Scarica Storia dell'arte moderna e più Dispense in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! Primo modulo Il Gotico Internazionale Contesto storico Dopo la peste del 1348, il continente europeo conobbe un periodo di ripresa economica e culturale dove l’italia ebbe un ruolo rilevante. Fondamentale in questo periodo fu la nascita degli stati nazionali con a capo sovrani, in quanto molto importanti erano i legami feudali. In questo periodo importantissime erano anche la chiesa quale istituzione e anche il Sacro Romano Impero. Un altro evento importante fu il combattimento della guerra dei cent’anni tra Francia ed Inghilterra tra 1337 e 1453. La guerra esplose in seguito a delle rivendicazioni dinastiche: alla morte del re Carlo IV nel 1328, venne eletto Filippo di Valois, ma il re di Inghilterra, Edoardo III in quanto nipote di Filippo il Bello risultava essere erede del trono di Francia. La Francia uscì vittoriosa dalla guerra, liberandosi finalmente dalla presenza inglese sul territorio francese. importante fu la figura di Giovanna D’Arco giovane contadina che nel 1429 guidò l’esercito francese alla conquista di Orleans, ma che poi fu bollata come eretica e condannata al rogo nel 1431. Passato poco tempo dalla fine della guerra dei 100 anni, l’Inghilterra visse internamente una guerra civile tra due casate dinastiche: quella dei Lancaster, la regnante, e quella degli York. La guerra prende il nome di guerra delle due rose, in quanto il fiore era emblema di entrambe delle due dinastie. Lo scontro si accese nel 1455 e terminò nel 1405 con la vittoria di Enrico Tudor, di famiglia Lancaster, che sedò lo scontro tra le due casate sposando una York. Enrico Tudor salì al trono e diede vita ad un’altra dinastia. Per quanto riguarda. La Spagna iniziò a costituirsi quale stato nazionale dopo che; nel 1469, Ferdinando D’Aragona sposò Elisabetta di Castiglia, eredi l’uno del trono d’Aragona e l’altra al trono di Castiglia. Di fatto i due regni si unirono poco tempo dopo, unione legata solo al matrimonio dei due re cattolici. Ferdinando d’Aragona ed Elisabetta di Castiglia, sulla scia della precedente reconquista, diedero il via ad una seconda reconquista espugnando l’ultima dominazione araba rimasta nella spagna meridionale (Granada) nel 1492. Nello stesso periodo Cristoforo Colombo, per conto dei re cattolici, diede il via alle nuove esplorazioni geografiche che portarono alla scoperta dell’America e alla sperimentazioni di rotte commerciali sconosciute che decretarono la fortuna e la ricchezza della spagna nel secolo successivo. Fondamentale fu andare alla ricerca di nuove rotto commerciali in quanto con la caduta di Costantinopoli nel 1453 per mano dei Turchi, il mediterraneo non era più sicuro e gli stessi minacciarono il sacro romano impero, che era passato alla casata d’Asburgo ed era fortemente disgregato e di fatto il sovrano non aveva molto potere a causa della potenza dei principi territoriali e delle città. Mangonza era una città importante in cui risedeva Gutenberg che ideò la stampa a caratteri mobili, che cambiò la società. Importante fu anche l’introduzione delle armi da fuoco che resero le guerre più violente. Per tutto il 400 l’Italia rimase frammentata e le potenze che maggiormente spiccavano erano ad esempio la repubblica di venezia, ducato di milano grazie all’espansione di gian galeazzo visconti, lo stato della chiesa con l’elezione di martino V portò ad un rilancio urbanistico di Roma, il regno di napoli con al governo la casata degli aragona. La fine degli scontri tra gli stati regionali italiani si ebbe con la pace di lodi del 1454 dove venezia riconobbe come signore francesco sforza evenne sancita la lega italica, garantendo una pace di circa 10 anni. Fondamentale la repubblica fiorentina di fatto in mano a cosimo de’medici. Nel 400 fondamentale fu la riscoperta delle lettere latine e greche che sancirono una visione più razionale del mondo e che fu determinanti nelle arti figurative. Le novità delle nuove scoperte che furono importanti in italia a lungo convissero con la tradizione del tardogotico. Dalla seconda metà del 300 si diffuse in europa un linguaggio artistico prezioso e aristocratico che si consolidò anche durante tutto il 400: si parla del gotico internazionale che allude, da un alto, alla matrice gotica e dall’altro alla sua propagazione grazie ai viaggi degli artisti e alla rete creatasi grazie alle corti e alle committenze signorili. 1 Lo stile delle corti europee Le miniature dei fratelli Limbourg: “Les très riches heures du Duc de Berry” “Le ricchissime ore del Duca di Berry” è un codice miniato che segna il tramonto del medioevo ed è conservato nel castello di Chantilly, a nord di Parigi. Si tratta di un breviario (libro di preghiere da recitare durante l’anno) .questo codice venne realizzato da Paul, Jean Hennequin ed Hermann De Limbourg, tre miniatori, fratelli, originari dell’Olanda. Il codice venne realizzato tra il 1413-16. Le immagini più importante del codice sono quelle dei primi 12 fogli del codice dove sono rappresentate a tutta pagina le allegorie dei mesi dell’anno, interpretati in modo molto raffinato. A differenza delle cattedrali romaniche, in questi codici i lavori on rappresentano la fatica del lavoro, bensì agli ozi di una cerchia di gaudenti. Mese di aprile: rappresenta il mese del fidanzamento. Nel semicerchio in alto troviamo un calendario astrologico con il carro del sole al centro e la volta con i segni zodiacali del mese. Sopra piccole caselle vuote dove dovevano essere scritti i giorni, i mesi e segni. Sotto al semicerchio troviamo rappresentato il corso del mese, pertanto si tratta di una scena simbolica. La stagione è la primavera e in primo piano troviamo una giovane coppia che si scambia l’anello di fidanzamento con pochi spettatori. I due fidanzati sono vestiti secondo la moda del tempo con particolari acconciature e abiti riccamente ornati, lunghi e con elaborati panneggi. La fidanzata ha un corpo molto slanciato, braccia sottili e la sua posta si imposta su un’ampia curva. Alle sue spalle due