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STORIA DEL DIRITTO ROMANO (Capogrossi- Storia di Roma tra diritto e potere) - Riassunto, Sintesi del corso di Storia del Diritto Romano

Riassunto del Capogrossi integrato con appunti della prof.ssa Tassi, ottimo per la preparazione dell'esame di Storia del Diritto Romano.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 20/05/2021

Francesco.Salerno
Francesco.Salerno 🇮🇹

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Scarica STORIA DEL DIRITTO ROMANO (Capogrossi- Storia di Roma tra diritto e potere) - Riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! 1 STORIA DEL DIRITTO ROMANO Riassunto 2 Introduzione Il corso di “storia del diritto romano” si occupa del diritto pubblico di Roma antica, comprendendo il diritto costituzionale ed il diritto criminale, nell’arco cronologico che va dalla fondazione di Roma (VIII secolo a.C.) a Giustiniano (VI secolo d.C.). Elemento fondamentale per lo studio della materia è il confronto con il testo. I vari studiosi interpretano i testi traendone conclusioni (ipotesi) differenti, ma noi dobbiamo prendere una posizione personale leggendo il testo, senza ripetere ciò che dicono i manuali. Quanto alle fonti possiamo innanzitutto distinguere: 1) Fonti di produzione: si tratta di quelle fonti che producono diritto, ed ovviamente mutano tra monarchia, repubblica e principato; cambiano le forme di governo e cambiano le fonti. 2) Fonti di cognizione: sono quelle fonti attraverso le quali noi conosciamo il diritto romano, ossia quei documenti da cui possiamo ricostruire l’ordinamento giuridico della Roma antica. Le fonti di cognizione possono essere: a) Fonti dirette. Sono quelle fonti che sono giunte fino a noi senza modifiche; parliamo soprattutto delle fonti epigrafiche, che ci dicono molto sotto il profilo giuridico; vi sono poi le fonti archeologiche, che tuttavia hanno valore più storico che giuridico. b) Fonti indirette. Ci sono giunte per mezzo di un processo di copiatura degli antichi documenti, posto in essere nei monasteri medievali. In particolare, le fonti indirette si distinguono in: a) Fonti giuridiche: sono fonti tecniche come il Corpus Iuris Civilis b) Fonti letterarie: non sono fonti tecniche Diversi studiosi considerano le fonti letterarie come delle fonti di Serie B. La prof.ssa. Tassi non è d’accordo, perché la maggior parte delle fonti non sono tecniche, eppure sono fondamentali per lo studio del diritto pubblico romano. Si pensi, ad esempio, al De Legibus di Cicerone, che ci ha permesso di ricostruire le XII tavole. Alcuni ribattono che le fonti letterarie pongono un problema di attendibilità: Cicerone ha descritto le XII tavole oggettivamente oppure secondo la sua ottica? Questa obiezione, secondo la Tassi, non coglie nel segno, perché un problema di attendibilità si pone anche con riferimento alle fonti giuridiche come il Digesto: quando Giustiniano ha ordinato la raccolta di iura, ha prescritto anche che venissero modificati ed adattati ai nuovi tempi. 5 Elezione e poteri del Rex Il Rex è colui che “regge” la res. Già nei primi anni della monarchia abbiamo Re non romani, come Numa Pompilio che era di origini sabine: ciò conferma la natura di “città aperta”. Si tratta di una monarchia elettiva, non ereditaria: manca quindi una dinastia sul modello degli imperi orientali. Il modello dinastico si affermerà in alcuni momenti nel principato, ma in generale possiamo dire che l’elemento dinastico è estraneo al diritto romano. Come veniva scelto il Re? Le fonti sottolineano l’importanza del Concilium Patrum: non emerge ancora il termine “Senato”, legato a “senex” (anzianità), che nascerà in era repubblicana. L’assemblea è qui formata dai patrem gentis, quindi si afferma la gens, con prevalenza dell’elemento della parentela rispetto a quello della saggezza. Il Re viene scelto mediante una procedura carica di elementi rituali: il diritto, per affermarsi, ha bisogno di forme, e produce effetti solo con quei gesti e con quelle parole (si pensi alla mancipatio). Si tratta di un atto a formazione progressiva: vi sono più soggetti che intervengono, ognuno dei quali conferisce al Rex un potere. Le tre tappe dell’elezione del Rex sono: 1) Creatio: gli inter reges conferiscono i poteri civili (potestas) 2) Inaugurario: gli auguri conferiscono i poteri religiosi 3) Lex Curiata de Imperio: le curie conferiscono il potere militare (imperium) Creatio: - La creatio consiste nella scelta del successore di Romolo. I soggetti ai quali spetta la scelta sono detti “inter reges”: si tratta di 5 membri del concilio che, a turno, per 10 giorni ciascuno, detengono le insegne del potere (il fascio littorio) finché non si trova un accordo su chi debba essere il Rex. Il periodo di 50 giorno è detto inter-regnum. - La scelta fa quindi capo al concilium, ai componenti delle gentes. Il fascio littorio è un fascio di verghe con le scuri, simbolo del potere di vita e di morte e del massimo potere di comando. Con la creatio si attribuiscono al nuovo Rex i poteri civili, la potestas. Inauguratio: - Con questo rito entra in gioco il rapporto strettissimo fra diritto e religione, che sarà un elemento caratteristico del diritto romano fino al 300 d.C., con la cosiddetta laicizzazione del diritto. Con la inauguratio, il re ha il consenso della comunità, e gli vengono attribuiti i poteri religiosi. 6 - Viene convocato il collegio sacerdotale degli Augurii, che ha il compito di verificare se il re scelto va bene anche alle divinità. Qui emerge il termine tecnico “fas”, che indica la liceità del diritto divino, in netta differenziazione con “ius”, che descrive la liceità del diritto degli uomini. - Il Re designato si siede nel Comizio. Gli Augurii dividono il cielo (templum celeste) in due parti: a sinistra la parte favorevole; a destra quella sfavorevole. Si osserva allora il volo degli uccelli: se voleranno verso sinistra, gli dei sono d’accordo con la scelta. Lex Curiata de Imperio: Vengono chiamate in causa le Curie, antiche assemblee del popolo, assemblee degli antichi villaggi. Il termine “lex” è discusso, perché non vi è in realtà una vera e propria votazione, ma un suffragio (sum fragor: fare rumore insieme), ossia un’acclamazione. L’acclamazione (ad esempio battendo le lance sugli scudi) attribuisce al Re designato ed inaugurato anche il potere militare (imperium). Va osservato che con i Re Etruschi ci sarà una rottura rispetto a questo procedimento diviso in tre fasi; essi, infatti, procederanno solo all’acclamazione per il conferimento del potere militare: la creatio avrebbe significato sottomettersi alle gentes; procedere con la inauguratio sarebbe stato un atto di sottomissione nei confronti degli Auguri. Il re è il capo politico della comunità. Pertanto ha un potere legislativo, ma si discute se egli si limitasse a mettere per iscritto diritti già esistenti, oppure se abbia inserito norme ex novo. Vi sono opinioni differenti che si fronteggiano: la dottrina tradizionale nega la possibilità di introdurre nuove norme; Capogrossi ritiene che invece tale potere sussistesse, grazie anche alla mediazione del concilio. Le leggi regie ci sono giunte tutte per via indiretta, ed è pertanto complicato ricostruire se si trattasse di norme nuove o meno. Secondo la Tassi è possibile che qualche novità venisse introdotta ma non ne abbiamo la certezza: l’unica cosa certa è che le leggi regie non sono votate dal popolo, ma imposte dall’autorità, con mediazione del concilio. Il Re ha poi un potere giurisdizionale, sia in ambito civile che criminale. La giurisdizione era tuttavia delegata ad alcuni ausiliari, che non sono magistrati eletti ma soggetti nominati dal Rex. Il più importante è certamente il potere militare. E’ fondamentale che il Rex sia riconosciuto dalle curie (con l’acclamazione) perché siamo in epoca pre-oplitica, con un esercito non unitario ma formato da singoli guerrieri seguiti da piccoli gruppi di soldati: non era possibile imporre il comando senza avere l’appoggio dei singoli soldati. Come vedremo, i Re Etruschi potranno imporre il potere con la forza comandando un esercito unitario: con la rivoluzione oplitica, infatti, si introduce il combattimento a falange, coordinato, in cui rileva l’insieme dell’esercito e non i combattimenti individuali. 7 Il concilium patrum ed i collegi sacerdotali. Il termine concilio indica una parte del corpo cittadino: in tal caso abbiamo soltanto i patrem gentis che si riuniscono. In età repubblicana avremo anche il concilio della plebe, della quale non faranno parte i patrizi, a conferma della natura “escludente” del termine concilio. Quando il popolo si riunisce nel suo insieme si utilizza il termine comizio. I poteri del concilium patrum sono i seguenti: 1) creatio 2) consultazione del Rex 3) designazione dei 5 inter-reges Ci si chiede se il concilio avesse anche l’auctoritas. Innanzitutto dobbiamo chiarire di che potere si tratta, e solo in un secondo momento verificare se sussistesse in capo al concilio. Si tratta di un potere tipico del Senato repubblicano, che consisteva nel dare vigore ad una norma proposta dal magistrato (mediante la rogatio) ed approvata dal popolo. Le leggi rogate – siamo in epoca repubblicana - avevano quindi questa struttura: il magistrato propone; il popolo approva; il Senato concede l’auctoritas e la norma entra in vigore. L’approvazione del popolo, quindi, none era sufficiente, ma occorreva il potere del senato. Alcune fonti parlano dell’auctoritas retrodatandola all’età regia, forse per conferirle maggiore potere. Secondo la Tassi, non si tratta di una ipotesi attendibile, per il semplice fatto che in età regia non vi è una votazione popolare, le leggi non sono rogate. Ad ogni modo è possibile – ma è pur sempre una ipotesi – che il concilium avesse una auctoritas ma non in senso tecnico, un semplice potere di coadiuvare il Rex. Sono fondamentali poi i collegi sacerdotali: 1) Auguri 2) Vestali 3) Feziali 4) Pontefici Va innanzitutto chiarito che tutte le cariche sacerdotali sono a vita, ed i nuovi membri sono scelti per cooptazione: alla morte di uno, gli altri si riuniscono e cooptano un nuovo membro. 10 Collegio dei pontefici: - Secondo un autorevole orientamento tale collegio esiste già nel primo periodo monarchico; altri, invece, ne collocano la nascita in età etrusca o addirittura in età repubblicana. La prima ipotesi trova più conferma nelle fonti, ma non vi è assoluta certezza. - Il collegio si occupava dei rapporti con le divinità. Innanzitutto si occupava dei sacra, cioè dei sacrifici, e di tutti quei riti che garantiscono la pax deorum: i pontefici stabiliscono quali offerte possono essere dedicata alla divinità, quali sacrifici porre in essere. - I pontefici, inoltre, erano competenti nello stabilire quale fosse la condizione giuridica dei luoghi: essi procedevano infatti al rito della consacratio, mediante il quale un luogo diveniva sacro, cioè dedicato agli dei del cielo (dei superi). Tale rito modificava lo status giuridico del luogo, che restava sacro per sempre, fino a quando non interveniva un atto contrario: profanatio. - I pontefici hanno un ruolo rilevante nella produzione e nella conservazione del diritto, ma soprattutto nell’interpretazione del diritto civile in età repubblicana. La giurisprudenza sacerdotale è importante perché è emessa da un collegio, cosa che fa venire meno lo ius controversum. Quando invece la giurisprudenza si laicizza, con i pareri dei singoli esperti, emergono discordanze e si affermerà lo ius controversium. Occorre fare a questo punto una distinzione tra: - Res Santae: luoghi inaugurati, non appartenenti alla divinità ma posti sotto la sua protezione - Res Sacrae: sono luoghi dedicati / appartenenti alle divinità - Res Religiosae: sono luoghi destinati al culto dei defunti 11 I Comizi Curiati Il popolo era organizzato nei Comizi Curiati. La parola “curia” deriva da “co-viria”, cioè l’insieme dei guerrieri. Ma come si apparteneva alle curie? Gellio ci dice che l’appartenenza si articolava in base ai “genera hominum”: Capogrossi intende l’espressione come intesa a “genos”, termine indicante l’appartenenza ad una determinata parentela agnatizia. Secondo Capogrossi le curie esistevano già in età pre-civica come raggruppamenti di eserciti; e successivamente le curie diventano l’insieme di tanti piccoli eserciti. La provenienza arcaica sarebbe confermata anche dal fatto che i riti posti in essere dal Comizio erano molto poveri, con materiale non in metallo (né tantomeno in oro) ma in terracotta. Tra le diverse curie ve ne era una chiamata “Rapta”, cioè “rapita”: era la curia di tutti i sabini trasferitisi a Roma, ed il nome rimanda infatti al ratto delle sabine. L’esistenza di questa curia ci spiega che i gruppi che hanno formato Roma non vengono immediatamente inglobati, ma mantengono una loro diversità. Il Comizio ha una funzione innanzitutto militare: l’esercito era infatti diviso per curie, ciascuna guidata da un curione. Secondo le fonti, ciascuna di queste curie era formata da 300 cavalieri e 3000 fanti, ma Capogrossi è abbastanza scettico su questi numeri: va considerato, infatti, che lo spazio fisico di riunione dei comizi, situato nel Foro, è abbastanza piccolo (anche se è possibile che riunisse solo una parte, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi). Come abbiamo visto, i Comizi erano fondamentali nel procedimento di elezione del nuovo Rex, con la Lex Curiata de Imperio: essa consisteva in una acclamazione del re designato ed inaugurato, che gli conferiva il potere militare. Questo rito resterà come un fossile anche nella Repubblica: i magistrati, una volta eletti dai comizi centuriati, dovevano chiedere l’approvazione (acclamazione) dei comizi curiati. Altra competenza era nell’ambito del diritto di famiglia. Per prima cosa si occupavano dei testamenti, e per l’occasione prendevano il nome di “Comizi Calati”: i pontefici incaricavano i calatores di chiamare il popolo dicendo ad alta voce il giorno e l’ora in cui si dovevano presentare al foro per discutere dei testamenti. Il testamento andava fatto davanti all’assemblea. Ciò era una garanzia per il testatore, perché vi erano molti testimoni, assicurandosi che le proprie ultime volontà venissero effettivamente rispettate; una garanzia tale da essere confermata anche in epoca successiva quando nasceranno i testamenti scritti. Altre competenze poi nell’ambito del diritto di famiglia erano: - adrogatio: assunzione sotto la propria potestas di un cittadino sui iuris - adoptio: adozione di un soggetto alieni iuris - gentis enuptio (sposalizio tra gentes) 12 Il diritto criminale nell’età regia I comizi curiati avevano poi un ruolo fondamentale nella repressione criminale. Fonti qualificate dicono che già in età regia vi era l’istituto della provocatio ad populum: si tratta del diritto del condannato di chiedere un giudizio da parte del popolo, domandando di cassare la sentenza. Fondamentale nel diritto criminale è il concetto si sacertà: è la condizione di chi (homo sacer), per un delitto da lui commesso, era consacrato alla divinità, abbandonato alla vendetta degli dei. In sostanza, chiunque poteva uccidere l’uomo consacrato, senza essere accusato a sua volta di omicidio. Attenzione: non era obbligatorio ucciderlo, ma era una facoltà, tanto che nella maggior parte dei casi l’homo sacer se ne andava in esilio, per non vivere costantemente con l’angoscia di poter essere assassinato in qualsiasi momento. Nel diritto criminale occorre innanzitutto distinguere tra: a) delictum: riguarda i rapporti umani b) scelus: è più grave perché mette in pericolo la pax deorum Lo scelus può essere: - espiabile - inespiabile (comporta la pena di morte) Le leggi regie: - Il diritto criminale della prima età monarchica lo conosciamo mediante le leggi regie. Esse pongono un problema di attendibilità perché non ci sono giunte in maniera diretta, ma attraverso alcuni autori (anche greci) che ne riportavano il contenuto. - La dottrina prevalente, tuttavia, le ritiene abbastanza attendibili, anche se la lingua è certamente rimaneggiata. Di certo le fonti greche sono quelle più discusse: quanto i greci conoscevano il diritto romano? Si nota, infatti, come spesso gli autori greci confondano alcuni istituti. Donna che beve vino: - Di Romolo ricordiamo innanzitutto una legge riguardante il potere del marito nei confronti della moglie: se la donna beve vino o sottrae le chiavi della cantina, il marito può metterla a morte. - Testo di Dionigi: Le colpe delle donne le giudicavano i suoi parenti; fra di esse vi era l’adulterio e il bere vino. Romolo permise di punire con la morte entrambe queste colpe, come le più turpi delle colpe femminili, ritenendo l’adulterio principio di follia e l’ubriachezza principio di adulterio. 