Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

storia del diritto romano riassunto completo libro roma e il diritto, Sintesi del corso di Storia del Diritto Romano

cerami purpura corbino e metro con questi riassunti ho preso 28

Tipologia: Sintesi del corso

2012/2013
In offerta
30 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 02/10/2013

paola931
paola931 🇮🇹

4.4

(60)

17 documenti

1 / 83

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica storia del diritto romano riassunto completo libro roma e il diritto e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! STORIA DEL DIRITTO ROMANO LIBRO: ROMA E IL DIRITTO AUTORI: CERAMI, METRO, PURPURA E CORBINO RIASSUNTO COMPLETO PRIMA PARTE  1° CAPITOLO: LA COMUNITA’ PRIMITIVA, REGNUM. Secondo il racconto tradizionale Roma avrebbe avuto origine  intorno all’VIII sec. a.c. da un insediamento coloniale promosso  dalla vicina Albalonga. La città così fondata sarebbe stata  caratterizzata da istituzioni quali un capo unico vitalizio, un  consiglio di anziani e un’assemblea; da una originaria  bipartizione degli abitanti in un’aristocrazia dominante di  patrizi e in una classe subordinata di plebei. Come l’archeologia  ha consentito di determinare può considerarsi certa la presenza di  di insediamenti abitativi nell’area in sui sorse Roma già nel IX­  VIII sec. a.c ma è dubbia la possibilità della presenza in quei  luoghi di una comunità che tende a organizzarsi secondo i criteri  corrispondenti a quelli di una città­stato. Solo alla fine del VII  sec. a.C. infatti compaiono i primi segni della presenza certa di  una comunità che tende ad organizzarsi secondo criteri  corrispondenti a quelli di una città­stato nella quale è presente  uno spazio politico destinato alle funzioni politico­giudiziarie,  il comitium, accompagnato da elementi di un’organizzazione  caratterizzata da stabili relazioni sociali, istituzionali e  religiose, curia. Da ciò si è supposto che la più antica storia di  Roma sia caratterizzata dal passaggio da un sistema organizzativo  preurbano fondato su pagi, cioè aggregati rurali privi di un  centro, ad un sistema urbano, caratterizzato da un processo di  aggregazione culminato nella formazione di una città. È da tale  momento che è possibile tracciare la storia delle istituzioni e  dell’ordinamento di tale comunità. È a partire dal VII sec a.c.  che Roma si presenta come un aggregato che tende a configurarsi  come città­stato, una comunità (civitas) fatta di gruppi iure  sociati, sottoposti cioè ad un ordinamento che ne regola la  convivenza politica, che si caratterizza per il fatto di  riconoscere ai suoi appartenenti liberi di sesso maschile una  condizione che li rende idonei a scegliersi un capo e ad essere  guerrieri e proprietari. Il territorio di Roma appare  caratterizzato dalla sua distribuzione in un due parti. Una prima  parte, urbs, delimitata da uno spazio di confine segnato da riti  particolari e caratterizzato dalla presenza di mura e che i romani  chiameranno pomerium, sottratto alla possibilità di abitarlo e  1 ararlo, costituente il luogo destinato a sede della comunità, alle  attività politiche e di culto pubblico.  Una seconda parte  costituita da un contado, di indefinita estensione considerato  ager publicus, destinato ad assicurare alla comunità, attraverso  le attività agricole e pastorali, i fondamentali mezzi di  sussistenza. Gli abitanti di Roma si distinguevano  ab origine in  patricii e plebei. Solo i primi, discendenti di coloro che erano  stati membri del senato allorché la città era stata fondata, erano  organizzati in gentes, in aggregazioni cioè caratterizzate da un  vincolo di solidarietà che lega tra loro più gruppi familiari  aventi divinità, culti e costumi comuni, e dal reciproco diritto  dei gentiles di succedersi, in mancanza di possibile successione  intrafamiliare. Solo ai patrizi è inoltre consentito sedere in  senato, di rivestire cariche pubbliche e sacerdozi e di occupare  l’ager publicus. I plebei, la moltitudo costituita da tutti gli  altri appartenenti alla città, hanno piena capacità giuridica di  diritto privato e sono ammessi al godimento di diritti pubblici  rilevanti, come la partecipazione ai comitia e alle attività  militari. Ad essi è poi consentito legarsi ai patrizi attraverso  lo speciale vincolo di clientela e conseguire la possibilità di  sub­occupare l’ager publicus per concessione del patronus patrizio  cui si sono legati. La clientela comportava una serie di diritti e  doveri reciproci, tra cui il dovere del patronus di istruire,  consigliare ed assistere, anche in giudizio, il cliens, il  corrispettivo dovere del cliente di riscattare il patronus  prigioniero e il reciproco dovere di non accusarsi. Per quanto  riguarda le attività economiche, i patrizi si caratterizzavano per  essere dediti all’agricoltura e all’allevamento del bestiame,  mentre i plebei per essere dediti alle attività di trasformazione  dei prodotti e al loro commercio. L’unità organizzativa elementare  fu la curia, che indicava la riunione degli uomini (viri, uomini  cioè atti alle armi) legati ad una o più gentes nel corso della  quale si discutevano i problemi comuni e si compivano le cerimonie  religioso sacrali. Le curiae divennero la struttura politico­ amministrativa di base della civitas. Le curiae, ciascuna con un  proprio luogo stabile di riunione, con propria denominazione e  proprio capo (curio), erano in numero di 30. Tale numero  discendeva dall’adozione di uno schema organizzativo a base  ternaria e si coordinava con la tradizione di una popolazione già  distinta in tre gruppi (tribus):  I. I Ramnes, antichi seguaci del latino Romolo; I. I Tities, antichi seguaci del sabino Tito Tazio; II. I Luceres, che discendevano dal ceppo etrusco. Da ogni curia venivano levati 100 uomini in modo da assicurare la  formazione dell’esercito, all’epoca costituito appunto per la  fanteria della legione di 3000 uomini.La prima forma di assemblea  politica era costituita dal comitium, assemblea costituita da  cives che si radunavano convocati in un apposito luogo delimitato  i sacra, ivi comprese le attività giuridiche, per la necessità che  il ius non doveva contrastare con il fas, ossia la volontà divina  rivelata attraverso i signa.  In tale ambito l’autorità dei  pontefici non incontra limiti nell’autorità di alcuno, così anche  il rex, formalmente di rango più elevato rispetto al pontefice  massimo, doveva sostanzialmente subire le direttive del collegio  pontificale. Notevole importanza rivestiva poi il collegio degli  augures, costituito da 3 sacerdoti, depositari della scienza degli  auspicia e degli auguria. Essi erano gli interpreti delle regole e  dei riti collegati che governavano le indagini rivolte a conoscere  la volontà degli dei. Tuttavia trarre gli auspicia spettava a chi  era investito del supremo potere politico, quindi al rex, ma le  norme che li disciplinavano erano indicate dagli auguri, che  pertanto, nella sfera di loro competenza, avevano una posizione  analoga a quella dei pontefici, per cui si imponevano anche al  rex, il quale peraltro non poteva esercitare l’imperium se non  dopo l’inauguratio. Ai Feziali spettava poi la cura religiosa  degli atti con cui instauravano relazioni internazionali, quali la  dichiarazione di guerra, i trattati di pace. Altri collegi sacerdotali sono: 1 I Flamini, il cui compito era quello di mantenere aperto il  rapporto tra gli uomini e alcune sfere del divino; 2 Le Vestali, cui spettava di mantenere viva la fiamma di  Vesta; 3 I Salii, ai quali spettava di provvedere alle feste che  celebravano i passaggi stagionali dalla pace alla guerra; 4 I Fratres Arvales, cui spettava di assicurare i culti rivolti  a proteggere i campi coltivati;        Funzioni politiche Il rex è il capo politico della città. A lui spettano i poteri di  indirizzo e di organizzazione della vita della comunità, potere  che esercita facendosi approvare le relative proposte (leges  regiae). A lui spetta di esercitare, attraverso i suoi  subordinati, i poteri di polizia (c.d. coercitio) necessari per  mantenere ordinata la vita cittadina; può, dunque, ordinare  l’arresto e la fustigazione, irrogare multe. A lui spetta esigere  le prestazioni personali e monetarie necessarie per assicurare la  realizzazione delle opere è delle attività pubbliche. Il rex  presiede i processi privati e cura la repressione dei crimina.  Esso, nell’esercizio di tali funzioni è coadiuvato da un  praefectus urbi, che il rex nominava quando doveva assentarsi  dalla città perché si potesse rendere giustizia e provvedere agli  5 imprevisti; dai duoviri perduellionis e dai quaestores parricidii  incaricati di attività connesse alla repressione criminale. Funzioni militari Il rex è il supremo capo militare, i cui poteri esercita in virtù  dell’imperium, ossia della facoltà di rivolgere ordini non  sottoponibili ad alcun controllo e ai quali i destinatari non  possono sottrarsi. Ausiliari sono i comandanti delle singole unità  in cui è organizzato l’esercito. Oggetto di discussione se  esistessero un magister populi comandante dell’esercito e un  magister equitum comandante della cavalleria. LE RELAZIONI INTERNAZIONALI Sin dai primi secoli dell’ultimo millennio a.c. Roma è membro di  una lega che vede associate popolazioni con le quali ha in comune  lingua, convinzioni religiose e costumanza varie, e con le quali  intrattiene relazioni pacifiche.  L’appartenenza a tale lega  latina non limitava la sovranità degli aderenti, né quanto ai loro  ordinamenti interni, né quanto al loro diritto di guerra e di pace  con popolazioni non confederate. Essa prevede una assemblea  annuale nella quale convengono i princeps delle diverse comunità,  ed ha lo scopo di preservare l’unità di culto tra gli aderenti e  di favorire una loro politica tendenzialmente unitaria verso  l’esterno. La presidenza di essa in un primo momento era spettata  ad Albalonga che Roma sotto i re etruschi soppiantò e divenne la  comunità­guida dei popoli latini. Ciò tuttavia non esclude che Roma potesse avere rapporti anche con  comunità diverse definite Hostes (straniere) con le quali  intratteneva rapporti commerciali e pacifici ma anche relazioni di  guerra.La dichiarazione di guerra era affidata ad alcuni membri  del collegio dei Feriali che si recavano sul confine nemico per  compiere i gesti e rendere le dichiarazioni rituali. Molto antico e risalente a quest’epoca era anche il principio  antico secondo cui i prigionieri da iustum bellum divengono  schiavi di chi li cattura. LA MONARCHIA ETRUSCA Superata una prima fase nella quale Roma conservò i connotati di  una città che rifletteva i caratteri di una comunità nella quale  prevaleva l’influenza politica del ceppo latino­sabino, essa si  ritrovò governata da re etruschi.Questi si sarebbero insediati  senza il rispetto delle procedure fin allora osservate.La  tradizione rappresenta tale vicenda come una svolta che avrebbe  posto le premesse per la fine del regnum.I re etruschi avrebbero  modificato radicalmente l’atteggiamento verso il senato,  caratterizzando in senso marcatamente militare il potere del rex,  e ricercando spesso più che il consenso patrizio i favori della  plebe. Roma si presenta come il centro urbano più grande ed  importante del Lazio, formato da un’intensa rete di commerci e nel  quale appaiono svariate attività artigianali. L’affermarsi di  attività economiche urbane favorì la formazione di ceti  benestanti, esclusi tuttavia dal patriziato e quindi dal governo  della res publica. Ciò comportò un naturale avvicinamento tra re e  ceti urbani benestanti, in quanto i primi cercavano in tali ceti  il fondamento del loro consenso e i secondi aspiravano al  conseguimento di uno spazio politico più adeguato al peso  economico che essi avevano nella comunità. Alla monarchia etrusca  si devono svariati interventi diretti a caratterizzare in modo  nuovo le antiche istituzioni, nonché ad introdurne di nuove. Per  quanto riguarda il primo aspetto la novità è costituita dal  carattere militare con cui si connota la carica regia. Nessuno dei  re etruschi è asceso alla carica nel pieno rispetto delle forme e  dello spirito delle regole costituzionali; dunque, la  legittimazione della carica regia è più fondata sull’imperium che  essa è in grado di esprimere, che sul consenso degli organi  costituzionali. Agli stessi re etruschi si devono importanti  riforme militari; a Tarquinio Prisco si deve l’esercito di 3000  fanti (espressi dalle curiae)con armatura oplitica (scudo,  corazza, lancia e spada, elmo e minori accessori), accessibile,  per il suo costo, solo a chi disponesse di adeguate risorse  economiche; gli opliti costituivano una massa d’urto  particolarmente efficace sia nella difesa che nell’offesa. Sempre  a Tarquinio si deve l’introduzione di comandi unificati di  fanteria e cavalleria. A Servio Tullio si deve la radicale riforma  della leva dell’exsercitus, con la creazione dell’ordinamento  centuriato. Il rex è ora fondamentalmente il capo militare. Ciò ne  fa un organo che governa per forza propria e che ai patres non si  subordina ma si contrappone, contenendone il più possibile  l’influenza. In questa direzione risalgono una serie di interventi  limitativi del potere dell’antica aristocrazia gentilizia, quali  l’ampliamento del senato, con l’immissione di patres di evidente  fedeltà regia; l’allargamento nella composizione dei collegi  sacerdotali e la creazione di nuovi; una più indipendente gestione  dei poteri amministrativi, di polizia e giudiziari; l’introduzione  di una prima moneta “aes rude” che costituisce uno strumento  importante per l’ascesa sociale dei ceti non patrizi. È a Servio  Tullio che si deve la più importane novità costituzionale  introdotta dai re etruschi che è proprio la riforma della leva  dell’aexercitus. A metà del VI sec Roma era una realtà politica di  7 moderatore sulla questione dei debiti.  Fu l’occasione per la  rivolta e i plebei abbandonarono la città confluendo sul monte  Sacro o, forse, sull’Aventino. La secessione ebbe frutti  importanti. Fu confermato il rilievo politico dell’adunanza plebea  e il riconoscimento esplicito del diritto dei capi plebei  (tribuni) di intervenire con la propria intercessio contro le  decisioni consolari, nonché il riconoscimento delle leges sacrate,  cioè la liberazione dei plebei che erano stati fatti schiavi per  debiti. Dalla secessione in avanti l’organizzazione plebea  acquista stabilità. Il numero dei tribuni diventa di 10, ma il  tribunus non ha imperium e non è magistratus e non ha auspicia,  non può convocare né i comitia né il senatus. Al tribunus spetta  solo l’auxlium dei plebei che esercita attraverso il veto con cui  può paralizzare qualunque atto di governo e dei pubblici poteri in  genere. La nascita dei tribuni confina l’attività degli aediles, che erano  stati i primi referenti della plebe, al rango di ausiliari dei  primi; questi difendono dalle pretese di prestazioni abusive di  munera; promuovono processi multaticii, cioè diretti  all’irrogazione di multe. Tribuni e aediles vengono eletti nel  concilium (la cui convocazione e presidenza spetta ai tribuni).  Esso si riunisce per eleggere i propri capi e per discutere e  deliberare su ogni argomento ritenuto di interesse. La pronuncia  del concilium costituisce plebiscitum; essa non ha valore  impegnativo per la civitas, ma è uno strumento di pressione  politica in quanto manifesta il punto di vista della maggioranza  della popolazione. IL DECENVIRATO E LE LEGGI VALERIE HORATIE  Intorno alla metà del V sec e precisamente nel 451 e 450 a.c. il  movimento plebeo iniziò a promuovere il superamento delle antiche  discriminazioni costituzionali. Già nel 462 il tribuno Terentilio  Arsa aveva avanzato la proposta di eleggere un collegio di 5  magistrati con lo scopo di definire con leggi scritte i confini  dei poteri  consolari, proposta che non ebbe però successo.  