionali, ma allo stesso tempo appaiono molto lontani da quella società a cui il Codice stesso avrebbe dovuto mettere ordine. Quindi, se io giurista faccio questo Codice e un potere legislativo mi dice che questo Codice deve essere imposto a voi che siete il mio popolo, questo Codice sarà sicuramente razionale, però nello stesso sarà molto lontano da voi che siete il popolo. Per questo non potrà dare ordine alla società di cui voi siete componenti. Savigny partiva dal presupposto che il legislatore, limitandosi a promulgare delle norme, ciascuna delle quali doveva essere realizzata per un settore circoscritto, doveva adeguare i propri precetti, cioè i contenuti di questa norma, a quelle che erano le determinazioni della dottrina giuridica. Quindi doveva innanzitutto seguire quelle che erano le indicazioni e queste indicazioni, rivelatisi specifiche e concrete, sarebbero state poste in essere dalla giurisprudenza. Cosa intendeva Savigny per “giurisprudenza”? Savigny per “giurisprudenza” intendeva l’opera dei giudici e degli avvocati, ma soprattutto la dottrina dei giuristi. Per Savigny la giurisprudenza, che doveva dare le indicazioni, affinché queste leggi potessero corrispondere a quelli che erano i bisogni degli individui. Quindi per Savigny la giurisprudenza era l’unica in grado innanzitutto di individuare, ma poi di comprendere in maniera precisa quello che era lo spirito del popolo. Il problema nasceva tutto dalla capacità che doveva avere la giurisprudenza. Non solo la giurisprudenza doveva essere in grado di proporre, ma doveva anche redigere testi di norme specifiche che sarebbero state poste in essere dal potere legislativo e che il legislatore avrebbe dovuto poi promulgare nell’esercizio del suo potere, provvedendo senza agire in maniera arbitraria affinché questo avvenga, ma senza creare delle aspettative illimitate su queste leggi perché non avrebbe potuto ambire alla realizzazione di queste norme che abbia una perfezione assoluta. Tali norme non dovevano essere perfette, ma ci si doveva attenere a quelli che erano i contenuti che forniva la giurisprudenza, che avrebbe costruito questi contenuti interpretando lo spirito del popolo. Quindi il ruolo fondamentale nel portare a compimento quest'attività normativa era svolto dalla giurisprudenza, che non solo doveva essere a conoscenza dello spirito del popolo, ma lo doveva interpretare per fare in modo che le norme poste in essere non fossero perfettamente assolute, però dovevano corrispondere a quello che era lo spirito del popolo. In questo Modo, vediamo che, secondo Savigny, la dottrina, cioè il pensiero teorico elaborato in sede accademica, quindi in ambito universitario, diventò una forma di supporto preciso per la procedura di realizzazione delle norme. Bisogna partire dal presupposto che bisognava individuare le norme che per consuetudine i popoli non solo avevano creato, ma avevano rispettato nel corso del tempo. Quindi compito della dottrina e del pensiero teorico elaborato nelle sedi universitarie era quello di interpretare lo spirito del popolo per renderlo esplicito, quindi per far sì che lo spirito del popolo si manifestasse alla normativa che si voleva porre in essere. 87 La pandettistica influenzò tutta la giurisprudenza europea continentale e determinò tutta una serie di conseguenze, che dovettero necessariamente essere considerate in quanto risultarono fondamentali in una prospettiva storica di lunga durata. La pandettistica ci aiutava a realizzare una scienza giuridica europea, che si rivelò capace non solo di ignorare, ma nello stesso di superare ogni barriera nazionale costituita dal Codice nazionale. Quindi si sarebbe dovuta superare la mancanza di un Codice grazie alla pandettistica. Ecco allora che ritornò l’utilizzo delle figure giuridiche tratte dal diritto romano. Infatti le pandette erano i “Digesta”, che contenevano gli “iura” (= giurisprudenza pura). Quindi ritornarono la giurisprudenza, l’aiuto del diritto romano e tutto