Scarica storia del diritto romano riassunto completo libro roma e il diritto e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! STORIA DEL DIRITTO ROMANO LIBRO: ROMA E IL DIRITTO AUTORI: CERAMI, METRO, PURPURA E CORBINO RIASSUNTO COMPLETO PRIMA PARTE 1° CAPITOLO: LA COMUNITA’ PRIMITIVA, REGNUM. Secondo il racconto tradizionale Roma avrebbe avuto origine intorno all’VIII sec. a.c. da un insediamento coloniale promosso dalla vicina Albalonga. La città così fondata sarebbe stata caratterizzata da istituzioni quali un capo unico vitalizio, un consiglio di anziani e un’assemblea; da una originaria bipartizione degli abitanti in un’aristocrazia dominante di patrizi e in una classe subordinata di plebei. Come l’archeologia ha consentito di determinare può considerarsi certa la presenza di di insediamenti abitativi nell’area in sui sorse Roma già nel IX VIII sec. a.c ma è dubbia la possibilità della presenza in quei luoghi di una comunità che tende a organizzarsi secondo i criteri corrispondenti a quelli di una cittàstato. Solo alla fine del VII sec. a.C. infatti compaiono i primi segni della presenza certa di una comunità che tende ad organizzarsi secondo criteri corrispondenti a quelli di una cittàstato nella quale è presente uno spazio politico destinato alle funzioni politicogiudiziarie, il comitium, accompagnato da elementi di un’organizzazione caratterizzata da stabili relazioni sociali, istituzionali e religiose, curia. Da ciò si è supposto che la più antica storia di Roma sia caratterizzata dal passaggio da un sistema organizzativo preurbano fondato su pagi, cioè aggregati rurali privi di un centro, ad un sistema urbano, caratterizzato da un processo di aggregazione culminato nella formazione di una città. È da tale momento che è possibile tracciare la storia delle istituzioni e dell’ordinamento di tale comunità. È a partire dal VII sec a.c. che Roma si presenta come un aggregato che tende a configurarsi come cittàstato, una comunità (civitas) fatta di gruppi iure sociati, sottoposti cioè ad un ordinamento che ne regola la convivenza politica, che si caratterizza per il fatto di riconoscere ai suoi appartenenti liberi di sesso maschile una condizione che li rende idonei a scegliersi un capo e ad essere guerrieri e proprietari. Il territorio di Roma appare caratterizzato dalla sua distribuzione in un due parti. Una prima parte, urbs, delimitata da uno spazio di confine segnato da riti particolari e caratterizzato dalla presenza di mura e che i romani chiameranno pomerium, sottratto alla possibilità di abitarlo e 1 ararlo, costituente il luogo destinato a sede della comunità, alle attività politiche e di culto pubblico. Una seconda parte costituita da un contado, di indefinita estensione considerato ager publicus, destinato ad assicurare alla comunità, attraverso le attività agricole e pastorali, i fondamentali mezzi di sussistenza. Gli abitanti di Roma si distinguevano ab origine in patricii e plebei. Solo i primi, discendenti di coloro che erano stati membri del senato allorché la città era stata fondata, erano organizzati in gentes, in aggregazioni cioè caratterizzate da un vincolo di solidarietà che lega tra loro più gruppi familiari aventi divinità, culti e costumi comuni, e dal reciproco diritto dei gentiles di succedersi, in mancanza di possibile successione intrafamiliare. Solo ai patrizi è inoltre consentito sedere in senato, di rivestire cariche pubbliche e sacerdozi e di occupare l’ager publicus. I plebei, la moltitudo costituita da tutti gli altri appartenenti alla città, hanno piena capacità giuridica di diritto privato e sono ammessi al godimento di diritti pubblici rilevanti, come la partecipazione ai comitia e alle attività militari. Ad essi è poi consentito legarsi ai patrizi attraverso lo speciale vincolo di clientela e conseguire la possibilità di suboccupare l’ager publicus per concessione del patronus patrizio cui si sono legati. La clientela comportava una serie di diritti e doveri reciproci, tra cui il dovere del patronus di istruire, consigliare ed assistere, anche in giudizio, il cliens, il corrispettivo dovere del cliente di riscattare il patronus prigioniero e il reciproco dovere di non accusarsi. Per quanto riguarda le attività economiche, i patrizi si caratterizzavano per essere dediti all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, mentre i plebei per essere dediti alle attività di trasformazione dei prodotti e al loro commercio. L’unità organizzativa elementare fu la curia, che indicava la riunione degli uomini (viri, uomini cioè atti alle armi) legati ad una o più gentes nel corso della quale si discutevano i problemi comuni e si compivano le cerimonie religioso sacrali. Le curiae divennero la struttura politico amministrativa di base della civitas. Le curiae, ciascuna con un proprio luogo stabile di riunione, con propria denominazione e proprio capo (curio), erano in numero di 30. Tale numero discendeva dall’adozione di uno schema organizzativo a base ternaria e si coordinava con la tradizione di una popolazione già distinta in tre gruppi (tribus): I. I Ramnes, antichi seguaci del latino Romolo; I. I Tities, antichi seguaci del sabino Tito Tazio; II. I Luceres, che discendevano dal ceppo etrusco. Da ogni curia venivano levati 100 uomini in modo da assicurare la formazione dell’esercito, all’epoca costituito appunto per la fanteria della legione di 3000 uomini.La prima forma di assemblea politica era costituita dal comitium, assemblea costituita da cives che si radunavano convocati in un apposito luogo delimitato i sacra, ivi comprese le attività giuridiche, per la necessità che il ius non doveva contrastare con il fas, ossia la volontà divina rivelata attraverso i signa. In tale ambito l’autorità dei pontefici non incontra limiti nell’autorità di alcuno, così anche il rex, formalmente di rango più elevato rispetto al pontefice massimo, doveva sostanzialmente subire le direttive del collegio pontificale. Notevole importanza rivestiva poi il collegio degli augures, costituito da 3 sacerdoti, depositari della scienza degli auspicia e degli auguria. Essi erano gli interpreti delle regole e dei riti collegati che governavano le indagini rivolte a conoscere la volontà degli dei. Tuttavia trarre gli auspicia spettava a chi era investito del supremo potere politico, quindi al rex, ma le norme che li disciplinavano erano indicate dagli auguri, che pertanto, nella sfera di loro competenza, avevano una posizione analoga a quella dei pontefici, per cui si imponevano anche al rex, il quale peraltro non poteva esercitare l’imperium se non dopo l’inauguratio. Ai Feziali spettava poi la cura religiosa degli atti con cui instauravano relazioni internazionali, quali la dichiarazione di guerra, i trattati di pace. Altri collegi sacerdotali sono: 1 I Flamini, il cui compito era quello di mantenere aperto il rapporto tra gli uomini e alcune sfere del divino; 2 Le Vestali, cui spettava di mantenere viva la fiamma di Vesta; 3 I Salii, ai quali spettava di provvedere alle feste che celebravano i passaggi stagionali dalla pace alla guerra; 4 I Fratres Arvales, cui spettava di assicurare i culti rivolti a proteggere i campi coltivati; Funzioni politiche Il rex è il capo politico della città. A lui spettano i poteri di indirizzo e di organizzazione della vita della comunità, potere che esercita facendosi approvare le relative proposte (leges regiae). A lui spetta di esercitare, attraverso i suoi subordinati, i poteri di polizia (c.d. coercitio) necessari per mantenere ordinata la vita cittadina; può, dunque, ordinare l’arresto e la fustigazione, irrogare multe. A lui spetta esigere le prestazioni personali e monetarie necessarie per assicurare la realizzazione delle opere è delle attività pubbliche. Il rex presiede i processi privati e cura la repressione dei crimina. Esso, nell’esercizio di tali funzioni è coadiuvato da un praefectus urbi, che il rex nominava quando doveva assentarsi dalla città perché si potesse rendere giustizia e provvedere agli 5 imprevisti; dai duoviri perduellionis e dai quaestores parricidii incaricati di attività connesse alla repressione criminale. Funzioni militari Il rex è il supremo capo militare, i cui poteri esercita in virtù dell’imperium, ossia della facoltà di rivolgere ordini non sottoponibili ad alcun controllo e ai quali i destinatari non possono sottrarsi. Ausiliari sono i comandanti delle singole unità in cui è organizzato l’esercito. Oggetto di discussione se esistessero un magister populi comandante dell’esercito e un magister equitum comandante della cavalleria. LE RELAZIONI INTERNAZIONALI Sin dai primi secoli dell’ultimo millennio a.c. Roma è membro di una lega che vede associate popolazioni con le quali ha in comune lingua, convinzioni religiose e costumanza varie, e con le quali intrattiene relazioni pacifiche. L’appartenenza a tale lega latina non limitava la sovranità degli aderenti, né quanto ai loro ordinamenti interni, né quanto al loro diritto di guerra e di pace con popolazioni non confederate. Essa prevede una assemblea annuale nella quale convengono i princeps delle diverse comunità, ed ha lo scopo di preservare l’unità di culto tra gli aderenti e di favorire una loro politica tendenzialmente unitaria verso l’esterno. La presidenza di essa in un primo momento era spettata ad Albalonga che Roma sotto i re etruschi soppiantò e divenne la comunitàguida dei popoli latini. Ciò tuttavia non esclude che Roma potesse avere rapporti anche con comunità diverse definite Hostes (straniere) con le quali intratteneva rapporti commerciali e pacifici ma anche relazioni di guerra.La dichiarazione di guerra era affidata ad alcuni membri del collegio dei Feriali che si recavano sul confine nemico per compiere i gesti e rendere le dichiarazioni rituali. Molto antico e risalente a quest’epoca era anche il principio antico secondo cui i prigionieri da iustum bellum divengono schiavi di chi li cattura. LA MONARCHIA ETRUSCA Superata una prima fase nella quale Roma conservò i connotati di una città che rifletteva i caratteri di una comunità nella quale prevaleva l’influenza politica del ceppo latinosabino, essa si ritrovò governata da re etruschi.Questi si sarebbero insediati senza il rispetto delle procedure fin allora osservate.La tradizione rappresenta tale vicenda come una svolta che avrebbe posto le premesse per la fine del regnum.I re etruschi avrebbero modificato radicalmente l’atteggiamento verso il senato, caratterizzando in senso marcatamente militare il potere del rex, e ricercando spesso più che il consenso patrizio i favori della plebe. Roma si presenta come il centro urbano più grande ed importante del Lazio, formato da un’intensa rete di commerci e nel quale appaiono svariate attività artigianali. L’affermarsi di attività economiche urbane favorì la formazione di ceti benestanti, esclusi tuttavia dal patriziato e quindi dal governo della res publica. Ciò comportò un naturale avvicinamento tra re e ceti urbani benestanti, in quanto i primi cercavano in tali ceti il fondamento del loro consenso e i secondi aspiravano al conseguimento di uno spazio politico più adeguato al peso economico che essi avevano nella comunità. Alla monarchia etrusca si devono svariati interventi diretti a caratterizzare in modo nuovo le antiche istituzioni, nonché ad introdurne di nuove. Per quanto riguarda il primo aspetto la novità è costituita dal carattere militare con cui si connota la carica regia. Nessuno dei re etruschi è asceso alla carica nel pieno rispetto delle forme e dello spirito delle regole costituzionali; dunque, la legittimazione della carica regia è più fondata sull’imperium che essa è in grado di esprimere, che sul consenso degli organi costituzionali. Agli stessi re etruschi si devono importanti riforme militari; a Tarquinio Prisco si deve l’esercito di 3000 fanti (espressi dalle curiae)con armatura oplitica (scudo, corazza, lancia e spada, elmo e minori accessori), accessibile, per il suo costo, solo a chi disponesse di adeguate risorse economiche; gli opliti costituivano una massa d’urto particolarmente efficace sia nella difesa che nell’offesa. Sempre a Tarquinio si deve l’introduzione di comandi unificati di fanteria e cavalleria. A Servio Tullio si deve la radicale riforma della leva dell’exsercitus, con la creazione dell’ordinamento centuriato. Il rex è ora fondamentalmente il capo militare. Ciò ne fa un organo che governa per forza propria e che ai patres non si subordina ma si contrappone, contenendone il più possibile l’influenza. In questa direzione risalgono una serie di interventi limitativi del potere dell’antica aristocrazia gentilizia, quali l’ampliamento del senato, con l’immissione di patres di evidente fedeltà regia; l’allargamento nella composizione dei collegi sacerdotali e la creazione di nuovi; una più indipendente gestione dei poteri amministrativi, di polizia e giudiziari; l’introduzione di una prima moneta “aes rude” che costituisce uno strumento importante per l’ascesa sociale dei ceti non patrizi. È a Servio Tullio che si deve la più importane novità costituzionale introdotta dai re etruschi che è proprio la riforma della leva dell’aexercitus. A metà del VI sec Roma era una realtà politica di 7 moderatore sulla questione dei debiti. Fu l’occasione per la rivolta e i plebei abbandonarono la città confluendo sul monte Sacro o, forse, sull’Aventino. La secessione ebbe frutti importanti. Fu confermato il rilievo politico dell’adunanza plebea e il riconoscimento esplicito del diritto dei capi plebei (tribuni) di intervenire con la propria intercessio contro le decisioni consolari, nonché il riconoscimento delle leges sacrate, cioè la liberazione dei plebei che erano stati fatti schiavi per debiti. Dalla secessione in avanti l’organizzazione plebea acquista stabilità. Il numero dei tribuni diventa di 10, ma il tribunus non ha imperium e non è magistratus e non ha auspicia, non può convocare né i comitia né il senatus. Al tribunus spetta solo l’auxlium dei plebei che esercita attraverso il veto con cui può paralizzare qualunque atto di governo e dei pubblici poteri in genere. La nascita dei tribuni confina l’attività degli aediles, che erano stati i primi referenti della plebe, al rango di ausiliari dei primi; questi difendono dalle pretese di prestazioni abusive di munera; promuovono processi multaticii, cioè diretti all’irrogazione di multe. Tribuni e aediles vengono eletti nel concilium (la cui convocazione e presidenza spetta ai tribuni). Esso si riunisce per eleggere i propri capi e per discutere e deliberare su ogni argomento ritenuto di interesse. La pronuncia del concilium costituisce plebiscitum; essa non ha valore impegnativo per la civitas, ma è uno strumento di pressione politica in quanto manifesta il punto di vista della maggioranza della popolazione. IL DECENVIRATO E LE LEGGI VALERIE HORATIE Intorno alla metà del V sec e precisamente nel 451 e 450 a.c. il movimento plebeo iniziò a promuovere il superamento delle antiche discriminazioni costituzionali. Già nel 462 il tribuno Terentilio Arsa aveva avanzato la proposta di eleggere un collegio di 5 magistrati con lo scopo di definire con leggi scritte i confini dei poteri consolari, proposta che non ebbe però successo. Soltanto nel 451, sospesi le magistrature e il tribunato plebeo, fu eletto un collegio di decemviri, con poteri illimitati e con il compito di redigere un corpo di leggi scritte. Il decemvirato, dal quale i plebei avrebbero accettato di restare esclusi in cambio di alcune assicurazioni, tenne il governo della città al posto dei consoli e fu autore di 10 tavole di leggi che sarebbero state poi sottoposte all’approvazione dei comizi centuriati. Un secondo decemvirato, questa volta di composizione mista, fu costituito per l’anno successivo; esso fu autore di altre 2 tavole di leggi ma avrebbe imperversato con arbitri e violenze provocando così una sollevazione che pose fine all’esperimento decemvirale e fu ripristinata la precedente costituzione. Le XII tavole redatte dai decemviri sono state pubblicate dai nuovi consoli del 449 Valerio Potito e Orazio Barbato, e fatti approvare dai comizi mediante un insieme di provvedimenti, leges Valeriae Horatiae, che avrebbero attribuito valore vincolante generale ai plebiscita (ossia le pronunce del concilium); è stato introdotto il divieto di costituzione di magistrature che non fossero esposte a provocatio; è stata disposta la esclusione dalla protezione cittadina di chiunque avesse recato offesa ai capi della plebe e, in particolare, ai tribuni e edili. Il decemvirato avrebbe dovuto essere un’istituzione permanente diretta a rendere possibile un governo misto, ed esso esso fallì proprio in questo ruolo di magistratura suprema mista. In seguito