Scarica Storia del diritto romano tra diritto e potere e più Appunti in PDF di Storia Del Diritto solo su Docsity! Storia di Roma tra diritto e potere - Luigi Capogrossi Colognesi Cap.1 - La genesi della nuova comunità politica 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico Agli inizi dell’ultimo millennio a.C. le condizioni nel Lazio arcaico erano le seguenti: terreno> il paesaggio fisico non doveva essere molto diverso da quello odierno, solo più scosceso e con maggiori dislivelli. La presenza di boschi e di paludi, negli avvallamenti, contribuiva all’isolamento delle comunità umane ivi stanziate. Il territorio era limitato a Nord dal Tevere, a Ovest dal mare, a Est dagli altipiani che segnano il confine fra i Latini e le popolazioni sabelliche e a Sud, infine, dai colli Albani che dominano la grande pianura che si apre verso Cisterna, Circeo e Terracina. agricoltura e allevamento> la primitiva economia delle popolazioni laziali si fondava soprattutto sull’allevamento di pecore e maiali, ma era praticata anche una forma primitiva di agricoltura, legata alla coltivazione di farro e ad alcuni alberi da frutto, come il fico e l’ulivo mentre la vite avrebbe assunto maggiore rilevanza in età successiva. vie di comunicazione> le prime forme di circolazione e di uomini si registrano in questo periodo. Le principali rotte commerciali, attraversando verticalmente la pianura laziale, univano l’Etruria alla Campania (zone più sviluppate). Uno dei pochi punti di passaggio, dove era facile il guado del Tevere era ai piedi del Campidoglio e del Palatino. Molto importanti erano anche le vie di comunicazione del mare verso l’interno: allora, infatti, il Tirreno era già coperto da una fitta rete di traffici che contribuivano all’intenso flusso di beni tra la zona costiera e l’entroterra: basti pensare alla Salaria (la via del sale). Quest’area gia dal 1000 a.C. circa era caratterizzata dalla presenza di numerosi villaggi vicini gli uni agli altri e costituiti da poche capanne. La loro aggregazione interna, e quindi la reciproca differenziazione, si fondava sulla presenza di forme familiari o pseudo parentali, legate alla memoria di una più o meno leggendaria discendenza comune. Queste comunità erano piccole ma numerose e non tutte si sarebbero evolute, le loro difficoltà infatti erano di due tipi: interne > governare la natura (operazione ai tempi assai difficile) esterne > difendersi dai nemici Questa situazione è confermata dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio dove si afferma che in un tempo remoto, in Latio vi furono, accanto a piccole cittadine (clara appida), dei populi, uniti da un vincolo religioso costituito dal culto di Iupiter Latiaris che si svolgeva sul monte Albano, l’odierno Monte Cavo, nel cuore dei Castelli romani. Questi populi, designati unitariamente come Albanes, sono menzionati in numero di trenta e richiamati al plurale. Sia questi che gli oppida si sarebbero dissolti in età storica senza lasciar traccia. 2. Villaggi, distretti rurali e leghe religiose Una preziosa fonte di informazioni sono le tombe d’epoca arcaica presenti nelle varie località laziali dove i defunti venivano sepolti con cibo, ornamenti, suppellettili, armi (uomini) e strumenti per tessere (donne). Ciò dimostra: come fosse già diffusa la credenza di una vita ultraterrena un’uniformità di condizioni economiche data l’omogeneità di questi ritrovamenti Queste comunità erano unite da vincoli parentali o pseudo parentali, erano rafforzate dal culto degli antenati e dalla presenza di più o meno circoscritte unità sepolcrali ma non coincidevano necessariamente con le singole unità familiari. Le funzioni di guida della comunità erano attribuite in base all’età e alla capacità militare, in particolare: 140 i patres (i più anziani del gruppo) considerati molto saggi prendevano le decisioni importanti per la vita della comunità e probabilmente alcuni di loro assolvevano anche a funzioni religiose. l’assemblea degli uomini in arme aveva lo stesso potere di direzione Alcuni guerrieri di particolare valore potevano avere il comando in caso di pericolo o crisi La grande quantità di questi piccoli villaggi sovente a poche centinaia di metri gli uni dagli altri, contribuiva ad accentuare un ininterrotto e fitto sistema di relazioni tra di essi. Era un mondo caratterizzato da una “cultura” comune, consistente anzitutto nella comunanza della lingua latina e nella partecipazione a riti e culti comune e da un insieme di interessi di tipo economico (la gestione in comune o la spartizione dei pascoli, il controllo dei sistemi di comunicazione e dei traffici commerciali, la circolazione e lo sviluppo delle pur rudimentali tecniche agricole ecc ecc.). Le varie comunità si incontravano anche in occasione di particolari riti religiosi (es. triginta populi albenses) e attorno a particolari figure come il rex nemorensis (solitario sacerdote del bosco sacro di Nemi), ma è bene precisare che: non ci sono elementi per parlare di un sistema federativo che comprendesse tutte le comunità (tesi che l’autore smentisce seccamente in più casi) siamo ancora in un’epoca in cui il “sacro” si identifica con la natura e non con la religione Verso la metà dell’VIII sec. (secondo la tradizione 753 a.C. fondazione di Roma) probabilmente ci furono profonde trasformazioni nell’organizzazione economico-sociale del Lazio primitivo: Un serie di tombe ricche e opulente, risalenti a questo periodo, dimostrano il sorgere di una classe economica più ricca e con connotati aristocratici reso possibile da un processo di incremento della popolazione e di sviluppo economico. La guerra favoriva una distribuzione della ricchezza iniqua, infatti, attorno ai guerrieri e ai gruppi familiari più forti si concentrò un numero crescente di seguaci, ciò dovette accentuare le differenze gerarchiche in termini di forza militare e di ricchezza. Probabilmente ci fu un primo sviluppo tecnologico, con il passaggio da una produzione “domestica“ dei principali manufatti, a una produzione specializzata, mentre si moltiplicano gli oggetti metallici, la cui realizzazione implicava la presenza di un’elevata tecnologia e di adeguate risorse > Ciò deve aver determinato la nascita di un primo “mercato” di scambio tra prodotti agro-pastorali e manufatti. Quasi certamente ci fu anche un primo sviluppo delle attività agricole. Questo fu un passaggio importante, poiché la stessa superficie di territorio poteva, se sfruttata in forme agricole, sostenere un maggior numero di individui rispetto alla pastorizia. Probabilmente già esistevano dei modi per attribuire beni mobili, animali e forse anche la terra ai singoli soggetti o almeno alle singole comunità e si determinarono così i primi squilibri. Questi con il passare del tempo, determineranno fenomeni di “sinecismo” (dal greco “abitare insieme” termine usato per indicare la formazione della città dall’aggregazione di abitanti sparsi delle minori comunità). 3 La fondazione di Roma In questo contesto appaiono i primi centri insediativi unitari di un certo rilievo che potremmo definire, “città in formazione” poiché alcuni insediamenti laziali assunsero una fisionomia diversa e più incisiva di quella dei villaggi dell’età precedente. Il nucleo originario di Roma è da identificarsi sul Palatino (lo sapevano già i Romani) e infatti è a questo colle che si ricollegano le leggende più antiche (coppia di gemelli salvati dalle acque del Tevere e la “casa di Romolo”). Quest’area, soprattutto dopo la fusione dei 140 Tazio. Fu il primo grande balzo in avanti nella storia di Roma. Andando oltre la storia anche qui è evidente come Roma si formò e si arricchì, nel corso del tempo, grazie a elementi eterogenei e contraddittori. Latini e Sabini, poi gli Etruschi furono componenti diverse che, fondendosi nel nuovo organismo politico della città, contribuirono a staccarla da uniformi radici etnico culturali e a “modernizzarla”, trasformandola in una realtà nuova. Il mondo precivico dei villaggi aveva un fondamento parentale di conseguenza l’integrazione individuale avveniva sulla base della funzione dei vincoli di sangue (antenato comune) anche se inesistente. Nel caso di Roma non si parlava di un padre comune ma di un fondatore comune, ciò permetteva di incorporare soggetti diversi senza bisogno di un vincolo di parentela. Per cui il soggetto che si integra non è parente ma “cittadino” membro del populus, partecipe del comune diritto. Al contrario le Polis greche erano di solito molto più riluttanti ad estendere la cittadinanza a estranei. Ciò è ancor più vero se si pensa che sia il leggendario successore Numa (proveniva dalla città sabina di Cures) sia Tarquinio Prisco e Servio Tullio erano di origine straniera. Ciò spiega quegli scontri, avvenuti nell’età monarchica, tra Roma e altre città che si conclusero in una fusione (si pensi al primo scontro tra la Roma del Palatino e la comunità sabina del Quirinale). Un processo che si ripetè nel corso dei successivi conflitti: la vittoria di una comunità sull’altra significava infatti la scomparsa della città vinta e l’assorbimento della sua popolazione nella città vincitrice. Per questo le guerre di Roma appaiono come una serie forzata di sinecismi (altro esempio è Alba Longa). La popolazione conquistata era trasferita a Roma e i suoi maggiorenti venivano integrati nell’aristocrazia. Ciò in età monarchica si verificò per le comunità di: Cenina, Politorio, Ficana, Tellene, Cameria, Medullia e Gabi. Tutto ciò determinò una crescita quantitativa e politico-militare di Roma molto significativa. L’ultimo aspetto da considerare è che al tempo vi erano anche gruppi che emigravano volontariamente a Roma in cerca di opportunità e che finivano con l’inserirsi nella popolazione e nella neonata aristocrazia romana: Livio farà l’esempio del futuro re Tarquinio, il caso è esemplare ma non è unico. Mentre in età avanzata si avrà il caso di migrazione di un intero gruppo gentilizio: quello dei Claudi. Il capo di una grande gens sabina, Appio Claudio, avrebbe allora abbandonato la sua città d’origine (Regillum) spostandosi con tutto il suo gruppo in Roma (V sec. a.C.). A tutti i suoi seguaci sarebbe stata concessa la cittadinanza e la proprietà di un heredium, mentre lo stesso Appio fu ammesso nel Senato, dando così origine alla potente gens Claudia che attraverserà tutta la storia di Roma fino all’Impero. Cap. 2 - Le strutture della città 1 La chiave di volta delle istituzioni cittadine: il "rex" La presenza di un “rex” già nella tradizione antica è sicura e ciò fu un fattore dinamico nel processo di unificazione politica. Il suo potere presenta tratti arcaici, infatti, si fonda sul carattere carismatico e su una forte accentuazione religiosa. Ma, al contrario di quanto si possa pensare, manca il principio dinastico per cui il figlio non succede al padre.Per cui: da un lato era la volontà divina che designava il nuovo re (rex innaguratus) > secondo la tradizione Romolo consultava direttamente gli dei, interpretando i segni 140 favorevoli mentre il suo successore, anch’egli forse una figura convenzionale, Numa Pompilio ascese alla carica attraverso la solenne cerimonia dell’inauguratio (destinata a persistere nei rituali romani sino a età imperiale). L’augure, operando in uno spazio sacro (il templum), tocca con la destra il capo di Numa e chiede a Giove di manifestargli, con segni sicuri, la volontà che Numa sia re di Roma. Ecco che il re diventava carico di una dimensione sacrale, supremo sacerdote e tramite della comunità con i suoi dei. dall’altro lato per designare il nuovo re c’era un percorso preciso. Il senato designava un membro che aveva la funzione di interrex e questo designava il nuovo re, poi vi era l’inauguratio del novo re, e alla fine il nuovo rex si presentava al popolo riunito nella forma dei comizi curiati da lui stesso convocati, al fine di assumere di fronte a loro il supremo comando. In questo modo i suoi sudditi, e il suo esercito, partecipavano alla nomina con un atto solenne ma non è chiaro quale fosse il reale ruolo del populus (con questo termine si indica in origine l’esercito solo più tardi verrà utilizzato per indicare la comunità dei cittadini) poiché Livio sembra parlare di un intervento diretto (elezione?) ma probabilmente si tratta di una anticipazione di logiche più tarde. Il rex era quindi sacerdote, comandante dell’esercito e garante dell’esistenza e della sicurezza della sua comunità. Egli era colui che “sapeva” e “diceva” le norme della città e le applicava nella composizione dei conflitti interindividuali e nella repressione delle condotte criminali. In ogni sua attività, il re era coadiuvato da una serie di collaboratori istituzionali per cui difficilmente era solo nella sua azione di governo, in particolare vi era: un magister populi (comandante militare) che lo poteva sostituire nel comando dell’esercito e a un magister equitum, al comando della cavalleria. un praefectus urbi che lo assisteva nel governo civile della città, questa figura, nel corso del tempo, avrebbe aumentato il suo potere soprattutto nel delicato settore dei giudizi civili e della repressione criminale. il collegio pontificale, di cui il re quasi certamente faceva parte, che lo assisteva nel ruolo di garante e custode dei mores, il fondamento consuetudinario del diritto cittadino, e di tutore dell’ordine legale della città. i duoviri perduellionis e i quaestores parricidi erano competenti per la repressione di alcuni reati di particolare gravità Vi sono precisi riferimenti circa l’esistenza di leges regiae addirittura riferibili ai singoli re che si successero a Roma. In origine è improbabile che il rex, analogamente al magistrato repubblicano, sottoponesse formalmente all’approvazione dell’assemblea del popolo una sua proposta, mentre è più probabile che la regola applicata per risolvere un litigio tra cives divenisse statuizione destinata a vincolare tutti i membri della comunità cittadina. Si trattava di solenni pronunce dal rex di fronte all’assemblea cittadina, unica garanzia di pubblicità in un’epoca in cui la scrittura era quasi inesistente e non c’era altro che la memoria individuale e collettiva. L’ultimo ruolo del re era quello di custode del tempo che gli permetteva di scandire la vita cittadina. Infatti i Romani non conoscevano ancora un calendario fisso per cui i periodi e le “date” del calendario erano definiti secondo un sistema mobile e sempre variante di divisione dell’anno che serviva a stabilire tutte le scadenze della vita cittadina. Ciò avveniva agli inizi di ogni mese, dinanzi ai comizi convocati dal pontefice (in appositi giorni predeterminati), dove il re indicava le scadenze del mese, con i giorni fasti e nefasti. 2 I “patres” Un ristretto consiglio di anziani aiutava il rex e secondo l’indicazione degli antichi, con la morte del re “auspicia ad patres redeunt” ciò significa che il potere tornava ai patres. Ciò che è certo è che alla morte del re si apriva una fase di interregnum che era esercitato da 10 membri del senato, per 5 giorni ciascuno, dopo i primi 50 giorni si deve supporre che il 140 comando passasse a un altro collegio di 10 patres, se ancora non c’era la designazione di un nuovo re. Quel “redeunt” si può spiegare considerando l’antico potere dei patres delle gente e quindi la legittimazione stessa di quel senato che ci fa capire il suo ruolo e la sua legittimazione per tutta l’età monarchica e repubblicana, se non oltre. Il termine patres e il più recente senatus (senes: anziano) richiamano l’idea dell’età e dei ruoli a essa collegati, in coerenza al carattere patriarcale della società romana. E’ dunque l’assemblea degli anziani, dei “patriarchi” delle varie gentes che, oltre a essere investita del potere dell’interregum si riunisce e collabora con il rex. L’appartenenza al collegio dei patres sancisce una superiorità sociale dei gruppi che li esprimono. Ma: non si deve parlare di forme di “rappresentanza politica” > questa categoria è estranea all’esperienza romana. L’autore non condivide la tesi, sostenuta da gran parte della dottrina, che i senatori si identificassero nei capi delle gentes. Questo perché il numero dei patres era artificiale (prima 100, poi 150, 200 e alla fine circa 300) e difficilmente, all’origine di Roma, c’era questo numero di gentes. Inoltre è inverosimile l’automatica crescita delle genti cittadine secondo numeri così artificiali. Inoltre non ci sono prove ogni gens fosse sottoposta al potere di un pater o princeps gentis, Invece è attestata dalle fonti antiche la preminenza, nel corso di ogni generazione, di alcuni personaggi particolari che magari emergevano, in ogni generazione, all’interno delle varie gentes, per lignaggio o ricchezza o per le proprie azioni. Il rex sceglieva più o meno liberamente i membri del senato: i patere e probabilmente le varie gentes esprimevano un numero maggiore o minore di senatori a seconda del loro peso all’interno delle civitas. (tesi autore) La tesi dell’autore salva il rapporto tra ordinamento gentilizio e senato, ma immaginando una logica più elastica e con un più forte ruolo di mediazione del rex. É probabile che la scelta dei senatori contribuisse a definire un nuovo gruppo familiare emergente come tale. Da qui la possibile presenza di singoli conscripti estranei all’aristocrazia gentilizia identificata nei patres (probabilmente si verificò qualcosa del genere con Tarquinio Prisco). 3 Il “populus” La divisione fondamentale della popolazione, già vista, prevedeva 3 tribù, formate ciascuna da 10 curie, composte ognuna da 10 decurie. Gallio (II sec. d.C.) citando un autore repubblicano, spiega la differenza tra questa divisione e il successivo sistema centuriato, in particolare: sistema curiato > era fondato sui “genera hominum” e cioè sulla discendenza e sui lignaggi > si è di una curia perché vi appartenevano i propri antenati ordinamento centuriato > era fondato sul censo e sull’età dei suoi membri L’idea dell’appartenenza alle curie sulla base dei vincoli di discendenza, che l’autore prende da Niebuhr, ben si accorda con la possibilità di un diretto travaso in esse di strutture preciviche. Tuttavia già in epoca storica le curie mostravano una loro fisionomia (non erano semplicemente gruppi di una popolazione) soprattutto nell’ambito religioso: vi erano culti privati delle singole curie, con appositi sacerdoti, non diversamente dai sacra gentilicia, anche se i sacra publica pro curiis divennero poi nel tempo parte della religione cittadina. Nella primitiva costituzione romulea l’organico dell’esercito romano era dato dalla somma dei contingenti che ciascuna curia doveva fornire. Proprio questa rilevanza delle curie e, attraverso di esse, delle strutture gentilizie ha favorito l’idea che il primitivo esercito romano si organizzasse secondo forme tipiche delle aristocrazie, in un sistema 140 auspicio > se a interrogare la volontà degli dei era il rex o i magistrati - questi si riferivano a situazioni immediate e bene individuate auguria > se a interrogare la volontà degli dei erano gli auguri - potevano avere oggetti più ampi (fino al destino della stessa Roma) e situazioni più lontane nel tempo. Dal verbo augere (aumentare), deriva l’idea che augurium evochi non la semplice manifestazione di una volontà divina, ma un arricchimento della condizione e dell’azione umana a seguito di un richiesto intervento degli dei. Per questo sia un luogo che una persona possono essere oggetto di inauguratio. Il rex, appunto, è persona inaugurata per eccellenza concentrandosi su di lui la forza magico–religiosa del consenso divino. É necessario sottolineare il fatto che solo pochissimi ruoli, tra quelli visti, presupponevano una totale “consacrazione” del sacerdote alla divinità, con la conseguente sua separazione dalla vita corrente nella città. Per cui vi erano due possibilità: se c’era una totale “consacrazione” in genere si era nominati a vita e si veniva esclusi da ogni forma di gestione diretta di potere. in tutti gli altri casi i ruoli sacerdotali erano assunti da ordinari cittadini che continuavano a partecipare alla vita ordinaria della comunità, non diventano una casta separata né portatori di valori diversi da quelli della polis. Si arriva così a parlare della “laicità” dell’ordinamento romano. Questa si manifesta con la sostanziale debolezza dei collegi sacerdotali (anche quelli più importanti appena visti) e probabilmente si spiega con l’affermarsi, in tempi molto veloci, di un’aristocrazia guerriera e dell’esercito cittadino con il suo peso politico. Questo è un carattere proprio di Roma che spiega anche la fisionomia del rex, ben diversa dalle forme ierocratiche delle monarchie mesopotamiche o egiziane.A riguardo l’autore ritiene che il carattere patriarcale delle primitive forme religiose romane, dove il rapporto con il sacro partiva anzitutto dalla religione domestica amministrata da ciascun pater familias, abbia avuto un ruolo importante. La nuova impostazione cittadina non modificò radicalmente questi presupposti ma si limitò a trasferire le funzioni religiose, anzitutto nei titolari del potere legittimo sulla comunità: i magistrati e il senato, e nei collegi sacerdotali. Per questo l’autore pensa che, diversamente da altra parte della dottrina, il nucleo della religione ancestrale non si dissolse, dando luogo a un diffuso scetticismo ma si “trasferì” a livelli nuovi, articolandosi in una pluralità di dimensioni. Ciò ci permette di capire come sia inesatta la rappresentazione ottocentesca della religione romana come un fatto secondario rispetto agli sviluppi della cultura cittadina. 5. I pontefici Il collegio dei pontefici era autonomo e forte soprattutto in campo giuridico. La sua funzione era legata alla tradizione ma, al tempo stesso, anche innovativa, in particolare: probabilmente il collegio partecipava al processo di selezione delle tradizioni ancestrali fuse nel nuovo contenuto religioso e istituzionale della città nel corso dei secoli, anche in età repubblicana, i pontefici intervennero sull’attività religiosa con una continua attività di interpretazione e innovazione. Il collegio, istituito da Numa, inizialmente era composto da 5 membri tra cui ne doveva far parte lo stesso rex (anche se non conosciamo il suo ruolo) giacché, poi, ne sarà membro il rex sacrorum, la sua proiezione depotenziata. In età repubblicana il collegio era presieduto dal pontefice massimo e il numero dei suoi membri salì a 13 membri tra cui i flamines maggiori destinati, come il pontefice massimo, a restare in carica tutta la vita. 140 Il pontefice massimo aveva una superiore autorità di controllo su tutte le forme della vita religiosa romana. Quasi sicuramente egli: svolgeva una generale funzione di supporto e di consulenza esercita nei riguardi del rex" questo rapporto di collaborazione si coglie in tutta una serie di cerimonie religiose (sacrifici a protezione della città, voti e promesse alle singole divinità per allontanare pericoli incombenti, consacrazione di luoghi), e l’enunciazione del calendario. svolgeva probabilmente alcune funzioni vicarie presiedeva i comizi calati (non si conosce bene la differenza tra questi e quelli curiati presieduti dal rex). Il collegio assistendo e orientando il rex nella conoscenza e nell’interpretazione delle norme che regolavano la città, condizionava tutto il tessuto sociale garantendo la pacifica convivenza tra i cittadini e ciò spiega il prestigio dei pontefici ancora nel corso dell’età repubblicana. Tali competenze si intrecciavano con il ruolo del rex che era “legislatore, guida e giudice” della comunità”. Ammettendo che le leges regiae di cui parlano gli antichi non siano un’invenzione tardiva, si presuppone che primario fosse il ruolo pontificale nella loro elaborazione e conservazione. Ma con esse, sin dalla quasi leggendaria legislazione di Romolo, ci si limitava a innovare e modificare singoli elementi di un tessuto istituzionale preesistente. Di ciò i Romani d’epoca più tarda erano consapevoli e per questo parlavano di mores et instituta maiorum. Queste “consuetudini degli antenati“ si riferiscono al patrimonio ancestrale, dove sfera religiosa, sociale e giuridica sono ancora difficilmente distinguibili, ma difficile è individuarne un’origine. Secondo il De Francisci (1883-1971) tali mores risalirebbero in buona parte alle origini latine, consistendo pertanto in regole già vigenti nella “struttura dell’organizzazione precivica”. Ciò pone dei problemi. 6. Le radici arcaiche del diritto cittadino I due concetti dello Ius (inteso in modo diverso rispetto come lo concepiamo oggi) e del Fas (intesa come norma religiosa) si ricollegano a quel processo che da una pluralità di fonti, pratiche, idee proprie delle singole comunità ha portato alla nascita del un blocco culturale-giuridico-religioso della città. Per capire come si sia realizzato questo processo si può considerare il patrimonio culturale delle gentes ancora presenti in età storica: ad esempio vi era un antichissimo culto solare degli Aureli o quello a Venere della gens Iulia, così come sembra che i Fabi e i Quinctii fossero i titolari originali della cerimonia dei Lupercalia. Senza dubbio questo complesso di tradizioni è uno dei punti di sutura tra il mondo cittadino e le antichissime tradizioni laziali, anche perché la sfera religiosa è quella che, per sua natura, resiste meglio alla forza devastante del tempo. Le notizie che riguardano le altre forme culturali e rituali proprie delle gentes sono poche e frammentarie ma testimoniano il travaso di buona parte del contenuto culturale dei vari gruppi minori nelle nuove istituzioni cittadine. In questo modo si creò un corpo omogeneo e condiviso da tutta la città di istituzioni che regolavano la vita della comunità: dal governo, allo sfruttamento della terra e degli altri beni essenziali, ai criteri che regolavano il matrimonio e i sistemi familiari, alla divisione del lavoro, collegata da una parte all’età dall’altra al sesso, alla successione ereditaria, al controllo sociale dei comportamenti individuali pericolosi per il gruppo ecc. 140 Questa diversa sfera doveva consistere in un insieme di pratiche sociali in cui il riferimento ai legami di sangue, la subordinazione alle potenze ultraterrene, la presenza di norme latamente giuridiche, erano fusi e confusi insieme. Questo antico patrimonio, divenuto il cemento istituzionale della civitas ne definì l’identità politico-culturale: la sua lingua, le sue rappresentazioni ideali, i suoi sistemi di organizzazione sociale, le sue gerarchie sociali, la sua religione e il suo diritto. Al contrario le tradizioni rimaste di pertinenza di ciascun gruppo interno alla nuova comunità sopravvissero solo e nella misura in cui esse non contraddicessero e minacciassero il sistema unificato di valori condivisi. Certo è che già prima che Roma sorgesse gli uomini che la costituirono sapevano già come si nasceva, ci si accoppiava, si allevavano i figli, si viveva insieme, si godeva dei frutti del proprio lavoro e, infine, si moriva. Nessuno di quei fatti era solo un accadimento materiale: ciascuno di essi e molti altri ancora comportavano un insieme di conseguenze entro un sistema che era anche culturale, ed erano essi stessi disciplinati da pratiche e da riti. Erano fatti ritualizzati che, col tempo, divennero elementi di carattere “giuridico”. Per cui il primitivo ordinamento aveva questi contenuti anche se come e perché alcune delle regole delle aggregazioni preciviche si siano trasfuse nel patrimonio della nuova comunità e come e perché tanti altri elementi ne siano restati fuori è uno dei grandi problemi che si pongono intorno alle origini della città. Per cui secondo l’autore, si deve abbandonare l’odierna prospettiva e immaginare uno stato dove il diritto è concepito come preesistente e il legislatore interviene solo a modificare o innovare i singoli punti. Il fondamento sono i mores: il punto di partenza di tutta la storia del diritto romano mentre l’importanza dei pontefici e il ruolo rivoluzionario del rex stanno nell’aver segnato il passaggio dalla pluralità di istituzioni “locali” a un corpo unitario, e non si è mai immaginato che l’esistenza di questo dipendesse dall’atto normativo del sovrano, concepito, invece, come il depositario e il garante di un patrimonio ancestrale. Cap. 3 - I re etruschi 1. Le basi sociali delle riforme del VI secolo Numerose fonti storiche provano che a Roma, nei primi secoli, salirono al potere una serie di Re di origine etrusca. Certamente fu un momento di forte modernizzazione dell’apparato politico-istituzionale, tale da anticipare alcuni caratteri che ritroveremo nella Roma repubblicana. Tali trasformazioni furono possibili grazie alla crescita politica e sociale di Roma che, nel corso di un secolo e mezzo era divenuta una delle principali città del Lazio per dimensioni territoriali e per popolazione. In parallelo agli sviluppi politico-militari che hanno permesso a Roma di espandersi, si devono considerare altri fattori: l’accresciuta importanza delle forme di proprietà individuale l’espansione delle attività artigianali e mercantili era iniziato a circolare il bronzo come unità di misura e valore di scambio degli altri beni e infatti sotto il re etrusco Servio si arriverà alla certificazione pubblica del peso e della qualità del bronzo (bronzo marcato - “aes signatum”) Lo sviluppo della città rese possibile, sotto i re di stirpe etrusca, un incremento delle grandi opere pubbliche (es. tempio dedicato alla triade capitolina, bonifica dei fori, costruzione della cloaca massima) per questo Giorgio Pasquali parlerà della “grande Roma dei Tarquini”. Lo sviluppo di tutte le attività indotte da tali opere a sua volta postulava un accresciuto fabbisogno di manodopera urbana, a seguito di cui una massa crescente di popolazione, composta anche da stranieri, si dovette concentrare nella città. Ciò poteva mettere in crisi il sistema chiuso delle curie, infatti, rispetto alle consorterie gentilizie che le 140 di Servio Tullio, sostenendo, in modo più cauto, che in realtà vi furono cambiamento graduali in un arco di tempo più lungo, ma l’autore non condivide. 