donne raccolgono i fiori. La scena è ambientata in un paesaggio di campagna, dove la veduta offre la visione dettagliata di tutti gli elementi che lo compongono: sullo sfondo, su un’altura, vi è un castello, una dimora di lusso con torri circolari e al cui ridosso vi sono le case di un piccolo villaggio. Scendendo verso il primo piano vi è uno specchio d’acqua con le barche dei pescatori, gli alberi dei boschi disposti in modo ordinato e il verde prato. A destra la muratura di un palazzo con il giardino. Mese di luglio: cambiano il soggetto ed i protagonisti, ma l’interpretazione rimane la stessa usata anche nella rappresentazione del mese di aprile. Il calendario, presenta nel semicerchio in alto le didascalie con i segni zodiacali del cancro e del leone. La scena è occupata dal lavoro degli umili (i vicini alla terra). Sullo sfondo è rappresentato un lussuoso castello, munito di ponte levatoio e circondato d’acqua. In primo piano i contadini e i pastori: i primi mietano il campo, i secondi tosano le pecore. I lavoratori non sono affaticati, bensì sembrano svolgere la loro mansione quasi per divertimento, infatti il contadino con la veste bianco sembra quasi atteggiato in una posa di danza.i pastori hanno abiti dai colori accessi con raffinati panneggi. Nonostante l’idealizzazione della scena rappresentata vi è una grande attenzione per il mondo reale: ovini, spighe di grano, alberi, architettura del castello (..). il cielo è atmosferico e cambia il tono, come normalmente avviene nel trascorrere del giorno. Questa è una grande novità: con il gotico internazionale, in pittura ad emergere non è più solo l’idealizzazione o l’innaturalezza delle vesti, ma anche la grande attenzione per il reale, come ad esempio nella rappresentazione delle spighe di grano e in quella del cielo atmosferico, che non è il medesimo cielo astratto rappresentato nella maggior parte degli affreschi trecenteschi. Nelle miniature dei fratelli De Limbourg non sono mai rappresentate le città. La pittura: uno stile cortese Già le miniature dei fratelli De Limbourg rappresentano uno stile cortese in quanto riflettono i gusti raffinati del signore e della sua corte. Pertanto si va a caratterizzare, sul piano sociale, di laicità, ma anche di profano. Sul piano stilistico invece si prediligono colori preziosi, l’attenzione alla moda del tempo, l’eleganza, ma anche una grande attenzione per gli elementi della natura. Nulla è invece l’attenzione nei confronti della rappresentazione dello spazio, che risulta essere bidimensionale: a prevelare infatti anche sulla rappresentazione dei corpi è l’eleganza delle vesti, solcate da pieghe falcate (a forma di falce) , ma anche l’estro per gli aspetti decorativi. Questi elementi derivavano proprio dall’esperienza del gotico 2 attraverso l’uso della pastiglia dorata (pasta di gesso e colla). In origine le corone e l’anello erano completate da gemme. Cantiere del Duomo di Milano: A dare inizio a questo cantiere fu Gian Galeazzo Visconti nel 1387. Il progetto prevedeva una pianta a 5 navate, forme gotiche e l’utilizzo del marmo bianco delle cave di Candoglia. L’impresa venne terminata solo nell’ottocento. Il duomo risulta essere un edificio ricco di decori e sculture, molto più ricco rispetto alle precedenti architetture gotiche. La costruzione iniziò dalla zona absidale con pareti alleggerite da finestroni ad arco acuto e da una profusione di archi e pinnacoli secondo una diversa e nuova interpretazione dell’architettura gotica, dove gli ornamenti prevaricano sulle architetture. Al duomo lavorarono non solo maestranze lombarde, ma anche tedesche e francesi. Jacopino da Tardate si distinse nel cantiere del duomo di Milano. Era uno scultore lombardo. La sua presenza ai lavori è attestata a partire dal 1401 e realizzò un Rilievo di Martino V, commissionato nel 1420 per rendere onore al papa che aveva posto fine allo scisma e che aveva consacrato l’altare maggiore della cattedrale nel 1418. Il rilievo è collocato nel deambulatorio del duomo e il pontefice è rappresentato seduto, benedicente in una posizione austera e frontale. La veste, lunga, ha un panneggio caratterizzato da pieghe sottili ed ondulate, sintomo del linguaggio tardogotico dello scultore, che si ritrova anche nelle infiorescenze intagliate nel piede del basamento. Egli realizzò anche la Madonna col Bambino, 1420-30, marmo, oggi Museo del Castello Sforzesco. La Vergine è fasciata da sinuosi ed eleganti drappeggi, è garbata e signorile ed il movimento della testa inclinata esprime l’amore materno per il fanciullo. Quando Jacopino stava realizzando il ritratto scultoreo di Martino V, il signore di Milano era Filippo Maria Visconti. Filippo Maria Visconti: fiabe e tarocchi: dopo il crudele governo del fratello, Filippo Maria riuscì a rilanciare il Ducato visconteo (fino alla morte nel 1447) e costituì un corte dove il linguaggio del gotico internazionale rimase preponderante. Lo stemma di Filippo Maria è la firma all’interno della decorazione della Cappella di Teodolinda nella Cattedrale di S. Giovanni Battista (duomo di Monza). La cappella venne affrescata tra il 1441-46 e omaggia la sovrana greca, che all’epoca era ancora oggetto di venerazione: le pareti della cappella infatti presentano un ciclo di affreschi in cui è rappresentata la storia della vita di Teodolinda (45 episodi), che viene trasfigurata in una sorta di romanzo cavalleresco. I 45 episodi sono disposti su 5 registri sovrapposti e riempiono di colori e d’oro il vano gotico. Nonostante sia stata presa ad ispirazione l’ Historia Langobardorum di Paolo Diacono, non vi è alcun accenno alle barbarie dei longobardi, anzi, la vita della regina viene raccontata con il linguaggio tardogotico longobardo. Le scene sono talmente corte che sembrano essere delle miniature, come ad esempio nella scena in cui sono narrati due episodi: Teodolinda e il marito Agiulfo che si preparano per la caccia a sinistra, al centro la regina che sogna di fondare il duomo e a destra la regina con il suo seguito va in cerca del luogo dove fondare il Duomo di Monza (1444). In