Soltanto nel 451, sospesi le magistrature e il tribunato plebeo,  fu eletto un collegio di decemviri, con poteri illimitati e con il  compito di redigere un corpo di leggi scritte. Il decemvirato, dal  quale i plebei avrebbero accettato di restare esclusi in cambio di  alcune assicurazioni, tenne il governo della città al posto dei  consoli e fu autore di 10 tavole di leggi che sarebbero state poi  sottoposte all’approvazione dei comizi centuriati. Un secondo  decemvirato, questa volta di composizione mista, fu costituito per  l’anno successivo; esso fu autore di altre 2 tavole di leggi ma  avrebbe imperversato con arbitri e violenze provocando così una  sollevazione che pose fine all’esperimento decemvirale e fu  ripristinata la precedente costituzione. Le XII tavole redatte dai  decemviri sono state pubblicate dai nuovi consoli del 449 Valerio  Potito e Orazio Barbato, e fatti approvare dai comizi mediante un  insieme di provvedimenti, leges Valeriae Horatiae, che avrebbero  attribuito valore vincolante generale ai plebiscita (ossia le  pronunce del concilium); è stato introdotto il divieto di  costituzione di magistrature che non fossero esposte a provocatio;  è stata disposta la esclusione dalla protezione cittadina di  chiunque avesse recato offesa ai capi della plebe e, in  particolare, ai tribuni e edili. Il decemvirato avrebbe dovuto  essere un’istituzione permanente diretta a rendere possibile un  governo misto, ed esso esso fallì proprio in questo ruolo di  magistratura suprema mista. In seguito al plebiscito Canuleio del  445, i plebei riuscirono ad ottenere la caduta del divieto di  connubium con i patrizi; per cui ne conseguiva che unioni miste  attribuissero ai discendenti da un patrizio e una plebea  condizione patrizia, e conseguentemente era divenuto insensato il  divieto per i plebei di sumere auspicia (dato che da unioni miste  potevano nascere patricii la condizione di plebeo non costituiva  più un ostacolo alla purezza dei riti cui eventualmente  partecipassero) dal cui divieto i patrizi facevano discendere  l’incapacità dei plebei di rivestire il consolato. Da qui, nel 444  si fece frequente la decisione di non procedere all’elezione di  consoli ma di affidare il governo della città a tribuni militum  consolari protestate, ossia a capi militari investiti di poteri  consolari senza tuttavia essere consoli, con la conseguente  possibilità di includere tra di essi anche elementi plebei.  Tuttavia non si arrivò mai ad una gestione paritaria della res  pubblica, ma i tribuni erano sempre in numero inferiore rispetto a  quello dei patrizi. L’aspirazione plebea al consolato si realizzò  solo nel 367 quando si pervenne all’approvazione della proposta  dei tribuni Licinio Stolone e Sestio Laterano (leges liciniae  sextiae)di ammettere un plebeo alla suprema magistratura, ma ciò  nel quadro di un compromesso politico che prevedeva, tra l’altro,  l’introduzione di un modus nella possessio dell’ager publicus  nonchè la riserva al patriziato della funzione giurisdizionale  affidata ad un praetor. Tuttavia ciò non comportò la scomparsa  della distinzione degli ordini, ma caddero soltanto le più gravi  discriminazioni di ordine politico–costituzionale. Superato il problema della suprema carica il pareggiamento tra i  due ordini non incontrò speciali resistenze, tuttavia fu  necessario ancora un secolo per dirsi definitivamente compiuto.  Quanto ai sacerdozi, furono aperti ai plebei nel 300, in seguito  ad un plebiscito Ogulnio, i collegi degli auguri e dei pontefici  (in tale momento era in pieno svolgimento il conflitto con i  Sanniti). Cessata poi la discriminazione per le magistrature, i  plebei si videro, infatti, riconosciuta la possibilità di accedere  anche alla dittatura e alla censura, venne meno l’impossibilità  per i plebei di essere accolti in senato  sui posti che si  rendevano vacanti e riservati agli ex­magistrati. I senatori  plebei, tuttavia, conservarono a lungo, come conscripti, una  posizione che li rendeva esclusi da alcune funzioni come  l’auctoritas e l’interregnum. Venuta meno la discriminazione  politica dei plebei anche l’assemblea plebea finì con il vedersi  11 riconoscere rango di assemblea costituzionale e le sue delibere  finirono con l’essere riconosciute vincolanti per tutti i cives.  Si ritiene infatti che ai plebiscita in passato fosse riconosciuta  efficacia vincolante per la civitas ma ciò attraverso apposite  successive deliberazioni costituzionali. La stessa lex Valeria  Horatia del 449 potrebbe avere avuto il valore di provvedimento  attributivo ex post di valore vincolante generale alle precedenti  deliberazioni plebee. In ogni caso nel 287 una lex Hortensia  dispose la piena efficacia per tutti i cives delle delibere che da  quel momento in poi sarebbero state assunte dal concilio plebeo  (la lex fu votata a cavallo tra la fine delle guerre sannitiche e  l’inizio del conflitto con Taranto). ISTITUZIONI POLITICHE TRA IL V E IL II SEC I due secoli che intercorrono tra la fine del regnum e il  superamento del conflitto patrizio­plebeo, sono caratterizzati dal  succedersi di guerre e conflitti tra Roma e i suoi vicini. Tutto  il V sec vede Roma impegnata contro Equi e Volsci. Il IV sec si  apre con l’invasione gallica e la ripresa delle ostilità contro  Roma da parte dei Volsci e dal tentativo degli alleati Latini di  sottrarsi alla egemonia di Roma. Nel 326 si apre il conflitto con  i Sanniti che si chiuderà solo nel 290, e nel 280 Roma è impegnata  nella guerra con Taranto. Con le guerre Roma moltiplica il proprio  territorio e conquista anche il controllo di mercati sempre più  vasti. Alla fine del processo espansivo il territorio di Roma è  passato dai poco più di 800 Kmq ai circa 5300 kmq e la popolazione  è cresciuta dai 30/50 mila unità complessive ai circa 150 mila  cittadini maschi adulti. Le guerre vittoriose erano inoltre state  accompagnate dalla fondazione di numerose coloniae (si tratta di  comunità fondate a scopo militare), oltre che da una rete di  trattati che avevano legato a Roma numerose città italiane. Dal  punto di vista giuridico istituzionale Roma conservò la  distinzione tra l’urbs e l’ager Romanus; ma mentre l’urbs mantenne  inalterata la propria fisionomia istituzionale, l’ager romanus  subì una riorganizzazione. Il numero delle tribus si fissò nel 241  in quello di 35. L’ager romanus, espandendosi non fu più luogo di  residenza di gentes e di familiae, ma il luogo in cui erano  allogate intere comunità di tipo cittadino che o avevano perduto  l’autonomia politica ed erano state incorporate nel territorio  romano (municipia) o erano state appositamente fondate a scopo  militare (coloniae). La condizione degli abitanti si differenziava  a secondo che fossero liberi o schiavi, cives o altra condizione.  Tra i cives (che fossero tali per nascita o per liberazione negli  opportuni modi dalla schiavitù) rilevava l’essere patrizi o  plebei; ingenui (nati liberi) o liberti, solo ai primi era  consentito rivestire magistrature e sacerdozi; uomini o donne, in  quanto le seconde erano escluse da ogni attività pubblica. A tutti  spettava in ogni caso la protezione sul piano criminale.  Particolari norme regolavano ab antiquo la perdita della  inoltre poteri di coercitio e la iurisdictio relativamente alle  liti che insorgevano tra privati nelle materie di loro competenza. CARATTERI DELLE MAGISTRATURE ORDINARIE I caratteri delle magistrature ordinarie erano: elettività: competenti a votarne i titolari erano i comitia che si  esprimevano per centurie sotto la presidenza di un console, quando  si dovevano eleggere i magistrati maggiori, oppure sotto la  presidenza di un pretore quando si dovevano eleggere magistrati  minori. temporaneità : le singole magistrature erano temporanee; la norma  era l’annualità; per i censori eletti ogni 5 anni valeva un  principio diverso: restavano in carica per il tempo necessario ad  espletare le loro funzioni, in ogni caso non oltre i 18 mesi. onorarietà: tutte le magistrature erano Honorariae, per cui non  comportavano compensi per i titolari; pluralità di titolari: in alcuni casi si esigeva il principio  della collegialità, nel senso che ciascuno era considerato come  unico titolare che pertanto poteva compiere qualunque atto di  esercizio e chiunque poteva opporsi a tale atto mediante  l’intercessio. Competenti a votare i titolari delle magistrature  erano i  comitia, che si esprimevano per centurie, sotto la presidenza di  un console quando si dovevano eleggere magistrati c.d. maggiori e,  per tribù, sotto la presidenza di un pretore quando si dovevano  eleggere magistrati c.d. minori. POTERI DELLE MAGISTRATURE ORDINARIE Il principio generale è che nessun magistrato ordinario possa  operare fuori dal controllo degli altri magistrati; ciò può  comportare che una stessa facoltà spetti in concorso a più  magistrati che possono perciò trovarsi per un’eventuale diversità  di vedute in contrasto. Tutti i magistrati curuli (consoli,  pretori, censori, edili) hanno ius edicendi, ossia la facoltà di  fare comunicazioni ai cives aventi valore di ordinanza ed efficaci  solo per la durata della carica magistratuale. Nella tarda  repubblica la facoltà di edicere venne riconosciuta anche ai  governatori delle province. Ad alcuni magistrati, consoli,  pretori, edili, questori, competono poteri di coercitio, di  infliggere cioè sanzioni a tutti coloro che si sottraggono ai loro  ordini o ne impediscano l’esercizio delle funzioni ovvero  trasgrediscano disposizioni sulla cui vigenza debbano vigilare in  ragione della loro competenza.   Nei confronti della coercitio  15 magistratuale diretta ad una sanzione capitale, alla verberatio, o  a una multa superiore ad un certo ammontare, spetta ai cives la  provocatio ad populum, ossia la facoltà  di chiedere che si  proceda alla istruzione di un regolare processo comiziale. Fra i  magistrati ordinari, solo ai consoli e pretori è riconosciuta la  facoltà di convocare e presiedere il senato e i comitia. Consoli e  Pretori hanno pari facoltà di avanzare rogationes e di chiedere  che i comitia deliberino nel modo che essi ritengono sollecitare.  Spetta ai consoli la convocazione dei comitia centuriata per  l’elezione dei magistrati  c.d. maggiori e ai pretori la  convocazione dei comitia tributa per l’elezione  degli altri  magistrati. In età repubblicana avanzata venne riconosciuto ai  tribuni un ius senatus habendi, ossia la facoltà di chiamare il  senato a pronunciarsi su una loro richiesta. Ai consoli e pretori  è riconosciuto l’imperium, ossia la facoltà di rivolgere ordini,  principalmente in campo militare, ai quali non è consentito in  alcun modo sottrarsi. MAGISTRATURE STRAORDINARIE Magistrature straordinarie, poiché erano istituite solo per  esigenze particolari, furono istituite molte magistrature fra le  quali la dictatura che rimase in vita fino alle guerre  annibaliche. Il dictator durava in carica per il tempo necessario  a provvedere alle esigenze che ne avevano suggerito la creazione,  e in ogni caso per non più di 6 mesi. Il suo imperium era in  suscettibile di intercessio tribunizia ed si imponeva a quello di  tutti gli altri magistrati. Con la nomina del dictator, e la  conseguente sospensione di tutte le altre magistrature e dei  tribuni, i consoli e il senato si assumevano la responsabilità  politica dell’iniziativa di investire qualcuno dei supremi poteri  per cercare di superare l’eventuale paralisi derivante dal gioco  degli ordinari equilibri costituzionali.  Ogni magistrato si  trovava nella condizione di essere potis, ossia in posizione di  preminenza rispetto a chiunque; la sua potestas trovava soltanto  un limite nella potestas degli altri magistrati che potevano  trovarsi in una posizione di superiorità, parità o subordinazione.  Così i consoli hanno par potestas reciproca e maior potestas  rispetto agli altri magistrati; i pretori avevano minor potestas  rispetto ai consoli, ma maior potestas rispetto agli altri  magistrati, in relazione all’ordo magistratuum che prevedeva una  gerarchia che culminava nel consolato. Ciò comportava che lo  stesso potere attribuito a diversi magistrati avrà un’intensità  corrispondente alla potestas del magistrato. Una posizione a parte  hanno il dictator, cui spetta una posizione di preminenza assoluta  che lo pone anche al di sopra dei consoli e, tra i magistrati  ordinari, i censori, che si considerano investiti di potestas  maxima parallela e in nessun modo interferente a quella dei  consoli. Il censore può subire perciò, a parte il problema  dell’intercessio tribunizia, solo l’interferenza dell’altro  censore. Inoltre in virtù della collegialità della carica, il  venir meno meno dell’uno comporta anche il dovere per il  superstite di abdicare. Connessa con la potestas è la materia  degli auspicia. Solo ai magistrati patrizi spetta la facoltà di interrogare le  divinità e trarne indicazioni di comportamento, di sumere gli  auspicia. Gli auspicia non valevano solo per le attività che  dovesse personalmente compiere il magistrato ma per qualunque  attività pubblica; per cui ogni magistrato poteva obnuntiare,  ossia fare opposizione ad altro magistrato in forza di eventuali  signa sfavorevoli impeditivi dell’attività che questi stava per  intraprendere. Si poteva configurare così un contrasto che poteva  essere superato avendo riguardo al grado di potestas dei  magistrati; prevalevano gli auspicia di chi avesse maior potestas.  L’attività politica di un magistrato poteva allora essere impedita  dall’eventuale intercessio di un collega, ma anche da una  obnuntiatio rivoltagli da chi fosse capace di auspicia maiora  rispetto ai suoi. Ai magistrati plebei possono presentarsi solo  auspicia spontanei (oblativa). Gli auspicia si distinsero in:    ex coelo; ex tripudis; ex  quadrupedibus; ex diris. Per evitare che i delicati equilibri costituzionali che si erano  venuti creando venissero compromessi da concentrazioni di potere,  vennero fissati nel tempo una serie di principi. Innanzitutto fu  vietato il cumulo nella stessa persona di più magistrature. Era  possibile rivestire la carica solo dopo un intervallo decennale,  salvo per la censura e, poi, per il consolato per le quali fu  previsto un divieto assoluto di iterazione. Un intervallo di due  anni nella copertura di diverse magistrature fu fissato dalla lex  Villia del 180. Alla stessa lex Villia si debbono un insieme di  disposizioni per effetto delle quali si definì una gerarchia fra  le magistrature (ordo magistratuum) e un collegato cursus honorum,  ossia le tappe che dovevano essere osservate da chi percorreva la  carriera pubblica. Speciali onori discendevano dalle varie  magistrature. Si andava dall’eponimia per i consoli, che  consisteva nel dare il proprio nome all’anno, al diritto dei  censori di essere sepolti nel manto di porpora; al posto da  occupare in teatro. I magistrati potevano affidare speciali  funzioni a propri delegati. Così il console poteva nominare un  praefectus urbi; il pretore nominare a sua volta  praefecti iure  dicundo cui affidare l’esercizio della sua iurisdictio fuori Roma.  Particolarmente importante fu il consilium di giureconsulti, che  assisteva il praetor urbanus nell’esercizio della sua iurisdictio.  Al fine di evitare di interrompere l’attività di comandanti  militari impegnati in campagne di guerra che presentavano  andamento favorevole, si instaurò la prassi di prolungare il loro  imperium per il tempo necessario alla conclusione delle imprese  belliche in corso. Tale prassi venne estesa anche alle altre  17 operazioni di voto si procedeva allo spoglio, il diribitio. Nei  comizi elettorali si scriveva nella tabella il nome del prescelto;  in quelli legislativi “uti rogas” per approvare, “antiquo” per  respingere; in quelli giudiziari “A”, cioè absolvo, o “C”  condemno. Se l’assemblea era elettorale, il presidente operava la  renuntiatio, ossia accoglieva il risultato, e procedeva alla  creatio dell’eletto, che veniva designatus alla carica. Se  l’assemblea era legislativa il testo della rogatio approvata  diveniva lex publica e veniva preceduto da una praescriptio, che  conteneva gli elementi per la sua identificazione e collocazione  nel tempo,  e seguito da una sanctio, che definiva il rapporto con  il contesto normativo precedente. La riunione dei comitia veniva  preceduta da riunioni informali, c.d. contiones, nelle quali si  discutevano le proposte e si svolgevano i pareri a favore o  contro. Per tale motivo le rogationes legislative dovevano essere  promulgate, ossia affisse nel foro dal giorno dell’edictum di  indizione dei comitia a quello della loro riunione. Nei comitia  centuriata si votava in un ordine che rifletteva il privilegio che  stava alla base della loro organizzazione. La votazione si  interrompeva non appena si raggiungeva il quorum, di maggioranza  (97 voti). Nei comitia curiata e tributa si votava secondo un  ordine sorteggiato e si arrestavano non appena si fosse formata la  maggioranza dei voti. L’EXERCITUS E LA GUERRA L’organizzazione centuriata costituiva la base per la leva  dell’exercitus che rimase per molto tempo legato alla struttura  che ne aveva voluto Servio Tullio. Esso era pertanto costituito da  due legioni di linea di 3000 fanti ciascuna sostenuta da 1200  soldati di seconda linea (velites); i primi combattevano con  armatura pesante (offensiva con la lancia d’urto; difensiva con  scudo, corazza, elmo e schinieri), i secondi aveva un’armatura  leggera, ossia solo armi da getto. Ad ogni legione poi erano  aggregati 300 cavalieri. La leva di questo esercito avveniva  prelevando gli effettivi delle legioni di linea dalle prime tre  classi dei pedites e quelli dei velites dalle centurie della  quarta e quinta classe. Il comando delle legioni spettava ai  magistrati supremi e più tardi anche ai pretori. Ogni esercito  consolare era amministrato da un quaestor. Il generale era  circondato da un consilium e da una cohors praetori (cioè  contabili,medici,interpreti …).  Le legioni degli alleati erano  comandate ciascuna da sei praefecti romani nominati dal generale.  