Scarica STORIA DEL DIRITTO ROMANO riassunto libro e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! L’ETA CONTADINA (dalle origini al 242 a.C.) Nella repubblica l’equilibrio dei poteri è assicurato dai consoli, dal senato e dalle assemblee popolari. In assenza dei consoli, il potere torna nelle mani del senato che è titolare dell’interregnum e della patrum auctoritas. Tramite l’interregnum il potere consolare è esercitato a turno per cinque giorni da ciascun senatore, fino all’elezione della nuova coppia magistratuale. L’interregnum nasce a seguito della morte di Romolo per fronteggiare la richiesta da parte del popolo di un monarca. La Patrum Auctoritas consisteva nell’adunanza di più persone diretta a ricercare l’uniformità degli orientamenti, in quest’adunanza vi sono i Patres, che appartenevano di diritto al Senato in quanto rappresentanti della gentes, e i conscripti, nominati dal Re o dal Magistrato. L’auspicia ad patres redeunt invece è una formula connessa con l’esistenza di un organo collegiale che si considera depositario di tutto il potere, questo istituto procede quindi alla nomina di un interrex. Il testamentum calatis comitiis si presenta come la forma testamentaria più antica, compiuta in tempo di pace in due giorni prestabiliti dell’anno, davanti ai comizi curiati presieduti dal Pontefix Maximus o dal Rex Sacrorum. Si svolgeva così l’adrogatio, che consisteva nella sottoposizione da parte della familia di un pater familias a quella di un altro pater familias, comportando così la detestatio sacrorum, ovvero la perdita dei culti familiari. La lex curiata de imperio è un cerimoniale, mediante il quale le curiae riconoscono l’imperium del magistrato repubblicano. La lex curiata de imperio è di età monarchica, prima della nascita dei comitia centuriata che la tradizione attribuisce a Servio Tullio. Le leges curiatae vengono identificate con le leges regiae. Nel manuale che Sesto Pomponio scrisse nel secondo secolo d.C. si distingue un periodo monarchico, in cui omnia manu a regibus gubernabantur, e quello iniziatosi a partire dall’età romulea e dalla divisione del popolo in curiae, che coincide con l’emanazione delle leges regiae. Il manu gubernare indica una fase storica preromulea, antecedente al diritto, il manu gubernare si considera appartenente al prediritto ed è un modello premonarchico di una società basata sull’uso della forza. Pomponio inoltre conosce anche una raccolta di leges regiae, compilata da Sesto Papirio, la quale ordinava le leggi emanate sine ordine. La raccolta fu chiamata ius civile Papirianum. Colui che raccolse le leges regiae fece un’opera codificatoria con il consenso del monarca, si presuppone infatti l’alto rango sociale di Papirio, in quanto per aver accesso agli archivi delle leggi quest’ultimo doveva avere un rapporto diretto con il Re. Ciò che era scritto nel libro di Papirio era accettato come autentico e quell’opera quindi rendeva visibile e controllabile l’applicazione nella prassi delle norme regali. Lo ius civile Papirianum può quindi essere visto come una raccolta di norme, di valore civilistico, costruita in senso antipontificale da un gruppo politico filo etrusco e imposta alla città stato allo scopo di uniformarne i comportamenti. Le leges regiae presuppongono la lex curiata de imperio, che sarà stata imposta quando al potere temporaneo dell’interrex si sarà venuto sostituendo il monarca vitalizio. Oltre all’interregnum e alla patrum auctoritas vi è il regnum adfectare. Il regnum adfectare coincide con l’odio del regno, atto penalmente perseguibile. L’accusa di regnum adfectare è sottoposta al giudizio dei duoviri perduellionis, antichi ausiliari del rex. Per le regole di diritto internazionale, Livio riporta la formula dei feziali, al cui collegio compete la stipula dei trattati internazionali e la dichiarazione di guerra. Sul piano metodico, è stato da tempo riconosciuto che questo, come altri formulari, costituiscono reliquie autentiche, in quanto non sottoposte a modificazioni successive. Questa formula è strutturata in quattro parti, consistenti nella recitazione di un carmen, nella lettura del trattato, nel giuramento e nel sacrificio. Essa è preceduta dalla nomina di due feziali, il verbenarius e il pater patratus, il quale era nominato, presente tutto il collegio, con un giuramento, ed era colui che avrebbe poi dovuto conchiudere il foedus. L’istituzione dei feziali e la creazione dei relativi formulari è inclusiva del senato, al quale, come organo composto dai capi delle più antiche confederazioni gentilizie, era affidato il compito di regolare i rapporti tra i vari gruppi sociali che venivano assestandosi nel territorio romano. Ricostruzioni storiche affermano che la nascita del primo stato cittadino sia il risultato di una federazione di gentes. Basandosi sui ruderi che emergono in età storica, quali la comunanza del nome e del culto, i poteri di emanare decreta gentilicia, il diritto dei gentili alla successione ereditaria, indicata nelle XII tavole come familiam habere, la storiografia ha costruito tale ipotesi. I membri della gens sarebbero stati in una condizione di parità sociale, con un proprio territorio, il pagus, e sarebbero stati guidati da un pater gentis. La gens si sarebbe trasformata in comunità politica quando si venne formando la clientela, nata dall’ingresso di stranieri nel gruppo, i quali fornivano forza lavoro e forza militare in cambio dell’assistenza prestatagli dal patrono, trovandosi in un rapporto di fides reciproca. Successivamente, con la dominazione etrusca si sarebbe formata la città stato. La città stato ha un territorio limitato, ma è aperta a forme di economia agricole, mercantili e proto industriali, dotata di notevole potenza militare ed economica. Essa è amministrata da un re e dai suoi ausiliari, i duoviri perduellionis e i quaestores parricidiim rispettivamente addetti ai processi di tradimento e di omicidi. Altro delegato del re era il praefectus urbi, cui il monarca affidava la propria città in caso di propria assenza. La monarchia etrusca, esprime un modello unitario della città, favorendone lo sviluppo economico e cosmopolita, mettendo fuori gioco i poteri dei capi di bande del periodo gentilizio. Durante il dominio etrusco si formò la plebe in contrapposizione al patriziato. La plebe ha una propria assemblea, il concilium plebis, che adotta deliberazioni, i plebiscita, e i suoi capi nei tribuni, che inizialmente si impongono all’ordinamento patrizio esterno alla plebe con incidenza rivoluzionaria. Essa è orientata dalle leges sacratae, dalle quali si desume non solo il carattere della plebe come parte della comunità ma anche la forma di tutela rivoluzionaria, consistente nel dichiarare sacer, ovvero privo di garanzia giuridica, con la possibilità di essere ucciso da chiunque, chi le avesse violate. Sotto il profilo istituzionale, alla monarchia si sostituì il governo collegiale di due consoli, mentre un'altra ricostruzione storica, vede sostituire al re il magister populi, ovvero il comandante dell’esercito, con alle dipendenze il magister equitum, posto a capo della cavalleria, e nel 367 a.C. con la lex Liciniae Sextiae che sancì la parificazione delle classi sociali, l’istituzione di due pretori-consolim con par potestas e intercessio reciproca. La politica espansionistica nel Lazio fu dettata da condizioni economiche critiche. Gran parte dei territori annessi vennero sottoposti alla possessio dei patrizi, i quali escludevano la classe plebea dall’ager publicus. Così, la lunga lotta intrapresa dalla plebe per essere ammessa alla posessio dell’ager publicus, trovò temporanea soluzione nel 367 a.C. quando una lex Liciniae Sextiae de modo agrorum, pose un limite di cinquecento iugeri alla possessio dell’ager publicus e ammise anche le elites plebee al possesso di questi territori. Nel quinto secolo furono sospese le magistrature ordinarie, per sostituirle con un primo collegio decemvirale, a composizione patrizia. Vengono così rese pubbliche le prime dieci tavole ed eletto un secondo decemvirato, questa volta con forte presenza plebea, ma rapidamente degenerato in tirannide, verrà abbattuto da una rivoluzione popolare che restaurerà il consolato, pur ratificando altre due tavole di leggi, dette inique, perché contenevano la servitù per debiti e il divieto di conubium tra patrizi e plebei. Le XII tavole appaiono governate da una coerenza interna, espressa in un rigido formalismo. La forma imposta ad ogni atto giuridico, irrigidisce le prassi giuridiche preesistenti o ne crea di nuove, sussumendo il diritto nella parola performatrice. La materia delle successioni mortis causa è regolamentata sulla base di rigide gerarchie parentali. Il negozio di scambio definito con la parola mancipatio, o mancipium, richiedeva la solenne pronuncia di determinate parole da parte dell’acquirente davanti all’alienante silenzioso, e a cinque testimoni, più un incaricato di pesare un frammento di bronzo, simboleggiante il prezzo della cosa. Prima delle XII tavole vi era un diritto, costituito anche dalle leges regiae, ma soprattutto dalle decisioni del collegio pontificale, molto più antico del collegio decemvirale. La legislazione decemvirale, appare compiuta decisamente contro il collegio pontificale, infatti le XII tavole appartengono a una visione normativa incompatibile con quella pontificale che, venne rapidamente inglobata dalla restaurazione del 449, con la rivolta guidata dai capi patrizi contro un governo democratico. Il processo di parificazione delle classi sociali appare lungo e complesso. Esso prende le mosse dalla caduta del governo decemvirale e la restaurazione oligarchica affidata ai consoli Valerio e Orazio. Le leggi Valerie Orazie avrebbero stabilito il divieto di creare alcun magistrato il cui imperium non fosse sottoposto ai limiti della provocatio ad populum. Avrebbero sancito la dichiarazione di sacer nei confronti di chi avesse offeso un tribuno o un edile della plebe, ed equiparato i plebisciti alle leggi. La rogatio fatta approvare dal tribuno della plebe Canuleio nel 445 a.C. abolì il divieto di conubium fra patrizi e plebei. La partecipazione dei plebei al tribunato militare con potestà consolare coincide con l’introduzione della censura, alla quale fu poi conferito il compito di scegliere i senatori, effettuare il censimento, collocando i cittadini in classi basate sul rispettivo censo, e vigilare sui costumi. Nel 367 a.C. una delle lex Liciniae Sextiae stabilì il principio che dei due consoli uno potesse essere plebeo. Nel 287 a.C. una lex Hortensia dispose che i plebisciti acquistavano valore di legge senza la ratifica della patrum auctoritas. Nelle sue lotte la plebe è guidata dai tribuni. Il tribunato