4. L’ordinamento centuriato (riforma di Servio Tullio) La riforma dell’esercito determinò il passaggio da un soldato dotato soltanto di armi offensive al modello dell’oplites (dal greco) e cioè uno schieramento compatto di soldati dotati di armi offensive e difensive (scudi e armature), ciò significò: Maggiori livelli di ricchezza individuale Maggiore tecnologia soprattutto nella lavorazione dei metalli La guerra non era più riservata alle singole gens (es. nel 477 a.C. i Fabi partirono contro Vejo e persero sul fiume Cremera) Nasce così il “cittadino” in quanto guerriero perché è in funzione della nuova organizzazione militare che tutti gli individui vennero suddivisi in un certo numero di distretti detti “centurie”che avrebbero sostituito le antiche curie, dovendo, anch’essi fornire 100 fanti alla legione. Tali centurie furono a loro volta, raggruppate in 5 classi, sulla base dei diversi livelli di ricchezza della cittadinanza. Al termine di un lungo e complesso processo organizzativo, completatosi solo in età repubblicana, lo schema classico dell’ordinamento centuriato avrebbe corrisposto ad un totale di 193 centurie. Se in un primo momento la distribuzione dei cittadini per classi si era fondata solo sul calcolo della ricchezza fondiaria, in seguito, si fece riferimento a valori definiti dalla moneta domanda di base: l’asse. La ricchezza andava da 100.000 assi per la prima classe a 10.000 per la quinta. La prima classe forniva all’esercito: 18 centurie di cavalieri 40 centurie di iuniores (cittadini tra i 18 e i 46 anni) 40 centurie di seniores (soldati più anziani che facevano da riserva) La seconda, terza e quarta classe fornivano all’esercito: 10 centurie di iuniores 10 centurie di seniores La quinta classe forniva: 15 centurie di iuniores 15 centurie di seniores A queste 188 centurie si devono aggiungere ancora 5 centurie: 2 di soldati del “genio”, di tecnici equiparate, ai fini del voto, alle centurie di 1° classe, 2 centurie di musici equiparate, ai fini del voto, alle centurie di 4° classe 1 centuria di capite censi, in cui erano inclusi tutti i cittadini privi di qualsiasi capitale ed estranei alla specializzazione ora ricordate. Certamente l’antico patriziato dovette in origine essere ben presente anche nelle classi più elevate delle centurie di fanteria, infatti moltissime famiglie delle gentes patrizie disponevano della ricchezza fondiaria richiesta per l’appartenenza ai ranghi più alti dell’esercito centuriato. Ma, tuttavia, delle prime classi di centurie dovevano far parte, anche molti esponenti di famiglie non patrizie. L’egemonia patrizia, in questa nuova organizzazione militare, restava sempre forte ma non era più assoluta. 140 La società serviana non esprimeva una società fondata su un nuovo tipo di gerarchia. Talché quando l’ordinamento centuriato si estese dall’originaria sfera militare alla dimensione politica, il voto dei membri delle prime classi di centurie fu ben più “pesante” e importante di quello degli altri cittadini ma questo il punto di arrivo di un processo complesso. É probabile che in un primo momento, anche dopo l’età di Servio, la svolta si esaurisse negli aspetti propriamente militari e cioè che consistesse nella mera introduzione delle sole centurie di juniores: l’organico dell’esercito. In tal caso diventerebbe evidente la logica seguita da Servio, che avrebbe mirato al semplice raddoppiamento della legione ordinaria di 3000 fanti. Grazie a Livio e Dionigi sappiamo che solo gli appartenenti alle prime tre classi erano forniti di un armamento pesante, adeguato alla fanteria oplitica. Gli armati delle centurie inferiori si presentavano semplicemente come ausiliari dei primi In effetti queste 60 centurie corrispondono ai 6000 armati cui era pervenuta quell’unica legione romana che, ai tempi della monarchia etrusca, costituiva tutto l’esercito della città. Questa ricostruzione coincide con la distinzione, che era fatta all’interno della popolazione, tra “la classis”, come l’esercito era allora chiamato, e l’”infra classem” categoria costituita da coloro che erano ai margini dell’esercito, con funzioni ausiliarie. Solo in seguito, nell’epoca dei consoli, questa legione originaria verrà sdoppiata, senza però che ciò comportasse l’ulteriore raddoppio dell’organico militare. Ciascuna legione avrebbe infatti continuato a comporsi di 60 centurie, ridotte peraltro dai 100 uomini originari a 60 e talora addirittura a 30, a seconda della qualità degli armati e della diminuita consistenza numerica delle legioni stesse, allorché si privilegiarono unità militari più numerose e agili. Non sembra ostacolare tale ricostruzione l’obiezione di alcuni studiosi sull’inadeguatezza della popolazione romana alla fine dell’età monarchica ad assicurare un esercito di 6000 fanti. Va infatti osservato che l’estensione del territorio di Roma raggiungeva già una dimensione notevole, per cui non sembrano troppo incauti i calcoli che forniscono una cifra di circa 80.000 cittadini. Ignoriamo quando l’organizzazione centuriata dell’esercito si sia tradotta anche in una vera e propria assemblea politica anche se non è da escludersi che questa innovazione sia avvenuta sotto i re etruschi, ma forse è più plausibile che sia accaduta all’inizio della repubblica, quando il popolo riunito per centurie, i comizi centuriati, fu chiamato a eleggere i magistrati cittadini. 5. Le tribù territoriali e il censimento dei cittadini La riforma dell’esercito postulava la conoscenza della ricchezza per determinare la classe di appartenenza dei singoli cittadini, per avere ciò erano necessari alcuni strumenti e infatti risale a Servio l’introduzione del censimento. Inoltre egli modificò anche il sistema di distribuzione della cittadinanza in tribù (Ramnes, Tities e Luceres) determinando: un primo sistema fondato sulla distribuzione di tutti i cittadini in quattro tribù “urbane” che avrebbero ricompreso non solo la cinta urbana, ma anche il territorio circostante Immediatamente dopo, forse sotto lo stesso Servio, alle prime 4 tribù urbane, si aggiunsero le nuove tribù rustiche, realizzando una distribuzione più articolata della cittadinanza. Nelle tribù urbane sarebbero stati raggruppati gli individui privi di proprietà fondiaria, mentre nelle tribù rustiche (che all’epoca della cacciata dei Tarquini ammontavano a 15) furono collocati i proprietari dei fondi in esse situati. Inizialmente quando molto probabilmente il nuovo assetto centuriato coincideva ancora con le sole centurie di iuniores, il nuovo inquadramento della popolazione, lasciava fuori 140 proprio quei patres più anziani, titolari di quella ricchezza familiare in base alla quale i figli potevano essere inseriti in un’adeguata classe di centurie. Solo con la contemporanea distribuzione di tutta la popolazione nelle diverse tribù territoriali divenne dunque possibile rendere trasparente l’organico cittadino, identificando tutta la distribuzione della ricchezza di pertinenza delle varie unità familiari, che costituivano la base dello stesso ordinamento centuriato. In tal modo assumeva tutta la sua rilevanza l’unità familiare - quella che l’autore definisce “l’unità economica di base” del sistema centuriato - in relazione alla quale il singolo cittadino era collocato in una classe o in un’altra di centurie. Alle 19 tribù esistenti alla fine dell’età monarchica si sarebbero aggiunte 2 nuove tribù. Numero destinato a crescere nei centocinquant’anni successivi, per raggiungere quello definitivo di 35, 31 rustiche e 4 urbane. 6. Controllo sociale e repressione penale Tutto ciò produsse la venuta meno del lusso funerario ma non per un impoverimento della società romana, infatti in questo stesso periodo ci fu una fase di grandi spese pubbliche, con la costruzione di templi e opere urbane. Tale svolta sembra piuttosto il risultato di un intervento autoritario della città, interessata a impedire le forme più estreme di sfoggio di ricchezze che, alla lunga, avrebbero potuto indebolire i patrimoni dei ceti aristocratici. Probabilmente le prime leggi volte a stabilire un limite alle spese funerarie furono introdotte in questo periodo e poi recepite nella successive XII Tavole. Un altro settore della vita sociale in cui intervenne il rex, già prima dell’epoca etrusca, riguardò la repressione dei comportamenti individuali pericolosi per l’ordinamento cittadino. Poiché la stessa esistenza della comunità moltiplicava, con la vicinanza, i conflitti, divenne necessario introdurre forme regolate di litigio atte a evitare il confronto violento e governate da procedimenti razionali. Fu allora che si dovettero consolidare i primi meccanismi di una procedura civile e di regole che permettessero agli organi cittadini di distribuire ragioni e torti tra i privati litiganti. Allo stesso modo si intervenne per reprimere le condotte criminali dei singoli individui. Ciò iniziò in forma molto limitata, nelle XII Tavole la “repressione criminale” era limitata ad alcune condotte particolarmente gravi. Il resto era lasciato all’autonomia dei singoli gruppi familiari e gentilizi e alla loro capacità di autodifesa. Dove al massimo la comunità interveniva a regolare le forme e sancire limiti della vendetta e dell’autodifesa privata. La città imponeva il proprio ordine, senza l’intervento del privato offeso, in due casi: l’uccisione violenta di un membro della comunità forme di tradimento o azioni dirette contro l’esistenza stessa della comunità politica" venivano indicate con i termini di perduellio, crimine contro l’ordine politico e della civitas e di proditio, il tradimento con il nemico e comportano la morte del colpevole. Accanto a questi casi, va ricordata una serie di procedimenti repressivi di condotte asociali e dannose in cui spesso la punizione interveniva soprattutto sul piano religioso, anche se con conseguenze personali molto gravi, sino alla morte dell’autore del reato. Tali condotte erano colpite anzitutto perché, violando precetti e regole, attiravano l’ira degli dei sull’autore del misfatto e, con esso, sulla comunità intera. Il caso più importante e con chiare radici preciviche è costituito dalla particolare sanzione consistente nella consacrazione (sacratio) e relativo isolamento del colpevole agli dei. Tale condizione comportava il suo distacco dalla comunità e la perdita di ogni tutela giuridica, esponendolo a qualsiasi aggressione cui non avrebbe reagito l’intervento sanzionatorio della città. Questa pena si dovette applicare alle offese arrecate dai figli al padre, o dal cliente al patrono (o viceversa). 140 la fisionomia militare, unita all’elevata concentrazione dell’imperium loro attribuito, nonché, nel governo della città, l’accresciuto ruolo dell’esercito centuriato, il valore deliberante dei comizi, e l’accresciuta rilevanza del consesso dei patres. Per questa prima età non si può andare molto oltre, giacché lo stesso quadro istituzionale appare oscurato dall’intensità con cui nelle fonti antiche relative al V sec. a.C., si impone in primo piano il conflitto tra i due ordini sociali: i patrizi e i plebei 2. Patrizi e plebei La chiusura dell’aristocrazia gentilizia produsse, come conseguenza, il compattarsi di tanti soggetti, con molteplici interessi, in una categoria (i plebei): ciò ha determinato uno scontro tra patrizi e plebei su piani molteplici: piano politico > concerneva, la radicale esclusione plebea dal governo della città: dalle supreme magistrature sino ai collegi sacerdotali. Il contenuto dello scontro è di per sé evidente, riguardando la pretesa equiparazione dei due ordini. piano economico > qui lo scontro appare più articolato e si sviluppò su due piani: da un lato la richiesta di un alleggerimento dei debiti che opprimevano gli strati economicamente più deboli della città. In moltissime società precapitalistiche i ceti agricoli più poveri avevano il problema dei debiti: bastava un anno o più di cattivi raccolti e subito le riserve familiari venivano consumate. Si facevano debiti che era molto difficile estinguere dati i forti interessi, di qui i rischi crescenti di perdita del campicello avito e di riduzione in totale povertà. dall’altro, aspetto più grave, c’era la questione dello sfruttamento della terra: le fonti testimoniano l’insistente richiesta plebea di distribuire in proprietà privata a tutti i cittadini i territori strappati ai nemici. Tale pretesa si scontrò con la decisa opposizione dei patrizi, interessati a conservare la maggior parte nella forma dell’ager publicus di pertinenza della città, ma sfruttato direttamente dai privati. Della gravità del conflitto dà la misura la crisi e la messa a morte, per opera patrizia, dello steso Spurio Cassio che aveva tentato di venire incontro alle aspirazioni dei plebei. L’accusa rivolta da questi ai patrizi è che essi volessero di fatto mantenere il controllo di tali terre, a favore loro e dei loro clienti. Ciò ha indotto la grande maggioranza degli storici a supporre un’originaria esclusione dei plebei di fatto almeno, se non di diritto, dal possesso e dallo sfruttamento dell’ager publicus. Non si capirebbe altrimenti l’interesse a trasformare questo ager in proprietà privata che sembra ispirare la politica plebea. piano sociale > il punto centrale è in genere indicato dall’assenza del connubio che escludeva la possibilità di nozze valide fra un patrizio e una plebea o viceversa. Queste avrebbero comportato la degradazione sociale dei figli nati da tale matrimonio e la perdita di rango della sposa, se essa era d’origine patrizia. Una sanzione che ribadiva formalmente l’inferiorità sociale dei plebei: i quali, infatti, contro di essa si batterono, sino a ottenerne il superamento con la lex Canuleia del 445 a.C. Il ricompattamento della plebe contro questo sistema di esclusioni fu violento e minacciava la sopravvivenza stessa della comunità politica, si pensi alle “secessioni” sul Monte Sacro sull’avventino (494 e 471 a.C.). La crisi fu superata con il riconoscimento alla plebe di un insieme di strumenti protettivi rispetto alle prevaricazioni delle magistrature patrizie. A guidare la secessione plebea si erano posti dei magistrati, ispirati alla figura dei tribuni militum, o addirittura alcuni tribuni militum dell’esercito centuriato schieratisi con la plebe, che avevano assunto il nome di tribuni della plebe. Il compromesso politico che ne seguì comportò il loro riconoscimento come organi della città: sancendo dunque il loro “diritto d’aiuto” (ius auxilii) a favore della plebe ciò significò: 140 una loro esclusione, per molto tempo, dall’effettivo governo della città, un’attribuzione generalizzata e sempre più penetrante funzione di controllo nei riguardi dell’azione degli altri magistrati repubblicani. Il loro potere d’intervento “negativo” s’estese, nel tempo, all’intera vita politica cittadina, sostanziandosi nella possibilità loro riconosciuta d’interporre l’intercessio: un veto, contro qualsiasi atto o delibera dei magistrati o dello stesso senato. In tal modo l’autorità dei tribuni non era subalterna alle strutture cittadine, potendo, in teoria, giungere a paralizzare nel suo complesso la vita stessa della comunità. La posizione di questi magistrati era poi rafforzata dal carattere sacrosanto della loro persona, originariamente affermato con una lex sacrata (un giuramento assunto collettivamente dalla plebe ma vincolante, per il suo fondamento religioso per l’intera comunità) e sempre in seguito confermato. Il punto di forza della plebe era l’assemblea, il concilium plebis, organizzata sulla base della distribuzione per tribù territoriali, che votava proprie delibere: i plebisciti, ed eleggeva propri magistrati: i tribuni e in seguito gli edili. Erano i primi e fondamentali passi verso un processo di equiparazione ma l’aristocrazia ancora aveva il monopolio delle cariche magistratuali, e le altre pretese plebee volte a riequilibrare i rapporti di carattere economico-sociale tra i due ordini non erano state accolte. Per il momento, il mondo plebeo costituiva ancora una realtà sociale autonoma e antagonista. Per questo, con i suoi magistrati, la plebe mantenne un tessuto identitario separato, con tradizioni religiose, divinità e templi suoi propri. Sino addirittura a identificarsi con una sua sfera territoriale al di fuori del recinto sacrale della città: l’Aventino. La sua posizione, tuttavia, conobbe un progressivo consolidamento e già verso la metà del V sec. a.C. ci furono i primi passi in avanti nella lotta per la parificazione politica e sociale dei due ordini e, con essa, di un mutamento complessivo dell’assetto cittadino. Di questo mutamento istituzionale gli antichi sottolineeranno soprattutto l’aspetto inerente ad una maggiore libertas (aspetto che ha dell’ideologico). Espressione di tale libertas è il fondamentale diritto riconosciuto a ogni cittadino di appellarsi al popolo di fronte al potere di repressione criminale del magistrato, sino ad allora giudice ultimo sulle questioni di vita o di morte. É possibile che una prima legge in tal senso fu approvata già all’inizio della repubblica, sicuramente fu ribadita e meglio formulata (se non introdotta allora per la prima volta) nel 449 a.C., subito dopo le XII tavole, con una legge Valeria Orazia. Tale normativa vietava ai magistrati di mettere a morte un cittadino romano colpevole di una colpa capitale, senza previa consultazione del popolo riunito nei comizi. 3 Le XII tavole Nel V sec. a.C. i plebei ottennero la redazione scritta del corpo di regole che regolava la vita della città. In tal modo infatti veniva meno il monopolio della conoscenza e dell’interpretazione del diritto cittadino sinora esercitato dal corpo aristocratico dei pontefici. Questa grande innovazione, a cui i patrizi si opposero, fu possibile perché il capo dell’autorevole gens Claudia, Appio, si schierò a favore di tale richiesta, assumendo una funzione centrale nel nuovo processo legislativo. Per l’anno 451-450 a.C. al posto della normale coppia consolare si istituì un collegio di 10 membri, con il compito, oltre all’ordinario governo della città, di leges scribere, cioè di redigere per iscritto le leggi della comunità cittadina. Appio Claudio fu chiamato a presiederlo. In questa svolta giocava anzitutto una più matura aspirazione a quella certezza che solo la norma scritta può dare rispetto a formule di carattere consuetudinario e che appare costantemente riproporsi nel corso della storia. Ma forse dovette affiorare allora anche una prospettiva nuova che tendeva a ridefinire la stessa concezione romana del diritto: infatti il 140 valore irreversibile del testo scritto e di una legge “eguale” per tutti i cittadini era di per sé, una nozione nuova nell’esperienza romana. Questa svolta fu importantissima e probabilmente andò oltre alla questione del controllo della vita giuridica infatti il collegio: composizione > si componeva di 10 membri tra cui dei plebei e questo realizzava la sostanziale parificazione politica dei due ordini potere > aveva poteri assoluti e sottratti alla provocatio che limitava invece l’imperium dei magistrati ordinari. Ciò permette d’immaginare che il decemvirato, pur all’origine finalizzato alla redazione delle leggi, avesse un significato più ampio, di organo generale di governo della città e delle sue leggi (l’autore Livio confermò questa tesi). Esso : sostituiva i due consoli comportava la sospensione di ogni altra magistratura, compresi i tribuni della plebe. La tradizione è chiara circa la redazione delle XII Tavole, ma è molto oscura circa le vicende successive. Il collegio, rieletto per il secondo anno, per completare la redazione delle tavole della legge, sempre presieduto da Appio Claudio, fu integrato da alcuni plebei. Una svolta importante ma resa incomprensibile dalla fisionomia tirannica e antiplebea attribuita dagli antichi ai nuovi decemviri e, ora, allo stesso Claudio. Come già avvenuto nel caso dell’espulsione dei Tarquini da Roma - associata all’aggressione sessuale di Lucrezia, moglie di Collatino (che sarebbe stato eletto insieme a Bruto membro della prima coppia consolare) da parte del figlio di Tarquinio il Superbo, con il conseguente suicidio dell’oltraggiata - anche la crisi del decemvirato, la relativa catastrofe politica e la morte del decemviro Appio Claudio, è legata alla violenza da questi arrecata a una fanciulla plebea, Virginia. Ma anche in questo caso la vicenda romanzesca cela una crisi politica. Tralasciando le contraddizioni della figura di Appio Claudio è importante chiarire il concetto di libertas repubblicana che non ha connotazioni di carattere democratico, non è una libertas di tutti, ma delle consorterie aristocratiche: è fondata sull’eguaglianza di pochi. Chi non rispettava, più o meno consapevolmente, questo sistema era additato come tiranno, come colui che aspirava a un potere assoluto, l’adfectatio regni. Questo fu lo strumento per colpire ogni personalità che non mostrava sufficiente lealtà al gruppo dirigente (Spurio Cassio, Appio Claudio il decemviro, i Gracchi fino a Giulio Cesare). Uno strumento usato dall’aristocrazia che era sempre mutevole nella sua composizione interna, ma dominata da una logica sempre uguale: quella di colpire tutti coloro che in qualche modo tendano a indebolire i suoi interessi a favore di una visione diversa degli equilibri politici della città. Con la concentrazione delle funzioni di governo e legislative nei decemviri e nell’assemblea popolare sembrò che tutto “il diritto” fosse riportato all’interno della “politica” e subordinato alla volontà del popolo. Era la strada che avrebbe potuto portare la struttura intimamente aristocratica di Roma verso un tipo di democrazia di matrice greca. ma ciò non si realizzò perché la fine di Claudio fece rapidamente rientrare il sistema giuridico nel suo alveo tradizionale e infatti si salvò solo il programma originario. Dal 449 a.C. le XII Tavole rappresentarono la nuova realtà istituzionale alla quale i Romani si sarebbero rivolti per secoli come il punto iniziale della loro storia giuridica. Queste tavole rappresentavano il fondamento dello ius civile ma non esaurivano l’intero sistema giuridico e di ciò i romani ne erano consapevoli. La maggior parte delle norme contenute nelle XII Tavole si riferiscono e spesso modificano i mores ancestrali già preesistenti. Per questa ragione non si può utilizzare il termine “codice” per riferirsi alle tavole. Discorso diverso riguarda l’importanza ideologica di tale legislazione a cui nei secoli successivi si continuerà a fare riferimento sia per le sue norme specifiche che per il suo valore generale di riferimento all’ordinamento giuridico romano. Ciò che è certo è che con il 449 a.C. limiti e vincoli più precisi furono posti ad antiche pratiche, infatti: 140 distribuzione della terra veienti comportò l’acquisizione per le varie famiglie di un multiplo dei 7 iugeri pari al numero di figli maschi ancora soggetti alla potestas del pater. La sequenza politico-sociale che si innesta a partire dal 396 è impressionante: V sec. > ristagno della popolazione e si era fermi a 17 tribù rustiche tra il 387 e il 332 > si aggiunsero 8 nuove tribù 241 a.C. > si arrivò al numero definitivo di ben 31 tribù rustiche. 