permise di dire di non volere il Codice. Ecco che si realizzò questo nuovo tipo di scienza giuridica europea che superò le barriere nazionali che erano costituite dai Codici, i quali venivano a loro volta visti come un ostacolo. Ciò servì anche per creare un “continuum storico” per riprendere e valorizzare le teorie già affermatesi nel Settecento illuminato, ma soprattutto permise di attuare una rilettura e una nuova interpretazione del “Corpus iuris civilis” e del “Corpus iuris canonici”, cioè del diritto romano e del diritto canonico, che avevano arricchito tutta la civiltà europea fino a tutto l’Illuminismo, il definitivo “annientamento” del diritto comune. La pandettistica però fu stata molto criticata e contestata. Nonostante questi problemi, ebbe un ruolo centrale nel campo della giurisprudenza tedesca e ha avuto una serie di influssi non solo per quanto concerne il diritto europeo, ma anche il diritto di paesi oltreoceano. I PRESUPPOSTI DELLA PANDETTISTICA L’idea del sistema propugnato dalla pandettistica, cioè l’idea di un sistema “iuris”, si oppose al punto tale che il sistema “iuris” dovette dare un preciso indirizzo non solo ai teorici del diritto, ma dovette servire per tracciare la via anche ai giudici, quindi non solo riducendo a neutralità le operazioni logiche (politiche, etiche, economiche, sociali) che conducono ad ogni decisione presa in ambito giudiziario, ma avrebbero dovuto offrire agli operatori del diritto un manuale che in pochissimo tempo sarebbe diventato lo strumento principale di cui i pratici si sarebbero serviti per la soluzione ad ogni loro problema. Questo manuale fu scritto da Windscheid, scritto e pubblicato in lingua tedesca nel 1862, si intitolava “pandette”. II titolo, infatti, riecheggia le pandette di Giustiniano ed esprime una preferenza, da parte dell’autore, di quella raccolta giustinianea che ha ha valorizzato gli “iura” in confronto delle “leges”, cioè ha valorizzato la giurisprudenza nel confronto con le “leges” contenute nel Codice. Quest'opera ebbe una straordinaria diffusione in Germania e poi anche nel resto dell’Europa, dove venne tradotta in lingue diverse. L'opera, con un linguaggio chiaro, sviluppava -secondo le caratteristiche di una rassegna ragionata e anche molto esaustiva- i problemi che si dibatterono in questo particolare momento storico e li risolveva con quelle che erano le soluzioni offerte dalla pandettistica. Le soluzioni furono accettate e, per l’intero spirito sistematico su cui si reggevano, dopo essere state ridotte in alcuni articoli di legge, finirono per essere trasfuse direttamente nella codificazione civilistica, promulgata nel 1900. Abbiamo accennato al ruolo centrale rivestito da Windscheid in prospettiva di un'eventuale codificazione. Egli è stato membro della commissione incaricata della redazione del Codice dal 1880 al 1883. Un ruolo importante si è avuto con l’influenza della pandettistica nella stesura e poi nella promulgazione del Codice. Quindi il sistema messo in atto dalla pandettistica si presentava come il fulcro di tutta l’area problematica in cui era stato coinvolto in prima persona il giurista. Va detto però che alcuni settori ne rimasero completamente esclusi, come il lavoro domestico, le prestazioni d’opera nel settore agricolo e i problemi riguardanti la situazione minerarie e il sottosuolo. SITUAZIONE ITALIANA A partire dalla fine del Settecento, nelle Repubbliche italiane si cominciò a lavorare per la promulgazione di codici. Si cominciarono a realizzare i primi progetti di Codice, senza però pervenire ad una conclusione. Abbiamo visto che non si poteva parlare di “codificazione”, ma si parlava di “consolidazione”, in quanto si riunivano in un unico corpus le norme esistenti. La stessa cosa accadde per gli inizi dell'Ottocento, dopo che l’Italia era stata 90 riconquistata da Napoleone. In un certo senso, vediamo che ipoteticamente si potevano anche realizzare progetti completamente distaccati da quello che era il