queste scene viene rappresentata la vita di lusso, dove i personaggi vestono abiti alla moda e la realtà è lontana: lo sfondo non è un paesaggio naturalistico, bensì è decorato a motivi geometrici e l’architettura al centro della scena, che fa riferimento al sogno della regina, è priva di rigore spaziale. Le scene presentano in basso la data 1444, in realtà il ciclo era iniziato pochi anni prima. Vi è un’altra scritta che ricorda gli autori degli affreschi: gli Zavatarri (padre Franceschino con i figli Giovanni, Gregorio e Ambrogio). I pittori della corte lombarda di questo periodo decorarono anche I tarocchi (carte da gioco): vi era un mazzo andato perduto che venne commissionato da Filippo Maria a Michelino Besozzo e di cui conosciamo l’esistenza grazie ad una testimonianza del segretario del signore di Milano, ma in musei come la pinacoteca di Brera sono conservati molti mazzi di carte di tarocchi miniati, come quelli realizzati dalla Bottega dei Bembo (o forse gli Zavatarri) prima del 1447. 5 Tre artisti in viaggio: Gentile da Fabriano, Pisanello e Jacopo della Quercia Il gotico internazionale in Italia trovò maggiore espressione in pittura in Gentile da Fabriano e Pisanello e in scultura in Jacopo della Quercia. Gentile da Fabriano da Pavia a Venezia Gentile nacque a Fabriano (Marche) intorno al 1370, dominato negli anni a cavallo del 400 dalla signoria dei Chiavelli. Grazie ai rapporti tra Chiavello Chiavelli e Gian Galeazzo Visconti, Gentile poté abbandonare le Marche e formarsi a Pavia. Alla sua produzione artistica giovanile appartiene la Pala di Berlino, 1400, dove sono rappresentati la Madonna col bambino, i santi Caterina d’Alessandria e Nicola e un donatore. Quest’opera incorpora le caratteristiche del gotico visconteo: prato fiorito, figure femminili estremamente eleganti, la lavorazione dell’oro per la rappresentazione degli angioletti negli alberi, il bambino dalle forme guizzanti. Fabriano a partire dai primi anni del 400, dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti si trasferì in Laguna (repubblica di Venezia) proprio perché con la scomparsa del grande signore di Milano, Chiavello Chiavelli si alleò con il governo oligarchico della città marinara. A Venezia il lavoro dell’artista è attestato già dal 1408. Egli ricevette molto successo dopo aver realizzato il ciclo di affreschi con le Storie di Alessandro III e Federico Barbarossa, 1409-14, per il Palazzo Ducale. Noi sappiamo di queste pitture grazie alla testimonianza di Bartolomeo Facio poiché l’opera non ci è pervenuta. Grazie al letterato noi siamo venuti a conoscenza della vita di Gentile da Fabriano e della sua carriera artistica: egli fu un pittore apprezzato anche nei secoli successivi, addirittura da Michelangelo Buonarroti, che aveva detto che “la sua pittura era gentile, come il suo nome”: Michelangelo era riuscito a cogliere di fatto l’essenza del gotico internazionale: raffinatezza, gentilezza delle forme, eleganza. Polittico di Valle Romita, 1410, per l’eremo di Val di Sasso, presso Fabriano, oggi alla Pinacoteca di Brera. Registro principale: al centro l’incoronazione della Vergine , dove la protagonista e il figlio sembrano galleggiare sull’oro, sono sovrastati dall’Eterno e da molteplici creature angeliche. La scena centrale è affiancata da 4 scompartimenti laterali: a sinistra i santi Girolamo e Francesco, a destra san Domenico e Maria Maddalena. Questi personaggi assistono alla scena e il loro piano di posa è un giardino fiorito. Sopra i quattro spettatori ci sono 4 scenette: martirio di san Pietro, san Giovanni Battista nel deserto, Stimmate di san Francesco e (forse) Sant’ Antonio da Padova che legge. La cornice è ornata con guglie e pinnacoli, ma non è originale, risale al 1925 perché l’originale è andata perduta: venne realizzata per riunire le allora separate tavole. L’impatto del polittico è scenografico a partire dall’uso dell’oro lavorato da orafo. La pittura di Gentile era davvero gentile: nella scena del martirio di san Pietro, infatti, violenza e dolore non trovano spazio; l’aguzzino veste una calzamaglia rossa, elegante e sembra carezzare la testa del frate, anche se in realtà vi pianta una roncola. Il sangue, rosso acceso, scivola lungo il capo di san Pietro e cola in terra, sul prato fiorito: vi è una maggiore attenzione per la resa e per la brillantezza dei colori, per la resa delle carni (mani e volti). Gentile a Firenze e Roma: Gentile lavorò a Firenze tra 1420-25. Firenze si fondava su valori repubblicani ed aveva fondato la sua ricchezza sul commercio, perciò la città si apprestava ad essere un ambiente totalmente diverso dalla Milano viscontea. Nella città fiorentina, inoltre, Ghiberti si stava affermando quale artista per eccellenza del gotico internazionale, ma dall’altra Brunelleschi, Donatello e Masaccio stavano dando vita ad un nuovo linguaggio artistico che, di lì a poco, si sarebbe affermato. Tuttavia i primi anni del 1400 si configurarono come una convivenza pacifica tra tardogotico il linguaggio rinascimentale, motivo per il quale il nuovo modo di esprimersi di artisti più moderni venne colto dagli stessi committenti in momenti successivi: ancora venivano commissionate opere che si rifacevano al gotico internazionale. Pala con Adorazione dei Magi, per Firenze nel 1423, oggi agli Uffizi, ma originariamente pensata per la sagrestia di Santa Trinita (nella cappella sepolcrale degli Strozzi). Commissionata da Palla Strozzi. La pala presenta un coronamento con archi gotici, ma a differenza di altri polittici non è separata in scompartimenti, bensì è costituita da un unico 6 palcoscenico in cui è narrata una storia, dove non vi è una suddivisione delle scene. La narrazione inizia in alto a sinistra con i magi che avvistano la stella cometa, poi arcatella centrale con il viaggio dei sovrani orientali. In primo piano i Magi, giunti alla capanna di Betlemme, rendono omaggio al bambino, con alle loro spalle un seguito in cui sono riconoscibili Palla Strozzi e il figlio: sono tutti attori vestiti secondo la moda del tempo in cui troviamo anche scene