Vi era un limite alla leva costituito dal numero di campagne  sostenute, ma speciali esigenze potevano giustificare il tumultus,  ossia la leva di massa. L’armamento fu inizialmente a carico dei  soldati fino a quando non si distinsero gli equites equo publico,  cui spettava il mantenimento dell’armatura, dagli equites equo  privato, che dovevano provvedere da se. La funzione dell’exercitus  (bellum) era disciplinata da norme di diritto internazionale delle  quali era custode il collegio sacerdotale dei fetiales. La  funzione dell’exercitus era la conduzione della guerra. Il bellum  era iustum se dichiarato nelle forme dovute e in quanto tale  produceva gli effetti della schiavitù dei prigionieri e la  legittimità della praeda. A tal proposito era stata elaborata la  dottrina del postliminium secondo cui persone o cose che fossero  tornate, dopo la cattura, in territorio romano o alleato  riacquistavano la condizione giuridica originaria. IL TERRITORIO Il rapporto tra la civitas (organizzazione politica dei cives) e  il territorio era regolato dalle norme del diritto augurale che  distinguevano il territorio in 5 categorie : la prima era  costituita dall’ager romanus, la seconda dall’ager Gabinus, la  terza dall’ager peregrinus la quarta dall’ager hosticus e infine  quello incertus. Tuttavia ai fini dell’organizzazione giuridico­ amministrativa però è solo rilevante l’organizzazione dell’ager  Romanus e dell’ager peregrinus. L’ager Romanus, sottoposto alla  piena sovranità di Roma, in un primo momento si sviluppò con la  destinazione del territorio sottratto alle comunità vinte, agli  impieghi che potevano farsene come ager publicus, ossia  assegnandolo in proprietà ai cives in piccoli lotti, e in parte  lasciandolo alla occupabilità privata di chi ne avesse titolo.  In  un secondo momento il territorio incamerato venne invece  organizzato mediante la fondazione di nuove comunità cittadine,  coloniae, o l’istituzione di municipia, ossia comunità cittadine  assorbite in seguito al loro assoggettamento militare. Le prime  coloniae furono insediamenti a scopo militare di un piccolo numero  di cittadini ma nel tempo se ne sarebbero allargati dimensioni e  funzioni. Le coloniae avevano propri magistrati, senato e  assemblee, attraverso i quali si amministravano, ma i cives che le  abitavano avevano diritto, in quanto iscritti nelle tribù, di  esprimere il loro voto nei comitia. I municipia erano insediamenti  cittadini ai quali Roma, assorbendoli nel loro territorio, tolse  l’autonomia politica per ridurli a elementi della propria  organizzazione cittadina. Ad alcune comunità venne riconosciuta la  condizione di cittadinanza ma escludeva i loro appartenenti dal  voto e dalla possibilità di ambire alle magistrature, mentre ad  altre una cittadinanza piena; ad alcune veniva mantenuta  l’organizzazione interna mentre ad altre ne veniva imposta una  nuova. Si vennero allora a formare statuti municipali diversi tra  loro. L’AGER PEREGRINOS A partire dallo scioglimento della lega latina, Roma sviluppa, in  primis con i territori più prossimi all’ager romanus e nel quale  vivevano popoli in pace con Roma (l’ager peregrinus), una politica  di rapporti molteplici fondati sulle alleanze imposte con il  successo delle armi, che stabilivano ineguali obblighi. Ne  consegue il diffondersi di una miriade di rapporti di diverso  21 contenuto e unificati dal constante riconoscimento della  supremazia di Roma. In seguito alla sottomissione di Sicilia e  Sardegna, per cui anche il territorio delle due isole diveniva  ager peregrinus, Roma si limitò a garantirsene il controllo  militare affidando a pretori appositamente istituiti una  competenza  che si definiva dal suo ambito territoriale. Provincia  del praetor Sardiniensis fu la Sardegna e di quello Siciliensis fu  la Sicilia. Roma controllava in questo modo l’ager peregrinus  mantenendo la preesistente struttura politica e dichiarandolo  provincia di un magistrato fornito di imperium. Lo statuto di ogni  provincia è quello fissato nella lex provinciae, solitamente  dettata dallo stesso generale cui si doveva la conquista. GLI ISITITUTI DI CITTADINANZA NELLA REPUBBLICA MATURA Alla fine del III Sec si distinguevano:  cives romani che si distinguevano in cives optimo iure, con  pienezza di condizione che ne assicurava il diritto a tutte le  manifestazione che ne conseguivano sotto il profilo del ius  publicus e del ius privatum; e cives con una condizione più  attenuata; latini, che si distinguevano in prisci o veteres ai  quali spettavano nel campo del diritto pubblico il diritto di  partecipare alla divisione dell’ager publicus e della preda  bellica, facoltà di votare in Roma in una tribù a sorte, il ius  migrandi, ossia la facoltà di spostare il proprio domicilio in  Roma, e, nel campo del diritto privato, connubium e commercium  anche con i cives romani; e in coloniari, ai quali era  riconosciuta una condizione di cittadinanza attenuata, non avevano  ad esempio il ius connubi; Peregrini, suddistinti in ragione della  loro specifica condizione e fra i quali rientravano tutti coloro i  quali non fossero cives o latini. A quelli di migliore condizione  era riconosciuto solo il commercium con i cives e i latini.  Gli statuti della cittadinanza erano pertanto molteplici e  investivano: coloro che abitavano in senso stretto a Roma; le  colonie; i municipia; le alleate; le province LA FINANZA PUBBLICA Fino all’inizio del IV sec. le esigenze di spesa per Roma furono  assai modeste. Alle spese la res publica provvedeva mediante il  suo aerarium alimentato dal bottino di guerra e dalle  contribuzioni imposte ai nemici sconfitti. Se ciò risultava  insufficiente, si deliberava con un senatoconsulto il tributum, in  virtù del quale ciascuno era chiamato a contribuire alle spese di  guerra in una misura che oscillava tra lo 0,1 e lo 0,3 per cento  del proprio patrimonio accertato nell’ultimo censimento. Tale  tributum veniva spesso restituito a guerra conclusa se il tesoro  dello stato lo consentiva per l’entità del bottino conseguito. Tra  le altre voci di entrata ricordiamo: i proventi derivante dalle  affermazione di raggruppamenti politici. I gruppi che di volta in  volta detenevano il potere, consideravano le forze che ne erano  escluse non come parti costitutive della res publica, ma come  forze antigiuridiche da combattere ed eliminare. Da qui nascono  due strumenti di lotta politica, quali la dichiarazione di hostis  rei publicae , nemico della patria pronunziata a carico dei  cittadini romani che venivano privati della guarentigia della  provocatio; nonché le liste di proscrizioni, consistenti  nell’affissione in pubblico di elenchi di avversari politici, a  carico dei quali venivano disposte gravi misure repressive, quali  esecuzione sommaria in caso di cattura, esilio in caso di fuga. I PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA CRISI I problemi posti dalla causa prima e dalle concause furono  essenzialmente tre. 1. La questione agraria La questione agraria è legata alle modalità di gestione dell’ager  pubblicus e soprattutto di quella parte, che era la più  consistente, lasciata in teoria a qualsiasi cives volesse  occuparla ma in pratica ai detentori del potere economico. Le  grandi conquiste mediterranee incisero profondamente sulla  utilizzabilità di altre parti dell’ager publicus, ossia gli agri  vectigales, concessi dai censori a privati, normalmente per un  quinquennio, ma anche in perpetuo, con l’obbligo da parte del  concessionario della corresponsione di un canone all’aerarium  populi romani, canone che naturalmente non costituiva un problema  per gli esponenti dell’aristocrazia terriera, i quali poterono  aggregare ai propri lotti quelli prima dati in concessione a  piccoli coltivatori. Ciò ripropose fra nobiles e populares,  l’antico conflitto patrizio­plebeo, con l’aggravante questa volta  del dissolvimento della piccola proprietà rurale.Da qui ebbe  origine la lunga crisi della libera res publica; ciò fu avvertito  da Tiberio Sempronio Gracco, un aristocratico illuminato, che nel  133 a.C. propose ai concilia plebis tributa, in qualità di  tribuno, una rogatio, la Sempronia Agraria, diretta alla  ricostruzione del ceto medio romano­italico; con essa ripropose il  limite massimo di 500 iugeri all’occupazione dell’ager publicus  per ogni pater familias; la facoltà di ciascun figlio di occupare  altri 250 iugeri; distribuzione e attribuzione in piena proprietà  delle terre recuperate ai contadini poveri, con il vincolo della  inalienabilità; costituzione di una commissione di tre membri con  il compito di misurare, recuperare, assegnare e  distribuire i  25 lotti di ager publicus e di decidere su eventuali controversie in  modo inappellabile.I lavori della commissione furono però  paralizzati da un senatoconsulto ispirato da Scipione Emiliano,  che sottrasse ai triumviri ogni potere decisionale.La normativa di  Tiberio Gracco fu riproposta dal fratello Caio nel 123 a. C. ma fu  del tutto vanificata nell’arco di un decennio dalla morte di  Caio.Di questo periodo vanno ricordati tre plebisciti; uno rimosse  il limite della inalienabilità facilitando la rapida ricostruzione  dei latifondi; uno pose fine alla distribuzione di ager publicus  prescrivendo che gli occupanti pagassero il canone e che il  ricavato fosse distribuito tra i poveri; l’ultimo abolì tale  canone.Della riforma graccano sopravvisse pertanto solo la  trasformazione di gran parte dell’ager publicus in proprietà  privata. 2. La questione della cittadinanza. Il sistema federativo, o dell’incorporazione diretta, costituì la  questione della cittadinanza che culminerà in una durissima guerra  tra Roma e gli alleati italici degli anni 91/89. Il rilievo  politico della questione della cittadinanza con quella agraria fu  percepito da Caio Gracco, il quale, ritenendo pericoloso mantenere  in condizione di sudditanza politica gli alleati italici, nel 122  a.C. propose la concessione della piena cittadinanza ai latini e  del ius suffragii, ossi del diritto di voto in una tribù estratta  a sorte, a tutti gli italici.Tale proposta suscitò la reazione di  tutti i cives e il tribuno Livio Druso oppose l’intercessio alla  rogatio di Caio surrogandola con una serie di provvedimenti a  favore di populares e latini.Il problema poteva essere risolto  solo in modo organico e a ciò mirò nel 91 a.C. il tribuno Livio  Druso figlio, il quale con un provvedimento di legge, cercò di  risolvere il problema in via legislativa cercando di mediare  posizioni aristocratiche e graccane. Egli però venne ucciso, nel  corso di un complotto da chi temeva la fine dei privilegi romani,  prima che la rogatio fosse sottoposta a votazione. La sua  uccisione diede l’avvio alla guerra italica, bellum sociale. Gli alleati costituirono una confederazione di civitates, con  capitale Corfinium, negli Abruzzi, che assunse il nome di  Italica.La guerra si concluse nell’89 quando Roma fu costretta a  comporre il conflitto, non solo in via militare, ma anche  con  concessioni politiche. Nel 90 una lex Iulia concesse la  cittadinanza romana a tutti i latini ed Italici rimasti fedeli a  Roma; mentre la lex Plautia Papiria attribuì la cittadinanza a  tutti i socii che ne avessero fatto richiesta entro 60 gg.Roma  divenne così communis patria di tutte le popolazioni  italiche.Tuttavia rimase il problema della distribuzione dei nuovi  cittadini nelle tribù territoriali; problema oggetto di dispute  tra ottimati che volevano distribuire i novi cives in poche tribù,  e popolari che miravano a distribuirli in tutte le tribù, in  conformità ad un progetto proposto nell’88 dal tribuno Publio  Sulpicio Rufo. Le linee essenziali della lex sulpicia furono fatte  definitivamente approvare nell’87, fra violentissimi contrasti dal  console Cornelio Cinna. Da tale momento l’effettiva partecipazione  dei cives ai lavori delle assemblee popolari fu virtualmente  ristretta alle masse urbane di Roma. 3. Questione dell’exercitus. Prima della riforma di Caio Mario, l’esercito serviano poggiava su  due criteri organizzativi; una simmetria fra il ruolo militare del  civis ed il suo ruolo politico nel comizio; e il conferimento del  supremo comando militare al magistratus populi romani investito  anche del comando civile.La riforma mariana incise su entrambi i  principi, da un lato estendendo il servizio militare ai capite  censi dietro promessa di ricompensa in terreni e denaro, e  dall’altro lato gettando le basi di una scissione tra imperium  domi ed imperium militiae, culminata nella distinzione tra potere  giurisdizionale e civile di pretori e consoli a Roma e in Italia,  e potere militare dei pro­pretori e proconsoli nelle province.Le  conseguenze che ne derivarono furono, da un lato il superamento  della regola che precludeva al centurione ed ai militari dei  ranghi l’accesso  ai ruoli dell’ufficialità, dall’altro  l’affermazione dell’esercito professionale consentì a quanti  avessero conseguito, grazie alla milizia, il censo equestre, di  adire le magistrature e di aspirare a far parte del senato e delle  corti giudicanti. L’arruolamento dei capite censi spezzò poi la  simmetria istituzionale  fra il ruolo di capo civile ed il ruolo  militare del comandante dell’esercito. Ciò comportò il primato del  potere militare su quello civile  contro cui lottò Cicerone  sostenendo l’opposto principio del primato del potere civile ; la  diffusa accettazione del principio secondo cui si doveva osservare  in tempo di pace le consuetudini e obbedire in tempo di guerra  alla necessità; formazione di una rilevante clientela militare che  affianca e a volte surroga la clientela civile nel corso delle  lotte politiche e delle guerre civili.Da tutto ciò scaturirono  determinate conseguenze che riguardavano il conferimento per  lunghi periodi del proconsolato; il cumulo del consolato con il  proconsolato e il conferimento del comando militare a semplici  privati. LE VICENDE DELLA CRISI Nell’arco dell’età della crisi, dal 133 a.C. al 29 a.C., si  susseguono una serie di vicende politico­istituzionali:il  movimento graccano e il tentativo di razionalizzazione del sistema  costituzionale in senso democratico; la reazione sillana e il  tentativo di razionalizzazione del sistema in senso aristocratico;  la dissoluzione della costituzione sillana; la dittatura cesariana  27 sulla base di alcune direttive: ridimensionamento dei poteri e  delle funzioni del tribunato, mediante la lex Cornelia de  tribunicia potestate ridusse, infatti, il tribunato a mera  parvenza istituzionale limitando i poteri del tribuno, privando i  tribuni del potere di veto (ius intercessionis) e del potere di  proporre leggi.  Abrogazione della lex Sempronia de Comitiis e  compressione delle competenze delle assemblee popolari. Venne  attuata con la lex Cornelia de comitiis centuriatis  che abolì il  metodo di votazione del sorteggio e ripristinò quello originario.  Con la lex Cornelia de sacerdotiis abolì la disposizione della lex  Domitia sul coinvolgimento dei comitia tributa nel procedimento di  investitura dei pontefici e degli auguri. Riordinamento e  ridimensionamento del ruolo politico delle magistrature attuato  mediante un gruppo di leggi Cornelie. La lex de provinciis  ordinandis sottrasse il comando militare a consoli e a pretori, ai  quali fu consentito, durante l’anno di carica, l’esercizio delle  solo potere civile e giurisdizionale, ma con l’onere di assumere,  alla scadenza della carica, in qualità di promagistrati,  l’imperium militae nelle province loro assegnate dal senato.  potenziamento delle attribuzioni e della direzione politica del  senato è il prodotto di una serie di interventi del dittatore  sulla composizione dell’assemblea senatoria. Silla elevò il numero  di senatori a un massimo di 600 procedendo alla nomina di nuovi  300 senatori; limitò i poteri dei tribuni, magistrati e comizi, e  provocò il  potenziamento dei poteri del senato, che si  arricchirono della legibus solutio, ossia della potestà di  liberare dall’osservanza delle leggi. La costituzione sillana  venne smantellata del tutto negli anni immediatamente successivi  all’abdicazione del suo autore. Di essa sopravvissero solo pochi  punti, quali l’abrogazione del metodo di votazione per sorteggio  nei comizi centuriati, e la netta separazione fra imperium domi e  imperium militiae, che favorì la formazione di potenti alleanze  politiche, fondate sulla forza militare ed economica dei  componenti, come il primo triumvirato fra Pompeo, Cesare e Crasso  sfociato nella guerra fra Cesare e Pompeo. Falliti i tentativi di  trovare un’intesa politica con Pompeo ed il senato, Giulio Cesare  varcò, nel gennaio del 49 a.C. il Rubicone, che segnava il confine  della città­stato, dando inizio a una guerra civile. In forza  della dittatura conferitagli (dopo le lunghe vicende del conflitto  politico­militare ) , fermamente convinto di operare una  significativa commutatio dello status rei publicae, tentò di  razionalizzare il sistema consociativo della libera res publica  attribuendone la suprema direzione politica al dictator, quale  magistrato unico e annuale. Cesare volle perseguire un duplice  obiettivo politico:  conferire rapidità ed efficacia alla direzione politica di Roma e  dei territori assoggettati, liberando il popolo dalle continue  lotte fra opposte fazioni;neutralizzare la prevedibile opposizione  politica con il reiterato rifiuto della forma (titolo) e della  sostanza (atemporaneità) del potere regio .I punti fondamentali della ordinatio cesariana furono: attribuzione al dittatore di controlli primari e secondari su  senato, magistratura e comizi; integrazione dell’apparato tradizionale con praefecti urbi pro  praetore, familiares che costituiscono il precedente storico dei  nova officia imperiali del principato ­costituzione di una segreteria di stato ­accentramento delle strutture organizzative dell’impero  configurando Roma come capitale dell’Impero; accentramento delle fonti del diritto al fine di conferire  certezza al ius civitatis. Conferita a Cesare nel 44 a.C. la dittatura a vita, fece venir  meno il carattere della dictatoris dictio, ossia la temporaneità  del conferimento del potere; questi divenne un monarca.Ma la  radicale svolta istituzionale provocò la reazione di quanti erano  avversi alla sostanza politica del regnum, che sfociò  nell’uccisione di Cesare. In tal senso i congiurati si illusero di  far risorgere la res publica, ma non fu così perché la commutatio  cesariana rispondeva a reali esigenze di ordine e sicurezza, e  come tale era stata recepita ed assimilata da larghi strati  dell’opinione publica, cosicché gli unici risultati ottenuti dai  congiurati furono costituiti dall’impunità, tuttavia temporanea, e  dalla formale abolizione per senatusconsultum, della dittatura.  