al plebiscito Canuleio del 445, i plebei riuscirono ad ottenere la caduta del divieto di connubium con i patrizi; per cui ne conseguiva che unioni miste attribuissero ai discendenti da un patrizio e una plebea condizione patrizia, e conseguentemente era divenuto insensato il divieto per i plebei di sumere auspicia (dato che da unioni miste potevano nascere patricii la condizione di plebeo non costituiva più un ostacolo alla purezza dei riti cui eventualmente partecipassero) dal cui divieto i patrizi facevano discendere l’incapacità dei plebei di rivestire il consolato. Da qui, nel 444 si fece frequente la decisione di non procedere all’elezione di consoli ma di affidare il governo della città a tribuni militum consolari protestate, ossia a capi militari investiti di poteri consolari senza tuttavia essere consoli, con la conseguente possibilità di includere tra di essi anche elementi plebei. Tuttavia non si arrivò mai ad una gestione paritaria della res pubblica, ma i tribuni erano sempre in numero inferiore rispetto a quello dei patrizi. L’aspirazione plebea al consolato si realizzò solo nel 367 quando si pervenne all’approvazione della proposta dei tribuni Licinio Stolone e Sestio Laterano (leges liciniae sextiae)di ammettere un plebeo alla suprema magistratura, ma ciò nel quadro di un compromesso politico che prevedeva, tra l’altro, l’introduzione di un modus nella possessio dell’ager publicus nonchè la riserva al patriziato della funzione giurisdizionale affidata ad un praetor. Tuttavia ciò non comportò la scomparsa della distinzione degli ordini, ma caddero soltanto le più gravi discriminazioni di ordine politico–costituzionale. Superato il problema della suprema carica il pareggiamento tra i due ordini non incontrò speciali resistenze, tuttavia fu necessario ancora un secolo per dirsi definitivamente compiuto. Quanto ai sacerdozi, furono aperti ai plebei nel 300, in seguito ad un plebiscito Ogulnio, i collegi degli auguri e dei pontefici (in tale momento era in pieno svolgimento il conflitto con i Sanniti). Cessata poi la discriminazione per le magistrature, i plebei si videro, infatti, riconosciuta la possibilità di accedere anche alla dittatura e alla censura, venne meno l’impossibilità per i plebei di essere accolti in senato sui posti che si rendevano vacanti e riservati agli exmagistrati. I senatori plebei, tuttavia, conservarono a lungo, come conscripti, una posizione che li rendeva esclusi da alcune funzioni come l’auctoritas e l’interregnum. Venuta meno la discriminazione politica dei plebei anche l’assemblea plebea finì con il vedersi 11 riconoscere rango di assemblea costituzionale e le sue delibere finirono con l’essere riconosciute vincolanti per tutti i cives. Si ritiene infatti che ai plebiscita in passato fosse riconosciuta efficacia vincolante per la civitas ma ciò attraverso apposite successive deliberazioni costituzionali. La stessa lex Valeria Horatia del 449 potrebbe avere avuto il valore di provvedimento attributivo ex post di valore vincolante generale alle precedenti deliberazioni plebee. In ogni caso nel 287 una lex Hortensia dispose la piena efficacia per tutti i cives delle delibere che da quel momento in poi sarebbero state assunte dal concilio plebeo (la lex fu votata a cavallo tra la fine delle guerre sannitiche e l’inizio del conflitto con Taranto). ISTITUZIONI POLITICHE TRA IL V E IL II SEC I due secoli che intercorrono tra la fine del regnum e il superamento del conflitto patrizioplebeo, sono caratterizzati dal succedersi di guerre e conflitti tra Roma e i suoi vicini. Tutto il V sec vede Roma impegnata contro Equi e Volsci. Il IV sec si apre con l’invasione gallica e la ripresa delle ostilità contro Roma da parte dei Volsci e dal tentativo degli alleati Latini di sottrarsi alla egemonia di Roma. Nel 326 si apre il conflitto con i Sanniti che si chiuderà solo nel 290, e nel 280 Roma è impegnata nella guerra con Taranto. Con le guerre Roma moltiplica il proprio territorio e conquista anche il controllo di mercati sempre più vasti. Alla fine del processo espansivo il territorio di Roma è passato dai poco più di 800 Kmq ai circa 5300 kmq e la popolazione è cresciuta dai 30/50 mila unità complessive ai circa 150 mila cittadini maschi adulti. Le guerre vittoriose erano inoltre state accompagnate dalla fondazione di numerose coloniae (si tratta di comunità fondate a scopo militare), oltre che da una rete di trattati che avevano legato a Roma numerose città italiane. Dal punto di vista giuridico istituzionale Roma conservò la distinzione tra l’urbs e l’ager Romanus; ma mentre l’urbs mantenne inalterata la propria fisionomia istituzionale, l’ager romanus subì una riorganizzazione. Il numero delle tribus si fissò nel 241 in quello di 35. L’ager romanus, espandendosi non fu più luogo di residenza di gentes e di familiae, ma il luogo in cui erano allogate intere comunità di tipo cittadino che o avevano perduto l’autonomia politica ed erano state incorporate nel territorio romano (municipia) o erano state appositamente fondate a scopo militare (coloniae). La condizione degli abitanti si differenziava a secondo che fossero liberi o schiavi, cives o altra condizione. Tra i cives (che fossero tali per nascita o per liberazione negli opportuni modi dalla schiavitù) rilevava l’essere patrizi o plebei; ingenui (nati liberi) o liberti, solo ai primi era consentito rivestire magistrature e sacerdozi; uomini o donne, in quanto le seconde erano escluse da ogni attività pubblica. A tutti spettava in ogni caso la protezione sul piano criminale. Particolari norme regolavano ab antiquo la perdita della inoltre poteri di coercitio e la iurisdictio relativamente alle liti che insorgevano tra privati nelle materie di loro competenza. CARATTERI DELLE MAGISTRATURE ORDINARIE I caratteri delle magistrature ordinarie erano: elettività: competenti a votarne i titolari erano i comitia che si esprimevano per centurie sotto la presidenza di un console, quando si dovevano eleggere i magistrati maggiori, oppure sotto la presidenza di un pretore quando si dovevano eleggere magistrati minori. temporaneità : le singole magistrature erano temporanee; la norma era l’annualità; per i censori eletti ogni 5 anni valeva un principio diverso: restavano in carica per il tempo necessario ad espletare le loro funzioni, in ogni caso non oltre i 18 mesi. onorarietà: tutte le magistrature erano Honorariae, per cui non comportavano compensi per i titolari; pluralità di titolari: in alcuni casi si esigeva il principio della collegialità, nel senso che ciascuno era considerato come unico titolare che pertanto poteva compiere qualunque atto di esercizio e chiunque poteva opporsi a tale atto mediante l’intercessio. Competenti a votare i titolari delle magistrature erano i comitia, che si esprimevano per centurie, sotto la presidenza di un console quando si dovevano eleggere magistrati c.d. maggiori e, per tribù, sotto la presidenza di un pretore quando si dovevano eleggere magistrati c.d. minori. POTERI DELLE MAGISTRATURE ORDINARIE Il principio generale è che nessun magistrato ordinario possa operare fuori dal controllo degli altri magistrati; ciò può comportare che una stessa facoltà spetti in concorso a più magistrati che possono perciò trovarsi per un’eventuale diversità di vedute in contrasto. Tutti i magistrati curuli (consoli, pretori, censori, edili) hanno ius edicendi, ossia la facoltà di fare comunicazioni ai cives aventi valore di ordinanza ed efficaci solo per la durata della carica magistratuale. Nella tarda repubblica la facoltà di edicere venne riconosciuta anche ai governatori delle province. Ad alcuni magistrati, consoli, pretori, edili, questori, competono poteri di coercitio, di infliggere cioè sanzioni a tutti coloro che si sottraggono ai loro ordini o ne impediscano l’esercizio delle funzioni ovvero trasgrediscano disposizioni sulla cui vigenza debbano vigilare in ragione della loro competenza. Nei confronti della coercitio 15 magistratuale diretta ad una sanzione capitale, alla verberatio, o a una multa superiore ad un certo ammontare, spetta ai cives la provocatio ad populum, ossia la facoltà di chiedere che si proceda alla istruzione di un regolare processo comiziale. Fra i magistrati ordinari, solo ai consoli e pretori è riconosciuta la facoltà di convocare e presiedere il senato e i comitia. Consoli e Pretori hanno pari facoltà di avanzare rogationes e di chiedere che i comitia deliberino nel modo che essi ritengono sollecitare. Spetta ai consoli la convocazione dei comitia centuriata per l’elezione dei magistrati c.d. maggiori e ai pretori la convocazione dei comitia tributa per l’elezione degli altri magistrati. In età repubblicana avanzata venne riconosciuto ai tribuni un ius senatus habendi, ossia la facoltà di chiamare il senato a pronunciarsi su una loro richiesta. Ai consoli e pretori è riconosciuto l’imperium, ossia la facoltà di rivolgere ordini, principalmente in campo militare, ai quali non è consentito in alcun modo sottrarsi. MAGISTRATURE STRAORDINARIE Magistrature straordinarie, poiché erano istituite solo per esigenze particolari, furono istituite molte magistrature fra le quali la dictatura che rimase in vita fino alle guerre annibaliche. Il dictator durava in carica per il tempo necessario a provvedere alle esigenze che ne avevano suggerito la creazione, e in ogni caso per non più di 6 mesi. Il suo imperium era in suscettibile di intercessio tribunizia ed si imponeva a quello di tutti gli altri magistrati. Con la nomina del dictator, e la conseguente sospensione di tutte le altre magistrature e dei tribuni, i consoli e il senato si assumevano la responsabilità politica dell’iniziativa di investire qualcuno dei supremi poteri per cercare di superare l’eventuale paralisi derivante dal gioco degli ordinari equilibri costituzionali. Ogni magistrato si trovava nella condizione di essere potis, ossia in posizione di preminenza rispetto a chiunque; la sua potestas trovava soltanto un limite nella potestas degli altri magistrati che potevano trovarsi in una posizione di superiorità, parità o subordinazione. Così i consoli hanno par potestas reciproca e maior potestas rispetto agli altri magistrati; i pretori avevano minor potestas rispetto ai consoli, ma maior potestas rispetto agli altri magistrati, in relazione all’ordo magistratuum che prevedeva una gerarchia che culminava nel consolato. Ciò comportava che lo stesso potere attribuito a diversi magistrati avrà un’intensità corrispondente alla potestas del magistrato. Una posizione a parte hanno il dictator, cui spetta una posizione di preminenza assoluta che lo pone anche al di sopra dei consoli e, tra i magistrati ordinari, i censori, che si considerano investiti di potestas maxima parallela e in nessun modo interferente a quella dei consoli. Il censore può subire perciò, a parte il problema dell’intercessio tribunizia, solo l’interferenza dell’altro censore. Inoltre in virtù della collegialità della carica, il venir meno meno dell’uno comporta anche il dovere per il superstite di abdicare. Connessa con la potestas è la materia degli auspicia. Solo ai magistrati patrizi spetta la facoltà di interrogare le divinità e trarne indicazioni di comportamento, di sumere gli auspicia. Gli auspicia non valevano solo per le attività che dovesse personalmente compiere il magistrato ma per qualunque attività pubblica; per cui ogni magistrato poteva obnuntiare, ossia fare opposizione ad altro magistrato in forza di eventuali signa sfavorevoli impeditivi dell’attività che questi stava per intraprendere. Si poteva configurare così un contrasto che poteva essere superato avendo riguardo al grado di potestas dei magistrati; prevalevano gli auspicia di chi avesse maior potestas. L’attività politica di un magistrato poteva allora essere impedita dall’eventuale intercessio di un collega, ma anche da una obnuntiatio rivoltagli da chi fosse capace di auspicia maiora rispetto ai suoi. Ai magistrati plebei possono presentarsi solo auspicia spontanei (oblativa). Gli auspicia si distinsero in: ex coelo; ex tripudis; ex quadrupedibus; ex diris. Per evitare che i delicati equilibri costituzionali che si erano venuti creando venissero compromessi da concentrazioni di potere, vennero fissati nel tempo una serie di principi. Innanzitutto fu vietato il cumulo nella stessa persona di più magistrature. Era possibile rivestire la carica solo dopo un intervallo decennale, salvo per la censura e, poi, per il consolato per le quali fu previsto un divieto assoluto di iterazione. Un intervallo di due anni nella copertura di diverse magistrature fu fissato dalla lex Villia del 180. Alla stessa lex Villia si debbono un insieme di disposizioni per effetto delle quali si definì una gerarchia fra le magistrature (ordo magistratuum) e un collegato cursus honorum, ossia le tappe che dovevano essere osservate da chi percorreva la carriera pubblica. Speciali onori discendevano dalle varie magistrature. Si andava dall’eponimia per i consoli, che consisteva nel dare il proprio nome all’anno, al diritto dei censori di essere sepolti nel manto di porpora; al posto da occupare in teatro. I magistrati potevano affidare speciali funzioni a propri delegati. Così il console poteva nominare un praefectus urbi; il pretore nominare a sua volta praefecti iure dicundo cui affidare l’esercizio della sua iurisdictio fuori Roma. Particolarmente importante fu il consilium di giureconsulti, che assisteva il praetor urbanus nell’esercizio della sua iurisdictio. Al fine di evitare di interrompere l’attività di comandanti militari impegnati in campagne di guerra che presentavano andamento favorevole, si instaurò la prassi di prolungare il loro imperium per il tempo necessario alla conclusione delle imprese belliche in corso. Tale prassi venne estesa anche alle altre 17 operazioni di voto si procedeva allo spoglio, il diribitio. Nei comizi elettorali si scriveva nella tabella il nome del prescelto; in quelli legislativi “uti rogas” per approvare, “antiquo” per respingere; in quelli giudiziari “A”, cioè absolvo, o “C” condemno. Se l’assemblea era elettorale, il presidente operava la renuntiatio, ossia accoglieva il risultato, e procedeva alla creatio dell’eletto, che veniva designatus alla carica. Se l’assemblea era legislativa il testo della rogatio approvata diveniva lex publica e veniva preceduto da una praescriptio, che conteneva gli elementi per la sua identificazione e collocazione nel tempo, e seguito da una sanctio, che definiva il rapporto con il contesto normativo precedente. La riunione dei comitia veniva preceduta da riunioni informali, c.d. contiones, nelle quali si discutevano le proposte e si svolgevano i pareri a favore o contro. Per tale motivo le rogationes legislative dovevano essere promulgate, ossia affisse nel foro dal giorno dell’edictum di indizione dei comitia a quello della loro riunione. Nei comitia centuriata si votava in un ordine che rifletteva il privilegio che stava alla base della loro organizzazione. La votazione si interrompeva non appena si raggiungeva il quorum, di maggioranza (97 voti). Nei comitia curiata e tributa si votava secondo un ordine sorteggiato e si arrestavano non appena si fosse formata la maggioranza dei voti. L’EXERCITUS E LA GUERRA L’organizzazione centuriata costituiva la base per la leva dell’exercitus che rimase per molto tempo legato alla struttura che ne aveva voluto Servio Tullio. Esso era pertanto costituito da due legioni di linea di 3000 fanti ciascuna sostenuta da 1200 soldati di seconda linea (velites); i primi combattevano con armatura pesante (offensiva con la lancia d’urto; difensiva con scudo, corazza, elmo e schinieri), i secondi aveva un’armatura leggera, ossia solo armi da getto. Ad ogni legione poi erano aggregati 300 cavalieri. La leva di questo esercito avveniva prelevando gli effettivi delle legioni di linea dalle prime tre classi dei pedites e quelli dei velites dalle centurie della quarta e quinta classe. Il comando delle legioni spettava ai magistrati supremi e più tardi anche ai pretori. Ogni esercito consolare era amministrato da un quaestor. Il generale era circondato da un consilium e da una cohors praetori (cioè contabili,medici,interpreti …). Le legioni degli alleati erano comandate ciascuna da sei praefecti romani nominati dal generale. Vi era un limite alla leva costituito dal numero di campagne sostenute, ma speciali esigenze potevano giustificare il tumultus, ossia la leva di massa. L’armamento fu inizialmente a carico dei soldati fino a quando non si distinsero gli equites equo publico, cui spettava il mantenimento dell’armatura, dagli equites equo privato, che dovevano provvedere da se. La funzione dell’exercitus (bellum) era disciplinata da norme di