15 Puer che percuote il genitore: - Legge di Servio Tullio che ci viene riportata sempre da Festo: “Nelle leggi di Servio Tullio vi sono queste parole: qualora il figlio percuota il genitore, e quello gridi, il figlio sarà consacrato alle divinità ancestrali”. - Intanto si noti come qui l’elemento del plorare sia esplicito: è necessario il grido del padre, altrimenti non si configura la sacertà. Si rimette quindi al soggetto offeso la scelta tra gridare (e rendere noto il fatto) oppure non gridare e risparmiare il figlio. - Ma chi è il puer? Chi è il parents? Alcuni ritengono che la norma riguardi il figlio che percuote il pater, ma secondo la Tassi non è corretto perché altrimenti le fonti ce lo direbbero. L’ipotesi più verosimile è che ci si trovi di fronte ad una situazione in cui non si può utilizzare la patria potestas, e cioè manca il potere di vita e di morte: la sacertà verrebbe a colmare questo vuoto di potere. - Si tratterebbe quindi di un rapporto di discendenza al di fuori del rapporto di patria potestas, che era un istituto tipico dei cittadini romani. Sotto i Re etruschi, invece, si trasferiscono a Roma genti etrusche che continuano ad utilizzare il loro diritto, privo della patria potestas: ciò spiega anche perché la consacrazione non è alle divinità cittadine ma a quelle ancestrali. - Perché l’importanza del gridare? Serve a chiamare i vicini come testimoni. In sintesi, gridare è un modo per manifestare alla comunità ciò che è accaduto: se viene gente, scatta la sacertà. Quindi, se il parents ritiene di perdonare il puer, non grida. L’idea del gridare si rinviene anche riguardo al furto: prima di uccidere il ladro, il derubato deve gridare. Spostamento dei confini: - Norma di Numa Pompilio che ci viene riferita da Dionigi: “E stabilì con legge che, se qualcuno asportava o spostava i confini, fosse considerato consacrato alla divinità dei confini in modo che per chi volesse ucciderlo come sacrilego ci fosse l’impunità, ed inoltre l’essere considerato puro ad onta del delitto”. - Inoltre Festo scrive: “Si svolgevano riti sacri in onore del Dio Termine, perché si riteneva che i confini dei campi fossero sotto la sua protezione. Pertanto Numa Pompilio stabilì che colui che avesse passato l’aratro sui confini [o meglio: colui che avesse divelto i cippi dei confini legandoli all’aratro trainato dai buoi] fosse consacrato a Giove unitamente ai suoi buoi”. - Si tratta del caso in cui un soggetto sposta i cippi che segnano i confini: il termine per indicare tale condotta è “ex-arare”, che richiama l’aratro. Infatti la condotta punita consisteva nel legare i cippi all’aratro e farlo trainare dai buoi. Questo è un elemento rilevante perché sottolinea il dolo: non si tratta di una negligenza, un calpestamento involontario del confine, ma di una precisa volontà di estrarre i cippi. 16 - Il colpevole viene consacrato al Dio Termine, dio dei confini. Si noti come in questo caso la sacertà è immediata (non occorre il gridare): sacertà ipso iure. Inoltre, la consacrazione si estende anche ai buoi, come una sorta di responsabilità oggettiva. Tutto ciò sottolinea l’importanza della stabilità dei confini: tutta la comunità era autorizzata ad uccidere l’homo sacer. Omicidio volontario: - Norma di Numa Pompilio che ci viene riportata da Festo: “Erano chiamati Questori Parricidi coloro che solevano essere designati a compiere le indagini sui delitti capitali. Giacché si diceva parricida non solo chi avesse ucciso il padre, ma anche chi avesse ucciso qualunque uomo non condannato. Che così fosse lo dimostra una legge di Numa Pompilio contenente queste parole: se qualcuno ha ucciso intenzionalmente un uomo libero, sia considerato parricida”. - Il parricidio è uno scelus inespiabile, quindi il colpevole sarà condannato a morte. Il termine si riferisce non solo all’assassinio del padre, ma anche a quello di qualsiasi uomo libero; sono esclusi gli schiavi ma probabilmente incluse le donne. Si tratta di una fattispecie di omicidio volontario, da differenziarsi con l’omicidio colposo che, come vedremo, è uno scelus espiabile. - L’espressione finale utilizzata da Festo, “parricidas esto”, indica la pena, ma non è chiaro il significato: alcuni ritengono che si applichi la pena del sacco; altri optano per una vendetta legalizzata da parte dei parenti della vittima. - Poiché i fa riferimento ai questori parricidi, si opta più per la pena del sacco, che calza meglio rispetto ad una repressione pubblica dei crimini. Questi questori erano ausiliari del Rex che cercavano le prove, istruivano il processo ed eventualmente applicavano la pena; questi soggetti non vanno confusi con gli altri questori, che si occupavano di questioni finanziarie. - Prendiamo allora la pena del sacco, rituale molto antico. Il colpevole, avendo messo in pericolo la pax deorum, perde la sua condizione di essere umano: per questo gli viene messa una pelliccia di lupo e degli zoccoli di legno; viene chiuso in sacco sigillato con la pece per essere impermeabile; dentro al sacco vengono inseriti un gallo, un cane ed una vipera; il sacco viene gettato nel Tevere. - Si noti come in questo caso vi è la certezza della morte. Rispetto alla sacertà, dove il consacrato poteva essere risparmiato ed andarsene in esilio, rispetto al parricidio non si lascia alcuna discrezionalità ad i singoli. Il condannato sarà ucciso. 17 Omicidio involontario (colposo): - Legge di Numa Pompilio: “Certamente nelle leggi di Numa si provvide che, se qualcuno senza volerlo avesse ucciso un uomo, offrisse in espiazione per l’ucciso un ariete agli agnati di lui. L’ariete, offerto come vittima, può liberare l’omicida dall’imputazione di omicidio”. - Si tratta di uno scelus espiabile: si può riparare, perché manca il dolo. L’esempio classico è quello del soldato a cui, durante un addestramento, sfugge di mano il giavellotto, ed uccide un altro soldato. Non vi è volontarietà, ma vi è comunque un danno che necessita di una riparazione. - Ecco che i parenti dell’uccisore offrono un ariete ai parenti dell’ucciso, con un sacrificio davanti a tutti. L’elemento della pubblicità fa sì che tutti sappiano che la vendetta è esclusa. In realtà la vendetta dovrebbe essere esclusa anche in caso di omicidio volontario ma, come abbiamo detto, non è certo che si applicasse la pena del sacco, ed alcuni ritengono ancora sostenibile l’ipotesi della vendetta legalizzata da parte dei parenti. - Ad ogni modo, quando all’omicidio involontario, la vendetta è esclusa a priori perché non vi è dolo. Qual è allora il ruolo dei questori parricidi? Essi innanzitutto accertano la mancanza di dolo e poi controllano che l’ariete venga sacrificato in pubblico. Concubina che tocca l’ara di Giunone: - Norma di Numa Pompilio che ci riferisce Festo: si tratta della condotta della pelex (concubina) che tocca l’ara di Giunione, cosa che non le è concesso. Innanzitutto va detto che la concubina è in condizione servile, cosa sottolineata dal fatto di portare capelli sciolti e vesti corte. - La matrona aveva invece capelli legati e vesti lunghe. Solo lei era autorizzata a toccare l’ara di Giunione. Se lo fa la concubina, si configura uno scelus espiabile: essa deve, con i capelli sciolti (sottolineando lo stato servile) sacrificare un agnello femmina a Giunone; l’animale sacrificato deve essere femmina perché la persona offesa è la matrona. 20 Il cippo del Lapis Niger Si tratta di una epigrafe situata nel Foro, nell’area del Comizio. Si tratta di un luogo inaugurato, che ha quindi la protezione della divinità. Ma non appartiene alla divinità (non è un luogo sacro, ma santo): gli uomini possono utilizzare i luoghi santi per compiere atti. In seguito alla inauguratio, quindi, il luogo diviene santo, protetto dalla divinità, ma utilizzabile dagli uomini, anche se resta un luogo extra-commercium, che cioè non può essere oggetto di rapporti tra privati. Sull’epigrafe si leggono poche parole. La struttura non sembra quella delle leggi regie perché la presunta sanzione “sakros es” (che potrebbe indicare la sacertà) si trova alla terza riga, e non alla fine del periodo. Si potrebbe ipotizzare che il termine sia invece riferito alla sacralità del luogo, anche perché vi sono poi alcune indicazioni sui sacrifici, sui calati (gli araldi che convocavano i comizi). In sintesi potrebbe essere che il cippo volesse indicare la sacralità del luogo. Esistono tre tesi: 1) Secondo un primo orientamento, si tratterebbe di una legge regia, e sarebbe quindi la più antica ad esserci giunta in modo diretto. Tale ipotesi è avanzata da vari giuristi, ma si scontra con alcuni elementi: la struttura non è caratteristica delle leggi regi, in cui vi è una prima parte in cui si descrive la condotta, ed una parte finale in cui si dice la sanzione (“Se Tizio fa… allora…”); nel cippo in esame, invece, la sanzione non si trova alla fine. 2) Per un'altra tesi avanzata dagli archeologi si tratterebbe di una Lex Arae, cioè di una legge che tutela il santuario. In realtà anche tale tesi ricalca la prima. Ma anche questa tesi pone gli stessi problemi, perché non si comprende cosa voglia dire tutto ciò che è scritto dopo la sanzione. 3) Una terza tesi più recente ritiene che potrebbe essere un atto giuridico in cui si stabilisce lo statuto giuridico del luogo (sacralità): il cippo indicherebbe l’area sacra in cui poteva accedere solo il sacerdote, rispetto al resto del comizio in cui potevano accedere tutti i partecipanti. 3.1) In sostanza potrebbe essere un decreto dei Pontefici, cioè un atto giuridico che contiene prescrizioni rituali riguardo al culto che si deve celebrare nel comizio. Si tratterebbe di prescrizioni importanti, tanto da doverle mettere per iscritto, sottolineando l’importanza che aveva la comunità. In ogni caso si tratta di una epigrafe importantissima perché ci è giunta direttamente, e non per mezzo di fonti letterarie. 21 La monarchia etrusca Con i Re etruschi, forse già a partire da Tarquinio Prisco (ma sicuramente da Servio Tullio in poi), vi è una frattura rispetto alla procedura di elezione degli antichi re latini. I Re etruschi, infatti, non si sottopongono alla creatio ed alla inauguratio, ma solo all’acclamazione delle curie. Fondamentale, nel periodo della monarchia etrusca, è la rivoluzione oplitica: dal combattimento individuale posto in essere da singoli guerrieri seguiti da piccoli gruppi di soldati si passa al combattimento a falange, con un esercito unitario. La civiltà etrusca è particolarmente avanzata, e porterà alcuni cambiamenti rilevanti nell’ordinamento romano. Ad ogni modo quella etrusca era una civiltà particolarmente chiusa e classista, tanto che Tarquinio Prisco non fa carriera in Etruria, non essendo di nobili origini. Si trasferisce allora a Roma, definendola come città aperta dove ciascuno vale per il proprio coraggio e le proprie capacità, senza discriminazioni. A Roma Tarquinio ricopre più volte il ruolo di comandante della cavalleria e della fanteria, come ci riferisce Dionigi. Acquisì meriti così importanti che alla morte di Ancor Marzio il Concilio decise che dovesse essere lui il successore: un primo aspetto da sottolineare è la provenienza militare del Rex, che sarà una costante della monarchia etrusca. I Re etruschi sono infatti dei “signori della guerra” (Capogrossi), che fondano il proprio potere sulla forza delle armi, ed hanno un potere diretto su chi li segue in guerra, diminuendo invece il rapporto con il Concilio. Dalle riforme dei Re etruschi si comprende la frattura con i re latini. Si ritiene addirittura che il potere di imperium sia di origine etrusca, e sicuramente sono etruschi i simboli dell’imperium: i fasci di verghe con le scuri. Possiamo tuttavia affermare che l’imperium come potere militare in capo al Rex esistesse già prima, anche se non vi era un esercito unitario; ma è corretto dire che l’imperium in senso tecnico è di nascita etrusca. Il numero dei componenti del concilio, sotto Romolo, era di 100, e tutti i re latino-sabini lasciano questo numero inalterato. Tarquinio alza il numero a 200, perché vuole controllare l’assemblea riempiendola di soggetti di fiducia, anche non nobili: si prescinde quindi da criteri di scelta, nominando anche non patrizi. Secondo alcune fonti, da questi nuovi membri del concilio nascerà quella che sarà chiamata aristocrazia plebea. Tarquinio riforma anche l’esercito. Una riforma che gli si attribuisce è quella della cavalleria (equites celeres) portando da 3 a 6 le centurie di cavalieri; tuttavia, secondo la tradizione, un augure di nome Atto Navio si sarebbe opposto alla riforma perché vi sarebbero stati prodigi negativi. Allora Tarquinio apparentemente rinuncia alla riforma, ma sdoppia le centurie già esistenti (equites prime ed equites seconde). In età repubblicana le centurie di cavalieri saranno 18, ma non sappiamo come si è arrivati a questo numero; sicuramente una certa incidenza ha avuto, come vedremo, la riforma di Servio Tullio. Tarquinio viene assassinato e la moglie prepara la successione con Servio, che non era figlio del Rex ma era un condottiero etrusco. Servio sarà acclamato come servo del popolo. 22 La riforma dell’esercito di Servio Tullio Si tratta di una riforma fondamentale perché incide anche sull’assemblea popolare, portando infatti all’affermazione del comizio centuriato. Di questa riforma, innanzitutto, occorre valutare l’attendibilità storica: le fonti ci parlano di un esercito oplitico organizzato in 193 centurie (cavalleria e fanteria), ma ragionevolmente si ritengono tali numeri un po’ forzati; ciò non significa, come sostengono tuttavia alcuni, che la riforma non è mai esistita ma che, come afferma Capogrossi, Servio iniziò la riforma dell’esercito che poi col tempo arriverà a contare 193 centurie. L’elemento per far parte delle centurie, divise nelle diverse classi, è legato al censo: si afferma quindi un sistema timocratico, basato sulla ricchezza, che si differenzia quindi dal comizio curiato basato sulla parentale. Il censimento nasce con questa riforma dell’esercito, molto tempo prima della nascita della figura del Censore, di età repubblicana. Come si misurava la ricchezza? Venivano valutati solo i beni mobili, e non la proprietà della terra (come avverrà invece nei comizi tributi). In particolare, la ricchezza mobiliare era valutata in assi di bronzo, le antiche monete romane. Le classi erano organizzate in quest’ordine: 1) Al primo posto troviamo le 18 centurie dei cavalieri, che avevano un censo superiore a 100.000 assi: il mantenimento del cavallo era a spese dello Stato. Ma vi sono anche 80 centurie di fanti, divise in iuniores (18-47 anni) e seniores: essi hanno un’armatura completa che doveva essere mantenuta a spese dello stesso soldato, il quale comunque tendeva ad investire nella guerra, essendo questa uno strumento di tutela sociale. 2) Nella seconda classe troviamo coloro che hanno almeno 75.000 assi, soldati che avevano quindi una armatura meno completa. Ecco il principio: più assi si hanno, più completa è l’armatura, più alta è la classe in cui si viene collocati. 3) Nella terza classe abbiamo i soggetti che hanno una ricchezza mobiliare di almeno 50.000 assi 4) Nella quarta classe la soglia è di 25.000 assi 5) Nella quinta classe abbiamo 30 centurie di soggetti con almeno 12.500 assi 6) Infine abbiamo 2 centurie di fabbri, che si occupavano di ferrare il cavallo, riparare le armature, costruire strade e ponti per la guerra. Vi erano poi 2 centurie di musici, che davano il ritmo durante la marcia. 7) Nell’ultima centuria sono inseriti tutti coloro che non hanno alcun reddito: i proletari. 25 La caduta della monarchia Come avviene il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica? Non è facile ricostruirlo. L’ultimo sovrano (Tarquinio il Superbo) ci viene descritto da tutte le fonti come un tiranno che non rispettava le norme ed attirava su di sé tutti i poteri, che aveva creato una guardia del corpo personale e si era macchiato dello stupro di Lucrezia. Secondo le fonti vi fu un passaggio brusco e repentino da Monarchia a Repubblica. Tuttavia alcuni ipotizzano che il cambio non fu così veloce: il Re avrebbe perso progressivamente potere, ma non abbiamo indizi in merito; anzi, il potere di Tarquinio il Superbo, come abbiamo appena detto, non era affatto affievolito, ma particolarmente penetrante. La potenza etrusca, nel V secolo, aveva subito una gravissima crisi, avendo perso i possedimenti in Campania, crocevia fondamentale per i traffici con l’Etruria. Dopo questa grave crisi economica, gli etruschi non hanno più il potere di comandare Roma: la cacciata dei Tarquinii si inscrive in questo contesto; così, altre genti etrusche (come Porsenna) cercheranno di impadronirsi di Roma, colmando il vuoto di potere. Sappiamo che la caduta della monarchia e la conseguente nascita della Repubblica avviene nel 509. Ma occorre chiedersi: si afferma subito l’ordinamento secondo cui al vertice vi sono i due consoli? I fasti, gli antichi calendari, ci indicano i consoli già nel 509, quindi alcuni studiosi ritengono attendibile questa ipotesi. Ad ogni modo, i nomi indicati sono plebei, cosa assai improbabile, visto che i plebei arriveranno al consolato solo nel secolo successivo. Di certo sappiamo solo che nel 367 abbiamo i due consoli: nel mezzo, e soprattutto nei primi 50 anni, non possiamo giungere a conclusioni certe perché non abbiamo notizie certe. Altre fonti, diverse dai fasti, ci dicono che nei primi 50 anni della Repubblica non vi erano i consoli, ma una diversa magistratura, quella del praetor maximus. Quindi, in sintesi, abbiamo due ipotesi: 1) I consoli si affermano già nel 509 (ma occorre spiegare perché i fasti danno nomi plebei) 2) Nei primi anni vi era una diversa magistratura guidata da un praetor maximus Una serie di fonti molto attendibili, che si rifanno ai documenti sacerdotali, ci dicono che ogni anno questo praetor maximus infliggeva un chiodo nel tempio della dea Nortia (una divinità di origine etrusca): si trattava di una cerimonia per contare gli anni. Non si parla quindi dei consoli, ma del praetor maximus, considerato il magistrato più elevato. Ma chi era in sostanza questo magistrato? Non dobbiamo pensare al pretore che conosciamo, ma rifarci all’etimologia del termine: pre-ero indicava colui che camminava davanti alla fanteria, quindi era un soggetto di origine militare. Inoltre va sottolineato che il superlativo “maximus” è indicativo di una triade di magistrati a collegialità dispari (se fossero stati due, di cui uno più importante, si sarebbe utilizzato il comparativo “maior”). 26 Capogrossi, guardando all’età regia, ipotizza che la triade fosse la seguente: 1) Magister populi (legemòn ton peton) 2) Magister equitum (legemòn ton ippèon) 3) Praefecuts urbi L’ipotesi di Capogrossi è che il praetor maxiums non sia altro che il magister populi, avendo cambiato nome dopo la caduta della monarchia e la nascita della Repubblica. Prima di arrivare ai due consoli (sicuramente nel 367, ma forse e probabilmente anche prima) ci sarebbe quindi stato questo periodo di transizione in cui spiccava questo collegio di magistrati cum imperium, di cui uno (maximus) in posizione di supremazia. Dobbiamo supporre che la durata della carica del praetor maximus fosse annuale, vista la cerimonia del chiodo. Tuttavia non abbiamo fonti certe, neanche nei fasti; inoltre non sappiamo nemmeno i nomi dei soggetti che hanno ricoperto tale carica. Va segnalato infine che successivamente non sarà più il praetor maximus a dirigere la cerimonia del chiodo nel tempio, ma un Dictator, magistrato straordinario che analizzeremo studiando il periodo repubblicano. 