367 a.C. > furono approvate tre distinte proposte di legge che, dai magistrati proponenti sono ricordate come le Leggi Licine Sestie. Queste: per i Romani rappresentarono una svolta nella vicenda della lotta patrizio-plebea con cui la plebe conseguì gran parte degli obiettivi principali che si era prefissi, sia sul piano politico che economico-sociale. non realizzavano una rivoluzione che annullava dalla sera alla mattina la precedente realtà, cancellando integralmente i precedenti squilibri. accelerarono un processo di trasformazione delle strutture politico-istituzionali e sociali di Roma che rese possibile una saldatura tra i due ordini sociali. I patrizi e i plebei restarono distinti per tutta l’età repubblicana e oltre ancora, ma a livello politico essi vennero rapidamente fondandosi in un nuovo ceto di governo patrizio-plebeo In particolare: La prima delle Leggi Licinie Sestie prevedeva che uno dei due consoli potesse essere plebeo (divenendo ciò un vincolo solo in seguito). Si apriva così la strada per la piena partecipazione della plebe a tutte le cariche politiche e religiose romane. La seconda legge introduceva un limite al possesso di terre pubbliche da parte di ciascun cittadino, cosicché, con la definitiva frantumazione delle terre dei patrizi, i possessi di minori lotti di terre pubbliche divennero effettivamente accessibili a un maggior numero di cittadini, ivi compresi i plebei. La terza prevedeva una serie di provvedimenti volti a limitare il peso dei debiti, prevedendo che gli interessi già pagati dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Un insieme di norme di grandissima rilevanza sociale, limitò e poi soppresse definitivamente l’asservimento personale del debitore, rompendo le forme di dipendenza arcaiche, il cittadino indebitato restava così vincolato solo sul piano giuridico ed economico. Nel frattempo l’unica vera forma di lavoro dipendente divenne la “moderna” schiavitù, destinata a rappresentare un elemento fondante dell’economia romana per tutta la sua storia successiva. dopo il 367 a.C. > si andò verso il completamento dell’architettura costituzionale della città, in particolare: i censori assunsero una fisionomia più netta, furono precisate le loro competenze per quanto concerne l’arruolamento da loro effettuato, nei ranghi del senato, degli ex magistrati, sia patrizi che plebei. Essi diventavano così i garanti della costruzione di una nuova aristocrazia politica, la nobilitas patrizio-plebea selezionata sulla base delle cariche magistratuali e della sua appartenenza al senato, che si sostituì, nel governo della res publica, all’antica nobiltà di nascita costituita dai patrizi. venne istituto il pretore, una magistrature che aveva il compito di amministrare la giustizia e a regolare le controversie tra i privati: il pretore. Cap. 5 - Il compito disegno delle istituzioni repubblicane 1 Il consolato e governo della città 140 Il quadro istituzionale della città dell’epoca era molto distante dagli ordinamenti attuali e moderni, per diverse ragioni: assenza di una costituzione scritta presenza di singole leggi che avevano introdotto nuove figure di governo e nuovi compiti per le magistrature già esistenti Da qui deriva l’enorme importanza della successiva interpretazione e delle prassi che regolavano l’apparato politico, senza od oltre la norma. Questo sistema permetteva di allontanarsi, in certe circostanze, dalle pratiche e dalle regole senza che scattasse una impossibilità assoluta che solo un’inesistente e per i Romani inconcepibile superiore istanza, qual è, nel mondo moderno, un giudizio di costituzionalità o di legittimità, avrebbe potuto rendere effettiva. Ma gli storici del diritto moderni, secondo l’autore, non sono riusciti a concepire ciò forse perché troppo influenzati dal modo di concepire lo “stato” o la “costituzione” e ciò non ha permesso di pervenire a un disegno costituzionale di Roma coerente e solido. Per questa ragione e per problemi di spazio l’autore si limita a indicare il nucleo centrale delle competenze riconosciute a ciascun organo della repubblica. I consoli sono stati probabilmente introdotti all’inizio della repubblica ma riaffermati a regime definitivamente solo nel 367 a.C. erano una coppia di magistrati, al vertice dell’intero assetto di governo della città e avevano il supremo potere di comando (imperium, superiore a quello di ogni altro magistrato). Erano magistrati eponimi che rimanevano in carica un anno (per individuare l’anno, i Romani richiamano il nome dei due consoli in carica). L’antica figura del rex presentava fusi in sé due fondamentali aspetti: un ruolo politico- militare e uno religioso che si esprimeva nella sua inauguratio, e nella legittimazione a interrogare la volontà degli dei, mediante gli auspicia. Sparito il rex, rimase soltanto la sua connotazione religiosa che venne attribuita al “rex sacrorum” un membro eminente ma formale del collegio pontificale. Ciò significava che: le nuove cariche repubblicane erano prive della dimensione religiosa salvo che per il potere/dovere di interrogare gli dei prima di compiere un’azione pubblica (auspicia) si completava quel processo di “laicizzazione” del governo cittadino che, secondo l’autore, si era già avviato sotto i re etruschi. Con la sua scomparsa i Romani ne preservarono alcuni aspetti meramente religiosi in capo a quello che potremmo indicare come un “fossile istituzionale”: il rex sacrorum. L’imperium consolare si distingueva: imperium domi > era esercitato all’interno del confine della città e serviva per governare la comunità politica e la vita dei suoi membri, nel tempo venne limitato, in particolare, con il diritto dei cittadini di appellarsi al popolo contro la repressione esercitata dai magistrati, ma anche al potere di veto esercitato dai tribuni della plebe. imperium militiae" si sostanziava in un comando militare, fuori della città. Conobbe delle limitazioni di scarso numero e poco significative. I comizi centuriati decideva della guerra, ma i consoli avevano il potere di: provvedere all’arruolamento dei cittadini, previa decisione del senato, e, successivamente, dirigere la campagna militare, con la supervisione del senato, assicurando la disciplina dell’esercito. mettere a morte i propri soldati in casi particolarmente gravi, previo parere di un consilium magistratuale, ma le procedure erano piuttosto sommarie. In seguito le garanzie a favore dei cittadini vennero estese anche nei riguardi del comando militare esercitato fuori del pomerium. 140 imporre dei tributi ai cittadini per sostenere le spese della guerra. All’interno della città, nell’esercizio del governo civile, ai consoli era riconosciuto sin dall’inizio un duplice potere: il ius agendi cum populo > era il potere di convocare i comizi centuriati per proporre l’approvazione di nuove leggi o per eleggere i magistrati, procedendo quindi alla proclamazione degli eletti. In questo caso essi, d’intesa con il senato, presentavano ai comizi liste preselezionate e circoscritte dei candidati. il ius agendi com patribus > era il potere di chiedere il parere del senato su problemi di particolare rilievo relativi al governo della città, soprattutto per quanto concerne la politica estera, la politica monetaria e le materie di carattere religioso. Essi inoltre potevano/dovevano: gestire il tesoro pubblico, sotto il controllo del senato con l’ausilio dei questori amministrare le terre pubbliche quando non erano in carica i censori. esercitare diverse competenze nel campo della repressione criminale che furono limitate dal diritto di provocazione al popolo per quanto concerne la pena di morte, esercitare la giurisdizione sulle controversie tra privati. Si tratta di un insieme di competenze che sicuramente spiega parte degli equilibri repubblicani: da una parte infatti un’ ampia quota dei poteri sovrani di delibera e di orientamento appartiene al senato e ai comizi, ma senza l’iniziativa di uno dei due titolari dell’imperium questi organi non potevano svolgere il loro ruolo essendo esclusa l’autoconvocazione. Il carattere collegiale di tale magistratura faceva si che entrambe i consoli avessero gli stessi poteri per cui l’unico limite era dato dagli identici poteri in capo all’altro console. Infatti, attraverso lo strumento dell’intercessio, un console poteva paralizzare qualsiasi attività del collega o di ogni altro magistrato cittadino, a eccezione del dittatore (la cui presenza in origine era alternativa alla loro persistenza in carica). Questo sistema rendeva possibile l’esplosione di crisi non risolvibili all’interno della dinamica delle magistrature stesse. Crisi tanto più gravi se fossero intervenute in tempo di guerra dove, in teoria, il comando militare era indiviso, e quindi un accordo era fondamentale. Solo in via empirica si cercò di ovviare a tali inconvenienti, sempre con la regia del senato, dividendo in pratica le competenze e lasciando ciascun console a gestire in modo relativamente autonomo certi settori della cosa pubblica. Ma nulla vietava che entrambi i consoli si ponessero alla testa della stessa armata romana, sino a dover governare, ad esempio, un giorno per uno: anche qui con ovvi ed evidenti inconvenienti pratici in termini di efficienza e certezza delle scelte intraprese. Nel corso del tempo l’ambito di competenze assegnate, con la regia del senato, a ciascuno dei due consoli si definì in modo più netto. Esso venne indicato con il termine provincia, che poi sarebbe passato indicare l’oggetto primario dell’imperium magistratuale, e cioè il territorio extraitalico su cui esso si esercitava. L’aumento del numero e delle figure di magistrati chiarirà il ruolo superiore e centrale dei consoli, rispetto a tutte le altre figure in posizione subordinata, a eccezione dei censori, eccentrici rispetto all’intero sistema magistratuale. Mentre il potere consolare dell’intercessio sancirà formalmente il carattere gerarchico dell’ordinamento delle magistrature repubblicane. Come l’imperium consulare derivava direttamente dal potere del rex, egualmente la simbologia ad esso relativa, introdotta dai re etruschi, si trasmise intatta ai consoli: il colore porpora dei bordi della loro tunica, il particolare seggio magistratuale 140 sedile, la “sella curule” di spettanza dei magistrati romani), appartenenti invece alle magistrature cittadine con i compiti di sovrintendere: alla vita materiale ed economica della città, dai mercati (controllo prezzi) alla viabilità, all’igiene, alle cerimonie pubbliche e, in seguito, ai giochi pubblici. Un’altra innovazione importante era stata, nel 442 a.C., l’introduzione dei censori (retaggio dei re etruschi). La redazione del censimento della popolazione era un compito delicato che permetteva di fotografare la cittadinanza romana ma i censori oltre al controllo potevano anche modificare le situazioni date. Così si distinguevano i cittadini dagli stranieri e dagli schiavi e, tra i cittadini, gli “ingenui”, dagli schiavi manomessi: i “liberti”. Ciascun cittadino era quindi collocato nella sua famiglia, associato alla proprietà fondiaria di cui era titolare, radicato nelle varie tribù territoriali e inserito nelle classi di censo cui lo legittimava la sua ricchezza familiare. Con la lectio senatus (la redazione della lista dei vecchi e nuovi senatori) si inserivano nuovi nomi, tra i membri del senato, a riempire i vuoti verificatisi nel quinquennio precedente a seguito delle morti o di altri eventi. Non sappiamo bene come avvenisse, all’inizio, questa scelta dei nuovi senatori. Probabilmente dalla fine del IV sec., in coincidenza col plebiscito Ovinio, la selezione venne definitivamente attribuita ai censori ed agganciata a criteri obiettivi. Venivano anzitutto prescelti gli ex magistrati, partendo dall’altro: prima gli ex censori ed ex consoli, poi gli ex pretori e infine gli ex questori. Ma i censori potevano anche escludere dai ranghi del senato, con un apposito provvedimento, un suo membro che si fosse macchiato di comportamenti lesivi del prestigio di tale consesso. Si trattava di una grave decisione che derivava dal loro generale potere di controllo dei costumi dei cittadini: la cura morum. In base a essa, nei casi più gravi, tali magistrati potevano irrogare una specifica sanzione consistente nella nota censoria. Essa comportava una generica condizione di ignomina all’interno della comunità cittadina, e poteva anche determinare una retrocessione nel ruolo politico- sociale, con l’iscrizione del cittadino indegno in una classe di centurie inferiore a quella cui aveva diritto in base al suo patrimonio, o col suo allontanamento dalla classe dei cavalieri, o dai ranghi senatori. Un altro ambito di competenza dei censori concerne l’amministrazione delle proprietà e dei beni pubblici, da loro registrati nel censimento insieme ai patrimoni privati. Essi inoltre sovrintendevano alle attività economiche della città, anzitutto controllando le entrate e le spese pubbliche, e provvedendo allo svolgimento di tutte quelle attività fondate sul sistema degli appalti da parte dei privati. I censori venivano eletti ogni cinque anni e duravano in carica fino al completamento del censimento, ma non oltre i 18 mesi. Altissimi erano il loro prestigio e il rango, addirittura preminente rispetto ai consoli, pur non avendo dirette funzioni di governo o compiti militari. La severa repressione (sino alla riduzione in schiavitù) di chi dolosamente si sottraeva al censimento era attuata solo attraverso la coercizione materiale esercitata dai consoli o da altri magistrati cum imperio. Non è chiaro sino a che punto l’intercessio dei tribuni della plebe potesse rivolgersi contro la loro attività. Anche dopo il vertiginoso allargamento del potere di Roma, l’organico delle magistrature ordinarie restò straordinariamente circoscritto. Non costituiscono un’eccezione: i praefecti Capuam Cumas i successivi prefetti delegati dal pretore con funzioni giurisdizionali nelle località italiche 140 i magistrati con funzioni di polizia criminale: i tresviri capitales e i quinqueviri cis Tiberim i decemviri litis iudicandi giudici permanenti nelle cause di libertà Magistrature straordinarie sono invece quelle istituite appositamente per specifiche esigenze sorte di volta in volta al governo della repubblica. Si tratta anzitutto dei magistrati nominati agris dandis adsignandis et coloniae deducendae, preposti alle attività richieste per la fondazione di una colonia, con la complessa procedura di divisione e redistribuzione delle terre coloniarie mediante la centuriazione. 3. Il senato Per tutta l’età monarchica e per il primo secolo della repubblica il senato era composto quasi esclusivamente da patrizi. Solo quando i plebei iniziarono a essere ammessi gradualmente alle magistrature superiori essi si inserirono progressivamente nei ranghi del senato con il nome di conscripti. Da allora l’endiadi patres conscripti indicherà il senato nella sua pienezza. Questo organo, sin dalle origini della repubblica, aveva alcune funzioni esclusive. 1) Si occupava di approvare, integrandone l’efficacia con la propria auctoritas, le delibere dei comizi in tema di legge. Nel corso del tempo una serie di leggi (tra il 339 e il 290 a.C. circa) stabilirono che questa approvazione senatoria non dovesse confermare la delibera comiziale, ma intervenire preventivamente, come autorizzazione dei vari magistrati a presentare una proposta ai comizi. Il mutamento aveva lo scopo di sottrarre la sovranità del comizio, nella formazione della legge, alla conferma da parte del senato, il cui ruolo non fu cancellato, ma solo ridotto ad un filtro preventivo. 2) Era il propulsore e ispiratore dell’intera politica romana, nel corso di tutta la repubblica, e il suo funzionamento come stanza di compensazione delle opposte linee politiche e di governo, trovavano un momento di particolare rilievo nell’assistenza e consulenza prestata all’azione di governo dei magistrati superiori. Consulenza non meramente facoltativa, giacché il “consiglio” non lasciava molti margini alla libertà d’azione del magistrato steso. Infatti soprattutto in certi settori coma la politica estera, le scelte tra la guerra e la pace, i problemi e gli affari di carattere religioso, la gestione delle entrate e delle uscite si affermò una prassi consolidata che vincolava l’azione del magistrato, prima, a chiedere il consultum del senato e poi a seguirne l’orientamento. 3) aveva il potere strategico di approvare la selezione dei candidati alle varie cariche magistratuali effettuate dai magistrati in carica. 4) aveva un potere di controllo sulla gestione delle risorse finanziare (‘l’aerarium populi Romani) Questa specie di monopolio nell’impostazione e indirizzo delle linee di governo era, a ben considerare, la necessaria risposta al carattere strettamente temporaneo delle cariche magistratuali. Nel corso di un anno (la loro durata ordinaria), una politica di lungo respiro interna o estera non poteva certo essere realizzata anche se sovente, gli stessi personaggi venivano nuovamente eletti ad altre cariche nel corso di un periodo di tempo relativamente ristretto. Per cui il luogo di dibattito e di orientamento oltre che la memoria storica delle scelte già intraprese e la stanza di regia delle strategie di lungo periodo della politica romana doveva essere inevitabilmente il senato, che garantiva, anche una sorta di coordinamento della coppia consolare. Inoltre è necessario aggiungere che i magistrati romani, scaduto l’anno di carica, venivano a far parte, per tutto il resto della loro vita attiva dei ranghi del senato, per cui il loro 140 comportamento era condizionato dal senato. Ecco spiegata l’omogeneità dell’organizzazione magistratuale romana con la politica e gli interessi senatori. Peraltro la carica a vita, unita all’assenza di elezioni senatoriali garantiva a quest’organo una notevolissima autonomia e indipendenza. Quanto agli aspetti concreti del suo funzionamento, il senato non si poteva autoconvocare, essendo questo compito affidato ai titolari del ius agendi cum patribus. La sua organizzazione interna funzionava secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex magistrati, infatti la sua presidenza era affidata all’ex. censore più anziano. Con il consolidarsi delle sue competenze nella politica estera, il senato si arrogò il diritto d’inviare ambascerie presso i popoli stranieri per trattare accordi e ogni questione di rilevanza internazionale. I personaggi prescelti per compiere tali missioni erano indicati come legati, i cui compiti erano predeterminati da un apposito senatoconsulto. Nella tarda repubblica essi erano scelti esclusivamente tra i membri di questo consesso. In questa prospettiva si coglie un carattere di fondo delle istituzioni politiche repubblicane presente agli inizi e fino alla crisi del II sec. a.C. che avvierà il tramonto della libera res publica. Si tratta di quello che potremmo definire il loro carattere “consociativo”. Infatti questo potere non procedeva secondo la “divisione dei poteri” o meccanismi posti a tutela della maggioranza o della minoranza. Al contrario, il governo della comunità richiedeva la compartecipazione di tutti i soggetti politici nella gestione dei singoli centri del potere politico. Si seguiva il principio della maggioranza (es. per le delibere senatoriali) ma all’interno di ogni azione di governo, di ogni scelta assunta secondo tali logiche c’era comunque un minimo consenso comune. Quando questo non c’era scattava il meccanismo dei poteri di veto. il potere di veto e di paralisi insito nella struttura istituzionale repubblicana. E’ rilevante il fatto che il sistema di governo della repubblica, malgrado questo singolare carattere, abbia funzionato a lungo e, nel complesso, in modo molto efficace. Infatti esso ha mostrato spesso notevoli capacità in senso “decisionista”, come tempestività di scelte e di interventi, tali da non risentire, in apparenza, delle potenzialità negative. 4. Il popolo e leggi le della città L’avvento della repubblica portò il problema dell’elezione annuale dei vari magistrati: questa funzione fu affidata alla versione civile dell’antica organizzazione militare dei comizi centuriati. Ma in questa assemblea il peso dei cittadini era disuguale, sia in relazione al censo che all’età. infatti si deliberava a maggioranza delle centurie che costituivano ciascuna un’unità di voto ma: le centurie delle prime classi e, all’interno di ciascuna classe, quelle dei seniores, erano meno affollate rispetto a quelle delle classi inferiori e a quelle degli juniores e pertanto i loro membri avevano un peso politico maggiore. Per ciascuna classe sussisteva infatti un eguale numero di centurie comprensive di cittadini più giovani (dai 18 ai 45 anni d’età) e di seniores (dai 46 ai 60 anni). E’ ovvio che, data la durata media della vita, minore che ai nostri giorni e dato il numero inferiore di anni in essi ricomprese, il numero di seniores all’interno della stessa classe di centurie fosse minore che quello dei corrispondenti juniores. Di qui il peso ponderato maggiore dell’anziano rispetto al giovane, oltre che del ricco rispetto al povero. Le centurie votavano secondo un ordine progressivo. In un primo momento il voto era orale ed era raccolto da appositi funzionari, poi si passò alla votazione scritta. Il numero complessivo delle centurie era 193 per cui se le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della prima classe, votavano in modo uniforme, realizzavano da sole la maggioranza, la decisione era presa e si poteva chiudere la votazione, infatti le ultime centurie del comizio raramente riuscivano a esprimere il loro voto. 140 pupulus Romanus Quirites - ma questa pluralità appare offuscata dalla moderna espressione “città stato”, con tutta la proiezione in essa dei nostri valori. Inoltre si devono considerare i due aspetti del rapporto tra entità politica e il suo diritto: da una parte infatti ci troviamo di fronte all’idea che alcune delle sue strutture fondanti preesistono a essa, consistendo nell’originario patrimonio ancestrale dei mores. Infatti Cicerone nel De Republica individua nel “consenso fondato sul diritto” la base stessa della comunità politica. Dall’altra è però certo che è la città a produrre il suo diritto e la sua forma istituzionale. Infatti con la repubblica una nuova idea di legalità si impose rispetto all’immagine primitiva del governo semidispotico di un rex. Quest’idea si lega: all’idea di un’eguaglianza dei cittadini di fronte alle norme della città: idea già dominante all’epoca delle XII Tavole e certo non esclusiva dei Romani, alla consapevolezza che l’esistenza della res publica poneva limiti a ogni titolare dei segmenti di sovranità ripartiti tra gli organi della città. Infatti oltre alle regole scritte vi erano dei principi, non sempre scritti, ma legati al concetto di Repubblica, uno di questi era il riconoscimento della libertà personale (sancita dalle Leggi Valerie Orazie). Ciò produceva delle conseguenza altrettanto giuridiche. Ad esempio un principio generale che regolava la legislazione romana riguardava il divieto di adottare norme di carattere “singolare” ma volte a colpire specificatamente una posizione individuale. A tale principio si legava il divieto di introdurre privilegia negativi. In linea con quanto detto si svilupperà nella tarda repubblica un riflessione giuridica (che conosciamo grazie a Cicerone) circa un nucleo di principi e di reciproche garanzie, all’interno della comunità politica, legato alla esistenza di questa e immodificabile, o difficilmente e limitatamente modificabile, senza minacciare l’essenza stessa della comunità politica. Questa idea riaffiorava con forza nei momenti “negativi”: quando ad esempio un tribuno della plebe, senza scandalo dei consociati e senza sembrar sovvertire l’ordine costituito, chiama in giudizio un ex magistrato per una condotta, non illegittima dal punto di vista delle norme scritte, eppur lesiva di un diritto dei cittadini, sentito come acquisito e vitale da parte dell’intera comunità. In questa prospettiva si colloca l’altro assunto posto a salvaguardia della repubblica ma mai formulato esplicitamente da una norma positiva: il divieto di attentare all’esistenza della res publica. Ora questi stessi principi (che oggi sarebbero espressi in una costituzione), non necessariamente scritti, non erano neppure predeterminati e conoscibili ex ante, ma sono incorporati nella stessa costruzione repubblicana. Per questo alcuni punti non potevano essere messi in discussione in quanto sono fondamento da tutti condiviso, ad esempio: il ruolo dei tribuni della plebe l’esistenza della coppia consolare il diritto alla provocatio Si tratta di pochi e fondamentali meccanismi che possiamo considerare come il nucleo della costituzione reale della repubblica. Esso è integrato in un sistema più fluido e poco determinato di regole che ne integrano il contenuto rendendone possibile il funzionamento concreto. La loro efficacia e le relazioni tra di esse varierà nel tempo, sia a seguito di leggi positive, come sarà per la funzione dell’auctoritas senatoria, sia per gli equilibri concreti tra gli organi, come ad esempio nel sovrapporsi di un potere dei comizi e del senato in molte decisioni assunte alternativamente dall’uno o dall’altro organismo. Sovente si tratta di principi incorporati nel complesso edificio istituzionale e privi di una loro formale evidenza, finché un comportamento o una norma di diritto positivo sembri intaccarne l’esistenza: solo allora se ne coglie l’esistenza. Insomma la violazione evidenzia e quindi sembrerebbe “creare” per reazione, la norma stessa. 140 Peraltro non esistendo una “carta” o un disegno definito di queste regole fondanti, non era concepibile l’esistenza di un organo apposito che valutasse la possibile violazione. A ben vedere, questo aspetto “indeterminato” è un carattere di fondo dell’esperienza giuridica romana. La stessa costruzione del sistema dei diritti privati, il lascito più importante del sapere giuridico romano, presenta una tendenza al “non compiuto”, al mai definitivamente stabilito, una volta per tutte. La portata effettiva delle norme e delle regole consuetudinarie, il funzionamento dei singoli istituti e il sistema di relazioni tra di essi, insomma il quadro prodotto dall’incessante lavoro di generazioni di giuristi, non trovano mai una rigida definizione. Al contrario, essi costituiscono il risultato di un processo dialettico in continuo divenire, caratterizzato quindi da quel margine di variabilità e di incertezza che esprime anche la creatività e l’elasticità del sistema. Per concludere questo discorso su quelli che oggi chiameremo i “fondamenti costituzionali“ dell’ordinamento romano, è ovvio che la sua stessa indeterminatezza si prestò a varie interpretazioni e sollecitazioni in senso diverso e opposto. Così come è ancora più ovvio che la colossale avventura in termini di potere e di conquista che caratterizza la storia di Roma dal IV sec. sino al I sec. a.C. comportasse trasformazioni profonde e radicali riletture di questo patto sociale, inespresso e tuttavia sempre presente nella coscienza collettiva. Trasformazioni che, appunto permisero a Roma di far fronte a situazioni assolutamente nuove, anzitutto modificando la sua stessa fisionomia istituzionale, rispetto alla logica propria della città come unità politica. Grandissimo fu il percorso effettuato e relativamente rapido, ma sempre con un qualcosa di provvisorio. Si trattò di un continuo ritorno sulle soluzioni già acquisite perfezionando e correggendo il disegno istituzionale romano: mai definitivamente compiuto, sempre in divenire. Altra differenza rispetto alla storia degli stati moderni dell’Europa continentale. Cap. 6 - La strada per l’egemonia italica 1. Cittadini e stranieri Indipendentemente dalla discussione tuttora viva circa la verità storica delle conquiste attribuite dagli storici antichi a Roma in età monarchica, va ricordato come il territorio di Roma, in origine di circa 100 kmq, verso la fine del VI sec. a.C. fosse aumentato di circa popolazione cittadina, accelerato dall’assorbimento delle minori comunità vicine. Ciò determinò un accentuarsi della distinzione tra la comunità cittadina e ciò che “ne è fuori” cioè: tra Romani e gli stranieri. A eccezione dei diritti politici, riservati soltanto ai propri cittadini, vige, negli stati moderni, il c.d. principio della “territorialità del diritto”. Il diritto dello stato si applica cioè a tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Costoro dovranno rispettare le leggi civili e penali dello stato ospitante e automaticamente riceveranno una tutela analoga a quella dei suoi cittadini, in una condizione di sostanziale eguaglianza. Al contrario, nel mondo antico, sia in Grecia che nella penisola italica tendeva a prevalere il criterio opposto per cui ogni individuo era legato alla sua patria d’appartenenza e al diritto proprio di questa. Se si fosse trovato nell’ambito di un’altra comunità politica, egli sarebbe restato estraneo al diritto proprio di essa, non avendo quindi, almeno in teoria, la facoltà di utilizzarlo e di chiedere la protezione legale di cui fruivano i cittadini di quest’ultima. Di qui l’importanza, sin dall’origine, del sistema di templi e di santuari aperti a tutti i pellegrini e in grado di offrire protezione al viaggiatore. 