della plebe si manifesta come un organismo rivoluzionario, munito soprattutto del potente strumento dell’intercessio. Con l’intercessio i tribuni possono opporsi a ogni atto di ciascuno degli organi cittadini. Poiché i tribuni non sono riconosciuti dall’ordinamento giuridico patrizio, si fa ricorso a sanzioni di carattere religioso, dichiarando sacer chiunque avesse attentato a questa magistratura. Le competenze del senato consistono nella ratifica e nella consultazione. Possiamo far confluire nella ratifica l’esercizio della patrum auctoritas sulle deliberazioni delle assemblee popolari e di quella plebea. Possiamo ricondurre alla consultazione soprattutto il senatusconsultum, l’atto formale in cui si traduce la determinazione presa dal senato su questioni poste dal re, dai magistrati, o per propria iniziativa. La costituzione del secondo secolo a.C. si rappresenta con una prevalenza del senato rispetto alle magistrature e alle assemblee popolari. La maggiore di queste, il comizio centuriato, era fondata su un criterio timocratico che permetteva la prevalenza dei ceti più abbienti, ed aveva poteri limitati all’elezione dei magistrati maggiori e all’approvazione delle proposte di legge. I consoli, scaturiti dal compromesso patrizio-plebeo, amministravano annualmente secondo il principio della collegialità, con par potestas e intercessio reciproca. Ai consoli compete la convocazione del senato e dei comizi. Sono titolari dell’imperium e ciascuno di essi lo esercita singolarmente, al campo militare come nella città, se non interdetto dall’intercessio del collega o dalle garanzie del cittadino. L’imperium è un potere visibile, si espone ai cittadini tramite dodici littori, recanti i fasci di verghe con la scure, è quindi un potere coercitivo ma non assoluto. L’imperium del magistrato incontra i limiti della provocatio ad populum. Quest’ultima paralizzava l’azione coercitiva, in attesa delle determinazioni dell’assemblea popolare. Il pretore divenne titolare di un imperium minore rispetto a quello dei consoli, ma ben presto esercito soprattutto funzioni giurisdizionali. A lui competeva l’emanazione dell’editto, in cui prospettava le procedure che avrebbe concesso, ad integrazione di quelle sancite dallo ius civile. Così a fianco dello ius civile si costituì lo ius honorarium, più duttile e creato dall’editto del pretore. Tale magistratura si venne costituendo anche per i rapporti tra cittadini romani e stranieri, con l’introduzione del praetor peregrinus, il quale fissava nel suo editto un certo numero di rapporti tipici con conseguenti iudicia, che finirono col costituire una sorta di diritto sovranazionale definito ius gentium. L’editto del pretore assunse rilevanza a partire dalla lex Aebutia che avviò un modello processuale molto più flessibile di quello delle legis actiones IL PRINCIPATO (dal 31 a.C. al 285 d.C.) La vittoria di Ottaviano ad Azio può essere assunta come una svolta epocale, che non avrebbe più permesso alla costituzione romana di ricomporsi secondo il tradizionale impianto repubblicano. Dopo la guerra di Modena nel 43 a.C. il triumvirato di Lepido Antonio ed Ottaviano aveva fatto emergere un nuovo organo di valore costituzionale, che basava la sua forza sull’unità del partito cesariano. La fine dei repubblicani a Filippi, aveva sancito una divisione del mondo fra Antonio e Ottaviano, mentre Lepido raccoglieva appena la provincia d’Africa, e Sesto Pompeo rimaneva in Sicilia. Fino al 27 a.C. Ottaviano fu munito di un comando straordinario, sulla base di una coniuratio Italiae e di un imperium maius in continuità con quello del triumvirato. A partire dal 27, Ottaviano rinunzia ai poteri straordinari, dichiarando di voler restituire la repubblica al popolo, e mantiene un imperium sulle province, oltre al consolato. Tale potere riguardava le province non pacificate, con esclusione di quelle senatorie e non era maius rispetto a quello dei proconsoli. Nel 23 a.C. Augusto rinunzia al consolato ottenendo la tribunicia potestas a vita, lo ius referendi in senato, e un imperium proconsolare. Due elementi sono significativi, il primo è costituito dai poteri che insistono e si concentrano sulla persona di Augusto. Il secondo consiste nella capacità di Augusto di stabilizzare le forze antagoniste, ponendosi come elemento di garanzia e di equilibrio, peraltro atteso, dopo anni di guerre civili. Le classi e gli ordini erano frazionati in gruppi che si contrastavano per il potere economico. Il partito augusteo era composto da ex cesariani irrequieti di conquistare spazi più ampi presso Augusto. Il potere reale era ora nel palazzo del Princeps, garante della vecchia facciata costituzionale. Lo sfondo economico e sociale non aveva subito mutamenti strutturali. Gli ordini tradizionali, senatori e cavalieri, subirono una profonda mutazione sociale. La trasformazione del principato in monarchia assoluta non avvenne d’incanto, in età severiana si vennero via via addensando intorno alla figura del princeps, funzioni e compiti propri degli organi repubblicani. Fu questa la strada che condusse al loro progressivo svuotamento di poteri e alla loro fine. La strategia istituzionale di Augusto fu infatti perseguita dai suoi immediati successori a volte con maggiore disinvoltura, a volte con calcolata prudenza. Con il rafforzarsi del potere del princeps, la sua volontà normativa acquista gradualmente valore di legge. Gaio individua tre tipi di costituzioni: Edicta – vengono emanati dal magistrato e contengono regole obbligatorie per tutti i sudditi Rescripta – sono risposte su argomenti di diritto a magistrati o a privati Decreta – sono decisioni giudiziali su controversie portate alla cognizione del principe, sia in prima istanza che in appello Mandata – sono istruzioni individuali indirizzate in particolare ai governatori e ai funzionari delle province L’organo più importante di governo, il senato, assume un rilievo maggiore, in quanto interagisce col principe. La legislazione comiziale tende a scomparire, sostituita dai senatusconsulta, che acquistano valore normativo. Il senato diventa organo giurisdizionale, luogo in cui si svolgono i processi, sempre più controllati dalla volontà principesca. La lex Iulia de maiestate del 27 a.C. conteneva dettagliate disposizioni per il crimen maiestatis, che divenne di competenza della giurisdizione penale senatoria. Nell’ambito di questo crimen, i membri del senato divennero soggetti e oggetti della giurisdizione criminale, in quanto molto spesso venivano incriminati gli stessi membri del senato. Con la constitutio Antoniniana del 212 d.C. Caracalla estese la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero, ad eccezione dei dediticii Aeliani e dei Latini Iuniani. Gli abitanti dell’impero, ai quali venne concesso questo beneficio, erano ormai dei sudditi, sottoposti al potere di un dominus. La Constitutio importò che il diritto romano fosse esteso a tutti, con la conseguenza che esso fu costretto ad adattarsi ai vari diritti locali. L’apparato amministrativo posto in essere durante il principato di Augusto è strettamente collegato, sul piano formale, con l’imperium proconsolare che gli attribuiva il comando sull’esercito e sulle province non pacificate. Le province senatorie furono affidate a proconsoli coadiuvati da questori. Le province imperiali, a legati Augusti pro praetore anch’essi ex pretori ed ex consoli. L’Egitto fu inibito ai senatori ed affidato a un praefectus Alexandriae et Aegypti di rango equestre. Venne inoltre istituito un praefectus urbi, di rango senatorio, cui fu affidata la cura della città e successivamente una giurisdizione criminale e civile. A questi fu aggiunto un praefectus annonae e un praefectus vigilum. Ambedue di estrazione equestre, avevano il compito di curare l’approvvigionamento della città e la sicurezza per gli incendi e la tutela notturna. Anche l’amministrazione finanziaria venne profondamente modificata, l’impianto augusteo creò una nuova serie di potenti burocrati. A fianco dell’amministrazione finanziaria senatoria, rappresentata dall’aerarium Saturni, si pose il fiscus Caesaris che si affermerà come patrimonio dello stato, mentre il patrimonium Caesaris può essere considerato la cassa della corona e la res privata Caesaris il patrimonio privato del principe. Gli elementi monarchici già affiorati nel regime di Cesare, accentuatisi nell’ultima età augustea, segnano soprattutto il tema della successione. Le dinastie che si successero a aprtire dalla morte di Auguso, quella giulio-claudia, quella flavia, degi Antonini e dei Severi, si estinsero quasi sempre in modo violento. Determinanti per la presa del potere furono il controllo delle forze militari e il consenso dei circoli aristocratici più potenti. Dopo il periodo dell’anarchia militare e con la presa del potere di Diocleziano, l’impero romano si avviò verso forme ordina mentali profondamente diverse dal passato. IL TARDO IMPERO E L’ETÀ BIZANTINA (dal 285 d.C. al 565 d.C.) Con Diocleziano si riscontra la tetrarchia. Quest’assetto coniugava insieme un sistema successorio dinastico con l’esigenza militare. Il controllo dell’impero era affidato a due Augusti e due Cesari. L’esigenza di un forte assetto militare diventa la maggiore delle preoccupazioni imperiali, cui seguono la ricerca di un controllo sulla successione, quella di un riequilibrio della situazione economica, e la persecuzione contro i cristiani. Tutto ciò ha indotto a riconoscere in Diocleziano il fondatore di una monarchia militare in una situazione di emergenza, realizzando così l’unità dell’impero. Furono inoltre attuate misure come quelle dell’ereditarietà della carriera militare, e quelle del calmiere sui prezzi, ma la conseguenza più grande dell’assetto tetrarchico fu quella di radicare nuclei di potentati sotto gli Augusti e i Cesari. Tutto ciò fu accentuato dal progressivo orientarsi dell’economia in un sistema chiuso. L’espansione del latifondo coincide con la diminuzione del numero degli schiavi e l’estendersi del colonato, con l’accentuarsi di un’economia di scambio dovuta alla progressiva riduzione dei traffici. L’assenza di una sede stabile per l’imperatore, fino alla fondazione di Costantinopoli, rese necessario un controllo mediante i prefetti del pretorio posti al seguito dell’imperatore. Ciò implicò l’estendersi dei loro poteri civili a scapito degli originari poteri militari. Si venne costituendo così un vasto apparato amministrativo e giudiziario costituito da figure che un tempo avevano avuto preminenti compiti militari. L’epoca della monarchia assoluta si inizia con l’ascesa al potere di Costantino. La base stessa del’investitura imperiale era costituita dal consenso militare, che a sua volta era a fondamento di un