27 Dalle origini della plebe alle XII Tavole. Lo scontro tra patrizi e plebei lo troviamo in età repubblicana, quindi nel V secolo. Ma ci si chiede: è possibile che da un giorno all’altro nasce la plebe? Qual era l’origine della plebe? Abbiamo poche fonti, e sono anche contraddittorie. Sappiamo comunque che lo scontro si chiuderà nel 300 con l’ammissione dei plebei alle cariche sacerdotali, e poi con l’equiparazione della legge ai plebisciti. Secondo Capogrossi, il contrasto tra patrizi e plebei nasce in età repubblicana a causa dell’affermazione della figura del civis, dopo la riforma di Servio. Cambia il rapporto da singolo e res publica, non più in base alle origini ma alle classi di censo: si rompe il rapporto con la gens ed il singolo vale per le proprie capacità. Il ruolo che le gens avevano nei comizi curiati non lo troviamo nei comizi centuriati. Torniamo brevemente all’organizzazione della gens. Vi erano i gentiles (nobili), ma anche dei clientes, soggetti che “gentem non haben”, cioè non organizzati nella forma della gens, costituendo gruppi subalterni di soggetti non schiavi ma comunque privi di proprietà, che non hanno mezzi di sussistenza. I clientes decidono di coltivare la terra dei gentiles, ricevendo una parte del prodotto, fornendo al nobile forza-lavoro ed impegnandosi a seguirlo in guerra. Quando nasce il civis, la gens al suo interno si rompe. I clienti spezzano il legame con la gens e vanno a far parte delle classi inferiori: con la differenza che ora, mediante la guerra, possono arricchirsi e salire di classe. In sintesi, la figura del cittadino, che nasce con la riforma centuriata di Servio, fa sì che i clientes si emancipino. Secondo una certa teoria, quindi, della plebe farebbero parte i vecchi clientes, ed anche tutti coloro che da fuori venivano a Roma, privi di un carattere di nobiltà. I plebei, non essendo organizzati nella forma della gens, avranno parecchie limitazioni: divieto di sposarsi con i patrizi; impossibilità di prendere gli auspicia ed accedere alle magistrature superiori; svantaggi nello sfruttamento dell’ager publicus. In età repubblicana emerge con forza lo scontro tra patrizi e plebei, e dobbiamo cercare di comprendere quali sono i motivi dello scontro. Ma prima di tutto sottolineiamo uno degli epiloghi dello scontro: nel 494 si arriverà ad una secessione che porterà all’istituzione del Tribuno della Plebe (comandante di una parte dell’esercito centuriato). Le richieste dei plebei sono essenzialmente sei: 1) potersi sposare con i patrizi 2) poter far parte del governo 3) poter accedere alla terra chiedendo la privatizzazione dell’ager publicus 4) avere una regolazione normativa dei debiti 5) istituzione di una magistratura plebea: tribuno della plebe 6) avere una legislazione scritta 30 - Chi non pagava veniva adictus, cioè assegnato al creditore, il quale poteva tenerlo coattivamente presso il suo domicilio: come si legge sulle XII tavole, il legislatore romano si preoccupa anche di determinare il peso massimo delle catene e la quantità minima di cibo da garantire. - I nexi non diventano servi o schiavi, restano soggetti liberi; tuttavia sono limitati nella loro libertà, lavorando per il debitore finché non sarà sanato il debito. Il creditore poteva esporre il debitore al mercato vendendo sostanzialmente il credito, oppure poteva venderlo trans tiberim: in questo caso il povero debitore diventava schiavo. Il Tribuno della plebe: - Con la secessione del 494 si riconosce informalmente il Tribuno della Plebe come capo del popolo: in questo primo momento non viene nemmeno inserito nella lista dei magistrati, cosa che avverrà solo dopo la nuova secessione del 449. A causa delle secessioni, la Roma patrizia deve cedere, perché la mancanza di soldati all’interno della città era pericolosa per chi restava. - Questa nascita particolare, in un contesto rivoluzionario, del tribuno della plebe, influisce su quelli che sono i suoi poteri, che sono completamente diversi da quelli degli altri magistrati. Innanzitutto va sottolineato che i tribuni della plebe sono sacrosanti: si tratta di una speciale protezione che gli altri magistrati non hanno; è la condizione secondo cui chi offende il tribuno, o gli impedisce di parlare in pubblico, diventa sacer, e può essere ucciso dagli altri plebei. - Abbiamo quindi un uso della sacertà completamente differente rispetto alle leggi regie, ma è un uso che sottolinea la particolare protezione del tribuno. Ad esempio, un magistrato, prima di prendere provvedimenti contro il tribuno, ci pensava due volte, perché rischiava la sacertà. - Il Tribuno ha anche lo Ius Auxili, ossia il diritto di aiuto nei confronti plebei. Si pensi al magistrato che voglia usare un comportamento coercitivo contro un plebeo: il tribuno poteva fisicamente intervenire interponendosi tra i due; siccome il tribuno era sacrosanto, il magistrato si fermava. Il risvolto della medaglia è che i Tribuni non possono allontanarsi dalla città: probabilmente era una garanzia nei confronti dei plebei, ma altri la vedono come una limitazione che sottolinea il fatto che i plebei non sono protetti fuori dalla città. - Egli ha inoltre il potere di intercessio, cioè il diritto di veto: ha in sostanza il potere di paralizzare la macchina della res publica opponendo il veto contro i magistrati che chiedevano l’approvazione di una legge o contro le decisioni del senato. L’intercessio, ad ogni modo, non aveva alcun valore nei confronti del dictator, che come vedremo è un magistrato straordinario. - Il Tribuno ha poi un potere di multa: può sanzionare i plebei che non rispettano le leggi. Egli ha poi un potere disciplinare molto esteso, addirittura maggiore a quello dei consoli, perché addirittura può mettere a morte chi attenta alla sua persona: questa è una diretta conseguenza del fatto che egli, a differenza degli altri magistrati è sacro-santo. Inoltre poteva decidere di gettare dalla Rupe Tarpeia colui che lo aveva offeso. 31 - Altro potere fondamentale è quello di convocare il Concilium Plebis, l’assemblea della plebe. Lo può convocare senza auspici (anche perché i plebei non possono prendere auspici): questo rende le cose più semplici perché non occorre scegliere un giorno particolare e soprattutto perché non possono intervenire gli Auguri. - Il Tribuno propone alla plebe delle deliberazioni (plebisciti), che hanno valenza solo per i plebei. L’equiparazione dei plebisciti alle leggi avverrà, secondo alcune fonti, nel 449, con la Lex Valerio- Horatia De Plebiscitiis; ad ogni modo, come avremo modo di approfondire meglio più avanti, Capogrossi ritiene che tale legge sia un falso e che la citata equiparazione si avrà nel 287 con la Lex Hortensia De Plebiscitiis. - Fino a quando non ci sarà l’equiparazione (nel 449 o addirittura nel 287) come faceva la plebe ad imporre qualche decisione all’intera comunità? Era necessario che il Tribuno convincesse i consoli a presentare al Comizio Centuriato il testo del plebiscito nella rogatio: così, se il Comizio approvava, la decisione della plebe diventava legge per tutti. Inoltre, il occorre ricordare che il Tribuno aveva il potere di veto, che poteva utilizzare come arma seduttiva del console. Richiesta di una legislazione scritta: Fra le richieste della plebe vi era poi quella di avere una legislazione scritta: conoscere le norme è fondamentale per essere consapevoli dei propri diritti. Inoltre alcune fonti ci dicono che persino i patrizi erano favorevoli ad avere norme scritte. E’ questo il contesto che porta all’approvazione delle XII tavole, sui ci soffermeremo molto nelle prossime pagine. Il Decemvirato: - Le XII tavole vengono affidate ad una magistratura straordinaria composta da 10 magistrati detti decemviri: questa istituzione si affermerà nel biennio 451-449, con due decemvirati, entrambi guidati da Appio Claudio. - Livio ci parla del decemvirato scrivendo: “Per la seconda volta fu cambiata la forma di governo”. Egli vuole sottolineare che dai consoli (o dalla collegialità dispari guidata dal praetor maximus) si passa ad un governo di 10 magistrati. - Si sente l’esigenza di coinvolgere più soggetti nel governo della res publica, sia perché Roma continua ad espandersi, sia perché la macchina amministrativa si è estesa. Secondo le fonti, il decemvirato viene nominato con voto dei comizi, quindi con un trasferimento dei poteri dal popolo a questi 10 individui, con sospensione di tutte le altre magistrature: solo i decemviri hanno quindi pieni poteri per scrivere le leggi. 32 - Il primo decemvirato era composto da magistrati tutti patrizi, che avrebbero dato vita a ben 10 delle XII tavole. Il secondo decemvirato, invece, sarebbe stato composto anche da magistrati plebei, ed avrebbe prodotto le altre due tavole. - Il decemvirato sarà poi rovesciato a causa dello stupro, da parte di Appio Claudio, della figlia di un plebeo: si noti l’affinità con la cacciata dei Tarquini. La ragazza, Virginia, si uccide, il decemvirato viene rovesciato, e si torna all’ordinamento precedente: due consoli oppure tre magistrati guidati dal praetor maximus. Coordinate generali sulle XII tavole: - Le tavole vengono esposte nel Foro: ciò è indicativo del fatto che probabilmente vi era già un certo grado di alfabetizzazione ed i cittadini erano in grado di leggerle. E’ un passo in avanti notevole perché soprattutto nel diritto privato era fondamentale pronunciare esattamente le parole richieste per dare validità ad un atto. - Purtroppo delle XII tavole non ci è giunto niente in via diretta: sappiamo che erano in legno o in bronzo, e che Cicerone le vedeva ancora nel Foro. Ma ovviamente non sappiamo con certezza il contenuto delle norme. Le fonti, soprattutto letterarie, ci riferiscono il contenuto di alcune Tabulae, ma non è comunque possibile ricostruire l’ordine delle norme all’interno della tavole: è il problema della palingenesi, visto che addirittura alcune fonti non ci dicono nemmeno in che tavola si trova il frammento. - Livio ci dice che le XII tavole erano la fonte di tutto il diritto pubblico e privato. Si tratta di un’affermazione certamente esagerata, come dimostra il fatto che le norme citato istituti (come la potestas) senza definirli. Le XII tavole, quindi, normano aspetti specifici senza definire a monte, e pertanto non è possibile ritenere che siano l’unica fonte, ma che al contrario si mettevano per iscritto solo gli elementi di novità. - Inoltre dobbiamo considerare che abbiamo soltanto due norme di diritto pubblico, precisamente nella IX tavola. Sappiamo infatti che il diritto pubblico si è evoluto con le leggi comiziali, e le XII tavole non possono essere considerate unica fonte. - Le XII tavole sono quindi un insieme di norme, ma non un codice. Non tutte le materie, infatti, sono prese in considerazione: il termine codex emerge successivamente (si pensi al Codex Ermogeniano, Gregoriano o a quello giustinianeo). In ogni caso le XII tavole rappresentano un elemento di conoscibilità del diritto davvero fondamentale. - Secondo alcuni studiosi le XII tavole avrebbero una ispirazione greca, risentirebbero cioè di influssi greci. In realtà, a parte la legislazione suntuaria (conto il lusso) che richiama le leggi di Solone, non si rinvengono affinità con il mondo greco. 35 5. Vi era però nel frattempo il diritto di trovare un accordo; se esso non si trovava, i debitori restavano prigionieri per 60 giorni. Durante questi giorni veniva condotto per tre giorni di mercato consecutivi avanti al pretore e veniva annunziato l’ammontare della somma che era stato condannato a pagare. Nel terzo giorno di mercato veniva giustiziato oppure mandato al di là del Tevere per essere venduto. 6. Nel terzo giorno di mercato sia tagliato in parti, tanti quanti sono i crediti. Se i creditori ne taglieranno di più o di meno, non andrà a loro alcun pregiudizio. 7. Nei confronti dello straniero, la validità del possesso è eterna. Nella terza tavola è ancora fondamentale l’aspetto processuale, perché ci dice già alla prima norma quali sono le conseguenze del riconoscimento del debito (confessio in iure) o comunque di una condanna a pagare. Quindi cosa succede se non si adempie? L’attore deve catturare il debitore, portandolo davanti al pretore: va sottolineato che il termine “in ius” non indica solo il giudizio processuale ma il luogo fisico del giudizio. Il Pretore chiedeva al condannato: adempi o no? Hai qualcuno che garantisca per te? Se il soggetto non adempie, e nessuno dà garanzie, il magistrato dà via all’adictio: consente al creditore di portare presso la propria domus il debitore insolvente e di legarlo con catene di peso non superiore a 15 libbre; se il creditore vuole essere magnanimo, può utilizzare catene leggere. Se il debitore non ha di che mangiare, il creditore deve dargli una libbra di farro al giorno, minimo indispensabile per sopravvivere; se il creditore è magnanimo, può dargliene di più I debitori insolventi sono detti nexi. Non sono schiavi, sono uomini liberi sotto un profilo giuridico, ma fisicamente limitati nella libertà fisica di muoversi: con il loro lavoro a favore del creditore possono saldare il credito. Vi sono comunque dei casi eccezionali in cui i magistrati dispongono che i nexi siano liberati per la guerra, ad esempio in caso di attacco alla città. Vi è comunque un termine di 60 giorni per trovare un accordo tra creditore e debitore insolvente, ad esempio trovando un garante che possa pagare al posto del debitore. Scaduto questo termine, il creditore portava il debitore al mercato per tre giorni, chiedendo la somma per la quale il nexo era stato condannato: eventualmente qualcuno poteva pagare la somma per poi rivalersi sul debitore, magari sfruttandone le prestazioni lavorative se aveva particolari capacità. Se nessuno era disposto a pagare la somma, al creditore restavano due alternative: 1) uccidere il nexo senza incorrere nel parricidium 2) vendere il nexo al di là del Tevere, dove sarebbe divenuto schiavo Ma cosa accade se ci sono più creditori? Il corpo del debitore veniva fatto a pezzi in relazione all’entità dei debiti. Ad ogni modo, se le parti non venivano tagliate in conformità al credito, ciò non era considerato un comportamento illecito: una sorte tremenda con una funzione deterrente. 36 L’ultima norma sottolinea che lo straniero non potrà mai usucapire la res: il possesso, nei suoi confronti, la validità del possesso è eterna. Il cittadino, invece, può usucapire un bene mobile in un anno, ed un bene immobile in 2 anni. TAVOLA IV 1. Subito ucciso, come secondo le XII tavole avviene per un bambino particolarmente deforme. 2. Se il padre ha venduto per tre volte il figlio, questo sia libero dalla patria potestas. 3. Egli ordinò alla sua donna, secondo le XII tavole, di riprendersi le sue cose; le tolse le chiavi e la cacciò di casa. 4. Seppi che una donna aveva partorito un figlio nell’undicesimo mese dalla morte del marito e che questo fosse la causa di ritenere come se avesse concepito dopo la morte del marito; infatti, i decemviri nelle loro leggi hanno scritto che un uomo viene generato in dieci mesi e non nell’undicesimo. Vi sono dei casi in cui è ammessa l’uccisione senza chiedere riscontro ai vicini. Ad esempio, se vi è un bambino (puer, fino a 9 anni) particolarmente deforme, può essere subito ucciso: la deformità era un segno non positivo che la divinità voleva inviare. Altra norma interessante è la seconda: se il padre vende il figlio per tre volte, il figlio sarà libero, esce dalla patria potestas e diventa sui iuris. Innanzitutto va ricordato, come osserva Capogrossi, che tale norma smentisce l’affermazione di Livio secondo cui le XII tavole sarebbero la fonte di tutto il diritto: non vi è una definizione della potestas. La norma limita il potere del pater di vendere (temporaneamente) i figli. Questi, al pari degli schiavi, erano per il pater una fonte di profitto economico, anche se ovviamente la condizione giuridica dei figli era notevolmente migliore. Spesso il padre vendeva temporaneamente il figlio, che veniva usato “in mancipio” come manodopera: non era una vendita definitiva, ma della durata di uno o due anni; terminato tale periodo, il figlio tornava nella potestas del pater, che poteva rivenderlo ancora. Tale comportamento viene visto negativamente, e pertanto si decide di introdurre un limite: dopo la terza vendita, il figlio è libero. Si tenga presente, tuttavia, che tale limite poteva essere utilizzato per uno scopo diverso: liberare il figlio prima della morte del pater; è una strategia molto diffusa nell’antica Roma, quella di utilizzare un divieto per ottenere uno scopo differente. Ma guardiamo il contesto. La norma probabilmente fu pensata per rendere “sui iuris” soggetti importanti come i magistrati che tuttavia, essendo il padre ancora in vita, risultavano essere ancora sottomessi. Ecco che allora il pater poteva mettersi d’accordo con un amico, vendendo (fittiziamente) il figlio per tre volte, garantendogli la libertà. 37 Infine, un’altra norma ricorda che il marito poteva in qualsiasi momento ripudiare la moglie, senza che vi fosse un motivo. Inoltre, si discute della successione del figlio nato l’undicesimo mese dopo la morte del marito: in tal caso, non farà parte dell’eredità, perché il termine ultimo per il parto è stabilito in 10 mesi. TABULA V 1. Gli antichi vollero che le donne, anche se di età matura, fossero soggette a tutela, eccetto le vergini vestali, che vollero che fossero libere: e ciò è stabilito anche nelle XII tavole. 4. Se chi non ha un erede muore senza testamento, abbia tutta l’eredità l’agnato prossimo. 