140 Tuttavia già in tempi antichi si sperimentarono nuovi e più “giuridici” meccanismi per assicurare tutela adeguata ai membri delle varie comunità interessate. Uno dei primi strumenti fu la concessione a un singolo o a un gruppo di stranieri dell’hospitium da parte di privati o della città, senza che ciò postulasse un accordo con la città di questi stranieri. Le radici di questo istituto risalgono alle forme di circolazione gentilizia: in origine era il modo in cui si formalizzava la protezione che potenti clan privati assicuravano ai loro “amici” di altre comunità, una forma di protezione dentro il proprio ordinamento. Tra chi aveva concesso l’hospitium e il suo beneficiario intercorreva un vero e proprio vincolo volto ad assicurare la tutela dello straniero. Succesvviamente accanto a questo hospitium privato, intervenne un hospitium pubblico concesso dalla città stessa ad alcuni stranieri che permetteva a essi di rivolgersi ai tribunali locali per protezione legale, l’istituto ebbe molto successo e fu molto utilizzato. Lo strumento generalizzato per fronteggiare le esigenze di tutela dei propri cittadini “all’estero”, fu quello dei trattati internazionali che i Romani utilizzavano da molto tempo prima, come attestano le fonti e come è confermato dalla precoce presenza dei feziali, preposti alla loro stipula. Spesso l’oggetto di tali accordi andava ben oltre la reciproca tutela legale dei propri cittadini, concernendo anche il ruolo e gli interessi politici della città stessa. Le fonti attestano chiaramente, che il campo privilegiato della primitiva esperienza romana di carattere “internazionale”, era l’area caratterizzata, sin dall’origine, da una comunanza etico-culturale e linguistica: l’antico Lazio. Attraverso questi accordi si crearono delle forme conoscitive fondate sul sentimento di comunanza etnica (il nomen Latinum) agevolando semplicemente i rapporti tra le varie comunità e le comunicazioni commerciali ed economiche, cioè permette di escludere due idee: che le varie città del Lazio fossero isolate completamente l’una rispetto l’altra che vi fosse un “stato-stirpe” di tutti i latini (confederazione) sostenuta da alcuni studiosi In tale contesto soprattutto nell’ultima fase dei re, Roma affermò la sua superiorità: incorporando le comunità minori (il fenomeno si concluse con la fine della monarchia) concludendo una serie di foedera: cioè veri accordi “internazionali”. Infatti era rimasta memoria di quelle leghe religiose risalenti alle comunità preciviche che avevano anche una valenza politica. Per questo Roma continuò ad avere la tendenza ad assorbire o ad affermare un certo controllo su questi stessi culti. La superiorità politica di Roma nel Lazio è attestata da uno dei più importanti documenti del tempo a noi pervenuto: cioè il primo trattato tra Romani e Cartaginesi che, secondo Polibio, sarebbe stato concluso l’anno dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo da Roma e che quasi sicuramente riprendeva delle relazioni già instaurate dai re etruschi, nel quadro della più generale alleanza tra Etruschi e Cartaginesi. Questo trattato ci fa capire quali erano le pretese militari di roma, infatti i limiti stabiliti a possibili aggressioni da parte cartaginese riguardano infatti tutte le città del Lazio. Ma questo trattato distingue tra: città “soggette” o forse più precisamente “alleate dipendenti” città “non soggette”. Questo dimostra come, alla fine del VI sec. a.C. non tutto il Lazio fosse ancora sottoposto al dominio politico di Roma, anche se essa mirava ad affermare i propri interessi esclusivi su tutta la regione. Circa questo accordo sono necessarie due considerazioni: 140 L’espansionismo romano, presente già nel corso del IV sec.a.C. fu in parte il frutto di fattori meramente militari, e in parte il risultato di un’articolata politica di cui la regia restò essenzialmente nelle mani del senato. Quest’ultima dette luogo ad una formidabile sperimentazione istituzionale, dove appaiono saldarsi logiche politiche e innovazione istituzione: “diritto e potere” insomma. L’espansionismo ci fu perché Roma, dopo ogni guerra vinta, solitamente “multava” le popolazioni sconfitte e sottomesse sottraendo a esse una parte del loro antico territorio. Era l’applicazione di una idea diffusa in tutto il mondo antico per cui il vincitore aveva ogni potere sui vinti e quindi anche sui loro beni. I nuovi territori così acquisiti: o diventavano agger pubblicus restando nella disponibilità dello Stato cittadino che poteva concedere lo sfruttamento ai privati dietro e pagamento di un canone, o venivano distribuiti in proprietà privata ai cittadini romani, sia nelle forme di terre assegnate individualmente (viritim), sia mediante la fondazione di colonie. Ciò determinò l’aumento numerico delle tribù territoriali e della popolazione ma nulla più. Infatti diversamente che alle origini, le popolazioni delle città vinte non erano state assorbite all’interno della civitas Romana: erano restate piuttosto come entità più o meno subalterne e spesso vincolate formalmente da trattati di alleanza diseguale imposti da Roma. I limiti di questa politica si erano visti proprio in occasione della conquista di Veio. Di una città così importante e forte, Roma non aveva saputo far altro, una volta sconfitta, che distruggerla, disperdendone la popolazione, in parte sterminandola o riducendola in schiavitù (solo in seguito riassorbendone alcuni frammenti al suo interno). Si trattava, in fondo, di una politica abbastanza generalizzata propria anche delle poleis greche (es. Atene e Sparta) ma limitata e abbastanza rozza come fu rozza la drastica soluzione adottata da Roma per Veio, se pur giustifica dalla durata e dalla violenza dello scontro. Questa “inesperienza o impreparazione” fu presto colmata: pochi anni dopo Roma avrebbe mostrato una superiore capacità di governo delle molteplici comunità su cui, si sarebbe estesa la sua egemonia, comprese le ricche città campane. Una capacità di cui colpisce, anzitutto, la ricchezza e la varietà delle soluzioni di volta in volta addottate, secondo una logica singolare, che da un lato esaltava, dall’altro in qualche modo trascendeva la dimensione propria delle città-stato che le riforme del 367 a. C. avevano appena completato. Tutto ciò fu possibile, secondo l’autore, soprattutto grazie ai contribuiti che venivano dalla scienza giuridica pontificale. Il Foedus Cassianum, durato, seppure con alterne vicende per circa un secolo e mezzo, era venuto definitivamente meno nel 338 a.C. Allora infatti un’ultima e più pericolosa defezione dei Latini dall’alleanza, si era conclusa con la definitiva vittoria militare dei Romani. Conseguentemente il senato di Roma, in virtù del potere assoluto del vincitore, ridefinì allora, unilaterlamente, la situazione giuridica di ciascuna delle città vinte. Il carattere di questa delibera esprimeva un potere sovrano di Roma su tutte le antiche città della Lega. Tuttavia parte di esse, pur derivando ormai la loro condizione dalle decisioni romane, continuarono a godere, sino alle radicali trasformazioni intervenute con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici, nel corso del I sec. a.C., di una autonomia organizzativa interna non diversa da quella che avevano come stati sovrani, prima del 338 a.C. Una sovranità, che si arrestava appunto alla sfera interna e che comunque dipendeva dal volere di Roma. Ciò è dimostrato da un altro particolare provvedimento assunto in quel contesto dal senato e riferito da Livio: l’interruzione di ogni rapporto giuridico-istituzionale intercorrente tra le varie città laziali che proprio il Foedus Casianum invece presupponeva. I Romani infatti bloccarono tutti i rapporti giuridici e istituzionali tra queste città, con lo scopo di ostacolare qualsiasi forma di solidarietà che potesse sfociare in un’alleanza antiromana. 140 Oltre ai casi fin qui visti i Romani avevano concesso: ad alcune città vinte la loro piena cittadinanza (civitas optimo iure) > i nuovi cittadini optimo iure, iscritti in una delle antiche tribù territoriali romane, erano pienamente parificati sia sotto il profilo dei diritti privati che dei ruoli pubblici e istituzionali, quali il voto nei comizi e la partecipazione agli impegni militari ad altre avevano attribuito una cittadinanza romana “limitata” senza diritti politici (civitas sine suffragio) > i suoi cittadini rimanevano esclusi dalla partecipazione politica e dalla pari dignità militare, ma godevano della parificazione della sfera giuridica privata A partire dal 338 a.C. si andò configurando un meccanismo molto articolato, incentrato totalmente sulla stessa Roma, fino ad arrivare, nell’età d’oro della repubblica a un sistema che comprendeva: i socii Italici > membri delle città italiche alleate di Roma e a esse subalterne gli alleati gratificati semplicemente con lo ius commercii e lo ius connubi > tra questi i Latini appartenenti alle sopravvissute città del Latium Vetus, i membri delle nuove colonie latine e i municipes sine suffragio ed optimo iure. Al centro del sistema, le istituzioni cittadine restavano pienamente efficienti, da esse Roma era governata e da esse dipendeva ormai, anche, integralmente, un mosaico di innumerevoli centri urbani o semiurbani che vivevano una loro vita autonoma e, contemporaneamente, erano anche parte di una “città superiore”: Roma. 4. La genesi del sistema municipale La nascita di centri dipendenti con diversi margini di autonomia (le colonie) aveva messo fine l’antica identificazione della città come un ordinamento autonomo. Di conseguenza l’ordinamento romano prevedeva una pluralità di statuti giudici personali: i Romani, i Latini (la cui condizione era inferiore rispetto a quella dei Romani ma migliore rispetto alla più vasta categoria dei peregrini cioè gli stranieri) e gli stranieri. I latini, pur essendo molto legati a Roma, continuarono a seguire gli ordinamenti delle proprie città: nelle colonie cittadine, ad esempio, il regime giuridico delle terre era modellato secondo gli schemi della proprietà romana ma non era identificabile con il Dominium del diritto romano. Per questo fino all’età imperiale si utilizzerà lo ius Latii per indicare questa particolare posizione giuridica nei rapporti con Roma. Al contrario le colonie romane e le città a cui era riconosciuta la cittadinanza romana piena o sine suffragio avrebbero dovuto vivere secondo le leggi romane. Ma qui interviene l’incredibile elasticità del diritto romano per cui è probabile che, almeno in parte, conservassero la loro precedente organizzazione. Basti pensare che il più importante dei diritti privati, il diritto di proprietà sulla terra, vigente in tale comunità, non era retto dal diritto romano poiché il territorio di questi municipi non faceva parte delle tribù territoriali romane. Circa lo ius commercii e allo ius connubi è necessario sottolineare due aspetti: da un lato questi erano dei privilegi che i Romani riconoscevano ai latini dall’altro questi privilegi erano fondati sulla reciprocità per cui lo si deve concepire anche come “partecipazione al diritto locale del romano ubicato in territorio straniero” A partire dal 338 a.C. questa reciprocità venne meno e nei rapporti tra i cittadini di colonie antiche, colonie romane, municipes optimo iure e sine suffragio e i Romani si cominciò a usare solamente il diritto romano che divenne, insieme al latino, il fattore determinante nel processo di romanizzazione dell’Italia. Contestualmente divenne gradualmente omogeneo anche l’organizzazione di governo e l’assetto istituzionale di questi nuovi municipi grazie: 140 a magistrature uniformi e di senati locali (l’ordine dei ”decurioni”) all’introduzione dei prefetti > questi erano dei magistrati delegati dal pretore preposti alla giurisdizione in ambito territoriale soprattutto nei riguardi dei cittadini romani. Questo meccanismo fu sperimentato con i praefecti Capuam Cumas, competenti per le città campane, gratificate dalla civitas sine suffragio, e fu poi sistematicamente applicato con i praefecti iure dicundo. Circa la persistenza, anche parziale, di forme giuridiche locali bisogna dire che, considerato lo stato delle fonti, non è chiaro per l’autore, come queste potessero coesistere con l’area di applicazione del diritto romano. Probabilmente si tratta di una realtà quanto mai fluttuante priva di una rigida “teoria dello stato” o “dell’amministrazione”. Un vincolo che contribuì a limitare un’espansione accelerata del diritto romano era la sua connessione con l’uso della lingua latina. Infatti il carattere formalistico e orale del diritto romano, l’uso di parole e frasi predeterminate per porre in essere una serie di atti giuridicamente rilevanti (dalla trasmissione della proprietà alle forme primitive di contratto sino ai litigi processuali) escludeva che chi non sapesse parlare latino potesse accedere al diritto romano. Ora, i Romani, non solo non imponevano la loro lingua ai popoli sottoposti, ma escludevano addirittura che essi potessero usarla negli atti ufficiali, senza loro autorizzazioni. Così i municipi sine suffragio continuarono per secoli a usare i loro diritti e le lingue autoctone, dall’osco all’umbro, pur subendo un processo di romanizzazione, peraltro inarrestabile (anche perché queste autorizzazioni a usare il latino nella vita ufficiale delle varie comunità vennero comunque gradualmente rilasciate). Probabilmente furono soprattutto le elites locali a interessarsi maggiormente ai rapporti esterni, fruendo costantemente del diritto romano e portando avanti così, in forma semispontanea, il processo di romanizzazione delle loro istituzioni. D’altra parte questi municipes potevano ben imitare i Romani nei loro usi, parlare la loro lingua, adottare anche, per quanto possibile, le loro istituzioni giuridiche. Ma questa era decisione unilaterale e, per molto tempo, più atta a introdurre dal basso, in forma disordinata e semicasuale, pezzi di ordinamento romano, che l’intero sistema del diritto civile romano e la sua integrazione costituita dallo ius honorarium. Nei territori in cui si estese questa cittadinanza senza diritti politici (Lazio e territori confinanti) questo statuto fu trasformò rapidamente nella piena cittadinanza romana, comprensiva dei diritti politici. Infatti laddove, sin dall’inizio sussisteva una forte omogeneità culturale, linguistica e, verosimilmente giuridica, fu possibile l’acquisizione rapida della piena cittadinanza romana senza gravi scosse. Mentre per le popolazioni e per le culture più lontane questo status intermedio durò più a lungo. La misura del successo di tali processi è data dal fatto che, alla fine della repubblica, le tradizioni, le culture e i linguaggi italici erano ormai tramontati, di fronte all’espansione dei modelli romano-latini. Di qui la relativa facilità con cui s’ebbe la definitiva espansione del diritto romano in tutta la penisola, almeno a partire dalla fine della guerra sociale, dopo la concessione della piena cittadinanza romana a tutti gli Italici. Ciò spiega anche come, della precedente fase di incubazione, non restasse traccia ne ricordo. 5. Città, “fora”, “conciliabula”, “pagi” e “vici” La società romana aveva un carattere cittadino che manifestava soprattutto con la fondazione delle colonie. Così, nella progressiva penetrazione politico-istituzionale di Roma in tutto il territorio della penisola e nelle forme organizzative adottate per le popolazioni sottoposte, costante fu il riferimento al modello cittadino. Anche quando la 140 tempo, sarebbe divenuta sempre più dispendiosa, sino a costringere gli aspiranti, che non fossero molto ricchi, a indebitarsi, sperando poi di saldare i creditori con i guadagni ricavati dalle campagne militari vittoriose o dall’amministrazione (e spoliazione) delle province. É chiaro quindi che chi riusciva apparteneva sempre allo stesso gruppo sociale compresi “gli uomini nuovi” che pure vi furono. Essi infatti quasi sempre provenivano dal gruppo immediatamente al di sotto della nobilitas senatoria cioè: la classe equestre. Così indicati in base alla classificazione propria dell’ordinamento centuriato. Questa categoria comprendeva: i grandi proprietari fondiari una serie di soggetti con fisionomia imprenditoriale e commerciale, in particolare quegli appaltatori cui furono affidate la costruzione di opere pubbliche, la gestione del patrimonio immobiliare e il prelievo fiscale. Malgrado i privilegi che la nascita assicurava in partenza ad alcuni, giocavano in genere anche le qualità personali garantendo un’adeguata mobilità nella forte gerarchia sociale e politica romana. Il collaudo così effettuato di questo insieme di competenze e di storie personali trovava il suo esito finale nel senato, dove infine essi si riversavano, assicurando la qualità di governo della repubblica. Sempre più, poi, man mano che aumentavano gli impegni militari di Roma, i quadri di governo, proprio attraverso il loro lungo curriculum militare precedente, erano sempre più competenti e abili. Tanto che mentre per i secoli le legioni romane furono costituite dai cittadini-proprietari, ispirati a un immediato patriottismo, i loro comandi assunsero nel tempo un carattere semi-professionale che li mise in grado di sostenere il confronto con le tecniche e le competenze delle armate di mestiere, da quella macedone e cartaginese, a quelle dei regni d’Oriente. Ulteriore prova dell’enorme rilevanza dell’aspetto militare nella storia individuale era testimoniato con il trionfo. Questo era una cerimonia, decretata dal senato, con cui il magistrato, sfilava solennemente nella città, seguito dalle sue legioni, esibendo il bottino della vittoria, e i prigionieri, dove il grande fasto pubblico si associava alle arcaiche forme simboliche del potere. Era un riconoscimento ambitissimo che consacrava il particolare e durevole prestigio personale e politico di chi lo avesse ottenuto. 2. Il “cursus honorum” Col tempo si definì un preciso insieme di regole volte a disciplinare la carriera pubblica dei cittadini romani: il loro cursus honorum. Questo aveva inizio con l’elezione alle magistrature minori, presupposto per aspirare alle cariche superiori, dopo un regolare intervallo di tempo tra l’una elezione e l’altra, giungendo infine al vertice della repubblica, con l’elezione a console e a censore. Era esclusa un’immediata rielezione alla stessa carica, sempre al fine di evitare un’eccessiva concentrazione di potere in singoli individui. Malgrado il costante, anche se controllato e circoscritto, rinnovamento del ceto dirigente romano di cui s’è detto, tutta la vita politica continuò a essere controllata dalle consorterie nobiliari. La lotta di potere e le alterne vicende della politica passarono anzitutto attraverso la storia delle gentes. Pur non avendo più il monopolio delle cariche pubbliche e del senato, le gentes costituivano ancora un potente legame sociale tanto che, ben presto, anche gli strati superiori della plebe si organizzarono per gentes, accanto alle antiche stirpi patrizie. Ciò contribuì a conservare la rilevanza pubblica e sociale delle gentes stesse. Non esistevano dunque le condizioni perché si formassero alleanze o raggruppamenti politici su progetti e programmi (esperienza attuale del partito politico). Ovviamene esistevano divergenze anche molto profonde, all’interno dell’oligarchia romana in ordine alle scelte politiche, sia interne che internazionali; esistevano strategie consolidate e contrapposte. Ma tutto ciò era “letto” e vissuto in base alla propria specifica tradizione e si 140 tendeva a ripercorrere, in contesti politici nuovi, antiche strade, richiamandosi ognuno ai propri e specifici valori. Rapporti di parentela e appartenenza gentilizia, legami di amicizia individuali e di gruppo e, soprattutto, vincoli clientelari costituivano in effetti, nel corso di tutta la storia romana quei collanti su cui si fondava la politica, e con cui si costruivano il consenso sociale e le fortune individuali. Di qui le tradizioni politiche a tutti note, come l’orientamento conservatore dei Fabi, sin dai tempi più antichi, legato ai valori agrari e cauto verso le nuove politiche imperialistiche, di contro il carattere avventuroso e capace di grandi aperture innovative dei Claudi. L’eccezionale durata nei secoli di tanti illustri lignaggi gentilizi fu possibile attraverso le diffuse pratiche di adozione. Questo era l’unico meccanismo che permettesse di limitare gli effetti dell’alta mortalità e della bassa vita media. In effetti, malgrado l’estinzione di molte genti e lignaggi familiari nella vita politica di Roma, per molti secoli riappariranno i nomi delle grandi stirpi nobiliari portati dagli innumerevoli magistrati che si successero al governo della repubblica. Un altro strumento fondamentale di questa persistente forma gerarchica è rappresentato dalla clientela che costituisce un tipo di relazione straordinariamente diffuso nell’antichità, anche fuori di Roma. Non si tratta più della clientela arcaica, dipendente dalle grandi signorie patrizie ormai scomparse, ma di un reticolo di alleanze e di rapporti di dipendenza di natura più complessa volta a riaffermare il concetto di “largir protezione” in tutte le forme ai ceti socialmente più deboli (anche per ottenere giustizia, si pensi alla difficoltà del singolo e povero cittadino nel rivolgersi al pretore). Così intorno alle grandi famiglie e con riferimento alle personalità più eminenti tra i vari patres, vi era un reticolo di forme di lealtà subalterna destinate a riflettersi anche nel momento elettorale. E’ in questo quadro di relazioni reciproche che, si inseriscono anche le carriere degli “uomini nuovi”. Molti di essi infatti, lungi dal “farsi da soli” fruirono dei legami di protezione forniti loro dai vari gruppi nobiliari per muovere i primi passi della loro carriera. Quanto fosse importante lo schema clientelare in Roma, lo prova il fatto che questo sistema di relazioni squilibrate non restò circoscritto solo ai rapporti sociali e politici cittadini, perché su una logica simile si basò la costruzione dell’egemonia di Roma: ad esempio quando un magistrato romano, con la sua vittoria militare, aveva ottenuto la resa di una città o di una popolazione egli ne assumeva la protezione. Anzitutto facendosi intermediario tra gli interessi di questa comunità e il supremo volere del senato, cercando di ottenere da questo la sanzione definitiva dei provvedimenti da lui assunti nell’affermare la signoria romana e divenendo poi, lui e i suoi discendenti, il referente constante per ogni richiesta che tale popolazione dovesse fare ai Romani. Protezione politica, dunque, a fronte di un continuo supporto materiale, di ogni tipo, a favore del patrono. In seguito ciò varrà per intere province. Si creò così un singolare sistema di legami di dipendenza semi-privati, tuttavia con una forte rilevanza politico-sociale, che integravano e, in qualche modo, “armonizzavano” l’impersonalità dei meri assetti giuridici dati da Roma al mondo provinciale. Mitigando altresì alcune asprezze di un governo che si veniva rivelando assai spesso avido e miope. 3. Gli sviluppi sociali tra IV e III secolo a.C. L’enorme ricompattamento politico-sociale avvenuto con le leggi Licine Sestie permise ai Romani di riprendere le loro politiche espansionistiche, questa volta contro la popolazione militare più forte esistente allora in Italia, situata sugli altipiani appenninici tra l’attuale Abruzzo, il Molise, sino a lambire la Campania e la Lucania: i Sanniti. Contro costoro la potente organizzazione militare romana subì un altro formidabile collaudo i cui risultati si 140 apprezzarono immediatamente dopo, quando Roma fu in grado di resistere all’esercito di Pirro, chiamato a soccorso dall’ultima città della penisola italica ancora indipendente, Taranto. Questa città era l’ultimo ostacolo alla completa acquisizione dell’intero mezzogiorno d’Italia e cadde nel 272 a.C. Per la precisione la scansione temporale fu la seguente: 343 - 341 > I guerra contro i Sanniti 340 - 338 > guerre contro i Latini e i Campani e definitivo scioglimento della Lega latina 327 - 326 > guerra contro i Sanniti per il controllo di Napoli 325 - 304 > II guerra contro i Sanniti 298 - 290 > I guerra italica contro gli etruschi, Umbri, Sanniti e Galli 285 - 283 > spedizione nell’Italia del Nord contro i Galli Boi 282 - 272 > guerra contro Taranto e Pirro Questa ininterrotta e felice politica espansionistica determinò un processo di crescita economica, incrementato dai bottini ricavati dalle ricche città della Magna Grecia e dalle ulteriori acquisizioni territoriali. Anche se per molto tempo dominerà nell’immaginario collettivo dei Romani l’autorappresentazione di se stessi come di un popolo laborioso, legato alla terra, che viveva in modo austero seguendo i costumi ancestrali, costretto sovente a prendere le armi per difendersi da aggressioni di prepotenti vicini. L’immagine elaborata e trasmessa dai Romani è quella dei grandi condottieri e salvatori della patria come Cincinnato che, lasciata la guida delle legioni romane, tornò a lavorare i suoi campicelli aviti, di pochissimi iugeri, con le proprie mani. Ma questa evocazione, talvolta veritiera, spesso decisamente falsata, interessa più come testimonianza di una nostalgia e di una ideologia, che non come preciso riferimento storico. Forse i Romani del IV sec. non avevano ancora pienamente “conosciuto la ricchezza” ma già allora la precedente stratificazione sociale aveva dovuto subire significativi mutamenti. In particolare qui l’autore intende sottolineare il fenomeno della formazione di una proprietà fondiaria di una certa consistenza e di patrimoni sufficientemente importanti da costituire il fondamento di un altro meccanismo evolutivo. Per l’autore il punto di partenza di tale processo coincide con la grande distribuzione delle terre veienti. L’organizzazione statale romana si fondava sui ruoli attribuiti alle varie magistrature elettive e ai loro diretti collaboratori solitamente svolte a titolo gratuito. Questo perché il vir bonus, il vittorioso cittadino dell’ideologia romana è colui che dedicava i suoi sforzi a servire la patria, prima come guerriero, poi nella vita politica della città. La gratuità di tale impegno favoriva il sostanziale monopolio delle cariche magistratuali da parte di una nobiltas relativamente ristretta e ciò determinò: un mancato sviluppo di un ceto qualificato di amministratori e burocrati, nonostante l’apparato statale fosse chiamato a far fronte a esigenze sempre più complesse. una struttura statale molto “leggera” fatta di pochi collaboratori dei vari magistrati, senza una vera burocrazia che potesse funzionare in modo autonomo. Tuttavia questa macchina politico-amministrativa si ritrovava a svolgere continuamente nuove funzioni basti pensare alla costruzione di opere pubbliche (acquedotti, strade militari) o alla gestione del patrimonio pubblico (le terre conquistate, il sistema fiscale) e infine all’opera di rifornimento e di attrezzatura di eserciti sempre più importanti. Per questo, nel corso della repubblica, tali funzioni saranno scaricate all’esterno delle strutture istituzionali della città, appaltando a privati imprenditori le attività a ciò necessarie e lasciando a questi tutti i vantaggi economici delle intermediazioni richieste. 140 Ciò che colpisce è l’amplissimo spettro dei suoi interventi che vanno dalle strutture materiali della città sino al cuore dei suoi processi culturali e tecnici. Roma in quel periodo era di fronte ad una scelta fondamentale: continuare a espandersi a nord cioè rimanere fedele alla tradizione politica di crescita territoriale e della ricchezza fondiaria espandersi a sud andando verso la Magna Grecia e Cartagine determinando dei vantaggi per i gruppi mercantili e marinari. Per questo la via Appia, che prende il suo nome perché costruita sotto la sua censura, considerata la “regine delle vie”, aveva un valore anche simbolico poiché univa Roma, la Campania, andava poi verso l’Apulia, sino al grande porto di Brindisi: la porta verso la Grecia e il Mediterraneo orientale. L’attenzione di Appio Claudio verso gli aspetti mercantili e finanziari e i ceti a essi collegati è anche alla base della riforma della composizione delle tribù che comportava la valutazione, accanto ai beni immobili, anche della ricchezza mobiliare per la distribuzione della cittadinanza (si tenga presente che da pochi anni era iniziata la coniazione delle prime monete d’argento). Ciò si sarebbe riflesso sull’assetto dei comizi centuriati. Sotto la sua censura ci fu un’altra novità e cioè l’iscrizione tra i nuovi senatori di alcuni liberti. Fu un atto inaudito agli occhi dei Romani, sulla cui veridicità si può nutrire qualche dubbio, ma che esprime la tipica arditezza, sino all’arroganza, dei Claudi. Furono riforme troppo radicali destinate ad avere vita breve e infatti negli anni successivi ci fu la revoca sia dell’iscrizione nelle tribù rustiche della turba dei non proprietari, ricondotti così all’interno delle sole quattro tribù urbane, sia la revoca della nomina a senatore degli ex schiavi. Quest’ultima vicenda comunque fa pensare ad una crescente importanza dei liberti nell’economia mercantile romana. Malgrado ciò, profonda e duratura appare l’azione di rinnovamento realizzata da Appio, infatti, come il suo avo, anche Appio Claudio Cieco si ritrovò a lottare contro il monopolio del collegio pontificale, che riuscirà ad erodere in modo meno radicale ma più efficace rispetto al suo avo. A lui risale infatti un’iniziativa gravida di conseguenze intrapresa dal suo segretario e liberto Gneo Flavio (giacché appare pressoché impossibile che questi non avesse avuto il consenso del patrono). Flavio infatti, nel 304 a.C., rese pubblici i calendari e i formulari delle azioni processuali, permettendo a tutti i concittadini di accedere direttamente alla conoscenza degli strumenti fondamentali per la tutela processuale dei loro diritti che sino ad allora erano conosciuto soltanto dal collegio pontificale a cui i cittadini dovevano rivolgersi. Si trattò di un formidabile salto in avanti nel processo di diffusione delle conoscenze giuridiche. L’autore ha già sottolineato le forzature e le soluzioni che, a partire dal 338 a.C., vennero applicate a luoghi del Lazio e della Campania settentrionale che Roma conquistò. Infatti egli ribadisce che il passaggio dall’esclusivismo della città antica alla moltiplicazione della città in tanti “microdoppioni” (i municipi) sino a svuotare l’essenza stessa della civitas nel caso della civitas sine suffragio non può essere automatico. Ma al tempo stesso non sappiamo quale magistrato o senatore per primo abbia individuato almeno in parte questi meccanismi. Di certo non poteva essere il collegio pontificale anche perché connessa a questa evoluzione esterna ci fu uno sviluppo dei rapporti privatistici interni alla società e quest’organo non era adeguato a fronteggiare tale cambiamento. In questo contesto (in parte possibile e in parte documentato) Claudio, pur rimanendo all’interno del blocco sociale, andò a ridisegnare ruoli e funzioni di governo ma senza mai giungere ad una rottura istituzionale. L’idea era quella di ampliare le conoscenze giuridiche oltre il ristretto collegio pontificale conservandole però all’intero del ceto di governo. 