Con ciò non si volle cancellare l’opera politica di Cesare ma la  potenzialità degenerativa della carica da lui  rivestita.L’impunità, infatti, fu vanificata da una lex Pedia  proposta dal console Pedio che istituì un’apposita quaestio  straordinaria per la persecuzione dei cesaricidi, configurando  l’uccisione di Cesare come perduellio e punendo i colpevoli con  l’interdictio aqua et igni.L’evento decisivo che comportò la  completa liquidazione del regime della libera res publica si  verificò nel 43 con l’accordo fra tre potenti capi cesariani,  Ottaviano, Antonio e Lepido, accordo sancito da una lex Titia del  novembre del 43 che istituì, su rogatio del tribuno della plebe  Tizio, il triumvirato costituenteLa lex Titia attribuì ai  triumviri poteri illimitati, sostitutivi sostanzialmente delle  attribuzioni delle magistrature ordinarie per un periodo di 5  anni.I Triumviri divinizzarono la memoria di Cesare e con tale  termine non si denotò più la persona ma il ruolo politico del capo  carismatico.La fine della libera res publica si ebbe con la  battaglia di Filippi in Macedonia che culminò nel suicidio di  Bruto e Cassio nel 42.L’accordo fra i triumviri, sfociò nella  guerra fra Antonio e Ottaviano, guerra imputabile in parte a gravi  errori politici di Antonio che, cedendo alle lusinghe di  Cleopatra, regina d’Egitto, aveva programmato l’assegnazione delle  province orientali alla stessa Cleopatra ed ai figli avuti da lei;  31 Ottaviano e i suoi consiglieri, prospettarono il conflitto non  come guerra interna contro Antonio, ma come guerra esterna contro  Cleopatra per il recupero delle province orientali. Sconfitti  Antonio e Cleopatra ad Azio ed aggregato nel 30, l’Egitto  all’impero romano, gli eserciti e le popolazioni civili giurarono  fedeltà ad Ottaviano e questi, proclamato Augusto nel 27, affermò  nel suo testamento politico “res Gestae” che egli conseguì il  supremo potere politico per consenso universale.  Ottaviano  diviene padrone incontrastato dell’occidente e dell’oriente; si  apre così una nuova fase della civiltà romana, il Saeculum  Augustum. 4°CAPITOLO: PRINCIPATO La fondazione del principato è legata ai fatti istituzionali che  si verificarono nel 27 e nel 23 a.C. che determinarono  l’affermazione di un novus status rei publicae. Gli eventi del 27  a.C., che si ritrovano in un brano del testamento politico di  Ottaviano Augusto, scritto pochi mesi prima della sua morte, sono  costituiti in primo luogo dal gesto politico, etichettato come  translatio rei publicae, con il quale Ottaviano volle conferire  una base ideologica al nascente regime politico, additando nel  potere decisionale del senato e del popolo la fonte di  legittimazione del potere imperiale, cioè egli trasferisce la res  publica al potere decisionale del senato e del popolo romano. Così  operando Ottaviano recuperava da un lato la concezione cesariana  del consenso come base del potere personale e invece da un lato  preveniva i rischi che sarebbero potuti derivare dall’esercizio di  un potere tendenzialmente atemporaneo. La rinunzia al supremo  potere si tradusse nel conferimento ad Ottaviano del titolo di  Augustus e nella attribuzione allo stesso di un imperium decennale  su tutte le province non ancora pacificate. Egli, in quanto  augustus fu superiore a tutti per auctoritas. Tale termine, al  pari dell’appellativo augustus, deriva da “augere”, cioè  accrescere, per cui ciò s’intende che egli era titolare di un  potere ordinante, destinato a potenziare, integrare e coordinare i  singoli poteri costituzionali. L’evento del 23 a.C.  consistette  nella definitiva consacrazione del potere ordinante svolto da  Augusto con l’attribuzione di 2 poteri che costituiranno i  pilastri istituzionali del nuovo regime:  ­ la tribunicia potestas (imperium domi)  a vita  ­ l’imperium proconsulare maius et infinitum (imperium  militiae).  Il primo conferì ad Augusto il potere di coordinare le funzioni  del senato, delle magistrature e del tribunato della plebe, al  fine di superare e comporre il dualismo fra potere aristocratico e  potere tribunizio.Il secondo gli conferì il potere di coordinare  le prerogative e le funzioni dei governatori provinciali con le  le frequenti concessioni della cittadinanza a singoli e a  comunità; la diffusa esigenza di uniformità fiscale tra romani e  provinciali, anche se fu un’esigenza imperfettamente soddisfatta  in seguito all’editto di Caracalla perché all’estensione  dell’imposta sulle manomissioni e sulle successioni ai nuovi cives  non corrispose un’analoga estensione dell’imposta fondiaria ai  fondi italici.  Per quanto riguarda gli effetti della consistutio : nel settore di diritto pubblico l’editto produsse effetti di: ordine costituzionale determinando la costituzionalizzazione del  rapporto fra Italia, città libere e province; ordine amministrativo, con l’assimilazione degli ordinamenti delle  città libere agli ordinamenti municipali; ordine fiscale, con l’estensione della vicesima manumissionum e  della vicesima hereditatum ai nuovio cittadini; di ordine giudiziario, con la generalizzazione del ius gladii. Nel settore di diritto privato l’editto determinò l’insorgere di  complessi rapporti fra diritto ufficiale romano e diritti  consuetudinari locali; rapporti che diedero vita ai diritti  volgari. ANARCHIA MILITARE E CRISI DEL NUOVO STATUS Il periodo compreso fra la morte di Alessandro Severo (235 d.C.) e  l’avvento dell’impero di Diocleziano, nel 284 d.c., è  caratterizzato da una lunga anarchia militare che condusse alla  completa dissoluzione del novus status rei publicae; tale periodo  costituisce, dunque, una fase di transizione dal principato al  dominato.La crisi del principato discende dal concorso di cause di  varia natura:di ordine costituzionale, con la degenerazione  dell’auctoritas princips in potere dispotico, che culmina  nell’assunzione ufficiale dell’appellativo “dominus et deus” da  parte di Aureliano; e per la mancanza di una norma regolativa  della successione nella carica imperiale;di ordine politico, con  la formazione di una nuova aristocrazia militare  che assurge ad  unica classe dirigente surrogando l’aristocrazia senatoria; e  nell’affermazione della figura dell’imperatore­soldato;di ordine  militare, da imputare all’incapacità del governo centrale di  difendere i confini dell’impero lungo la linea reno­danubiana e  persiana;di ordine economico­sociale consistenti nell’involuzione  del sistema schiavistico e del grande commercio transmarino;di  ordine finanziario­monetarie, consistenti nel vertiginoso aumento  della spesa pubblica a causa dell’esplosione della burocrazia, da  35 ciò l’aumento della pressione fiscale e la riduzione del peso  metallico delle monete; di ordine spirituale consistenti  nell’involuzione del paganesimo e progressiva diffusione del  cristianesimo. LA CURA ET TUTELA REI PUBLICAE UNIVERSA DEL PRINCEPS Il ruolo ordinante svolto dall’auctoritas principis si esplica in  una duplice direzione: ­ cura et tutela rei publicae universa; ­ cura legum et morum. Tali curae rappresentano le esplicazioni dei 2 poteri  istituzionali, e cioè la tribunicia potestas (la funzione  ordinante svolte all’interno dello Stato­città) e l’imperium  proconsulare maius et infinitum (la funzione ordinante svolte nei  rapporti fra ordinamento centrale ed ordinamenti periferici), nei  quali si risolve appunto l’auctoritas principis.La cura et tutela  rei publicae universa attiene all’organizzazione politico­ amministrativa dell’impero e si risolve in una complessa attività  di promozione, controllo e integrazione dei compiti di tutto  l’impero. Tale attività produrrà un duplice risultato: coordinamento e unificazione successiva di tutti i territori della  comunità romana; progressiva differenziazione tra funzioni di decisione e  d’indirizzo politico, che si accentrano sempre più nelle mani del  principe e dei suoi più alti funzionari, e funzioni  amministrative, accentrati nella burocrazia imperiale. IL SENATO Nei confronti dell’apparato tradizionale, Augusto evitò radicali  innovazioni, ed operò in modo che formalmente tutto rimanesse come  prima, affinché poi tutto mutasse radicalmente. In forza  dell’auctoritas si limitò a promuovere, dirigere e controllare le  funzioni e i poteri dell’apparato tradizionale, di modo che  sarebbe stato agevole pervenire allo svuotamento dei poteri di  decisione e di indirizzo politico del senato, delle assemblee  popolari e delle magistrature. Infatti Augusto in forza  dell’auctoritas si limitò a promuovere, dirigere e controllare le  funzioni e i poteri dell’apparato tradizionale ben sapendo che  così operando sarebbe stato facile prevenire allo svuotamento dei  poteri di decisione e di indirizzo politico del senato, delle  assemblee popolari e magistrature. Infatti senza Augusto sarebbe  stata impossibile lìopera di Adriano, mentre Cesare avrebbe avuto  l’imprudenza di anticipare parte delle innovazioni adrianee.Nei  confronti del senato Augusto introdusse significative  innovazioni:quanto alla composizione, Ottaviano ridusse il numero  dei senatori a 600 e la scelta di questi veniva effettuata o tra  gli ex magistrati o tra semplici cittadini assimilati a ex  magistrati; quanto al regolamento interno, sanzionò  l’obbligatorietà della presenza con più gravi pene pecuniarie. Il  senato veniva convocato normalmente dal principe o da un  magistrato, sempre che non intervenisse l’intercessio del  principe;quanto alle funzioni, furono introdotte due nuove  funzioni: l’una attiene all’investitura del principe e l’altra al  provvedimento con il quale il senato disponeva, dopo la morte del  principe, o la divinizzazione o la damnatio memoriae, che  comportava, oltre alla cancellazione del nome dagli atti e dai  luoghi pubblici, il divieto di funerali solenni, di erezione di  statue e di giuramenti in suo nome; solo in alcuni settori, in  particolare in quello della politica estera e dell’amministrazione  finanziaria, l’auctoritas principis si sostituì alla originaria  competenza del senato, anche se ciò non costituì mai una  usurpazione dei poteri del senato, ma risultato di formali  concessioni del senato e del popolo romano, richiamate  espressamente nella lex imperio. I COMIZI Nel contesto politico­ideologico della translatio rei publicae,  Augusto cercò di ripristinare i poteri dei comizi, ripristino che  fu però limitato alle sole deliberazioni legislative ed  elettorali, ma non anche alle deliberazioni giudiziarie che furono  implicitamente soppresse. Ed infatti, riordinando e unificando il  rito processuale delle varie quaestiones perpetuae, soppresse  implicitamente i iudicia populi.Per quanto attiene alla funzione  legislativa dei comizi e dei concilia plebis tributa, propose o  fece proporre numerose leggi che innovarono in diversi campi il  ius romanorum.Per quanto riguarda la funzione elettorale, Augusto  apportò sostanziali modifiche alla procedura per l’elezione di  consoli e pretori, articolandola in due fasi. Una prima fase,  denominata destinatio consisteva nella scelta dei candidati da  sottoporre all’approvazione dei comizi, effettuata da 10 centurie  di senatori e cavalieri. La seconda fase, creatio, consisteva  nell’approvazione, da parte dei comizi, dei candidati scelti dalle  centurie destinatrici.  LE MAGISTRATURE 37 un Scrinium a cognitionibus, addetto all’istruzione delle  cognitiones extra ordinem; un Scrinium a rationibus, addetto all’amministrazione delle  entrate che confluivano nel fiscus Caesaris; un Scrinium a memoria, addetto all’archivio imperiale  e alla  preparazione dei discorsi del principe. IL CONSILIUM PRINCIPIS  Facevano parte del consilium i più alti funzionari imperiali,  nonché eminenti giuristi. Era presieduto dallo stesso principe e,  in sua vece, da un praefectus pretorio. È molto probabile che il  consilium fosse articolato in sezioni competenti per specifiche  materie. L’ASSETTO TERRITORIALE Per quanto riguarda l’organizzazione amministrativa del territorio  dell’impero, bisogna distinguere due momenti, prima e dopo  l’editto di Caracalla o constitutio antoniniana.Prima dell’editto  di Caracalla, che concesse la cittadinanza romana a tutti gli  abitanti dell’impero, il territorio dell’impero era formato dal  territorio metropolitano dello stato­città, coincidente con  l’intera penisola italica, e dai territori delle province e delle  città federate. L’impero romano costituisce sempre non già un  organismo unitario, bensì un complesso organismo politico  nell’ambito del quale le diverse componenti erano fra loro legate  da vincoli o di natura internazionale (Italia e città federate) o  di natura costituzionale (Italia e province).Grazie all’imperium  proconsulare maius et infinitum del principe la classe dirigente  imperiale riuscì a realizzare una funzionale saldatura fra Italia,  province e città federate.Dunque, l’imperium proconsulare maius et  infinitum del principe facilitò il passaggio graduale dal modello  istituzionale dello stato­città al modello istituzionale dello  stato­impero, surrogazione divenuta definitiva con l’editto di  Caracalla (212 d.C.).Con la concessione della cittadinanza romana  a tutti gli abitanti dell’impero, l’impero romano costituì un  organismo unitario, contraddistinto da unità di territorio,  popolazione, ordinamento giuridico.La città di Roma acquista il  ruolo definitivo di capitale dell’impero, ruolo che fu esaltato  con l’istituzione di prefetti e curatori e con  l’istituzionalizzazione della cancelleria imperiale e del  consilium principis, aventi competenza su tutto il territorio  dell’impero, ma anche dalla divisione dell’urbe in 4 regioni. La  riorganizzazione amministrativa di tutta l’Italia fu realizzata  con la divisione augustea del territorio italico in 11 regioni con  il preciso scopo di distinguerlo sotto il profilo politico  amministrativo dalle 14 regioni della capitale. Inoltre  l’ordinamento delle singole città italiche fu improntato su una  più marcata uniformità sul modello tracciato dalla lex Iulia  municipalis.  