potere imperiale militare- burocratico, cui si aggiunse il consenso della Chiesa. Ma l’elemento caratterizzante la monarchia assoluta stava nel fatto che tutti i poteri erano ricondotti all’imperatore e alla sua volontà. Un altro elemento che caratterizza l’epoca della monarchia assoluta è la connessione fra una concezione unitaria dell’impero e al contempo la sua articolazione in partes o sedes di esso. L’assetto economico e costituzionale di quest’epoca è influenzato da diversi dati strutturali. Essi consistono nell’articolarsi dei centri di potere imperiali, nell’accentuarsi del latifondo, in apparati burocratici sempre più complessi e, al contempo, incapaci di radicarsi nell’amministrazione. Infine, il diffondersi del cristianesimo costituisce un ulteriore elemento di contrasto sociale. L’istituzione della tetrarchia inflisse un colpo decisivo all’unità territoriale dell’impero. Metodi di nomina e di successione, associazione nel potere, correggenza, sono forme che rivestono una realtà nuova, rapidamente appresa da tutti i popoli dell’impero. La divisione territoriale implicò una diversità profonda fra l’idea unitaria dell’impero e la realtà. La grandezza territoriale dell’impero implicava l’esistenza di latifondi sia privati che imperiali. In essi s’innesta il fenomeno del colonato, che è in stretto rapporto col diminuire del numero degli schiavi. Ciò cominciò a formare un’economia terriera chiusa e orientata sugli scambi in natura, dovuti anche alla difficoltà e alla pericolosità delle comunicazioni. Il rapporto del colono col signore era dunque di reciproca utilità. La trasformazione di associazioni in collegia obbligatori e vincolanti è una caratteristica spiccata della trasformazione strutturale dell’economia e delle libertà nel basso impero e costituisce no dei fondamenti dell’impianto sociale ed economico dell’età medievale. Dal punto di vista religioso, l’imperatore unisce in se modelli cristiani e modelli pagani. La religione pagana era pur sempre quella delle classi dominanti, e il cristianesimo era una religione di minoranza. Nel momento in cui l’impero fece la sua scelta di campo, con la conversione di Costantino, esse si trovarono coinvolte in una crisi di autorità e di valori profonda. La vittoria di ponte Milvio e l’editto di Milano segnano l’irrompere della religione nella politica. Questo è un fenomeno nuovo e inusitato, poiché nella storia di Roma non vi erano mai state lotte di religione. Ora invece, a ponte Milvio, il dio dei cristiani aveva mostrato tutta la sua potenza contro i seguaci degli Dei. Gli emblemi pagani venivano distrutti o acquisiti al patrimonio imperiale. La repressione delle eresie, che avrebbero potuto incrinare il peso della chiesa rispetto all’imperatore, fu decisa quanto spietata. La scelta di Costantinopoli come nuova capitale dell’impero si giustificava anche come ossequio all’Oriente, dove maggiore era il numero e il peso dei cristiani. Ora l’impero era veramente diviso in due, con due senati. L’Occidente veniva abbandonato al suo destino. La forza della chiesa si tradusse ben presto nell’assorbire l’imperatore all’interno di essa e nell’esigere l’uso del braccio dello stato per eliminare definitivamente il paganesimo da un lato, e le eresie dall’altro. Le nuove forme di organizzazione del lavoro nascono per cause diverse, come il colonato, ricondotto alla diminuzione del numero degli schiavi e la conseguente riduzione della mano d’opera servile, o le corporazioni di mestieri, nate per mutua assistenza e ben presto diventate un vincolo assai oneroso per coloro che esercitavano le varie forme di lavoro. La legislazione stessa accentuò un processo di radicamento di forme organizzative chiuse, capaci a loro volta di costituire forme di pressione sull’ordinamento, scardinandolo al contempo nelle sue stesse basi produttive tradizionali. Ciò accentuò il fenomeno dell’economia di scambio rispetto alle attività mercantili sviluppate da ceti non vincolati a ordini e corporazioni e provocò inoltre un ristagno produttivo dovuto all’accentuarsi della pressione fiscale centrale e dalle pretese dei signori sui loro sottoposti. LA GIURISPRUDENZA ARCAICA Nel mondo antico, la storia della giurisprudenza romana è stata scritta da Sesto Pomponio, attivo nel secondo secolo d.C., negli anni del principato adrianeo.antonino, autore di un manuale, l’Enchiridion, conservato nel Digesto giustinianeo. L’opera di Pomponio illustra ogni nuovo momento del costituirsi di quelle partes iuris che comprenderanno il catalogo delle fonti del diritto dalle origini al principato. All’interno di questo catalogo, risalta la funzione dell’interpretatio giurisprudenziale come uno degli elementi costitutivi dell’ordinamento giuridico romano. Il nucleo originario identificato da Pomponio è costituito dalla legge delle XII tavole, dall’interpretatio e dalle legis actiones, ricomponendo uno schema elaborato, molti secoli prima, nei Tripertita di Sesto Elio. Diritto, giurisdizione, giuristi hanno una relazione funzionale che afisce su un nucleo propulsivo del diritto. La visione pomponiana è dunque una visione dinamica, il cui punto finale è costituito dalla constitutio principis, come esito necessario delle mutate esigenze della società. Il collegio pontificale assume il controllo di ogni attività religiosa, storica e giuridica insieme. In ciascuno di questi tre profili i pontefici si pongono come depositare di un sapere tecnico. Come esperti di cose religiose essi incidono sulla vita pubblica e sulle istituzioni. Come storici registrano sulle loro tabulae gli avvenimenti più importanti della città. Infine, come esperti di diritto, hanno il monopolio del diritto privato. La triade operativa del collegio in questo campo è indicata con i verbi respondere, cavere, agere che, presuppongono la loro intima connessione. Il responso è la risposta su un qualsiasi quesito giuridico che il cittadino rivolge al collegio pontificale. Esso nasce nel segreto dell’organo e viene reso pubblico da uno fra i pontefici che veniva delegato a comunicare con la città. Il responso pontificale è orale, autoritario e immotivato. Gli altri due aspetti della triade indicano, rispettivamente, le forme di allestimenti di schemi negoziali e processuali. LA GIURISPRUDENZA REPUBBLICANA Nel corso del III secolo a.C. si afferma un ceto di giuristi laici. A Sesto Elio si deve l’esordio scientifico di questa giurisprudenza. Questo nobile plebeo compose un libro il cui titolo era Tripertita, in cui aveva sistemato il testo delle XII Tavole, la relativa interpretatio e le legis actiones. Pomponio premette, alla descrizione dell’opera eliana, il ricordo del fatto che Sesto Elio era stato citato anche da Ennio. Questo ricordo trova un puntuale riscontro nel decimo libro degli Annales enniani in cui leggiamo, appunto, le parole Egregie cordatus homo, catus Aelius Sextus. Se Ennio celebrava Sesto Elio, questi da parte sua non mancava di ricambiare la cortesia. Apprendiamo dal De re publica che Sesto Elio, polemizzando con gli interessi astronomici di Sulpicio Galo, andava ironicamente recitando i versi dell’Ifigenia enniana e sosteneva inoltre di preferire Ennio a Pacuvio. Con Sesto Elio il processo di laicizzazione del diritto si realizza con l’interpretazione delle norme decemvirali, a partire dal secondo secolo a.C. la giurisprudenza si venne costituendo come autonoma creatrice di diritto, disancorandosi dal dato normativo decemvirale. Il ceto di giuristi che fu attivo da allora, fino all’età augustea, si manifesta come ceto di honoratiores. I giuristi romani non esercitavano la loro professione per vivere, essi erano in grado, con i loro mezzi economici, di perseguire lo studio del diritto senza grandi problemi esistenziali. Bisogna attendere il principato perché essa venga sostituito da tecnici del diritto, che affideranno solo all’altissimo livello della loro cultura giuridica il fondamento del loro prestigio sociale. L’autonomia della giurisprudenza si realizzò con l’opera di una triade di giuristi che Pomponio definisce fondatori del diritto civile, Mucio Scevola, Giunio Bruto, Manio Manilio. L’esercizio della tecnica giurisprudenziale, che si manifesta attraverso il respondere, cavere, agere trova in questi tre giureconsulti la sua espressione canonica. Il cavere e l’agere mostrano la capacità di costruire schemi negoziali e forme processuali, il rispondere è il momento più alto della creazione giuridica, definito come arte laconica. È attraverso il responso che i giuristi creano o modificano il diritto. si arricchì delle Institutiones e l’attività legislativa giustinianea proseguì fino alla morte di Giustiniano, attraverso l’emanazione di Novellae che contengono costituzioni in greco e in latino. DIRITTO PRIVATO ROMANO I diritti dei patres La familia è segnata dall’indiscussa supremazia del pater familias. Il pater familias si presenta come capostipite, il suo potere consiste nella potestas esercitata sui figli e sui nipoti a lui sottoposti. La qualifica di pater familias deriva dall’assenza di sottoposizione a vincoli potestativi. Essere biologicamente padri, non vuol dire essere pater familias se si ha a propria volta il pater ancora in vita e non si è ancora usciti dalla sua potestas. Sono indispensabili per l’esercizio della patria potestas il sesso maschile e l’appartenenza alla comunità quiritaria. La signoria del pater assume diversi significati a seconda delle persone o delle cose su cui vada ad esercitarsi: Patria Potestas – sui figli e sui loro discendenti Manus Maritalis – sulla moglie Dominica Potestas – sui servi Dominium – su cose o animali La familia romana è caratterizzata da un vincolo coniugale esclusivo e monogamico, ossia da una forma di sodalizio codificato tra marito e moglie, fondato sulla preclusione di rapporti sessuali promiscui da parte della sposa. La repressione dell’adulterio femminile, appare collegata all’esigenza di assicurare la certezza della prole e quindi la trasmissione dei beni e dei diritti post mortem, di padre in figlio. Alla morte del pater familias la familia si dissolve e al suo posto sorgono nuove familiae, una per ciascuno dei figli maschi del defunto, che diventano automaticamente patres familias. Ciascun filius acquista potere sulle persone e sui beni già precedentemente riconducibili alla sua persona, mentre i beni in comune vengono divisi in parti uguali tra i successori. I poteri del pater erano considerati erga omnes, in quanto riconosciuti e tutelati non solo nei confronti dei sottoposti, ma anche di tutti i membri della comunità. Ma non erano poteri infiniti e incondizionati, dal momento che incontravano il proprio limite nel rispetto della sfera di influenza degli altri patres. Lo ius civile vetus fu