140 Il ruolo di un aristocratico innovatore come Appio Claudio e, 60 anni dopo, di un esponente plebeo come Tiberio Coruncanio ci devono far riflettere sulla coerenza della spinta modernizzatrice del nuovo blocco patrizio-plebeo. La fine del monopolio pontificale, infatti, segna sia l’inizio di un grandioso processo di crescita dell’ordinamento giuridico romano e del suo supporto tecnico-scientifico ma anche l’essiccarsi definitivo di ogni potenziale alternativa consistenze in una gestione di tali saperi da parte di un corpo separato di sacerdoti, ciò che in effetti era invece avvenuto in molte altre società antiche. Le innovazioni di Claudio furono determinanti nell’avviare quella che l’autore definisce la formazione di un “mercato”, non di cose, ma di giuristi. Che, tuttavia, come sempre in Roma, era un mercato controllato da una logica generale di tipo gerarchico, tale da escludere in partenza qualsiasi forma generalizzata di eguaglianza secondo schemi democratici. Così ci si limitò ad allargare il processo di selezione delle conoscenze, pur rimanendo all’interno della nobilitas che conservò per tutta l’età repubblicana il pratico monopolio di questo sapere. Questo fu il senso del passaggio dalla giurisprudenza pontificale a quella c.d. “laica”, sotto il diretto controllo della nobilitas repubblicana. In questo senso è significativo che l’ultimo grande intervento legislativo nel campo della sfera del diritto privato risalga alla fase iniziale di questo processo. L’autore fa riferimento alla Lex Aquilia, con cui si innovava e disciplinava tutto il sistema dei comportamenti dannosi e delle conseguenti responsabilità legali risalente probabilmente alla metà del III sec. a.C. Nei secoli successivi le altre grandi trasformazioni giuridiche furono tutte opera dell’interpretatio giurisprudenziale e del pretore. Cap.8 - L’evoluzione del diritto romano e gli sviluppi della scienza giuridica 1. I giuristi e il diritto privato In età imperiale, i giuristi teorizzarono la complessa fisionomia di quel diritto da essi studiato e straordinariamente sviluppato. Così Gaio, un giurista del II sec. d.C., affermò che il “diritto del popolo Romano consiste nelle leggi, nei plebisciti, nei senatoconsulti, nelle costituzioni imperiali, negli editti di coloro che hanno il ius edicendi, e, infine, nei pareri degli esperti: i responsa prudentium”. Alla sua epoca, in effetti, il substrato consuetudinario del diritto romano, gli antichi mores, era già da secoli totalmente assorbito all’interno del valore fondante delle XII Tavole, per eccellenza le “leggi” della città, e dell’interpretatio dei giuristi. In effetti è attraverso il lavoro di riflessione e delle opere della giurisprudenza che si trasmetterà la conoscenza del diritto cittadino, il ius civile. Molto significativo è il passaggio, avvenuto tra la fine del III sec. e l’inizio del II sec., da un sapere proprio e limitato di un numero chiuso di persone “i pontefici” ad una prima generazione di giuristi laici (nuovi cultori del diritto estranei al collegio pontificale). Quest’ultimi, grazie anche ad una maggiore razionalità furono in grado, non solo di estendere a dismisura gli spazi e i tipi di relazioni governati dal diritto, ma soprattutto di elaborare un insieme di procedimenti logici, di verifiche pratiche e di astrazioni concettuali che costituiscono il sostrato di quella vera e propria “scienza” del diritto, sviluppatasi in Roma, per la prima volta nella storia del mondo antico. A riguardo particolarmente significativo fu il pontificato di Tiberio Coruncanio (fu il primo pontefice plebeo - nel 330 la lex Ogulnia aveva completato il processo di parificazione dei due ordini, ammettendo i plebei ai collegi sacerdotali). Egli infatti, nel 254 a. C., rendendo pubbliche le sedute dei pontefici, permise che anche altri acquisissero la conoscenza dei contenuti e la comprensione dei metodi applicati dagli stessi pontefici. Divenne allora possibile anche per altri cittadini dedicarsi allo studio e all’interpretazione della tradizione 140 giuridica romana. Così a partire dal II sec. si affermarono le prime grandi personalità di giuristi (che solo in alcuni casi rivestirono anche la carica di pontefice), iniziando una riflessione sistematica sulle norme, sugli istituti e sulle forme processuali. Si trattava di un lavoro a metà teorico e a metà pratico, che si aggiunse e poi si sostituì a quello dei pontefici nell’assistere e orientare i propri concittadini: consigliandoli sugli atti giuridici da stipulare (cavere), aiutandoli nell’interpretare situazioni legali oscure e incerte (rispondere) assistendoli negli eventuali litigi (agere). I giuristi ricevevano nelle proprie abitazioni amici, clienti, ma anche estranei che necessitavano di un parere legale, dando consigli e assistenza. Gli incontri erano un aspetto della vita sociale e ovviamente, pubblici: pubblici i consigli e le spiegazioni. Così intorno ai più brillanti e autorevoli tra questi specialisti, da cui si andava per un parere, ma anche per istruirsi, si costituì un pubblico di auditores. E tra costoro, nascevano interessi e vocazioni, si formavano allievi che imparavano il modo di ragionare del giurista già affermato, comprendevano il procedimento utilizzato per giungere a certi risultati, acquisivano la conoscenza di tradizioni legali consolidate e di leggi. Diventavano insomma, essi stessi, nuovi giuristi. Inoltre al tramonto della scienza pontificale contribuì in modo non marginale la progressiva diffusione della scrittura. Questa risaliva già al VI sec. e infatti è pacifica la redazione scritta delle XII tavole ma elementi come l’accentuato ritualismo, la presenza dei testimoni e la formulazione dei precetti strumentali alla memorizzazione sembravano far prevalere l’oralità sulla memoria. Tra il III e il II sec. a.C. ci fu un notevole ampliamento delle forme scritte e, in questo nuovo contesto, la nobilitas laica iniziò a produrre testi scritti in cui si conservava memoria dei casi e delle soluzioni già discusse e delle proposte avanzate dall’uno o dall’altro giurista. La raccolta di questi testi iniziò così a circolare, contribuendo all’accumulazione di un sapere trasmesso nel corso delle generazioni, con le inevitabili selezioni, consolidamenti, e ulteriori innovazioni. Inoltre lo scritto rispetto alla memoria favoriva anche una nuova articolazione del pensiero, la stesura di ragionamenti più complessi. É necessario ora capire quale fosse l’attività interpretativa dei pontefici prima e dei giuristi poi. Circa i pontefici, la loro attività interpretativa aveva lo scopo di chiarire il significato letterale dei precetti contenuti nelle XII tavole (operazione non semplice data l’oscurità della lingua arcaica utilizzata). Sotto questo aspetto il controllo pontificale si spinse più in là di quest’ambito allorché, molto liberamente e con intelligenza creativa, innovò il contenuto ed estese o mutò l’ambito di applicazione dei singoli negozi e dei vari istituti giuridici. Non vi è praticamente norma nelle XII Tavole che non richiedesse e non rendesse possibile un insieme di interpretazioni sempre più complesse e innovative man mano che le arcaiche forme del diritto antico si rivelavano di per sé insufficienti a disciplinare una realtà sociale ed economica in rapido sviluppo. i principali strumenti dell’interpretazione dei pontefici furono: le finzioni giuridiche e l’analogia. Mentre nuovi risultati si realizzarono modificando consapevolmente il significato e la portata di un istituto per giungere a conseguenze del tutto diverse da quelle ordinarie. Questo permetteva di giungere, attraverso la reinterpretazione di vecchi istituti, a risultati totalmente nuovi e poter far fronte alla nuove esigenze che si presentavano. Ad esempio: Si utilizzò il divieto di abusare del potere di vendita del figlio sancito dalle XII Tavole (che stabilivano un limite al numero di vendite effettuate da parte del pater, superato il quale costui perdeva la sua potestas sul figlio), per creare il nuovo istituto dell’emancipazione: una serie di vendite fittizie con cui il padre liberava volontariamente il figlio dalla sua potestà. 140 Si trattava di un insieme di rapporti nuovi, estranei al formalismo dei negozi del diritto civile e a quelle strutture patriarcali che dominavano l’antico ius civile. In tutti questi casi, spesso, l’accordo, la “stretta di mano” diveniva il momento centrale, di fronte al rispetto delle procedure, alla rigidità di atti o di frasi cariche di parole arcaiche che il diritto civile richiedeva fossero rispettate perché certi effetti legali avessero luogo e che, comunque pronunciate, divenivano vincolanti. Tra l’altro secondo l’autore proprio in questo ambito il pretore avrebbe potuto sganciarsi maggiormente dai pontefici (visto che siamo fuori dallo ius civile) e legarsi soprattuto ai giuristi laici. Queste procedure più semplici e prive di formalismi, dall’ambito originario di applicazione nei litigi con o tra peregrini, si estesero, verso la fine del III sec. a.C., anche ai rapporti tra Romani, sempre più insofferenti degli arcaici e ormai inutili rituali segnando così il tramonto delle legis actiones. Tra la fine del III e la prima metà del II sec. a.C. fu gradualmente introdotto un nuovo tipo di processo. Esso era indicato designato come il “processo formulare” perché fondato su “formule“, predeterminate in modo circostanziato, che il pretore rilasciava alla fine delle discussioni preliminari tra le parti, svoltesi davanti a lui, e che riassumevano e richiamavano il contenuto preciso delle opposte pretese legali e fornivano al giudice vincolandolo, i criteri da seguire per decidere la controversia, accertando la verità materiale dei fatti addotti dalle parti. La struttura di queste formule e il loro contenuto prescrittivo potevano variare all’infinito, adeguando quindi la rigidità e l’astrattezza delle antiche regole alla varietà dei casi pratici e alla capacità di progresso della riflessione dei giuristi. Si assicurava così al magistrato giusdicente una maggiore libertà d’impostare il processo in modo aderente alla sostanza del conflitto tra le parti e al contenuto effettivo delle loro pretese. Ma soprattutto, ora, il pretore poteva attribuire un peso adeguato, ai fini della decisione, a elementi di fatto, rilevanti sotto il profilo della giustizia sostanziale, che l’astrattezza delle legis actiones impediva di prendere in considerazione del dibattito processuale. La nuova libertà del pretore in campo processuale rese possibile l’integrazione e in parte il superamento del patrimonio giuridico ancestrale: i mores e le XII tavole, fondamento dello ius civile. In questo nuovo contesto assunse un valore molto forte, a indicare insieme un valore di riferimento del pretore e un criterio guida per la giurisprudenza il termine aequitas (intraducibile con la formula equità). Esso evocava l’idea di un’esigenza di eguaglianza tra le parti che la soluzione adottata doveva rispettare. 3. L’editto del pretore, il “ius gentium” e il “ius honorarium” Nel tempo, i criteri sostanziali cui il pretore si atteneva in questa sua nuova attività giurisdizionale, pur derivando dalla soluzione di casi concreti e di situazioni nuove, diventarono regole e prescrizioni generali. In effetti una delle facoltà proprie dei magistrati superiori, cum imperio, era quella di emanare degli editti contenuti delle prescrizioni da rendere note a tutta la popolazione. Così avvenne per le nuove forme di protezione giuridica: il pretore unico, prima, e poi i due pretori separatamente, ciascuno con un proprio editto, all’inizio del loro anno di carica, rendevano noto quali situazioni, non rientranti nella disciplina del ius civile, avrebbero trovato tutela da parte loro, e in che modo. Le regole elaborate dal pretore peregrino, che costituivano un vero e proprio corpus di istituti e diritti nuovi e diversi da quelli riconosciuti dal diritto civile, furono considerate come proprie di un “diritto di tutti gli uomini” ius gentium. I vantaggi assicurati dall’elaborazione di queste nuove e più flessibili regole di condotta e delle correlate situazioni giuridiche vennero estese a tutti i cittadini. In tal modo la specifica esperienza del praetor peregrinus contribuì ad arricchire lo stesso patrimonio giuridico romano, di cui il ius gentium venne a far parte a tutti gli effetti. Solo più tardi alcuni giuristi 140 romani identificheranno questo ius gentium con la parte comune ai diritti positivi delle varie società. Ma questa specie di comparazione giuridica ante litteram è sicuramente una costruzione tardiva e posticcia, giacché la genesi di questo settore del diritto romano è interna all’esperienza romana. Allo stesso modo ebbe un forte impatto sulla storia del diritto romano l’introduzione del processo formulare che esaltava l’imperium/iurisdictio del pretore. Dove egli era veramente il “sovrano” (solo soggetto a un controllo equitativo o politico dei suoi consociati, eventualmente paralizzabile nella sua azione dall’intercessio di un console, di un collega o di un tribuno, oppure chiamato a rispondere delle sue azioni successivamente alla fine della sua carica). Il pretore, non era il “servo della legge”, e pertanto poteva evitare di applicarla o poteva intervenire a condannare o ad assolvere anche in casi che la legge non prevedeva, se il senso comune di equità e le esigenze materiali di fronte a cui si fosse trovato avessero consigliato tali soluzioni. Di fatto, seppure sul piano strettamente processuale, era un nuovo diritto che si sovrapponeva e correggeva, integrandolo, l’antico ius civile. Anche attraverso nuovi strumenti che il pretore veniva forgiando ad esempio: un tipo di litigio che, già prima del processo formulare a partire dal III sec. a.C., venne introdotto mediante una scommessa che i litiganti erano costretti a stipulare tra loro dal pretore onde accertare la verità di una loro pretesa giudiziale (ager per sponsionem), superando così i vincoli e le rigidità delle stesse legis actiones. gli ordini del pretore contenuti negli interdetti (una specie di procedimento sommario e di urgenza, anch’esso già definito nel II sec. a.C. e volto a tutelare situazioni non configurabili come diritti individuali), le stipulationes e le cautiones con cui il pretore poteva costringere i litiganti, in via pregiudiziale, a fornire garanzie e ad assumere specifiche obbligazioni processuali per conseguire risultati lontani dal diritto civile, ma conformi a criteri di giustizia sostanziale. il potere di non ammettere una pretesa processuale pur legittima secondo lo stretto diritto civile ove ostassero motivi d’equità sostanziale o, addirittura di imporre al giudice di utilizzare, come se fossero intervenuti, di fatti non veramente esistenti (actiones ficticiae) o di giudicare a favore dell’attore sulla base di fatti di per sé irrilevanti per il diritto civile (actiones in factum). Questa vasta gamma d’interventi derivava dalla sovranità del magistrato ma non esprimeva certo un suo arbitrio personale, una sua privata alzata d’ingegno. Era qualcosa che, dopo i primi tempi, era previsto e atteso. Il successore di un pretore che aveva bene amministrato la giustizia, ricevendo consenso dalla comunità, non aveva interesse ad azzerare il già fatto: lo recepiva integralmente, modificando qualcosa che non andava, introducendo qualche altra novità utile e necessaria. Così l’editto del pretore di anno in anno, veniva ripubblicato dal nuovo magistrato, conservandosi e completandosi nel tempo. Certo potevano, porsi al pretore, nel corso del suo anno di carica, nuovi problemi non preventivamente previsti nel suo stesso editto e non regolati dall’antico ius civile. In tal caso egli poteva assumere qualche nuovo provvedimento con un decreto appositamente assunto. Questo, a sua volta, se si fosse rivelato efficace, poteva successivamente essere inglobato organicamente nel nuovo editto emanato dal suo successore. La rivoluzione introdotta dalla giurisdizione del pretore urbano come di quello peregrino, non avvenne seguendo la logica di una giustizia “caso per caso”, al contrario proprio la conoscibilità ex ante, la razionalità e la pubblicità di questa condotta diedero luogo, nel tempo, ad un corpo normativo. Romani e stranieri sapevano che, anche rispetto al diritto civile, l’editto del pretore innovava nella sostanza e prevaleva, giacché, senza protezione processuale, il diritto, in sé, valeva poco. Così si formò un nuovo sistema di regole che coesistevano in modo 140 autonomo con lo ius civile, senza abrogarlo: il “diritto pretorio”, lo ius honorarium (e del resto, nella logica romana, neppure la sovranità della legge abrogava formalmente il vecchio ius). Questa singolare articolazione dei processi normativi rese possibile l’enorme e relativamente rapido sviluppo del sistema del diritto romano in funzione delle grandi trasformazioni economico-sociale iniziate all’epoca delle guerre puniche. Va ricordato che, oltre al pretore, anche altri magistrati aventi competenze giurisdizionali emanavano editti di un certo rilievo, anche se minori rispetto a quello pretorio: gli edili curuli, che erano preposti al controllo dei mercati cittadini e, in quell’ambito, erano titolari di una limitata giurisdizione. i governatori provinciali, chiamati ad amministrare la giustizia nelle loro province, e che nel loro editto fissavano i criteri cui si sarebbero attenuti nel corso della loro carica. A partire dal II sec. a.C. sono ormai evidenti due logiche parallele su cui si struttura l’intero ordinamento giuridico romano: da una parte il “diritto” in senso stretto: le norme del diritto civile, esclusive dei cittadini romani, dall’altra il “diritto onorario”, non meno efficace, ai fini pratici, delle regole del diritto civile, ma fondato esclusivamente sul potere magistratuale e illustrato dall’editto pretorio. Questa dictonomia resterà, seppure in condizioni profondamente mutate, per tutto il corso della vita del diritto romano, sia nella tarda repubblica che nell’età del principato. Queste sicuramente avrebbe potuto determinare più di una difficoltà se, in concreto, tali processi non fossero stati governati in modo profondamente unitario dalla cooperazione tra magistratura giusdicente e scienza giuridica laica. Infatti in questa oggettiva convergenza di funzioni apparentemente molto diverse si realizzò il punto di sutura tra i due sistemi del ius civile e del ius honorarium. Infatti senza la sanzione processuale assicurata dal pretore l’interpretazione giurisprudenziale delle regole del ius civile, elaborata dai giuristi difficilmente avrebbe portato alle profonde innovazioni effettivamente verificatesi. A lui infatti incombeva l’onere di concedere una formula processuale atta a recepire la soluzione del problema giuridico proposta dai giuristi. D’altra parte, non solo nella stessa elaborazione del contenuto dell’editto e nella concreta condotta processuale, l’azione dei magistrati, talora del tutto incompetenti in materia legale, fu assistita dai giuristi. Questi operarono sul corpo normativo costituito dalle previsioni edittali, relative alle fattispecie previste, lo stesso insieme d’interpretazioni che già in relazione al ius civile era divenuto il medium tra la domanda di giustizia della società e “il” diritto romano. Questo complesso intreccio contribuisce a spiegare un carattere di fondo di tutto la scienza giuridica romana e cioè il suo netto orientamento verso gli aspetti processuali. 4. La scienza giuridica romana come sapere aristocratico Sull’evoluzione del sistema del diritto privato romano il diretto intervento della comunità politica è stato relativamente secondario. Infatti le norme che regolavano la vita dei cittadini (diritto privato) quasi mai dipendevano da una legge votata dall’assemblea cittadina. Ciò spiega uno dei caratteri della società romana e cioè questa delega, mai messa in discussione, prima a un collegio religioso poi a una comunità di sapienti. A Roma (non come oggi) il diritto della città non coincideva con la legge. La legge, sia quella generale e fondante identificata nelle XII tavole, sia la singola norma particolare era certamente fonte del diritto vincolante per tutta la comunità ma quasi “sopra” si poneva l’interpretatio dei giuristi senza la quale la norma: sarebbe rimasta inapplicata poteva essere applicata ad una pluralità di casi 140 ignorata: il mare. Il primo urto tra Roma e Cartagine riguardò la città di Messina e iniziò così una nuova drammatica stagione che si concluderà soltanto nel 202 a.C. con la vittoria di Roma sui Cartaginesi e sul loro condottiero: Annibale. Gli aspetti militari ed economici in questa sede interessano relativamente ma i principali eventi furono: 264 a.C. - 241 a.C. > Prima guerra punica; 238 – 237 > Roma occupa la Sardegna e della Corsica sottraendole ai Cartaginesi; 238 a.C. > Roma conquista la Liguria e la Gallia Cisalpina 231 a.C. > Roma si allea con la città di Sagunto per limitare l’espansione cartaginese in Spagna 218 – 202 > si svolse la Seconda guerra punica. All’interno della classe dirigente romana si poteva distinguere tra coloro che sostenevano un più cauto e tradizionale espansionismo territoriale e coloro che invece avevano forti interessi a valorizzare il recente dominio romano sulla Magna Grecia. Nonostante le alterne vicende alla prova dei fatti prevalsero gli elementi più radicali che vollero condurre la vicenda sino alla sua estrema conclusione. Ciò non impedì che, in quello stesso lasso di tempo, il partito conservatore con i suoi interessi agrari ottenesse un parziale successo, imponendo anche un’espansione territoriale verso il Nord. In questo senso vanno ricordate le campagne militari nell’Italia centro-settentrionale che avrebbero portato all’acquisizione delle ricche terre del Piceno e della pianura padana sotto la guida del grande dirigente plebeo Gaio Flaminio. Emblematica fu in tal senso la costruzione della via Flaminia nel 220 a.C., sotto la censura dello stesso Flaminio. Diretta a Nord verso l’Adriatico essa andava in direzione opposta a quella, più antica, della via Appia quasi a simboleggiare una alternativa nella politica espansionista romana, legata ai tradizionali aspetti agrari di cui il Piceno costituiva l’esito quasi naturale. Una conseguenza di grande rilievo dello scontro con Cartagine fu il formidabile collaudo della costruzione politica romana in Italia. Se infatti già nel corso della Prima guerra punica la società romana aveva mostrato una grande capacità di mobilitazione di risorse, trasformandosi in una potenza marinara, fu la seconda guerra punica, con la discesa di Annibale in Italia a dare la misura della compattezza del blocco politico costruito da Roma. In effetti Annibale, portando il suo esercito in Italia, perseguiva un disegno strategico che andava oltre il mero confronto militare con i Romani, mirando alla disgregazione di quel sistema con cui si era venuto costruendo, tra IV e III sec., il blocco politico-militare dei popoli italici sotto il diretto controllo di Roma. Sebbene il suo genio militare gli facesse vincere tutti gli scontri diretti contro i Romani, Annibale non sarebbe riuscito a realizzare appieno il suo progetto. Infatti solo le popolazioni più recentemente sottomesse dai Romani come i Galli e gli Etruschi, alcune città della Magna Grecia, anzitutto Capua, tradirono la loro fedeltà ai Romani. La persistenza del blocco di alleanze romano-italico riuscì a impedire che un disastro militare come Canne (216 a.C.) segnasse la fine politica di Roma. Il messaggio della classe dirigente romana, anzitutto del senato allora fu quello di mobilitare ulteriormente una cittadinanza stremata e impaurita, mandando l’inequivocabile segnale, ad amici e nemici, di una lotta a oltranza. Anche se, con il consueto complesso gioco di equilibri, la direzione delle operazioni militari passò dalle mani del partito “oltranzista” che le aveva guidate sino ad allora, ostinandosi in disastrosi scontri diretti con i Cartaginesi, a quelle del capo della fazione più prudente e meno entusiasta della guerra con Cartagine: Quinto Fabio Massimo. Egli tornato a dirigere la politica romana in tardissima età, avviò una strategia totalmente diversa, fondata sul riconoscimento della superiore capacità militare di Annibale. Evitando 140 ogni scontro frontale, egli mirò a stancarlo con piccole ma continue battaglie di logoramento, guidate dal collega Claudio Marcello e dalla devastante politica di terra bruciata. Lunghi anni durò questa situazione di stallo mentre, sotto la guida dei due fratelli Scipioni, i Romani riaprivano la guerra contro i possessi cartaginese in Spagna, cercando di alleggerire la pressione d’Annibale in Italia. Cinque anni dopo Canne, nel 211 a.C., si ebbe una svolta significativa, quando, sotto la pressione popolare, il giovane Publio Cornelio Scipione, figlio di uno dei due condottieri della spedizione romana in Spagna, alla loro morte fu investito di quel comando, senza aver prima ricoperto alcuna magistratura superiore: completamente al di fuori, dunque, del regolare cursus honorum. Era una nuova leadership militare, di tipo carismatico, che si sarebbe confermata con la successiva investitura del comando degli esercii romani, in Africa, dove Scipione poté finalmente conseguire la sua definitiva vittoria su Annibale, nel 202 a.C. 2. Un impero mediterraneo Dopo questa importante vittoria per Roma ci furono tutta una serie di conseguenze: Roma aveva un potere assoluto su tutto il Mediterraneo Occidentale Roma aveva acquistato una dimensione imperialistica (punto sul quale la dottrina moderna discute ma che l’autore condivide) Dal punto di vista economico dobbiamo considerare che, almeno a partire dalla conquista di Vejo, la guerra era divenuta il maggiore investimento sia politico che economico di Roma: un affare redditizio sia per la res publica che per i capi militari e i soldati che vi partecipavano. Sempre più la politica espansionista e le vittorie generavano interessi economici che coinvolgevano tutto il ceto di governo e indirettamente l’intera società romana. Il che portò anche alla rapida dissoluzione delle tradizioni patriarcali, e di quella militaresca e alla condanna dell’austerità che fino ad allora aveva retto la repubblica. Uno dei più grandi storici del Novecento, Arnold Toynbee ha intitolato una sua monumentale ricerca ”l’eredità di Annibale”, ispirandosi a una bellissima immagine di un altro grande studioso, Gaetano de Sanctis. Questi aveva infatti ritratto Annibale che si allontanava sconfitto dall’Italia, lasciando però dietro di sé, come sua “eredità”, il frutto velenoso della disperata lotta da lui condotta contro i Romani. Esso era destinato a intaccare ed erodere alla lunga il trionfo dei vincitori. Infatti per comprendere ciò si deve partire dalla consapevolezza che le straordinarie dimensioni di uno scontro in cui la posta in gioco era tutto avevano inciso su ogni aspetto della società e