diritto internazionale delle quali era custode il collegio sacerdotale dei fetiales. La funzione dell’exercitus era la conduzione della guerra. Il bellum era iustum se dichiarato nelle forme dovute e in quanto tale produceva gli effetti della schiavitù dei prigionieri e la legittimità della praeda. A tal proposito era stata elaborata la dottrina del postliminium secondo cui persone o cose che fossero tornate, dopo la cattura, in territorio romano o alleato riacquistavano la condizione giuridica originaria. IL TERRITORIO Il rapporto tra la civitas (organizzazione politica dei cives) e il territorio era regolato dalle norme del diritto augurale che distinguevano il territorio in 5 categorie : la prima era costituita dall’ager romanus, la seconda dall’ager Gabinus, la terza dall’ager peregrinus la quarta dall’ager hosticus e infine quello incertus. Tuttavia ai fini dell’organizzazione giuridico amministrativa però è solo rilevante l’organizzazione dell’ager Romanus e dell’ager peregrinus. L’ager Romanus, sottoposto alla piena sovranità di Roma, in un primo momento si sviluppò con la destinazione del territorio sottratto alle comunità vinte, agli impieghi che potevano farsene come ager publicus, ossia assegnandolo in proprietà ai cives in piccoli lotti, e in parte lasciandolo alla occupabilità privata di chi ne avesse titolo. In un secondo momento il territorio incamerato venne invece organizzato mediante la fondazione di nuove comunità cittadine, coloniae, o l’istituzione di municipia, ossia comunità cittadine assorbite in seguito al loro assoggettamento militare. Le prime coloniae furono insediamenti a scopo militare di un piccolo numero di cittadini ma nel tempo se ne sarebbero allargati dimensioni e funzioni. Le coloniae avevano propri magistrati, senato e assemblee, attraverso i quali si amministravano, ma i cives che le abitavano avevano diritto, in quanto iscritti nelle tribù, di esprimere il loro voto nei comitia. I municipia erano insediamenti cittadini ai quali Roma, assorbendoli nel loro territorio, tolse l’autonomia politica per ridurli a elementi della propria organizzazione cittadina. Ad alcune comunità venne riconosciuta la condizione di cittadinanza ma escludeva i loro appartenenti dal voto e dalla possibilità di ambire alle magistrature, mentre ad altre una cittadinanza piena; ad alcune veniva mantenuta l’organizzazione interna mentre ad altre ne veniva imposta una nuova. Si vennero allora a formare statuti municipali diversi tra loro. L’AGER PEREGRINOS A partire dallo scioglimento della lega latina, Roma sviluppa, in primis con i territori più prossimi all’ager romanus e nel quale vivevano popoli in pace con Roma (l’ager peregrinus), una politica di rapporti molteplici fondati sulle alleanze imposte con il successo delle armi, che stabilivano ineguali obblighi. Ne consegue il diffondersi di una miriade di rapporti di diverso 21 contenuto e unificati dal constante riconoscimento della supremazia di Roma. In seguito alla sottomissione di Sicilia e Sardegna, per cui anche il territorio delle due isole diveniva ager peregrinus, Roma si limitò a garantirsene il controllo militare affidando a pretori appositamente istituiti una competenza che si definiva dal suo ambito territoriale. Provincia del praetor Sardiniensis fu la Sardegna e di quello Siciliensis fu la Sicilia. Roma controllava in questo modo l’ager peregrinus mantenendo la preesistente struttura politica e dichiarandolo provincia di un magistrato fornito di imperium. Lo statuto di ogni provincia è quello fissato nella lex provinciae, solitamente dettata dallo stesso generale cui si doveva la conquista. GLI ISITITUTI DI CITTADINANZA NELLA REPUBBLICA MATURA Alla fine del III Sec si distinguevano: cives romani che si distinguevano in cives optimo iure, con pienezza di condizione che ne assicurava il diritto a tutte le manifestazione che ne conseguivano sotto il profilo del ius publicus e del ius privatum; e cives con una condizione più attenuata; latini, che si distinguevano in prisci o veteres ai quali spettavano nel campo del diritto pubblico il diritto di partecipare alla divisione dell’ager publicus e della preda bellica, facoltà di votare in Roma in una tribù a sorte, il ius migrandi, ossia la facoltà di spostare il proprio domicilio in Roma, e, nel campo del diritto privato, connubium e commercium anche con i cives romani; e in coloniari, ai quali era riconosciuta una condizione di cittadinanza attenuata, non avevano ad esempio il ius connubi; Peregrini, suddistinti in ragione della loro specifica condizione e fra i quali rientravano tutti coloro i quali non fossero cives o latini. A quelli di migliore condizione era riconosciuto solo il commercium con i cives e i latini. Gli statuti della cittadinanza erano pertanto molteplici e investivano: coloro che abitavano in senso stretto a Roma; le colonie; i municipia; le alleate; le province LA FINANZA PUBBLICA Fino all’inizio del IV sec. le esigenze di spesa per Roma furono assai modeste. Alle spese la res publica provvedeva mediante il suo aerarium alimentato dal bottino di guerra e dalle contribuzioni imposte ai nemici sconfitti. Se ciò risultava insufficiente, si deliberava con un senatoconsulto il tributum, in virtù del quale ciascuno era chiamato a contribuire alle spese di guerra in una misura che oscillava tra lo 0,1 e lo 0,3 per cento del proprio patrimonio accertato nell’ultimo censimento. Tale tributum veniva spesso restituito a guerra conclusa se il tesoro dello stato lo consentiva per l’entità del bottino conseguito. Tra le altre voci di entrata ricordiamo: i proventi derivante dalle affermazione di raggruppamenti politici. I gruppi che di volta in volta detenevano il potere, consideravano le forze che ne erano escluse non come parti costitutive della res publica, ma come forze antigiuridiche da combattere ed eliminare. Da qui nascono due strumenti di lotta politica, quali la dichiarazione di hostis rei publicae , nemico della patria pronunziata a carico dei cittadini romani che venivano privati della guarentigia della provocatio; nonché le liste di proscrizioni, consistenti nell’affissione in pubblico di elenchi di avversari politici, a carico dei quali venivano disposte gravi misure repressive, quali esecuzione sommaria in caso di cattura, esilio in caso di fuga. I PROBLEMI FONDAMENTALI DELLA CRISI I problemi posti dalla causa prima e dalle concause furono essenzialmente tre. 1. La questione agraria La questione agraria è legata alle modalità di gestione dell’ager pubblicus e soprattutto di quella parte, che era la più consistente, lasciata in teoria a qualsiasi cives volesse occuparla ma in pratica ai detentori del potere economico. Le grandi conquiste mediterranee incisero profondamente sulla utilizzabilità di altre parti dell’ager publicus, ossia gli agri vectigales, concessi dai censori a privati, normalmente per un quinquennio, ma anche in perpetuo, con l’obbligo da parte del concessionario della corresponsione di un canone all’aerarium populi romani, canone che naturalmente non costituiva un problema per gli esponenti dell’aristocrazia terriera, i quali poterono aggregare ai propri lotti quelli prima dati in concessione a piccoli coltivatori. Ciò ripropose fra nobiles e populares, l’antico conflitto patrizioplebeo, con l’aggravante questa volta del dissolvimento della piccola proprietà rurale.Da qui ebbe origine la lunga crisi della libera res publica; ciò fu avvertito da Tiberio Sempronio Gracco, un aristocratico illuminato, che nel 133 a.C. propose ai concilia plebis tributa, in qualità di tribuno, una rogatio, la Sempronia Agraria, diretta alla ricostruzione del ceto medio romanoitalico; con essa ripropose il limite massimo di 500 iugeri all’occupazione dell’ager publicus per ogni pater familias; la facoltà di ciascun figlio di occupare altri 250 iugeri; distribuzione e attribuzione in piena proprietà delle terre recuperate ai contadini poveri, con il vincolo della inalienabilità; costituzione di una commissione di tre membri con il compito di misurare, recuperare, assegnare e distribuire i 25 lotti di ager publicus e di decidere su eventuali controversie in modo inappellabile.I lavori della commissione furono però paralizzati da un senatoconsulto ispirato da Scipione Emiliano, che sottrasse ai triumviri ogni potere decisionale.La normativa di Tiberio Gracco fu riproposta dal fratello Caio nel 123 a. C. ma fu del tutto vanificata nell’arco di un decennio dalla morte di Caio.Di questo periodo vanno ricordati tre plebisciti; uno rimosse il limite della inalienabilità facilitando la rapida ricostruzione dei latifondi; uno pose fine alla distribuzione di ager publicus prescrivendo che gli occupanti pagassero il canone e che il ricavato fosse distribuito tra i poveri; l’ultimo abolì tale canone.Della riforma graccano sopravvisse pertanto solo la trasformazione di gran parte dell’ager publicus in proprietà privata. 2. La questione della cittadinanza. Il sistema federativo, o dell’incorporazione diretta, costituì la questione della cittadinanza che culminerà in una durissima guerra tra Roma e gli alleati italici degli anni 91/89. Il rilievo politico della questione della cittadinanza con quella agraria fu percepito da Caio Gracco, il quale, ritenendo pericoloso mantenere in condizione di sudditanza politica gli alleati italici, nel 122 a.C. propose la concessione della piena cittadinanza ai latini e del ius suffragii, ossi del diritto di voto in una tribù estratta a sorte, a tutti gli italici.Tale proposta suscitò la reazione di tutti i cives e il tribuno Livio Druso oppose l’intercessio alla rogatio di Caio surrogandola con una serie di provvedimenti a favore di populares e latini.Il problema poteva essere risolto solo in modo organico e a ciò mirò nel 91 a.C. il tribuno Livio Druso figlio, il quale con un provvedimento di legge, cercò di risolvere il problema in via legislativa cercando di mediare posizioni aristocratiche e graccane. Egli però venne ucciso, nel corso di un complotto da chi temeva la fine dei privilegi romani, prima che la rogatio fosse sottoposta a votazione. La sua uccisione diede l’avvio alla guerra italica, bellum sociale. Gli alleati costituirono una confederazione di civitates, con capitale Corfinium, negli Abruzzi, che assunse il nome di Italica.La guerra si concluse nell’89 quando Roma fu costretta a comporre il conflitto, non solo in via militare, ma anche con concessioni politiche. Nel 90 una lex Iulia concesse la cittadinanza romana a tutti i latini ed Italici rimasti fedeli a Roma; mentre la lex Plautia Papiria attribuì la cittadinanza a tutti i socii che ne avessero fatto richiesta entro 60 gg.Roma divenne così communis patria di tutte le popolazioni italiche.Tuttavia rimase il problema della distribuzione dei nuovi cittadini nelle tribù territoriali; problema oggetto di dispute tra ottimati che volevano distribuire i novi cives in poche tribù, e popolari che miravano a distribuirli in tutte le tribù, in conformità ad un progetto proposto nell’88 dal tribuno Publio Sulpicio Rufo. Le linee essenziali della lex sulpicia furono fatte definitivamente approvare nell’87, fra violentissimi contrasti dal console Cornelio Cinna. Da tale momento l’effettiva partecipazione dei cives ai lavori delle assemblee popolari fu virtualmente ristretta alle masse urbane di Roma. 3. Questione dell’exercitus. Prima della riforma di Caio Mario, l’esercito serviano poggiava su due criteri organizzativi; una simmetria fra il ruolo militare del civis ed il suo ruolo politico nel comizio; e il conferimento del supremo comando militare al magistratus populi romani investito anche del comando civile.La riforma mariana incise su entrambi i principi, da un lato estendendo il servizio militare ai capite censi dietro promessa di ricompensa in terreni e denaro, e dall’altro lato gettando le basi di una scissione tra imperium domi ed imperium militiae, culminata nella distinzione tra potere giurisdizionale e civile di pretori e consoli a Roma e in Italia, e potere militare dei propretori e proconsoli nelle province.Le conseguenze che ne derivarono furono, da un lato il superamento della regola che precludeva al centurione ed ai militari dei ranghi l’accesso ai ruoli dell’ufficialità, dall’altro l’affermazione dell’esercito professionale consentì a quanti avessero conseguito, grazie alla milizia, il censo equestre, di adire le magistrature e di aspirare a far parte del senato e delle corti giudicanti. L’arruolamento dei capite censi spezzò poi la simmetria istituzionale fra il ruolo di capo civile ed il ruolo militare del comandante dell’esercito. Ciò comportò il primato del potere militare su quello civile contro cui lottò Cicerone sostenendo l’opposto principio del primato del potere civile ; la diffusa accettazione del principio secondo cui si doveva osservare in tempo di pace le consuetudini e obbedire in tempo di guerra alla necessità; formazione di una rilevante clientela militare che affianca e a volte surroga la clientela civile nel corso delle lotte politiche e delle guerre civili.Da tutto ciò scaturirono determinate conseguenze che riguardavano il conferimento per lunghi periodi del proconsolato; il cumulo del consolato con il proconsolato e il conferimento del comando militare a semplici privati. LE VICENDE DELLA CRISI Nell’arco dell’età della crisi, dal 133 a.C. al 29 a.C., si susseguono una serie di vicende politicoistituzionali:il movimento graccano e il tentativo di razionalizzazione del sistema costituzionale in senso democratico; la reazione sillana e il tentativo di razionalizzazione del sistema in senso aristocratico; la dissoluzione della costituzione sillana; la dittatura cesariana 27 sulla base di alcune direttive: ridimensionamento dei poteri e delle funzioni del tribunato, mediante la lex Cornelia de tribunicia potestate ridusse, infatti, il tribunato a mera parvenza istituzionale limitando i poteri del tribuno, privando i tribuni del potere di veto (ius intercessionis) e del potere di proporre leggi. Abrogazione della lex Sempronia de Comitiis e compressione delle competenze delle assemblee popolari. Venne attuata con la lex Cornelia de comitiis centuriatis che abolì il metodo di votazione del sorteggio e ripristinò quello originario. Con la lex Cornelia de sacerdotiis abolì la disposizione della lex Domitia sul coinvolgimento dei comitia tributa nel procedimento di investitura dei pontefici e degli auguri. Riordinamento e ridimensionamento del ruolo politico delle magistrature attuato mediante un gruppo di leggi Cornelie. La lex de provinciis ordinandis sottrasse il comando militare a consoli e a pretori, ai quali fu consentito, durante l’anno di carica, l’esercizio delle solo potere civile e giurisdizionale, ma con l’onere di assumere, alla scadenza della carica, in qualità di promagistrati, l’imperium militae nelle province loro assegnate dal senato. potenziamento delle attribuzioni e della direzione politica del senato è il prodotto di una serie di interventi del dittatore sulla composizione dell’assemblea senatoria. Silla elevò il numero di senatori a un massimo di 600 procedendo alla nomina di nuovi 300 senatori; limitò i poteri dei tribuni, magistrati e comizi, e provocò il potenziamento dei poteri del senato, che si arricchirono della legibus solutio, ossia della potestà di liberare dall’osservanza delle leggi. La costituzione sillana venne smantellata del tutto negli anni immediatamente successivi all’abdicazione del suo autore. Di essa sopravvissero solo pochi punti, quali l’abrogazione del metodo di votazione per sorteggio nei comizi centuriati, e la netta separazione fra imperium domi e imperium militiae, che favorì la formazione di potenti alleanze politiche, fondate sulla forza militare ed economica dei componenti, come il primo triumvirato fra Pompeo, Cesare e Crasso sfociato nella guerra fra Cesare e Pompeo. Falliti i tentativi di trovare un’intesa politica con Pompeo ed il senato, Giulio Cesare varcò, nel gennaio del 49 a.C. il Rubicone, che segnava il confine della cittàstato, dando inizio a una guerra civile. In forza della dittatura conferitagli (dopo le lunghe vicende del conflitto politicomilitare ) , fermamente convinto di operare una significativa commutatio dello status rei publicae, tentò di razionalizzare il sistema consociativo della libera res publica attribuendone la suprema direzione politica al dictator, quale magistrato unico e annuale. Cesare volle perseguire un duplice obiettivo politico: conferire rapidità ed efficacia alla direzione politica di Roma e dei territori assoggettati, liberando il popolo dalle continue lotte fra opposte fazioni;neutralizzare la prevedibile opposizione politica con il reiterato rifiuto della forma (titolo) e della sostanza (atemporaneità) del potere regio .I punti fondamentali della ordinatio cesariana furono: attribuzione al dittatore di controlli primari e secondari su senato, magistratura e comizi; integrazione dell’apparato tradizionale con praefecti urbi pro praetore, familiares che costituiscono il precedente storico dei nova officia imperiali del principato costituzione di una segreteria di stato accentramento delle strutture organizzative dell’impero configurando Roma come capitale dell’Impero; accentramento delle fonti del diritto al fine di conferire certezza al ius civitatis. Conferita a Cesare nel 44 a.C. la dittatura a vita, fece venir meno il carattere della dictatoris dictio, ossia la temporaneità del conferimento del potere; questi divenne un monarca.Ma la radicale svolta istituzionale provocò la reazione di quanti erano avversi alla sostanza politica del regnum, che sfociò nell’uccisione di Cesare. In tal senso i congiurati si illusero di far risorgere la res publica, ma non fu così perché la commutatio cesariana rispondeva a reali esigenze di ordine e sicurezza, e come tale era stata recepita ed assimilata da larghi strati dell’opinione publica, cosicché gli unici risultati ottenuti dai congiurati furono costituiti dall’impunità, tuttavia temporanea, e dalla formale abolizione per senatusconsultum, della dittatura. Con ciò non si volle cancellare l’opera politica di Cesare ma la potenzialità degenerativa della carica da lui rivestita.L’impunità, infatti, fu vanificata da una lex Pedia proposta dal console Pedio che istituì un’apposita quaestio straordinaria per la persecuzione dei cesaricidi, configurando l’uccisione di Cesare come perduellio e punendo i colpevoli con l’interdictio aqua et igni.L’evento decisivo che comportò la completa liquidazione del regime della libera res publica si verificò nel 43 con l’accordo fra tre potenti capi cesariani, Ottaviano, Antonio e Lepido, accordo sancito da una lex Titia del novembre del 43 che istituì, su rogatio del tribuno della plebe Tizio, il triumvirato costituenteLa lex Titia attribuì ai triumviri poteri illimitati, sostitutivi sostanzialmente delle attribuzioni delle magistrature ordinarie per un periodo di 5 anni.I Triumviri divinizzarono la memoria di Cesare e con tale termine non si denotò più la persona ma il ruolo politico del capo carismatico.La fine della libera res publica si ebbe con la battaglia di Filippi in Macedonia che culminò nel suicidio di Bruto e Cassio nel 42.L’accordo fra i triumviri, sfociò nella guerra fra Antonio e Ottaviano, guerra imputabile in parte a gravi errori politici di Antonio che, cedendo alle lusinghe di Cleopatra, regina d’Egitto, aveva programmato l’assegnazione delle province orientali alla stessa Cleopatra ed ai figli avuti da lei; 31 Ottaviano e i suoi consiglieri, prospettarono il conflitto non come guerra interna contro Antonio, ma come guerra esterna contro Cleopatra per il recupero delle province orientali. Sconfitti Antonio e Cleopatra ad Azio ed aggregato nel 30, l’Egitto all’impero romano, gli eserciti e le popolazioni civili giurarono fedeltà ad Ottaviano e questi, proclamato Augusto nel 27, affermò nel suo testamento politico “res Gestae” che egli conseguì il supremo potere politico per consenso universale. Ottaviano diviene padrone incontrastato dell’occidente e dell’oriente; si apre così una nuova fase della civiltà romana, il Saeculum Augustum. 4°CAPITOLO: PRINCIPATO La fondazione del principato è legata ai fatti istituzionali che si verificarono nel 27 e nel 23 a.C. che determinarono l’affermazione di un novus status rei publicae. Gli eventi del 27 a.C., che si ritrovano in un brano del testamento politico di Ottaviano Augusto, scritto pochi mesi prima della sua morte, sono costituiti in primo luogo dal gesto politico, etichettato come translatio rei publicae, con il quale Ottaviano volle conferire una base ideologica al nascente regime politico, additando nel potere decisionale del senato e del popolo la fonte di legittimazione del potere imperiale, cioè egli trasferisce la res publica al potere decisionale del senato e del popolo romano. Così operando Ottaviano recuperava da un lato la concezione cesariana del consenso come base del potere personale e invece da un lato preveniva i rischi che sarebbero potuti derivare dall’esercizio di un potere tendenzialmente atemporaneo. La rinunzia al supremo potere si tradusse nel conferimento ad Ottaviano del titolo di Augustus e nella attribuzione allo stesso di un imperium decennale su tutte le province non ancora pacificate. Egli, in quanto augustus fu superiore a tutti per auctoritas. Tale termine, al pari dell’appellativo augustus, deriva da “augere”, cioè accrescere, per cui ciò s’intende che egli era titolare di un potere ordinante, destinato a potenziare, integrare e coordinare i singoli poteri costituzionali. L’evento del 23 a.C. consistette nella definitiva consacrazione del potere ordinante svolto da Augusto con l’attribuzione di 2 poteri che costituiranno i pilastri istituzionali del nuovo regime: la tribunicia potestas (imperium domi) a vita l’imperium proconsulare maius et infinitum (imperium militiae). Il primo conferì ad Augusto il potere di coordinare le funzioni del senato, delle magistrature e del tribunato della plebe, al fine di superare e comporre il dualismo fra potere aristocratico e potere tribunizio.Il secondo gli conferì il potere di coordinare le prerogative e le funzioni dei governatori provinciali con le le frequenti concessioni della cittadinanza a singoli e a comunità; la diffusa esigenza di uniformità fiscale tra romani e provinciali, anche se fu un’esigenza imperfettamente soddisfatta in seguito all’editto di Caracalla perché all’estensione dell’imposta sulle manomissioni e sulle successioni ai nuovi cives non corrispose un’analoga estensione dell’imposta fondiaria ai fondi italici. Per quanto riguarda gli effetti della consistutio : nel settore di diritto pubblico l’editto produsse effetti di: ordine costituzionale determinando la costituzionalizzazione del rapporto fra Italia, città libere e province; ordine amministrativo, con l’assimilazione degli ordinamenti delle città libere agli ordinamenti municipali; ordine fiscale, con l’estensione della vicesima manumissionum e della vicesima hereditatum ai nuovio cittadini; di ordine giudiziario, con la generalizzazione del ius gladii. Nel settore di diritto privato l’editto determinò l’insorgere di complessi rapporti fra diritto ufficiale romano e diritti consuetudinari locali; rapporti che diedero vita ai diritti volgari. ANARCHIA MILITARE E CRISI DEL NUOVO STATUS Il periodo compreso fra la morte di Alessandro Severo (235 d.C.) e l’avvento dell’impero di Diocleziano, nel 284 d.c., è caratterizzato da una lunga anarchia militare che condusse alla completa dissoluzione del novus status rei publicae; tale periodo costituisce, dunque, una fase di transizione dal principato al dominato.La crisi del principato discende dal concorso di cause di varia natura:di ordine costituzionale, con la degenerazione dell’auctoritas princips in potere dispotico, che culmina nell’assunzione ufficiale dell’appellativo “dominus et deus” da parte di Aureliano; e per la mancanza di una norma regolativa della successione nella carica imperiale;di ordine politico, con la formazione di una nuova aristocrazia militare che assurge ad unica classe dirigente surrogando l’aristocrazia senatoria; e nell’affermazione della figura dell’imperatoresoldato;di ordine militare, da imputare all’incapacità del governo centrale di difendere i confini dell’impero lungo la linea renodanubiana e persiana;di ordine economicosociale consistenti nell’involuzione del sistema schiavistico e del grande commercio transmarino;di ordine finanziariomonetarie, consistenti nel vertiginoso aumento della spesa pubblica a causa dell’esplosione della burocrazia, da 35 ciò l’aumento della pressione fiscale e la riduzione del peso metallico delle monete; di ordine spirituale consistenti nell’involuzione del paganesimo e progressiva diffusione del cristianesimo. LA CURA ET TUTELA REI PUBLICAE UNIVERSA DEL PRINCEPS Il ruolo ordinante svolto dall’auctoritas principis si esplica in una duplice direzione: cura et tutela rei publicae universa; cura legum et morum. Tali curae rappresentano le esplicazioni dei 2 poteri istituzionali, e cioè la tribunicia potestas (la funzione ordinante svolte all’interno dello Statocittà) e l’imperium proconsulare maius et infinitum (la funzione ordinante svolte nei rapporti fra ordinamento centrale ed ordinamenti periferici), nei quali si risolve appunto l’auctoritas principis.La cura et tutela rei publicae universa attiene all’organizzazione politico amministrativa dell’impero e si risolve in una complessa attività di promozione, controllo e integrazione dei compiti di tutto l’impero. Tale attività produrrà un duplice risultato: coordinamento e unificazione successiva di tutti i territori della comunità romana; progressiva differenziazione tra funzioni di decisione e d’indirizzo politico, che si accentrano sempre più nelle mani del principe e dei suoi più alti funzionari, e funzioni amministrative, accentrati nella burocrazia imperiale. IL SENATO Nei confronti dell’apparato tradizionale, Augusto evitò radicali innovazioni, ed operò in modo che formalmente tutto rimanesse come prima, affinché poi tutto mutasse radicalmente. In forza dell’auctoritas si limitò a promuovere, dirigere e controllare le funzioni e i poteri dell’apparato tradizionale, di modo che sarebbe stato agevole pervenire allo svuotamento dei poteri di decisione e di indirizzo politico del senato, delle assemblee popolari e delle magistrature. Infatti Augusto in forza dell’auctoritas si limitò a promuovere, dirigere e controllare le funzioni e i poteri dell’apparato tradizionale ben sapendo che così operando sarebbe stato facile prevenire allo svuotamento dei poteri di decisione e di indirizzo politico del senato, delle assemblee popolari e magistrature. Infatti senza Augusto sarebbe stata impossibile lìopera di Adriano, mentre Cesare avrebbe avuto l’imprudenza di anticipare parte delle innovazioni adrianee.Nei confronti del senato Augusto introdusse significative innovazioni:quanto alla composizione, Ottaviano ridusse il numero dei senatori a 600 e la scelta di questi veniva effettuata o tra gli ex magistrati o tra semplici cittadini assimilati a ex magistrati; quanto al regolamento interno, sanzionò l’obbligatorietà della presenza con più gravi pene pecuniarie. Il senato veniva convocato normalmente dal principe o da un magistrato, sempre che non intervenisse l’intercessio del principe;quanto alle funzioni, furono introdotte due nuove funzioni: l’una attiene all’investitura del principe e l’altra al provvedimento con il quale il senato disponeva, dopo la morte del principe, o la divinizzazione o la damnatio memoriae, che comportava, oltre alla cancellazione del nome dagli atti e dai luoghi pubblici, il divieto di funerali solenni, di erezione di statue e di giuramenti in suo nome; solo in alcuni settori, in particolare in quello della politica estera e dell’amministrazione finanziaria, l’auctoritas principis si sostituì alla originaria competenza del senato, anche se ciò non costituì mai una usurpazione dei poteri del senato, ma risultato di formali concessioni del senato e del popolo romano, richiamate espressamente nella lex imperio. I COMIZI Nel contesto politicoideologico della translatio rei publicae, Augusto cercò di ripristinare i poteri dei comizi, ripristino che fu però limitato alle sole deliberazioni legislative ed elettorali, ma non anche alle deliberazioni giudiziarie che furono implicitamente soppresse. Ed infatti, riordinando e unificando il rito processuale delle varie quaestiones perpetuae, soppresse implicitamente i iudicia populi.Per quanto attiene alla funzione legislativa dei comizi e dei concilia plebis tributa, propose o fece proporre numerose leggi che innovarono in diversi campi il ius romanorum.Per quanto riguarda la funzione elettorale, Augusto apportò sostanziali modifiche alla procedura per l’elezione di consoli e pretori, articolandola in due fasi. Una prima fase, denominata destinatio consisteva nella scelta dei candidati da sottoporre all’approvazione dei comizi, effettuata da 10 centurie di senatori e cavalieri. La seconda fase, creatio, consisteva nell’approvazione, da parte dei comizi, dei candidati scelti dalle centurie destinatrici. LE MAGISTRATURE 37 un Scrinium a cognitionibus, addetto all’istruzione delle cognitiones extra ordinem; un Scrinium a rationibus, addetto all’amministrazione delle entrate che confluivano nel fiscus Caesaris; un Scrinium a memoria, addetto all’archivio imperiale e alla preparazione dei discorsi del principe. IL CONSILIUM PRINCIPIS Facevano parte del consilium i più alti funzionari imperiali, nonché eminenti giuristi. Era presieduto dallo stesso principe e, in sua vece, da un praefectus pretorio. È molto probabile che il consilium fosse articolato in sezioni competenti per specifiche materie. L’ASSETTO TERRITORIALE Per quanto riguarda l’organizzazione amministrativa del territorio dell’impero, bisogna distinguere due momenti, prima e dopo l’editto di Caracalla o constitutio antoniniana.Prima dell’editto di Caracalla, che concesse la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, il territorio dell’impero era formato dal territorio metropolitano dello statocittà, coincidente con l’intera penisola italica, e dai territori delle province e delle città federate. L’impero romano costituisce sempre non già un organismo unitario, bensì un complesso organismo politico nell’ambito del quale le diverse componenti erano fra loro legate da vincoli o di natura internazionale (Italia e città federate) o di natura costituzionale (Italia e province).Grazie all’imperium proconsulare maius et infinitum del principe la classe dirigente imperiale riuscì a realizzare una funzionale saldatura fra Italia, province e città federate.Dunque, l’imperium proconsulare maius et infinitum del principe facilitò il passaggio graduale dal modello istituzionale dello statocittà al modello istituzionale dello statoimpero, surrogazione divenuta definitiva con l’editto di Caracalla (212 d.C.).Con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’impero, l’impero romano costituì un organismo unitario, contraddistinto da unità di territorio, popolazione, ordinamento giuridico.La città di Roma acquista il ruolo definitivo di capitale dell’impero, ruolo che fu esaltato con l’istituzione di prefetti e curatori e con l’istituzionalizzazione della cancelleria imperiale e del consilium principis, aventi competenza su tutto il territorio dell’impero, ma anche dalla divisione dell’urbe in 4 regioni. La riorganizzazione amministrativa di tutta l’Italia fu realizzata con la divisione augustea del territorio italico in 11 regioni con il preciso scopo di distinguerlo sotto il profilo politico amministrativo dalle 14 regioni della capitale. Inoltre l’ordinamento delle singole città italiche fu improntato su una più marcata uniformità sul modello tracciato dalla lex Iulia municipalis. Una riorganizzazione amministrativa di tutta l’Italia fu realizzata con la divisione augustea del territorio italico in 11 regioni, allo scopo di distinguerlo dalle regioni della capitale.Per quanto attiene invece alle singole città italiche, la novità fu costituita dall’invio di curatores rei publicae o civitatis, di nomina imperiale, con il compito di controllare i municipi finanziariamente più dissestati; nonché dall’istituzione ad opera di Adriano di 4 consulares con il compito di alta giurisdizione civile e di controllo amministrativo sull’attività delle autorità locali. LE PROVINCE Ciò che caratterizza l’ordinamento provinciale è la divisione amministrativa delle province in due gruppi, senatoriali e imperiali.Le province senatorie continuarono ad essere rette o da proconsoli (Africa e Asia) accompagnati da 12 littori, o da propretori (tutte le altre) seguiti da 6 littori, che restavano in carica un anno salvo eventuale proroga. I littori avevano poteri esclusivamente civili e non militari e la loro presenza era meramente simbolica.Il governo delle province imperiali era affidato a legati Augusti pro praetore ovvero a procuratores Augusti.Uno statuto speciale fu, invece, riservato all’Egitto, retto da un praefectus Aegypti o Augustalis, che aveva il ruolo di vicerè, coadiuvato da un iuridicus per l’amministrazione della giustizia e da un ideologo per l’amministrazione finanziaria.Nell’ambito poi del territorio delle province, sia senatoriali che imperiali, esistevano civitates Romanae, ossia municipia e coloniae, e civitates peregrinae, foederatae o liberae. Mentre le prime facevano