uno strumento di armonizzazione tra diverse forme di sovranità, un meccanismo di definizione concordata dei confini di ciascuna di esse. Le facoltà del pater familias possono essere divise innanzitutto in due grandi categorie, i poteri esercitati sulle cose e sugli animali, e quelli esercitati sulle persone. Dopo le campagne militari del III sec. a.C. e II sec. a.C. si consolidò una forma di titolarità sull’ager Italicus, sulle res, e sugli animali chiamata dominium ex iure Quiritium, che garantiva il godimento esclusivo anche di nuovi beni non compresi nell’antico mancipium in quanto non esistenti o non oggetto di rilevante interesse economico nell’età precedente. Significativa la distinzione tra le res mancipi e le res nec mancipi, furono fatti rientrare nella prima categoria tutti quei beni che essendo stati attribuiti in titolarità in forza dell’antico mancipium conservarono anche in seguito un regime di disposizione solenne e formalistico, mentre al secondo gruppo furono ascritti tutti quei nuovi beni che, non avendo interessato il mancipium e le modalità di scambio per esso adoperate furono considerati cedibili e acquistabili secondo il più elastico sistema permesso da dominium ex iure Quiritium. Tra le res mancipi furono fatte rientrare le servitutes praediorum, che non erano delle situazioni giuridiche particolari, qualificate come diritti di godimento di cose altrui. Si tratta di quei particolari rapporti in forza dei quali a un soggetto, titolare di un fondo, viene garantito il diritto di attraversare o di ricavare qualcosa dal terreno vicino, indipendentemente dal consenso del titolare di questo, per soddisfare alle necessità della propria unità terriera. Simile agli iura praediorum era l’ususfructus, ovvero il diritto di godere e sfruttare un bene di un altro soggetto senza alterarne la natura e la destinazione economica. Ma, a differenza delle servitutes, il suo esercizio poteva essere solo a tempo determinato e, non poteva mai andare al di là della vita dell’ususfructuarius. Per quanto riguarda i poteri del pater familias sulle persone, la patria potestas e la manus maritalis esercitate dal capofamiglia, rispettivamente su filii e nepotes ex filio e sulla uxor in manu, lo vedevano unico titolare di tutti i beni del nucleo familiare della vita o della morte dei sottoposti. La patria potestas e la manus maritalis vengono descritte come poteri di grande assolutezza, tanto da coincidere praticamente con la dominica potestas. Assimilati ai filii familias erano i liberi in mancipio, originariamente appartenenti ad altre familiae che venivano assoggettati alla potestas del pater familias a seguito di un acquisto da un altro pater, tramite mancipatio. La donna restava sottoposta alla patria potestas dell’originario pater familias fino al momento in cui era chiamata ad entrare in forza di matrimonio in un altro nucleo familiare, per diventare quindi nuovamente sottomessa come una filia familias, a una nuova forma di signoria detta manus maritalis. Quanto al potere esercitato sui servi, le fonti fanno riferimento alla situazione di soggezione in cui versano i debitori insolventi, la cui categoria sarebbe stata assimilata a quella degli schiavi. Una lex Poetelia Papiria de nexis, del 326 a.C. eliminò le possibilità di esecuzione personale per debiti stabilendo che i debitori assoggettati dovessero pagare con i propri beni o con il proprio lavoro, ma non fossero più sottoposti a ius vitae ac necis. Lo ius civile vetus oltre a disciplinare i contenuti dei vari poteri attribuiti ai patres familias fu anche chiamato a definire la loro modalità di acquisto e di trasmissione. Spesso si riteneva che i diritti nascessero in modo automatico a seguito di un incremento naturale del numero dei componenti della familia e dei beni economici ad essa afferenti. Per quanto riguarda i poteri esercitati sulle cose, sugli animali e sulle servitù si era andata cristallizzando una forma di alienazione, detta mancipatio, atta a trasferire dei beni dal mancipium di un soggetto a quello di un altro, il quale in cambio della res, cedeva all’alienante del metallo che veniva pesato al momento dello scambio. La secolare reiterazione di tali gesti portò alla definizione di un rituale di scambio codificato, secondo il quale la vendita doveva avvenire necessariamente alla presenza dell’alienante e dell’acquirente, oltre che di un soggetto deputato a pesare il metallo su una bilancia, e di cinque cittadini in funzione di testimoni. Altra antica forma di alienazione fu la in iure cessio, consistente in un processo fittizio, riconosciuto anche dalle XII tavole, nel quale l’acquirente mostrava di rivendicare come propria la res e il magistrato, di fronte alla mancata resistenza dell’alienante, dichiarava accertata in iure la nuova titolarità. Nell’età mercantile vi è un forte ampliamento del numero delle persone giuridicamente attive, ciò fu dovuto soprattutto alla forte espansione del commercio, facendo diventare i filii familias e le uxores protagonisti a far muovere la grande ruota mercantile. Per quanto riguarda le donne, il matrimonium cum manu venne progressivamente abbandonato a favore di forme di unione consensuale non segnate dalla pesante sottoposizione dell’uxor a manus maritalis. Per evitare che attraverso l’usus continuato dell’uxor, il marito acquistasse a norma di ius civile, la manus maritalis, si affermò la prassi di interrompere ogni anno per tre giorni la coabitazione. La moglie in tal modo non perdeva le eventuali aspettative ereditarie nei confronti del nucleo familiare di origine, conservando il personale status familiae. Riguardo ai filii familias, l’incremento delle emancipationes fece in modo che un numero crescente di sottoposti si svincolasse dalla patria potestas prima della morte del pater familias. Ma pur sottoposti alla patria potestas, i filii familias giocarono un ruolo di primo piano nel mondo degli affari, venendo a loro riconosciuta una volta raggiunta l’età della ragione, una piena capacità di compiere atti giuridici. I patres familias iniziarono ad usare i filii come veri e propri soci nelle attività commerciali, preponendoli a realizzare affari per l’azienda di famiglia. Si diffuse inoltre l’usanza di lasciare al filius la libera administratio su una parte del patrimonio detta peculium, che restava sempre di proprietà del pater ma della quale il filius poteva disporre in completa autonomia. L’importanza del peculium fu notevole perché permetteva una separazione del patrimonio paterno in diversi comparti, in modo che se un pater avesse voluto aprire un nuovo punto vendita, ma senza mettere a rischio l’intero capitale, gli sarebbe bastato preporre all’emporio un filius, assegnandogli un certo peculium, in modo che un eventuale fallimento della nuova attività non si sarebbe ripercosso sull’azienda madre. Nel sistema mercantile i rapporti negoziali trovano un nuovo fondamento nei concetti di fiducia e bona fides. Tali valori esprimono la necessità per cui non essendo possibile conoscere personalmente le proprie controparti è necessario presumere una comune buona fede contrattuale. La fiducia e la bona fides possono risultare malriposte in taluni casi ma è un prezzo da pagare di fronte al superiore interesse del complessivo dinamismo imprenditoriale. Si afferma così come protagonista il ruolo della libera volontà dei contraenti, è quindi la voluta a muovere il mercato e a determinare gli effetti negoziali. Sarà il semplice incontro di due voluntates a determinare la conclusione del negozio e la nascita dei suoi effetti obbligatori. Le forme vincolate alla base delle obligationes contractae continuano a essere ritenute necessarie per la realizzazione di determinati scopi, ma il sistema dello ius civile chiede di essere affiancato da regole di gioco diverse, fondate sulla fiducia e sulla volutas, secondo le quali le obligationes non nasceranno più soltanto re, verbis e litteris, ma anche consensu, ossia dal libero accordo tra i contraenti. La giurisprudenza romana elaborò quattro figure di contractus: Emptio-Venditio – si intende quell’accordo secondo cui la parte venditrice si impegnava a consegnare un certo oggetto alla parte acquirente, la quale a propria volta si obbligava a corrispondere un determinato pretium pattuito. Locatio-Conductio – si intende quell’accordo che prevede la consegna di qualcosa da un contraente all’altro e il versamento di un corrispettivo. Per locator, si intese chiunque mettesse a disposizione di altri una cosa o una persona per un determinato obiettivo economico, mentre era detto conductor colui che tenesse, in base all’accordo contrattuale, la cosa o la persona presso di se per lo scopo stabilito. Socìetas – la societas consensu contracta rappresentò la forma negoziale più tipicamente funzionale alla logica mercantile, attraverso la quale più soggetti, decidendo di diventare socii, mettevano insieme le proprie risorse per concludere insieme determinati affari. La societas era un contratto tipicamente bonae fidei, in quanto costituito sulla fiducia riposta nei soci. Qualora uno dei soci ritenesse di essere stato frodato, aveva a disposizione un’azione giurisdizionale detta actio pro socio. Mandatum – diede veste giuridica a tutti quegli accordi con i quali un soggetto incaricava un altro individuo di svolgere una certa mansione, nell’interesse di chi dava l’incarico, di un terzo, o anche di chi lo riceveva, purchè il beneficio di questo fosse non esclusivo, ma in comune con un altro soggetto. Il mandatarius aveva diritto a vedersi risarcite le eventuali spese sostenute per l’assolvimento del compito e il mandator poteva pretendere lo svolgimento dell’incarico. L’istituzione del praetor peregrinus nel 242 a.C. rappresentò il riconoscimento ufficiale di una nuova forma di giurisdizione, detta per formulas, o anche per concepta verba, atta a garantire il rispetto della correttezza contrattuale. Tale nuova procedura ebbe il suo tribunale dapprima nell’ufficio del pretore peregrino, dopo anche in quello del praetor urbanus. Il ruolo dei pretori peregrino e urbano fu essenziale nel ritualizzare e consolidare la nuova procedura giurisdizionale. Furono gli operatori commerciali a stabilire, attraverso un costante lavoro di confronto, in che modo la buona fede contrattuale dovesse essere processualmente tutelata. Anche la procedura formulare, come le legis actiones, prevedeva una suddivisione del processo in due segmenti. In una prima fase, in iure, i due contendenti, attore e convento, esponevano in piena libertà le proprie argomentazioni al magistrato giusdicente, il quale, senza entrare nel merito delle ragioni, schematizzava la sintesi della controversia in una apposita formula. Tale formula veniva