5. Se manca anche l’agnato, abbiano l’eredità quelli che appartengono alla gens. Innanzitutto si fa una distinzione tra donne e vestali: le donne sono soggette a tutela, le vestali no. In sostanza si ribadisce una norma dell’età regia, confermando la netta distinzione tra la condizione giuridica delle donne (sotto tutela) e le vestali (sui iuris). Si dispone poi che se il de cuius non ha un erede, l’eredità deve passare all’agnato prossimo o, in mancanza di questo, alla gens: i beni non vanno mai alla res publica, e si conferma qui il ruolo fondamentale delle gentes. Si vuole mantenere i beni all’interno della famiglia e della gens. TABULA VI 3. L’efficacia dell’usucapione richiede per un terreno due anni; per tutte le restanti cose un anno. 5. In una legge delle XII tavole è stabilito che una donna la quale non voleva venire in manus del marito, doveva allontanarsi ogni anno per tre notti dalla casa, e così interrompere ogni anno l’usucapione. La sesta tavola riguarda soprattutto l’ambito delle obbligazioni. E’ importante la norma che indica i tempi per usucapire beni mobili (1 anno) ed i beni immobili (2 anni). Il potere dell’uomo nei confronti della donna non è detto potestas; si utilizza l’espressione “in manu”. Anche la donna viene considerato un bene da usucapire: decorso un anno essa entrava a far parte della proprietà della famiglia del marito; per evitare ciò, ogni anno doveva allontanarsi per tre giorni, interrompendo il decorrere del tempo. 40 La tavola ottava riguarda il diritto criminale, e pertanto è di particolare interesse per il nostro corso. Vi sono moltissime disposizioni, e non mancano aspetti controversi che necessitano alcune chiarificazioni. Essa mette insieme crimina e delicta, che in epoca successiva saranno separati, a seconda che il fatto metta in pericolo o meno la pax deorum. Partiamo dal Malum Carmen, punto 1. La Tassi non è d’accordo con la traduzione di “canto infamante”. Il riferimento all’infamia sembra richiamare l’ambito dell’ingiuria, un delitto che richiedeva l’attivazione del privato e soprattutto che emerge in epoca successiva: qui, invece, non siamo di fronte ad un delitto ma ad un crimine; e soprattutto, le ingiurie non sono punite con la pena di morte, ma con una pena pecuniaria. La Tassi ritiene quindi che il crimine vada inserito nell’ambito delle pratiche magiche, tipiche di un periodo antico, arcaico, in cui è particolarmente sentito il legame tra diritto e religione: la traduzione dovrebbe essere dunque “chi avrà fatto maledizioni”. Nell’antica Roma vi erano infatti una serie di rituali in cui si dedicava il maledetto ad una divinità infera: abbiamo quindi un singolo che maledice un altro singolo (e non una “maledizione” collettiva come nel caso della sacertà). Sono state infatti trovate delle tavolette di bronzo con su scritte delle maledizioni: le cosiddette tavole di defictiones. La norma in esame, in definitiva, rientra nel divieto di praticare arti magiche. Importante è poi la distinzione tra: a) Membro ruptum: si tratta di una rottura che non può essere riparata, una lesione inguaribile come la rottura di un tendine; insomma, un danno permanente che comportava l’applicazione della legge del taglione, ma solo dopo aver tentato di trovare un accordo economico. b) Osso fractum: è la lesione che può guarire perché si salda da sola; non è così grave da ammettere il taglione, e pertanto si stabilisce la pena del pagamento di una somma di 300 assi per un uomo libero e di 150 assi per uno schiavo. La norma numero 10 fa riferimento a chi ha appiccato l’incendio della casa o dei cereali ammucchiati presso la casa, distinguendo tra condotta volontaria e condotta negligente: - In caso di incendio doloso, il colpevole (se pubere) viene bruciato vivo: alcuni studiosi ritengono vi sia una sorta di contrappasso; ad ogni modo il fatto viene considerato particolarmente grave perché ha impedito l’offerta a Cerere, dea dei raccolti. Quindi la volontarietà comporta la inespiabilità del crimen. - In caso di incendio colposo è sufficiente risarcire il danno. Inoltre, se il colpevole è impubere, anche in caso di condotta volontaria era sufficiente risarcire il danno. 41 Alcuni brevi cenni sulle altre norme della tavola ottava: Punto 12. Vi è una causa di giustificazione per l’uccisione del ladro in caso di furto avvenuto di notte: il derubato-assassino non incorre nel parricidium. Punto 13. Se il furto avviene di giorno, la reazione del derubato è ammessa solo se il ladro è armato e solo se prima abbia (la vittima) gridato. Punto 17. Si vieta di usucapire le cose rubate. E’ una norma che mira a disincentivare il furto, visto che in molti erano spinti a rubare con la speranza di usucapire la res furtiva. Punto 21. E’ una disposizione interessante perché parla del rapporto tra i clienti ed il patrono, con un nuovo riferimento alla sacertà: se il patrono inganna il suo cliente, esso viene consacrato alla divinità. Ciò ci dice che il dovere di fides gravava solo sul patrono nei confronti del cliente, mentre in età regia era reciproco. Alcuni studiosi leggono tale norma come riferita a patrizi e plebei, ma non abbiamo certezza. Punto 23. Delitto di falsa testimonianza. La prova testimoniale è la prova per eccellenza, pertanto dire il falso in giudizio è considerato molto grave: è un crimen inespiabile, tanto che il colpevole viene gettato dalla rupe Tarpeia (deiectio). Non vi sono elementi sacrali, non si tratta di sacertà, non vi è consacrazione: la rupe è il simbolo del tradimento, richiamando il tradimento di Tarpea che aprì le porte di Roma ai Sabini. Punto 24 a). Si conferma la pena tradizionale, già presente in età regia, per l’omicidio colposo. Punto 24 b). Si equipara il furto dei frutti nel campo del vicino all’omicidio, ma non si specifica in cosa consiste la pena: possiamo fare solo ipotesi ma non abbiamo indicazioni precise. Punto 25. La norma stabilisce che quando si utilizza il termine “veleno” occorre specificare se si vuole indicare in senso positivo (medicina) o negativo (ad esempio alcune bevande erano utilizzate per pratiche abortive). Punto 26. E’ una norma di diritto pubblico che si preoccupa dell’ordine pubblico: si vogliono evitare le riunioni notturne perché possono essere segno di congiura. Punto 27. Alcuni ritengono che non sia una norma contenuta nelle XII tavole ma che risalga alle leggi di Solone: la Tassi non è d’accordo perché non vi è alcun riscontro. Si afferma, in sintesi, che le associazioni sono valide purché siano riconosciute e non in contrasto con le norme della civitas. 42 TABULA IX 1. Non si devono stabilire privilegi, non si devono decidere misure che riguardano lo stato del cittadino se non mediante le massime assemblee del popolo. Sono state tramandate due eccellenti leggi delle XII tavole di cui una elimina i privilegi, l’altra vieta di decidere in merito allo status del cittadino se non nella massima assemblea [Comitiatium Maximus]. 2. Se si vuole introdurre un nuovo crimine punito con la pena di morte, questo deve essere presentato mediante rogatio ed approvato dalla massima assemblea. 3. Trovi tu che fosse una legge dura quella per cui il giudice o l’arbitro assegnato dal Pretore, riconosciuto colpevole di aver ricevuto denaro per la questione da giudicare, venisse punito con la pena di morte? 4. I questori che sovraintendevano alle questioni punite con la pena capitale erano chiamati questori parricidi, e di loro fanno menzione anche le XII tavole. 5. La legge delle XII tavole ordina che colui che ha istigato i nemici o che ha consegnato un cittadino ai nemici sia punito con la pena di morte. 6. Anche le disposizioni delle XII tavole vietarono di uccidere chiunque prima che fosse condannato. La tavola IX è particolarmente rilevante per il nostro corso poiché riguarda norme di diritto pubblico: è l’unica che contiene norme di questo tipo, a conferma del carattere esagerato dell’affermazione di Livio. Partiamo dalla prima norma, certamente la più problematica: - Innanzitutto la Tassi non è d’accordo con la traduzione, e ne propone una alternativa: “non si devono irrogare leggi ad personam”. In effetti il termine privilegium è un termine tecnico che deriva da privus (singolo) e lex (legge): pertanto il riferimento è ad una legge fatta per il singolo, sia a favore sia contro; di conseguenza la traduzione in “privilegio” altera il senso della norma, perché tale termine oggi ha un significato solo positivo. - Perché si parla già di leggi ad personam, visto che non abbiamo esempi di leggi rogate contro singoli cittadini? Il periodo in cui assisteremo a leggi personali sarà quello delle guerre civili, a partire dai Gracchi. Ciò ha fatto ritenere a molti che in realtà tale norma non esistesse. - La fonte che ci riferisce questa norma è Cicerone, “De legibus”. Si tratta di un trattato non sulla effettiva costituzione romana, ma su quella che Cicerone avrebbe voluto: appare quindi verosimile, per molti studiosi, che fosse stato Cicerone ad inserire la norma nelle XII tavole, e che quindi in realtà non esistesse. 45 TAVOLE XI e XII Le ultime due tavole sarebbero state aggiunte dal secondo decemvirato: queste tavole, in particolare, sono dette inique. Non vi sono norme particolarmente rilevanti per il nostro corso, a parte la numero 5 della Tavola XII. Tavola XII punto 5. Nelle XII tavole è stabilito che qualunque cosa il popolo avrà sanzionato (sancito) per ultimo, sia considerato come diritto approvato. Si tratta di una norma discussa perché dovrebbe trovarsi nella tavola IX, contenente le norme di diritto pubblico; inoltre è difficile ritenere che una norma di questo tipo sia definita iniqua, ingiusta. CONCLUSIONE SULLE XII TAVOLE Per la prima volta, con le XII tavole, il popolo ha una serie di norme scritte: esse erano esposte nel foro, luogo in cui tutti entravano per svolgere l’attività di commercio. Poter leggere le norme era fondamentale: se ho un testo scritto, esso è conoscibile. Inoltre si pongono le basi perché vi sia un’interpretazione non solo nel chiuso del collegio sacerdotale: vi sono insomma le premesse per lo sviluppo di una giurisprudenza laica. I magistrati della Roma repubblicana: Per quanto concerne l’origine dei magistrati, ed in particolar modo dei consoli, si fronteggiano due tesi: secondo una prima tesi, essi compaiono già nel 509; altri ritengono invece che siano apparsi successivamente, e che soprattutto il primo cinquantennio di Repubblica sia dominato dalla figura del praetor maximus, di cui abbiamo già parlato. Nelle prossime pagine analizzeremo le varie magistrature che appaiono nell’era repubblicana, ed in particolare i dittatori, i censori ed i consoli. 46 Il dittatore Le fonti ci dicono che il termine “dictator” indica quello che un tempo era il magister populi, l’ausiliario del Rex che comandava la fanteria. Va detto innanzitutto che si tratta di un magistrato non eletto: egli era infatti nominato da uno dei due consoli, previo consenso del Senato; particolare interessante è che la nomina avveniva di notte dopo aver preso gli auspici, a differenza del console che era eletto di giorno (sempre dopo auspici favorevoli). Il dittatore è noto come “optimo iure creato”, cioè nominato secondo diritto. Egli ha un potere che, in sostanza, assomma in sé quello di entrambi i consoli: si tratta infatti di un potere straordinario, un imperium sommo (o maximus) che si manifesta nel possesso di 24 fasci di verghe con le scuri (il doppio dei consoli che ne avevano 12); inoltre i fasci possono essere tenuti all’interno della città, col potere di condannare a morte senza diritto di provocatio persino i cittadini romani, poteri che i consoli invece non avevano. Nei confronti del dictator non trovano applicazione quelle garanzie fondamentali del cittadino come la provocatio e lo ius auxili: ecco perché il dittatore può tenere i fasci in città; si tratta quindi di un potere smisurato che prescinde da ogni tipo di garanzia. Poiché il suo potere è pressoché illimitato, la durata della carica è molto breve (6 mesi): se entro tale termine non conclude il compito per il quale è stato nominato – egli infatti è nominato in situazioni particolari – deve dimettersi. In sintesi si tratta di un potere così illimitato da richiedere una limitazione temporale. Il dictator ha il potere di scegliere il magister equitum, in posizione di subordinazione. Vi sarebbe quindi una collegialità dispari che, secondo alcuni, si sarebbe trasformata nel tempo in quella collegialità pari tipica dei consoli; in sostanza, i sostenitori di questa tesi, ritengono che all’inizio i consoli non ci fossero, ma vi fossero il dictator ed il magister equitum. Secondo una Tassi non è una tesi molto attendibile: è più autorevole la teoria secondo cui vi era il praetor maximus. La tesi dominante ritiene che i consoli vi fossero, tanto che era proprio un momento di discordia tra gli stessi a determinare la necessità di nominare questo magistrato straordinario. Ad esempio: vi è una guerra, i consoli non si mettono d’accordo sulla scelta da adottare, quindi occorre un soggetto (dittatore) che garantisca un comando unitario; oppure quando vi sono delle sedizioni interne alla città ed occorrono pieni poteri per reprimere le rivolte, e ciò spiegherebbe perché alcune fonti indicano il dittatore come “adversum plebem”. Vi erano comunque alcuni dittatori detti “in minuto iure”, cioè con minore potere: si pensi, ad esempio, al dittatore nominato per conficcare il chiodo nel tempio della dea Nortia; oppure al dittatore creato con il solo scopo di convocare i comizi. Questi particolari dittatori, ovviamente, non hanno il potere di mettere a morte. Le cose cambieranno a partire dal 300, quando il dittatore sarà eletto dal comizio. La carica progressivamente inizia a scomparire, ed il termine “dittatore” riemergerà anni dopo con un significato del tutto diverso, con Silla e Giulio Cesare. 47 Il censore Il censore è il magistrato che, in età repubblicana, si occupa principalmente di fare il censimento, fondamentale per aggiornale la lista degli elettori e delle assemblee. Noi sappiamo che, in ogni caso, l’istituto del censimento nasce già prima della figura del censore: con la riforma centuriata di Servio abbiamo la creazione di un comizio su base censitaria. La particolarità è che i due censori (collegialità pari) sono eletti ogni 5 anni, e restano in carica per 18 mesi, mentre le magistrature ordinarie hanno il carattere dell’annualità dell’elezione e della carica. L’elezione coincide con il momento del censimento, che infatti avveniva ogni 5 anni: la cerimonia che chiudeva il censimento era detta “lustrum”. Essi restavano in carica un anno e mezzo perché fare il censimento richiedeva molto tempo; una volta compiuto il censimento, anche prima della scadenza, potevano abdicare. I censori sono gli unici magistrati superiori privi di imperium: perché? Alcuni hanno sostenuto che in realtà l’imperium vi fosse, ma non vi è nessuna fonte che ce lo conferma: il ragionamento dei sostenitori di questa tesi è che se i censori vengono eletti ogni 5 anni dal comizio centuriato, e se è vero che era sempre il Comizio a conferire il potere alle altre magistrature cum imperio, allora dovremmo dedurre che anche il censore lo avesse. Ad ogni modo, come abbiamo detto, non vi sono conferme in tal senso. Secondo la Tassi, i censori non hanno l’imperium ma una potestà (censoria potestas); alcuni studiosi vedono la ragione della mancanza dell’imperium nel fatto che tale potere non fosse necessario per le incombenze del censore, ma anche questa potrebbe essere una forzatura. In realtà il motivo non lo sappiamo. Poteri del censore: 1) censimento 2) lectio senatus 3) cura morum 4) gestione degli appalti pubblici 5) regolazione affitti dell’ager campanus Censimento: - Il censimento era l’occupazione principale dei censori, i quali decidevano i giorni (anche mesi) in cui procedere. Tutti i pater familias dovevano presentarsi con la propria famiglia e dichiarare tutti i componenti della famiglia, gli schiavi, gli animali da soma, le ricchezze, gli agri di terra. - Alcune fonti ci dicono che chi dichiarava il falso ai censori era sottoposto alla pena capitale; altri autori, invece, ci riferiscono di una mera pena pecuniaria. I censori erano comunque coadiuvati da una serie di ausiliari che annotavano sulle tabule censorie i dati riferiti dalla dichiarazione (professio) del pater. 50 Origini del consolato Le origini della magistratura dei consoli sono discusse. Di certo nel 449 troviamo una coppia di consoli, Valerio ed Orazio, che emaneranno tre importanti leggi. Ma i consoli c’erano già nel 509? Di questo problema abbiamo già fatto cenno: alcuni fasti ci indicano i nomi dei consoli già nel 509, ma non sono ritenuti attendibili perché troviamo dei nomi plebei. Anzi, l’unica data che pone un punto di certezza è il 367, come vedremo tra poco. Dopo il 449 i fasti ci riferiscono la presenza, invece dei consoli, di magistrati detti Tribuni militum consulari potestate: si tratta di comandanti dell’esercito che avrebbero avuto un potere pari a quello dei consoli; a volte sono 3, altre volte 4, arriveranno poi a 6. Verso la fine del IV secolo, e fino al 367, troviamo molti più tribuni che consoli. Ma chi sono questi tribuni? E perché in alcuni anni abbiamo i consoli ed in altri i tribuni? Si è pensato che dopo il tentativo fallito del decemvirato si voleva comunque allargare la magistratura di vertice creando delle magistrature superiori che si dividessero i compiti di consoli e censori; ma si tratta di un’ipotesi senza riscontri, e conferma che i primi anni della Repubblica sono oscuri. Alcuni ritengono che vi sarebbe stata una fase di transizione con i tribuni prima di arrivare ai consoli: in sintesi i tribuni sarebbero precedenti alle magistrature. Questa tesi, secondo la Tassi e Capogrossi, non è attendibile, perché i tribuni sono citati anche nel 444, anno in cui di certo vi erano già i censori; inoltre, i tribuni non avevano il diritto di trionfo, tipico dei consoli. Il consolato diventa la magistratura di vertice solo nel 367. I consoli probabilmente vi erano anche prima, ma il 367 è una data fondamentale perché si stabilisce per legge che uno dei due consoli PUO’ essere plebei (dopo vari anni si arriverà alla formulazione secondo cui deve essere plebeo). In pratica dal 367 in poi tutti i fasti coincidono, permettendoci di sapere con certezza quali consoli vi erano nei singoli anni. Caratteristiche generali del consolato: - E’ una magistratura a collegialità pari, di certo dopo il 367 ma probabilmente anche in precedenza. - Uno dei caratteri principali della carica è l’eponimia, cioè il diritto di dare il nome all’anno: gli anni vengono cioè ricordati con i nomi dei consoli, che infatti restavano in carica un anno. - Almeno dopo il 367 è la magistratura ordinaria di vertice, seconda sola alla dittatura che però è appunto una magistratura straordinaria. 