parte della civitas Romana, le seconde costituivano territori istituzionalmente distinti sia dalla civitas romana che dalla provincia. Il potere del governatore si estendeva alle civitates Romanae e a quelle liberae, ma non anche alle civitates foederatae, la cui indipendenza era garantita dal diritto internazionale. LA FINANZA PUBBLICA (non la chiede quasi mai ) L’ordinamento finanziario della libera res publica era incentrato sull’aerarium populi romani, custodito e gestito dai questori sotto la direzione e vigilanza del senato. Esso era alimentato dalla vicesima manomissionum, dall’imposta fondiaria delle province senatorie, dal ricavato dei beni dei condannati, dei beni ereditari senza successori. Alla gestione dello stesso furono preposti due praefecti scelti dal principe fra i praetorii.Augusto lasciò sopravvivere il precedente ordinamento finanziario, ma lo integrò con l’istituzione dell’aerarium militare nel 6 d.C., 41 destinato a far fronte all’onere dell’esercito professionale permanente. Esso era alimentato dall’imposta del 5% sulle successioni testamentarie, dall’imposta dell’1% sulle vendite pubbliche all’incanto, nonché da elargizioni dell’imperartore. Era diretto da tre praefecti.La terza cassa pubblica, la cassa imperiale (fiscus Caesaris), inizialmente non ebbe una struttura unitaria, ma constava di tanti fisci quante erano le province imperiali. Alla unificazione e centralizzazione della finanza imperiale si pervenne con la trasformazione, da parte di Adriano, dello scrinium a rationibus in una procuratio, sotto la direzione di un procurator a rationibus con il compito di coordinare la contabilità generale dello stato.Il fiscus Caesaris si distingueva tanto dal patrimonium principis, amministrato da procuratores patrimonii e che afferiva alla funzione del principe, quanto dalla res privata principis che afferiva alla persona del principe, che ne poteva disporre liberamente.Un primo problema di politica fiscale al quale il principato dovette far fronte fu la perequazione del carico tributario fra italici e provinciali, ma anche la correlazione funzionale fra imposte e vantaggi sociali e l’opzione di principio per il metodo della riscossione diretta.Al primo problema si ovviò con la direttiva di Augusto che istituì la vicesima hereditatum e altre imposte indirette in Italia, al fine di bilanciare il tributo fondiario gravante sui provinciali. La seconda direttiva venne attuata mediante : l’assunzione del raccordo contabile fra ammontare delle entrate e necessità delle spese ( il raccordo era necessario per attuare nuove imposizioni ) ; la configurazione di un limite eticoeconomico al prelievo fiscale; l’adozione di misure volte ad assicurare pubblicità e trasparenza fiscale; l’integrazione del sistema delle entrate, originarie e derivate, con il sistema dei munera publica, ossia prestazioni onerose a carico di funzionari o collettività, articolati in munera personalia, ossia prestazioni personali; munera patrimonialia, ossia l’anticipazione all’ente pubblico del gettito tributario del distretto municipale; munera mixta, cioè prestazioni patrimoniali e personali. La terza direttiva venne invece perseguita da Augusto e dai suoi successori con la surrogazione del sistema dell’esazione affidata a civitatis ed a funzionari imperiali al tradizionale metodo dell’appalto ai publicani. 5°CAPITOLO: IL DOMINATO l’imperatore Romolo detto Augustolo. Da tale momento inizia il declino dell’impero d’occidente. In Italia regna per alcuni anni Odoacre fino a quando non viene combattuto e vinto dal re degli Ostrogoti Teodorico, che conquisto tutta la penisola.La separazione dalla pars Occidentis facilitò una riorganizzazione dell’impero orientale che diede vita ad una nuova fase, quella del c.d. impero bizantino, destinata a durare parecchi secoli fino alla conquista da parte dei turchi avvenuta nel 1453.A questo lungo arco di tempo che risalgono l’imperatore Teodosio II, il cui regno è caratterizzato da numerose riforme e soprattutto dalla pubblicazione del Codex Theodosianus, e l’imperatore Flavio Pietro Sabbazio Giustiniano I.Salito al trono nel 527, Giustiniano tese a ripristinare i valori realizzando l’unità dell’impero, attraverso la riconquista con le armi delle terre d’occidente, l’unità della Chiesa, all’insegna del cattolicesimo, e l’unità delle leggi. Tuttavia l’unità dell’impero fu raggiunta solo dopo circa vent’anni di guerre e fu destinata a spezzarsi pochi anni dopo in seguito all’invasione longobarda; L’unità della chiesa e della fede fu presto travolta dalle eresie e dagli scismi; mentre il ritorno alle antiche tradizioni giuridiche romane, perseguito dalla Compilazione, si rivelò impossibile a causa delle profonde trasformazioni che avevano irrimediabilmente allontanato da esse la società bizantina. Le istituzioni del Dominato. Caratteristica della monarchia assoluta è la concentrazione di tutti i poteri nelle mani dell’imperatore, che non è più un organo della costituzione, ma si pone al di fuori di essa, essendo considerato Dominus et deus, egli è un interprete in terra della volontà di Dio.L’imperatore è capo supremo delle truppe ed arbitro assoluto della politica internazionale, solo questi può dichiarare guerra o concludere trattati di pace.Egli è inoltre il detentore del potere legislativo. Venute meno le altre fonti di produzione normativa, l’unica fonte viva di diritto sono le constitutiones principis, definite direttamente leges. Di tali leggi l’imperatore dispone a piacimento, abrogandole, modificandole o sostituendole con altre; egli è al di sopra delle leggi, princeps legibus solutus. Prevalgono le disposizioni di carattere generale, edicta o leges generales, rivolte a tutto l’impero o una parte di esso, mentre perdono rilevanza le disposizioni relative a casi particolari, cioè i rescripta, nonché i decreta e i mandata.Si affermano infine nuovi tipi di costituzioni imperiali, fra i quali la pragmatica sanctio, che pur scaturendo da casi delimitati, finiva poi con il prescindere da essi coinvolgendo interessi generali.Gli altri poteri dello Stato, come l’attività di governo e quella amministrativa, sono svolti da una serie di funzionari da lui nominati ma fanno sempre capo all’autorità dell’imperatore. l’attività giurisdizionale spetta a funzionari nominati dall’imperatore, il quale è giudice in ultima istanza in tutte le controversie, sia civili che penali.Nel campo religioso, sebbene 45 non si sia giunti a considerare l’imperatore capo della chiesa, Giustiniano detta alcuni principi fondamentali sulla libertà religiosa, partecipa direttamente alla decisione di controversie religiose, indice e presiede i concilii nei quali vengono fissati i canoni basilari della chiesa. Tutto ciò che concerne la sua persona è considerato sacro e le offese nei suoi confronti costituiscono sacrilegia. L’ordinamento politico. Il tardo impero romano è caratterizzato da una struttura burocratica, disposta gerarchicamente come una piramide al cui vertice sta l’imperatore. Tale organizzazione è in realtà, sin dall’inizio, duplice, in conseguenza dell’esistenza di due Augusti, e dal momento della divisione dell’impero in due parti si bipartisce in due strutture distinte e parallele.I funzionari di rango più elevato restano in carica un anno, salvo riconferma; mentre coloro che rivestono uffici più modesti percorrono i vari gradi una vera e propria carriera. Tutti i funzionari ricevono una regolare retribuzione, in denaro e più spesso in natura per salvaguardarla dalla svalutazione monetaria.A fianco dell’imperatore si trova un organo consultivo, il sacrum consistorium principis, del quale fanno parte i più alti funzionari imperiale, che costituisce una trasformazione dell’antico consilium principis. Ad esso il principe si rivolge per qualsiasi questione politica, di governo, religiosa o in vista dell’emanazione di costituzioni imperiali. Il parere tuttavia non è obbligatorio, né vincolante per l’imperatore.Il consistorium ha inoltre il potere di giudicare in prima istanza le cause sottoposte alla giurisdizione imperiale. Ai vertici dei vari settori della burocrazia imperiale, nell’amministrazione centrale, si trovano 5 alti funzionari : il magister officiorum, definito ministro della burocrazia, che presiede gli officia imperiali addetti alla redazione dei rescritti, alla corrispondenza imperiale e all’istruzione di cause di competenza imperiale. Comanda inoltre la guardia imperiale a cavallo e tutta una serie di altri uffici, in campo sia civile che militare; il quaestor sacri palatii che è il principale consulente dell’imperatore nel campo giuridico, ad esso spetta la redazione delle costituzioni imperiali, la controfirma dei rescritti; il comes sacrarum largitionum il quale vigila sulla riscossione dei tributi in denaro ed esercita in materia fiscale un potere giurisdizionale in nome dell’imperatore, provvede alle opere pubbliche ed è incaricato del pagamento ai funzionari ed a tutti i dipendenti degli stipendi; il comes rerum privatarum, che amministra i possedimenti terrieri, i beni confiscati dallo stato e quelli attribuiti ereditariamente all’imperatore; il praepositus sacri cubiculi, funzionario di rango più elevato che sovrintende a tutto il personale ed a tutti i servizi del palazzo imperiale. L’ordinamento periferico Per quanto riguarda invece l’amministrazione provinciale, l’impero viene ripartito in grandi circoscrizioni territoriali dette prefetture, dapprima in numero di 4, per effetto della tetrarchia diocleziana, poi aumentate di numero per ridiventare definitivamente 4 con la divisione dell’impero in due parti, due prefetture in occidente, Italia e Gallia, e due in oriente, Illirico ed Oriente. A capo di ogni prefettura sta il praefectus pretorio, altissimo funzionario imperiale dell’amministrazione periferica.Ogni prefettura si ripartisce in un certo numero di diocesi (prima 12 poi 14) ed ogni diocesi a sua volta comprende un certo numero di province. A capo di ogni prefettura sta il praefectus praetorius, il più elevato funzionario imperiale dell’amministrazione periferica.A capo di ogni diocesi si trova un vicarius, che esercita funzioni di vigilanza e di controllo sui governatori che a loro volta stanno a capo delle province.L’accennata ristrutturazione territoriale dell’impero determina la scomparsa delle autonomia locali, in particolare la scomparsa delle assemblee popolari, venendo così meno la partecipazione diretta del popolo al governo delle città.Per quanto riguarda le magistrature locali, esse vanno perdendo di importanza con l’affermarsi di due nuove magistrature, il curator civitatis ed il defensor civitatis.Il primo, esistente già nell’età del principiato, accresce i suoi poteri con Diocleziano fino a divenire il capo dell’amministrazione locale, quale responsabile dell’ordine pubblico, del censo, della formazione dei ruoli dei contribuenti, dell’approvvigionamento della città. Il defensor civitatis, ha poteri di polizia, formazione dei ruoli delle imposte e controllo sulla riscossione, giurisdizione sulle cause di minore entità. Entrambe le magistrature non vengono nominate dalla comunità cittadina, ma dal potere centrale e precisamente il curator dall’imperatore e il defensor dal praefectus pretorio. Le curie, ossia i consigli municipali, sono formate da cittadini aventi un determinato censo, immobiliare e poi anche mobiliare, e l’appartenenza a esse è obbligatoria per chi ne aveva i requisiti e si trasmette ereditariamente di padre in figlio. Soltanto Roma e Costantinopoli godono di un’amministrazione locale autonoma. Ad esse è preposto un funzionario, il praefectus urbi, non soggetto all’autorità né del praefectus pretorio né del vicarius, ma dipende direttamente dall’imperatore. A lui spetta un generale potere di sorveglianza 47 nel quale vengono inquadrati molti funzionari imperiali di rango meno elevato.Rientrano poi tra gli honestiores i militari, i funzionari dell’amministrazione centrale e periferica, il clero, gli esercenti le professioni liberali.Sono invece considerati humiliores i commercianti, gli artigiani, gli agricoltori e gli operai.Ciò che caratterizza la ripartizione in classi è l’obbligatorietà, la irrevocabilità e l’ereditarietà dell’appartenenza ad una data categoria professionale, stabilite allo scopo di evitare l’abbandono e, quindi, l’estinzione di corporazioni di persone esercenti attività di interesse collettivo.Il principio si applicò anche nei confronti dei lavoratori della terra, dando luogo ad una nuova classe sociale, quella dei coloni, servi della gleba, caratterizzata da limitazioni tali da collocarla fra i liberi e gli schiavi.In seguito alla crisi dell’agricoltura e il conseguente abbandono delle campagne, Diocleziano e altri imperatori reagirono vincolando i coloni alla terra, impedendo loro e i discendenti di abbandonare i fondi assegnati. Si crea così una categoria di persone dotate dello status libertatis ma con una condizione deteriore rispetto alla schiavitù, in quanto il coronato (i coloni) non può essere liberato essendo considerato di pertinenza del fondo. SECONDA PARTE ORDINAMENTO GIURIDICO – LE ORIGINI La vita della comunità è ordinata secondo regole che derivano la loro legittimazione dall’essere state o autoritariamente poste dagli organi ai quali ciò è demandato, ed è il caso delle leges, o individuate da ristretti gruppi di competenti attraverso l’osservazione dei mores, ossia dei comportamenti tradizionali consolidati dalla loro sperimentata efficacia.Dunque, leges e mores costituiscono la fonte di ciò che i romani considerano ius, ossia il complesso delle regole che la comunità osserva per ordinarsi e regolare i rapporti intersoggettivi. E poiché tali regole non devono comunque turbare la pax deorum, esse non devono essere in contrasto con la volontà divina quale si manifesta a coloro che hanno le necessarie cognizioni per intenderla; per cui è necessario che esse siano enunciate o attraverso strumenti che presuppongono nel loro iter formativo la consultazione degli dei, o da coloro la cui competenza in materia è conseguenza della competenza religiosa loro riconosciuta.Il ius si caratterizza per alcuni connotati esteriori e di principio.In primo luogo tutte le attività che esso regola sono dominate dal rigore delle forme; per cui se si vuole che esse siano efficaci devono compiersi attraverso comportamenti definiti nei gesti e nelle parole e ciò perché dovendo essere riconoscibili e memorizzabili, devono essere compiute coerentemente con il sistema di comunicazione sociale improntato quasi esclusivamente alla oralità e visività. Così come rigidamente formale è l’enunciazione del ius, sia che si realizzi attraverso leges, sia che si manifesti attraverso il responsum dei competenti consultati dagli interessati. Il ius è poi improntato ad alcuni valoricardine: competenza che deriva dall’esperienza: organo regolatore supremo dell’azione politica è il consesso dei patres, di coloro cioè che, per anzianità e tradizioni familiari, hanno consuetudine con gli affari pubblici. Senza la loro auctoritas nessuna attività comiziale è rilevante, ed è inoltre regola che su ogni questione di governo essi siano consultati. il principio secondo cui ogni relazione debba svolgersi secondo i principi della fides, ossia la lealtà, il rispetto per la parola data, sicurezza che viene dal sapere che gli altri si comporteranno come è lecito. Si espone il contenuto di uno specifico impegno a conseguenze sfavorevoli varie, che nei casi più gravi giungono alla esclusione dalla comunità. il tradizionalismo; l’ordinamento giuridico deve assecondare e conservare l’ordinamento sociale tramandatosi. LINEE ESSENZIALI DEGLI ASSETTI NORMATIVI ORIGINARI 51 Il ius che governa la società romana non tende a superare ma a regolare le diversità tra gli uomini costituitesi socialmente nel tempo, ad esempio tra patrizi e plebei, o espresse dalla natura, ad esempio tra uomini e donne, o conseguenza delle loro diverse abilità, tra ricchi e meno ricchi.Dell’ordinamento amministrativo può soltanto desumersi una rudimentale disciplina delle entrate pubbliche alimentate dal bottino di guerra.Per quanto riguarda i contenuti dell’ordinamento criminale, vi sono una serie di comportamenti che compromettendo la pax deorum devono essere repressi e sanzionati. Tali sono ad esempio la violazione di uno dei principi giuridici fondamentali della comunità organizzata (perduellio);l’uccisione di un uomo libero, parricidium; la violazione della fides da parte del patrono; la vendita della moglie; le turbative più gravi del dominium, il furtum commesso da schiavi.In relazione alla sua gravità, lo scelus può essere espiabile o inexpiabile; mentre nel primo caso sarà sufficiente un sacrificio riparatorio (un piaculum), nel secondo caso è necessaria la esclusione dalla protezione cittadina del responsabile, ossia esso diviene homo sacer, per cui la sua eventuale uccisione non sarà considerata parricidium. Inoltre, nei casi più gravi, non è sufficiente dichiarare sacer l’autore, ma questi deve essere ucciso, unica condizione per placare la divinità offesa.Accanto ai casi in cui la sanzione è comminata dai pubblici poteri, vi sono casi in cui la sanzione è invece affidata a privati interessati alla vendetta, sui quali incombe il dovere di provvedere; così ad esempio, in caso di omicidio involontario, impone agli adgnati della vittima un piaculum consistente nel sacrificio pubblico di un ariete fornito dal responsabile; se si tratta di omicidio volontario, impone loro di irrogare la morte all’autore del fatto sotto il controllo dei quaestores parricidii. ORDINAMENTO DEI RAPPORTI PRIVATI Per quanto riguarda l’ordinamento dei rapporti privati, l’aggregazione elementare è costituita dal gruppo parentale che ha base nelle nuptiae. Coloro che vi appartengono sono sottoposti all’autorità del pater familias, ( del quale sono in potestate se filii o discendenti, in manu se donne unite in matrimonio, in mancipio se estranei temporaneamente aggregati come forza lavoro) il solo, dal punto di vista dei rapporti patrimoniali, ad essere sui iuris, ossia soggetto di diritti. L’attività economica degli altri membri del gruppo incrementa il suo patrimonio del quale egli solo può disporre.A lui spetta sui filii la vitae necisque potestas, e intensi poteri ha anche sulle donne in manu. Tuttavia è precluso al pater, in presenza di filii, la facoltà di designare per testamento eredi diversi, e tra fratelli che succedono si istaura uno speciale stato di comunione (consortium) che mira a mantenere inalterata la condizione economica del gruppo anche dopo la morte del pater.