Una riorganizzazione amministrativa di tutta  l’Italia fu realizzata con la divisione augustea del territorio  italico in 11 regioni, allo scopo di distinguerlo dalle regioni  della capitale.Per quanto attiene invece alle singole città  italiche, la novità fu costituita dall’invio di curatores rei  publicae o civitatis, di nomina imperiale, con il compito di  controllare i municipi finanziariamente più dissestati; nonché  dall’istituzione ad opera di Adriano di 4 consulares con il  compito di alta giurisdizione civile e di controllo amministrativo  sull’attività delle autorità locali. LE PROVINCE Ciò che caratterizza l’ordinamento provinciale è la divisione  amministrativa delle province in due gruppi, senatoriali e  imperiali.Le province senatorie continuarono ad essere rette o da  proconsoli (Africa e Asia) accompagnati da 12 littori, o da  propretori (tutte le altre) seguiti da 6 littori, che restavano in  carica un anno salvo eventuale proroga. I littori avevano poteri  esclusivamente civili e non militari e la loro presenza era  meramente simbolica.Il governo delle province imperiali era  affidato a legati Augusti pro praetore ovvero a procuratores  Augusti.Uno statuto speciale fu, invece, riservato all’Egitto,  retto da un praefectus Aegypti o Augustalis, che aveva il ruolo di  vicerè, coadiuvato da un iuridicus per l’amministrazione della  giustizia e da un ideologo per l’amministrazione  finanziaria.Nell’ambito poi del territorio delle province, sia  senatoriali che imperiali, esistevano civitates Romanae, ossia  municipia e coloniae, e civitates peregrinae, foederatae o  liberae. Mentre le prime facevano parte della civitas Romana, le  seconde costituivano territori istituzionalmente distinti sia  dalla civitas romana che dalla provincia. Il potere del  governatore si estendeva alle civitates Romanae e a quelle  liberae, ma non anche alle civitates foederatae, la cui  indipendenza era garantita dal diritto internazionale. LA FINANZA PUBBLICA (non la chiede quasi mai ) L’ordinamento finanziario della libera res publica era incentrato  sull’aerarium populi romani, custodito e gestito dai questori  sotto la direzione e vigilanza del senato. Esso era alimentato  dalla vicesima manomissionum, dall’imposta fondiaria delle  province senatorie, dal ricavato dei beni dei condannati, dei beni  ereditari senza successori. Alla gestione dello stesso furono  preposti due praefecti scelti dal principe fra i praetorii.Augusto  lasciò sopravvivere il precedente ordinamento finanziario, ma lo  integrò con l’istituzione dell’aerarium militare nel 6 d.C.,  41 destinato a far fronte all’onere dell’esercito professionale  permanente. Esso era alimentato dall’imposta del 5% sulle  successioni testamentarie, dall’imposta dell’1% sulle vendite  pubbliche all’incanto, nonché da elargizioni dell’imperartore. Era  diretto da tre praefecti.La terza cassa pubblica, la cassa  imperiale (fiscus Caesaris), inizialmente non ebbe una struttura  unitaria, ma constava di tanti fisci quante erano le province  imperiali. Alla unificazione e centralizzazione della finanza  imperiale si pervenne con la trasformazione, da parte di Adriano,  dello scrinium a rationibus in una procuratio, sotto la direzione  di un procurator a rationibus con il compito di coordinare la  contabilità generale dello stato.Il fiscus Caesaris si distingueva  tanto dal patrimonium principis, amministrato da procuratores  patrimonii e che afferiva alla funzione del principe,  quanto  dalla res privata principis che afferiva alla persona del  principe, che ne poteva disporre liberamente.Un primo problema di  politica fiscale al quale il principato dovette far fronte fu la  perequazione del carico tributario fra italici e provinciali, ma  anche la correlazione funzionale fra imposte e vantaggi sociali e  l’opzione di principio per il metodo della riscossione diretta.Al  primo problema si ovviò con la direttiva di Augusto che istituì la  vicesima hereditatum e altre imposte indirette in Italia, al fine  di bilanciare il tributo fondiario gravante sui provinciali. La seconda direttiva venne attuata mediante : l’assunzione del raccordo contabile fra ammontare delle entrate e  necessità delle spese ( il raccordo era necessario per attuare  nuove imposizioni ) ;  la configurazione  di un limite etico­economico al prelievo  fiscale;  l’adozione di misure volte ad assicurare pubblicità e trasparenza  fiscale;  l’integrazione del sistema delle entrate, originarie e derivate,  con il sistema dei munera publica, ossia prestazioni onerose a  carico di funzionari o collettività, articolati in munera  personalia, ossia prestazioni personali; munera patrimonialia,  ossia l’anticipazione all’ente pubblico del gettito tributario del  distretto municipale; munera mixta, cioè prestazioni patrimoniali  e personali. La terza direttiva venne invece perseguita da Augusto e dai suoi  successori con la surrogazione del sistema dell’esazione affidata  a civitatis ed a funzionari imperiali al tradizionale metodo  dell’appalto ai publicani. 5°CAPITOLO: IL DOMINATO l’imperatore Romolo detto Augustolo. Da tale momento inizia il  declino dell’impero d’occidente. In Italia regna per alcuni anni  Odoacre fino a quando non viene combattuto e vinto dal re degli  Ostrogoti Teodorico, che conquisto tutta la penisola.La  separazione dalla pars Occidentis facilitò una riorganizzazione  dell’impero orientale che diede vita ad una nuova fase, quella del  c.d. impero bizantino, destinata a durare parecchi secoli fino  alla conquista da parte dei turchi avvenuta nel 1453.A questo  lungo arco di tempo che risalgono l’imperatore Teodosio II, il cui  regno è caratterizzato da numerose riforme e soprattutto dalla  pubblicazione del Codex Theodosianus, e l’imperatore Flavio Pietro  Sabbazio Giustiniano I.Salito al trono nel 527, Giustiniano tese a  ripristinare i valori realizzando l’unità dell’impero, attraverso  la riconquista con le armi delle terre d’occidente, l’unità della  Chiesa, all’insegna del cattolicesimo, e l’unità delle leggi.  Tuttavia l’unità dell’impero fu raggiunta solo dopo circa  vent’anni di guerre e fu destinata a spezzarsi pochi anni dopo in  seguito all’invasione longobarda; L’unità della chiesa e della  fede fu presto travolta dalle eresie e dagli scismi; mentre il  ritorno alle antiche tradizioni giuridiche romane, perseguito  dalla Compilazione, si rivelò impossibile a causa delle profonde  trasformazioni che avevano irrimediabilmente allontanato da esse  la società bizantina. Le istituzioni del Dominato. Caratteristica della monarchia assoluta è la concentrazione di  tutti i poteri nelle mani dell’imperatore, che non è più un organo  della costituzione, ma si pone al di fuori di essa, essendo  considerato Dominus et deus, egli è un interprete in terra della  volontà di Dio.L’imperatore è capo supremo delle truppe ed arbitro  assoluto della politica internazionale, solo questi può dichiarare  guerra o concludere trattati di pace.Egli è inoltre il detentore  del potere legislativo. Venute meno le altre fonti di produzione  normativa, l’unica fonte viva di diritto sono le constitutiones  principis, definite direttamente leges. Di tali leggi l’imperatore  dispone a piacimento, abrogandole, modificandole o sostituendole  con altre; egli è al di sopra delle leggi, princeps legibus  solutus. Prevalgono le disposizioni di carattere generale, edicta  o leges generales, rivolte a tutto l’impero o una parte di esso,  mentre perdono rilevanza le disposizioni relative a casi  particolari, cioè i rescripta, nonché i decreta e i mandata.Si  affermano infine nuovi tipi di costituzioni imperiali, fra i quali  la pragmatica sanctio, che pur scaturendo da casi delimitati,  finiva poi con il prescindere da essi coinvolgendo interessi  generali.Gli altri poteri dello Stato, come l’attività di governo  e quella amministrativa, sono svolti da una serie di funzionari  da lui nominati ma fanno sempre capo all’autorità dell’imperatore.  l’attività giurisdizionale spetta a funzionari nominati  dall’imperatore, il quale è giudice in ultima istanza in tutte le  controversie, sia civili che penali.Nel campo religioso, sebbene  45 non si sia giunti a considerare l’imperatore capo della chiesa,  Giustiniano detta alcuni principi fondamentali sulla libertà  religiosa, partecipa direttamente alla decisione di controversie  religiose, indice e presiede i concilii nei quali vengono fissati  i canoni basilari della chiesa. Tutto ciò che concerne la sua  persona è considerato sacro e le offese nei suoi confronti  costituiscono sacrilegia. L’ordinamento politico. Il tardo impero romano è caratterizzato da una struttura  burocratica, disposta gerarchicamente come una piramide al cui  vertice sta l’imperatore. Tale organizzazione è in realtà, sin  dall’inizio, duplice, in conseguenza dell’esistenza di due  Augusti, e dal momento della divisione dell’impero in due parti si  bipartisce in due strutture distinte e parallele.I funzionari di  rango più elevato restano in carica un anno, salvo riconferma;  mentre coloro che rivestono uffici più modesti percorrono i vari  gradi una vera e propria carriera. Tutti i funzionari ricevono una  regolare retribuzione, in denaro e più spesso in natura per  salvaguardarla dalla svalutazione monetaria.A fianco  dell’imperatore si trova un organo consultivo, il sacrum  consistorium principis, del quale fanno parte i più alti  funzionari imperiale, che costituisce una trasformazione  dell’antico consilium principis. Ad esso il principe si rivolge  per qualsiasi questione politica, di governo, religiosa o in vista  dell’emanazione di costituzioni imperiali. Il parere tuttavia non  è obbligatorio, né vincolante per l’imperatore.Il consistorium ha  inoltre il potere di giudicare in prima istanza le cause  sottoposte alla giurisdizione imperiale. Ai vertici dei vari settori della burocrazia imperiale,  nell’amministrazione centrale, si trovano 5 alti funzionari :  il magister officiorum, definito ministro della burocrazia, che  presiede gli officia imperiali addetti alla redazione dei  rescritti, alla corrispondenza imperiale e all’istruzione di cause  di competenza imperiale. Comanda inoltre la guardia imperiale a  cavallo e tutta una serie di altri uffici, in campo sia civile che  militare;  il quaestor sacri palatii che è il principale consulente  dell’imperatore nel campo giuridico, ad esso spetta la redazione  delle costituzioni imperiali, la controfirma dei rescritti;  il comes sacrarum largitionum il quale vigila sulla riscossione  dei tributi in denaro ed esercita in materia fiscale un potere  giurisdizionale in nome dell’imperatore, provvede alle opere  pubbliche ed è incaricato del pagamento ai funzionari ed a tutti i  dipendenti degli stipendi; il comes rerum privatarum, che amministra i possedimenti terrieri,  i beni confiscati dallo stato e quelli attribuiti ereditariamente  all’imperatore;  il praepositus sacri cubiculi, funzionario di rango più elevato  che sovrintende a tutto il personale ed a tutti i servizi del  palazzo imperiale. L’ordinamento periferico Per quanto riguarda invece l’amministrazione provinciale, l’impero  viene ripartito in grandi circoscrizioni territoriali dette  prefetture, dapprima in numero di 4, per effetto della tetrarchia  diocleziana, poi aumentate di numero per ridiventare  definitivamente 4 con la divisione dell’impero in due parti, due  prefetture in occidente, Italia e Gallia, e due in oriente,  Illirico ed Oriente. A capo di ogni prefettura sta il praefectus  pretorio, altissimo funzionario imperiale dell’amministrazione  periferica.Ogni prefettura si ripartisce in un certo numero di  diocesi (prima 12 poi 14) ed ogni diocesi a sua volta comprende un  certo numero di province. A capo di ogni prefettura sta il  praefectus praetorius, il più elevato funzionario imperiale  dell’amministrazione periferica.A capo di ogni diocesi si trova un  vicarius, che esercita funzioni di vigilanza e di controllo sui  governatori che a loro volta stanno a capo delle  province.L’accennata ristrutturazione territoriale dell’impero  determina la scomparsa delle autonomia locali, in particolare la  scomparsa delle assemblee popolari, venendo così meno la  partecipazione diretta del popolo al governo delle città.Per  quanto riguarda le magistrature locali, esse vanno perdendo di  importanza con l’affermarsi di due nuove magistrature, il curator  civitatis ed il defensor civitatis.Il primo, esistente già  nell’età del principiato, accresce i suoi poteri con Diocleziano  fino a divenire il capo dell’amministrazione locale, quale  responsabile dell’ordine pubblico, del censo, della formazione dei  ruoli dei contribuenti, dell’approvvigionamento della città. Il  defensor civitatis, ha poteri di polizia, formazione dei ruoli  delle imposte e controllo sulla riscossione, giurisdizione sulle  cause di minore entità. Entrambe le magistrature non vengono  nominate dalla comunità cittadina, ma dal potere centrale e  precisamente il curator dall’imperatore e il defensor dal  praefectus pretorio. Le curie, ossia i consigli municipali, sono  formate da cittadini aventi un determinato censo, immobiliare e  poi anche mobiliare, e l’appartenenza a esse è obbligatoria per  chi ne aveva i requisiti e si trasmette ereditariamente di padre  in figlio. Soltanto Roma e Costantinopoli godono di  un’amministrazione locale autonoma. Ad esse è preposto un  funzionario, il praefectus urbi, non soggetto all’autorità né del  praefectus pretorio né del vicarius, ma dipende direttamente  dall’imperatore. A lui spetta un generale potere di sorveglianza  47 nel quale vengono inquadrati molti funzionari imperiali di rango  meno elevato.Rientrano poi tra gli honestiores i militari, i  funzionari dell’amministrazione centrale e periferica, il clero,  gli esercenti le professioni liberali.Sono invece considerati  humiliores i commercianti, gli artigiani, gli agricoltori e gli  operai.Ciò che caratterizza la ripartizione in classi è  l’obbligatorietà, la irrevocabilità e l’ereditarietà  dell’appartenenza ad una data categoria professionale, stabilite  allo scopo di evitare l’abbandono e, quindi, l’estinzione di  corporazioni di persone esercenti attività di interesse  collettivo.Il principio si applicò anche nei confronti dei  lavoratori della terra, dando luogo ad una nuova classe sociale,  quella dei coloni, servi della gleba, caratterizzata da  limitazioni tali da collocarla fra i liberi e gli schiavi.In  seguito alla crisi dell’agricoltura e il conseguente abbandono  delle campagne, Diocleziano e altri imperatori reagirono  vincolando i coloni alla terra, impedendo loro e i discendenti di  abbandonare i fondi assegnati. Si crea così una categoria di  persone dotate dello status libertatis ma con una condizione  deteriore rispetto alla schiavitù, in quanto il coronato (i  coloni) non può essere liberato essendo considerato di pertinenza  del fondo. SECONDA PARTE  ORDINAMENTO GIURIDICO – LE ORIGINI La vita della comunità è ordinata secondo regole che derivano la  loro legittimazione dall’essere state o autoritariamente poste  dagli organi ai quali ciò è demandato, ed è il caso delle leges, o  individuate da ristretti gruppi di competenti attraverso  l’osservazione dei mores, ossia dei comportamenti tradizionali  consolidati dalla loro sperimentata efficacia.Dunque,  leges e  mores costituiscono la fonte di ciò che i romani considerano ius,  ossia il complesso delle regole che la comunità osserva per  ordinarsi e regolare i rapporti intersoggettivi. E poiché tali  regole non devono comunque turbare la pax deorum, esse non devono  essere in contrasto con la volontà divina quale si manifesta a  coloro che hanno le necessarie cognizioni per intenderla; per cui  è necessario che esse siano enunciate o attraverso strumenti che  presuppongono nel loro iter formativo la consultazione degli dei,  o da coloro la cui competenza in materia è conseguenza della  competenza religiosa loro riconosciuta.Il ius si caratterizza per  alcuni connotati esteriori e di principio.In primo luogo  tutte le  attività che esso regola sono dominate dal rigore delle forme; per  cui se si vuole che esse siano efficaci devono compiersi  attraverso comportamenti definiti nei gesti e nelle parole e ciò  perché dovendo essere riconoscibili e memorizzabili, devono essere  compiute coerentemente con il sistema di comunicazione sociale  improntato quasi esclusivamente alla oralità e visività. Così come  rigidamente formale è l’enunciazione del ius, sia che si realizzi  attraverso leges, sia che si manifesti attraverso il responsum dei  competenti consultati dagli interessati.   Il ius è poi improntato ad alcuni valori­cardine: ­ competenza che deriva dall’esperienza: organo regolatore supremo  dell’azione politica è il consesso dei patres, di coloro cioè che,  per anzianità e tradizioni familiari, hanno consuetudine con gli  affari pubblici. Senza la loro auctoritas nessuna attività  comiziale è rilevante, ed è inoltre regola che su ogni questione  di governo essi siano consultati. ­ il principio secondo cui ogni relazione debba svolgersi secondo  i principi della fides, ossia la lealtà, il rispetto per la parola  data, sicurezza che viene dal sapere che gli altri si  comporteranno come è lecito. Si espone il contenuto di uno  specifico impegno a conseguenze sfavorevoli varie, che nei casi  più gravi giungono alla esclusione dalla comunità. ­ il tradizionalismo; l’ordinamento giuridico deve assecondare e  conservare l’ordinamento sociale tramandatosi.  