51 I consoli I consoli sono due, con pari poteri: abbiamo quindi una collegialità pari, perfetta. Hanno sia la potestas (potere civile) sia l’imperium, quindi anche il potere di prendere gli auspici. Poiché, come abbiamo detto, hanno gli stessi poteri, è necessario evitare che vi siano dissidi tra i consoli: se essi non sono concordi, lo Stato si immobilizza, e ciascun console ha il potere di intercessio (veto) nei confronti del collega (ed anche di tutti gli altri magistrati minori come pretori, questori, edili). I contrasti tra i consoli erano molto frequenti, anche perché erano espressione di fazioni diverse. Si escogitano quindi dei modi per evitare che questo contrasto possa paralizzare la Repubblica: si ricorre, innanzitutto, al sistema del turno, secondo il quale un giorno il potere era esercitato da un console, mentre il giorno successivo dall’altro; in alternativa vi era un riparto delle competenze, ciascuno in una delle due Province: uno si occupava della città (domi) e l’altro della militiae, cioè del territorio di guerra. Quando nessuno dei citati sistemi funziona, si ricorre alla nomina di un dittatore, magistrato straordinario la cui presenza diventa fondamentale per superare le fasi di stallo; in particolare il dittatore erano nominato da uno dei due consoli. Ma qui sorge un problema: quando viene nominato il dittatore, i consoli che decadono? Secondo un certo orientamento, con la nomina del giudice, tutte le magistrature, inclusa il consolato, automaticamente, decadono. Per altri, invece, i magistrati restavano in carica, anche perché in ogni caso il dittatore era sovraordinato ed eventualmente i magistrati, senza essere sollevati dall’incarico, avevano solo il dovere di adeguarsi alla volontà del dittatore: secondo la Tassi è quindi più attendibile l’ipotesi della subordinazione. La definizione del potere dei consoli è particolarmente difficile. Sarebbe forse più semplice, in effetti, definirlo in negativo, in base ad i limiti. In ogni caso possiamo dire che avevano: 1) potere legislativo: presentavano le rogationes dinanzi ai comizi centuriati ed ai comizi tributi, per ottenere l’approvazione; e poi chiedevano l’auctoritas al Senato. 2) potere esecutivo: governavano la Repubblica con il consenso del Senato 3) potere giudiziario nell’ambito del diritto criminale: del diritto civile si occupava il pretore 4) tutte quelle competenze dai censori nel momento in cui questi cessano dalla carica (escluso il potere di emanare la nota censoria): parliamo soprattutto degli affitti e delle infrastrutture 5) potere di polizia: potere di coercizione; egli poteva infatti incatenare un cittadino (porlo in vinculis); poteva infliggere la fustigazione con verghe portate dai littori, e se il soggetto moriva in seguito alle ferite non era considerata come una esecuzione, in contrasto con il divieto – che vedremo tra poco – di condannare a morte senza che si sia espresso il comizio. 52 Limiti al potere del console: - non può mettere a morte il cittadino prima che si sia espresso il tribunale del popolo - non può violare la sacrosantitas del tribuno della plebe Il console non ha il potere di mettere a morte in città, cosa che invece poteva fare il tribuno della plebe. In ogni caso i consoli governano la città, ed hanno lo ius agendi cum populum et cum patrum: cioè il diritto di convocare il popolo nei comizi ed il Senato. Ecco un punto fondamentale da fissare: le assemblee non possono convocarsi da sole, e quindi mentre in età monarchica ci pensava il Rex, in età repubblicana tale compito spetta ai consoli. Prima di convocare l’assemblea occorreva prendere gli auspici, che – ricordiamo – hanno valore solo per il giorno in cui vengono chiesti; se il giorno è nefasto, è possibile ritentare il giorno dopo. Il fatto di convocare l’assemblea senza prendere gli auspici era considerato un vizio tale da costringere il console ad abdicare. In questo campo entra in gioco l’ingerenza dei Auguri, di cui abbiamo già detto, che, oltre a verificare che fossero stati presi gli auspici, potevano sindacare la validità degli stessi: “il console non ha interpretato bene i segni, oggi l’assemblea non può avere luogo”; ciò comportava una forte limitazione. Gli Auguri, spesso, utilizzavano questo potere per costringere un console ad abdicare, strumentalizzando il potere loro riservato. Quanto alle leggi dei consoli occorre ricordare: 1) Leggi Valerie-Orazie (449): sono riferite a due consoli, uno della famiglia dei Valeri ed uno della famiglia degli Orazi; sono riforme molto importanti. 1.1) Lex de Tribunicia Potestate 1.2) Lex De Provocatione 1.3) Lex De Plebiscitis 2) Leggi Licinie-Sestie: sono riferite ad un console della famiglia dei Licini ed uno dei Sesti. 2.1) Lex De Consule Plebeio 2.2) Lex De Modo Agrorum 2.3) Legge sull’anatocismo 55 - La Legge di Tiberio Gracco del 133 è invece una Lex Agraria, che non solo stabiliva un limite, ma regolava cosa si dovesse fare delle terre che rimanevano, una volta limitati i possessi: assegnazione dei lotti in proprietà privata! - Ecco che allora le due leggi non sono in contrasto. La riforma De Modo Agrorum è attendibile perché pone un limite che poi la legge di Gracco integrerà prevedendo la privatizzazione degli iugeri restanti. Terza legge Licinia Sestia (367): - E’ la legge sui debiti. Non abolisce l’istituto del nexum, ma cerca di porre un limite al fatto che i debiti crescevano sempre più perché non venivano saldate in tempo, facendo maturare il credito. La legge impedisce il fenomeno dell’anatocismo (de re alieno): si stabilisce che se il creditore pagava solo una parte, questa andava imputata al capitale e non all’interesse; ciò perché vi era la prassi, da parte del creditore, di imputare solo una parte della somma versata al capitale, imputando l’altra all’interesse, sempre crescente, estendendo quindi l’ammontare. - E’ una legge che viene incontro alla plebe, per ridurre l’esposizione debitoria. Tale riforma è indicativa del carattere eterogeneo della plebe: da una parte vi è la plebe si batte per trasformare l’ager publicus (ha mezzi e capitali), dall’altro abbiamo un ceto meno forte che deve combattere con la piaga dei debiti. Quindi questa legge cerca di alleggerire la posizione del debitore, che diventava nexus, limitato nella libertà personale. - Circa 20 anni dopo si eliminerà proprio l’istituto del nexus, ed il debito non comporterà mai l’essere incatenato presso il creditore; poi ci sarà un altro intervento che porrà un limite del 12 % annuo agli interessi, in caso di prestito di denaro. 56 Il Pretore Il Pretore – che inizialmente è un magistrato solo patrizio – ha il compito di amministrare la giustizia civile (quindi non quella criminale). Anche se il termine è lo stesso del praetor maximus, non sembra esserci alcuna relazione diretta tra le due figure. Nei primi anni abbiamo una sola tipologia di pretore, ma con il passare del tempo, come vedremo, occorrerà distinguere tra il prator urbanus ed il praetor peregrinus. E’ un magistrato cum imperio – come dimostra il fatto che gli sono concessi 6 fasci lettori - collega minor dei consoli che hanno diritto di intercessio nei suoi confronti. Il Pretore, come accennato, ha il compito principale di esercitare la giustizia tra i privati, ma in alcuni casi eccezionali può sostituire il console e guidare l’esercito in guerra. Egli, inoltre, ha lo ius agendi, e pertanto può convocare il senato ed il popolo, anche se occorre tener presente tutte le leggi che noi conosciamo sono state rogate dai consoli. Grazie al Pretore l’antico ius civile si adatta alle esigenze della nuova civitas. In che modo? Mediante l’efficace strumento dell’editto: tutti i magistrati hanno lo ius edicendi, ossia il potere di emanare ordinanze. Ogni anno, al momento dell’entrata in carica, il Pretore emanava un editto in cui comunicava come avrebbe amministrato la giustizia: ad esempio abbiamo testimonianze di editti in cui il magistrato indica quando avrebbe concesso l’azione e quando no; in sintesi nell’editto si spiegava ai cittadini come e quando potevano agire in giudizio. Potevano tuttavia verificarsi situazioni nuove che il pretore non aveva previsto al momento dell’emanazione dell’editto. Ecco che, se riteneva tale situazione meritevole di tutela, il Pretore emanava un’azione decretale causa cognita. Quindi, se da una parte abbiamo le azioni edittali, cioè specificatamente previste dall’editto, dall’altra abbiamo queste azioni decretali che vengono concesse dal Pretore solo dopo aver studiato il caso (causa cognita) ed aver ritenuto che si era di fronte ad una richiesta meritevole di tutela. L’anno successivo il nuovo pretore poteva inserire quell’azione decretale nell’editto, così da trasformarla in azione edittale, permettendo quindi un’evoluzione del diritto, che cresce e si struttura, adattandosi alle nuove situazioni. Questo fondamentale ruolo del Pretore permane fino a quando l’imperatore Adriano non codificherà l’editto: di conseguenza il magistrato non avrà più il potere di innovare, ma sarà obbligato a conformarsi all’editto codificato; va segnalato tuttavia che, secondo alcune fonti, il Pretore avrebbe mantenuto la sua capacità innovativa anche dopo Adriano, previo parere del princeps. L’aspetto interessante è che non si utilizza la legge come elemento per adattare il caso concreto, ma ci si basa sull’editto del pretore e sull’interpretazione. La legge, infatti, nella Roma antica interviene poco nel diritto privato e molto nel diritto pubblico: ciò si spiega perché il diritto privato ha una origine pre-civica, sono istituti legati ai mores, e quindi l’interpretazione diviene fondamentale. 57 La legge interviene in ambito privatistico solo quando il pretore o la giurisprudenza non hanno la forza di imporsi. Si pensi al caso delle servitù prediali che avevano un regime differenziato a seconda che si trattasse di servitù rustiche (es: diritto di passaggio), considerate res corporales, e servitù urbane (es: diritto di far scolare l’acqua dalla grondaia), qualificate come res incorporales. La distinzione che incide sulla possibilità di usucapire la servitù: le servitù rustiche non erano concepite come diritti su cosa altrui, ma come una sorta di comproprietà dell’oggetto della servitù, e pertanto quest’ultimo era soggetto ad usucapione; le servitù urbane, invece, erano a tutti gli effetti diritti su cosa altrui. Con due regimi diversi, il pretore e la giurisprudenza non riescono ad imporre un’uniformità di giudizio, decidendo quindi caso per caso. Ecco che nel 150 a.C. interviene la Lex Scribonia, che stabilisce che tutte le servitù, sia rustiche sia urbane, sono res incorporales: la legge afferma quindi un principio valido per tutti, modificando un regime consolidato da secoli. Le fonti ci parlano, in riferimento al pretore, di ius honorarium o, più spesso, di ius pretorium: il diritto del pretore crea un sistema di norme parallelo rispetto allo ius civile (composto dai mores e dalle XII tavole) mediante il quale cerca di adattare la giurisprudenza ai casi concreti. Ma se abbiamo due sistemi paralleli, il pretore può abrogare lo ius civile? Fino al principato non esiste l’istituto dell’abrogazione, e pertanto si percorre la strada della disapplicazione oppure si ricorre alle finzioni (fictio iuris). Facciamo un esempio. Un soggetto acquista una res mancipi senza ricorrere alla mancipatio, in buona fede, perché magari non è riuscito a trovare i 5 testimoni puberi; ricordiamo che la mancipatio è l’atto idoneo al trasferimento della proprietà, in assenza del quale si trasferiva solo il possesso. L’alienante può allora chiedere indietro l’oggetto della vendita e tenersi l’incasso. Il pretore, ritenendo iniqua questa situazione, considerando la buona fede del compratore, considerava la questione come se fosse trascorso il tempo necessario per l’usucapione, anche se non era vero (actio fittizia): questo sistema viene introdotta con l’actio Publiciana dovuta al Pretore Publicio nel 67 a.C. Insomma il compratore può agire in giudizio con l’actio publiciana in cui, spiegando al pretore la buona fede e la giusta causa della vendita, il Pretore può fare finta che sia passato il tempo necessario ad usucapire. Questo sistema funzionava anche nel caso in cui era l’alienante a fare causa al compratore, chiedendo la rei-vendicatio. Qui non può operare l’actio publiciana, perché appunto questa opera se è il compratore a portare in giudizio l’alienante. Si ricorre allora ad una fattispecie differente: la exceptio rei sibi vendite e tradite, ossia una difesa a favore del convenuto mediante la quale si riteneva che la cosa era stata venduta mediante traditio. Nasce così un’altra forma di proprietà, ossia la proprietà in bonis habere, una proprietà pretoria, che si aggiunge a quella del diritto civile. 60 Le magistrature minori (cum potestate). Il Comizio tributo. Passiamo ora alle magistrature minori, prive di imperi, come i Quiestori, gli Edili, ed i XXVI viri. Si tratta di magistrature elette dal comizio tributo, al quale – ricordiamo – si apparteneva in base alla residenza delle tribù territoriali (4 tribù urbane e 31 rustiche). E’ necessario, prima di analizzare le suddette magistrature, dare una panoramica del comizio tributo: - Questa assemblea, secondo alcuni, sarebbe lo sviluppo del concilium plebis, con l’aggiunta dei patrizi: si passa da concilio a comizio proprio perché, con l’aggiunta del patriziato, si arriva a rappresentare tutto il popolo. Ciò sarebbe confermato dal fatto che il comizio tributo può essere convocato senza auspici, quindi anche da un plebeo (come il tribuno della plebe). - Ad ogni modo, secondo un altro orientamento, il concilio della plebe ed il comizio tributo sarebbero due realtà indipendenti. I sostenitori di tale tesi segnalano che prendere gli auspici non era necessario perché ormai il diritto si era laicizzato. - I comizi tributi diventano più rappresentativi delle assemblee popolari, perché possono parteciparvi tutti, a patto di avere la residenza: troviamo quindi anche piccoli proprietari. Sotto questo profilo si potrebbe far pensare ad un’ origine plebea, tanto che le delibere vengono considerate plebisciti: è questo l’elemento più forte a favore della prima tesi. - Tuttavia si ribatte che il termine plebiscito in questo senso sia da intendersi come derivante da “pletos” (moltitudine), nulla a che vedere con la plebe in senso stretto. - Progressivamente i comizi tributi diventano il luogo prediletto per votare le leggi: era più semplice convocarli (senza auspici) e soprattutto le tribù votavano tutte insieme, senza l’ordine di censo che si rinviene nel comizio centuriato. Ogni tribù esprimeva un voto, ma appunto erano tutti chiamati a votare contemporaneamente. - La maggior parte delle leggi, quindi, passano per i comizi tributi. Ad ogni modo il comizio centuriato mantiene la competenza esclusiva per alcune materie, come l’elezione dei magistrati cum imperium, leggi sulla pace e sulla guerra, diritto criminale. Insomma, le materie più importanti restano in mano ai più ricchi. 61 I Questori Parlando dell’età regia abbiamo incontrato i questori parricidi, cioè quegli ausiliari del Rex che si occupavano dei delitti capitali. Quelli di cui ci occupiamo ora, eletti dal comizio tributo, sono invece magistrati con competenze finanziarie: perché allora si utilizza lo stesso nome? La ragione va ricercata nel termine “quero” (chiedo per ottenere): mentre i questori parricidi chiedevano per ottenere le prove del crimine, i questori repubblicani chiedono per ottenere i tributi. In sostanza i Questori amministravano l’erario del popolo, sotto le indicazioni del Senato: in estrema sintesi si trattava di un’attività materiale di riscossione. Inoltre i Questori iniziano a seguire, come sub-alterni, i magistrati di provincia, con il compito (sempre finanziario) di corrispondere il soldo ai soldati (stipendium), resosi necessario con le guerre d’oltremare in cui un soggetto era costretto a stare lontano da casa per anni. Infine occorre ricordare che: - I Questori non hanno imperium e non hanno potere di coercizione. Se dovessero ritenere necessario un provvedimento coercitivo, dovranno interpellare un console o un altro magistrato maggiore. - Si discute in dottrina se avessero il potere di multa - Sono il primo gradino del cursus honorum, e pertanto si tratta di una magistratura maggiormente accessibile, anche per i meno abbienti. 62 Gli Edili Il secondo gradino del cursus honorum è quello degli Edili, magistrati minori senza imperium. Si tratta di una magistratura di origine plebea: un edile della plebe curava infatti il Tempio di Cerere, sull’Aventino; il termine “edile”, infatti, fa riferimento ad un edificio sacro. Ad ogni modo, mentre i tribuni della plebe sono sacrosanti, gli edili della plebe non godono di questo privilegio. Ciò ci fa capire come la sacrosantitas sia conferita in funzione del potere esercitato: per il tribuno era necessaria, essendo l’unico strumento per fermare il console che voleva applicare una misura coercitiva contro un plebeo; invece l’edile non necessita di questa protezione, perché semplicemente si deve occupare del tempio. Questa magistratura viene allora imitata dai patrizi, che creano una coppia di magistrati detti Edili Curuli: il nome fa riferimento alla Sella Curulis, una sedia pieghevole, simbolo dell’amministrazione della giustizia. Essi hanno diverse competenze riferiti alla cura urbis, come la viabilità delle strade e l’approvvigionamento alimentare. Agli edili curuli, inoltre, spettava l’organizzazione dei giochi, dei ludi solenni per onorare le divinità. Questo aspetto è importante perché ci dice che gli edili dovevano essere soggetti ricchi: l’organizzazione dei giochi, infatti, era realizzato a proprie spese, chiamando attori e gladiatori; il tutto richiedeva un grande esborso di danaro, ma l’intento era quello di avere successo per poi accedere alla pretura. Gli edili curuli hanno uno ius edicendi, cioè il diritto di emanare delle ordinanze, pur non avendo l’imperium. Tale competenza è limitata alla compravendita di schiavi ed animali: essi regolavano i negozi indicando le regole da osservare, soprattutto in un’ottica di protezione del compratore rispetto ai vizi che può presentare la cosa venduta. Il potere è quindi esercitato su materie che non vanno in conflitto con l’editto del pretore: ad esempio, da questi editti degli edili noi sappiamo che, se il venditore occultava i vizi della cosa venduta, il compratore poteva avere uno sconto o riottenere un prezzo. 