quotidiane (inserviente che aggiusta sperone del cavallo). Non vi è attenzione per una visione tridimensionale e prospettica, nonostante comunque il pittore cercasse di rappresentare la realtà così come essa appariva. Nelle storie della predella, in basso, il pittore non ricorre allo sfondo dorato, ma rappresenta un cielo azzurro ed atmosferico: nel particolare della fuga dall’Egitto la scena risulta essere illuminata sulla sinistra grazie ad una luce proveniente dal sole; nel cielo ci sono anche le nubi. Roma: alla fine del 1425 Gentile da Fabriano si trasferì a Roma, dove Martino V gli commissionò un ciclo di affreschi in San Giovanni in Laterano, che però è andato perduto in quanto nel seicento la chiesa vanne demolita per essere ricostruita con un assetto Barocco da Francesco Borromini. Un disegno dell’epoca, comunque, ci testimonia il ciclo gentiliano, che sopra le arcate della Basilica si costituiva di due registri: uno con le storie del Battista, l’altro decorativo ed illusionistico con figure di profeti dipinti entro tabernacoli gotici. Oltre a non esserci pervenuto, il ciclo non venne terminato a causa della morte dell’artista nel 1427, tuttavia l’opera venne ultimata da Pisanello, suo allievo tra 1431-32. Il miglior allievo di Gentile: Pisanello Antonio Pisano nacque intorno al 1395 a Verona, ma era di famiglia pisana. Verona dal 1405 entrò nei domini di Venezia. Egli fece il suo apprendistato con Gentile e lavorò con lui nel ciclo del Palazzo Ducale . Monumento Brenzoni: nella chiesa di San Fermo, Pisanello lavorò per decorare il monumento funebre di Niccolò Brenzoni (morte 1422), concluso nel 1426 e firmato sia da Pisanello che da Nanni di Bartolo, scultore fiorentino e allievo di Donatello. Il monumento è incentrato sul gruppo scultoreo in marmo in cui è rappresentata la resurrezione di Cristo, fatta da Nanni, mentre il pittore si occupò di realizzare le finte tappezzerie, il giardino gotico che incornicia il monumento, l’annunciazione ai lati del tendaggio che protegge la figura di Cristo. A predominare è l’aspetto decorativo, mentre la funzione di pilastri e nicchie viene relegata da graticci con rampicanti , dipinti come se Pisanello avesse voluto aprire la parete verso un giardino retrostante. Da Gentile, Pisanello riprende la gentilezza delle carni e la raffinatezza cromatica, evidente nello sfondo nella scena della vergine annunciata, in alto a destra, all’interno di un tempio gotico eburneo con cuspidi, guglie e pinnacoli. La storia di San Giorgio, 1436 Pisanello affrescò la storia di san Giorgio e la principessa sopra l’arco di ingresso della cappella Pellegrini (nella chiesa veronese di sant’Anastasia). San Giorgio è rappresentato mentre sta per salire a cavallo davanti alla principessa , privilegiando il registro cavalleresco. Sullo sfondo vi sono edifici gotici. Nell’affresco vediamo due registri: uno avventuroso, sottolineato dai due impiccati sullo sfondo e l’altro cavalleresco, sottolineato dal profilo della principessa, con la fronte nuda e i capelli raccolti in un’artificiosa acconciatura, in linea con le mode della sua epoca. In origine l’affresco appariva prezioso grazie alle lamine metalliche e ai decori a pastiglia 8ad esempio nei finimenti dei cavalli). Pisanello e la “medaglia rinascimentale”: Negli ultimi anni della sua carriera, Pisanello lavorò fuori Verona: dapprima nella Mantova dei Gonzaga, dove Gianfrancesco gli commissionò un ciclo cavalleresco nel Palazzo Ducale, poi nella Ferrara degli Estensi (anni 40 1400) e infine sotto la Napoli di Alfonso d’Aragona (fine anni 40 del 400). I suoi ultimi successi furono da ritrattista con l’invenzione della “medaglia rinascimentale”. La medaglia si impose a metà 400 come oggetto privato del signore, a rappresentare il potere (prima invece veniva usata come dono diplomatico o veniva murata nelle fondazioni castelli/chiese come memoria). Medaglia di Giovanni VIII Paleologo, 1438-39, in occasione del concilio di Ferrara, poi spostato a Firenze, con il quale si voleva sancire, nuovamente, l’unione tra chiesa d’oriente e chiesa d’occidente, Pisanello realizzò una moneta dove ritrasse l’imperatore bizantino. Pisanello solitamente su una faccia realizzava il ritratto di profilo e sul rovescio un episodio narrativo (ripresa dei 7 d’occidente. Al concilio partecipò anche l’imperatore bizantino e ciò diede impulso agli studi delle lettere greche (già in voga a Firenze). Il concilio venne finanziato da Cosimo de’ Medici (esiliato a Venezia per un breve periodo, era il capo di una grande banca), il quale, pur rispettando l’istituzione “repubblicana” di Firenze, divenne il signore della città (non formale), permettendo ai suoi discendenti poi di andare a costituire il Principato. Cosimo fu un grande mecenate in quanto riteneva che l’arte rispecchiasse la magnificenza medicea non solo in città, ma anche nel resto della penisola, trasmettendo la passione per le arti anche al figlio e al nipote Lorenzo il Magnifico. Simbolo per eccellenza del rinascimento fiorentino è la cupola del Brunelleschi, simbolo di una modernità che guarda all’antichità. Già dai primi decenni del 400 una nuova generazione di artisti iniziò ad elaborare un nuovo linguaggio artistico che si ispirava all’arte antica. La prospettiva fu lo strumento attraverso il quale venne resa scientificamente, su un supporto bidimensionale, la tridimensionalità dello spazio reale. I promotori del Rinascimento furono per eccellenza: Brunelleschi (1377-1446), Donatello (1386-1466) e Masaccio (1401-1428). La storia dell’arte moderna inizia con il primo anno del secolo, che fa da discrimine tra un momento e un altro. Il 1401 corrisponde con il concorso che venne indetto quello stesso anno. Non è che il primo gennaio cambia tutto lasciando il tardogotico, inventandosi il rinascimento, ma si tratta di un processo: lo stesso Donatello, sommo scultore del rinascimento, arrivò ad elaborare una scultura rinascimentale a partire dagli stilemi tardogotici, infatti le sue prime sculture necessitarono di maturazione. Lo stesso Rinascimento si divide in