È consentito lo sfruttamento privato della terra in agro romano, sottoposta cioè al controllo politico della civitas, e su di essa si distingue una situazione di diritto che gli vengono dalla storia delle relazioni commerciali, o che gli vengono indicate dagli specialisti che si raccolgono nel suo concilium. Anch’esse poi derivano dalle leges e dai mores romani. Questa loro origine spiega perché le norme di ius gentium non furono mai considerate dai romani come qualcosa di diverso dal loro ius civile. Esso era apprezzato piuttosto come una parte di questo. Mentre fino all’istituzione del praetor peregrinus il ius gentium aveva mantenuto nell’ambito dello ius civile un rilievo modesto, dopo la sua importanza crebbe e finì per rinnovare il ius civile.Con l’espansione in senso mercantile dell’economia romana cresce l’importanza del ius gentium con un’attenzione particolare ai suoi principi fino ad operare un rinnovamento dell’intero ius civile.L’ordinamento, dunque, evolvette quanto ai suoi contenuti normativi in particolar modo nel campo del diritto privato , sia sotto il profilo sostanziale che quello processuale.Dal punto di vista del privato sostanziale il testamento è divenuto un atto privato e i limiti alla libertà testamentaria non sono più costituiti dall’impossibilità di designare un estraneo ma solo da quella di disperdere il patrimonio in legati.In ambito patrimoniale compaiono nuove forme di diritto reale, quale la servitù, si moltiplicano i casi di obligatio, il cui inadempimento non comporta più conseguenze sulla persona ma solo sui beni del debitore. Vi è ora un contractus non solo se vi è stato un formale impegno ma anche se vi è stato un comportamento comunque riconoscibile per le forme di esso. Quando non c’è contractus c’è un teneri pretorio, un rapporto che riceve tutela dal pretore.Il ius gentium comportò anche il superamento dell’antica procedura giudiziale. Il processo privato si svolgeva, infatti, per legis actiones, ossia ogni pretesa doveva avere non solo il suo fondamento in una lex, ma doveva conseguentemente esprimersi all’interno di schemi verbali predeterminati e da osservare rigorosamente.Questa procedura era però applicata solo nelle liti tra cives. Era inapplicabile nei rapporti tra i peregrini ( per l’ostacolo di lingua che di solito sussisteva tra le parti) cui invece si applicava una procedura formulare; tale procedura prevedeva un’impostazione libera delle rispettive pretese che venivano consacrate in un documento scritto (formula) che costituiva la base della successiva pronuncia giudiziale. Ciò dava alla lite un’impostazione meno vincolata e più flessibile.Così alla fine del II secolo una lex Aebutia consentì l’utilizzazione della procedura formulare anche nel tribunale del pretore urbano. DIRITTO E PROCESSO CRIMINALE Per quanto riguarda il diritto criminale, non vi sono novità sotto il profilo delle fattispecie incriminatici, ciò per il carattere privato che continua ad assegnarsi alla repressione di molti comportamenti contro il patrimonio, ai quali appunto si fanno conseguire pene pecuniarie ottenibili nelle forme del processo privato, ma anche per la mancanza di un principio di legalità. I casi nei quali è consentito al magistrato intervenire con i suoi 55 poteri di coercitio non sono fissate da norme cogenti, ma rimessi al suo prudente apprezzamento. Dipendono dall’arbitrio del magistrato che in quanto politico in carriera è esposto al controllo dell’opinione pubblica oltre che al rischio di dover rispondere del suo operato una volta uscito di carica.Più rilevanti sono le novità nella procedura.Con la lex Valeria del 509 si introduce la provocatio ad populum, ossia la facoltà per il cives accusato di un crimen che giustificasse la pena capitale o esposto a un atto di coercitio che giustificasse una multa superiore a 30 buoi e 2 pecore, di chiedere un processo dinanzi ai comitia, che le XII tavole indicano essere quelli centuriata.E una leges Valeriae Horatiae (449) fisserà poi il principio secondo il quale nessuna nuova magistratura può essere istituita senza il limite della provocatio. Le leges Porciae della prima metà del II secolo infine dispone che il civis potesse provocare anche se residente in provincia o impegnato nel servizio militare, e che la pena di morte a lui irrogata non potesse essere preceduta da verberatio.Una lex Valeria del 300 considererà improbe factum il comportamento del magistrato che avesse fatto eseguire una condanna capitale senza consentire provocatio. I iudicia populi si svolgono in tre adunanze destinate rispettivamente ad esporre le ragioni dell’accusa, ad ascoltare la difesa e ad escutere i testi. Conclusa tale fase spetta al magistrato formulare l’accusa e richiedere la condanna. Decorso un trinundinum, ha luogo una quarta udienza nella quale il popolo si pronuncia.Prima che intervenga l’ultimo voto necessario alla condanna, è consentito al reus di scegliere l’exilium cui segue la pronuncia di interdictio aqua et igni che lo priva della cittadinanza e dei beni e gli fa divieto di tornare in territorio urbano, pena la morte.Dai primi decenni del II secolo si introduce la prassi senatoria di costituire extra ordinem giurie presiedute da consoli o dal pretore con speciali poteri procedurali e repressivi. Da tali precedenti si svilupperà la nuova procedura delle quaestiones perpetuae che soppianterà quella dei iudicia populi. RIFLESSI DELLA CRISI SULL’ORDINAMENTO GIURIDICO La crisi della libera res publica ebbe riflessi anche sull’ordinamento giuridico. Bisogna innanzitutto distinguere: ius civitatis, che attiene all’assetto della comunità romana, equivalente al ius publicus; ius civile, che attiene all’insieme delle regole delle quali si servono i privati in seno all’organizzazione cittadina. Ius Civile è sia ius proprium civium romanorum, sia ius che i privati possono tra loro usare in civitate. Comprende leges, senatusconsulta, interpretatio prudentium, edicta magistrauum e corrisponde alla nozione ulpianea di ius privatum. Tale periodo è caratterizzato dalla crescente incidenza delle leges publicae sia nel campo del diritto pubblico che in quello del diritto privato.La lex publica costituì uno strumento di lotta politica, che comportò il frequente e caotico succedersi di rogazioni ed abrogazioni, che indusse, prima Pompeo e poi Cesare, a predisporre progetti di riorganizzazione e razionalizzazione delle fonti del diritto, entrambi però non realizzati, ( il primo per timore di denigratori il secondo perché travolto dalle idi di marzo, con i quali, il primo mirava a realizzare a una raccolta organica delle leggi preesistenti, mentre il progetto di Cesare riguardava non solo il ius legitimum ma anche il proprium ius civile.Nell’ambito del sistema delle fonti, acquistano rilevanza gli edicta perpetua, ossia i principi di diritto enunciati non per la soluzione di un caso concreto, ma per una tipologia di casi; già con la lex Cornelia de edictis del 67 a.C. proposta dal Tribuno Publio Cornelio, si imponeva ai pretori l’obbligo di pubblicarli per iscritto e di non modificarli sino al termine della carica.Sono poi da annoverare i senatus consulta, per mezzo dei quali il senato, tenuto conto della difficoltà di convocare i concilia plebis tributa ed i comitia populi in conseguenza della concessione della cittadinanza a romana a tutti gli italici, si sostituì alla normale attività deliberativa delle assemblee popolari. I riflessi della crisi sulla iuris prudentia possono essere valutati sotto un duplice aspetto : con riguardo all’estrazione sociale dei giuristi con riguardo alle forme di attività e alla tecnica interpretativa. Sotto il primo aspetto, in un primo momento la iuris prudentia costituì una professione eminentemente aristocratica; l’ultimo esponente di questa tradizionale iurisprudentia è Quinto Mucio Scevola, il quale, unitamente all’esercizio delle funzioni di magistrato e di pontefice massimo, espletò le attività tecnico giuridiche del respondere, ossia dare pareri a quesiti posti da privati, magistrati, giudici, dell’agere, ossia suggerire schemi processuali, del cavere, ossia formulare schemi negoziali.Dopo la sua morte la situazione muta perchè i giuristi non provengono più dalla nobilitas bensì dall’ordo equestre e da strati sociali meno elevati. Il sapere giuridico si afferma adesso come sapere specialistico e tende a rivendicare la propria autonomia dal potere politico.Ai munera (compiti) tradizionali, del respondere, dell’agere e del cavere, si affiancano anche compiti di natura didattica, che si sostanziano nell’attività dell’instituere 57 (quaestiones perpetuae).Sul piano sostanziale determinò un notevole ampliamento del numero degli illeciti pubblici, mediante la configurazione di nuove figure criminose caratterizzate dal fatto che la condotta imputabile o l’evento lesivo erano definiti dalla stessa legge istitutiva della rispettiva quaestio. In ogni caso ciò non comportò la recezione del principio di legalità, dato che il magistrato poteva reprimere, in forza del suo imperium, condotte ritenute meritevoli di punizione, anche se non previste dalle leggi istitutive delle quaestiones. Dunque, il principio nullum crimen sine lege deve essere inteso nel senso che una delatio nominis poteva essere presentata da qualsiasi privato cittadino al presidente di una quaestio, soltanto per fatti e comportamenti previsti dalla legge istitutiva della stessa. Sul piano processuale, l’aumento del numero delle quaestiones perpetuae, condusse alla configurazione di un nuovo tipo di processo criminale, che surrogò di fatto il precedente di tipo comiziale (iudicia populi). Subentrò così il sistema dei iudicia publica legitima, incentrati su nove tribunali stabili, cinque competenti per crimini di carattere politico e quattro per crimini comuni. CARATTERISTICHE DEL NUOVO RITO ha natura accusatoria sia perché l’iniziativa processuale era affidata ad un quivis de populo (qualunque cittadino privato), quale rappresentante dell’interesse pubblico, sia perché l’organo giudicante, ossia la giuria popolare, si trovava in posizione di assoluta terzietà fra l’accusatore e l’accusato, a differenza dei sistemi processuali di tipo inquisitorio dove accusatore e giudice coincidono. Cicerone nelle Verrine afferma che la giustiz<ia criminale per essere tale richiede il concorso di 3 indispensabili presupposti: l’accusa pubblica; piena libertà di difesa dell’accusato; rimessione del verdetto ad una giuria popolare. Il rito si articolava in tre fasi: formalità introduttive, dibattimento e giudizio. La fase introduttiva si apriva con un’istanza di autorizzazione (postulatio), con la quale il denunciante chiedeva al presidente della giuria il riconoscimento della sua legittimazione all’accusa, e si chiudeva con la iscrizione dell’accusato nel ruolo dei sottoposti a giudizio. Il presidente, accertata la legittimazione del denunciante, autorizzava la postulatio che si trasformava in formale accusa. Procedeva allora all’accettazione dell’accusa, alla sua iscrizione a ruolo ed alla fissazione del giorno dell’udienza dibattimentale.Il rito delle quaestiones poteva istaurarsi solo fra un accusatore e un accusato, e per la sola fattispecie criminosa prevista dalla legge istitutiva, era escluso sia il concorso di persone che il concorso di reati.In presenza di più postulanti, era allora necessario istituire un procedimento incidentale volto a scegliere quello più affidabile. I postulanti esclusi potevano però aderire, in qualità di subscriptores, alla delatio nominis proposta dall’accusatore, il quale soltanto assumeva il ruolo di parte processuale e si impegnava a fornire le prove della colpevolezza dell’accusato. L’accusatore tuttavia poteva anche avvalersi dell’apporto dei subscriptores, ma anche di eventuali indices, intendendo per tali coloro che avessero partecipato alla ideazione o alla realizzazione di reati associativi e contribuissero a svelarne le trame eversive dietro promessa d’impunità.Sopraggiunto il giorno dell’udienza, si procedeva prima alla costituzione della giuria e a tal fine i pretori urbani compilavano anno per anno una lista di giudici tra cui venivano sorteggiati un numero di nomi pari al doppio dei membri della quaestio, poi ridotti della metà con le alternative ricusazioni dell’accusatore e dell’accusato.Si procedeva poi al dibattimento che verteva sulla prove addotte dall’accusatore e dall’accusato. La rilevanza e l’efficacia dei mezzi probatori dipendeva dalla capacità di ciascuna parte di interpretarli e utilizzarli in funzione della dimostrazione delle proprie asserzioni.Il dibattimento si chiudeva con le arringhe conclusionali delle parti o dei loro avvocati.Il Presidente allora chiedeva alla giuria se riteneva esaustiva l’altercatio, e nel caso in cui più di un terzo affermava di non avere maturato un proprio convincimento, il dibattimento veniva rinnovato (ampliatio), altrimenti si procedeva alla votazione con la quale ciascun giudice esprimeva il proprio convincimento circa la colpevolezza o l’innocenza dell’accusato, esprimendo il proprio parere scrivendo su una tavoletta la lettera C (condemno) o la lettera A (absolvo).Il presidente non partecipava alla votazione, ma proclamava il risultato di assoluzione o di condanna. In caso di condanna si applicava la pena prevista dalla legge istitutiva della quaestio, mentre in caso di assoluzione non comportava alcuna sanzione a carico dell’accusatore in buona fede. Soltanto in caso di accusa dolosa, l’accusatore sarebbe stato chiamato a risponderne dinanzi alla stessa quaestio. FIGURE DI CRIMINI Per quanto riguarda invece le figure criminose, si distinguono : crimini perseguibili dinanzi a quaestiones diverse (calumnia) o fuori dal sistema delle quaestiones (plagium); 61 crimini afferenti alla competenza di una specifica quaestio, e tra essi si distinguono crimini politici e crimini comuni. Hanno natura politica : a) Crimen maiestatis, ossia la lesa maestà. In tale ambito sono ricompresi l’abuso del potere magistratuale, l’attività diretta a istigare i socii italici a rivoltarsi contro Roma, tutti i comportamenti diretti a sovvertire le istituzioni pubbliche, l’alto tradimento dello Stato attraverso la collusione con i nemici; alla fine della libera res publica il crimen maiestatis comprendeva ogni offesa ed ogni attentato alla sovranità ed alla sicurezza del popolo romano; b) Crimen ambitus, denota il broglio elettorale, nel quale rientrano le fattispecie del comperare i voti, la promessa di favori e vantaggi in cambio di voti, l’organizzazione di feste e banchetti al fine di procacciare i voti, l’accordo elettorale di due candidati a danno degli altri. La lex Cornelia dell’81 comminò l’interdizione decennale dalle magistrtature. c) Crimen vis. La fattispecie di vis publica consisteva nell’impiego della violenza fisica al fine di impedire il libero e normale svolgimento di pubbliche