delle istituzioni romane. Una nuova stagione si aprì con l’affermazione, sulla scena politica cittadina, di eccezionali personalità non facilmente riconducibili all’interno degli equilibri tipici dell’oligarchia senatoria. Già il conferimento del comando straordinario a Publio Cornelio Scipione stravolgeva l’antico principio secondo cui l’imperium militare era dei magistrati superiori, in carica o formalmente prorogati (prorogatio imperii) finché non fossero sostituiti. Si erano già avuti altri comandi eccezionali, ad esempio nel 327 a.C un plebiscito aveva prorogato per tutta la durata delle operazioni il comando del console plebeo Q.Publilio Filone nella guerra contro Napoli, e anche in altri casi. Ma ciò era avvenuto sempre sulla base di delibere senatorie o di leggi, il cui carattere relativamente eccezionale non aveva mancato d’essere sottolineato dagli antichi. Con l’investitura di Scipione del comando in Spagna, si era verificato qualcosa di ben diverso, trattandosi, non di una proroga, ma dell’attribuzione di un potere non prima ricoperto come magistrato ordinario e sulla base di regolari elezioni. Ciò innovava profondamente la prassi costituzionale, staccando il supremo potere di comando militare, l’imperium, dalle magistrature ordinarie, cui sino ad allora esso era stato indissolubilmente 140 collegato: una pratica destinata ad avere nuove e più ampie applicazioni, nel corso delle guerre civile come, in seguito, nella costruzione del principato. Altrettanto problematica era la posizione di Publio Cornelio Scipione “l’Africano” dopo la sua vittoria su Annibale, infatti, la grandezza della vittoria e il ricordo dei pericoli superati si sommavano nell’attribuire a questo personaggio un prestigio mai avuto in precedenza da alcun uomo politico, che andavano ben oltre il suo ruolo temporaneo di princeps senatus. A lui facevano capo le tendenze, molto diffuse nella nobilita, ormai apertasi in gran parte alla cultura ellenistica, favorevoli a un più deciso coinvolgimento di Roma in Oriente. Contro questi orientamenti, ma soprattutto contro la preponderanza politica di Scipione, con i pericoli che essa rappresentava per le logiche egualitarie dell’oligarchia romana si muoverà con decisione Catone il censore. Come non di rado accade nella storia, lo strumento per la sua vittoria su Scipione furono i processi criminali. Non direttamente contro l’Africano, praticamente intoccabile, ma contro il fratello, prima per un affare di “fondi neri” a disposizione di costui nel corso di un comando militare in Oriente, di cui non si riusciva a dar conto. Poi, con un’accusa portata direttamente da Catone nell’anno della sua censura, per la condotta stessa della guerra ed il sospetto, abbastanza artificioso invero, di connivenze col nemico. L’autorità dell’Africano impedì che il processo giungesse a termine, ma quella vicenda intaccò il suo prestigio personale e ne segnò il declino politico. Consapevole di ciò, egli lasciò Roma, ritirandosi in volontario esilio in Campania nei suoi possedimenti. E’ degno di nota che Catone stesso era stato un protetto della gens Fabia, e aveva fatto i primi passi della sua carriera pubblica con il suo appoggio. Come si vede, il diverso orientamento politico (conservatori, agrari vs innovatori filomercantilisti e “protoimperalisti”) si trasmetteva attraverso il sistema dei lignaggi, parentele e clan gentilizi e i rapporti di protezione e di clientela. La svolta catoniana contribuì a irrigidire ulteriormente la posizione dei filoorientali, rendendo impossibile quelle forme di “governo indiretto” attraverso alleanze subalterne e connesse relazioni di patronato, già praticate dai Romani e probabilmente adombrate dalla politica degli Scipioni. Comunque, anche dopo questa crisi, l’abile regia del senato romano funzionò perfettamente, guidando la rapida e relativamente indolore conquista del mondo ellenistico. Ma fu l’ultima stagione in cui esso assolse con piena efficacia al ruolo di protagonista della politica romana. Il germe dei poteri personali, di un crescente squilibrio ingenerato dalla gloria militare era stato seminato e si accingeva ormai a dare frutti velenosi: s’era aperta l’”eredità di Annibale”, appunto In seguito, si introdussero ulteriori cautele e restrizioni nella carriera politica: la lex Villia annalis, del 180 a.C., regolò l’età necessaria per presentarsi alle varie cariche, e rafforzò il divieto di iterazione delle cariche e di continuazione per più anni di seguito della medesima magistratura: dopo il terzo consolato di seguito di Marcello nel 152 a.C., non vi furono più casi in cui non si rispettasse l’intervallo decennale tra un consolato e il successivo, sino a cinque consecutivi consolati di Mario: ma, con essi, siamo già in piena crisi della repubblica. 3. Il governo provinciale Negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra punica cambiarono gli equilibri nel Mediterraneo occidentale e Roma subentrò ai Cartaginesi nel controllo di buona parte della Sicilia e della Sardegna. Queste acquisizioni territoriali d’oltremare furono indicate con il termine provincia: vocabolo usato a designare la sfera di competenza specifica riconosciuta a un magistrato cum imperio ed ora esteso a indicare l’oggetto materiale: il 140 governatore avviò un processo di trasformazione verso un sistema in cui esse vennero integrandosi e confondendosi con le forme più elementari e immediate del diritto romano. La repressione criminale discendeva invece dall’imperium militiae del governatore che in questo caso, almeno in linea generale, non s’arrestava neppure di fronte alle città autonome, mentre le città alleate, con cui sussisteva un trattato, conservavano, invece, anche la loro autonomia giurisdizionale. Le occasioni di potere e di guadagno che il governo di una provincia erano notevoli e per queste divennero posti molto ambiti. Pochissimi furono i governatori onesti e lo stesso Verre non fu peggiore di altri ma, secondo l’autore, ebbe la sfortuna di essere utilizzato da Cicerone come pretesto per affermarsi, altrimenti il processo non si sarebbe mai concluso con una condanna. 4. L’innesto della cultura ellenistica Dopo la sua sconfitta, Annibale si recò in Oriente con l’intenzione di creare un’alleanza anti-romana di stati orientali (Siria - Egitto - Ponto - Grecia ecc.) i quali, se uniti, avrebbero potuto sconfiggere Roma senza troppi problemi. Per questo Roma fu abilissima, tra il 200 e il 167 a.C., a perseguire sistematicamente la divisione tra questi stati, stringendo alleanze con gli uni e isolando gli altri, affrontando così separatamente, prima la Macedonia, poi la Siria (definitivamente sconfitta già nel 188 a.C., ad Apamea) e infine liquidando gli ultimi sussulti macedoni con la conclusiva vittoria di Pidna nel 168 a.C. La loro successiva trasformazione in nuove provincie romane fu la conclusione di un gioco perseguito sapientemente. I circoli più accentuatamente imperialistici erano stati anche più spiccatamente filo ellenistici: aperti e interessati alla cultura e ai valori del mondo che essi si apprestavano a sottomettere. Inoltre i Romani, a differenza di altre grandi esperienze imperiali, non avevano, nel loro approccio alla civiltà ellenistica, dei pregiudizi religiosi e culturali o razziali, ma al contrario la continua importazione di idee, valori e tecniche nuove contribuì a formare un vero bilinguismo culturale e linguistico dell’intera sua classe dirigente. Il fenomeno iniziò nel III sec. a.C., crebbe nel secolo successivo e fu inarrestabile nonostante gli sforzi di Catone il censore e la difesa dei bei tempi andati. La classe dirigente del tempo, non solo imparò il greco come seconda lingua, ma soprattutto, andò a scuola dai filosofi e dagli oratori, utilizzando questo nuovo sapere nell’oratoria politica e giudiziaria, nonché nella scienza giuridica. Fu un fenomeno di enorme rilievo che contribuì a indebolire quelle semplici e forti idealità della repubblica antica con esito ambivalente: da un lato ciò determinò un arricchimento culturale e spirituale dall’altro gli stessi dirigenti non esitarono a reagire con sproporzionata violenza ad ogni pur lieve minaccia al potere o al semplice prestigio romano, sino a far distruggere città inermi e a ridurre in schiavitù tutti i vinti, solo colpevoli d’aver difeso con troppo valore la loro antica libertà, ostacolando la conquista romana. Fino quasi ad arrivare ad una venuta meno di quella fides (lealtà) propria dei romani. Inoltre la cultura ellenistica portò delle idee nuove che rischiarono di sostituirsi a quelle proprie della res pubblica, ad esempio: Affiorava l’idea di una comunità di individui più ampia di quella ristretta ai propri concittadini ma comunque associata al destino e agli interessi di Roma: gli Italici. Questi erano ormai quasi totalmente assimilati ai nuovi popoli delle province governati e dipendenti da Roma e rappresentavano il fondamento di gran parte del suo benessere. una tendenza di tipo universalistico e un nuovo riconoscimento di una dignità umana indipendente da gerarchie e statuti sociali e scissa dallo stesso così radicato senso 140 di appartenenza dato dalla cittadinanza. Sull’azione e sulle idealità dei Gracchi, seppure in misura difficile a stabilirsi, agirono influenze di questo tipo attraverso l’insegnamento di Blossio, un filosofo stoico di Cuma. c’era l’idea di aver raggiunto il punto culminante e che non potesse che iniziare, per Roma, la fase discendente. Questa impostazione è sicuramente alla base dello sforzo di Catone nel cercare di restaurare e difendere antiche tradizioni di sobrietà, mirando a limitare, se non a evitare, le conseguenze negative indotte, nella società romana, dalle grandi trasformazioni generate dallo stesso successo di Roma. Nell’orazione in difesa degli abitanti di Rodi, il vecchio Catone espresse i timori profondi di una cultura consapevole dei pericoli che si spalancano davanti all’uomo accecato dalla ybris (l’orgoglio smisurato che porta l’uomo a sfidare gli dei e a provocarne la vendetta, secondo la tradizione greca). I Romani vollero infatti punire pesantemente Rodi antica e fedelissima loro alleata per aver esitato a prestare aiuto alle guerre romane senza che fosse obbligata dai trattati. In questo atteggiamento si esprimeva la diffusa consapevolezza di tali pericoli in parte della classe dirigente romana. I pericoli derivanti dalla solitudine del comando e dal senso di onnipotenza che ormai i Romani potevano provare, nel momento in cui nessuna potenza sembrava più in grado di opporsi a loro. 5. L’espansione imperialistica e la trasformazione della società romana La Roma che usciva dalle guerre annibaliche era profondamente diversa dalla città dei primi decenni del secolo, e sarebbe mutata ulteriormente nei decenni successivi. Anzitutto sotto il profilo dell’accumulazione di ricchezze e, quindi della trasformazione dei rapporti sociali. L’aristocrazia romana e il ceto equestre furono i principali beneficiari di questa crescita, con la conseguente concentrazione di grandi capitali nelle mani di pochi privilegiati. Soprattutto il ceto equestre costituiva il perno di tutto il meccanismo di sfruttamento provinciale, avendo acquisito un controllo strategico nella gestione dei flussi di ricchezza che l’espansione imperiale assicurava non solo a Roma, ma all’Italia intera, partecipe, seppure in forma subalterna, di questi processi. Il governo della res publica restò invece monopolio di fatto della nobiltà, che rimase deliberatamente abbastanza al margine di queste nuove forme di gestione e di moltiplicazione delle ricchezze. Essa lucrò dalle guerre con i bottini rapinati ai vinti e con la successiva spoliazione delle provincie, ma il suo stesso ruolo la vincolava alla politica cittadina. Di qui la necessità d’investimenti relativamente stabili, che non la impegnassero eccessivamente in un diretto lavoro di gestione. Tuttavia spesso per amministrare i propri patrimoni la nobilitas si avvaleva di schiavi orientali esperti in attività finanziarie e mercantili, molto più spesso gli investimenti erano di carattere immobiliare: anzitutto attraverso la proprietà di grandi edifici urbani d’abitazione a più piani (insulae) che, in una città come Roma, si venivano moltiplicando, a seguito della crescente quantità di abitanti. Molti, tra gli strati meno elevati, ma non solo, erano alloggiati negli appartamenti peggiori di queste insulae affittati a cifre talora abbastanza elevate. attraverso la proprietà dei grandi fondi agrari Nelle aree agricole più facilmente integrabili nei circuiti commerciali (si tenga presente che il trasporto via terra, nel mondo antico, era infinitamente più costoso e difficoltoso di quello via acqua: sia per mare che lungo i fiumi navigabili) si venne così sviluppando un sistema produttivo orientato a soddisfare soprattutto la crescente domanda dei mercati cittadini. Esso si sostanziò nella formazione di grandi tenute, gestite da fiduciari, spesso essi stessi schiavi o liberti dei titolari, con l’impiego promiscuo di manodopera schiavistica e di contadini liberi. Il meccanismo fu favorito, per un certo tempo, dalla disponibilità di grandi masse di schiavi a buon mercato riversatisi nei grandi mercati specializzati a seguito delle guerre vittoriose di Roma. 140 L’aumentato livello degli investimenti, la specializzazione e la qualità delle coltivazioni, le crescenti necessità di derrate alimentari per i mercati cittadini contribuirono a loro volta ad aumentare le dimensioni di tali proprietà. Oggi gli studiosi sono più scettici sulla tradizionale descrizione di un generalizzato spopolamento delle campagne italiche intervenuto in quell’epoca anche se un forte deflusso di popolazione avvenne sia per la continua necessità di leve militari, sia per i processi di urbanizzazione allora in corso. La disponibilità di grandi quantità di schiavi fu un fattore determinante delle trasformazioni economico-sociali che ci furono. Sin dal IV sec. a.C. e sempre più in seguito, gli schiavi divennero il fondamento dell’intera economia romana. A riguardo: da un lato colpisce lo sfruttamento sistematico e brutale di questo tipo di forza- lavoro soprattutto nel settore agrario ma anche nelle miniere o nelle navi da trasporto o da guerra (come rematori). dal lato opposto, tale istituto venne utilizzato, in modo straordinariamente efficace, in una molteplicità di impieghi e di attività che moltiplicarono la capacità d’azione e di gestione della classe dirigente romana. Alcuni schiavi, infatti, erano ben diversi da quelli destinati a lavorare nei latifondi: si va da artisti formatisi alla grande tradizione ellenistica, a letterati utilizzati come pedagoghi dei figli dei romani o come scribi e segretari dei ricchi romani, specialisti in ogni campo, dalla professione medica alle tecniche commerciali e bancarie - così sviluppate in oriente, ed ai vari settori artigianali. Quest’ultimo tipo di schiavi era acquistato a prezzi spesso molto elevati e quasi sempre lavorava a stretto contatto con i loro padroni. Così, attraverso la disponibilità di questa vasta gamma di competenze, la stessa capacità di gestione delle imprese agrarie, commerciali e delle attività finanziarie facenti capo al pater familias migliorò notevolmente. Ciò rese possibile lo straordinario e rapidissimo incremento degli strumenti tecno e culturali di cui si provvide il ceto dirigente romano per guidare e gestire il formidabile sviluppo dell’intera organizzazione economico-sociale tardorepubblicana. Un aspetto centrale che si deve tener presente è rappresentato dalla facoltà riconosciuto dall’ordinamento romano ai proprietari di schiavi di concedere loro la libertà e, inscindibilmente da essa, anche la cittadinanza romana. É di grande interesse il fatto che, malgrado le resistenza al processo di ellenizzazione della società romana, non si registri alcun serio tentativo di arrestare il potente meccanismo di mobilità sociale rappresentato dalle manomissioni degli schiavi. Ciò appare evidente nel momento in cui, a partire dal III sec. a.C. e sempre più nel tempo, Roma dispose anche di altre “cittadinanze”: la latina e lo stesso statuto di peregrinus, “straniero”, come appunto i sudditi delle province. Ai liberti dunque si sarebbe potuto dare questo più basso statuto personale, invece della sempre più privilegiata cittadinanza romana. Ma, salvo casi particolari e circoscritti, non fu questa la strada battuta: la saldatura tra libertà e cittadinanza romana restò ferma. Questo fu, alla lunga, un formidabile elemento di arricchimento della società romana - una delle società più “aperte” del mondo antico - e conseguentemente anche una ragione del suo durevole successo; all’opposto della parabola delle città greche. É chiaro che i beneficiari di questo straordinario potere furono soprattutto quegli schiavi più a contatto con i loro padroni e meglio in grado di conquistarsene la benevolenza. Divenuti liberti, essi e i loro discendenti costituirono un nuovo e importante gruppo sociale che contribuì ad arricchire ulteriormente la società romana determinandone una qualche mobilità. Infatti i figli degli ex schiavi, se nati quando il padre era già divenuto “liberto”, avevano lo statuto di “ingenui” potendo ulteriormente ascendere nella scala sociale. 6. La teoria della “costituzione mista” 140 ordinarie garanzie di libertà e di tutela giuridica per i cittadini. Nessun vincolo più si opponeva così all’azione dei consoli intrapresa per la “salvezza della repubblica”. La prima sperimentazione di esso avvenne, come sovente accade, in seguito a un falso allarme. Si trattò “dell’invenzione” di un complotto a danno del senato e dei dirigenti romani, rappresentato dai culti dionisiaci, di origine greca, ampiamente diffusi nella penisola già negli ultimi anni del III sec. a.C.. La paura pervase il senato di Roma, anche a seguito di delazioni di alcuni “pentiti”, inducendolo ad autorizzare, con formale delibera, i consoli a una durissima repressione del culto, mettendone a morte i seguaci e intervenendo a che lo stesso tipo di repressione fosse impartito in tutti i municipi e le colonie e in tutte le altre città italiche alleate dei Romani. Per la prima volta, con tale decisione, si esonerarono i supremi magistrati romani, considerato l’eccezionale pericolo, dal rispetto della fondamentale garanzia posta a presidio della libertas repubblicana: la provocatio. Che questo provvedimento senatorio fosse carico di pericoli lo mostra il tentativo di utilizzare successivamente questo stesso strumento nella lotta contro i Gracchi. 2. Tiberio Gracco e la distribuzione dell’”ager publicus” Verso la metà del II sec. a.C. la crisi istituzionale era chiara a tutti e a questa si aggiunse un parziale spopolamento delle campagne italiche, un problema ingigantito dalla classe dirigente dell’epoca ma comunque determinante per la necessità di rifornire gli organici delle legioni. Infatti la composizione dell’esercito ancora si fondava sulle logiche dell’ordinamento centuriato, seppure profondamente modificate e aggiornate nel corso dei secoli. Secondo queste il nerbo delle legioni era fornito dal ceto dei piccoli e medi proprietari fondiari “adsidui” (infatti a partire dalle guerre contro Annibale si era abbassata di molto la quantità di terra richiesta per poter far parte degli adsidui) mentre restava a margine la massa di nullatenenti presenti a Roma molti dei quali vivevano in modo parassitario e che erano tutti concentrati nelle poche centurie di proletarii. Sin dagli inizi del II secolo a.C. era emersa la volontà di difendere il fondamento agrario della società romana: si pensi all’azione politica di Catone che scrisse il trattato De agricoltura ed ebbe diversi seguaci tra cui il padre dei Gracchi un onesto e valoroso magistrato romano. si cercò di rivitalizzare le antiche leggi in materia cioè le leggi Licinie Sestie con cui si stabiliva un limite ai possessi di terre pubbliche da parte di ciascun cittadino. Ciò suscitò dei malumori tra le classi alte, che si aggravarono in seguito, quando un altro progetto di riforma agraria fu proposto da Gaio Leio, amico degli Scipioni, probabilmente durante il suo consolato nel 140 a.C. Di fronte alla dura reazione dei “ricchi”, come li chiama Plutarco, Lelio aveva subito fatto marcia indietro, lasciando così ulteriormente aggravare un problema che minacciava le strutture stesse della repubblica. Questa era la situazione quando, nel 133 a.C. Tiberio iniziò la sua carriera facendosi eleggere al tribunato della plebe. Egli avviò immediatamente una decisa politica riformatrice, tale da suscitare profonde avversioni e al tempo stesso convinte adesioni. Riprendendo infatti l’antica legislazione, Tiberio propose ai comizi una legge con cui si riaffermava un limite ai possessori di terre pubbliche che ciascun cittadino poteva acquisire: 500 iugeri, circa 125 ettari, per ogni pater familias cui si sarebbero potuti aggiungere altri 250 iugeri per ogni figlio maschio, sino a un totale complessivo di ben 1000 iugeri. In base a tale proposta: gli antichi possessi di ager publicus che rientravano nei limiti previsti dalla legge sarebbero divenuti proprietà privata dei singoli possessori (vantaggio per i latifondisti), 140 la terra eccedente tali misure era recuperata alla res publica per essere redistribuita tra i cittadini non abbienti, in forma di piccola proprietà contadina (vantaggio per tutta la popolazione). Era una vera e propria “riforma agraria” anche perché si prevedeva l’inalienabilità di questa piccola proprietà per favorire il radicamento dei nuovi assegnatari alla terra. Il compito di recuperare e distribuire tali terre ai piccoli proprietari fu affidato a un triumvirato appositamente istituito, eletto dai concilia plebis di cui avrebbero fatto parte anche il suocero di Tiberio, Appio Claudio, e suo fratello Gaio, a garantire l’effettiva applicazione della delibera. La sostanza della proposta non era particolarmente rivoluzionaria, riprendendo, del resto, idee e schemi già dibattuti in Roma. ma toccava notevoli interessi, poichè sottraeva ai grandi proprietari, appartenenti quasi tutti all’aristocrazia senatoria o comunque a essa strettamente collegati, terreni agricoli già colonizzati e messi a coltura e considerati ormai, non come possessi teoricamente sempre revocabili, ma come vere forme di un’intangibile e legittima proprietà. L’aristocrazia senatoria si affidò ad un altro tribuno, C. Ottavio, perché, secondo le regole tradizionali, interponesse l’intercessio contro la proposta del collega, impedendo quindi che i concilia potessero discuterla e votarla. Ma questo espediente non bloccò Tiberio nell’attuazione del suo progetto politico, perché egli, non potendo superare la paralisi derivante dal veto del collega, l’aggirò, facendo votare dagli stessi concilia la deposizione di Ottavio sulla base dell’ingannevole e pericoloso argomento che non poteva essere magistrato della plebe chi operava contro l’interesse di questa. Si trattava di un procedimento grave e contrario alla logica generale delle magistrature romane e della costituzione repubblicana in quanto si presupponeva il principio di un mandato vincolante tra il magistrato e i suoi elettori. Così, solo a seguito di un’azione arbitraria, sostanzialmente illegale e certamente senza precedenti come la revoca di un tribuno per le sue posizioni politiche, la legge agraria proposta da Tiberio poté essere votata. A rafforzare la propria iniziativa Tiberio sfruttò poi un evento esterno appena accaduto e consistente nel testamento di Attalo II, re di Pergamo, il quale aveva istituito il popolo Romano come sue erede. Prevenendo qualsiasi decisione del senato che si era sempre arrogato una competenza esclusiva per tutti i problemi di politica estera, Tiberio fece votare dai concilia un plebiscito con cui si affidava il tesoro alla commissione appena istituita, onde finanziare la complessa operazione di ripopolamento delle campagne prevista dalla legge agraria. Tiberio era un politico che rappresentava interessi e valori condivisi: dietro di lui era schierato non solo il popolo minuto, attirato dalla promessa della distribuzione gratuita di terre pubbliche ai non abbienti, ma anche membri dell’aristocrazia romana, compresi diversi senatori che condividevano molti dei motivi di fondo che avevano ispirato le sue riforme. L’irrigidimento dello scontro fece precipitare la situazione verso esiti incontrollati: ciò fu evidente quando lo stesso Tiberio volle ripresentarsi alla caria di tribuno della plebe per l’anno successivo, allontanandosi dai criteri tradizionali che regolavano il cursus honorum. Tale rielezione era indispensabile per garantire: l’attuazione della riforma la sua stessa sicurezza personale > il tribuno infatti aveva un carattere sacrosanto la cui assoluta inviolabilità personale era severamente garantita. Benché non esistesse un esplicito divieto d’iterazione immediata della carica, tale situazione fu sfruttata dai nemici di Tiberio che maliziosamente diffusero l’idea che questi aspirasse a un potere monarchico. Accusa senza fondamento, ma atta ad accrescere i sospetti nei gruppi dell’oligarchia romana. Per questo contro la sua immediata rielezione al 140 tribunato per l’anno successivo si scatenò la violentissima opposizione dei suoi avversari politici. Nei tumulti che seguirono Tiberio e alcuni suoi seguaci vennero uccisi da un gruppo di senatori, nei pressi della curia dove si riuniva il senato. Questa fine cruenta avviò una vera e propria persecuzione che si tentò di coprire a sua volta con forme legali, attraverso l’emanazione di un senatusconsultum ultimum per la “salvezza suprema” della repubblica. Tale tentativo del partito antigraccano fu vanificato dalla ferma opposizione di Publio Mucio Scevola, il console in carica per il 133-132 a.C. La sua opposizione, tuttavia, non fece che rinviare la persecuzione dei seguaci di Gracco a opera dei suoi immediati successori: i consoli Popilio Lena e Publio Rupilio, i sostenitori di Tiberio furono quindi dichiarati “nemici della repubblica” e rinviati al giudizio di tribunali eccezionali senza che potessero appellarsi al popolo con la provocatio. Il progetto di riforma ideato da Tiberio sopravvisse alla sua morte perché gli interessi e gli appoggi alla base erano sufficientemente forti da impedire che la sua legge fosse abrogata o totalmente disapplicata. Tuttavia ci furono delle difficoltà nell’attuazione: incertezza circa i confini delle terre pubbliche malessere determinato dal fatto che molte terre che formalmente rientravano nell’ager publicus erano in possesso a determinati soggetti o agli alleati italici. E’ possibile che l’ostilità di Scipione, tradizionale protettore degli alleati italici, verso le leggi graccane sia da ricondursi alla lesione degli interessi dei numerosi possessori italici i quali probabilmente, non erano stati ammessi a partecipare alle distribuzioni di terra. In effetti il partito popolare aveva cercato di ovviare a questo svantaggio degli Italici favorendo per altri e più sostanziosi aspetti gli interessi di costoro. Va ricordato come già nel 125 a.C. fosse stata proposta da Fulvio Flacco la concessione della cittadinanza romana ai socii Italici, e che, caduta questa per la decisa opposizione della nobilitas lo stesso magistrato avesse avanzato una proposta più limitata, anch’essa bocciata, volta ad assicurare anche ai socii il privilegio della provocatio al popolo. 