rinascimento, rinascimento maturo, manierismo e barocco: si tratta di etichette apposte nel 900 per una maggiore funzionalità di studi di questi periodi artistici; lo stesso Vasari parlava di manierismo/ maniera moderna. Egli costruì una storia dell’arte fiorentinocentrica per la quale l’acmè veniva raggiunta nel suo tempo e quello di Donatello. Nel 900 si è usato il termine manierismo o maniera moderna per parlare del periodo che va dai primi momenti, nel 1510 e che esplose nel 1520 con la morte di Raffaello Sanzio, il tutto per inquadrare un periodo post rinascimentale (la stessa cosa vale per il barocco). Tuttavia i contorni di questi periodi storici sono sfumati perché nello stile degli artisti e nel gusto dei committenti rimangono sia aspetti dei nuovi che dei vecchi stili: c’era una convivenza di gusti e stili assolutamente pacifica, dove alcuni artisti e committenti furono in grado di recepire velocemente la novità, mentre altri proseguivano sulla linea di gusti tradizionalisti. Ma vi erano anche committenti che apprezzavano sia gusti più decorativi come il tardogotico che gusti più moderni rinascimentali. Il concorso del 1401 Il 1401 fu un anno cruciale perla storia dell’ arte e per Firenze in quanto venne indetto un concorso dall’arte di Calimala (gruppo professionale riunito intorno ad un arte), che importava panni grezzi di lana dai mercati dell’Inghilterra e Fiandre, per lavorarli a Firenze come panni pregiati e poi esportarli. L’arte di Calimala aveva come protettore San Giovanni Battista e, di conseguenza, il protettorato del battistero di Firenze. Era tra le più ricche arti che vi erano nella città. Quest’arte indisse un bando di concorso per la realizzazione dei battenti di un portone in bronzo dorato molto intenso (la porta nord del battistero). Oggi tutte formelle della porta sono al museo dell’opera del duomo di Firenze. La doratura è intensa e facilitava la visione delle figure. Il battistero ha tre ingressi : la porta nuova si sarebbe dovuta esemplare ad una porta risaliente al 1329/30-36 e istoriata da Andrea da Pontedera o Andrea Pisano, che era la porta sud . L’arte di Calimala voleva che la nuova porta nord si ispirasse a questa per portare avanti la tradizione. Inizialmente venne commissionata all’orafo Pietro di Iacopo, ma i risultati furono deludenti poiché l’oreficeria era adatta a piccole realizzazioni. Pietro di Iacopo venne inviato a Pisa per studiare la Porta di San Ranieri, opera di Bonanno Pisano (che poi lavorò anche per il duomo di Monreale). A Pisa c’erano due porte bronzee: quella del maestro Bonanno del 1180 (conservata al museo opera del duomo a Pisa) e un’altra, distrutta da un incendio nel 1595. La Porta di Bonanno Pisano essendo nella parte presbiteriale, riuscì a salvarsi 10 dall’incendio del 1595 Alcuni dettagli mostrano: formella con cristo pantocratore in trono circondato da angeli, formella con natività e annuncio pastori, poi formella con il viaggio dei magi e i progenitori e cacciata dal paradiso terrestre. Nella natività ci sono due scene al contempo: la natività con la vergine e le ancelle al navacro con in un angolo Giuseppe pensoso. La scena intima viene rappresentata in una grotta, ma in realtà è una montagna con sopra l’annunciazione ai pastori: i due angeli sulla dx, le greggi sull’ arco. La scena dei magi è più grande e separata da quella della cacciata. Entrambe formelle intorno hanno rosette che servivano a coprirei punti di giuntura delle lamine che erano addossate alla tavola di legno che stava sotto: la porta non poteva essere tutta in bronzo sennò sarebbe stata troppo pesante. Le colonnine tortili avevano la medesima funzione. Bonanno non usò le regole della prospettiva brunelleschiana con punto di fuga unico, ma ricorse ad una prospettiva empirica dove la stessa è resa con l’uso delle figure, dove quelle in primo piano sono quelle di dimensioni maggiori. Le porte vennero rifatte con il concorso di Gianbologna. Porta Andrea Pisano (1329-36) A Firenze si erano perse le capacità di lavorazione del bronzo. Andrea Pisano non era parente di Nicola (veniva dalla corte di federico secondo) e Giovanni Pisano. La porta gli venne commissionata intorno al 1330 dopo i tentativi di Pietro di Iacopo. Porta a due ante con 28 formelle. Riuscirà talmente bene in tale operazione tanto che nel 1337, dopo la morte di Giotto verrà nominato capo mastro del campanile di Giotto, che completerà. Poi continuerà con sua carriera ad Orvieto. Molto apprezzato come scultore, architetto, capo cantiere. Tema iconografico: scena vita del Battista dalla formella 1 alla formella 20. Lettura inizia da alto a sx e va da anta in anta (verticalmente): nella prima dalla 1 alla 10, poi nella seconda anta dalla 11 alla 20. Da 25 a 28 virtù cardinali, 21-23 le virtù teologali e la 24 figura dell’umiltà. Il tutto inserito in una cornice, già presente nelle opere della piazza del duomo. È la prima porta realizzata per il Battistero Firenze. Pisano era esperto nell’arte del bronzo, ormai perduta a Firenze, dopo che Pietro di Iacopo, abile orafo; fallì nella sua realizzazione. Andrea Pisano veniva da Pisa, che affondava le sue radici in tradizioni di grandi artisti come Bonanno, che realizzò la porta San Ranieri oggi al Museo dell’Opera del Duomo. Andrea ereditò questa tradizione medievale riportando nella sua opera lo schema usato da Bonanno, che fece tra 1330 e 1336, con il tema delle Storie della vita del Battista. L’elemento unificante di questo lavoro è la cornice mistilinea (cioè gotica) e quadrilobata, marchio di fabbrica della Firenze del tempo, di matrice giottesca. In 6 anni realizzò tutte le formelle. Anche la porta nord e del paradiso di Ghiberti (del battistero) sono al Museo dell’opera del Duomo di Firenze. FORMELLE: grazie al restauro si vede bene l’intensità delle dorature del bronzo. Nel 1330-36 siamo in pieno periodo gotico quindi la scultura di Andrea presenta eleganza formale nel trattamento di vesti e volti, di grafismo decorativo delle figure ed espressività trattenuta, non violenta.Tutto ruota intorno alla ricerca di un’eleganza che