trasmessa a un iudex o arbiter privatus, incaricato di valutare in una seconda fase apud iudicem, quale delle due posizioni risultasse più credibile. Le legis actiones coesistettero a lungo con la procedura per formulas, ma furono poi abbandonate. Una lex Aebutia de formulis rese irreversibile la scelta delle formulae da parte di chi avesse deciso una volta di contendere per concepta verba, stabilendo che questi non potesse più esperire per la stessa questione, le legis actione e la lex Iulia iudiciorum privatorum, con cui Augusto riorganizzò il sistema processuale privato, non contemplò più la vecchia procedura. Nel fluido ed aperto sistema mercantile, divenne presto la regola che gli accordi economici venissero conclusi da soggetti che non figuravano personalmente titolari dei diritti negoziati ma che agivano a vario titolo, per un altrui interesse. Frequentemente accadeva che un operatore economico incaricasse della conclusione di uno o più affari un’altra persona. Se ciò avveniva a titolo di mandatum, il contraente poteva pretendere dal mandatario il rispetto degli accordi assunti, spesso però accadeva che fossero preposti a tali contratti i filii familias o servi, i quali risultando privi di patrimonio non permettevano una fruttuosa azione di risarcimento nei loro confronti. Poteva accadere che un filius familias si obbligasse contrattualmente, facendo riferimento a un’autorizzazione o a un diretto interesse del proprio avente potestà, la controparte, in caso di inadempimento, avrebbe potuto convenire in ius il figlio stesso, accusandolo della sua mancanza, ottenendo anche una sentenza di condanna ma senza ricavarne beneficio pratico. La soluzione fu trovata in una sorta di manipolazione della formula, nella quale all’ipotesi di responsabilità del figlio contraente, nominato nell’intentio corrispondeva, nella condemnatio, un invito a condannare non già il figlio debitore, ma il suo pater familias, titolare dell’interesse e del patrimonio. Abbiamo così un’actio de peculio et de in rem verso, con la quale il padre o il dominus venivano condannati nel caso avessero messo un peculium a disposizione del sottoposto, e nei limiti del suo ammontare, oppure nel caso avessere tratto un beneficio economico dal negozio sempre nei limiti di tale arricchimento; un’actio quod iussu, che permetteva la condanna dell’avente potestà per quei negozi la cui conclusione fosse stata da lui esplicitamente ordinata o autorizzata; un’actio institoria, per mezzo della quale il pater o il dominus risultavano responsabili dei debiti assunti dal sottoposto da loro preposto all’amministrazione di un esercizio commerciale; un’actio exercitoria, nel caso l’avente potestà, titolare di una imbarcazione ne avesse affidato il comando al filius o al servus, avallandone così implicitamente i futuri impegni contrattuali. Un altro cambiamento essenziale intervenuto nella società romana, fu l’estensione della tutela delle forme di appartenenza. Nell’età rurale, la regola era che a godere dei beni fosse lo stesso soggetto titolare. Il pater familias risiedeva normalmente sulla propria terra, sfruttava i propri attrezzi, distribuiva i prodotti tra i membri della familia. Se un oggetto cambiava di titolarità, la comunità doveva essere informata, e infatti gli atti traslativi di mancipium erano pubblici. L’uso di res mancipi da parte di individui non proprietari delle stesse, era praticato ma non su larga scala e sul tacito presupposto di una presa d’atto dell’avvenuto prestito da parte della collettività. Nei secoli dell’economia commerciale, si imposero al centro dell’interesse economico e giuridico, le res nec mancipi, che, pur non soggette ai vincoli formalistici del mancipium comprendevano spesso beni ritenuti di altissimo valore, che chiedevano un adeguato riconoscimento sul piano del diritto. In secondo luogo, la circolazione dei beni e delle persone, e il passaggio dalla cerchia chiusa della comunità dei patres al grande spazio del mercato internazionale del mare nostrum, fece apparire normale uno sganciamento del godimento dei beni dalla titolarità giuridica degli stessi. Gli interdicta erano degli ordini o divieti, impartiti dal pretore dopo una summaria cognitio, affinchè fossero immediatamente interrotte le turbative portate al godimento di un possesso o fosse ripristinato il possesso arbitrariamente interrotto o anche fosse dato inizio a un possesso non ancora praticato. Il destinatario dell’interdetto poteva anche disattendere l’ordine del pretore ma, il beneficiario avrebbe potuto esperire una successiva actio ex interdictio, a seguito della quale l’avversario, se soccombente, sarebbe stato condannato in modo aggravato, tanto per aver arrecato il turbamento quanto per aver disubbidito al pretore, la giurisprudenza andò delineando le caratteristiche di una possessio iusta, meritevole della tutela interdittale, stabilendo che, per essere iusta, la possessio non dovesse essere inficiata dai vitia possessionis, e non dovesse cioè essere condotta vi, clam, precario, ovvero da violenza, di nascosto, temporaneamente. Giuristi e pretore reputarono che due anni di possesso ininterrotto, per i beni immobili, e un anno per i beni mobili, giustificassero l’acquisto del dominium a titolo di usucapio, quando all’origine del possesso stesso vi fosse una iusta causa. Un altro terreno importante su cui intervenne il pretore fu quello delle successioni mortis causa. Secondo le XII tavole erano eredi, tra i figli, soltanto quelli che, al momento della morte del de cuius, fossero ancora sottoposti alla sua patria potestas, quindi il figlio emancipato non poteva godere della hereditas. Tale regola però apparve anacronistica nell’età successiva, quando i sottoposti venivano emancipati per poter collaborare col pater familias. La soluzione fu trovata attraverso l’autorizzazione, data dal pretore al figlio emancipato, ad avere in possesso i beni del defunto con la protezione della tutela interdittale e la prospettiva dell’acquisto per usucapione. Si parlò quindi di bonorum possessio sine tabulis, in quanto concessa in assenza di tabulae testamentarie. Il pretore, articolò la bonorum possessio sine tabulis in quattro ordines di soggetti chiamati a godere dei beni del de cuius: Ordo Unde Liberi – che comprendeva tutti i figli liberi del pater nel godimento dei beni Legitimi – gli stessi successori indicati dallo ius civile, ovvero, sui agnati e gentiles Cognati – tutti gli altri parenti di sangue sia di madre che di padre Vir o Uxor – coniuge superstite Fu anche garantita una bonorum possessio contra tabulas ossia in presenza di un testamento, il cui contenuto veniva corretto, così come un bonorum possessio secundum tabulas, che sanava un difetto formale del testamentum. Il bonorum possessor non diventava erede sul piano dello ius civile, ma la sua posizione era oggetto di tutela tanto da poter prevalere sui diritti degli stessi heredes iure civili. L’attività del pretore diede protezione a una vasta serie di interessi, per acquistare validamente una res mancipi, continuavano a essere necessarie, ai sensi dello ius civile, mancipatio o in iure cessio, ma chi non lo avesse fatto poteva comunque in bonis haber, venendo a trovarsi, in una situazione analoga a quella del proprietario. Dato che il praetor fu il principale promotore di tale processo innovativo, si parlò di ius honorarium. Con tale espressione viene indicato il complesso di strumenti messi in atto dal pretore per permettere di tutelare una situazione o di conseguire un obiettivo non considerati dallo ius civile. Ma il cambiamento più radicale intervenuto nel mondo romano fu la rapida affermazione del fenomeno della schiavitù. L’origine dell’asservimento personale, nell’età del regnum e nei primi secoli della res publica, dovette consistere nella sottoposizione dei debitori insolventi, in qualità di nexi o addicti, alla potestà dei creditori che avrebbero potuto usarne la forza lavoro ai fini di ripagamento del debito. Dopo la conquista della Magna Grecia, e dopo il conflitto con Cartagine per il controllo della Sicilia, l’afflusso nella penisola italica di prigionieri di guerra assunse rapidamente ingenti proporzioni. Così l’economia romana divenne essenzialmente servile e la mano d’opera schiavistica assurge a motore fondamentale della coltivazione agricola, delle costruzioni edili e navali ecc. È possibile schematizzare quattro conseguenze principali della trasformazione dell’economia repubblicana in senso schiavistico. La prima conseguenza fu un forte balzo in avanti delle generali capacità di produzione grazie all’inesauribile materia prima della forza lavoro servile a basso costo. La seconda conseguenza fu lo sviluppo del latifondo e l’inarrestabile tendenza alla concentrazione della ricchezza in poche mani, infatti l’economia schiavistica era tendenzialmente oligopolista dato che lo sfruttamento servile imponeva delle spese fisse tanto più sopportabili quanto più alto risultasse il numero di schiavi impegnati in una singola unità lavorativa. Terzo effetto dell’affermazione del lavoro servile fu la creazione di un’ideologia negativa del lavoro fisico, che venne considerato appannaggio naturale degli schiavi, inadatto agli uomini liberi. Una quarta conseguenza fu un’accentuata caratterizzazione della società romana come realtà multietnica e multiculturale, infatti gli schiavi entrati nel territorio, una volta affrancati avrebbero acquistato la cittadinanza romana comportando la trasformazione della repubblica in senso universale e cosmopolita. Nel linguaggio giuridico l’espressione dominica potestas veniva adoperata per indicare il potere del padrone sullo schiavo. Fino a quando rimane in potestate del suo dominus, lo schiavo è nel completo potere di questo che può usare della sua vita a proprio piacimento anche sopprimendola. Sul piano giuridico i contenuti della dominica potestas sono gli stessi della patria potestas ma si differenziano sul piano dell’effettività. Infatti per quanto riguarda lo ius vitae ac necis, tale potere fu rifiutato dalla coscienza sociale verso i filii, ma non verso i servus. Erano praticati nei confronti dei servi dei trattamenti umani e ragionevoli, atti a farli lavorare più volentieri e con maggiore rendimento, per valorizzare al massimo tale prezioso e costoso strumento produttivo. Al servo venivano attribuite delle somme, sotto forma di peculium servile, sulle quali, di fatto, gli veniva lasciata libertà di gestione, che gli veniva consentito di contrarre una specie di matrimonio, addirittura a volte di avere al proprio servizio anche schiavi di secondo grado, i servi vicarii. Inoltre non veniva negata al servo la capacità di agire contrattualmente e gli si riconosceva l’attitudine