LINEE ESSENZIALI DEGLI ASSETTI NORMATIVI ORIGINARI 51 Il ius che governa la società romana non tende a superare ma a  regolare le diversità tra gli uomini costituitesi socialmente nel  tempo, ad esempio tra patrizi e plebei, o espresse dalla natura,  ad esempio tra uomini e donne, o conseguenza delle loro diverse  abilità, tra ricchi e meno ricchi.Dell’ordinamento amministrativo  può soltanto desumersi una rudimentale disciplina delle entrate  pubbliche alimentate dal bottino di guerra.Per quanto riguarda i  contenuti dell’ordinamento criminale, vi sono una serie di  comportamenti che compromettendo la pax deorum devono essere  repressi e sanzionati. Tali sono ad esempio la violazione di uno  dei principi giuridici fondamentali della comunità organizzata  (perduellio);l’uccisione di un uomo libero, parricidium; la  violazione della fides da parte del patrono; la vendita della  moglie; le turbative più gravi del dominium, il furtum commesso da  schiavi.In relazione alla sua gravità, lo scelus può essere  espiabile o inexpiabile; mentre nel primo caso sarà sufficiente un  sacrificio riparatorio (un piaculum), nel secondo caso è  necessaria la esclusione dalla protezione cittadina del  responsabile, ossia esso diviene homo sacer, per cui la sua  eventuale uccisione non sarà considerata parricidium. Inoltre, nei  casi più gravi, non è sufficiente dichiarare sacer l’autore, ma  questi deve essere ucciso, unica condizione per placare  la  divinità offesa.Accanto ai casi in cui la sanzione è comminata dai  pubblici poteri, vi sono casi in cui la sanzione è invece affidata  a privati interessati alla vendetta, sui quali incombe il dovere  di provvedere; così ad esempio, in caso di omicidio involontario,  impone agli adgnati della vittima un piaculum consistente nel  sacrificio pubblico di un ariete fornito dal responsabile; se si  tratta di omicidio volontario, impone loro di irrogare la morte  all’autore del fatto sotto il controllo dei quaestores parricidii. ORDINAMENTO DEI RAPPORTI PRIVATI Per quanto riguarda l’ordinamento dei rapporti privati,  l’aggregazione elementare è costituita dal gruppo parentale che ha  base nelle nuptiae. Coloro che vi appartengono sono sottoposti  all’autorità del pater familias, ( del quale sono in potestate se  filii o discendenti, in manu se donne unite in matrimonio, in  mancipio se estranei temporaneamente aggregati come forza lavoro)  il solo, dal punto di vista dei rapporti patrimoniali, ad essere  sui iuris, ossia soggetto di diritti. L’attività economica degli  altri membri del gruppo incrementa il suo patrimonio del quale  egli solo può disporre.A lui spetta sui filii la vitae necisque  potestas, e intensi poteri ha anche sulle donne in manu. Tuttavia  è precluso al pater, in presenza di filii, la facoltà di designare  per testamento eredi diversi, e tra fratelli che succedono si  istaura uno speciale stato di comunione (consortium) che mira a  mantenere inalterata la condizione economica del gruppo anche dopo  la morte del pater.È consentito lo sfruttamento privato della  terra in agro romano, sottoposta cioè al controllo politico della  civitas, e su di essa si distingue una situazione di diritto  che gli vengono dalla storia delle relazioni commerciali, o che  gli vengono indicate dagli specialisti che si raccolgono nel suo  concilium. Anch’esse poi derivano dalle leges e dai mores romani.  Questa loro origine spiega perché le norme di ius gentium non  furono mai considerate dai romani come qualcosa di diverso dal  loro ius civile. Esso era apprezzato piuttosto come una parte di  questo. Mentre fino all’istituzione del praetor peregrinus il ius  gentium aveva mantenuto nell’ambito dello ius civile un rilievo  modesto, dopo la sua importanza crebbe e finì per rinnovare il ius  civile.Con l’espansione in senso mercantile dell’economia romana  cresce l’importanza del ius gentium con un’attenzione particolare  ai suoi principi fino ad operare un rinnovamento dell’intero ius  civile.L’ordinamento, dunque, evolvette quanto ai suoi contenuti  normativi in particolar modo nel campo del diritto privato , sia  sotto il profilo sostanziale che quello processuale.Dal punto di  vista del privato sostanziale il testamento è divenuto un atto  privato e i limiti alla libertà testamentaria non sono più  costituiti dall’impossibilità di designare un estraneo ma solo da  quella di disperdere il patrimonio in legati.In ambito  patrimoniale compaiono nuove forme di diritto reale, quale la  servitù, si moltiplicano i casi di obligatio, il cui inadempimento  non comporta più conseguenze sulla persona ma solo sui beni del  debitore. Vi è ora un contractus non solo se vi è stato un formale  impegno ma anche se vi è stato un comportamento comunque  riconoscibile per le forme di esso. Quando non c’è contractus c’è  un teneri pretorio, un rapporto che riceve tutela dal pretore.Il  ius gentium comportò anche il superamento dell’antica procedura  giudiziale. Il processo privato si svolgeva, infatti, per legis  actiones, ossia ogni pretesa doveva avere non solo il suo  fondamento in una lex, ma doveva conseguentemente esprimersi  all’interno di schemi verbali predeterminati e da osservare  rigorosamente.Questa procedura era però applicata solo nelle liti  tra cives. Era inapplicabile nei rapporti tra i peregrini ( per  l’ostacolo di lingua che di solito sussisteva tra le parti) cui  invece si applicava una procedura formulare; tale procedura  prevedeva un’impostazione libera delle rispettive pretese che  venivano consacrate in un documento scritto (formula) che  costituiva la base della successiva pronuncia giudiziale. Ciò dava  alla lite un’impostazione meno vincolata e più flessibile.Così  alla fine del II secolo una lex Aebutia consentì l’utilizzazione  della procedura formulare anche nel tribunale del pretore urbano. DIRITTO E PROCESSO CRIMINALE Per quanto riguarda il diritto criminale, non vi sono novità sotto  il profilo delle fattispecie incriminatici, ciò per il carattere  privato che continua ad assegnarsi alla repressione di molti  comportamenti contro il patrimonio, ai quali appunto si fanno  conseguire pene pecuniarie ottenibili nelle forme del processo  privato, ma anche per la mancanza di un principio di legalità. I  casi nei quali è consentito al magistrato intervenire con i suoi  55 poteri di coercitio non sono fissate da norme cogenti, ma rimessi  al suo prudente apprezzamento. Dipendono dall’arbitrio del  magistrato che in quanto politico in carriera è esposto al  controllo dell’opinione pubblica oltre che al rischio di dover  rispondere del suo operato una volta uscito di carica.Più  rilevanti sono le novità nella procedura.Con la lex Valeria del  509 si introduce la provocatio ad populum, ossia la facoltà per il  cives accusato di un crimen che giustificasse la pena capitale o  esposto a un atto di coercitio che giustificasse una multa  superiore a 30 buoi e 2 pecore, di chiedere un processo dinanzi ai  comitia, che le XII tavole indicano essere quelli centuriata.E una  leges Valeriae Horatiae (449) fisserà poi il principio secondo il  quale nessuna nuova magistratura può essere istituita senza il  limite della provocatio. Le leges Porciae della prima metà del II  secolo infine dispone che il civis potesse provocare anche se  residente in provincia o impegnato nel servizio militare, e che la  pena di morte a lui irrogata non potesse essere preceduta da  verberatio.Una lex Valeria del 300 considererà improbe factum il  comportamento del magistrato che avesse fatto eseguire una  condanna capitale senza consentire provocatio. I iudicia populi si svolgono in tre adunanze destinate  rispettivamente ad esporre le ragioni dell’accusa, ad ascoltare la  difesa e ad escutere i testi. Conclusa tale fase  spetta al  magistrato formulare l’accusa e richiedere la condanna. Decorso un  trinundinum, ha luogo una quarta udienza nella quale il popolo si  pronuncia.Prima che intervenga l’ultimo voto necessario alla  condanna, è consentito al reus di scegliere l’exilium cui segue la  pronuncia di interdictio aqua et igni che lo priva della  cittadinanza e dei beni e gli fa divieto di tornare in territorio  urbano, pena la morte.Dai primi decenni del II secolo si introduce  la prassi senatoria di costituire extra ordinem giurie presiedute  da consoli o dal pretore con speciali poteri procedurali e  repressivi. Da tali precedenti si svilupperà la nuova procedura  delle quaestiones perpetuae che soppianterà quella dei iudicia  populi. RIFLESSI DELLA CRISI SULL’ORDINAMENTO GIURIDICO La crisi della libera res publica ebbe riflessi anche  sull’ordinamento giuridico.  Bisogna innanzitutto  distinguere: ­ ius civitatis, che attiene all’assetto della comunità romana,  equivalente al ius publicus; ­ ius civile, che attiene all’insieme delle regole delle quali  si servono i privati in seno all’organizzazione cittadina.  Ius Civile è sia ius proprium civium romanorum, sia ius che i  privati possono tra loro usare in civitate. Comprende leges,  senatusconsulta, interpretatio prudentium, edicta magistrauum  e corrisponde alla nozione ulpianea di ius privatum. Tale periodo è caratterizzato dalla crescente incidenza delle  leges publicae sia nel campo del diritto pubblico che in quello  del diritto privato.La lex publica costituì uno strumento di lotta  politica, che comportò il frequente e caotico succedersi di  rogazioni ed abrogazioni, che indusse, prima Pompeo e poi Cesare,  a predisporre progetti di riorganizzazione e razionalizzazione  delle fonti del diritto, entrambi però non realizzati, ( il primo  per timore di denigratori il secondo perché travolto dalle idi di  marzo, con i quali, il primo mirava a realizzare a una raccolta  organica delle leggi preesistenti, mentre il progetto di Cesare  riguardava non solo il ius legitimum ma anche il proprium ius  civile.Nell’ambito del sistema delle fonti, acquistano rilevanza  gli edicta perpetua, ossia i principi di diritto enunciati non per  la soluzione di un caso concreto, ma per una tipologia di casi;  già con la lex Cornelia de edictis del 67 a.C. proposta dal  Tribuno Publio Cornelio, si imponeva ai pretori l’obbligo di  pubblicarli per iscritto e di non modificarli sino al termine  della carica.Sono poi da annoverare i senatus consulta, per mezzo  dei quali il senato, tenuto conto della difficoltà di convocare i  concilia plebis tributa ed i comitia populi in conseguenza della  concessione della cittadinanza a romana a tutti gli italici, si  sostituì alla normale attività deliberativa delle assemblee  popolari. I riflessi della crisi sulla iuris prudentia possono essere  valutati sotto un duplice aspetto :  ­ con riguardo all’estrazione sociale dei giuristi  ­ con riguardo alle forme di attività e alla tecnica  interpretativa. Sotto il primo aspetto, in un primo momento la iuris prudentia  costituì una professione eminentemente aristocratica; l’ultimo  esponente di questa tradizionale iurisprudentia  è Quinto Mucio  Scevola, il quale, unitamente all’esercizio delle funzioni di  magistrato e di pontefice massimo,  espletò le attività tecnico­ giuridiche del respondere, ossia dare pareri a quesiti posti da  privati, magistrati, giudici, dell’agere, ossia suggerire schemi  processuali, del cavere, ossia formulare schemi negoziali.Dopo la  sua morte la situazione muta perchè i giuristi non provengono più  dalla nobilitas bensì dall’ordo equestre e da strati sociali meno  elevati. Il sapere giuridico si afferma adesso come sapere  specialistico e tende a rivendicare la propria autonomia dal  potere politico.Ai munera (compiti) tradizionali, del respondere,  dell’agere e del cavere, si affiancano anche compiti di natura  didattica, che si sostanziano nell’attività dell’instituere  57 (quaestiones perpetuae).Sul piano sostanziale determinò un  notevole ampliamento del numero degli illeciti pubblici, mediante  la configurazione di nuove figure criminose caratterizzate dal  fatto che la condotta imputabile o l’evento lesivo erano definiti  dalla stessa legge istitutiva della rispettiva quaestio. In ogni  caso ciò non comportò la recezione del principio di legalità, dato  che il magistrato poteva reprimere, in forza del suo imperium,  condotte ritenute meritevoli di punizione, anche se non previste  dalle leggi istitutive delle quaestiones. Dunque, il principio  nullum crimen sine lege deve essere inteso nel senso che una  delatio nominis poteva essere presentata da qualsiasi privato  cittadino al presidente di una quaestio, soltanto per fatti e  comportamenti previsti dalla legge istitutiva della stessa. Sul piano processuale, l’aumento del numero delle quaestiones  perpetuae, condusse alla configurazione di un nuovo tipo di  processo criminale, che surrogò di fatto il precedente di tipo  comiziale (iudicia populi). Subentrò così il sistema dei iudicia  publica legitima, incentrati su nove tribunali stabili, cinque  competenti per crimini di carattere politico e quattro per crimini  comuni. CARATTERISTICHE DEL NUOVO RITO ­ ha natura accusatoria sia perché l’iniziativa processuale era  affidata ad un quivis de populo (qualunque cittadino privato),  quale rappresentante dell’interesse pubblico, sia perché l’organo  giudicante, ossia la giuria popolare, si trovava in posizione di  assoluta terzietà fra l’accusatore e l’accusato, a differenza dei  sistemi processuali di tipo inquisitorio dove accusatore e giudice  coincidono. Cicerone nelle Verrine afferma che la giustiz<ia criminale per  essere tale richiede il concorso di 3 indispensabili presupposti: ­ l’accusa pubblica; ­ piena libertà di difesa dell’accusato; ­ rimessione del verdetto ad una giuria popolare. ­ Il rito si articolava in tre fasi: formalità introduttive,  dibattimento e giudizio. La fase introduttiva si apriva con un’istanza di autorizzazione  (postulatio), con la quale il denunciante chiedeva al presidente  della giuria il riconoscimento della sua legittimazione  all’accusa, e si chiudeva con la iscrizione dell’accusato nel  ruolo dei sottoposti a giudizio. Il presidente, accertata la  legittimazione del denunciante, autorizzava la postulatio che si  trasformava in formale accusa. Procedeva allora all’accettazione  dell’accusa, alla sua iscrizione a ruolo ed alla fissazione del  giorno dell’udienza dibattimentale.Il rito delle quaestiones  poteva istaurarsi solo fra un accusatore e un accusato, e per la  sola fattispecie criminosa prevista dalla legge istitutiva, era  escluso sia il concorso di persone che il concorso di reati.In  presenza di più postulanti, era allora necessario istituire un  procedimento incidentale volto a scegliere quello più affidabile.  I postulanti esclusi potevano però aderire, in qualità di  subscriptores, alla delatio nominis proposta dall’accusatore, il  quale soltanto assumeva il ruolo di parte processuale e si  impegnava a fornire le prove della colpevolezza dell’accusato.  L’accusatore tuttavia poteva anche avvalersi dell’apporto dei  subscriptores, ma anche di eventuali indices, intendendo per tali  coloro che avessero partecipato alla ideazione o alla  realizzazione di reati associativi e contribuissero a svelarne le  trame eversive dietro promessa d’impunità.Sopraggiunto il giorno  dell’udienza, si procedeva prima alla costituzione della giuria e  a tal fine i pretori urbani compilavano anno per anno una lista di  giudici tra cui venivano sorteggiati un numero di nomi pari al  doppio dei membri della quaestio, poi ridotti della metà con le  alternative ricusazioni dell’accusatore e dell’accusato.Si  procedeva poi al dibattimento che verteva sulla prove addotte  dall’accusatore e dall’accusato. La rilevanza e l’efficacia dei  mezzi probatori dipendeva dalla capacità di ciascuna parte di  interpretarli e utilizzarli in funzione della dimostrazione delle  proprie asserzioni.Il dibattimento si chiudeva con le arringhe  conclusionali delle parti o dei loro avvocati.Il Presidente allora  chiedeva alla giuria se riteneva esaustiva l’altercatio, e nel  caso in cui più di un terzo affermava di non avere maturato un  proprio convincimento, il dibattimento veniva rinnovato  (ampliatio), altrimenti si procedeva alla votazione con la quale  ciascun giudice esprimeva il proprio convincimento circa la  colpevolezza o l’innocenza dell’accusato, esprimendo il proprio  parere scrivendo su una tavoletta la lettera C (condemno) o la  lettera A (absolvo).Il presidente non partecipava alla votazione,  ma proclamava il risultato di assoluzione o di condanna. In caso di condanna si applicava la pena prevista dalla legge  istitutiva della quaestio, mentre in caso di assoluzione non  comportava alcuna sanzione a carico dell’accusatore in buona fede.  Soltanto in caso di accusa dolosa, l’accusatore sarebbe stato  chiamato a risponderne dinanzi alla stessa quaestio. FIGURE DI CRIMINI Per quanto riguarda invece le figure criminose, si distinguono :  ­ crimini perseguibili dinanzi a quaestiones diverse (calumnia) o  fuori dal sistema delle quaestiones (plagium); 61 ­ crimini afferenti alla competenza di una specifica quaestio, e  tra essi si distinguono crimini politici e crimini comuni. Hanno natura politica : a) Crimen maiestatis, ossia la lesa maestà. In tale ambito sono  ricompresi l’abuso del potere magistratuale, l’attività  diretta a istigare i socii italici a rivoltarsi contro Roma,  tutti i comportamenti diretti a sovvertire le istituzioni  pubbliche, l’alto tradimento dello Stato attraverso la  collusione con i nemici; alla fine della libera res publica  il crimen maiestatis comprendeva ogni offesa ed ogni  attentato alla sovranità ed alla sicurezza del popolo romano; b) Crimen ambitus, denota il broglio elettorale, nel quale  rientrano le fattispecie del comperare i voti, la promessa di  favori e vantaggi in cambio di voti, l’organizzazione di  feste e banchetti al fine di procacciare i voti, l’accordo  elettorale di due candidati a danno degli altri. La lex  Cornelia dell’81 comminò l’interdizione decennale dalle  magistrtature. c) Crimen vis. La fattispecie di vis publica consisteva  nell’impiego della violenza fisica al fine di impedire il  libero e normale svolgimento di pubbliche funzioni, ma anche  nell’esercizio arbitrario di poteri pubblici. La fattispecie  di vis privata consisteva nel compimento di azioni violente a  danno della libertà e del patrimonio dei privati. d) Crimen repetundarum. Riguarda l’illecita sottrazione o  estorsione di denaro o altri beni da parte di governatori  provinciali, ma anche da magistrati, a comunità o a singoli  individui sottoposti al loro potere. Tale condotta venne  inizialmente punita con la pena del doppio del maltolto e poi  ridotta da Silla alla pena pecuniaria del simplum alla quale  Cesare aggiunse gravi pene accessorie, quali rimozione dalla  carica, ineleggibilità ad altre cariche, incapacità a  testimoniare e assumere l’ufficio di giudice. e) Crimen peculatus. Si tratta di furto qualificato per la  natura pubblica delle cose sottratte o utilizzate. Erano  previste tre ipotesi di furto qualificato: il peculato in  senso stretto, ossia sottrazione o uso indebito di cose  pubbliche da parte di funzionari o semplici privati; il  sacrilegium consistente nella sottrazione o uso indebito di  cose sacre o religiose; il crimen de residuis, consistente  nella ritenzione indebita di denaro o altri beni ricevuti  dall’erario per l’espletamento di un pubblico ufficio e non  utilizzati per il fine cui erano destinati.  