crei scene decorative. Nativita’: vergine assisa come matrona romana con ancelle sopra di lei che l’assistono dopo il parto e le ancelle in basso portano in proseguo il lavacro del bambino (passo ripreso dai vangeli apocrifi). La mensola serve da proscenio e Andrea la usa un tutte le scene come appoggio per le figure. La prospettiva è empirica: la vergine la vediamo dall’alto, come se il letto fosse appeso alla parete, è distorta. Ancora infatti non c’era scatola prospettica di Brunelleschi. Battesimo di Cristo: restauro ha portato alla luce le bellissime dorature che spiccavano sul bronzo scuro dello sfondo. Qui vediamo figure eleganti, con Battista stante in piedi mentre battezza Cristo. Cristo ha la metà del corpo immersa nel giordano, che sembra quasi una tinozza. Grazie al suo grafismo di orafo, Andrea ha realizzato onde che rendono lo scorrere delle acque. La prospettiva empirica si vede nelle montagne sullo sfondo su cui si stagliano alberi. Sullo sfondo c’è anche la colomba dello spirito santo. Danza di Salome: banchetto di erode si svolge su sfondo di un drappo tenuto come una tenda, con commensali seduti e gli oggetti tipici di una mensa, salome danza a sx e dall’altro lato un servo porta la testa del battista. Poi Salomè porta testa ad Elodiade. Ripropone la prospettiva in una 11 stanza di un palazzo, in una scatola dove i rapporti geometrici sono empirici. Le figure sono eleganti. Elodiade inginocchiata con pieghe grafiche ed eleganti del drappo. Con la porta di Andrea il battistero si dota di una grande opera bronzea, ma nel 1401 si doterà di un’ altra porta: 1348 scoppia peste nera, vita bloccata nella città che stava vivendo una crisi economica e una riduzione dei lavori. Nel 1401 indetto concorso internazionale dall’arte di Calimala: vennero nominati 34 giudici e parteciparono 7 maestri (non solo fiorentini): Lorenzo Ghiberti, Brunelleschi, giovane artista formatosi come orafo anche architetto e scultore, Niccolò d’Arezzo, Simone da Colle (Val d’Elsa), Jacopo della Quercia, scultore senese, Niccolò Lamberti, Francesco di Valdambrino da Siena, esperto di scultura lignea. Ghiberti vinse il concorso e ci racconta la storia nella sua autobiografia (i Commentarii, scritti tra il 1452-55). I Commentarii sono una fonte importantissima. Ovviamente è importante setacciare le fonti per capire cosa c’è di vero e cosa di interpretativo poiché ci viene sempre fornita una chiave di lettura, ad esempio: Ghiberti sottovaluta sempre Nanni di Banco come una persona attardata e sminuisce donatello. Lettura di un passo del racconto ghibertiano: tutti gli scultori che vollero partecipare vennero accolti da operai del battistero e gli vennero date 4 tavolette d’ottone per realizzare una formella (perché così la quantità di materiale utilizzato poteva essere elemento di valutazione): chi era più ricco poteva permettersi il bronzo. Poi venne scelto il tema, che doveva essere lo stesso per tutti: il sacrificio di Isacco per mano del padre abramo, ma la voce di cristo interviene (angelo) e lo ferma riconoscendo il suo coraggio e l’amore di abramo per dio. Oltre al materiale e il tema ci dice che i concorrenti ebbero un anno per realizzare queste formelle, infatti il premio venne dato nel 1403. Poi Ghiberti dice che gli venne data la palma della vittoria universalmente senza eccezioni (ma sappiamo che non era vero perché la giuria era indecisa tra lui e Brunelleschi, infatti sono le uniche due formelle ad esserci pervenute). Poi ci dice che c’erano 34 giudici tra cui Giovanni principe de Medici, fondatore della stirpe medicea. Ci sono sia elementi di verità che elementi che travisano per l’intento di esaltare se stesso. La gloria non gli venne riconosciuta universalmente anche perché anche la formella di Brunelleschi venne salvata: probabilmente ciò significa che la giuria avessero dibattuto su chi dei due dovesse essere il vincitore. Le due formelle oggi sono conservate al Museo del Bargello di Firenze. Ogni maestro dovette dotare la propria formella di una cornice mistilinea quadrilobata, in quanto elemento unificante di tutta la porta. Si nota differenza tra Ghiberti e Brunelleschi: ci mostra convivenza di elementi di tradizione di novità che poi si svilupparono ai tempi di Donatello. Coniugati sono un repertorio classico (elemento che contraddistingue pittura e scultura contemporanea) ed elementi gotici. Formella di Brunelleschi Venne conservata perché ritenuta di grande valore tanto che nel 1432 venne messa al centro dell’altare della sagrestia di San Lorenzo come omaggio. Si nota una scelta precisa nella strutturazione dello spazio con al centro Isacco, dal corpo esile e insecchito, e l’ intreccio delle mani dei protagonisti (Abramo che afferra il figlio e la mani dell’angelo che fermano abramo prima di uccidere il figlio). Ci sono diversi luoghi delle scene: in basso due servi che si riposano: uno con ha un piede tra le mani, l’altro si aggiusta calzari, un asino bruca l’erba, in alto un angelo: sono tutti i loci deputati che mostrano come Brunelleschi conoscesse la scena teatrale medievale. In questa strutturazione frammentata le figure sono disposte a diversa altezza e vi è una citazione dell’antico: la figura dello spinario, scultura in bronzo del I sec dc che Brunelleschi conobbe grazie ai suoi studi a Roma. Lo spinario era un tipo scultoreo pubblico di fama enorme già conosciuto dal XII secolo e usato per tutto il 15 e 16 secolo. Nella formella lo spinario è vestito secondo la moda contemporanea a Brunelleschi con il mantello e i calzari e mostra come egli avesse a mente l’importanza dell’antico perché la inserisce nella sua formella. Inoltre Brunelleschi fu abile nel disegnare le ciocche dell’inserviente con i tratteggi a bulino, che si trovano anche sul dorso del mulo. L’elemento che più colpisce nella sua formella è la rappresentazione del sentimento attraverso l’espressione dei personaggi, in opposizione alla drammaticità trattenuta del tardogotico. Nella formella di Brunelleschi nessuna emozione 12 (8 formelle) ci sono 4 evangelisti e i 4 padri della chiesa (Ambrogio, Gerolamo, Gregorio, Agostino), il tutto entro una cornice mistilinea. Le formelle non sono disposte come quelle nella porta di Andrea, ma la lettura occupa entrambe le ante dal basso verso l’alto e sfrutta l’ampiezza delle ante unite, da sinistra verso destra. Agli incroci di ciascuna cornice ci sono le 8 teste che sostituiscono le protoni leonine della porta sud di Gisano. Anche questa teste si trovano entro le cornici. Per realizzare la porta, ghiberti si accordò con l’Arte di Calimala. Non sappiamo da quale formella Ghiberti iniziò il lavoro, ma in queste possiamo individuare 4 fasi stilistiche di Ghiberti, visto che vi dedicò molti anni: dal 1403 al 1424, pertanto Ghiberti probabilmente si confrontò con altri artisti e modificò non solo il suo stile, ma anche il suo metodo compositivo. In queste 4 fasi inseriamo alcune delle formelle della porta che ci mostrano su cosa si concentra l’attenzione di ghiberti. Prima fase: coincide con il contratto del 1403 fino alla stipula del secondo nel 1407. In questa prima fase Ghiberti parte dall’inizio della storia. La prima scena è l’Annunciazione: ancora definibile come tardogotica perché così è il gioco delle forme, infatti l’artista è più attento all’eleganza formale delle figure che alla loro solidità. La Vergine, stante, si trova con in un’ edicola che rappresenta la stanza dove pregava, si tratta di un esile archetto che inquadra simbolicamente Maria, senza porre attenzione alle proporzioni o alla resa dello spazio. La Vergine è elegante e si vede dalla tesa curvatura del suo corpo, irreale e che punta alla ricerca della bellezza formale, che ghiberti desume dalla scultura tardogotica (si nota dal confronto con una madonna eburnea di giovanni pisano che si trova al museo dell’opera del duomo di pisa. Questa ha un elegante piegamento, che ha una natura fisica appunto perché in avorio e proveniente dall’andamento del dente dell’elefante). La vergine di ghiberti ha lo stesso gioco di forme: il corpo risulta affusolato, elegante dove il tutto è accentuato dalle piegature della veste. Vergine ha una mano a petto e una sul volto quasi a voler allontanare l’angelo per paura. L’angelo, una sottile figura di profilo, vola e il suo volare viene rappresentato tramite uno stilema tardogotico: ghiberti ha messo delle nuvolette sui suoi piedi; è accompagnato da dio padre e colomba spirito santo. Formella con pochi elementi compositivi simile a quella di andrea pisano. Vediamo come prima del restauro il bronzo era verdastro e che le dorature erano rimaste oscurate dall’ossidazione. Il restauro invece ci ha mostrato come la doratura fosse veramente intensa con parti figurative appunto a bronzo dorato e sfondo a bronzo scuro. La cornice ha riquadratura con festoni e fiorescenze, pigne, lucertoline. Come se fossero studi di natura reali riportati nell’opera. NATIVITA’: ha una costruzione interessant, che ci riporta alla sua formella vincitrice. Usa la roccia per separare la scena della natività dagli inservienti. Vergine assisa a sx che guarda il bambino dal cataletto, giuseppe chiude la scena intima in atteggiamento pensoso. La roccia chiude la parte sx come la schiena di giuseppe. Poi nella stessa scena è narrato l’annuncio ai pastori (come nella porta di bonanno pisano): l’angelo richiama con un braccio i pastori (che si portano braccio alla fronte) e con l’altro indica in basso il luogo dove i pastori devono andare per rendere omaggio al figlio di dio. Anche qui il restauro mostra come le figure fossero dorate e si stagliassero sullo sfondo scuro. Anche gli elementi della natura sono perfettamente dorati. Sempre al primo periodo appartiene l’Adorazione dei Magi che segna il passaggio alla seconda fase di stile di ghiberti. Già questa formella risulta più complessa e con una maggiore ricerca prospettica. Il portico ha il capitello sopra la vergine è privo di colonna perché sotto c’è la madonna. Sotto portico madonna con bimbo e giuseppe che si affaccia. Il primo mago bacia piede bimbo e gli altri due portano i doni; dietro gruppo di persone che hanno accompagnato i magi nel loro viaggio. vi è una maggiore articolazione dello spazio, nell’architettura e anche nella disposizione dei personaggi al loro interno. Vediamo anche atteggiamento diverso nei confronti della cornice quadrilobata e mistilinea: in scene precedenti, come la natività, ghiberti cercava di farci entrare tutta la scena, mentre nell’adorazione ha un approccio più fluido infatti uno dei magi tiene ampolla che sovrasta e copre la stessa cornice. Con doratura restaurata la scena risulta essere più vivace. Seconda fase stilistica: ancora convivono tradizione e innovazione, da 1407-14. Ancora prevalgono eleganza, armonia formale e semplificazione del tardogotico, con pathos pacato e ritmi compositivi cadenzati. La seconda fase coincide con la stipula del 15 secondo contratto nel 1407: arte di calimala denotò una lentezza nei lavori ed era necessario che finissero in tempi più brevi. Quindi venne stipulato il secondo contratto, firmato l’1 giugno e più vincolante rispetto al primo. Questo prevedeva che ghiberti facesse un resoconto quotidiano della sua attività per controllare quanto lavorasse, l’altro vincolo era l’esclusività: non poteva lavorare su altre opere per altri committenti se prima non avesse terminato la porta per l’arte di calimala. tuttavia gli venne concesso di incrementare i suoi aiuti perché avrebbero velocizzato i lavori: da 11 a 25 collaboratori. Tra questi anche Paolo Uccello (suo cantiere formativo). Crocifissione: croce al centro e i due angeli speculari che accompagnano cristo, i due dolenti assisi ai piedi della croce (dx vergine pensosa e sx giovanni evangelista con mani in gesto di dramma). Perfezione formale della scena. È la formella dell’ultimo registro in alto. A questa fase appartiene anche la testa di s marco, figura assisa alla sua scrivania con il leone, suo simbolo, sospeso in alto a dx come se fosse un angelo. San Marco è una figura grave, ma di cui percepiamo poco il corpo sottostante, noi ne percepiamo la fisicità grazie al