classico esempio francese, quindi si potevano raggiungere soluzioni autonome da quelle francesi. Soluzioni che se veramente realizzate si sarebbero rivelate più consone a quelle che era la realtà italiana. Basti pensare a tutte le problematiche relative al diritto di famiglia. La realtà italiana, con la chiesta cattolica alle spalle, non avrebbe mai accettato la possibilità di un matrimonio civile e di un divorzio già imposto per legge. Lo abbiamo visto nei dettagli quando abbiamo parlato della codificazione napoleonica del 1804, durante la quale il primo matrimonio a dover essere celebrato doveva essere quello civile e poi ci si poteva andare a sposare in chiesa. Il matrimonio religioso prima di quello civile, infatti, sarebbe stato punito e non aveva valore. Questa situazione, volendo, poteva rivelarsi auspicabile però non si è potuto arrivare a questo perché sopravvenne l’imposizione di Napoleone di adottare i codici francesi, adottati perché Napoleone gli aveva imposti e perché si arrivò ad affermare che adottare il Codice francese avrebbe dato più lustro e avrebbe rappresentato per l’Italia la soluzione migliore. Alcuni tentativi di resistenza all’adozione dei Codici francesi ci sono stati, però furono soffocati dalle autorità. La parte continentale dell’Italia cominciò così ad adottare i 5 Codici napoleonici, cioè quelli promulgati dal 1804 al 1810 e li adottò o perché direttamente entrata a far parte dell’Impero francese oppure perché parte del regno d’Italia o di Napoli. Si acquisì così una certa omogeneità normativa sulla base di quello che era il diritto unificato e, una volta per tutte, si mise da parte il diritto comune. L’unico codice diverso da quelli francesi è stato il Codice di Procedura Penale del regno d’Italia, promulgato nel 1807, al quale ha dato un contributo di rilievo il giurista Giandomenico Romagnosi al punto tale che è stato da alcuni chiamato come “Codice Romagnosi”. All’interno di questo Codice venivano seguite delle regole che risentivano dei principi illuministici già presenti nel contesto della Codificazione austriaca. Ma qualche contenuto apparve molto simile al Codice processuale francese, emanato nel 1808. L’unico punto di differenza con il Codice processuale francese stava nel rifiuto della giuria popolare, quindi il Codice del Regno d’Italia rifiutava la giuria popolare, che era già in funzione in Francia da parecchi anni ed era stata confermata nel Codice di Procedura Penale nel 1808. Si cercò di rispettare le esigenze e i gusti del Regno d’Italia perché da tempo si era dimostrata una particolare presenza per il giudice togato. Introdotti i Codici francesi in Italia, si ebbe l’abolizione del sistema di diritto comune, ma anche una indubbia semplificazione delle fonti del diritto. In un primo momento, si ebbe una comprensibile perplessità dovuta ad una serie di perplessità appunto di riuscire ad adeguarsi ai cambiamenti. L'ambiente italiano accettò complessivamente queste modifiche, ma non tutti lo fecero, soprattutto chi non era del mestiere. I Codici introdussero elementi fondamentali, quale ad esempio il principio dell’uguaglianza formale di tutti i cittadini davanti alla legge. Ma non tutti si rendevano conto dell'importanza di questi principi. I Codici processuali presentavano alcuni elementi di semplificazione del processo, che sono sicuramente da non sottovalutare. Il Codice più importante e prestigioso era il Codice civile, che in materia di obbligazioni e di diritti reali conteneva delle regole e dava delle soluzioni che si innestavano sulla lunga tradizione e su quelle che erano state le regole di diritto comune, ma che davano più chiarezza e una semplicità più evidente. La critica più forte fu quella relativa alla disciplina del diritto di famiglia e delle successioni perché il Codice diede delle innovazioni (come ad esempio il matrimonio civile, il divorzio, la parità di trattamento tra figli legittimi e figli illegittimi, la parità successoria a livello legale