3. L’eredità politica di Tiberio e il programma di Gaio Gracco Un decennio dopo la caduta di Tiberio la crisi sarebbe esplosa nuovamente ad opera del suo più giovane fratello, Gaio che eletto tribuno della plebe nel 123 a.C., e rieletto nell’anno successivo, fece approvare un complesso intreccio di leggi volte a realizzare un progetto politico ben più ampio e ambizioso di quelle limitate riforme a suo tempo propugnate da Tiberio. Questa seconda riforma probabilmente: mirò a rivitalizzare il lavoro dei triumviri agris dandis, restituendo ai commissari gli originari poteri loro attribuiti stabilì che le terre assegnate fossero concesse pagando un canone (vectigal) diminuì il tetto di 500 iugeri di terre pubbliche lasciate agli originari possessores Colpisce nell’azione di Gaio, la quantità e la complessità dei campi toccati dalle riforme: con una fitta serie di leggi si riprendevano infatti tutte le linee tradizionali del “partito agrario” e dell’antica politica filo-plebea, con un forte rilancio della colonizzazione romana. Particolarmente importante fu la lex Sempronia che contrastava interessi della classe senatoria e prevedeva la fondazione di una colonia a Taranto e il progetto di un’altra colonia a Capua che avrebbe recuperato parte delle fertilissime terre campane restate di pertinenza di Roma, dopo la severa punizione inflitta a tale città per la sua defezione da Annibale. Terre che, di fatto, erano state sfruttate per quasi un secolo esclusivamente dalla nobilitas senatoria. Altre leggi sempre dello stesso periodo prevedevano: la fondazione di una colonia a Cartagine con sottrazione al senato della competenza circa la gestione delle provincie romane 140 Quest’ultimo problema fu individuato da Gaio Gracco nei suoi ultimi giorni anche perché si manifestava in concreto nella crescente pressione dei Latini e non solo per acquisire la cittadinanza romana. Gaio aveva correttamente inquadrato tale fenomeno, da qui l’idea di estendere i benefici delle leggi agrarie non solo ai cittadini romani. Di fatto la rapida acquisizione da parte di Roma del vasto impero mediterraneo, con la conquista di tutto l’Oriente ellenistico e i relativi vantaggi economici, aveva profondamente modificato il quadro delle alleanze e delle relazioni italiche che risaliva al secolo precedente quando Roma si era scontrata con Cartagine. Allora Roma era l’indiscusso punto di riferimento di un complesso sistema di forme di alleanze formalmente o sostanzialmente subalterne, dove alla fedeltà e agli oneri richiesti alle molteplici comunità a esso appartenenti, corrispondevano i vantaggi derivanti dall’appartenenza a un blocco politico forte e relativamente omogeno. Ma ciò, ora, non bastava più agli alleati di Roma che avevano contribuito enormemente al suo successo. Occorreva dunque una redistribuzione di ruoli: l’ampliamento della cittadinanza era la chiave. Erano lontani infatti i tempi in cui gli alleati di Roma si mostravano soprattutto interessati a conservare la loro pur minuscola sovranità, giacché, già verso la metà del II sec. a.C., la fedeltà alle tradizioni e alla propria identità politica apparivano meno rilevanti rispetto ai crescenti vantaggi derivanti dalla cittadinanza romana. E’ vero che Preneste, ancora nel 216a.C., aveva rifiutato la cittadinanza romana offertale quale premio della sua fedeltà in una fase politica molto delicata, preferendo continuare a fruire del proprio ordinamento. Ma già nel 137a.C. i Ferentini, ad esempio, avevano chiesto che i Latini partecipanti alla fondazione di una colonia romana acquisissero la cittadinanza, mentre in quegli stessi anni il continuo flusso di Latini e di altri italici in Roma aveva raggiunto dimensioni preoccupanti, così come allarmanti apparivano le aperte frodi miranti all’acquisizione della cittadinanza romana da parte di costoro. Nel corso del tempo erano divenuti sempre più evidenti i vantaggi derivanti dall’appartenenza alla città al centro di un enorme tessuto di potere e di ricchezze (ad esempio a partire dal 167a.C. i cittadini romani furono esonerati dall’obbligo di pagare il tributo per il sostentamento della res publica). Appalti, espansione mercantile, arricchimenti al seguito degli eserciti vincitori, spoliazione di città vinte, asservimento massiccio dei nemici e loro vendita sui mercati di schiavi, speculazioni finanziarie e mercantili di ogni tipo erano le attività in cui i cittadini romani, ma anche mercanti e affaristi italici trovavano crescenti campi d’azione e fonti di ricchezza, ma solo la titolarità della cittadinanza romana assumeva un notevole valore. Inoltre, con l’accresciuto potere romano, si accentuò un’arroganza dei suoi gruppi dirigenti verso tutti gli altri popoli sottoposti che doveva apparire particolarmente odiosa ai vecchi alleati italici. Così nel corso del II sec. a.C., si delinearono due tendenze di segno opposto: da una parte l’accresciuto interesse di Latini e Italici ad acquisire individualmente o in blocco la civitas Romana. dall’altra un’inversione del precedente atteggiamento romano, da sempre piuttosto liberale in queste concessioni: ora esse diventarono sempre più rare e circoscritte. In relazione a ciò, il progetto di Gaio non era avventuroso, poiché intendeva concedere: la cittadinanza romana solo agli antichi Latini che ne erano ancora restati fuori, pur fruendo da secoli del commercium e del conubium con i Romani, una parziale assimilazione ai privilegi goduti in precedenza dagli stessi Latini per gli alleati italici 140 Tuttavia anche questa politica, graduale e cauta, si scontrò con le resistenze romane: fu relativamente facile, in quel momento, per il senato cercare di isolare Gaio dalla sua stessa base, scatenandogli contro un altro tribuno, all’apparenza ancor più radicale di Gaio, che ne indebolisse il prestigio. Ciò avvenne con l’azione di M. Livio Druso che, insieme a una serie di proposte demagogiche, interpose il veto contro la proposta di Gaio di estensione della cittadinanza. Lo spostamento di umori degli strati popolari segnò il destino personale del grande riformatore e, momentaneamente, anche quello del suo partito. Così la linea politica graccana fu pressoché cancellata, con singoli provvedimenti: si affermò l’alienabilità della assegnazioni graccane, che favorì la rapida sostituzione dei coloni in difficoltà con i grandi proprietari si mise anche formalmente termine ai processi di acquisizione dell’ager publicus. la lex agraria epigraphica del 111 a.C. riorganizzò l’intero demanio territoriale romano, favorendo il consolidamento degli antichi possessi di ager publicus trasformati in piena proprietà e, di conseguenza, sminuendo l’importanza, anche quantitativa, delle terre pubbliche, all’origine di tutti i conflitti degli ultimi decenni. Cap. 11: il tentativo di restaurazione sillana e il tramonto della repubblica 1. Le riforme militari di Mario e la crisi italica La radicale sconfitta dei Gracchi e delle forze che li sostenevano aveva aggravato i problemi che le loro proposte avevano cercato di superare (crisi demografica delle campagne italiche, tensioni con gli italici, aumento dei fenomeni di inurbamento e aumento della proprietà schiavistica). Tutti questi problemi divennero sempre più evidenti quando Roma dovette successivamente affrontare una difficile campagna militare contro una nuova invasione della penisola da parte di bellicose popolazioni celtiche e germaniche. In un primo momento queste ondate erano abbastanza frequenti e spesso portavano esiti catastrofici basti pensare alla conquista e all’incendio di Roma da parte dei Galli all’inizio del IV sec. a.C.. Successivamente sparirono dato che Roma aveva rafforzato la sua presenza militare nell’Italia del Nord. Quando ripresero colsero Roma impreparata soprattutto per la difficoltà di assicurare la leva per approntare un esercito adeguato. La vittoriosa difesa contro l’invasione fu comunque assicurata ad opera di un generale di origine plebea e la cui personalità avrebbe dominato le vicende romane a cavallo del secolo: Gaio Mario. Divenuto popolare gli venne affidata la difficilissima guerra in Nord Africa contro Giugurta, re della Numidia. Questa decisione fu presa su pressione popolare e con il supporto dei potenti interessi mercantilistici, interessati allo sfruttamento commerciale di questi territori. Mario colmò i vuoti all’interno dell’esercito arruolando volontari provenienti da vasti strati di cittadini nullatenenti, attirati dal soldo e dalla speranza di ulteriori vantaggi economici con la divisione del bottino di guerra. Nel censimento la ricchezza minima di cui dovevano essere titolari i cittadini per poter servire nelle legioni (circa 11000 assi) era stata ridotta al tempo delle guerre annibaliche a 4000. Ulteriormente ridotta alla cifra simbolica di 1500 assi, questo requisito fu definitivamente soppresso da Mario che aprì i ranghi dell’esercito ai capite censi. In questo modo si tagliavano però definitivamente le antiche radici cittadine dell’ordinamento militare romano, fondato sulla costituzione centuriata, avviandosi così la sua progressiva trasformazione in un esercito di mestiere. Alla fedeltà verso un entità imperiale come la res publica sarebbe subentrata nei veterani, arruolati per lunghi periodi di tempo, una più immediata ed esclusiva fedeltà al proprio comandante. Gli stessi comandanti, alla fine del loro comando, si mostravano sempre meno disposti a rientrare nei ranghi come semplici, anche se autorevoli membri dell’aristocrazia senatoria e ciò divenne nel tempo un fattore di crisi delle istituzioni repubblicane. 140 Dopo queste lotte il prestigio di Mario, rieletto ripetutamente al consolato, dominò l’orizzonte politico romano, determinando una forte spinta in senso popolare. La guida effettiva, tuttavia, finì con l’essere assunta da due personalità più rozze e di orientamento più radicale, Saturnino e Glaucia, che furono i due veri cervelli politici del partito popolare e cercarono di realizzare gli obiettivi tradizionali del loro partito come testimoniano tutta una serie di proposte legislative elaborate da Saturnino e votate verso la fine del secolo. Esse riguardavano: la distribuzione di grano alla plebe a prezzi irrisori la fondazione di colonie oltremare e la distribuzione di terre ai veterani di Mario una nuova legge giudiziaria proposta da Glaucia. la lex Appuleia de maiestate minuta che precisava e ampliava la figura del crimen maiestatis con cui si colpivano i reati di carattere politico. Tale imputazione, per l’indeterminatezza dei comportamenti previsti come reato era facilmente utilizzabile in una lotta politica ormai senza esclusione di colpi. Lo scontro divenne sempre più aspro: ci furono disordini che accompagnarono l’approvazione della legge agraria relativa alla distribuzione delle terre della Gallia Cisalpina conquistate da Mario contro i Cimbri e si arrivò al culmine quando, nel 100 a.C., Saturnio e Glaucia, cercando di farsi rieleggere tribuni, giunsero all’assassinio del candidato avversario. Ciò legittimò il senato a emanare il senatus consultum ultimum, incaricando lo stesso console in carica, Mario, di intervenire contro i suoi antichi alleati. Malgrado il tentativo di Mario di evitare le conseguenze ultime dell’incarico affidatogli, ad opera della nobilitas si perpetrò l’uccisione di Glaucia e Saturnio e di molti loro seguaci, dopo che erano stati disarmati e imprigionati dallo stesso console. Tutto ciò segnò una nuova catastrofe per il partito popolare, e il tramonto politico di Mario, un bravo e fortunato comandante, ma un politico incerto e poco abile. Ormai egualmente inviso ai popolari per la repressione da lui condotta e all’aristocrazia senatoria per tutta la sua precedente storia politica, egli ritenne opportuno allontanarsi da Roma con un pretesto. N.B. Proprio con Mario, sovvertendo le regole tradizionali, si ammise la rielezione della stessa persona a console per più anni di seguito. La guida dei popolari fu assunta da un altro politico radicale come Cinna, che era tribuno della plebe. Quasi negli stessi anni, con il figlio del vecchio avversario di Gaio Gracco, Livio Druso, la questione degli Italici, la cui soluzione era ormai sempre più urgente, tornò al centro della scena politica romana. Egli infatti, ricoprendo come il padre la carica di tribuno, si distaccò tuttavia dalla linea paterna, antigraccana e filo-senatoria, riprendendo piuttosto molte delle linee riformatrici del partito avversario. Fu una politica piuttosto equilibrata: se da un lato con la lex Livia agraria e la legge frumentaria, da lui volute, si riprendeva il contenuto delle riforme graccane, dall’altro Druso restituiva le competenze giudiziarie al senato, togliendole ai cavalieri, a loro volta favoriti dalla duplicazione dell’organico dei senatori, sempre proposta da Druso. L’accresciuto numero di senatori, portato a 600, facilitò infatti l’inserimento nei loro ranghi di molti esponenti del ceto equestre. In questo quadro di redistribuzione del potere e di contemperamento degli interessi era inevitabile che il tribuno si impegnasse a risolvere il nodo dell’allargamento della cittadinanza romana agli Italici. A tal proposito Druso presentò una proposta di legge relativamente moderata che prevedeva una progressiva concentrazione della cittadinanza romana agli alleati italici. Ma l’oligarchia senatoria, alleata con gran parte dei cavalieri, 140 oltre che degli altri membri del partito senatorio. Tornato in Italia a capo del suo esercito vittorioso, Silla, nell’80 a.C., marciò militarmente su Roma, battendo l’armata levata dai capi popolari e schierata dinanzi alle porte della città. Vinti costoro, egli entrò a Roma imponendo un ordine legale fondato sul terrore. Oltre al feroce massacro degli esponenti popolari, tra cui molti membri del senato, ci fu la novità delle “liste di proscrizione” con cui una serie di capi popolari, ma anche di meri avversari personali di Silla o di qualche suo potente seguace, furono dichiarati “nemici della repubblica”: i loro beni furono espropriati, essendone una parte consistente assegnata a colui che avesse denunciato il singolo proscritto, e la loro stessa vita lasciata alla mercé di ogni assassino legalizzato. La lex valeria de Silla dictatore, imposta ai comizi ormai asserviti, attribuì a Silla la pienezza dei poteri assoluti, in qualità di “dittatore per ricostruire la repubblica e scrivere le leggi”. Il termine dictator, da lui assunto, ci riconduce alle origini stesse della repubblica, con una figura che da tempo aveva perso la sua originaria rilevanza. Tuttavia il contenuto in termini di poteri, l’indeterminatezza nella durata e l’estensione, la finalizzazione stessa mirante a una generale “restaurazione” dell’ordine politico evidenziano immediatamente la radicale diversità della costruzione sillana rispetto ai modelli del passato. La legge di conferimento della dittatura rei publicae constituendae corrispondeva pienamente al progetto sillano: egli restò in carica circa 2 anni. Al loro scadere, malgrado nessun ostacolo si opponesse alla sua permanenza al vertice di Roma per il restante periodo della sua vita (e in questo senso si erano mossi i suoi seguaci e amici), si ritirò a vita privata. In quei due anni egli aveva portato a termine moltissimi provvedimenti legislativi tesi a riplasmare integralmente gli assetti istituzionali e l’organizzazione della res publica. Realizzando il suo disegno, con la restaurazione dell’antica e gloriosa repubblica, egli abbandonò la sua carica che riteneva non più necessaria. 3. Le riforme sillane Silla era un convinto e radicale esponente dalla cultura e dei valori dell’aristocrazia romana che si sostanziava in un sistema fortemente gerarchico con il suo punto di forza nel Senato. Anche se il suo operato non fu sufficiente (la crisi politica di Roma era ormai irreversibile) colpisce la sua azione per la complessità, la rapidità e l’ampiezza delle materie interessate. Se si voleva riaffermare l’antica centralità del Senato due erano i problemi da risolvere: Ridurre il vigore rivoluzionario del tribunato della plebe (es. Gracchi) Bloccare la crescita del peso politico dei comandanti militari (es. lo stesso Silla) Circa il primo punto egli: stabilì la preventiva approvazione del Senato dei candidati all’elezione a tribuno (forse ammettendovi solo i membri di tale consesso) introdusse il divieto per i tribuni della plebe di ricoprire altri magistrature cum impero ridusse i poteri dei tribuni della plebe: per esempio il potere di intercessio fu limitato ai soli interventi in favore del singolo cittadino riaffermò l’antico controllo del Senato sui processi legislativi. Questi interventi intaccarono degli equilibri consolidati da secoli che avevano visto il tribunato assumere progressivamente un ruolo strategico nel funzionamento della repubblica. In effetti il tribunato era diventato non solo un organo fondamentale della dialettica politica tra i gruppi sociali, ma anche un meccanismo prezioso, per la sua “elasticità”, per l’intera macchina politica della repubblica aristocratica. Questo fu uno degli aspetti più contraddittori della politica sillana perché: 140 da un lato si voleva impedire che, in futuro, potesse riproporsi l’azione eversiva di questi magistrati, evidenziatasi sino all’età dei Gracchi e divenuta il fondamento del partito popolare. dall’altro, nel far ciò, si intaccava la tradizione repubblicana. Circa il secondo problema Silla accentuò la distinzione tra governo civile e comando militare ribadendo l’antica tradizione che escludeva l’ufficio dell’imperium militiae entro i confini sacri di Roma (Pomerium). Tali confini furono estesi a tutta l’Italia peninsulare rendendo illegale ogni tipo di attività militare. Questa soluzione produsse due conseguenze: i consoli, la cui carica li obbligava a rimanere nel Pomerium, persero l’imperium militiae l’indebolimento delle magistrature che non avevano più il comando dell’esercito Ci furono poi altri provvedimenti, circa il Senato egli provvide inoltre a: riattribuire al ceto senatorio il controllo dell’intero sistema criminale romano, con la rinnovata composizione di tutte le quaestiones perpetuae i cui membri tornarono a essere di rango senatorio reintegrare le file dei senatori ormai dimezzate dalla lunga stagione di guerre e di persecuzioni interne, confermando l’organico di 600 senatori progettato da Druso figlio. Così egli inserì un significativo numero di esponenti del ceto equestre, assicurando, una maggiore integrazione tra i due gruppi sociali al vertice della repubblica. Inoltre egli procedette alla: soppressione delle frumentationes a favore della plebe urbana > queste erano state uno strumento con cui i capi popolari avevano guadagnato il supporto dei loro seguaci. ridefinizione delle regole del cursus honorum nessun mutamento radicale, solo regole antiche razionalizzate e meglio definite: dalla proibizione del rinnovo delle cariche magistratuali per più anni di seguito alla contestuale precisazione dei criteri d’età per l’ammissione alle varie cariche. Ora il cetus ordo magistratum si presentava con disegno più netto, fissando lo schema di carriera possibile per i cittadini romani modificare la disciplina del processo criminale con l’obiettivo politico di sopprimere il ruolo delle assemblee popolari e ridurre i margini di arbitrio dei singoli magistrati e in particolare dei tribuni. Così si cercò di arginare l’utilizzo spregiudicato del processo criminale a fini politici che era divenuto, nel corso degli ultimi decenni, troppo frequente.. Le riforme sillane, in questo campo, resero possibile la rapida tecnicizzazione di questo delicato settore del diritto. riorganizzazione del governo provinciale con lo scopo di renderlo più efficace, infatti: si riaffermò la competenza del senato nell’assegnazione delle province ai promagistrati, furono elevati gli organici complessivi nel governo provinciale ed accrescendo il numero dei magistrati minori e dei pretori si limitarono le prevaricazioni perpetrate sul governo provinciale dal ceto equestre e dai pubblicani. Esemplare fu il provvedimento assunto per la gestione della ricca provincia d’Asia con cui Silla annullò l’assegnazione dell’appalto delle imposte ai pubblicani effettuata da Gaio Gracco, stabilendo che il tributo fissato a carico delle varie comunità fosse riscosso direttamente dal governatore della provincia. La vasta ambizione istituzionale del dittatore volta a “rifondare” la res publica, aveva ridisegnato, con i suoi interventi, l’intera organizzazione del governo repubblicano. Ma 140 spesso egli si limitò a formalizzare o definire meglio dei meccanismi o dei principi consuetudinari, formatisi nell’incertezza di prassi mai irrigidite in regole troppo precise. In altri casi la sua azione andò al di là di questi pur rilevanti interventi sulla macchina istituzionale, con le proscrizioni e la violenta persecuzione dei suoi avversari, senatori compresi, egli infatti incise fortemente sulla composizione dell’aristocrazia di governo. L’espropriazione di grandi patrimoni fondiari ridisegnò il panorama delle ricchezze romano- italiche, impoverendo ed emarginando interi gruppi sociali, e permise anche l’accumulazione di un vasto demanio territoriale redistribuito ai suoi veterani. Nuovamente, seppure con un segno politico del tutto diverso, quei grandi travasi di popolazione verso le campagne e le incisive modificazioni del sistema della proprietà fondiaria che si erano verificate in età graccana ebbero ora a ripetersi. 4. L’evoluzione del diritto e del processo criminale sino alle grandi riforme di fine II sec. Inizialmente i crimina che la città perseguiva erano pochi e tutti richiedevano la relazione diretta e personale degli offesi, ma nel corso del tempo l’intervento della città fu maggiore e coinvolse i magistrati cum imperio in particolare i pretori. Infatti l’originaria facoltà di irrogare sanzioni a chi ledeva la persona sacrosanta del pretore: da un lato si estese, anche in virtù dello ius auxili, alla persecuzione di molti altri comportamenti illeciti dei cittadini e dei magistrati dall’altro da tale facoltà si sviluppò le generale azione a tutela della Maiestas Populi Romani > si trattava di un reato che quasi certamente soppiantò la Perduellio e che avrà importanti sviluppi in età imperiale. A ciò si deve aggiungere che: una serie di reati minori era stata progressivamente sottoposta alla competenza dei questori e degli edili. l’immediata repressione dei reati colti in flagranza o nei riguardi di figure di minor conto era affidata ai poteri, diremmo oggi, “di polizia” dei tresviri capitales. Tali magistrati, istituiti per combattere le forme di illegalità dilaganti in Roma nella sua fase di rapido sviluppo urbano, tra il III e il II sec. a.C., erano originariamente nominati dal pretore e divennero poi elettivi. Essi svolgevano due funzioni: irrogavano sanzioni minori come la fustigazione o l’incarceramento, istruivano il procedimento criminale nel caso di reati più gravi, Nel corso del tempo era sorta una debolezza nel procedimento penale che andò aumentando. Infatti nei casi di condanna a morte dell’imputato il giudizio era sottratto ai magistrati per via della provocatio ad populum e nel corso del tempo quest’ultima fu estesa anche ad altri casi per cui si prevedevano sanzioni economiche o la detenzione. In questo modo i magistrati svolgevano solo una funzione istruttoria, mentre di fatto la funzione giudicante passava all’assemblea popolare. I limiti così imposti a magistrati romani, già con una lex Menenia Sextia, (risalente all’età decemvirale) furono poi rafforzati da un gruppo di leges Porciae, (inizi del II sec. a.C.). che estesero il diritto alla provocatio anche nei casi: della pena della fustigazione in cui la pena si doveva applicare fuori di Roma o nelle province. L’assemblea popolare convocata per giudicare queste materie era condizionata da forti elementi politici e dall’emotività tipica di ogni riunione di persone in numero elevato: La semplice quantità di coloro che dovevano essere informati dei fatti addebitati al colpevole non permetteva un’analisi attenta di situazioni anche complesse ne la comprensione del tecnicismo dei meccanismi applicativi delle norme penali; 140 sistema di repressione criminale, riconoscendo il rapporto tra norma e repressione criminale. Solo allora infatti si fissò con adeguata chiarezza il principio fondamentale di un’elevata civiltà giuridica secondo cui nessuno poteva essere assoggettato a un procedimento criminale se la condotta criminosa imputatagli non fosse stata precedentemente prevista dalla legislazione cittadina. D’altra parte, coerentemente al carattere reazionario della politica sillana, fu soppresso il diritto di appello al popolo da parte del condannato (svolta peraltro non duratura). 6. I signori della guerra Silla, non aveva un progetto di potere personale: ricostituito lo stato repubblicano e rafforzatolo nella sua fisionomia aristocratica, egli ritenne conclusa la sua missione e si ritirò a vita privata. Sebbene egli non fosse destinato a sopravvivere di molto al suo ritiro, fece tuttavia in tempo a vedere incrinarsi alcune strutture portanti dell’edificio da lui eretto. Ciò non tanto per la ripresa del partito popolare, ma ad opera dei suoi stessi seguaci ed eredi politici, a evidenziare una crisi ormai insuperabile. Al contrario molte delle sue riforme furono durature proprio perché, nel complesso avevano fornito una razionale soluzione ai reali problemi di funzionamento della macchina politica. E’ interessante in proposito ricordare l’immediata reazione (appena ciò fu possibile) dei popolari volta a ridare vigore ai poteri dei tribuni e, contemporaneamente a sopprimere la separatezza dal restante cursus honorum. Che gli interessi del blocco aristocratico-conservatore alla base delle riforme sillabe erano forti lo mostra il fatto che tale reazione non riuscì comunque a ridare al tribunato l’antica forza, neppure dopo il 70 a.C., quando la potestà tribunizia fu parzialmente restaurata. Nel progetto sillano emerge un singolare impasto di modernità e comprensione del nuovo con l’inseguimento di modelli ormai senza sostanza. Tale tensione evidenzia bene, a sua volta, le profonde contraddizioni che minavano da tempo la res publica e che i tentativi sino ad allora perseguiti non avevano risolto. Né i Gracchi, né l’estensione della cittadinanza agli Italici, né Mario, con la prevalenza delle logiche militari sulla dimensione della politica, né lo stesso Silla, con il suo progetto di restaurazione della repubblica aristocratica e con la separazione tra potere militare e civile, erano riusciti a dare una risposta adeguata al problema di fondo che stava erodendo dalle fondamenta l’antico edificio repubblicano cioè quella dimensione imperialistica che mai fu messa in discussione. I fattori della crisi restavano dunque operanti tra cui: in primo piano c’era l’intreccio tra i grandi processi di arricchimento, soprattutto dei suoi stati dirigenti, e lo sfruttamento del mondo provinciale. i massicci fenomeni di inurbamento della plebe rurale e il mutamento delle strutture economiche dell’agricoltura italica, dominate ora dal sistema delle ville schiavistiche e del grande allevamento il rapido professionalizzarsi dell’esercito. Non sempre gli storici di Roma hanno saputo trarre le logiche conseguenze da un fatto ben noto. E cioè che la guerra e la conquista fosse stata da sempre, accentuandosi a partire dal II sec. a.C., il più colossale investimento economico, prima che politico, della società romana poiché l’intero edificio cittadino era stato costruito in funzione della guerra: questo era il punto. La novità semmai, consisteva ora nel fatto che il gruppo degli equites aveva un ruolo quasi alla pari con l’aristocrazia che da sempre era stata la protagonista della politica di potenza romana. A questo ceto appartenevano, oltre ai medi e grandi proprietari terrieri, i numerosi uomini d’affari e finanzieri che investivano le loro e altrui 140 ricchezze in operazioni commerciali e speculative che andavano moltiplicandosi, grazie proprio agli sviluppi della politica romana. Sin dall’età dei Gracchi (si pensi a Gaio e al ridimensionamento del Senato), questo gruppo sociale era apparso determinante, anche se la sconfitta del progetto di Gaio ci aiuta a capire la convergenza di fondo tra i due gruppi al vertice della società romana. Per entrambi la guerra era infatti la grande occasione: di carriere per la nobiltà senatoria, di affari e di ricchezze per i cavalieri. Per questo, già nel III sec. a.C. il loro ruolo sembra saldarsi all’avventura imperialistica e alla conquista militare romana. Ma questi stessi interessi riguardarono anche il partito popolare, e con il suo impulso ad esempio: Scipione Emiliano, insigne personaggio della nobilitas senatoria, fu investito di grandi poteri per concludere in modo brutale e sanguinoso, la guerra contro la quasi inerme Cartagine qualche decennio dopo, di concerto con gli interessi dei cavalieri, fu dato il comando a Mario per sconfiggere Giugurta, malgrado le ragionevoli esitazioni del senato. Le vicende successive e lo stesso esempio di Silla avevano reso evidente la vera conseguenza dei fenomeno verificatisi nell’età precedente: la centralità dell’esercito e la ricorrente tendenza dei suoi comandanti a sottrarsi al controllo ordinario degli organi della res publica. Il rimedio da lui escogitato avrebbe addirittura sguarnito il presidio della libertas repubblicana, agevolando il carattere potenzialmente eversivo progressivamente assunto dall’imperium militiae, ormai sottratto alle magistrature ordinarie. Cap. 12 - L’età delle guerre civili 1. La perdita di centralità del senato e i nuovi poteri personali Un altro elemento che contribuì a riaccendere la situazione di crisi e di guerra civile permanente nei decenni successivi al ritiro di Silla fu la progressiva perdita di prestigio del senato. La perdita di autorità di tale assemblea era ormai palese e si evidenziava proprio quando politiche giuste da esso perseguite (come appunto la sua cautela nell’intraprendere una faticosa guerra oltremare contro lo stesso Giugurta) venivano svalutate nell’opinione pubblica per i sospetti di corruzione e di debolezza ormai pericolosi e diffusi. In verità il senato era divenuto sempre più parte nel gioco politico, perdendo in parte l’antica funzione di stanza di compensazione e centro di controllo dell’intero sistema politico. Questo declino, già affiorato nella tumultuosa stagione dei Gracchi, fu evidente negli anni successivi a Silla quando il senato diventò la testa del gruppo conservatore e aristocratico anche se molti senatori appartenevano all’orientamento filopopolare. Lo scontro politico era dominato dal contrasto tra aristocratici e populares ma si articolava poi in un intreccio di gruppi personali dominati da grandi personalità: Pompeo > illustre generale sillano ormai al centro della vita politica Crasso > un aristocratico molto ricco e con stretti rapporti con il ceto degli affari Clodio > patrizio privo di scrupoli che aveva ricoperto la carica di tribuno della plebe Cesare Altro fattore di crisi era la costruzione di poteri personali a base militare fondata su: la tradizionale dictonomia tra il sistema ordinario delle magistrature cum imperio e le pro magistrature associate al governo delle province sul conferimento sempre più frequente, per scopi relativamente eccezionali, di poteri magistratuali sganciati dal meccanismo della prorogatio imperii. 