65 Il Senato della Repubblica In età regia abbiamo trattato del concilium patrum. Nella Repubblica, invece, troviamo unicamente il titolo di Senatus, ma vi è un punto di continuità tra le due istituzioni: anche in età repubblicana, infatti, abbiamo l’istituto dell’inter-regnum, quando non si riesce ad eleggere i consoli, ad esempio se vi sono delle rivolte oppure se sono morti entrambi. Questa assemblea cambia nel corso del tempo, modificando la propria composizione: nei primi anni ne facevano parte i padri delle gentes e poi, da Tarquinio Prisco, iniziano ad entrare soggetti scelti dal Rex. Ma l’elemento di maggiore differenza, che segna la nascita del Senato vero è proprio, è il requisito del completamento del cursus honorum: può diventare senatore solo chi ha ricoperto tutti gli altri gradini della magistratura. Ciò è indicativo della volontà di creare una “cabina di regia” (Capogrossi) efficace per il governo della Repubblica, inserendo al suo interno persone che abbiano servito Roma per tanti anni. I senatori, quindi, sono tutti cittadini che hanno una certa capacità. Il meccanismo di scelta dei senatori lo abbiamo visto trattando della Lectio Senatus dei Censori, che sceglievano tra i precedenti censori, tra gli ex consoli e gli ex pretori, privilegiando la competenza degli stessi. Una volta assunta la carica di senatore, questa durava a vita, a meno che non si commettesse un fatto talmente grave da portare alla nota censoria: in tal caso si poteva essere estromessi. Il Senato è fondamentale perché garantisce alla Repubblica una visione politica stabile, in quanto le magistrature prevedevano cariche annuali. I senatori, invece, possono guardare al lungo periodo, tanto che si vengono a creare fazioni politiche opposte all’interno dell’assemblea. Il Senato ha una sorta di potere di indirizzo su tutta la politica interna ed estera, dando consigli ai magistrati (senatus consulta) su come muoversi. In ogni caso, almeno da un punto di vista formale, il senatoconsulto non era vincolante, ed il magistrato poteva decidere in autonomia; ad ogni modo, nella prassi, tendeva ad essere di fatto vincolante, poiché il magistrato temeva che il Senato gli avrebbe precluso, successivamente, l’accesso alle cariche più alte o al senato stesso. Sono molto pochi, infatti, i casi in cui vi è disobbedienza, ma si tratta sempre di situazioni dettate da motivazioni politiche contingenti. In età imperiale il senatoconsulto si trasformerà in un atto vincolante, al pari della legge, per tutti i cittadini dell’ordinamento. Augusto avrà interesse a creare una fonte normativa che formalmente non dipendesse da lui, anche se sostanzialmente era così: Augusto fa un discorso in Senato in cui annuncia un provvedimento, il Senato lo vota ed entra in vigore; in tal modo, il senatoconsulto diverrà fonte del diritto. Il Senato, inoltre, ha la competenza dell’auctoritas, ricordata dalle fonti in relazione al potere legislativo: le leggi rogate, per poter entrare in vigore, dovevano ricevere una sorta di approvazione detta auctoritas patrum. Successivamente, dal 339 o dal 287, questa approvazione diviene preventiva: il magistrato che volesse fare una proposta al comizio doveva chiedere un parere favorevole al senato (auctoritas preventiva); ciò fa diminuire il potere di controllo sul popolo perché la vecchia approvazione successiva era ben più penetrante. 66 Il procedimento legislativo Occorre innanzitutto distinguere tra: a) leggi rogate (leges) b) plebiscita Fino alla Lex Hortensia del 287, in cui si sancisce l’equiparazione tra leggi e plebisciti, questi ultimi vincolavano solo la plebe. Successivamente, dopo la suddetta equiparazione, i comizi tributi diventano la sede preferita per approvare le leggi, in quanto potevano essere convocati anche senza auspici; ad ogni modo, come abbiamo già ricordato, resta una sorta di riserva di legge per i comizi centuriati in alcune materie. Una volta scelta l’assemblea alla quale chiedere l’approvazione, il magistrato predisponeva il testo della proposta di legge: questa è detta rogatio dalla frase pronunciata, “rogo quirite…”, cioè, “volete voi quiriti?”. Questa proposta, ovviamente, doveva essere prima fatta conoscere: se voleva essere sicuro dell’approvazione, il magistrato, in via informale, si recava nel foro e cercava di capire se vi erano margini per ottenere una votazione favorevole, sondando anche quale delle due assemblee sarebbe stata d’accordo. Successivamente veniva convocato il comizio (tributo o centuriato: nel secondo caso occorreva prendere auspici favorevoli). Il magistrato presentava formalmente la proposta, e l’assemblea poteva approvare (uti rogas) oppure non approvare (antiquor), senza possibilità di emendamento. In origine il voto era palese ma poi si arriverà al voto segreto scritto su una tavoletta che veniva riposta in un’urna, con degli scrutatores che facevano il conteggio dei voti. Nel caso dei comizi centuriati si votava per centurie (195), mentre nei comizi tributi si votava per tribù (35). Osserviamo quindi che il potere spetta al popolo, ma occorre l’apporto del magistrato (con la rogatio) e del Senato (con l’auctoritas). Nella Roma repubblicana non troviamo il principio della divisione dei poteri, ma quello della condivisione: ogni soggetto interviene, configurando quella che certa scienza giuridica ha definito costituzione mista. Capogrossi, correttamente, si chiede: il magistrato, nel proporre la rogatio, trovava dei limiti oppure poteva presentare proposte su ogni argomento? A Roma non abbiamo una costituzione scritta e non sappiamo con certezza se vi fossero o meno dei limiti, ma abbiamo alcune indicazioni che ci vengono fornite dalle fonti. Limiti: 1) divieto di lanx satura 2) divieto di abolire la Repubblica e tornare alla monarchia 3) divieto di votare leggi ad personam 4) divieto di abolire la provocatio ad populum Al di fuori di questi divieti, che ora andiamo ad analizzare, il magistrato può presentare tutte le proposte che ritiene di presentare. 67 Innanzitutto abbiamo il divieto di lanx satura, ossia il divieto di votare una rogatio che contenesse disposizioni su materie diverse (come purtroppo avviene oggi nel nostro parlamento!): è un divieto di ordine tecnico, che non indica quindi un limite di competenza. Inoltre troviamo il divieto di abolire la Repubblica e tornare alla monarchia: secondo alcuni, tale divieto sarebbe stato addirittura rogato nel 509, ma non abbiamo certezze. Sappiamo tuttavia che la preoccupazione principale di Augusto sarà quella di spiegare al Senato ed al popolo che non intende ripristinare la monarchia, tanto che col principato non viene introdotto un principio dinastico di successione. La caratteristica della non ereditarietà della carica di princeps sembra quindi trovare fondamento nel divieto di non abolire la Repubblica. L’accusa di aspirare al regno sarà utilizzata come strumento politico per tagliare le gambe a quei magistrati che acquisiscono troppo potere sfuggendo al controllo del Senato; ciò lo vedremo trattando Tiberio Gracco, accusato di voler instaurare una tirannide solo per aver ottenuto un ampio consenso nel comizio tributo. Altro limite, secondo Capogrossi, è il divieto di votare leggi ad personam: si vieta cioè lo ius singulare, il diritto che riguarda il singolo. Questo divieto vi è certamente nella prima parte della Repubblica; tuttavia, dal I secolo troviamo testimonianze di leggi singolari come ad esempio quella che dispone l’esilio di Cicerone. Infine vi sarebbe stato il divieto di abolire la provocatio ad populum: non si poteva cioè presentare una legge per eliminare questo fondamentale diritto, baluardo della libertas. Ad ogni modo, abbiamo pochi casi di provocatio testimoniati dalle fonti: pertanto, storicamente, non si comprende come mai la provocatio venisse tanto considerata. Nella Roma Antica notiamo molte leggi che intervengono su una stessa materia: inizialmente gli studiosi ritenevano che ci trovassimo di fronte ad una sorta di ipertrofia normativa; oggi si predilige un’altra ipotesi, e cioè che le grandi famiglie avessero degli archivi privati su determinate materie, tanto da proporre continui aggiornamenti. Questa seconda tesi spiegherebbe perché abbiamo delle leggi organizzate per blocchi. Nella Roma repubblicana abbiamo prevalentemente leggi di diritto pubblico. Si tratta, prevalentemente, di quelle leggi che regolano l’attività dei magistrati, il cursus honorum, il diritto criminale, l’istituzione dei tribunali comiziali, la regolamentazione dei sacerdozi. Nel diritto privato, invece, per le ragioni che abbiamo già avuto modo di illustrare, domina invece l’attività giurisprudenziale; tanto che infatti, di contro, nel diritto pubblico abbiamo pochissima dottrina. La legge veniva presentata al comizio e si componeva di tre parti: 1) praescriptio 2) rogatio 3) sanctio 70 L’Italia Antica Roma estende la propria egemonia prima nel Lazio e poi in tutta la penisola. Qui sorge un problema di regolazione dei rapporti con gli altri popoli, in cui un ruolo fondamentale era svolto dal collegio sacerdotale del Feziali. Fondamentale è innanzitutto l’istituto dell’ospitium, che si divide in: a) Ospitium privatum b) Ospitium publicus Ospitium privatum: Lo straniero è ospitato presso una famiglia o una gens, che lo assiste qualora debba compiere atti negoziali o nei rapporti con il magistrato. Allo straniero veniva data una tessera ospitalis, una mattonellina di terracotta che indicava il nome dell’ospitato e la famiglia ospitante; lo straniero era tenuto a portarla sempre con sé, come una sorta di passaporto. Ospitium publicus: In questo caso è tutta la comunità che ospita lo straniero. In tal caso egli è maggiormente garantito perché protetto dall’intera comunità. Questa forma di ospitium si evolverà nelle forme del trattato internazionale (foedus), che poteva essere equo (con pari poteri) o iniquo (con la preponderanza di una comunità sull’altra). I Feziali avevano il compito di dare efficacia, mediante un procedimento rituale, al contenuto del Trattato deciso dal Senato (o dal Re, in età regia). Ricordiamo il foedus tra Romolo e Tito Tazio, che sugella l’unione tra Romani e Sabini, in seguito al quale questi ultimi si trasferiscono a Roma. La maggior parte dei trattati ci sono giunti per via indiretta, soprattutto da fonti greche come Polibio. Nel 508 abbiamo il trattato romano-cartaginese. Roma e Cartagine si dividono le sfere di influenza dei traffici commerciali sul mediterraneo: si tratta di un trattato equo. Il trattato più importante è il foedus cassianum, stipulato da Cassio nel 443, l’anno successivo dell’istituzione del tribunato della plebe, quindi siamo nei primi anni della Repubblica. Con questo Trattato, Roma entra nella Lega Latina, un’alleanza risalente già alla prima età regia che tuttavia si era interrotta con i Tarquini; inizialmente abbiamo un foedus equo, in cui Roma è in una posizione di parità con tutte le città latine come Ariccia, Ardea, Cori e Tuscolo. A queste città erano riconosciuti molti diritti, con una assimilazione del latino al cittadino romano: questi poteva venire a Roma e, anche se non aveva diritti politici, aveva lo ius connubi e lo ius commerci, poteva cioè sposare una cittadina romana trasmettendo al figlio la cittadinanza latina, e poteva utilizzare i negozi dello ius civile come la mancipatio. 71 Il latino, inoltre, poteva acquistare un dominium a Roma. Secondo alcuni non si trattava di una vera e propria proprietà, ma il problema è relativo perché la maggior parte dei beni erano mobili, e pertanto il latino portava la cosa acquistata a casa propria, dove esercitava la proprietà secondo le proprie regole. Capogrossi ritiene che anche sui beni immobili vi fosse una proprietà: l’assimilazione totale del latino è attendibile in quanto parlavano la stessa lingua, a differenza di etruschi ed umbri. Al latino era infine riconosciuto lo ius migrandi, che permetteva di avere la residenza a Roma, di entrare in tribù, di partecipare ai comizi ed essere eletto magistrato. Dopo il 338 abbiamo infatti testimonianza di magistrati latini che percorrono tutto il cursus honorum. Alla Lega Latina era riconosciuto il potere di fondare colonie: si tratta di città costruite ex novo. Roma, progressivamente, si arroga il diritto di fondare colonie senza consultare le altre città della Lega, creando quindi, di fatto, un foedus iniquo; ecco che allora i latini si coalizzano contro Roma, e dal 340 al 338 abbiamo la guerra latina, una guerra molto pesante, simile ad una guerra civile. Nel 338 Roma vince, e sostituisce alla Lega dei singoli federa con le singole città: non vi è quindi un unico trattato ma più trattati differenti; in alcuni casi, nel definire i diritti da riconoscere, si tiene conto di come la città si è comportata nella guerra, riconoscendo la cittadinanza piena solo ai più meritevoli, mentre agli altri andava una cittadinanza sine suffragio. Formalmente la Lega Latina resta in vita ma diviene iniqua perché di fatto vi sono dei singoli trattati che regolano i rapporti in modo differente tra le varie città. E soprattutto Roma conserva questo potere esclusivo di creare colonie. Dal 338 in poi abbiamo diverse forme di cittadinanza, e diverse forme di assimilazione dello straniero al cittadino romano, ed occorre distinguere: 1) Colonie 2) Municipi Le colonie si dividono in: a) romane b) latine I municipi si distinguono tra: a) municipi optimo iure b) municipi sine suffragio 72 Innanzitutto occorre tracciare una distinzione tra colonie e municipia: a) Le colonie, sia romane sia latine, sono città fondate ex novo in aree dove non vi è nulla. Quindi la colonia è una nuova città in senso urbanistico, prima che in senso politico: il termine urbs, infatti, indica la città sotto il profilo materiale, a differenza di civitas, la città politica. b) I municipia, invece, sono città già esistenti, che hanno già una loro connotazione urbanistica. Ad essi è concessa la cittadinanza optimo iure oppure sine suffragio. Poi occorre distinguere: a) munucipia optimo iure: è riconosciuta la cittadinanza piena, che comprende lo ius connubi, lo ius commerci, e lo ius migrandi, cioè i diritti politici con elettorato sia attivo sia passivo. Lo ius migrandi è fondamentale perché si votava soltanto a Roma: quindi, se io, cittadino di un municipio optimo iure, mi trasferivo a Roma, venivo iscritto nelle assemblee, tributarie o nelle centurie, e potevo partecipare ai comizi; quindi per esercitare il diritto di voto mi devo trasferire a Roma, non è previsto il voto a distanza (ci sarà un voto postale con scarso seguito verso la fine della Repubblica). b) municipia sine suffragio: sono riconosciuti solo lo ius connubi e lo ius commerci, come avvenne a Cere, odierna Cerveteri, particolarmente ostile durante la guerra. Infine è necessario distinguere: a) Colonie romane. Nascono come presidi militari lungo la costa, ed infatti sono detta anche colonie marittime, per fronteggiare i pericoli provenienti dal mare; erano quindi degli avamposti che servivano per dare l’allerta in caso di attacco. Erano formate da 300 soldati che avevano il compito di difendere il territorio: essi erano esentati dal servizio militare perché in sostanza lo facevano in loco. Si applicava il diritto romano; la colonia era autonoma da un punto di vista politico ed amministrativo, ma inevitabilmente doveva raccordarsi con Roma. b) Colonie latine. Sono anche definite colonie di popolamento, e si trovano in zone più fertili, tra la Campania e la pianura padana; erano fondate con lo scopo di alleggerire Roma dall’eccedenza urbana in cui vi era la plebe più modesta che non aveva di che mantenersi. Insomma si fondavano queste colonie per dare terreni ai nullatenenti. 75 Le riforme di Appio Claudio Ceco Capogrossi sottolinea che nel IV secolo si assiste ad una certa modernizzazione del diritto e del modo di concepirlo, assegnando un ruolo particolarmente rilevante ad Appio Claudio Ceco il Censore (parente dell’Appio Claudio decemviro) e descritto come un “ardito legislatore”. In effetti, alcune sue proposte saranno così rivoluzionarie che di lì a poco saranno cancellate perché probabilmente troppo avanti per quei tempi; in ogni caso tali proposte sono una testimonianza di come la società romana si stesse sempre più aprendo verso l’esterno. Appio Claudio, da Censore, fece costruire la Via Appia: ricordiamo infatti che ai censori spettavano le infrastrutture più importanti. Con la costruzione dell’Appia abbiamo una svolta in materia di politica estera, perché, per incrementare i commerci, non si punta più sulla conquista militare ma su un affacciarsi pacifico al mediterraneo. La Via Appia, arrivando fino a Brindisi, si rivelò fondamentale per i rapporti con la Grecia: le merci, arrivando a Brindisi via mare, arrivavano velocemente a Roma percorrendo l’Appia. Piccola precisazione: Questa politica sarà successivamente osteggiata dai Flamini (realizzatori della Via Flaminia) che saranno invece propensi ad una politica di conquista, ponendo le basi per le guerre puniche e le altre guerre di conquista in Asia. Sono da citare poi altre due riforme che tuttavia avranno vita breve: 1) Appio Claudio sancì la possibilità di iscriversi ai comizi tributi anche a coloro che non avevano la residenza nelle tribù, ma avevano comunque una ricchezza mobiliare di un certo livello, come ad esempio i ricchi commercianti che non risiedono a Roma ma che vorrebbero avere voce in capitolo nell’assemblea. 