tra figli maschi e figlie femmine) un po’ troppo all'avanguardia per quella che era la cultura giuridica italiana del tempo. Cose che, tra l‘altro, venivano ad urtare con le abitudini di vita esistenti nel nostro paese. In queste particolari materie, il Codice civile aveva adottato sicuramente soluzioni più moderate rispetto a quella che era la normativa derivata dalla Rivoluzione Francese ma, anche se si trattava di una situazione più moderata rispetto alle idee scaturite dalla Rivoluzione Francese, queste stesse idee sembravano un po’ troppo moderne alla situazione reale italiana, in cui ci si rendeva benissimo conto che, grazie alle connivenze di un certo numero di giuristi, le regole venivano raggirate. | risultati di quest’elusione però 91 furono modesti anche perché ci si avvalse in un certo momento dell’interpretazione corretta, quindi della correttezza a livello interpretativo dei giudici. AI di là di ogni singola opposizione, ma anche delle varie difficoltà a livello di applicazione, vediamo che i Codici napoleonici nel loro complesso ebbero un discreto favore, perlomeno nei loro primi anni di vita in Italia e lasciarono un ricordo tutto sommato positivo fra i giuristi. Ciò portò a riproporne il modello nei cosiddetti Stati italiani della Restaurazione, anche se questa volta il modello fu applicato in una realtà politica completamente diversa. Nel periodo della Restaurazione, i cosiddetti sovrani italiani restaurati, come risposta alla dominazione francese, decisero di abolire i Codici napoleonici. Fece eccezione il Regno delle due Sicilie, dove con opportuni aggiustamenti soprattutto in un settore fondamentale, qual era il diritto di famiglia, furono lasciati in vigore provvisoriamente i Codici francesi. Il Codice di Commercio francese, invece, venne conservato in Lombardia e in Toscana. Per quanto riguarda la situazione italiana, vediamo che nel nostro paese non poteva dirsi esistente un vero e proprio dibattito relativamente alla possibilità di conservare o meno i Codici francesi. In Italia non è avvenuto ciò che avvenne in Germania, dove si era partiti dal presupposto che non si volveva il Codice e per questo ci fu il lungo dibattito tra Thibaut e Savigny. La cultura giuridica italiana, infatti, in questo particolare frangente si rivelò passiva rispetto alle iniziative in tema di Codici. Le iniziative governative erano dettate per lo più da pratici del diritto e si cercava di privilegiare, nell’ottica del periodo della Restaurazione, l'affermazione di un diritto che si imponeva come statuale su una qualsiasi altra fonte. Il fatto che si richiamasse in vigore il diritto precedente, cioè il sistema delle fonti del diritto comune, non faceva altro che mettere in rilievo i vantaggi del diritto codificato, per lo meno sul piano tecnico operativo. Il tutto non faceva altro che incoraggiare la predisposizione di alcuni progetti di Codice, perché quegli francesi non sembravano opportuni. Quindi se non applichiamo più i Codici francesi, dobbiamo tornare al vecchio diritto comune, ma se non vogliamo tornare neanche al diritto comune, allora ci rimbocchiamo le maniche e ci facciamo un codice nostro. Per questo, cominciano ad essere presentati tutta una serie di progetti di codificazione. Possiamo dire che, dopo un primo periodo in cui la codificazione venne guardata con sospetto, in quanto collegata alla codificazione francese, in un momento successivo cominciò ad essere accettata ed entrò a far parte della politica legislativa degli Stati preunitari, che nella prima metà del XIX secolo finirono con l’adottare un sistema di diritto codificato seguendo sempre a modello il Codice francese, che non fu messo da parte. Codificazione francese composta dai 5 Codici di Napoleone, di cui però il ruolo preminente apparteneva al Codice civile. Rispetto a quelle che erano le prime istanze codificatrici del periodo dell’Illuminismo, vediamo che la valutazione che si aveva in questo periodo del Codice venne trasformata. Si