Per le prime due ipotesi la pena era l’aqua et igni interdictio;  per la terza ipotesi la pena era un ammenda pari al valore delle  cose detenute aumentate di un terzo. del principe divenne di fatto esclusiva. L’oratio principis  acquistò la sostanza di constitutio principis. CODIFICAZIONE ADRIANEA DEL DIRITTO PERPETUO In merito agli editti giurisdizionali, che avevano avuto un ruolo  fondamentale nel processo di formazione del diritto privato  romano, bisogna distinguere due momenti: ­ nel corso del primo principato il principe esplicò la propria  opera di promozione, direzione e controllo, sia direttamente in  forza della tribunicia potestas e dell’imperium proconsulare maius  et infinitum, sia indirettamente, proponendo e facendo approvare  leggi e senatoconsulti. ­ con Adriano l’intervento del principe sugli editti  giurisdizionali divenne radicale e definitivo. Intorno al 130  d.C., infatti, l’imperatore Adriano conferì al giurista Salvio  Giuliano l’incarico di procedere al riordinamento ed alla  definitiva stabilizzazione degli edicta tralaticia dei pretori e  dell’editto degli edili curuli.  Il testo dell’editto stabilizzato da giuliano (definito dalla  dottrina codificazione) venne sottoposto all’approvazione del  senato, con la quale si stabilì che se si fosse rinvenuta qualche  lacuna nell’editto, soltanto il principe avrebbe potuto provvedere  con la sua auctoritas, sulla base di principi, criteri ed esempi  desunti dal testo stesso.In questo senso l’edictum perpetuum,  ossia l’editto immutabile, non era un semplice regolamento di  giurisdizione ma un corpo normativo precostituito al ius dicere e  al ius edicendi del magistrato.Per ciò che concerne  l’interpretatio dei prudentes, una prima tappa dello sviluppo  storico dei rapporti tra principe e giuristi è data dal  provvedimento con cui Augusto, al fine di accrescere l’efficacia  del diritto giurisprudenziale, stabilì che i giuristi potessero  dare i responsi sulla base della stessa auctoritas principis, ma  soltanto in forma scritta e sigillata. In tal modo Augusto perseguì un duplice obiettivo: ridurre il ius  controversum, alimentato anche dall’incertezza circa l’autenticità  dei responsi, e subordinare il munus respondendi dei iuris perit  al controllo politico del principe.La seconda tappa di tale  sviluppo è data dal provvedimento con il quale Tiberio concesse al  giurista Masurio Sabino il potere di dare responsi a titolo  pubblico. Subentra così il ius publice respondendi che, a  differenza del respondere ex auctoritate principis, comportava una  discriminazione fra giuristi ufficiali e giuristi respondenti a  titolo privato, i cui responsi non avrebbero avuto alcun valore in  sede giudiziaria nel caso in cui fossero stati dati in concorso  con quelli dei giuristi ufficiali. 65 La terza tappa è data dalle riforme adrianee che segnarono il  venir meno del ius publice respondendi. Egli: ­ riprese la prassi secondo cui chiunque avrebbe potuto dare  responsi liberamente al pubblico;  ­ attribuì forza di legge ai responsi dei giuristi  ­ inserimento dei più eminenti giuristi nel consilium  principis.  Egli così surrogò il criterio della collaborazione esterna con il  criterio della collaborazione interna. Il giurista rispondente si  trasformò in giurista burocrate e il rescritto imperiale prese il  posto del responso del giurista. POTERE NORMATIVO DEL PRINCIPE L’attività del principe volta a integrare il processo formativo  del diritto confluì nelle constitutiones principum, ossia  l’insieme degli atti normativi del principe; tali sono gli edicta,  decreta, mandata, epistulae, rescripta. Il fondamento del potere  normativo dei principi venne individuato nella lex de imperio che  conferiva valore normativo e efficacia di legge a tutte le  decisioni adottate dal principe nell’esercizio dei suoi poteri.Gli  editti imperiali si distinsero dagli editti magistratuali in  quanto con essi il principe non delineava un programma al quale  egli stesso si sarebbe attenuto, ma dettava norme di condotta  vincolanti per tutti; essi avevano validità territorialmente  illimitata e avevano efficacia illimitata nel tempo, salvo  eventuale abrogazione.I decreti erano decisioni giudiziarie con le  quali il principe risolveva le controversie civili e criminali sia  in prima istanza che in appello. Tali decisioni vennero  considerate precedenti vincolanti.I mandati erano istruzioni che i  principi impartivano ai propri funzionari ed ai governatori delle  province senatorie, sia su autonoma iniziativa, sia in risposta a  consultazioni su argomenti di vario genere. La loro efficacia fu  nel tempo estesa anche oltre la cerchia dei destinatari. Si  formarono così diversi corpora mandatorum, che disciplinavano  interi settori dell’amministrazione imperiale.I rescritti erano le  risposte date dal principe in ordine a questioni controversie di  diritto sollevate nel corso di un processo. Nel caso in cui il  parere veniva sollecitato da una delle parti, la risposta  imperiale veniva annotata dallo Scrinium a libellis in calce al  libello stesso; nel caso in cui veniva invece sollecitato dal  funzionario la risposta veniva redatta dallo scrinium ad epistulis  su lettera ufficiale indirizzata al richiedente.Le epistole  consistevano in istruzioni impartite dal principe ai funzionari ed  ai governatori provinciali, ovvero in pareri su questioni dubbie  di diritto sollevate da giudici nel corso di un processo. LA GIURISPRUDENZA CLASSICA Di notevole importanza in questo periodo è la formulazione data da  Ulpiano al termine iurisprudentia; la giurisprudenza  è conoscenza  delle cose divine ed umane, scienza del giusto e dell’ingiusto.  Definizione con la quale egli volle distinguere due momenti  dell’attività dei iuris prudentes:  ­ la notio, ossia la conoscenza dei fatti e dei rapporti sociali  nei loro aspetti laico­religiosi  ­ la scientia, ossia la tecnica professionale del giusto e  dell’ingiusto. I giuristi si considerano sacerdotes iustitiae, cioè ministri del  bonum et aequum, in cui si risolve l’essenza costitutiva del ius.  Il diritto è, infatti, la costante ricerca e diuturna prassi volte  a realizzare, nell’ambito dei rapporti intersoggettivi,  l’equilibrio fra bene comune e bene individuale (bonum) ed il  contemperamento degli opposti interessi (aequum).Tuttavia  l’attività pratica dei giuristi è contraddistinta nell’età del  principato da una involuzione dei tradizionali munera dell’agere  (del suggerire schemi processuali) e del cavere (ossia formulare  schemi negoziali).L’involuzione dell’agere si accentuò in seguito  alla codificazione adrianea dell’editto perpetuo, venendo meno lo  stretto legame fra l’agere del giurista e la concepito  formularum.A togliere valore pratico all’agere contribuì la  generalizzazione delle cognitiones extra ordinem; nel procedimento  delle cognitiones non c’era più una distinzione tra una fase in  iure, destinata all’impostazione tecnico­giuridica della  controversia, e che postulava la competenza del giurista, e la  fase apud iudicem, destinata all’indagine probatoria. Dalla figura  unitaria del giurista­sacerdos iustitiae, venne staccandosi una  nuova figura, l’avvocato che finirà per surrogare il giurista  nell’attività di assistenza tecnica.L’esaurimento dell’attività  del cavere è legato alla standardizzazione dei formulari  negoziali, facilmente utilizzabili dagli interessati. Nel corso  del II secolo d.C. i giuristi furono sostituiti dai tabelliones  (predecessori dei notai) ai quali fu conferita la potestà di  compiere gli instrumenta publice confecta che potevano acquistare,  in seguito all’inserzione nei pubblici registri, efficacia pari  agli instrumenta publica. Ai quali fu affidata la compilazione e  l’adattamento dei predetti formulari. GIURISTA­ ATTIVIT  DIDATTICA­ GENERI LETTERARIĂ Per ciò che concerne il munus respondendi, in seguito alle riforme  di Adriano, il responso del giurista fu in pratica sostituito dal  rescritto imperiale. Tuttavia gli effettivi autori dei diversi  67 ­ per un’ampia discrezionalità del cognitor; ­ per la procedibilità contumaciale; ­ per l’impugnabilità della sentenza; ­ per la specificità della condanna; ­ per l’esecutività della sentenza con l’intervento e il  controllo dei coadiutori del cognitor. L’appello costituisce un mezzo di impugnazione, estraneo al  sistema dell’ordo,  esperibile contro una valida sentenza, che  trova il suo fondamento nell’auctoritas principis. L’appello era,  in origine, esperibile solo contro le sentenze cognitorie  pronunziate ex auctoritas principis. Il principe delegante aveva,  dunque, la facoltà modificare o cassare, in sede di riesame, la  sentenza emessa dai propri delegati. In un secondo momento Augusto  conferì al senato il potere di giudicare in grado di appello  avverso le sentenze emanate dai giudici dell’ordo iudiciorum  privatorum. L’appello assurge così a generale strumento  d’impugnazione di una valida sentenza, con effetti devolutivi,  poiché comportava il deferimento della controversia a un giudice  superiore, e sospensivi, poiché comportava la sospensione degli  effetti della sentenza. DIRITTO E PROCESSO CRIMINALE L’auctoritas principis opera nell’ambito del diritto criminale,  sia processuale che sostanziale, in una duplice direzione: ­ razionalizzando, sviluppando e dirigendo il sistema delle  quaestiones e delle relative figure criminose; ­ integrando la repressione criminale e la configurazione di  nuove figure criminose. Nel campo del diritto penale sostanziale si ha: ­ la configurazione di nuovi crimini con leggi istitutive di nuove  quaestiones perpetuae e l’ampliamento di  determinate figure  criminose, in particolare :          a) rientra nell’ambito del crimen maiestatis ogni offesa  all’imperatore, il rifiuto del culto imperiale, il ricorso a  pratiche magiche aventi per oggetto o destinatario l’imperatore;        b) il crimen repetundarum viene esteso agli abusi commessi  da qualsiasi titolare di pubbliche funzioni, mentre da tale crimen  si stacca una nuova autonoma figura criminosa, la concussio, ossia  estorsione di somme di denaro, a danno di terzi, effettuata da  magistrati e funzionari con la minaccia di compiere o non compiere  atti inerenti al proprio ufficio;      c) il crimen vis. Nella vis publica furono inserite  l’appartenenza a collegia illicita e il rifiuto di dare corso  all’appello presentato dal condannato a pene criminali;       d) il crimen falsi viene esteso alla supposizione di parto,  al millantato credito, all’assunzione di falso nome;      e) il crimen homicidii viene esteso  alla somministrazione di  sostanza abortive o afrodisiache con effetti letali, alla  uccisione o esposizione di neonati, all’omicidio colposo e  preterintenzionale, all’uccisione intenzionale di schiavi.  ­ la configurazione extra ordinem di nuove figure criminose, che  i giuristi qualificarono come crimina non legittima per  distinguerla da quelli previsti dalle leggi istitutive delle  quaestiones perpetuae. A tale configurazione si pervenne in due  modi: ­ reprimendo fatti e comportamenti prima non repressi, come il  crimen stellionatus nella cui figura rientrano varie ipotesi di  comportamento fraudolento, l’effractio carceris (evasione) e la  receptatio, ossia il favoreggiamento di banditi; ­ colpendo con la pena pubblica illeciti già colpiti con pena  privata, come l’abigeato, ossia il furto di bestiame. LA LEX IULIA IUDICIORUM PUBBLICORUM Nel sistema del diritto processuale, Augusto mirò a razionalizzare  il sistema delle quaestiones, razionalizzazione che fu attuata con  la lex Iulia iudiciorum publicorum, che comportò la unificazione  delle diverse procedure sulla base di una serie di principi e  criteri comuni, relativi all’età dei giudici, alla difesa degli  assenti, al divieto di testimonianza contro persone legate da  vincoli di sangue o affinità. Il sistema delle quaestiones così unificato formò l’ordo  iudiciorum publicorum, sistema ampliato da Augusto  con  l’istituzione di due quaestiones perpetuae, la quaestio de  adulteriis, per la repressione dell’unione sessuale tra una donna  sposata e uno straniero, nonché dell’incesto, dello stupro, del  lenocinio, e la quaestio de annona, per la repressione di frodi ed  incette di prodotti alimentari. LA COGNITIO SENATORIA­ LE COGNITIONES IMPERIALI­ IUS GLADII Accanto all’ordo iudiciorum publicorum, si vennero sviluppando una  serie di cognitiones criminali extra ordinem, la cognitio  senatoria di tipo accusatorio, e le cognitiones imperiali di tipo  inquisitorio. La cognitio senatoria era espletata ex auctoritas principis, ossia  in forza di una delega di poteri giudiziari da parte del principe.  Essa fu estesa a varie fattispecie criminose, quali adulterio,  71 calunnia, violenza, omicidio, ma anche a crimini di natura  politica commessi da membri dell’ordine senatorio. Il rito era di tipo accusatorio, ma presenta innovazioni rispetto  a quello delle questioni: ­ la procedibilità da parte di più accusatori contro più  accusati (concorso di persone) e per più fattispecie  criminose (concorso di reati); ­  il conferimento all’accusato per l’arringa conclusiva di un  tempo maggiore rispetto a quello concesso all’accusatore; ­  la gradualità della pena in base alle circostanze oggettive  e soggettive del reato; ­  l’assenza dell’accusatore dava luogo alla perenzione del  processo e non alla tergiversatio. La decisione finale, denominata decretum, era redatta per iscritto  e doveva essere depositata nell’aerarium Saturni dopo 10 gg  dall’emanazione per potere essere eseguita. Entro tale termine il  principe avrebbe potuto esercitare il potere di controllo sul  decretum senatorio. Le diverse cognitiones imperiali erano tutte di tipo inquisitorio;  ed infatti, il procedimento era promosso d’ufficio dal cognitor in  veste di accusatore, inquirente e giudice. L’eventuale denuncia,  c.d. delatio, presentata da un privato aveva il valore di una mera  notizia criminis, e questi assumeva il ruolo di parte processuale;  è per questo che i giuristi qualificarono iudicia populi soltanto  i processi promossi davanti le quaestiones perpetuae su iniziativa  di quivis de populo, che assumeva il ruolo di parte processuale. Gli organi giudiziari di tale sistema erano:  ­ il tribunale imperiale che poteva giudicare in primo ed unico  grado o in grado di appello; ­ i prefetti; ­ i governatori provinciali ai quali spettava, sino all’editto di  Caracalla il ius gladii, ossia l’alta giurisdizione capitale nei  confronti dei provinciali, ma non anche nei confronti dei cives,  che godevano invece del diritto di essere giudicati, per fatti  colpiti da pena capitale, o dal tribunale imperiale o dal  tribunale senatorio. Dopo l’editto di Caracalla, fu riconosciuto a  tutti i governatori provinciali il ius gladii senza limitazione  alcuna. Alcune misure di garanzia per l’imputato furono previste dal  consilium principis e dalla cancelleria imperiale mediante  rescritti, in particolare : riportato un versetto biblico al quale seguono i testi di diritto  romano relativi al medesimo argomento. La Consultatio è la più tarda fra le compilazioni miste, risalendo  al V secolo avanzato, o secondo qualche autore addirittura agli  inizi del VI secolo. Si tratta di  una breve raccolta di pareri,  dati da un ignoto giurista occidentale, probabilmente della  Gallia. Gli Scholia sinaitica, ritrovati nel Monastero di S. Caterina del  Sinai, sono parte di un’opera didattica del V sec, nella quale un  ignoto studioso orientale commentava alcuni libri dell’opera di  Ulpiano ad Sabinum. POTERE IMPERIALE E PRATICA DEL DIRITTO Nel corso del V secolo, l’utilizzazione delle opere  giurisprudenziali classiche e la raccolta delle costituzioni  imperiali, non rimase più affidata all’iniziativa privata, ma  venne attratta nell’orbita del potere imperiale.Per quanto  riguarda l’ultilizzazione delle opere giurisprudenziali classiche,  con provvedimento legislativo, noto come legge delle citazioni,  emanato nel 426 da Valentiniano III imperatore d’Occidente, si  volle disciplinare la produzione in giudizio di opere della  giurisprudenza classica, limitando tale privilegio solo alle opere  di 5 giuristi, Gaio, Papiniano, Paolo, Ulpiano e Modestino. In  caso di contrastanti opinioni sulla medesima questione giuridica,  la legge stabiliva che il giudice dovesse attenersi al punto di  vista della maggioranza; in caso di parità, doveva prevalere  l’opinione di Papiniano e solo ne caso in cui egli non si fosse  pronunciato, il giudice avrebbe potuto scegliere liberamente fra  le opinioni in contrasto.La legge delle citazioni, venne recepita  più tardi da Teodosio II imperatore d’oriente, e fu allargata,  stabilendo che anche le opere di altri giuristi venissero prodotte  nei processi, purchè fossero citate da uno dei 5 giuristi.A  Teodosio II si deve poi la prima raccolta pubblica di costituzioni  imperiali, il Codice Teodosiano.Secondo un primo disegno,  l’imperatore voleva realizzare due distinte compilazioni; una  prima raccolta avrebbe dovuto contenere i  testi originali di  tutte le costituzioni imperiali con efficacia generale da  Costantino I in poi, indipendentemente dal fatto che fossero  ancora in vigore o già abrogate. Una seconda compilazione avrebbe  dovuto raccogliere solo le costituzioni ancora in vigore,  opportunamente modificate, per essere adeguate al diritto in  vigore, ed integrate mediante brani di opere giurisprudenziali.  