1.1) Il problema che si pone in riferimento a questa riforma è che non si comprende a quale tribù venissero iscritti. Sappiamo solo che, quando la legge viene cancellata, i soggetti non residenti che erano già entrati a far parte dell’assemblea (e che quindi non potevano essere espulsi) vengono distribuiti alle 4 tribù urbane, ma non siamo a conoscenza del criterio utilizzato. 2) Appio Claudio introduce la possibilità di diventare senatori anche ai liberti, ex schiavi che non fanno nemmeno il cursus honorum entrando direttamente in Senato. E’ una riforma che pre-corre i tempi, tanto che infatti secoli dopo si affermerà questo principio; da lì a pochi anni, tuttavia, la riforma viene eliminata. Altro elemento che ci permette di inquadrare Appio Claudio è la pubblicazione, nel 304, per mezzo del suo liberto Neo Flavio, dei calendari e dei formulari delle azioni processuali, permettendo quindi anche alla gente comune di conoscere quali sono i giorni fasti e quali sono le formule da pronunciare in giudizio: si tratta di un ulteriore passo in avanti rispetto alle XII tavole dove si stabilivano solo le situazioni tutelate, senza specificare come esercitare la tutela. 76 La laicizzazione del diritto Con l’ammissione dei plebei alle cariche sacerdotali, e con il primo pontefice plebeo nel 254, inizia il processo di laicizzazione (e democratizzazione) del diritto. Proprio con il primo pontefice plebeo si rendono pubbliche le sedute del collegio pontificale, con possibilità di assistere ai responsi che prima erano dati a porte chiuse; le persone iniziano quindi ad essere edotte circa la tecnica di interpretazione del diritto da parte dei pontefici. Si gettano quindi le basi per la nascita dello ius controversum. Fino alla metà del III secolo, infatti, abbiamo una giurisprudenza sacerdotale, con un responso unico; passando invece allo ius controversum abbiamo, rispetto ad una questione giuridica, tanti pareri quanti sono i prudentes che se ne occupano. In età repubblicana, il responso del singolo giurista diventa diritto nel momento in cui il pretore ed il giudice ne tengono conto nella risoluzione della controversia; ecco che allora, rispetto a due casi identici, si poteva decidere in modo differente seguendo il parere di un giurista piuttosto che quello di un altro. Viene meno l’unità di interpretazione tipica dello ius pontificium. La giurisprudenza laica nasce come scienza: scientia iuris. E’ questo che distingue l’esperienza romana rispetto a tutte le altre esperienze giuridiche dell’antichità: solo i romani hanno ragionato in modo razionale sul diritto; solo a Roma vi è una riflessione sul diritto, un sapere che detta le regole da rispettare. Per questo motivo è necessario, anche recandosi in Grecia, studiare la filosofia, la retorica, la logica aristotelica; proprio la logica è alla base della costruzione giuridica dell’obbligazione sinallagmatica a prestazione corrispettive. Il giurista è quindi un soggetto che ha una certa possibilità economica e, non volendo intraprendere la carriera politica, preferisce recarsi in Grecia a studiare per diventare prudens. Un altro aspetto fondamentale è il diffondersi della scrittura: i poteri dei pontefici erano emessi oralmente, quindi circolavano poco. Invece, quando le opere dei giuristi iniziano ad essere scritte, tutti possono leggerle, ed inizia un’importante circolazione: lo sappiamo perché in diversi testi si legge che “il giurista X, nella sua opera, ha scritto A, mentre Y riteneva B”. L’attività del giurista si riassume nei seguenti tria verba: a) Cavere b) Respondere c) Agere 77 Cavere: - Il termine indica il difendersi cautelativamente. Si fa riferimento all’attività stragiudiziale di consulenza: se un soggetto aveva un dubbio circa una possibile controversia o sulla conclusione di un negozio, interpellava il giurista che gli consigliava come comportarsi. Tale attività è detta appunto cavere. - Esempio: Tizio vede il vicino che, facendo dei lavori, rischia di rovinare il suo fondo, ed allora chiede al giurista come fare per tutelarsi. Il giurista allora consigliava di chiedere al pretore di procedere con una causa damni infecti, mettendo in mora il vicino e stabilendo che, se il danno si produrrà, questi dovrà risarcirlo; si tratta di una garanzia per un danno temuto, la cui realizzazione non è tuttavia certa. Respondere: - Si tratta dell’attività consistente nel dare un parere, un responso, non necessariamente all’interno di un processo. Nasce quindi lo ius respondendi che, in età repubblicana, si fonda sul parere del singolo giurista su una questione a lui sottoposta da un cittadino dal pretore o dal giudice-arbitro ella controversia. - In età imperiale, come vedremo, lo ius respondendi sarà a tutti gli effetti una fonte di diritto: l’imperatore darà una sorte di patentino detto ius respondendi ex auctoritare principe, ossia il potere di dare pareri vincolanti. Agere: - Si tratta dell’assistenza di una delle parti del contendere nel processo di diritto privato. Si consiglia l’assistito su quali strumenti utilizzare. E’ una precisa consulenza processuale. - Per la parte assistita, essere aiutati da un giurista valido era un vantaggio, anche se spesso il giudice terzo, che come sappiamo non è un giurista, non è in grado di comprendere le questioni tecniche poste alla sua attenzione dal giurista. Nascono quindi le opere giuridiche, organizzate in uno schema logico diviso per materie generali (come ad esempio ius civile) oppure per specifiche questioni come proprietà e possesso. La giurisprudenza diventa il motore di evoluzione del diritto privato, consentendo l’adattamento al caso concreto; nel diritto privato, come abbiamo già detto, la legge ha un ruolo marginale rispetto a quello che assume in ambito pubblicistico. In definitiva, il sapere giuridico diviene patrimonio non dei sacerdoti, ma di una casta di giuristi molto più ampia: sempre una casta, certo, ma più ampia. 80 Divisione o condivisione dei poteri? Nel momento in cui Roma amplia la sua egemonia nel mediterraneo si intensificano i contatti con il mondo greco; questo scambio con la Grecia porta i romani a conoscere altre forme di sapere come la filosofia e la retorica, ed a scoprire un interesse maggiore per le arti come scultura e pittura. Vi è, insomma, un fenomeno di acculturazione greca che mette in crisi gli antichi mores, suscitando le critiche di Appio Claudio Ceco e Catone il censore. Altro grande fenomeno legato alle terre di conquista è l’arrivo a Roma di ingenti quantitativi di schiavi. Questo segna un importante mutamento economico e sociale: la manodopera a costo zero comporta uno sfruttamento intensivo delle risorse agricole da parte dei soggetti più agiati, mentre quelli meno abbienti sono costretti a vendere la terra restando a lavorare presso il latifondista oppure recandosi in città per vivere di espedienti. Queste alienazioni sono negozi privati, e la legge non può intervenire per porre un limite di iugeri: tale limite infatti era riferito solo per lo sfruttamento dell’ager publicus, e nulla impediva ad un ricco signore di acquistare terre. Ecco che nasce il fenomeno della Villa schiavistica: una villa al centro, dove abita il grande latifondista, e tutto intorno molti iugeri di terra, con centinaia di schiavi o ex piccoli proprietari a coltivare il fondo. La parte più ampia del fondo viene utilizzata per lo sfruttamento di colture pregiate da commercializzare come vite ed olivo. Inizia così quello che Capogrossi definisce fenomeno di reificazione dello schiavo. La figura del servo, nel periodo più antico, era trattato in modo umano e considerato quasi parte della famiglia. Quando tuttavia il numero di schiavi aumenta, questo legame quasi familiare si spezza, e lo schiavo viene considerato una res, un instrumentum di lavoro come l’animale: precisamente alcuni giuristi lo definiscono come instrumentum vocalis. Altro elemento di interesse, rilevato da Capogrossi, è la concezione che i greci hanno del governo di Roma. Ecco che risulta particolarmente interessante vedere la teoria della costituzione mista di cui ci parla Polibio: egli ritiene che l’organizzazione romana ha avuto successo perché applica tutte e tre le forme di governo. In sostanza, nell’organizzazione repubblicana troviamo un principio monarchico (i consoli), un principio aristocratico (senato) ed un principio democratico (comizi). Questa visione, secondo Capogrossi, è riduttiva, perché i consoli sono eletti, quindi non vi è un principio monarchico, e soprattutto i comizi non sono propriamente democratici. Il principio della divisione dei poteri a Roma non sussiste. Vige anzi il principio opposto ed antitetico della condivisione dei poteri: più soggetti condividono un determinato potere, segnando l’esigenza di coinvolgere tutti per renderli responsabili. L’unico punto di rottura di questo sistema è, forse, il potere di intercessio dei consoli. 81 In conclusione, quindi, la teoria della divisione dei poteri, ipotizzata da Monsen, esponente della dottrina moderna, non sussiste, e vediamo ora perché: 1) Potere esecutivo. Non vi è un unico organo che lo detiene, ma questo è condiviso dal magistrato che amministra nell’anno di carica, dal Senato che è la cabina di regia ed i comizi centuriati che partecipano alle decisioni sulla pace e sulla guerra, con riserva di competenza. 2) Potere legislativo: vi è la partecipazione del magistrato con la rogatio, del comizio con la votazione, e del Senato con l’auctoritas. Anche qui non abbiamo un unico organo che detiene il potere legislativo. 3) Potere giudiziario: stesso discorso anche in questo ambito; abbiamo un magistrato che istruisce l’accusa, il popolo che giudica con la provocatio ed il Senato che crea tribunali straordinari come il senatoconsulto. 82 La riforma di Tiberio Gracco E’ necessario innanzitutto inquadrare tale riforma nel contesto del II secolo. Come abbiamo visto, vi è stata una trasformazione della proprietà, con la nascita del latifondo; da questo momento si affermano due fazioni, rompendo l’unitarietà della classe mista: vi è infatti una contrapposizione tra progressisti (populares) e conservatori (optimates). Tutto l’ager privatus si è ormai trasformato in latifondo, con preminenza delle grandi ville schiavistiche. Ecco che il contadino, vendendo il proprio fondo al latifondista, perde la residenza nella tribù, e non può partecipare ai comizi tributi, tantomeno ai comizi centuriati. Tiberio Gracco viene eletto Tribuno nel 133, e propone una Lex Agriaria: questa legge mette un limite all’appropriazione di ager publicus (come aveva fatto la vecchia Lex Licinia Sestia De Modo Agrorum) ma dispone, inoltre, che la terra eccedente ai limini venga divisa in lotti di 30 iugeri ed assegnata in proprietà privata. Occorre verificare a quale tipologia di ager publicus facesse riferimento la Lex Agraria di Tiberio, in quanto possiamo distinguerne differenti tipologie: 1) Ager Scritturarius. E’ la terra destinata al pascolo per cui ciascuno pagava una scrittura, un canone, per poter far accedere gli animali al fondo. Gli studiosi escludono che questa forma di ager fosse inclusa nella Lex, proprio perché non destinata alla coltivazione. 2) Ager Questorius. Si tratta di una serie di terre affittate, con un canone esiguo, lungo tempo (ad esempio 100 anni), mediante affitti trasmissibili in eredità; di tali affitti si occupava il Questore. Si tratta di terre vincolate da negozi privati che non possono quindi essere oggetti di intervento da parte del potere pubblico. 3) Ager Censorius. E’ il terreno più fertile che era assegnato in affitto ogni 5 anni dai censori, con un canone particolarmente elevato. Per gli stessi motivi indicati al precedente punto, anche questa forma di ager non è inclusa nella Lex Agraria. 4) Ager Occupatorius. E’ l’unica forma di ager che cisi presta alla riforma, e ci fa capire perché questa fu osteggiata da senatori ed equites: si tratta infatti delle terre sfruttate dai più ricchi, quelle che venivano occupate in base alla speranza di coltivazione (spes colendi); è vero che il limite dei 1000 iugeri era già stato introdotto dalla Lex Licinia Sestia, ma è altrettanto vero che, superando il limite, era sufficiente pagare una multa e tenersi le terre eccedenti. Tentando di evitare la collera dei ceti maggiormente abbienti, la riforma prevede che le terre occupate entro i 1000 iugeri – che formalmente costituivano un possesso, in quanto la proprietà restava pubblica – diventassero proprietà privata. 85 Lex de Portotis: Si tratta di una legge sui dazi che introduce per la prima volta l’obbligo di rendicondazione da parte dei Pubblicani, cioè quegli equites che svolgevano attività di riscossione delle tasse. In ogni caso si tratta anche qui di una competenza che non dovrebbe essere del tribuno. Lex Frumentaria: - Si tratta di una norma fondamentale, destinata a durare nel tempo. Si tratta dell’assegnazione di una certa quantità di grano a prezzo politico, inferiore a quello di mercato, a famiglie proletarie. L’intento di Gaio è essenzialmente demagogico, ma è pur vero che in concreto si rispondeva ad un bisogno reale della popolazione più povera: il ceto medio si sta impoverendo, ad aumenta il divario tra ricchi e poveri. - Aspetto molto interessante è che vengono creati dei magazzini per stipare il grano proveniente dalla Sicilia e dall’Africa. In questi magazzini il grano veniva stoccato e portato a Roma via fiume. Tali magazzini erano talmente diffusi che ancora oggi ne troviamo dei resti presso Ostia antica. - Su questa legge siamo bene informati grazie alla propaganda negativa degli optimates, tra cui Cicerone. Egli, in diversi passi dei suoi scritti, afferma che tale riforma non è utile alla Repubblica, perché invoglia a non lavorare; Cicerone si oppone in generale alla politica di Gaio, ricordando che cacciare i ricchi dalle proprie terre è un pericolo, in quanto essi difendendo il fondo difendono anche la città. Lex Sempronia De Capite Civitis: - E’ una legge in materia di giurisdizione criminale, e precisamente riguardante il tema della pena di morte. Si stabilisce che non si può condannare un cittadino senza che egli abbia prima esercitato la provocatio ad populum. - In sostanza Gaio riprende le antiche leggi che ormai erano disapplicate. A partire dal II secolo, infatti, il Senato si era arrogato il diritto di creare tribunali che potevano condannare a morte direttamente senza provocatio. - Di contro, però, Gaio non considera fuorilegge tutti quei tribunali speciali istituiti con una delibera del comizio tributo: se vi è una delibera del popolo abbiamo comunque un intervento del popolo, anche se preventivo, e non successivo come nella provocatio. 86 Lex Sempronia Iudiciaria: - Anche questa legge, riguardanti le giurie dei tribunali speciali che giudicavano i governatori, rimarrà nel tempo. Le giurie erano composte da senatori, quindi da soggetti di pari livello del governatore giudicato, ed infatti i giudizi si concludevano quasi sempre con un’assoluzione. - Gaio allora affida la giuria agli equites, e questi tribunali diventano finalmente terzi ed imparziali; per la prima volta questo nuovo ceto compare sulla scena politica. Gaio riteneva che fosse importante avere un ceto forte che lo appoggiasse: “io vi porto in politica e voi mi appoggiate”. In realtà fu un errore: gli equites erano soggetti ricchi e non avevano alcun interesse ad appoggiare le lotte proletarie di Gaio; infatti gli equites si alleano subito con i senatori. - Ma chi sono gli equites? Le fonti non sono chiare, e possiamo dare due interpretazioni: leggendo i documenti ufficiali ci si riferisce alle 18 centurie di cavalieri; nel linguaggio comune, invece, il significato è differente, ed indica tutti coloro che hanno un censo superiore ai 100.000 assi indipendentemente dall’appartenenza a questa o quella centuria. Si tratta di quindi di un ceto importante che tuttavia, a differenza dei senatori, non ha accesso alla vita politica. Lex Sempronia de Abactis: Si tratta di una legge che stabiliva che i magistrati che fossero stati destituiti dal popolo in seguito a concussioni e malversazioni non potessero più candidarsi. Non sappiamo se la legge fu approvata o meno, ma certamente fu proposta; di certo non ebbe una lunga vita. Riforma dei comizi centuriati: E’ una riforma importante che resta in vigore per 30 anni. Non abbiamo molte informazioni, e le poche che abbiamo ci giungono da fonti greche. Sappiamo tuttavia che si cambiò il sistema di votazione delle centurie, non più in ordine di classe, ma ex confusis classibus, tirando a sorte la centuria che votava per prima. Abbiamo una leggera impronta democratica. Concessione della latinità ai popoli italici: - Si tratta di una legge che non viene approvata, restando alla forma di proposta. Roma, negli ultimi secoli della Repubblica, deve fare i conti con gli alleati latini ed italici, che avevano molti obblighi (aiutare Roma nelle guerre, fornire soldati, beni servizi) ma pochi diritti, non ottenendo nulla neanche dalla spartizione del bottino. - Gaio è consapevole che tra gli italici sta crescendo l’insofferenza, e decide di venirgli incontro concedendogli la latinità, che li avrebbe trasformati da peregrini in latini. Ad ogni modo, a causa delle forti opposizioni, la legge non viene fatta neanche proporre al comizio; sarebbe stata comunque un’ottima legge, perché avrebbe prevenuto la guerra sociale. 