funzioni, ma anche nell’esercizio arbitrario di poteri pubblici. La fattispecie di vis privata consisteva nel compimento di azioni violente a danno della libertà e del patrimonio dei privati. d) Crimen repetundarum. Riguarda l’illecita sottrazione o estorsione di denaro o altri beni da parte di governatori provinciali, ma anche da magistrati, a comunità o a singoli individui sottoposti al loro potere. Tale condotta venne inizialmente punita con la pena del doppio del maltolto e poi ridotta da Silla alla pena pecuniaria del simplum alla quale Cesare aggiunse gravi pene accessorie, quali rimozione dalla carica, ineleggibilità ad altre cariche, incapacità a testimoniare e assumere l’ufficio di giudice. e) Crimen peculatus. Si tratta di furto qualificato per la natura pubblica delle cose sottratte o utilizzate. Erano previste tre ipotesi di furto qualificato: il peculato in senso stretto, ossia sottrazione o uso indebito di cose pubbliche da parte di funzionari o semplici privati; il sacrilegium consistente nella sottrazione o uso indebito di cose sacre o religiose; il crimen de residuis, consistente nella ritenzione indebita di denaro o altri beni ricevuti dall’erario per l’espletamento di un pubblico ufficio e non utilizzati per il fine cui erano destinati. Per le prime due ipotesi la pena era l’aqua et igni interdictio; per la terza ipotesi la pena era un ammenda pari al valore delle cose detenute aumentate di un terzo. del principe divenne di fatto esclusiva. L’oratio principis acquistò la sostanza di constitutio principis. CODIFICAZIONE ADRIANEA DEL DIRITTO PERPETUO In merito agli editti giurisdizionali, che avevano avuto un ruolo fondamentale nel processo di formazione del diritto privato romano, bisogna distinguere due momenti: nel corso del primo principato il principe esplicò la propria opera di promozione, direzione e controllo, sia direttamente in forza della tribunicia potestas e dell’imperium proconsulare maius et infinitum, sia indirettamente, proponendo e facendo approvare leggi e senatoconsulti. con Adriano l’intervento del principe sugli editti giurisdizionali divenne radicale e definitivo. Intorno al 130 d.C., infatti, l’imperatore Adriano conferì al giurista Salvio Giuliano l’incarico di procedere al riordinamento ed alla definitiva stabilizzazione degli edicta tralaticia dei pretori e dell’editto degli edili curuli. Il testo dell’editto stabilizzato da giuliano (definito dalla dottrina codificazione) venne sottoposto all’approvazione del senato, con la quale si stabilì che se si fosse rinvenuta qualche lacuna nell’editto, soltanto il principe avrebbe potuto provvedere con la sua auctoritas, sulla base di principi, criteri ed esempi desunti dal testo stesso.In questo senso l’edictum perpetuum, ossia l’editto immutabile, non era un semplice regolamento di giurisdizione ma un corpo normativo precostituito al ius dicere e al ius edicendi del magistrato.Per ciò che concerne l’interpretatio dei prudentes, una prima tappa dello sviluppo storico dei rapporti tra principe e giuristi è data dal provvedimento con cui Augusto, al fine di accrescere l’efficacia del diritto giurisprudenziale, stabilì che i giuristi potessero dare i responsi sulla base della stessa auctoritas principis, ma soltanto in forma scritta e sigillata. In tal modo Augusto perseguì un duplice obiettivo: ridurre il ius controversum, alimentato anche dall’incertezza circa l’autenticità dei responsi, e subordinare il munus respondendi dei iuris perit al controllo politico del principe.La seconda tappa di tale sviluppo è data dal provvedimento con il quale Tiberio concesse al giurista Masurio Sabino il potere di dare responsi a titolo pubblico. Subentra così il ius publice respondendi che, a differenza del respondere ex auctoritate principis, comportava una discriminazione fra giuristi ufficiali e giuristi respondenti a titolo privato, i cui responsi non avrebbero avuto alcun valore in sede giudiziaria nel caso in cui fossero stati dati in concorso con quelli dei giuristi ufficiali. 65 La terza tappa è data dalle riforme adrianee che segnarono il venir meno del ius publice respondendi. Egli: riprese la prassi secondo cui chiunque avrebbe potuto dare responsi liberamente al pubblico; attribuì forza di legge ai responsi dei giuristi inserimento dei più eminenti giuristi nel consilium principis. Egli così surrogò il criterio della collaborazione esterna con il criterio della collaborazione interna. Il giurista rispondente si trasformò in giurista burocrate e il rescritto imperiale prese il posto del responso del giurista. POTERE NORMATIVO DEL PRINCIPE L’attività del principe volta a integrare il processo formativo del diritto confluì nelle constitutiones principum, ossia l’insieme degli atti normativi del principe; tali sono gli edicta, decreta, mandata, epistulae, rescripta. Il fondamento del potere normativo dei principi venne individuato nella lex de imperio che conferiva valore normativo e efficacia di legge a tutte le decisioni adottate dal principe nell’esercizio dei suoi poteri.Gli editti imperiali si distinsero dagli editti magistratuali in quanto con essi il principe non delineava un programma al quale egli stesso si sarebbe attenuto, ma dettava norme di condotta vincolanti per tutti; essi avevano validità territorialmente illimitata e avevano efficacia illimitata nel tempo, salvo eventuale abrogazione.I decreti erano decisioni giudiziarie con le quali il principe risolveva le controversie civili e criminali sia in prima istanza che in appello. Tali decisioni vennero considerate precedenti vincolanti.I mandati erano istruzioni che i principi impartivano ai propri funzionari ed ai governatori delle province senatorie, sia su autonoma iniziativa, sia in risposta a consultazioni su argomenti di vario genere. La loro efficacia fu nel tempo estesa anche oltre la cerchia dei destinatari. Si formarono così diversi corpora mandatorum, che disciplinavano interi settori dell’amministrazione imperiale.I rescritti erano le risposte date dal principe in ordine a questioni controversie di diritto sollevate nel corso di un processo. Nel caso in cui il parere veniva sollecitato da una delle parti, la risposta imperiale veniva annotata dallo Scrinium a libellis in calce al libello stesso; nel caso in cui veniva invece sollecitato dal funzionario la risposta veniva redatta dallo scrinium ad epistulis su lettera ufficiale indirizzata al richiedente.Le epistole consistevano in istruzioni impartite dal principe ai funzionari ed ai governatori provinciali, ovvero in pareri su questioni dubbie di diritto sollevate da giudici nel corso di un processo. LA GIURISPRUDENZA CLASSICA Di notevole importanza in questo periodo è la formulazione data da Ulpiano al termine iurisprudentia; la giurisprudenza è conoscenza delle cose divine ed umane, scienza del giusto e dell’ingiusto. Definizione con la quale egli volle distinguere due momenti dell’attività dei iuris prudentes: la notio, ossia la conoscenza dei fatti e dei rapporti sociali nei loro aspetti laicoreligiosi la scientia, ossia la tecnica professionale del giusto e dell’ingiusto. I giuristi si considerano sacerdotes iustitiae, cioè ministri del bonum et aequum, in cui si risolve l’essenza costitutiva del ius. Il diritto è, infatti, la costante ricerca e diuturna prassi volte a realizzare, nell’ambito dei rapporti intersoggettivi, l’equilibrio fra bene comune e bene individuale (bonum) ed il contemperamento degli opposti interessi (aequum).Tuttavia l’attività pratica dei giuristi è contraddistinta nell’età del principato da una involuzione dei tradizionali munera dell’agere (del suggerire schemi processuali) e del cavere (ossia formulare schemi negoziali).L’involuzione dell’agere si accentuò in seguito alla codificazione adrianea dell’editto perpetuo, venendo meno lo stretto legame fra l’agere del giurista e la concepito formularum.A togliere valore pratico all’agere contribuì la generalizzazione delle cognitiones extra ordinem; nel procedimento delle cognitiones non c’era più una distinzione tra una fase in iure, destinata all’impostazione tecnicogiuridica della controversia, e che postulava la competenza del giurista, e la fase apud iudicem, destinata all’indagine probatoria. Dalla figura unitaria del giuristasacerdos iustitiae, venne staccandosi una nuova figura, l’avvocato che finirà per surrogare il giurista nell’attività di assistenza tecnica.L’esaurimento dell’attività del cavere è legato alla standardizzazione dei formulari negoziali, facilmente utilizzabili dagli interessati. Nel corso del II secolo d.C. i giuristi furono sostituiti dai tabelliones (predecessori dei notai) ai quali fu conferita la potestà di compiere gli instrumenta publice confecta che potevano acquistare, in seguito all’inserzione nei pubblici registri, efficacia pari agli instrumenta publica. Ai quali fu affidata la compilazione e l’adattamento dei predetti formulari. GIURISTA ATTIVIT DIDATTICA GENERI LETTERARIĂ Per ciò che concerne il munus respondendi, in seguito alle riforme di Adriano, il responso del giurista fu in pratica sostituito dal rescritto imperiale. Tuttavia gli effettivi autori dei diversi 67 per un’ampia discrezionalità del cognitor; per la procedibilità contumaciale; per l’impugnabilità della sentenza; per la specificità della condanna; per l’esecutività della sentenza con l’intervento e il controllo dei coadiutori del cognitor. L’appello costituisce un mezzo di impugnazione, estraneo al sistema dell’ordo, esperibile contro una valida sentenza, che trova il suo fondamento nell’auctoritas principis. L’appello era, in origine, esperibile solo contro le sentenze cognitorie pronunziate ex auctoritas principis. Il principe delegante aveva, dunque, la facoltà modificare o cassare, in sede di riesame, la sentenza emessa dai propri delegati. In un secondo momento Augusto conferì al senato il potere di giudicare in grado di appello avverso le sentenze emanate dai giudici dell’ordo iudiciorum privatorum. L’appello assurge così a generale strumento d’impugnazione di una valida sentenza, con effetti devolutivi, poiché comportava il deferimento della controversia a un giudice superiore, e sospensivi, poiché comportava la sospensione degli effetti della sentenza. DIRITTO E PROCESSO CRIMINALE L’auctoritas principis opera nell’ambito del diritto criminale, sia processuale che sostanziale, in una duplice direzione: razionalizzando, sviluppando e dirigendo il sistema delle quaestiones e delle relative figure criminose; integrando la repressione criminale e la configurazione di nuove figure criminose. Nel campo del diritto penale sostanziale si ha: la configurazione di nuovi crimini con leggi istitutive di nuove quaestiones perpetuae e l’ampliamento di determinate figure criminose, in particolare : a) rientra nell’ambito del crimen maiestatis ogni offesa all’imperatore, il rifiuto del culto imperiale, il ricorso a pratiche magiche aventi per oggetto o destinatario l’imperatore; b) il crimen repetundarum viene esteso agli abusi commessi da qualsiasi titolare di pubbliche funzioni, mentre da tale crimen si stacca una nuova autonoma figura criminosa, la concussio, ossia estorsione di somme di denaro, a danno di terzi, effettuata da magistrati e funzionari con la minaccia di compiere o non compiere atti inerenti al proprio ufficio; c) il crimen vis. Nella vis publica furono inserite l’appartenenza a collegia illicita e il rifiuto di dare corso all’appello presentato dal condannato a pene criminali; d) il crimen falsi viene esteso alla supposizione di parto, al millantato credito, all’assunzione di falso nome; e) il crimen homicidii viene esteso alla somministrazione di sostanza abortive o afrodisiache con effetti letali, alla uccisione o esposizione di neonati, all’omicidio colposo e preterintenzionale, all’uccisione intenzionale di schiavi. la configurazione extra ordinem di nuove figure criminose, che i giuristi qualificarono come crimina non legittima per distinguerla da quelli previsti dalle leggi istitutive delle quaestiones perpetuae. A tale configurazione si pervenne in due modi: reprimendo fatti e comportamenti prima non repressi, come il crimen stellionatus nella cui figura rientrano varie ipotesi di comportamento fraudolento, l’effractio carceris (evasione) e la receptatio, ossia il favoreggiamento di banditi; colpendo con la pena pubblica illeciti già colpiti con pena privata, come l’abigeato, ossia il furto di bestiame. LA LEX IULIA IUDICIORUM PUBBLICORUM Nel sistema del diritto processuale, Augusto mirò a razionalizzare il sistema delle quaestiones, razionalizzazione che fu attuata con la lex Iulia iudiciorum publicorum, che comportò la unificazione delle diverse procedure sulla base di una serie di principi e criteri comuni, relativi all’età dei giudici, alla difesa degli assenti, al divieto di testimonianza contro persone legate da vincoli di sangue o affinità. Il sistema delle quaestiones così unificato formò l’ordo iudiciorum publicorum, sistema ampliato da Augusto con l’istituzione di due quaestiones perpetuae, la quaestio de adulteriis, per la repressione dell’unione sessuale tra una donna sposata e uno straniero, nonché dell’incesto, dello stupro, del lenocinio, e la quaestio de annona, per la repressione di frodi ed incette di prodotti alimentari. LA COGNITIO SENATORIA LE COGNITIONES IMPERIALI IUS GLADII Accanto all’ordo iudiciorum publicorum, si vennero sviluppando una serie di cognitiones criminali extra ordinem, la cognitio senatoria di tipo accusatorio, e le cognitiones imperiali di tipo inquisitorio. La cognitio senatoria era espletata ex auctoritas principis, ossia in forza di una delega di poteri giudiziari da parte del principe. Essa fu estesa a varie fattispecie criminose, quali adulterio, 71 calunnia, violenza, omicidio, ma anche a crimini di natura politica commessi da membri dell’ordine senatorio. Il rito era di tipo accusatorio, ma presenta innovazioni rispetto a quello delle questioni: la procedibilità da parte di più accusatori contro più accusati (concorso di persone) e per più fattispecie criminose (concorso di reati); il conferimento all’accusato per l’arringa conclusiva di un tempo maggiore rispetto a quello concesso all’accusatore; la gradualità della pena in base alle circostanze oggettive e soggettive del reato; l’assenza dell’accusatore dava luogo alla perenzione del processo e non alla tergiversatio. La decisione finale, denominata decretum, era redatta per iscritto e doveva essere depositata nell’aerarium Saturni dopo 10 gg dall’emanazione per potere essere eseguita. Entro tale termine il principe avrebbe potuto esercitare il potere di controllo sul decretum senatorio. Le diverse cognitiones imperiali erano tutte di tipo inquisitorio; ed infatti, il procedimento era promosso d’ufficio dal cognitor in veste di accusatore, inquirente e giudice. L’eventuale denuncia, c.d. delatio, presentata da un privato aveva il valore di una mera notizia criminis, e questi assumeva il ruolo di parte processuale; è per questo che i giuristi qualificarono iudicia populi soltanto i processi promossi davanti le quaestiones perpetuae su iniziativa di quivis de populo, che assumeva il ruolo di parte processuale. Gli organi giudiziari di tale sistema erano: il tribunale imperiale che poteva giudicare in primo ed unico grado o in grado di appello; i prefetti; i governatori provinciali ai quali spettava, sino all’editto di Caracalla il ius gladii, ossia l’alta giurisdizione capitale nei confronti dei provinciali, ma non anche nei confronti dei cives, che godevano invece del diritto di essere giudicati, per fatti colpiti da pena capitale, o dal tribunale imperiale o dal tribunale senatorio. Dopo l’editto di Caracalla, fu riconosciuto a tutti i governatori provinciali il ius gladii senza limitazione alcuna. Alcune misure di garanzia per l’imputato furono previste dal consilium principis e dalla cancelleria imperiale mediante rescritti, in particolare : riportato un versetto biblico al quale seguono i testi di diritto romano relativi al medesimo argomento. La Consultatio è la più tarda fra le compilazioni miste, risalendo al V secolo avanzato, o secondo qualche autore addirittura agli inizi del VI secolo. Si tratta di una breve raccolta di pareri, dati da un ignoto giurista occidentale, probabilmente della Gallia. Gli Scholia sinaitica, ritrovati nel Monastero di S. Caterina del Sinai, sono parte di un’opera didattica del V sec, nella quale un ignoto studioso orientale commentava alcuni libri dell’opera di Ulpiano ad Sabinum. POTERE IMPERIALE E PRATICA DEL DIRITTO Nel corso del V secolo, l’utilizzazione delle opere giurisprudenziali classiche e la raccolta delle costituzioni imperiali, non rimase più affidata all’iniziativa privata, ma venne