140 Il maggiore esempio era sicuramente Pompeo che grazie a Silla aveva ottenuto dal Senato una serie di incarichi prestigiosi ed era arrivato regolarmente al consolato nel 70 a.C.. La sua ambizione e il tradizionale sospetto verso l’attribuzione di poteri straordinari o troppo ampi, spiegano le successive resistenze del senato a conferirli il comando per combattere la pirateria nel Mediterraneo orientale e nell’Adriatico. Ma la parte popolare fece pressione e tali poteri furono conferiti a Pompeo con una lex Gabina de piratis persequendis (67 a.C.) violando la forma e la sostanza dell’antica costituzione perché: questi poteri erano stati attribuiti a un privato cittadino, qual era allora Pompeo, al di fuori degli ordinari meccanismi della prorogatio imperi la loro estensione era eccezionale sia per il tempo (più di un anno) sia per lo spazio (superamento degli ordinari limiti territoriali dello stesso imperium). Tale imperium dava a Pompeo il controllo di più province territoriali e dell’intera flotta, e quindi una signoria quasi assoluta su tutta la parte orientale dell’impero senza alcun limite imposto da colleghi o controlli esterni. Ancora una volta, relativamente pochi anni dopo la restaurazione sillana, il complesso sistema di equilibri della tradizione repubblicana si dissolveva di fronte al carisma di un potere personale, svincolato dalle tradizionali limitazioni che l’ordinamento repubblicano aveva costruito. Avvalendosi sempre del favore popolare Pompeo, in seguito, strappò, senza veri motivi, a Lucullo (contro cui si venivano sommando l’ostilità dei soldati per la sua severa disciplina e quella dei cavalieri per il suo corretto trattamento delle popolazioni conquistate) il comando della guerra contro Mitridate, ingigantendo ulteriormente il suo potere personale. Ma proprio in ragione dei timori suscitati in senato da questa vicenda fuori dalle regole, al termine del suo comando in Oriente, lo stesso Pompeo si sarebbe scontrato con la resistenza del senato ad approvare il suo progetto di sistemazione delle grandi conquiste in Oriente, con la creazione di nuove province. Era infatti in genere lo stesso magistrato che aveva guidato la conquista a predisporre l’inquadramento e la sistemazione nell’ambito dell’organizzazione provinciale romana, assumendone il ruolo semiufficiale di protettore, con la conseguente crescita della sua sfera d’influenza e di prestigio politico. Lo sviluppo di poteri personali e l’erosione della costituzione repubblicana divennero evidenti quando un accordo privato esautorò esplicitamente il ruolo del senato, affermando nuovi equilibri sulla scena politica romana al di fuori di esso. I protagonisti furono tre eminenti personalità provenienti da storie diverse e talora opposte: da un alto due seguaci di Silla, Marco Licinio Crasso e Pompeo dall’altro Gaio Giulio Cesare che pur appartenendo alla migliore aristocrazia romana, era legato alla tradizione di parte popolare anche per il suo matrimonio con la figlia di Cinna, il primo seguace di Mario. Un matrimonio con un notevole significato politico, se si considera che Cesare si rifiutò di scioglierlo malgrado le dure e pericolose pressioni di Silla all’epoca della sua dittatura. 2. Cesare Cesare aveva già dato prova di quanto fosse forte la sua influenza sui comizi facendosi eleggere alla prestigiosa carica di pontifex maximus contro alcuni importanti personaggi dell’oligarchia senatoria che si erano canditati contro di lui. L’accordo con Pompeo e Crasso era frutto di una convergenza di interessi personali: Cesare > voleva l’appoggio politico e finanziario di Crasso, indispensabile per completare la carriera politica con il consolato e tentare poi, con i comandi provinciali, di acquisire quella rilevanza e quella forza militare di cui invece era già insigne Pompeo. Pompeo > voleva ottenere, grazie ai comizi controllati da Cesare, l’approvazione del suo progetto di sistemazione delle province d’Asia che il senato era restio a 140 3. Governo e riforme all’ombra di un potere monarchico Dopo la vittoria su Pompeo, tornato a Roma Cesare iniziò a costruire la nuova realtà politica romana. Il fondamento legale del suo potere era molto forte, ma altrettanto complesso poichè si fondava su una concentrazione nella sua persona di una serie di cariche e poteri magistratuali tradizionali. Inoltre egli si distaccava dalla tradizione repubblicana e tardo repubblicana poiché, con lui, potere civile e militare erano nuovamente congiunti: da un lato fu console per più anni e dall’altro conservò il diretto controllo dell’esercito mediante l’imperium proconsolare. Il suo potere divenne eccezionale soprattutto dopo che si fece conferire la dittatura e la particolare fisionomia militare della sua posizione venne poi ribadita simbolicamente dall’attribuzione del titolo a vita di Imperator, che nell’età precedente connotava i magistrati al comando di un esercito vincitore, ora divenuto un elemento del suo nome, trasmissibile, come tale agli eredi. Contemporaneamente Cesare acquisì ulteriori poteri: In virtù della potestà censoria attribuitagli dai comizi, intervenne in modo deciso sulla struttura della cittadinanza e sulla composizione dei vari ordini e ceti, senato compreso. E’ dubbio se egli abbia assunto la potestas tribunizia, con l’insieme di funzioni legislative e di controllo a essa connesse. Sicuramente acquisì, sempre sulla base del voto dei comizi, specifiche funzioni e prerogative che tradizionalmente erano state di pertinenza del senato come il potere di attribuire il governo delle province ai vari magistrati, il diritto di decidere nuove guerre e, più importante ancora, il controllo dell’erario. Questo infatti significava il governo di tutti i flussi d’entrata e di uscita delle casse pubbliche e quindi il controllo dell’intera macchina delle finanze pubbliche. Quasi certamente l’impasto di competenze e facoltà tradizionali, riunite in forma così diversa, era considerato provvisorio agli occhi dei contemporanei. Che Cesare godesse della signoria politica era cosa ovvia, ma non doveva apparire ancora chiaro il tipo di istituzione con cui si intendeva sostituire il vecchio edificio repubblicano, tuttavia, dal comportamento di alcuni dei suoi seguaci, s’intuisce l’idea della monarchia come punto di approdo. La dittatura conferita a Cesare è una chiave importante per valutare sino a che punto il suo governo si avviasse effettivamente verso tali forme. Nel 48 e 49 a.C. questa fu temporanea ma comunque molto diversa da quelle conferite in passato: solitamente erano di 6 mesi > quelle di Cesare erano annuali quella di Silla aveva una finalità anche se molto vasta > quella di Cesare no. A partire dal 45 a.C. la dittatura divenne permanente e vitalizia e non fu più equiparabile a qualsiasi precedente repubblicano. Contemporaneamente ci fu: il conferimento del consolato per 10 anni, il conferimento della facoltà di designare una parte notevole degli antichi magistrati repubblicani, svuotando il ruolo dei comizi, l’assunzione progressiva di poteri come quello censorio, senza la titolatura della relativa magistratura facevano di lui la negazione stessa della logica repubblicana (la regola repubblicana voleva che solo i titolari della magistrature potevano esercitarne i poteri). A livello simbolico ci furono importanti innovazioni che che tendevano a esaltare la sua persona al di là dei limiti tradizionali: la toga purpurea e la corona d’alloro che i magistrati indossavano solo nel giorno del loro trionfo e gli furono riconosciute senza alcun limite, venne istituita una guardia personale composta da senatori e cavalieri. 140 Questi e altri onori conferitigli e accettati erano il segno, non solo di piaggeria degli uni e di superbia dell’altro, ma anche di una progressiva trasfigurazione simbolica di un individuo divenuto fondamento di un nuovo assetto politico. Ovviamente tale posizione poteva facilmente assumere la fisionomia di una monarchia, ma che il potere di Cesare s’evolvesse effettivamente in tal senso, resta abbastanza incerto. Considerati i pochi anni in cui attuò la sua azione riformatrice, è necessario analizzare ciò che riuscì a realizzare: in particolare non vi fu aspetto delle istituzioni e della società che non fu toccato. Due in particolare sono i settori dove la sua azione risolse problemi centrali per l’esistenza stessa della res publica: cittadinanza romana > A buona parte degli Italici era stata concessa la cittadinanza romana negli anni successivi alla guerra Sociale, ma, al tempo stesso, si era cercato di limitare gli effetti di tale riforma inserendo i nuovi cittadini in pochissime tribù. Cesare riprende ora il processo d’integrazione, estendendo la cittadinanza romana a tutta la Gallia Cisalpina e realizzando così l’effettiva unificazione politica della penisola. Contestualmente aumenta i senatori fino a 900 membri tra cui inserisce degli esponenti della borghesia italica, dei Galli solo allora divenuti cittadini e una serie di suoi seguaci. organizzazione del sistema provinciale > particolarmente importante fu la drastica riforma del governo delle province. La politica di sfruttamento dei governatori e degli speculatori del ceto equestre, quasi sempre d’accordo tra loro nel violare le regole di buon governo aveva determinato crescenti tensioni e resistenze locali, non gestibili con il semplice impiego della forza, e, in altri casi, una distruzione delle fonti di ricchezza, con una devastazione dei popoli e dei territori da amministrare. Per questo Cesare rafforzò i controlli esercitati dal potere centrale, ponendo limiti agli arbitri nei governi provinciali. La sua politica accelerò i processi di urbanizzazione e si moltiplicarono le colonie latine sia perché vennero promosse alcune antiche comunità locali, già ben romanizzate, a tale statuto sia perché ne vennero fondate di altre. Le sue riforme fissavano per ogni provincia due condizioni da stabilirsi in base a fattori locali e non solo (distinzione che avrà per molto tempo un significato importate): necessità di un diretto controllo militare non necessità di un diretto controllo militare Ma la sua azione complessivamente andò ben oltre, abbracciando quasi ogni aspetto della società romana in uno straordinario sforzo di razionalizzazione e di modernizzazione: La riforma del calendario, portato a 365 giorni, e rimasto a regolare il tempo sino a oggi, I grandi piani urbanistici della capitale e i vasti programmi di opere pubbliche, con cui si finanziarono indirettamente molti strati sociali più deboli o più colpiti dai danni derivati dalle guerre civili, anche a compensare il blocco imposto da Cesare a quelle pericolose distribuzioni gratuite di grano che avevano devastato l’erario. L’approvazione di una legislazione “d’emergenza" per fronteggiare le conseguenze catastrofiche delle guerre civili, con la sospensione dell’obbligo del pagamento dei canoni abitativi, L’intervenuto sul delicatissimo e disastrato problema delle insolvenze debitorie; La sistemazione degli statuti coloniari e municipali; e molto altro Ci troviamo di fronte a un progetto titanico e coerente, definito da Vincenzo Arangio Ruiz come “l’opera di una monarca geniale, inserita fra i residui della costituzione repubblicana”. Un monarca rivoluzionario che intendeva anche procedere a una 140 razionalizzazione delle forme giuridiche, infatti gli viene attribuito il progetto di una codificazione. Già tale progetto, se si tiene conto che l’interpretazione giuridica era monopolio dei giuristi-aristocratici, denuncia la volontà di rovesciare questo sistema, riorientandolo verso una maggiore formalizzazione e stabilizzazione. 4. L’Italia Romana Le varie leggi de civitate tra l’89 e il 90 a.C. avevano concesso la cittadinanza romana agli Italici a patto che rinunciassero ai loro antichi sistemi giuridici. Ciò spiega: la lunghezza di questo processo > secondo l’autore tale processo terminò soltanto negli anni del governo di Cesare le perplessità di alcune comunità circa l’accettazione della cittadinanza romana Nel sistema municipale che si impose in forma unitaria non trovarono più spazio i diritti locali e le magistrature locali furono unificate secondo schemi generali adottati da Roma. Se concedere la giurisdizione centrale o quella municipale era stabilito in base ad un criterio economico come dimostra la Lex rubria de Gallia Cisalpina e dal fragmentum Atestinum (49 a.C.). Inoltre già tra il 90 e l’89 a.C. c’era stata l’unificazione delle condizioni giuridiche del suolo e si era esteso il diritto di proprietà romano. In seguito l’insieme dei diritti privati fu concepito come un blocco organico detto ius italicum. Questo assunse la fisionomia di un vero e proprio statuto giuridico, venendo poi concesso a comunità e individui nelle province. Aspetto particolarmente importante era l’aspetto fiscale poiché i territori sottoposti a tale regime, e oggetto del dominium ex iure Quiritum - come saranno dopo l’89-88 a.C. le terre italiche - erano stati esonerati a partire dal 167 a.C. dall’imposizione tributaria ordinaria. Con l’estensione dell’ordinamento politico cittadino alla Gallia Cisalpina si intervenne sull’assetto delle tribù territoriali per inquadrare il nuovo organico di cittadini romani (non sappiamo se le tribù aumentarono di numero dato che il numero di 35 era fisso da secoli). Ciò che è certo è che verso la fine dell’età repubblicana si afferma una duplice fisionomia di questi abitanti municipali: da un lato sono concepiti tutti come appartenenti alla comune “patria” romana > questa sanciva la comune identità giuridico-istituzionale dall’altro lato si distinguono per la minore “patria” d’origine > questa definiva l’appartenenza concreta, il luogo di nascita e l’origo (“origine della famiglia”) Già in passato una molteplicità di cittadini avevano dovuto inquadrarsi nelle tribù territoriali, pur essendo privi dell’origo e in alcuni casi il problema era stato risolto: gli schiavi manomessi probabilmente erano iscritti alle tribù del patrono e per i Latini che usufruivano dello ius migranti e per gli stranieri a cui era stata data la cittadinanza si era trovata una soluzione. In tutti questi casi non c’era né una proprietà fondiaria che legittimava l’iscrizione in una o in un’altra tribù ne l’origo dato che la patria d’origine non rientrava nella civitas Romana. Diventava quindi evidente l’irrilevanza di questo sistema di distribuzione della popolazione a fini politici considerata anche la difficoltà di partecipare concretamente ai comizi (lunghi viaggi) e il deperimento politico degli stessi. Nel periodo tra la guerra sociale ed il governo di Cesare la fisionomia giuridico- amministrativa dell’Italia era diventata una colossale civitas che comprendeva ormai l’intera penisola. L’omogeneità nelle strutture organizzative dei vari centri cittadini, appena introdotta, moltiplicò in piccolo, per ognuno di essi, il sistema di governo romano: con il suo senato (i “decurioni”), i suoi magistrati, le sue assemblee, l’area del Foro e il piccolo 140 nella campagna contro i Parti, abortita quasi prima del suo inizio e conclusasi con il solo assoggettamento dell’Armenia, ridotta, come stato vassallo, a far da cuscinetto con gli stessi Parti. Antonio preferì creare una serie di monarchie dipendenti da Roma piuttosto che creare nuove provincie e questa scelta presentava due aspetti: da un lato era un sistema che i Romani avevano sempre seguito dall’altro alimentò il dubbio che Antonio volesse spostare in Oriente il cuore politico dell’impero, considerato soprattutto che, dopo aver divorziato dalla sorella di Ottavio, si sposò con Cleopatra (32 a.C.) che conservava ancora il titolo di regina dell’Egitto. Certamente turbava l’opinione pubblica la presenza, accanto ad Antonio, della regina, insieme al figlio Cesarione, da lei avuto da Cesare. Tutto ciò faceva pensare a una politica dinastica, tipica di un sovrano ellenistico e in contrasto con la tradizione politica romana. Ad aggravare la posizione d’Antonio ci fu poi, in quello stesso anno, l’illegittima pubblicazione del suo testamento da parte di Ottaviano. In esso si confermava infatti il sistema di piccoli stati orientali dipendenti da Roma, su cui venivano posti come sovrani locali i figli che Cleopatra aveva avuto, prima di Cesare e poi da lui: una conferma ulteriore delle logiche dinastiche di cui Antonio era sospettato. Nel frattempo Ottaviano, con l’aiuto determinante del suo più grande generale, Marco Vipsanio Agrippa, aveva rafforzato la sua posizione sconfiggendo il figlio di Pompeo, Sesto (36 a.C.). Ottaviano aveva avviato da tempo una guerra sul mare contro i nemici della plebe, bloccando con la sua agile flotta i commerci mediterranei e minacciando gli stessi porti italici. Sempre più aveva proposto di se un’immagine come difensore dell’antica centralità di Roma e dell’Italia rispetto alle tendenze “orientalizzanti" d’Antonio. Del resto non era mera propaganda, ma c’era un’effettiva divergenza tra due diverse strategie politiche. Dieci anni dopo Filippi, al termine della relativamente lunga stagione di questa pace armata, nella sapiente strategia di Ottaviano erano ormai maturi i tempi per lo scontro finale. Egli seppe ben scegliere il momento e la scenografia. Augusto riscrisse in seguito la storia degli anni in cui veniva preparando la conquista del potere, secondo i suoi metri e i suoi interessi. Oggi gli storici si sono sottratti in buona misura all’influenza di questa rappresentazione che tendeva a fare di Antonio poco più di un soldataccio rozzo, infatuato della bella Cleopatra. In verità, e qui il primo a ingannarsi fu proprio Cicerone, Antonio era un bravo generale, un competente magistrato, e un ambizioso politico. Egli non fece parte della fazione più estremista dei cesariani e mostrò sempre, anche nei riguardi di Ottaviano, lealtà e rispetto per gli impegni assunti. Mentre Ottaviano, appena poté, ai suoi impegni venne meno. Per non parlare poi della sua inabilità nel campo militare. L’unica vera qualità di Ottaviano fu tuttavia la più importante ai fini della lotta per il potere. Egli aveva una superiore capacità politica, non fece guerre in prima persona, ma scelse buoni generali e grandi ministri e con questa superiorità giunse allo scontro finale con Antonio. Vi si era preparato con grande lucidità politica e sapienza strategica, lungo tutto il decennio successivo a Filippi. Di qui la sua costante e paziente ricerca di ogni occasione per accrescere il suo prestigio e la sua popolarità. Di qui il suo atteggiamento cauto e moderato nei riguardi della vecchia, ma ancor autorevole, aristocrazia senatoria e lo sbandierato ruolo di difensore degli interessi italici in funzione polemica contro Antonio. Al momento dello scontro la sua posizione di triumviro era scaduta, data la fine del secondo quinquennio nel 32 a.C., ma sia lui che Antonio si consideravano ancora in carica poichè facevano prevalere alla data della scadenza, la finalità della carriera rei publicae constituendaee. 140 La sua posizione, alla vigilia dello scontro finale tra i due triumviri, era comunque assicurata, oltre che da potere tribunizio, dal consolato assunto per quell’anno e dal “giuramento" di fedeltà dell’Italia e delle province occidentale per la difesa della sovranità dell’impero di Roma. Un atto più carico di valore politico e simbolico che giuridico. Forte di ciò, alla fine del 32, Ottaviano entrerà in guerra con la regina d’Egitto, Cleopatra. Antonio ne era coinvolto in quanto personalmente alleato di Cleopatra, ma scendendo a difesa di una dichiarata nemica di Roma, diveniva lui stesso hostis rei publicae. Antonio giungerà allo scontro con Ottaviano nelle condizioni peggiori: il suo esercito e i suoi amici erano incerti e demoralizzati. Egli stesso attirato con la sua flotta in posizione sfavorevole da Agrippa, ad Azio, nell’estate del 31 a.C., quasi non combatté, preferendo allontanarsi per raggiungere Cleopatra, che si era allontanata dallo scontro, con la sua flotta. Con questa sciagurata manovra egli perdeva buona parte delle sue navi e dei suoi soldati. Riparati in Egitto, ad Alessandria, ormai senza difesa, nel 30 a.C. Antonio e Cleopatra si uccisero al sopravvenire del vincitore. Si concluse allora la lunga stagione delle guerre civili, e la repubblica romana si spense con essa. Cap.13 - Augusto e la costruzione di un nuovo modello politico-istituzionale 1. La sperimentazione di una forma politica Tornato a Roma padrone assoluto dell’impero finalmente riunificato, Ottaviano doveva formalizzare il nuovo sistema di potere assicurando il suo ruolo personale. La strada per la creazione del nuovo ordine politico-costituzionale ebbe allora inizio, e fu perseguita in un arco di tempo relativamente lungo. Negli anni immediatamente successivi alla sua vittoria su Marco Antonio fu mantenuta la situazione precedente, in un quadro di non grande chiarezza istituzionale. 28 a.C. > Ottaviano si fece eleggere console insieme al suo fedele generale Agrippa 27 a.C. > Rinunciò ai poteri straordinari che tempo prima gli erano stati conferiti, sostenendo che la res publica poteva ormai funzionare regolarmente. Ma nonostante questa rinuncia egli: era princeps senatus e poi princeps universorum (di tutti) era titolare della tribunicia potestas fu designato come Augustus > questa designazione evocativa di un’autorità vaga e indistinta, atta a collegarsi anche con la sfera religiosa (il termine ha infatti lo stesso etimo di augurium e inauguratio). Infatti egli in base al testamento di Cesare, aveva già assunto il praenomen di questi: Imperator, a significare, insieme all’eredità politica del grande predecessore, la sua posizione eminente nella res publica e il fondamento militare del suo ruolo. era titolare di un imperium, in virtù di quanto aveva fatto, (inizialmente di 5 poi di 10 anni), con il comando di tutte le province “non pacificate": cioè quelle strategicamente rilevanti, dove si trovavano le legioni 23 a.C. > Ottaviano rinunciò al consolato ma: ottenne i poteri proconsolari in quanto ex console > questi quasi sicuramente furono ampliati i suoi precedenti poteri proconsolari in modo da poter interferire anche sulle province senatorie ottenne la pienezza dei poteri tribunali a vita, senza la titolatura della carica, ciò gli assicurò: il carattere sacrosanto della sua persona, la possibilità di convocare i comizi 140 il potere di veto contro ogni possibile iniziativa dei magistrati in carica la sottrazione dai controlli del senato nei confronti delle magistrature (egli non era infatti il titolare) godeva dello ius agendi cum patribus degli antichi magistrati cum imperio e quindi poteva convocare e presiedere il senato In seguito avrebbe assunto anche l’ imperium consolare, probabilmente a vita e lo ius auxilii (il diritto un tempo proprio dei tribuni della plebe a difesa dei singoli cittadini) anche oltre il pomerium. Da quell’anno l’imperium di Ottaviano fu qualificato come maius: superiore cioè a quello di tutti gli altri magistrati cum imperio anche se non è chiaro se esso si estendesse a tutto l’impero come sarà in seguito. Nel corso del tempo declinerà diversi incarichi: il titolo di censor perpetuus nel 22 a.C il conferimento della cura legum et morum, offertagli tra il 19 e il 18 a.C.; il titolo di dictator rei publicae costituendae, a lui proposto per far fronte a una grave carestia intervenuta in Italia. Ciò evidenzia la sua tendenza a evitare quelle cariche, anche straordinarie, che evocavano pratiche adottate nel corso della crisi repubblicana. 22 a.C. > Dopo aver svolto la funzione censoria (sfruttando soprattutto il potere consolare) anche nei confronti del Senato (Lectio Senatus) con la drastica revisione dei nuovi e antichi ranghi senatori, decise di ripristinare la coppia di censori affidando l’incarico a due senatori: Lucio Munazio Planco e Paolo Emilio Lepido 12 a.C. > fu nominato pontefice massimo 2 a.C. > fu nominato pater patriae 14 d.C. > Morte Così is perfezionò un sistema di governo che conservava la forma della costituzione repubblicana - il senato, i comizi, le antiche magistrature repubblicane - ma che aveva alla base un potere personale garantito dal diretto controllo dell’esercito e da un capillare e amplissimo potere d’intervento in tutte le sfere della politica e dell’amministrazione. Insomma, dopo avere, con la solennità e l’enfasi tipiche di un’operazione di propaganda, rimesso i suoi poteri eccezionali al senato e al popolo, essendo ormai la repubblica “salva" e pacifica, Ottaviano si fece attribuire la somma quasi totale dei poteri che erano propri delle più importanti magistrature repubblicane, riassumendo in sé quella sovranità così articolata e diffusa nel sistema repubblicano. Fortuna e virtù si fondano nella sua vicenda in modo straordinario. Nel corso degli anni successivi, con pazienza e abilità, egli conserverà la sua posizione e, con essa, l’impero. Fu poi anche fortuna, per lui e per Roma, che la sua vita durasse a lungo, e con essa il suo governo: Augusto, nato nel 63 a.C., divenuto triumviro a 21 anni e infine, dopo Azio, poco più che trentenne solitario padrone dell’impero, sarebbe restato al potere sino al giorno della sua morte, nel 14 d.C. L’eccezionale lunghezza di questo periodo, più di ogni altro fattore, poté assicurare quella stabilità e quella sicurezza cui ormai tutti i ceti e tutte le parti dell’impero volevano. 2. Il compromesso augusteo Per costruire e mantenere quel consenso che gli era servito per vincere su Antonio, Augusto doveva fare i conti con le tradizioni repubblicane. Per questa ragione, al contrario 140