cominciò a concepire la Codificazione come un mezzo operativo che permetteva di porre in essere un nuovo diritto che fosse più chiaro, semplice e generale del diritto esistente, senza però una particolare prospettiva di crearne uno dal contenuto nuovo. Secondo questa prospettiva, il Codice doveva registrare il diritto sentito dalla volontà popolare, non doveva innovare per imporre un diritto nuovo. Quindi, se questa era la valutazione del codice, l'ideologia della Restaurazione poteva accettare lo strumento di organizzazione del sistema giuridico e lo poteva addirittura considerare utile ad un fine particolare, cioè quello di migliorare il funzionamento della società. Lo Stato che poteva essere considerato il più rapido a dotarsi del Codice è stato il Regno delle due Sicilie, dove non erano stati eliminati i codici relativi all'esperienza francese, ma sono stati modificati quei punti che andavano ad urtare con i principi della Restaurazione. Nel 1819 fu pronto un Codice unitario, suddiviso in 5 parti, ciascuna delle quali corrispondeva ad uno dei Codici francesi. Il Codice veniva considerato una soluzione tecnicamente migliore nell’ottica di monarchia amministrativa che si voleva realizzare nel Regno di Napoli e nello specifico a Napoli. Non si concedeva la Costituzione (quindi non si parlava di costituzionalismo), ma si cercava di riordinare l'ordinamento statale, se ne favorì un funzionamento più semplice e celere, anche se in realtà tutte queste iniziative furono introdotte dai Moti Rivoluzionari del 1820. Quindi si doveva modificare il diritto senza parlare di costituzionalismo, cosa che in realtà poi è stata realizzata perché il sovrano, ad un certo 92 Una volta realizzata la Codificazione sabauda, essa non brillò sicuramente per una certa apertura. Essa era limitata, ma si rivelò di notevole importanza quando si cominciò a parlare di unificazione dei territori italiani (= unificazione italiana) in quanto cominciò ad essere considerato il modello più vicino di Codificazione che poteva indirizzare ad un’unificazione dei territori della nostra penisola. In base alla legge del 25 aprile del 1859, con cui il Parlamento aveva conferito al Governo i pieni poteri in caso di guerra con l’Austria, furono pubblicati tre nuovi codici: il Codice penale, il Codice civile e il Codice di procedura civile, grazie ai pieni poteri concessi dal Parlamento al Governo per particolari casi specifici e momenti critici della vita di una nazione, cioè alla cosiddetta decretazione d'urgenza. | tre Codici promulgati, grazie alla legge del 1859, dovevano rappresentare il primo punto d’incontro fra la Codificazione e la legislazione del Regno di Sardegna, ma dovevano anche creare una sorta di raccordo con la legislazione delle terre annesse al Regno. Quindi ogni singolo Stato che costituiva la penisola italiana aveva la propria legislazione. Lo vedremo meglio quando parleremo della Codificazione ulteriore dopo l’Unità che ci fu una lotta tra la Toscana, che voleva mantenere l'abolizione della pena di morte e le altre Codificazioni penali che invece la mantennero. Quindi cominciarono i primi dissidi tra le varie parti e si doveva cercare di creare questo raccordo tra la legislazione e la Codificazione del Regno dei Savoia con la legislazione delle terre annesse. La procedura che portò alla promulgazione di questi tre Codici fu una serie di provvedimenti molto rapidi. La loro emanazione arrivò senza una discussione dettagliata in cui ci fosse stata una discussione o un confronto tra le parti. Quindi non si era discusso come si doveva, ma si arrivò subito alla promulgazione grazie alla cosiddetta normativa dei pieni poteri, pur di arrivare ad una Codificazione che avrebbe cercato di unificare, anche dal punto di vista normativo, la successiva unificazione a livello territoriale. Si sentiva ancora molto forte l’influenza dei Codici francesi, quindi da un lato si aveva la Codificazione presa in tutta fretta, l'influenza della Codificazione