ad assumere obbligazioni per conto del dominus e anche nell’interesse proprio. Gli iura populi romani Il principato trovava nell’autorità del Principe e del Senato, il suo punto di naturale equilibrio. Il principato rappresentò il tentativo di affiancare nelle pax Romana un insieme di nazioni che conservarono amplissimi margini di autonomia. L’idea monarchica trovò un fondamentale supporto propagandistico nella letteratura religiosa ellenistica ed ebraica, e un apposito collegio sacerdotale dei quindecemviri sacris faciundis. Il termine provinciae, con cui furono indicate le varie nazioni conquistate dall’impero, stette a sottolineare il dato della soggezione politica al potere imperiale, la realtà della persistenza di una specifica autonomia nazionale. Le istituzioni repubblicane furono chiamate a svolgere una nuova funzione di tipo universale, al servizio di un ordine mondiale inteso come unità del genere umano. Il diritto della res publica Romanorum doveva diventare un diritto universale, riuscendo a recepire le istanze di tutte le genti, per costruire un mondo unito. Gaio, all’inizio dei suoi commentarii elencò quelli che definì gli iura populi Romani, attraverso i quali Roma intendeva governare il mondo. Un sistema di fonti articolato e pluralista, teso a creare, ordinare ed elaborare diritto per tutte le nazioni dell’impero. Tra i vari iura populi Romani menzionati da Gaio, al primo posto figura la lex publica, ossia lo ius scaturente dalla volontà espressa dal popolo romano. Fu la lex publica ad assolvere una funzione di tipo costituente, andando in Una prima modalità fu nella desuetudine, diversi istituti civilistici vennero a essere definitivamente accantonati pur non essendo mai stati abrogati. Il secondo criterio di modifica fu quello delle innovazioni apportate dalle constitutiones imperiali, attraverso le quali il sovrano andava a definire le nuove linee di condotta, adatte alla mutata realtà dei tempi. Inoltre, accanto alla corte imperiale anche la Chiesa tende a svolgere un attività di tipo normativo. Ed in determinate circostanze i canoni dei concili ecclesiastici furono recepiti e applicati come delle forme di comando vincolante. Abbiamo poi un sistema di riforma occulto, consistente nelle interpolazioni apportate dai compilatori dei Digesta. Quando ciò avveniva, lo scritto veniva presentato come frutto di un pensiero formulato diversi secoli prima. Il quinto e ultimo modo attraverso cui furono introdotte le riforme del diritto privato fu quello della redazione di alcune raccolte di scritti giurisprudenziali, come ad esempio una raccolta di passi dei giuristi severiani Paolo, Ulpiano e Papiniano, intercalati da alcune costituzioni imperiali. Le modifiche andarono a interessare sia la pars Occidentis che la pars Orientis dell’impero. Le leggi devono essere interpretate ed applicate alla luce di nuovi valori etici, quali la benignitas, la pietas, la benevolentia, la misericordia, intesi alla luce dello spirito evangelico. Questi enunciati sortirono l’effetto di oscurare il principio della certezza del diritto, sacrificato per il perseguimento della benignitas e della clementia. Le varie forme di appartenenza reale vengono fuse in un unico tipo di proprietà, e la distinzione tra res mancipi e nec mancipi cade in desuetudine, per poi essere formalmente abolita da Giustiniano. Scompare la mancipatio e quanto alla sua applicazione in funzione testamentaria, essa viene a essere sostituita da un nuovo testamentum, detto tripertitum, per il quale viene richiesta la presenza di sette testimoni e della forma scritta. Scompare l’istituto della tutela mulierum e, accanto alla tradizionale adoptio si afferma una nuova forma di adozione in virtù della quale l’adottato acquista unicamente il diritto a succedere mortis causa all’adottante, senza perdere l’autonomia giuridica se sui iuris, o i legami con la famiglia di origine se alieni iuris. Nel campo negoziale acquista sempre maggiore rilievo l’elemento della volontà, e si accrescono le possibilità di contestare la validità dell’atto negoziale per presunte discordanze tra le dichiarazioni esteriori e le intime intenzioni dei contraenti. I principi della reciprocità e dell’equilibrio nella trattativa contrattuale, sono offuscati dal fatto che i soggetti giuridici vengono gerarchicamente suddivisi, a seconda del rango sociale in diverse categorie, honestiore o humiliores, che incidono sensibilmente sulle posizioni e le garanzie delle parti, facendo si che il soggetto di status inferiore possa difficilmente contrastare il volere della controparte di livello più elevato. Nel campo dei comportamenti familiari, la nuova etica cristiana viene fatta propria da svariate leggi, volte a promuovere i valori della virtus, della castitas, della pudicitia, del pudor, della verecondia. Il matrimonio acquista nel nuovo clima ideologico un valore nettamente sacramentale di nexum divinum. Il legame nuziale tende a trasformarsi in un vincolo indissolubile, e il requisito della perdurante affectio maritalis viene sostituito dal valore del consensus iniziale, reso irreversibile attraverso la trasformazione del contratto in sacramentum. Viene contrastata la possibilità di divortium, sono abrogate le disposizioni della lex Iuliae de maritandis ordinibus che spingeva al matrimonio anche i vedovi. Nei confronti del concubinato la Chiesa e il legislatore imperiale assumono un atteggiamento ambiguo, da una parte scoraggiandolo in vari modi, dall’altra, in base a una realistica accettazione dell’esistente, cercando di dare a esso, una qualche forma di riconoscimento promuovendone lo sbocco verso le iustae nuptiae e salvaguardando comunque il principio monogamico. Quanto alla patria potestas i suoi contenuti sbiadiscono fortemente, questo tende a essere interpretato alla luce di un’etica cristiana, e i rapporti regolatori tra padre e figlio vengono completamente riformulati, non solo viene praticamente a scomparire qualsiasi forma di ius vitae ac necis, l’aspetto fisicamente coercitivo della potestà patriarcale ma anche i suoi effetti patrimoniali vengono a essere notevolmente ridimensionati. Per quanto riguarda la schiavitù è molto dibattuta l’influenza che sarebbe stata esercitata sull’istinto della cultura e della legislazione cristiana, che avrebbe fortemente accelerato il processo di dissoluzione dell’antico sistema servile. La diffusione della dominica potestas, a seguito dei grandi eventi strutturali del terzo secolo, si era fortemente ridotta. In seguito vengono propagandati in nome dell’etica cristiana i valori dell’humanitas e della pietas nel trattamento degli schiavi, e che continuano a essere favorite le manomissioni, ma è anche vero che l’istituto schiavistico non viene mai messo in discussione e che i padri della chiesa condannano aspramente la fuga del servus, ordinando che il fugitivus sia riconsegnato al padrone e severamente punito. La schiavitù si era ridotta prima dell’affermazione della nuova religione per ragioni esclusivamente economiche. Sul piano processuale le cognitiones imperiali, assicurano l’espletamento della giurisdizione civile seguendo criteri alquanto mutevoli e diversificati, attraverso un metodo inquisitorio che lasciava allo iudex ampia discrezionalità nell’organizzazione del processo e nella ricerca dei mezzi di prova. La differenza tra honestiores e humiliores si faceva avvertire fortemente anche nelle cognitiones. La giurisdizione ecclesiastica era retta dai principi dell’aequitas e della lex cristiana, alla cui luce sarebbe stata risolta la controversia. Essa ebbe larga diffusione, comportando da un lato, un’evidente rinuncia, da parte dello Stato a funzioni che avrebbe dovuto rientrare nella sfera della propria sovranità, e dall’altro, un evidente impegno della chiesa in compiti che invece non avrebbe dovuto ad essa competere. La sovranità dell’impero romano d’Occidente, ebbe termine, con la deposizione di Romolo Augustolo per mano di Odoacre, re degli eruli. Sotto la generale denominazione di leges romanae barbarorum, si intendono alcune raccolte di iuria giurisprudenziali e leges imperiali, pubblicate tra il V e il VI secolo, da parte dei re germanici di occidente, abbiamo così un codex eurici, pubblicato da Enrico, re dei visigoti, in sostituzione del prefetto di Gallia, alla vigilia dell’impero occidentale, contenente i principi di diritto tardo-romano, destinato tanto ai romani quanto ai visigoti di gallia. Un edictum Theodorici, pubblicato da Teodorico il grande, re degli ostrogoti che raccoglie materiale vario indirizzato tanto ai sudditi romani quanto agli ostrogoti, con l’intenzione, forse, di promuovere una fusione tra i due popoli. Una lex Romana Burgundonium, emessa agli inizi del VI secolo dal re dei Burgundi, Gundobado, anch’essa contenente frammenti tratti da varie opere di diritto romano, destinati ai soli sudditi romani del regno burgundo. Un posto a se, per la sua importanza merita la cosi detta Lex Romana Visigotorum, promulgata da Alarico II, re dei Visigoti, secondo alcuni ai soli sudditi del regno visigoto, secondo altri anche ai sudditi del regno romano. Si tratta di un’ampia raccolta nella quale furono risistemate, senza fonderle, a differenza dell’edictum theodorici e della lex romana burgundonium, in un unico testo ampia parte del codice teodosiano, numerose novelle post-teodosiane, alcune costituzioni tratte dai codici gregoriano ed hermogeniano, la maggior parte delle Pauli Sententiae. Con le leggi romano barbariche, la tradizione giuridica romana, viene trasformata dall’interno, attraverso un processo di selezione e modifica. Si è usata per definire tale nuova esperienza giuridica, la locuzione diritto volgare, per indicare un pensiero giuridico popolare. Il diritto volgare rappresentò una semplificazione rispetto al livello di speculazione teorica raggiunto dalla giurisprudenza classica, ma è altrettanto vero che esso permise un notevole incremento della cerchia degli utenti del diritto. I giuristi classici, misero il loro sapere al servizio di precisi interessi economici, e loro utenti e interlocutori erano prevalentemente i componenti delle fasce aristocratiche e nobiliari della società, senza che i problemi del popolo minuto fossero oggetto di particolare attenzione. Nei regni romano barbarici invece, comincia ad affermarsi l’idea secondo cui l’elaborazione scientifica e il precetto normativo debbano trovare un punto di congiunzione, atto a far recepire entrambi da un ampio pubblico di destinatari. DALLA VENDETTA PRIVATA ALLA PERSECUZIONE PUBBLICA La civitas nasce sulla base della comune accettazione di un sistema di regole traducentesi in un certo numero di divieti, collegati in caso di violazione ad altrettante sanzioni. Nella