attratta nell’orbita del potere imperiale.Per quanto riguarda l’ultilizzazione delle opere giurisprudenziali classiche, con provvedimento legislativo, noto come legge delle citazioni, emanato nel 426 da Valentiniano III imperatore d’Occidente, si volle disciplinare la produzione in giudizio di opere della giurisprudenza classica, limitando tale privilegio solo alle opere di 5 giuristi, Gaio, Papiniano, Paolo, Ulpiano e Modestino. In caso di contrastanti opinioni sulla medesima questione giuridica, la legge stabiliva che il giudice dovesse attenersi al punto di vista della maggioranza; in caso di parità, doveva prevalere l’opinione di Papiniano e solo ne caso in cui egli non si fosse pronunciato, il giudice avrebbe potuto scegliere liberamente fra le opinioni in contrasto.La legge delle citazioni, venne recepita più tardi da Teodosio II imperatore d’oriente, e fu allargata, stabilendo che anche le opere di altri giuristi venissero prodotte nei processi, purchè fossero citate da uno dei 5 giuristi.A Teodosio II si deve poi la prima raccolta pubblica di costituzioni imperiali, il Codice Teodosiano.Secondo un primo disegno, l’imperatore voleva realizzare due distinte compilazioni; una prima raccolta avrebbe dovuto contenere i testi originali di tutte le costituzioni imperiali con efficacia generale da Costantino I in poi, indipendentemente dal fatto che fossero ancora in vigore o già abrogate. Una seconda compilazione avrebbe dovuto raccogliere solo le costituzioni ancora in vigore, opportunamente modificate, per essere adeguate al diritto in vigore, ed integrate mediante brani di opere giurisprudenziali. Teodosio nominò allora nel 429 un’apposita commissione, ma i lavori andarono a rilento fino a quando nel 435 l’imperatore fu costretto a ridurre il disegno originario ripiegando su una collezione di costituzioni da Costantino in poi, con l’attribuzione alla commissione del potere di modificare i testi delle costituzioni stesse.Il lavoro questa volta fu condotto a termine in tre anni e l’imperatore pubblicò nel 438 il Codex 75 Theodosianus.Esso si divide in 16 libri, ripartiti a loro volta in titoli; entro ogni titolo le costituzioni sono sistemate in ordine cronologico.Rispetto ai due codici precedenti l’opera di Teodosio presenta un contenuto dedicato prevalentemente al diritto pubblico, militare, penale, finanziario, ecclesiastico.Nel contempo egli mantenne in vigore i Codici Gregoriano ed Ermogeniano, ai quali anzi conferì valore ufficiale. LE LEGGI ROMANO BARBARICHE Fra le raccolte di testi giuridici del basso impero, si inseriscono le leggi romanobarbariche, ossia le compilazioni legislative, cioè raccolte o rielaborazioni di iura e di leges emanate dai re delle popolazioni barbare stanziatesi sulle rovine dell’impero romano d’Occidente.Tuttavia, i popoli barbari che invasero i territori dell’ex impero romano d’Occidente, non pretesero di applicare il loro diritto alle popolazioni locali, e ciò secondo il principio della personalità del diritto, secondo il quale questo veniva considerato come retaggio tradizionalmente proprio di ciascun popoli, quindi, incomunicabile a gruppi etnici diversi.I re barbari, infatti, non solo lasciarono che le popolazioni occidentali continuassero a regolare i loro rapporti secondo il diritto romano, ma anzi approntarono delle raccolte di testi giuridici allo scopo di facilitare ad essi l’uso delle fonti giuridiche romane. Tali raccolte prendono il nome di leggi romano barbariche.La più importante fra esse è la lex Romana Wisigothorum, emenata nel 506 per i Romani della Francia Occidentale dal re visigoto Alarico II.Si tratta di un’ampia raccolta di leges e iura che consta di una selezione di costituzioni tratte dal codice teodosiano, un’ampia scelta delle Pauli Sententiae, un’estratto dei codici Gregoriano ed Ermogeniano, e un frammento dei responsa di Papiniano. Tali parti sono accompagnate da una interpretatio, volta a renderne più agevole la comprensione. La lex romana Burgundionum emanata dal re dei burgundi Gundobado agli inizi del Vi secolo. La compilazione venne realizzata servendosi delle stesse fonti della lex romana wisigothorum, ma il materiale non è riportato testualmente, bensì rifuso e compendiato in 47 titoli, con frequenti fraintendimenti, svarioni ed infiltrazioni di principi del diritto borgognone.Fra le leggi romanobarbariche si include anche il c.d. Editto di Teodorico. La denominazione è dovuta al fatto che i re Ostrogoti, nell’emanare le disposizioni in Italia, riconoscevano formalmente la sovranità dell’imperatore d’oriente, per cui consideravano i suoi funzionari investiti solo del potere di emanare editti. IL CRISTIANESIMO E LA SUA INFLUENZA SULLA LEGISLAZIONE Sin dal momento in cui con il costantiniano Editto di Milano la religione cristiana fu considerata lecita al pari dei culti pagani, e dopo l’Editto di Tessalonica che la impose come religione di Stato, essa fece sentire sull’ordinamento giuridico l’influsso dei suoi principi.A partire dal IV secolo la legislazione imperiale presenta una svolta rispetto a quella precedente.Per quanto riguarda il diritto pubblico, si afferma una concezione teocratica del potere imperiale, che viene considerato derivante direttamente da Dio; proprio a causa dell’investitura divina tutto ciò che concerne l’imperatore è sacrum, e anche le sue leggi sono definite sacrae. Tali qualifiche tuttavia sono già attribuite agli imperatori pagani, ma mentre nell’ideologia pagana esprimono il concetto dell’imperatore dio (dominus et deus), nella concezione cristiana, esse trovano la loro giustificazione nella riconosciuta origine divina del potere imperiale.Lo Stato si attribuisce nuove funzioni di carattere etico religioso; rientra tra i compiti del principe la diffusione e la difesa della fede religiosa.Con l’avvento del Cristianesimo, che si considera l’unica vera religione, la professione di qualsiasi altra fede è considerata un pericolo sociale, in quanto può attirare sulla comunità l’ira divina. Da qui nasce un’incalzante legislazione a difesa della religione cattolica, mirando da un lato ad assicurare pienezza di diritti, privilegi e dispense agli ortodossi e dall’altro introducendo divieti, misure vessatorie, limitazioni nei confronti di coloro che non professavano la fede cattolica. IL DIRITTO CRIMINALE La legislazione cristiana in campo criminale comporta un allargamento a dismisura degli illeciti penali, determinando una inflazione di reati e pene. Causa si tale fenomeno è l’introduzione del principio nulla poenia sine lege, che impone la necessità di comminare le pene solo sulla base di precise e tassative disposizioni di legge. Durante il principato, infatti, i funzionari imperiali preposti alle cognitiones extra ordinem in materia criminale giudicavano con ampio potere discrezionale, nel tardo impero si deve giudicare sulla base di leggi.I principali obiettivi della legislazione penale di epoca cristiana sono: la lotta contro il paganesimo e le numerose eresie; il tentativo di arginare l’immoralità attraverso una repressione dei reati attinenti alla sfera dei rapporti sessuali; il tentativo di moralizzare la pubblica amministrazione, punendo la corruzione dei funzionari dello Stato in modo particolarmente severo; la protezione dei deboli e degli incapaci contro svariati atti di prepotenza o vessazione.Contrariamente a quanto si potrebbe immaginare pensando ai principi di tolleranza e di perdono suggeriti dal cristianesimo, caratteristica della legislazione criminale è la gravità delle pene comminate. Essa non è ispirata alla mitezza delle pene, ma prevede con larghezza la pena di morte, la condanna ai lavori forzati nelle miniere, la 77 pubblicato con la Costituzione Cordi, nel novembre del 534.È diviso in 12 libri, il I relativo alle fonti del diritto; i libri IIVIII al diritto privato; il IX al diritto privato e gli ultimi tre di diritto pubblico. Ogni libro è diviso in titoli all’interno dei quali si susseguono, in ordine cronologico, le varie costituzioni imperiali. Il testo di ciascuna costituzione è preceduta da un’iscriptio indicante il nome dell’imperatore cui si deve la costituzione, nonché il nome del destinatario o dei destinatari (funzioni imperiali o private), ed è poi seguito da una subcriptio indicante la data della costituzione e il luogo di emissione. LE NOVELLE Dal 534 fino alla morte di Giustiniano nel 565, si ha la pubblicazione di una serie di costituzioni che riformano svariati campi del diritto.A tali costituzioni si dà il nome di Novellae costitutiones. Si tratta, dunque, di una serie di provvedimenti. Di tali Novelle Giustiniano non fece una raccolta ufficiale, esse, pertanto costituiscono l’unica parte non compilativa del Corpus Iuris.Le quattro parti della Compilazione giustinianea, ad eccezione del primo codice, vengono accomunate con la denominazione di Corpus Iuris civilis LA TRADIZIONE ROMANISTICA Con la morte di Giustiniano la storia del diritto romano può dirsi conclusa.Tuttavia, alcuni territori d’Italia non conquistati dai longobardi rimasero politicamente legati all’impero d’Oriente; ciò comporta che, sotto il profilo giuridico i destini d’italia seguono un cammino diverso rispetto a quello delle altre terre d’Europa.La legislazione orientale postgiustinianea, definita diritto bizantino.La letteratura giuridica bizantina presenta una serie di riassunti (indices) e sommari del Digesto e del Codice, e fra le più importanti si ha la c.d. Parafrasi greca delle Istituzioni di Giustiniano. La parafrasi è un’esposizione in lingua greca delle Istituzioni Imperiali, il cui testo viene chiarito e commentato, spesso con varie esemplificazioni.Tuttavia, con il passare del tempo, gli indici greci si rivelarono inadeguati alle esigenze della pratica, per cui fu necessario l’emanazione di nuove compilazioni di diritto adeguate alle mutate condizioni ambientali.Intorno alla metà dell’ VIII secolo, l’imperatore Leone l’Isaurico e suo figlio Costantino V Copronimo, diedero vita all’Ecloga, una rielaborazione del materiale giustinianeo. Allo stesso periodo appartengono poi tre raccolte speciali di norme dedicate rispettivamente al diritto marittimo, al diritto militare e a vari istituti di diritto privato e penale inerenti alla proprietà fondiaria.Nel IX secolo Basilio il Macedone creò un manuale di leggi detto lex manualis, ripubblicato qualche anno dopo con il titolo repetitio legum.Basilio inoltre diede l’avvio ad un programma che portò a termine il figlio Leone il Saggio, che consisteva nella compilazione di un’unica grande opera, che avrebbe dovuto abbracciare tutto il diritto vigente e sostituire totalmente le precedenti raccolte legislative. Egli promulgò una colossale opera legislativa nella quale era stato rifuso, in lingua greca, quasi tutto il materiale utilizzato nella compilazione giustinianea. L’opera fu designata con vari nomi fra i quali è prevalsa la denominazione dei Basilici, res regiae.Nei secoli VIIX si ha una decadenza degli studi giuridici; lo studio del Digesto viene abbandonato, mentre le altre parti del Corpus Iuris costituiscono oggetto di un lavoro esegetico che diede vita a opere quali la Glossa Torinese, relativa alle istituzioni, e la Summa Perugina, relativa al codice.Nell’XI secolo si assiste invece ad un rinascimento giuridico, caratterizzato dalla riscoperta della legislazione giustinianea. Solo dopo qualche secolo si fece strada la coscienza di un diritto unico, abbandonando il tradizionale principio della personalità dello Stato. Nasce così verso la fine del XI secolo, la Scuola di Bologna, definita “lo Studio”, il cui massimo rappresentante era Irnerio a cui si affiancavano i quattro “dottori” Bulgaro, Ugo, Iacopo e Martino.Inizialmente, si stabilirono però rapporti individuali fra il singolo docente ed il maestro, che venivano definiti societates. Successivamente dall’unificazione delle varie societates ebbe vita la c.d. universitas. Essa fu dunque, un’organizzazione corporativa degli studenti, che avevano i loro capi, rectores.Alla scuola dei Glossatori si deve il merito di avere riscoperto la Compilazione Giustinianea.Il nome Glossatori deriva da Glossa, ossia il genere letterario che caratterizzò la scuola. Le glosse erano, infatti, le brevi note di chiarimento che i maestri apponevano ad un testo che costituiva oggetto di lettura agli studenti.I Glossatori consideravano l’opera giustinianea come un monumento legislativo, cercando di superare e giustificare tutte le contraddizioni, ripetizioni frequenti nell’opera.L’espressione di tale modo di procedere furono le c.d. Summae, ossia trattazioni condotte con l’intento di fornire un’esposizione coordinata del diritto della Compilazione.La Scuola dei Glossatori contribuisce poi alla diffusione europea del diritto romano, in quanto gli studenti provenienti da tutta europa che avevo compiuto a Bologna la loro formazione giuridica, una volta tornati nei paesi d’origine, nell’attività quotidiana di operatori del diritto si ispiravano ai principi del diritto romano. Sorge così il processo di attualizzazione del diritto romano.A mettere il punto conclusivo a tale attività di elaborazione scientifica fu un maestro della Scuola di Bologna, Accursio, che realizzò intorno al 1230 un’imponente antologia delle glosse che si erano accumulate sui testi. L’opera, nota come Magna Glossa si articola in 5 volumi, tre dei quali dedicati al digesto e gli altri alle altre parti della Compilazione.Il periodo compreso fra la metà del duecento e i primi decenni del trecento è dominato dai cc.dd. Postglossatori, le cui opere sono caratterizzate da una accentuata tendenza alla trattazione di 81 argomenti della pratica giuridica e dalla nuova forma letteraria del tractatus, ossia elaborazione organica di un determinato argomento.Dal XIV secolo si afferma un’altra forma letteraria, quella del commento che dà vita alla scuola dei Commentatori, i cui più importanti esponenti sono : Cino da Pistoia, Bartolo di Sassoferrato, Baldo degli Ubaldi. Essa è caratterizzata da una metodologia dogmatica che mira alla costruzione di un sistema giuridico, in cui vengono ricomposti i principi tratti dai singoli testi della Compilazione.È diverso l’approccio dei commentatori alla compilazione rispetto ai glossatori. Questi siaccostano al Corpus Iuris tentando di adeguare ai principi in esso espressi la realtà giuridica del loro tempo; i commentatori invece accettano le norme della Compilazione giustinianea solo nei limiti in cui le ritengono applicabili alla nuova realtà e tentano ove possibile una conciliazione con quelli di altri ordinamenti. Alla scuola dei commentatori si deve un’attualizzazione del diritto romano attraverso una sua opportuna rielaborazione.Nasce così il sistema del diritto comune che costituisce un diritto di portata generale. Così i principi del diritto romano penetrano come diritto vigente in Francia, Spagna, Portogallo, Paesi Bassi e soprattutto in Germania ove si ha un atto ufficiale di “Rezeption”. Qua, viene istituito il Tribunale Camerale con il compito di giudicare secondo il diritto comune dell’impero, ed applicare subordinatamente e compatibilmente con esso i diritti locali a base consuetudinaria.Al XVXVI secolo risale la diffusione della Scuola Culta, che trovò in Francia le condizioni favorevoli per prosperare. I culti si accostarono alla Compilazione Giustinianea con spirito critico, ispirato dal culto dell’antichità classica e quindi, dal desiderio di ricostruire, attraverso il Corpus Iuris, l’antico diritto romano. Nel XVII e XVIII secolo nei paesi del centro Europa fiorì la dottrina del diritto naturale, il Giusnaturalismo, che ebbe il suo primo esponente nel Grozio. Essa, sviluppò la teoria dell’esistenza di un diritto ideale, ispirato ad una naturalis ratio, che può essere anche in contrasto con il diritto concretamente vigente, il diritto positivo, ponendosi nei confronti di questo come una meta ideale da raggiungere.Dagli inizi del secolo scorso, la storia del diritto europeo attraversa un periodo comunemente chiamato età delle codificazioni. Il fenomeno realizza lo scopo di dotare ogni ordinamento di un sistema di norme consolidato e completo, dettato dall’autorità statuale con l’intento di rappresentare nello stesso tempo un limite ed una garanzia per la libertà dei cittadini.La prima codificazione di portata generale venne realizzata in Francia da Napoleone con il suo “Code Civil” del 1804.L’espansione europea dell’impero napoleonico favorì una larga influenza della codificazione napoleonica in quasi tutti gli stati europei e nelle colonie americane. Solo in Germania l’introduzione di un codice civile fu oggetto di discussione fra giuristi, in particolare fra il Thibaut, convinto della necessità di introdurre un codice civile generale, e il