francese, per la maggior parte dei casi molto presente, ma anche l’influenza di quella austriaca. Quindi vi era un piccolo caos a livello normativo. Si venivano cioè a creare delle discordanze anche perché non tutti vedevano di buon occhio l’influenza francese, per non parlare degli austriaci. Era una situazione che l’Italia aveva vissuto sotto l'impero napoleonico, ma anche sotto gli Asburgo. Quindi si cominciò a pensare alla realizzazione di nuove iniziative utili per dotare il Regno d’Italia di una codificazione che però si rivelasse unitaria. Ciò, secondo le aspettative, sarebbe avvenuto dopo l’Unità anche se il Codice civile del 1865 fu molto filofrancese, sia pure con delle modifiche particolari che furono apportate perché la realtà italiana non era sicuramente francese: la figura del Sommo Pontefice, presente nel territorio italiano, anche se era uno Stato a parte, era molto decisiva e avrebbe influenzato molto la legislazione per determinate materie. Basti pensare che parliamo di divorzio nella Codificazione francese del 1804 e del divorzio in Italia nel 1970. A partire dal 1859, si cominciò a parlare di unificazione nazionale, di nascita del Regno d’Italia ed estensione a tutti i territori dello Statuto albertino. Nel periodo del governo Cavour, le istituzioni costituzionali subalpine (= Regno di Sardegna), subirono un rafforzamento. Alla fine degli anni 50, ai tanti liberali del periodo, queste istituzioni subalpine rappresentavano un valido esempio che poteva essere “esportato” al di fuori del Regno Sabaudo. Quindi erano tutti più o meno d’accordo sulla valenza dello Statuto albertino, potevano fare capo a questa costituzione e accettarla come normativa del nuovo Stato. Nei primi 10 anni in cui fu applicato lo Statuto (entrato in vigore il 4 marzo del 1848), cioè nel 1859, subì una serie di cambiamenti nella sua applicazione, che però si realizzarono secondo la prassi, secondo la vita quotidiana, poiché lo Statuto non fu mai stato modificato sulla carta. In un articolo non è mai stata cambiata una virgola, fatta eccezione per l’art. 77 che riguardava la bandiera e che fu modificato quasi subito. Cosa cambiò? Innanzitutto, si passò da una monarchia costituzionale pura, che si stabiliva nello Statuto, ad una monarchia parlamentare. Si ebbe l’affermazione del governo come organo costituzionale e, nonostante non ci fosse un ‘articolo dello Statuto che parlasse di questa figura, emerse la figura del Presidente del Consiglio dei ministri, di cui lo Statuto non parlava 95 assolutamente. Cominciò a subentrare anche la centralità del ruolo politico del Parlamento che cominciò ad essere inteso come organo rappresentativo dell’opinione pubblica, ma soprattutto organo rappresentativo della camera elettiva, cioè la Camera dei deputati, sempre secondo la prassi, NON sulla carta perché lo Statuto non fu modificato. Tutto ciò comportò la riduzione del potere del sovrano sia nel settore legislativo che nel settore esecutivo. Questi cambiamenti portarono ad un'ulteriore estensione dei cosiddetti “diritti di libertà” in confronto a quelli sanciti sulla carta dello Statuto. Essi avvennero molto lentamente e attraverso una serie di adeguamenti che avvennero in modo graduale perché, già a partire da esponenti politici come Cavour, si cominciò a diffidare dei cosiddetti “strappi”, cioè un cambiamento brusco avrebbe provocato, non solo in ambito politico ma anche nel contesto dell’opinione pubblica, delle rotture decisive e dei cambiamenti, che avrebbero comportato degli scompigli. Questo era il modello, a livello istituzionale, che l'opinione pubblica aveva presente nell’arco di tempo che andava dal 1859 al 1861, momento in cui discusse e si attuò l'unificazione della penisola italiana. Lo Statuto, in questo periodo, così come arrivò all’unificazione dell’Italia, non era più lo Statuto come era stato scritto e promulgato nel 1848, ma si parlava dello Statuto albertino nel senso in cui venne applicato quotidianamente