Teodosio nominò allora nel 429 un’apposita commissione, ma i  lavori andarono a rilento fino a quando nel 435 l’imperatore fu  costretto a ridurre il disegno originario ripiegando su una  collezione di costituzioni da Costantino in poi, con  l’attribuzione alla commissione del potere di modificare i testi  delle costituzioni stesse.Il lavoro questa volta fu condotto a  termine in tre anni e l’imperatore pubblicò nel 438 il Codex  75 Theodosianus.Esso si divide in 16 libri, ripartiti a loro volta in  titoli; entro ogni titolo le costituzioni sono sistemate in ordine  cronologico.Rispetto ai due codici precedenti l’opera di Teodosio  presenta un contenuto dedicato prevalentemente al diritto  pubblico, militare, penale, finanziario, ecclesiastico.Nel  contempo egli mantenne in vigore i Codici Gregoriano ed  Ermogeniano, ai quali anzi conferì valore ufficiale. LE LEGGI ROMANO BARBARICHE Fra le raccolte di testi giuridici del basso impero, si  inseriscono le leggi romano­barbariche, ossia le compilazioni  legislative, cioè raccolte o rielaborazioni di iura e di leges  emanate dai re delle popolazioni barbare stanziatesi sulle rovine  dell’impero romano d’Occidente.Tuttavia, i popoli barbari che  invasero i territori dell’ex impero romano d’Occidente, non  pretesero di applicare il loro diritto alle popolazioni locali, e  ciò secondo il principio della personalità del diritto, secondo il  quale questo veniva considerato come retaggio tradizionalmente  proprio di ciascun popoli, quindi, incomunicabile a gruppi etnici  diversi.I re barbari, infatti, non solo lasciarono che le  popolazioni occidentali continuassero a regolare i loro rapporti  secondo il diritto romano, ma anzi approntarono delle raccolte di  testi giuridici allo scopo di facilitare ad essi l’uso delle fonti  giuridiche romane. Tali raccolte prendono il nome di leggi romano­ barbariche.La più importante fra esse è la lex Romana  Wisigothorum, emenata nel 506 per i Romani della Francia  Occidentale dal re visigoto Alarico II.Si tratta di un’ampia  raccolta di leges e iura che consta di una selezione di  costituzioni tratte dal codice teodosiano, un’ampia scelta delle  Pauli Sententiae, un’estratto dei codici Gregoriano ed  Ermogeniano, e un frammento dei responsa di Papiniano. Tali parti  sono accompagnate da una interpretatio, volta a renderne più  agevole la comprensione. La lex romana Burgundionum emanata dal re dei burgundi Gundobado  agli inizi del Vi secolo. La compilazione venne realizzata  servendosi delle stesse fonti della lex romana wisigothorum, ma il  materiale non è riportato testualmente, bensì rifuso e compendiato  in 47 titoli, con frequenti fraintendimenti, svarioni ed  infiltrazioni di principi del diritto borgognone.Fra le leggi  romano­barbariche si include anche il c.d. Editto di Teodorico. La  denominazione è dovuta al fatto che i re Ostrogoti, nell’emanare  le disposizioni in Italia, riconoscevano formalmente la sovranità  dell’imperatore d’oriente, per cui consideravano i suoi funzionari  investiti solo del potere di emanare editti. IL CRISTIANESIMO E LA SUA INFLUENZA SULLA LEGISLAZIONE Sin dal momento in cui con il costantiniano Editto di Milano la  religione cristiana fu considerata lecita al pari dei culti  pagani, e dopo l’Editto di Tessalonica che la impose come  religione di Stato, essa fece sentire sull’ordinamento giuridico  l’influsso dei suoi principi.A partire dal IV secolo la  legislazione imperiale presenta una svolta rispetto a quella  precedente.Per quanto riguarda il diritto pubblico, si afferma una  concezione teocratica del potere imperiale, che viene considerato  derivante direttamente da Dio; proprio a causa dell’investitura  divina tutto ciò che concerne l’imperatore è sacrum, e anche le  sue leggi sono definite sacrae. Tali qualifiche tuttavia sono già  attribuite agli imperatori pagani, ma mentre nell’ideologia pagana  esprimono il concetto  dell’imperatore dio (dominus et deus),  nella concezione cristiana, esse trovano la loro giustificazione  nella riconosciuta origine divina del potere imperiale.Lo Stato si  attribuisce nuove funzioni di carattere etico religioso; rientra  tra i compiti del principe la diffusione e la difesa della fede  religiosa.Con l’avvento del Cristianesimo, che si considera  l’unica vera religione, la professione di qualsiasi altra fede è  considerata un pericolo sociale, in quanto può attirare sulla  comunità l’ira divina. Da qui nasce un’incalzante legislazione a  difesa della religione cattolica, mirando da un lato ad assicurare  pienezza di diritti, privilegi e dispense agli ortodossi e  dall’altro introducendo divieti, misure vessatorie, limitazioni  nei confronti di coloro che non professavano la fede cattolica. IL DIRITTO CRIMINALE La legislazione cristiana in campo criminale comporta un  allargamento a dismisura degli illeciti penali, determinando una  inflazione di reati e pene. Causa si tale fenomeno è l’introduzione del principio nulla poenia  sine lege, che impone la necessità di comminare le pene solo sulla  base di precise e tassative disposizioni di legge. Durante il  principato, infatti, i funzionari imperiali preposti alle  cognitiones extra ordinem in materia criminale giudicavano con  ampio potere discrezionale, nel tardo impero si deve giudicare  sulla base di leggi.I principali obiettivi della legislazione  penale di epoca cristiana sono: la lotta contro il paganesimo e le  numerose eresie; il tentativo di arginare l’immoralità attraverso  una repressione dei reati attinenti alla sfera dei rapporti  sessuali; il tentativo di moralizzare la pubblica amministrazione,  punendo la corruzione dei funzionari dello Stato in modo  particolarmente severo; la protezione dei deboli e degli incapaci  contro svariati atti di prepotenza o vessazione.Contrariamente a  quanto si potrebbe immaginare pensando ai principi di tolleranza e  di perdono suggeriti dal cristianesimo, caratteristica della  legislazione criminale è la gravità delle pene comminate. Essa non  è ispirata alla mitezza delle pene, ma prevede con larghezza la  pena di morte, la condanna ai lavori forzati nelle miniere, la  77 pubblicato con la Costituzione Cordi, nel novembre del 534.È  diviso in 12 libri, il I relativo alle fonti del diritto; i libri  II­VIII al diritto privato; il IX al diritto privato e gli ultimi  tre di diritto pubblico. Ogni libro è diviso in titoli all’interno  dei quali si susseguono, in ordine cronologico, le varie  costituzioni imperiali. Il testo di ciascuna costituzione è  preceduta da un’iscriptio indicante il nome dell’imperatore cui si  deve la costituzione, nonché il nome del destinatario o dei  destinatari (funzioni imperiali o private), ed è poi seguito da  una subcriptio indicante la data della costituzione e il luogo di  emissione. LE NOVELLE Dal 534 fino alla morte di Giustiniano nel 565, si ha la  pubblicazione di una serie di costituzioni che riformano svariati  campi del diritto.A tali costituzioni si dà il nome di Novellae  costitutiones. Si tratta, dunque, di una serie di provvedimenti. Di tali Novelle Giustiniano non fece una raccolta ufficiale, esse,  pertanto costituiscono l’unica parte non compilativa del Corpus  Iuris.Le quattro parti della Compilazione giustinianea, ad  eccezione del primo codice, vengono accomunate con la  denominazione di Corpus Iuris civilis LA TRADIZIONE ROMANISTICA Con la morte di Giustiniano la storia del diritto romano può dirsi  conclusa.Tuttavia, alcuni territori d’Italia non conquistati dai  longobardi rimasero politicamente legati all’impero d’Oriente; ciò  comporta che, sotto il profilo giuridico i destini d’italia  seguono un cammino diverso rispetto a quello delle altre terre  d’Europa.La legislazione orientale postgiustinianea, definita  diritto bizantino.La letteratura giuridica bizantina presenta una  serie di riassunti (indices) e sommari del Digesto e del Codice, e  fra le più importanti si ha la c.d. Parafrasi greca delle  Istituzioni di Giustiniano. La parafrasi è un’esposizione in  lingua greca delle Istituzioni Imperiali, il cui testo viene  chiarito e commentato, spesso con varie esemplificazioni.Tuttavia,  con il passare del tempo, gli indici greci si rivelarono  inadeguati alle esigenze della pratica, per cui fu necessario  l’emanazione di nuove compilazioni di diritto adeguate alle mutate  condizioni ambientali.Intorno alla metà dell’ VIII secolo,  l’imperatore Leone l’Isaurico e suo figlio Costantino V Copronimo,  diedero vita all’Ecloga, una rielaborazione del materiale  giustinianeo. Allo stesso periodo appartengono poi tre raccolte  speciali di norme dedicate rispettivamente al diritto marittimo,  al diritto militare e a vari istituti di diritto privato e penale  inerenti alla proprietà fondiaria.Nel IX secolo Basilio il  Macedone creò un manuale di leggi detto lex manualis, ripubblicato  qualche anno dopo con il titolo repetitio legum.Basilio inoltre  diede l’avvio ad un programma che portò a termine il figlio Leone  il Saggio, che consisteva nella compilazione di un’unica grande  opera, che avrebbe dovuto abbracciare tutto il diritto vigente e  sostituire totalmente le precedenti raccolte legislative. Egli  promulgò una colossale opera legislativa nella quale era stato  rifuso, in lingua greca, quasi tutto il materiale utilizzato nella  compilazione giustinianea. L’opera fu designata con vari nomi fra  i quali è prevalsa la denominazione dei Basilici, res regiae.Nei  secoli VII­X si ha una decadenza degli studi giuridici; lo studio  del Digesto viene abbandonato, mentre le altre parti del Corpus  Iuris costituiscono oggetto di un lavoro esegetico che diede vita  a opere quali la Glossa Torinese, relativa alle istituzioni, e la  Summa Perugina, relativa al codice.Nell’XI secolo si assiste  invece ad un rinascimento giuridico, caratterizzato dalla  riscoperta della legislazione giustinianea. Solo dopo qualche  secolo si fece strada la coscienza di un diritto unico,  abbandonando il tradizionale principio della personalità dello  Stato. Nasce così verso la fine del XI secolo, la Scuola di  Bologna, definita “lo Studio”, il cui massimo rappresentante era  Irnerio a cui si affiancavano i quattro “dottori” Bulgaro, Ugo,  Iacopo e Martino.Inizialmente, si stabilirono però rapporti  individuali fra il singolo docente ed il maestro, che venivano  definiti societates. Successivamente dall’unificazione delle varie  societates ebbe vita la c.d. universitas. Essa fu dunque,  un’organizzazione corporativa degli studenti, che avevano i loro  capi, rectores.Alla scuola dei Glossatori si deve il merito di  avere riscoperto la Compilazione Giustinianea.Il nome Glossatori  deriva da Glossa, ossia il genere letterario che caratterizzò la  scuola. Le glosse erano, infatti, le brevi note di chiarimento che  i maestri apponevano ad un testo che costituiva oggetto di lettura  agli studenti.I Glossatori consideravano l’opera giustinianea come  un monumento legislativo, cercando di superare e giustificare  tutte le contraddizioni, ripetizioni frequenti  nell’opera.L’espressione di tale modo di procedere furono le c.d.  Summae, ossia trattazioni condotte con l’intento di fornire  un’esposizione coordinata del diritto della Compilazione.La Scuola  dei Glossatori contribuisce poi alla diffusione europea del  diritto romano, in quanto gli studenti provenienti da tutta europa  che avevo compiuto a Bologna la loro formazione giuridica, una  volta tornati nei paesi d’origine, nell’attività quotidiana di  operatori del diritto si ispiravano ai principi del diritto  romano. Sorge così il processo di attualizzazione del diritto  romano.A mettere il punto conclusivo a tale attività di  elaborazione scientifica fu un maestro della Scuola di Bologna,  Accursio, che realizzò intorno al 1230 un’imponente antologia  delle glosse che si erano accumulate sui testi. L’opera, nota come  Magna Glossa si articola in 5 volumi, tre dei quali dedicati al  digesto e gli altri alle altre parti della Compilazione.Il periodo  compreso fra la metà del duecento e i primi decenni del trecento è  dominato dai cc.dd. Postglossatori, le cui opere sono  caratterizzate da una accentuata tendenza alla trattazione di  81 argomenti della pratica giuridica e dalla nuova forma letteraria  del tractatus, ossia elaborazione organica di un determinato  argomento.Dal XIV secolo si afferma un’altra forma letteraria,  quella del commento che dà vita alla scuola dei Commentatori, i  cui più importanti esponenti sono : Cino da Pistoia, Bartolo di  Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi. Essa è caratterizzata da una  metodologia dogmatica che mira alla costruzione di un sistema  giuridico, in cui vengono ricomposti i principi tratti dai singoli  testi della Compilazione.È diverso l’approccio dei commentatori  alla compilazione rispetto ai glossatori. Questi siaccostano al  Corpus Iuris tentando di adeguare ai principi in esso espressi la  realtà giuridica del loro tempo; i commentatori invece accettano  le norme della Compilazione giustinianea solo nei limiti in cui le  ritengono applicabili alla nuova realtà e tentano ove possibile  una conciliazione con quelli di altri ordinamenti. Alla scuola dei  commentatori si deve un’attualizzazione del diritto romano  attraverso una sua opportuna rielaborazione.Nasce così il sistema  del diritto comune che costituisce un diritto di portata generale.  Così i principi del diritto romano penetrano come diritto vigente  in Francia, Spagna, Portogallo, Paesi Bassi e soprattutto in  Germania ove si ha un atto ufficiale di “Rezeption”. Qua, viene  istituito il Tribunale Camerale con il compito di giudicare  secondo il diritto comune dell’impero, ed applicare  subordinatamente e compatibilmente con esso i diritti locali a  base consuetudinaria.Al XV­XVI secolo risale la diffusione della  Scuola Culta, che trovò in Francia le condizioni favorevoli per  prosperare. I culti si accostarono alla Compilazione Giustinianea  con spirito critico, ispirato dal culto dell’antichità classica e  quindi, dal desiderio di ricostruire, attraverso il Corpus Iuris,  l’antico diritto romano. Nel XVII e XVIII secolo  nei paesi del  centro Europa fiorì la dottrina del diritto naturale, il  Giusnaturalismo, che ebbe il suo primo esponente nel Grozio. Essa,  sviluppò la teoria dell’esistenza di un diritto ideale, ispirato  ad una naturalis ratio, che può essere anche in contrasto con il  diritto concretamente vigente, il diritto positivo, ponendosi nei  confronti di questo come una meta ideale da raggiungere.Dagli  inizi del secolo scorso, la storia del diritto europeo attraversa  un periodo comunemente chiamato età delle codificazioni. Il  fenomeno realizza lo scopo di dotare ogni ordinamento di un  sistema di norme consolidato e completo, dettato dall’autorità  statuale con l’intento di rappresentare nello stesso tempo un  limite ed una garanzia per la libertà dei cittadini.La prima  codificazione di portata generale venne realizzata in Francia da  Napoleone con il suo “Code Civil” del 1804.L’espansione europea  dell’impero napoleonico favorì una larga influenza della  codificazione napoleonica in quasi tutti gli stati europei e nelle  colonie americane. Solo in Germania l’introduzione di un codice civile fu oggetto di  discussione fra giuristi, in particolare fra il Thibaut, convinto  della necessità di introdurre un codice civile generale, e il