Roma arcaica la punizione pubblica dei colpevoli appare fortemente ammantata di sacralità, assume le forme di sacrificio dovuto agli dei o di purificazione della comunità contaminata. In molti casi però, il sistema si limita a permettere o ritualizzare una reazione privata all’offesa da parte di quel soggetto. In tal caso, gli organi della comunità proteggono la risposta portata dalla vittima, o prestano a quest’ultima gli strumenti necessari per tale reazione. Per quanto riguarda i casi in cui la reazione è invece affidata all’attivazione del potere pubblico, si è affermata l’idea del rifiuto di forme di autotutela privata che vengano a violare tale pubblico monopolio del potere punitivo e sanzionatorio, divenendo a loro volta atti illeciti. C’e una distinzione tra gli atti illeciti di natura privata e di natura pubblica, categorie alle quali si è andata ad aggiungere una categoria intermedia di quei reati la cui persecuzione, detta a querela di parte, ha natura pubblicistica, ma è subordinata a un iniziale impulso privato da parte del soggetto offeso. Ci sono diverse ipotesi riguardanti le forme repressive esercitate all’interno della familia. La giustizia era applicata personalmente e insindacabilmente dal pater, a sua piena discrezione, e la sua amministrazione andava quindi a confondersi con l’esercizio delle potestà familiari sui soggetti ad esse sottoposti. Quanto ai servi, il fenomeno schiavistico non risulta conosciuto nella fase arcaica. È stato ipotizzato che esso avrebbe il suo precedente nell’assegnazione fisica dei debitori insolventi (nexi o addicti) al loro creditore. Tanto la patria potestas quanto la manus maritalis, comprendevano lo ius vitae ac necis, ossia il diritto di mettere a morte la persona sottoposta. Rimane da stabilire a quale tipo di reazione andasse in contro la soppressione di un pater familias da parte di un proprio sottoposto. Plutarco scrive che Romolo non avrebbe stabilito alcuna pena per i parricidi, e avrebbe chiamato parricidium qualsiasi omicidio, sulla base della presunzione che l’uccisione del proprio padre fosse impossibile. Tale atto troverà una specifica pena solo in età avanzata, con la poena cullei, consistente nel gettare il colpevole, bendato e chiuso in un otre di pelle impermeabile, nel mare o nel Tevere, in compagnia di un cane, un gallo, una vipera e una scimmia. La pratica della vendetta privata si trovò gradualmente ridimensionata, a seguito della progressiva affermazione di un interesse collettivo alla pace sociale e al ripudio della violenza, nel cui ambito le turbative all’ordine cittadino venivano viste anche come infrazioni della pax deorum. Fu compito del rex quello di indicare quali fossero i delitti che offendevano gli dei, così come quello di prescrivere in che modo le divinità dovessero essere placate. Le fonti menzionavano alcuni ausiliari, ma questi appaiono deputati alla persecuzione di una specifica attività criminosa, i quaestores parricidii per l’uccisione del pater familias, e i duoviri perduellionis per il perduellio. Tale competenza del rex nella definizione e nella persecuzione degli atti considerati offensivi rispetto agli dei e alla comunità, trovò, secondo la tradizione, un importante momento di formalizzazione nell’emanazione delle leges regiae, i comandi, pronunciati dal re e poi confluiti nello ius Papirianum. L’istituzione del parricidium e del perduellio è stata attribuita a Numa Pompilio e Tullio Ostilio. Il parricidium punito da Numa richiamerebbe un’antica forma di sacertas, in quanto indica con la formula paricidas esto, sia parimenti ucciso, quindi per mano di chiunque. Nel caso di uccisione involontaria di un uomo, il colpevole poteva evitare la vendetta consegnando agli agnati della vittima un ariete sacrificale. Il perduellio invece indicava il comportamento di colui che ha tradito la patria, sfidando la civitas e i suoi dei protettori. Secondo il racconto di Tito Livio fu accusato e condannato per tale crimine Orazio, reo di aver ucciso la sorella che pianse per il fidanzato Curiazio, morto nella sfida tra romani e albani. Il re Tullio Ostilio, avrebbe invocata l’applicazione di una lex regia di terribile terrore, in forza della quale, il reo di perduellio sarebbe stato appeso, col capo velato ad un albero maledetto, i cui frutti erano consacrati alle divinità infernali, per essere flagellato fino alla morte. Col passaggio dalla monarchia alla repubblica, il perduellio andò ad indicare l’adfectatio regni, ovvero tutti quei comportamenti pubblici dietro cui potesse celarsi un tentativo di restaurazione monarchica. Sul piano della repressione criminale, i nuovi ideali repubblicani di libertà ebbero attuazione nel fondamentale istituto della provocatio ad populum, che impediva al magistrato di esercitare misure di coercitio contro un cittadino romano, senza che quest’ultimo avesse potuto appellarsi alla volontà dell’assemblea centuriata, la quale avrebbe potuto risparmiare l’esecuzione capitale, sostituendola con l’esilio, la perdita della cittadinanza, e il divieto di rientrare nei confini della repubblica. La provocatio definita da Livio unicum presidium libertatis, fu preservata come argine dell’arbitrio dell’imperium magistratuale e come insopprimibile garanzia per il civis, che potè sempre impedire di essere messo a morte dal magistrato senza che del caso fossero stati informati i comitia centuriata. Col passare del tempo, il ruolo dell’assemblea cambiò in un effettivo sindacato tecnico nel Per quanto riguarda lo svolgimento del processo, l’accusatore chiedeva al presidente, attraverso una postulatio, il riconoscimento a sostenere l’accusa, ottenuta la quale avanzava una formale accusa, nominis delatio, che se accettata dal magistrato tramite nomini receptio, diventava accusatio. Tanto l’accusatore quanto l’accusato avevano la facoltà di ricusare una certa percentuale di giudici, il cui numero complessivo variava nei vari periodi e nelle varie quaestiones. Il presidente fissava l’udienza dopo di che si passava alla fase dell’altercatio, durante la quale l’accusatore e l’imputato cercavano di persuadere i giudici della propria tesi con tutti i mezzi possibili. Gli schiavi venivano interrogati sotto tortura e non potevano testimoniare contro il loro padrone. I giurati ascoltavano in silenzio mentre il giudice provvedeva a far rispettare la procedura e l’ordine. Conclusosi il dibattito gli iudics si ritiravano per deliberare in consilium ire. Ogni singolo giurato aveva una tavoletta recante su un lato la lettera A, per absolvo, e sull’altro lato la lettera C, condemno, in modo da esprimere la propria pronuncia. In caso di condanna le conseguenze erano determinate automaticamente dalla legge e non era data alcuna possibilità ne ai giurati ne al presidente di effettuare alcuna graduazione della pena. Si accompagnava alla poena capitis e all’esilio, anche la publicatio bonorum, ovvero la confisca dei beni. Grande rilievo era attribuito alla composizione delle giurie, infatti la Lex Acilia del 123 a.C. sancì che il praetor de repetundis formasse una lista di 450 giudici scelti tra gli equites, da cui trarre i giurati per i singoli processi. Una lex Aurelia iudiciaria del 70 a.C. stabilì che l’album iudicium fosse composto per un terzo da senatori, un terzo da cavalieri e un terzo da tribuni aerarii, e i collegi fossero formati da un numero di persone appartenenti alle tre categorie. Il diritto di difesa era ampiamente garantito, l’imputato poteva farsi assistere da quanti avvocati volesse e alla difesa era concesso una volta e mezzo il tempo dell’accusa. Grande rilevanza assumeva l’arringa difensiva pronunciata dall’imputato o dal suo avvocato, era ad essa affidato il compito di persuadere i giudici riguardo all’infondatezza dell’accusa. Scopo primario dell’orazione era quello di coinvolgere i giurati sul piano emotivo e sentimentale. All’indomani della riforma sillana, risultarono quindi funzionanti diverse quaestiones perpetuae. Alla creazione di un sistema processuale, si consolidò quindi un sistema di crimina: Quaestio de repetundis Il crimen repetundarum continuò ad avere grande rilievo. L’illecito andò a indicare tutti i comportamenti ritenuti predatori verso le popolazioni provinciali. Silla per ingraziarsi il senato, con una lex Cornelia de repetundis, mitigò la severità del processo, riducendo la pena, alla restituzione in simplum del maltolto, non più, quindi, in duplum. Ma Cesare nel 59 a.C. con la lex Iulia confermò la condanna in simplum ma sancì pene accessorie, quali la rimozione dagli uffici ricoperti, ineleggibilità a cariche pubbliche e incapacità di essere giudice o testimone. Quaestio de maiestate Il crimen laesae maiestatis rappresentò un evoluzione storica del perduellio. L’infedeltà allo stato fu affidata con una lex Appuleia del 103 a.C. al giudizio di un’apposita quaestio perpetua, per i casi di insubordinazione, tradimento, abuso di potere magistratuale. Quaestio de ambitu Con il quale venivano indicati i comportamenti considerati atti a turbare il regolare svolgimento delle elezioni comiziali, alterando la libera espressione del voto dei cittadini. Rientrarono nel concetto di ambitus diverse fattispecie rientranti nelle categorie del broglio o della corruzione elettorale. Quaestio de falsis La corte fu istituita da Silla, per punire le falsificazioni aventi ad oggetto le tavole testamentarie e le monete. Fu considerato crimen falsi non solo l’alterazione dei testamenti, ma anche la loro distruzione, sottrazione, la divulgazione delle disposizioni prima della morte del testatore. Quaestio de peculatu Fu punita come peculatus l’indebita appropriazione di beni dello stato da parte di un privato. Quaestio de sicariis L’omicidio acquistò una configurazione astratta come divieto di uccisione di un essere umano di condizione non servile. et veneficiis Quaestio de iniuriis Non ebbe carattere permanente, il tribunale de iniuriis istituito da Silla, col quale si sottoposero al giudizio di un’apposita quaestio, alcune offese personali, quali aggressioni, lesioni o violazioni di domicilio precedentemente riparabili solo attraverso processo privato. Diversamente dalle altre quaestiones, a promuovere l’accusa non poteva essere un quivis de populo, ma solo attraverso un’apposita actio, la parte lesa, al quale avrebbe incamerato la pena pecuniaria inflitta al reo. CRIMINI PENE E COGNITIONES EXTRA ORDINEM Il sistema delle quaestiones perpetuae fu sottoposto a una riorganizzazione da Augusto, attraverso una lex Iulia iudiciorum publicorum e una lex Iulia iudiciorum privatorum, tale riforma regolamentò tutti i principali aspetti del giudizio, dalla legittimazione all’accusatio, dal numero dei patroni all’età minima degli iudices