dal 1859 in poi, quindi con tutte le modifiche che abbiamo accennato prima che vennero realizzate e applicate quotidianamente. Fu questa la cosiddetta Costituzione materiale a cui, con il passare del tempo, aderirono tutti i plebisciti che si svolsero nel 1860. Vediamo che mentre da più parti si chiedeva l'istituzione di un’Assemblea costituente che fosse in grado di stabilire un nuovo patto costituzionale che doveva essere realizzato con la monarchia sabauda, sulla base dei presupposti di cui abbiamo parlato, visto che lo Statuto rappresentava la forma istituzionale migliore. In attesa di questa Assemblea costituente, la situazione in territorio italiano apparve completamente cambiata dopo la Seconda Guerra di Indipendenza, in seguito alla quale la classe politica del Regno Sabaudo riuscì ad indirizzare automaticamente al futuro Regno d’Italia il proprio ordinamento costituzionale. Cavour, da parte sua, aveva più volte cercato di garantire alle varie potenze europee che l'unificazione dei territori italiani si sarebbe realizzata senza alcun tipo di problema, nonostante però la situazione non fosse di quelle più tranquille. Ogni nuova proposta, diversa rispetto al modello sabaudo, cominciò ad essere guardata con sospetto. Cominciarono ad essere guardati con sospetto e messi da parte tutti quegli elementi che miravano a ristabilire lo “status quo”, cioè la situazione com’era precedente alla Guerra d’Indipendenza. Da un lato c'erano i moderati che volevano a tutti i costi l'unificazione del Regno, però ogni scossa che si fosse rivelata un po’ più forte o brusca venne guardata con sospetto anche perché si cominciava a diffondere il parere che sarebbe stato sicuramente più opportuno e giusto rimanere ancorati a quelle che erano le tradizioni statutarie, cioè dello Statuto albertino, che si era imposto a partire dal 1848 ed aveva avuto una lunga vita rispetto alle altre costituzioni del periodo, che nel giro di pochissimo tempo furono messe da parte ed abolite (ad esempio lo Statuto fondamentale del Regno di Sicilia del 1848 non entrò mai in vigore). Attraverso i plebisciti, che erano stati effettuati nei vari territori italiani, si volle dare una forma di consacrazione popolare alle cosiddette annessioni. Grazie a queste annessioni e ai plebisciti, tutti i territori italiani furono uniti sotto un unico regno. La formula poteva essere più o meno differente, ma era simile su un punto, cioè le popolazioni degli stati preunitari venivano in questi plebisciti chiamate ad esprimere la loro volontà di essere inseriti nello Stato della monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II di Savoia. | plebisciti non avvennero tutti nello stesso momento, ma avvennero separatamente e furono preparati dai vari governi provvisori di ogni singola regione, secondo formule diverse, ma in realtà si lasciò la minima possibilità di scelta alla persona: si poteva scegliere ma la possibilità di scelta era minima. Infatti, in alcuni casi, la scelta era tra la piena adesione al Regno costituzionale di Vittorio Emanuele Il di Savoia e un fantomatico regno, che forse non era neanche costituzionale, cioè era qualcosa di inventato o che fino a quel momento era inesistente. | plebisciti avvennero con suffragio universale maschile e in un clima di grande entusiasmo a livello politico tanto che diedero risultati sicuramente superiori alle aspettative. 