87 L’aristocrazia, ovviamente, non concorda con il piano di riforme di Gaio, e per contrastarlo adotta lo stesso metodo utilizzato con il fratello Tiberio: si cerca di manovrare un altro tribuno a danno di Gaio. Ecco che il tribuno Livio Druso inizia a proporre una serie di riforme ancora più demagogiche di quelle di Gaio, al solo scopo di fargli ottenere più consensi con promesse che poi non manterrà. Livio propone infatti frumentazioni gratuite, la fondazione di 12 colonie, l’abolizione dei vectigal, l’immunità dei latini in caso di disobbedienza. Così Gaio perde le elezioni nel 121, ma non si arrende, e cerca di preparare la fondazione di una nuova colonia presso Cartagine, arruolando cittadini disposti a stabilirsi lì; intervengono tuttavia gli Auguri, opponendo dei presagi negativi e bloccando il progetto di fondazione. Da questo fatto nascono nuovi contrasti e tumulti, in cui perderanno la vita Gaio ed i suoi seguaci; inoltre, con un senatoconsulto ultimo i graccani vengono accusati di tradimento: tramonta così il periodo di riforme dei Gracchi. Perché questo progetto è fallito? Capogrossi ritiene che Gaio abbia fatto l’errore di mettere insieme soggetti che sono portatori di interessi diversi, e che quindi difficilmente trovano accordi. Inoltre, cercando l’appoggio dei Latini e facendo a questi molte concessioni, anche le classi proletarie romane iniziano a votare contro le sue proposte: se prima lo scontro era tra popolo e cavalieri, Gaio lo ha trasformato in Romani (cavalieri e popolo) contro Latini. Capogrossi si chiede se con i Gracchi possiamo dire che abbiamo avuto una Repubblica più democratica. Di certo resta il periodo in cui Roma si è avvicinata maggiormente al concetto di democrazia sviluppatosi ad Atene, ma si tratta pur sempre di una piccola parentesi di una decina d’anni, forse non sufficienti a sostenere che vi sia stata una modifica della forma di governo. In conclusione, al termine dell’esperienza graccana abbiamo una società che vede lo scomparire della classe media, con accentuarsi del divario tra ricchi e poveri. Inoltre ci si accorge che vi è un’organizzazione amministrativa inadeguata per controllare un territorio così esteso. Ad ogni modo per molti anni resteranno in vigore le seguenti leggi: 1) Lex Frumentaria 2) Lex De Capite Civis 3) Lex Sempronia Iudiciaria 90 Si decise di iscrivere i nuovi cittadini nelle 4 tribù urbane, quindi potendo contare 4 voti su 35. Questo fu un primo punto di contrasto tra conservatori e progressisti che invece miravano ad inserirli in tutte e 35 le tribù. Poiché ogni tribù esprimeva un solo voto, immettere i nuovi cittadini nelle quattro tribù urbane significava alterare solo 4 voti su 35; immetterli invece nelle 31 tribù rustiche avrebbe avuto un impatto certamente più forte sul corpo elettorale. Restava un problema rilevante: si poteva votare solo a Roma; quindi questi nuovi cittadini, se volevano venire a votare dovevano fare giorni di viaggio per venire a votare, con costi notevoli in termini di tempo e di danaro. Si noti allora come questi nuovi cittadini incidono poco a livello di numero: vengono coinvolti solo i nobili che hanno la possibilità di trasferirsi a Roma, ma non riguarda tutti i cittadini. Il problema principale è che Roma rimane una città-stato quando ormai è diventata un Impero, senza assicurare a tutti i cittadini di partecipare attivamente alla vita politica. Alla fine il diritto romano diventa il medium culturale di tutta la penisola. I romani mettono i nuovi cittadini davanti ad un aut aut: chi prende la cittadinanza romana deve rinunciare al proprio diritto ed accogliere il diritto romano. Ci saranno alcune città come Napoli e Pozzuoli che non vorranno la cittadinanza ed alla propria organizzazione politica organizzata secondo le magistrature greche. Le altre comunità che invece accolgono la cittadinanza, rinunciano alle proprie leggi, e si diffonde ovunque il modello dei quattorviri: collegio di magistrati, 2 con poteri giudicanti e 2 con poteri simili a quelli degli edili. Ciò si traduce nella perdita di tutte le tradizioni autoctone. Questo è un aspetto sostanziale perché fino al 90 esisteva il sistema della doppia cittadinanza; la possibilità di governarsi con le proprie leggi, avendo una propria cittadinanza oltre a quella romana, limitandosi ad adottare alcuni istituti romanistici, dal 90 non sarà più possibile. Il 90 è un anno spartiacque: prima di questo anno la cittadinanza romana era conciliabile con un’altra cittadinanza. Torniamo a Roma, dove troviamo molti disordini. Nell’88 c’è un’altra guerra in Oriente: Mitridate Re del Ponto cerca di incitare le popolazioni vicine contro i romani, ergendosi come liberatore. E’ necessario mandare un esercito per sedare una rivolta: viene inviato un optimate, il console Lucio Cornelio Silla, con il compito di sconfiggere il ribelle Mitridate, riportando la pace nelle province dell’oriente. Mitridate cerca di convincere le popolazioni orientali che i romani sono dei conquistatori, ed ordina il massacro dei cittadini romani che si trovavano nelle province d’Asia per motivi di commercio: parliamo di migliaia di romani uccisi in un solo giorno. Da ciò dovrebbe essere chiara la delicatezza del ruolo di Silla. Mentre Silla è in oriente, a Roma si cerca, da parte dei populares, di mettere in difficoltà Silla, votando una legge che trasferisce il comando da Silla a Mario. Non era mai successo che un comandante venisse sollevato dall’incarico senza motivo, dato che Silla stava ormai vincendo. Si tratta di una scelta politica: togliere potere agli optimates per conferirlo ad un esponente dei populares. 91 Tutto ciò comporta un aumento delle violenze in città. Silla torna a Roma (sempre nell’88) e commette un’illegalità costituzionale: varca il pomerium mantenendo i fasci littori, ed entra in città con l’esercito in armi. Silla, che era un pro-magistrato, entra con questo potere illegittimo, dando vita alla prima marcia su Roma. Vediamo quali sono gli interventi (acta) dell’88: - Silla innanzitutto vuole mettere un freno al potere dei tribuni, probabilmente riducendoli ad un ruolo formale, togliendogli anche il potere dell’intercessio. - Non sappiamo se fu abolito il sistema di votazione delle centurie che era stata introdotta da Gaio Gracco. Silla, che vuole mantenere il potere nelle mani dei più ricchi – si parla infatti di restaurazione sillana – già nell’88 probabilmente abolisce la riforma di Gaio. Si vuole screditare quei poteri vicini alla fazione politica opposta. - Si procede ad una Lectio Senatus straordinaria. Si voleva cercare di controllare il Senato, inserendo gli uomini più fedeli; è lo stesso strumento che aveva utilizzato Tarquinio Prisco. Mario e Cinna approvano una serie di riforme contro il volere di Silla (e quindi contro gli optimates) che intanto era tornato in Oriente: per prima cosa si decide di inserire i cittadini ex italici in tutte e 35 le tribù, per alterare il corpo elettorale. E intanto Silla cosa fa? Cerca di venire a patti con Mitridate, rendendosi conto che la guerra richiederebbe ancora molti anni. Si arriva così ad una pace di compromesso, imponendo comunque dei tributi sia a Mitridate che ai suoi alleati. Silla torna a Roma nell’83 ed inizia la seconda marcia su Roma; anche in questo caso varca il pomerium senza togliere le scuri. Entrando a Roma senza deporre l’imperium crea nuovamente una situazione di illegalità costituzionale: le antiche norme vengono violate, senza tuttavia abrogarle, perché ciò sarebbe considerato qualcosa di davvero eversivo. Silla adotta il sistema delle liste di proscrizione: su queste liste vengono segnati i nominativi degli avversari politici, e venivano privati della cittadinanza (loro ed i loro figli), privati dei beni ed esiliati: furono, di fatto, proscritti ben 2000 cittadini romani tra senatori e cavalieri, e confiscati 350 milioni di sesterzi. Quello delle liste di proscrizione è un sistema che, nella storia romana, verrà più volte utilizzato, in quanto funzionale innanzitutto ad eliminare gli avversarsi, ma soprattutto capace di acquisire somme ingenti per ristorare le spese militari. Nell’82 vi è necessità di dare una connotazione alla posizione giuridica di Silla: egli, infatti, non era più console né proconsole. Le norme vietavano la iterazione del consolato, ma di fatto Mario aveva ricoperto il consolato per 7 anni, quindi la rottura già vi era stata. 92 Silla però riporta in auge l’antica dittatura. Abbiamo una Lex Valeria De Silla Dictatura: si conferivano a Silla una serie di poteri straordinari che avvicinavano più al decemvirato che al dittatore, acquisendo anche diversi poteri straordinari per quanto concerne la riforma costituzionale. Insomma non si tratta della dittatura repubblicana, che durava per 6 mesi e per determinati obiettivi: al contrario, qui, abbiamo un uomo solo al comando per quasi 2 anni, e sarà lui ad abdicare volontariamente. Cosa ci dicono le fonti sul potere di Silla? Sono soprattutto i greci come Appiano a parlarcene: 1) Innanzitutto Silla detiene il simbolo della dittatura, 24 littori che portano i fasci con le scuri anche in città, con impossibilità di ricorrere alle garanzie della provocatio. 2) Egli avrebbe avuto il potere di nominare i magistrati (quindi senza elezione). Su questo gli studiosi moderni non concordano: si ritiene che Silla scegliesse i candidati, che poi venivano votati dall’assemblea. 3) Poteva stabilire i confini, spostare il pomerium. Questa situazione va ad intaccare i poteri del Senato, ma è comunque una ipotesi attendibile. 4) Silla aveva il potere di designare i pro-consoli ed i pro-pretori, scegliendo tra le persone a lui più vicine e fedeli. 5) Egli poteva utilizzare i fondi pubblici senza rendicontare. Questo è assolutamente attendibile, perché valeva anche per la dittatura antica. 6) Silla avrebbe avuto un potere legislativo. Non è tuttavia attendibile che facesse leggi direttamente ma è invece possibile che Silla proponesse una rogatio (forse l’unico legittimato a proporre) che poi comunque doveva essere votata. 7) Silla è indicato dalle fonti con l’appellativo Felix, colui che è benedetto dalla fortuna. Si innalza una statua equestre nel foro (cosa non usuale per un soggetto ancora vivo), e vengono istituiti dei giochi pubblici per celebrare la propria vittoria. Si gettano così le basi per assumere le vesti di un sovrano orientale e non di un magistrato romano, cosa che si compirà definitivamente con l’ascesa di Giulio Cesare. 95 L’evoluzione del processo criminale Abbiamo più volte parlato di provocatio, per cui il cittadino condannato a morte poteva appellarsi all’assemblea (ricordiamo il caso di Orazio). Le fonti ci dicono che la provocatio sarebbe stata introdotta da una Lex Valeria del 509; poi abbiamo, sempre in materia di provocatio, una seconda legge del 449, ed infine una terza legge del 300. La maggioranza ritiene che di queste tre leggi sia storica soltanto la terza (del 300), e che quindi le altre due siano delle anticipazioni non storiche. Interessante è il fatto che abbiamo 3 leggi Valerie a distanza di molti anni, e questo farebbe pensare alla triplicazione di un unico provvedimento, triplicazione operata dalle fonti; in questo senso si ritiene tra l’altro che la legge del 509 sarebbe troppo antica. Negli ultimi decenni – Capogrossi in particolare – la dottrina si è interrogata sulla questione, cercando, partendo dalle fonti, di vedere se dobbiamo immaginare che le fonti si siano inventate le altre due leggi. Il primo elemento da valutare è che noi abbiamo più leggi che sono presentate dal membro di una stessa gens (si pensi alle lex licinie sesitie, alle riforme dei Gracchi): il fatto che siano ascritte alla stessa famiglia non ci deve far pensare necessariamente ad una triplicazione, perché, come osserva la storiografia più recente, probabilmente ciascuna gens aveva degli archivi su una determinata materia e quindi potevano presentare leggi in materia. Leggendo attentamente le fonti vediamo che esse non dicono affatto la stessa cosa su ogni legge: 1) Quella del 509, come concordemente riferiscono tutti gli autori greci e latini, fu approvata dai Comizi Centuriati: secondo tale legge “nessun magistrato può NECARE O VERBERARE sine provocatio”. Vedremo tra poco cosa significano questi termini. 2) La legge del 449 dice che non possono essere creati magistrati non soggetti alla provocatio; questa è, evidentemente, una legge differente. Si tratta, in effetti, una reazione al fatto che i decemviri, al potere nel biennio precedente, erano stati eletti sine provocatione. 3) Nella legge del 300 si utilizzano i termini “virgis cedere” e “securi percutere”. Le due espressioni sono corrispondenti a Necare o Verberare? Se sì, eventualmente, potremmo ipotizzare una duplicazione tra 509 e 300 (mentre, come abbiamo visto, di certo la 449 va considerata come legge autonoma e differente dalle altre due). Ci restano quindi la prima (509) e l’ultima (300), ed occorre rispondere alla seguente domanda: NECARE-VERBERARE sono analoghe a VIRGIS CEDERE e SECURI PERCUTERE?: - La maggioranza della dottrina ha detto che sono la stessa cosa, facendo riferimento alla pena di morte irrogata attraverso la securi percussio preceduta dalla fustigazione, tutte pene da un magistrato cum imperio. Di conseguenza, se sono condannato a morte per un crimine capitale posso, in ogni caso, ricorrere alla provocatio. 96 - Seguendo la suddetta interpretazione, però, dovremmo ritenere che i romani non sapessero esprimersi, perché un conto è NECARE-VERBERARE, ed un conto è il supplizio del virgis cedere – secuti percutere, cioè la decapitazione preceduta dal supplizio. - Neceare e Verberare invece indicano due tipi differenti di supplizio: NECARE indica tutte quelle morti senza ferite e senza sangue; VERBERARE è invece la morte con spargimento di sangue, ossia la fustigazione con le verghe (si pensi alla perduellio o alla pena per il seduttore della vestale). - Allora dovremmo ammettere la possibilità che la provocatio potesse essere applicata anche nel caso del parricidio (come ci diceva Festo, che non parlava di perduellio). Se ammettiamo questa ipotesi dobbiamo concludere che il cittadino romano poteva chiedere la provocatio anche per tutti quei crimini che non prevedevano spargimento di sangue (quelli con spargimento di sangue erano prevalentemente crimini militari come la sedizione). Di conseguenza, possiamo ritenere che, nel 300, la provocatio si estende a coloro che vengono puniti con la securi percussio, preceduta dalla fustigazione. - Ma ci si chiede: nel 509 il plebeo aveva la capacità di provocare? Probabilmente no, perché non avremmo allora avuto il tribuno della plebe con lo ius auxili. Allora possiamo dire che l’istituto della provocatio andasse a tutelare la libertas dei più ricchi, e non di tutti, rispetto ad abusi che può compiere il magistrato. In estrema sintesi possiamo dire che: - La legge del 509 introduce la provocatio per le morti con o senza spargimento di sangue, escludendo però la fustigazione seguita dalla decapitazione, riservata a crimini particolarmente gravi come la seditio. - Successivamente, nel 300, la provocatio viene estesa anche ai casi di condanna alla fustigazione seguita dalla decapitazione. Lo svolgimento del processo comiziale era il seguente: - Noi sappiamo che il magistrato accusatore doveva trovare innanzitutto le prove; c’erano tre contiones, riunioni informali, da parte di un magistrato cum imperium, spesso del pretore o addirittura dai tribuni, su delega dei consoli che mandavano gli auspicia (prima seconda e terza accusatio: riunioni informali). Perché i consoli delegavano? Era probabilmente una scelta politica, per evitare di inimicarsi il popolo. 97 - Si faceva conoscere pubblicamente i capi d’accusa ed i nomi degli accusati, vedendo quali reazioni suscitava l’accusa (poteva rendersi conto che il comizio era ostile); quando il magistrato ha le idee chiare convoca il comizio (quarta accusatio) in cui si vota, dopo aver ascoltato accusa e difesa; si vota con voto segreto su una tavoletta (assolvo o condanno; addirittura poi con una croce su tavole già preparate con A o C). - Da quando viene introdotto il voto segreto iniziano a fioccare le condanne, in precedenza si evitava perché spesso gli imputati erano soggetti importanti. In ogni caso vi era molta pressione sul Comizio, ed era facile ottenere assoluzioni. Questo processo era troppo farraginoso. Il Senato inizia ad arrogarsi il potere di creare tribunali straordinari: - Il caso più famoso è la Questio de Baccanalibus, che ci è giunto in via epigrafica. Al processo comiziale si affiancano questi tribunali creati caso per caso; per gli appartenenti al popolo minuto ricordiamo poi che vi erano i Tres-viri capitales. - Ecco che allora i tribunali del Senato vengono messi fuori legge dalla Lex Sempronia de Capite Civis, che ammette solo la possibilità di creare tribunali ad hoc sulla base di una legge comiziale, perché comunque vi è un controllo del popolo che legittima il tribunale. Nel caso del Senato, invece, non vi era alcuna legittimazione popolare. - Innanzitutto la Questio che fa da modello a tutte le altre è la questio de repetundis, circa le appropriazioni e le estorsioni a danno dei provinciali. Nelle fonti abbiamo un primo tribunale creato in base ad un plebiscito davanti ai comizi tributi (anno 172), contro un ex console accusato di aver ridotto in schiavitù i Liguri senza autorizzazione del popolo e del senato. - Un secondo tribunale si istituisce nel 171: ci sono dei legati della Spagna che vengono a Roma accusando il governatore della Spagna di comportamenti illeciti, come estorsioni, appropriazione indebita. Il Senato cerca di dare ascolto alle proteste ma la corte giudicante non è una corte penale: ci si limita a restituire agli spagnoli quanto era loro rubato, mandando in spagna 5 “recuperatores”, incaricati di ristorare il danno. Insomma questa legge del 171 non possiamo considerarla una legge penale vera e propria. - Lex Calpurnia (149) che riguarda sempre le repetunde. Viene creato un tribunale permanente presieduto dal Pretore peregrino, assistito da giurati di rango senatorio: anche in questo caso abbiamo un processo privatistico, perché si prevede solo la restituzione del maltolto.