e alla composizione dell’album. A seguito di tale legge, i meccanismo delle quaestiones diventò l’unica forma di processo criminale e tutto ciò che non rientrasse in tale ordo iudiciorum publicorum venne considerato extra ordinem. L’attenzione dell’imperatore e dei suoi consiglieri andò a concentrarsi sui delitti politici. La lex Iulia de maiestate rimodellò la fisionomia del crimen maiestatis, definendo una nuova elencazione dei comportamenti lesivi della maiestas populi Romani, colpendo con aqua et igni interdictio, ovvero l’interdizione dal rientro in patria, e con la publicatio bonorum, ovvero la confisca dei beni, diversi atti ritenuti patologici come l’alto tradimento, sedizione, incitamento alla rivolta. Sotto il principato di Tiberio, si affermò il principio secondo cui rappresentava crimen maiestatis qualsiasi offesa alla persona o al nome del princeps. In seguito tale estensione interpretativa andò ad allargarsi sempre di più, dando fondamento alla proibizione di tutte le pratiche divinatorie, per il semplice fatto che chi dice di poter vedere il futuro dell’imperatore è superiore all’imperatore stesso. Una lex Iulia de vi publica et privata, perseguì come vis publica tutti gli abusi dei magistrati che avessero sottoposto un cittadino a misure di coercitio violando il suo diritto alla provocatio ad populum o impedendogli di essere giudicato dinanzi alle quaestiones perpetuae. Grande importanza ebbe anche la lex Iulia del adulteriis coercendis, con la quale Ottaviano rese oggetto di repressione criminale comportamenti giudicati lesivi del decoro e della morale familiare. Ad essere vietati da tale legge furono: Adulterium ossia l’unione di una donna sposata con chiunque non ne fosse il marito Stuprum ossia l’unione con una donna di buoni costumi non sposata Lenocinium ossia lo sfruttamento o il favoreggiamento di predetti crimini, o anche la semplice accettazione passiva da parte delle persone colpite, che avrebbero avuto il dovere di reagire La pena per lo stupro e il lenocinio era la relegatio in insulam e la confisca parziale del patrimonio. Per l’adulterio, erano abilitati all’accusa entro 60 giorni dall’accaduto, soltanto il padre e il marito della donna, ed entro lo stesso termine al marito era imposto l’obbligo di ripudiare la moglie, trascorso inutilmente tale lasso di tempo, l’accusa poteva essere promossa da un quivis de populo. La lex Iulia riconobbe anche ampi spazi di legalità alla vendetta privata, legittimando l’usanza della repressione domestica del delitto. Il padre dell’adultera era autorizzato a uccidere gli amanti colti in flagrante nella propria casa o in quella del marito, purché li sopprimesse entrambi, il marito invece poteva uccidere soltanto l’adultero di bassa estrazione sociale, colto in flagrante in casa propria e mai la moglie infedele. Augusto avviò la prassi di una persecuzione pubblica, svolta direttamente dalla corte imperiale, con la partecipazione del principe o di un suo rappresentante. Nacquero così altre forme di cognizione, qualificate come extra ordinem, in quanto esterne all’ordo dei iudicia publica. Il sistema delle quaestiones apparì nel nuovo clima politico e culturale come un sistema obsoleto e rigido, inadatto a fronteggiare le esigenze del grande impero. Così le cognitiones extra ordinem andarono a sostituire le quaestiones perpetuae e diventarono da straordinarie a ordinarie forme di processo. I modi attraverso cui si realizzarono le cognitiones extra ordinem furono svariati. Dal principato di Augusto, l’imperatore usò avocare a un proprio tribunale, il giudizio su determinati fatti criminosi, perfino quando fosse già stata sollevata l’apposita accusatio innanzi a giuria popolare. Altre volte l’intervento del principe andò attuandosi attraverso il nuovo strumento della appellatio ad Caesarem, ossia la possibilità di sostituire con una propria ordinanza, i provvedimenti e le decisioni emanate, in funzione repressiva dai magistrati della repubblica e dai funzionari imperiali. Spesso l’imperatore, senza ricorrere all’avocazione o all’appello, usò delegare in via permanente l’esercizio della giurisdizione criminale, incaricando di esercitarla in suo nome, per Roma e per l’Italia, i quattro praefecti, urbi per illeciti commessi a Roma ed entro cento miglia dalla capitale, praetorio per il restante territorio della penisola, annonae per i reati contro l’approvvigionamento alimentare, vigilum per reati di minore entità. Il funzionario incaricato, assistito da un apposito consilium, giudicava del caso, emanava la sentenza, e provvedeva direttamente all’applicazione della pena. Se le quaestiones furono sempre caratterizzate da un’accusatio di parte, di carattere privato, le cognitiones extra ordinem, fondate sull’autorità del principe, videro affermarsi il principio opposto dell’inquisitio, ossia di un giudizio attivato e promosso da un organo statale, nel quale la formale parità tra accusa e difesa cedette rapidamente alla prevalenza del pubblico potere investigativo e punitivo. Il ventaglio generale dei comportamenti passibili di persecuzione criminale, subì un notevole ampliamento, sia tramite definizione di nuovi reati, sia tramite allargamento di vecchi reati mediante interpretazione estensiva. Il crimen repetundarum fu punito con maggiore severità, allargano il novero dei possibili imputati, fra i quali vennero compresi tutti i funzionari coinvolti nella pubblica amministrazione. Fu separata da tale delitto la concussio, ossia l’estorsione di denaro o altri vantaggi, effettuata da magistrati o funzionari attraverso indebite pressioni o minacce. Il crimen maiestatis accentuò la sua tradizionale indeterminatezza di contorni, andando a qualificare tutti quei comportamenti che fossero considerati insidiosi per la maiestas populi Romani. L’ambitus scomparve con la fine della funzione elettorale delle assemblee popolari, ma il nome restò a indicare altre forme di reato, quali l’illecita reiterazione delle magistrature o la pressione esercitata sui giudici dalle parti in un processo penale. Tanto il reato di falsum quanto quello di peculatus conobbero un notevole allargamento, ad opera di svariati senatoconsulti ed interventi imperiali, che fecero rientrare nell’ambito dei due crimina nuove forme di illecito. L’omicidio vide completare la sua evoluzione nel senso di reato generale e astratto. Furono così puniti anche gli abusi volti a ottenere la condanna a morte di un innocente, così come le uccisioni provocate attraverso incantesimi e arti magiche. Per il parricidio ci fu una reintroduzione voluta da Augusto, della poena cullei. Andarono poi a crearsi diversi altri crimina. Furono così sanzionate varie ipotesi di iniuria, come offese al pudore di donne o fanciulle, vilipendio, le ingiurie arrecate a persone di alto rango sociale. Quanto al sistema delle pene, le cognitiones extra ordinem segnarono una moltiplicazione dei meccanismi afflittivi e, un loro generale incrudelimento. La pena di morte fu ripristinata per molti reati. I suoi modi di attuazione andarono differenziandosi secondo un sinistro sistema gerarchico. Ai mezzi normali di esecuzione, si affiancano i summa supplicia, quali al crocifissione o l’esposizione a bestie feroci o gladiatori. Viene anche praticata la vivicombustione e le punizioni corporali arrivano a comprendere, oltre alla fustigazione, anche la castrazione e altre mutilazioni. Per reati di minore gravità furono spesso applicate, nell’ambito delle cognitiones extra ordinem, la publicatio bonorum, la relegatio, e la deportatio in insulam, con connessa perdita della cittadinanza. Incontrò grande diffusione poi la condanna ai lavori forzati nelle miniere. Si affermò anche una sistematica differenziazione delle pene in base al rango sociale dei condannati, per cui le persone di livello più elevato, honestiores, andavano incontro per le stesse infrazioni a castighi più moderati rispetto a quelli riservati ad individui di più modesta condizione, gli humiliores, inoltre alcune condanne infamati come crocifissione, condanna ad bestias, lavori forzati, non furono mai considerate applicabili ai soggetti di particolare prestigio. Dagli inizi del principato ci fu una cognizione criminale effettuata dal consenso senatorio, su impulso dell’imperatore. Nel 4 a.C. un senatus consultum Calvisianum attribuì al senato la competenza a giudicare per alcuni casi di concussio, sottratti alla competenza della quaestio repetundarum, attraverso una speciale commissione di cinque recuperatores, e i processi celebrati dalle assise senatorie, non pochi durante il principato di Augusto, si moltiplicarono a partire dall’età di Tiberio. L’imperatore si riservava la possibilità di interferire in ogni momento nel corso del procedimento, anche impedendo, in forza dello ius intercessionis derivantegli dalla tribunicia potestas,la prosecuzione del processo o la formulazione del verdetto. L’importante terreno della giurisdizione criminale fu ripetutamente usato come luogo di scambio di favori tra corte imperiale e aristocrazia senatoria. La giurisdizione senatoria funzionò come privilegio di ceto dei senatori, il prevalere nella diarchia principe-senato, del primo elemento, fece sì che talvolta tale privilegio si rivelasse fatale per l’imputato, specie nei processi per laesa maiestas, tanto da far preferire all’accusato che il processo fosse avocato innanzi al proprio tribunale dallo stesso imperatore. Dopo il principato di Alessandro Severo, la cognitio criminale del senato venne meno, soppiantata da quella imperiale. Dal punto di vista della repressione penale esercitata dai preside provinciarum, questi vedevano i propri poteri nettamente distinti, a seconda che si rivolgessero contro cives Romani, o contro peregrini. Contro i Romani, i governatori potevano agire extra ordinem, sottoponendoli ai necessari processi e, nel caso, all’esecuzione delle relative pene. Tale potere trovava un limite nella lex Iulia de vi publica et privata, la quale sanzionò come crimen il comportamento di chiunque avesse ostacolato il funzionamento delle istituzioni repubblicane, ad esempio sottoponendo a misure di coercitio un cittadino romano che avesse invocato la provocatio ad populum o che avesse chiesto di essere giudicato innanzi alle quaestiones perpetuae. Quanto ai peregrini, i governatori esercitavano su di loro la funzione repressiva con la più ampia discrezionalità, per mezzo dello ius gladii, ossia della forza coercitiva applicabile sia nei confronti dei milites, quanto nei confronti di chiunque potesse essere considerato, a insindacabile giudizio del praeses, un hostis publicus, ossia un pubblico pericolo per l’autorità di Roma e per la collettività locale. Anche dal punto di vista procedurale, era