96 La soluzione adottata garantiva all’élite politico-moderata del tempo di conservare l'ordinamento esistente e di cambiare soltanto quello dei territori acquisiti. Quindi lo Statuto albertino fu esteso a tutto il Regno, cioè a tutti i territori annessi, senza aprire neanche la minima ipotesi di patto tra governanti e governati. Automaticamente accettato lo Statuto albertino come Costituzione del Regno, venne realizzata, grazie alla legge elettorale subalpina (realizzata subito dopo la promulgazione dello Statuto), vennero indette le nuove votazioni che dovevano eleggere i deputati di tutti i territori annessi. Mentre la Camera dei deputati subì una modifica radicale, per quanto riguarda il Senato si parlava di semplici integrazioni, in quanto il sovrano sceglieva, sulla base di quelli che erano i requisiti per poter diventare senatori, altri esponenti provenienti dalle altre regioni da poco annesse. Una volta ultimate le votazioni, la nuova Camera dei deputati e il nuovo Senato, nel febbraio/marzo del 1861, approvarono una legge breve, cioè una legge dal breve contenuto proposta dal governo, secondo cui Vittorio Emanuele Il assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di Re d’Italia. Grazie a questa legge, cominciò formalmente la vita del Regno d’Italia, alla cui base costituzionale vi era lo Statuto albertino. Realizzata l'Unità d’Italia tra il 1861 e il 1865, si procedette in maniera molto rapida alla costruzione di uno Stato accentrato. Costruire uno Stato accentrato, in questo particolare momento storico significava riservare un trattamento identico ed omogeneo a ciascun individuo che viveva nel territorio nazionale. Non ci potevano più essere particolarità. Il Regno era unico, quindi si doveva riservare ad ogni individuo lo stesso trattamento. Raggiunta, sulla base di questi presupposti, perlomeno sul piano politico l'Unità nazionale sembrava ragionevole che si realizzasse un ordinamento amministrativo e civile unitario in modo tale che la nazione riuscisse a trovare il suo compimento. Raggiunta a fatica perché Venezia ne rimaneva ancora fuori (c’era il Dominio asburgico), ma ne rimaneva fuori anche Roma (c’era il Papa). Quindi si cominciò a parlare di compimento di unificazione a livello politico, istituzionale, a livello normativo di questi territori da poco annessi. Prima del 1861, l’Italia era suddivisa in tanti stati diversi, ognuno con le proprie abitudini e con la propria normativa, allora ci si cominciò a chiedere se bisognasse procedere in mono più lento per la realizzazione di questa unificazione a livello normativo, o se mentre si si procedeva bisognasse lasciare anche un minimo residuo di autonomia ai vari territori unificati nel regno; bisognava sconvolgere radicalmente le abitudini di queste persone o lasciarli spazio per poter operare come erano già abituati? Sull’esempio di quanto era avvenuto nel periodo Napoleonico, in cui si cercò di rendere uniformi tutti gli aspetti della vita comunitaria, grazie all'attuazione di soluzioni amministrative e a livello di Codice, adottate già negli stati preunitari, i politici subalpini cominciarono a premere per “copiare” quanto c’era stato durante il Periodo Napoleonico. Questo perché Napoleone riuscì ad unificare la normativa e a tenere ben salde, nelle sue mani, le redini del potere, quindi bisognava unificare al più presto possibile, altrimenti vi sarebbe stata una “baraonda”, ognuno lasciato libero, avrebbe fatto quello che voleva. Si parlò anche di uniformità dal punto di vista politico-istituzionale, perché non ci si doveva allontanare da quanto era già da tempo in vigore nel Regno di Sardegna. Questa uniformità, avrebbe garantito la guida di questo Stato con fermezza; se le altre componenti fossero state lasciate libere, si sarebbe arrivati sicuramente ad una frammentazione in tante piccole realtà sociali, quindi visto che si arrivò a questa unità, bisognava anche imporre l’unificazione a livello normativo. A questo proposito, due esponenti politici della classe dirigente Sabauda, cioè il Farini e il Minghetti, che all’epoca erano Ministri dell’interno, uno nel 1860 e l’altro nel 1861, cominciarono a preparare dei progetti di unificazione amministrativa, che prevedevano una consistente forma di decentramento, in modo da garantire una buona forma di autonomia alle diverse forme del regno. La loro impostazione però venne sconvolta, non venne seguita, perché prevalse in modo netto l’impostazione accentratrice e omogeneamente unitaria, si impose nel nome dell’unità di quel regno che era stato da poco realizzato. 97