grafismo dei panneggi che seguono andamento decorativo imposto dallo stesso ghiberti alla figura sottostante, fondamentale invece da donatello in poi. Il panneggio risulta ancora più ridondante e complesso nella versione restaurata. Fase di retaggio tardogotico si conclude intorno al 1415, poi inizia a sperimentare e a confrontarsi con Brunelleschi, Nanni di Banco, con donatello che ormai era uscito dalla sua bottega, per liberarsi da un retaggio tardogotico che non perderà mai ma che cercherà di rivedere soprattutto nella cornice con ambientazione architettoniche più ricche e anche nella disposizione dei personaggi. Terza fase stilistica: 1415-16, di sperimentazione e molto breve, che mostra come ghiberti preferì ritornare nei binari del tardogotico. La Cacciata dei mercanti dal tempio è molto più complessa con tempio pieno di personaggi. figura di cristo che si sforza e fisicamente con braccio sx scaccia mercanti, alza il dx minacciosamente. I mercanti, sono tutti nella parte dx della scena, quasi ad esondare dalla cornice, tanto che uno casca. Il tempio venne rappresentato in un’ architettura complessa e porticata con un tentativo prospettico nello sfondo. L’architettura si protrae nella profondità della stessa formella. Entrata di Cristo a Gerusalemme: alberi che separano le scene, personaggi compressi nella scena e velo ai piedi di cristo per accoglierlo. L’asino guarda verso di noi quasi a carpire la nostra attenzione per portarci all’interno della scena. Questa terza fase di sperimentazione e tentativo di innovazione di linguaggio è piuttosto breve. Quarta fase stilistica delle formelle: 1416-24, Ghiberti ritorna allo stilema del tardogotico, dove prevale un particolare elemento decorativo, che equilibra le parti della formella, quasi speculari. La Flagellazione è più semplificata con tempio sullo sfondo caratterizzato da esili colonnine corinzie e accennate sullo sfondo le colonne retrostanti. I due flagellanti, con gesti chiastici, alzano le braccia a colpire cristo tanto che quello a dx si copre il volto. Grande eleganza formale. Ghiberti si sentiva più sicuro con questo stile che fonde innovazione e tradizione. Scena molto elegante. Cornici con brani di natura morta molto eleganti, ma complesse a livello compositivo, che ci mostrano come ghiberti osservò foglie, pigne, melograne, scarafaggi, lucertole che erano modelli per ricreare queste fasce che decorano tutta la porta. Il tutto richiese molto lavoro. Nella parte retrostante della porta sono riprodotte le formelle nei riquadri. La cornice presenta elementi tondeggianti con all’interno le protoni leonine vivaci e conografiche. Le testine agli angoli sono all’antica: la Figura col turbando è un rimando forse a conoscenza scultura antica all’incrocio delle porte. Ritratto di Ghiberti col turbante: l’artista si ritrasse e si inserì nella sua opera. Il 30 marzo 1423 formelle erano tutte terminate, da qui si passa alla doratura delle parti decorative. Nello stesso anno viene anche terminata la cornice e le testine. Il 19 aprile 1424 la porta viene issata sui cardini della porta nord del battistero fiorentino. la porta è una prova generale della scultura di inizio 400 perché tra i collaboratori di ghiberti vi era anche il giovane Donatello, che, appunto, si formò nella bottega ghibertiana. Il successo di questa porta fa sì che quando l’Arte di Calimala decise di fare la terza porta del battistero, assegnò il lavoro direttamente a Ghiberti. 16 La porta del Paradiso di Ghiberti La porta del Paradiso fronteggia l’ ingresso del duomo fiorentino. Inizio dei lavori nel 1425, commissionatigli dall’Arte di Calimala, e terminarono nel 1452 (i rilievi vennero sicuramente modellati negli anni 30, Ghiberti probabilmente aveva fuso parte dei rilievi già nel 1443, ma gli stessi furono sottoposti ad un lungo lavoro di pulitura, doratura e montaggio). Ghiberti si fece aiutare dal figlio Vittore e tanti altri come Luca della Robbia (..), formando una generazione di artisti. La scelta iconografica inizialmente venne affidata a Leonardo Bruni, umanista e futuro cancelliere della Repubblica di Firenze: egli prevedeva la realizzazione di 20 storie dove era necessaria una perfetta sintesi di forma e contenuto, ovvero un’opera bella ricca di significati, ma così come non ci sono 28 formelle in cornici quadrilobate (come nella porta nord), la porta non si articolò in 20 formelle, ma 10 quadrangolari: la porta del paradiso e la porta nord non coincidono perché forse Ghiberti aveva bisogno di più spazio. Per ridurre formelle e per avere più spazio per le raffigurazioni, Ghiberti si accordò con l’Arte di Calimala: così la porta sarebbe stata più ornata e più ricca. Il tema iconografico consiste nella rappresentazione delle Storie dell’Antico Testamento, dove Ghiberti abbandonò i riferimenti gotici nella struttura dei battenti: grandi scene quadrate con una cornice in cui inserì piccole figure di personaggi biblici. La figurazione legata anche a narrazione del secolo precedente, rispetto alle sperimentazioni di suoi colleghi come Masaccio, Brunelleschi, Donatello: seppur le figure, in queste formelle, siamo caratterizzate da un lieve volume, Ghiberti rimase fedele alle sottigliezze gotiche, senza interessarsi a costruire uno spazio tridimensionale, ma realizzando figure eleganti e raffinate. Oggi la porta è conservata al Museo dell’Opera del Duomo (Firenze). Nella formella con la Storia di Adamo ed Eva, Ghiberti articola la figurazione in 4 episodi, racchiusi nella medesima formella senza unirli con uno spazio prospettico, ma con un filo narrativo. creazione adamo dalla roccia a sx, creazione di eva al centro, peccato originale in secondo piano a sx a bassissimo rilievo, cacciata dal paradiso terrestre, sulla dx, dove i progenitori vengono scacciati dall’angelo , che sbuca da una porta diagonale, seguendo l’ordine di dio padre, che si trova in alto, al centro della scena, con intorno un coro di angeli. Nella cacciata adamo ed eva non sono urlanti come nella cacciata realizzata da masaccio nella cappella brancacci: ghiberti sorvola la rappresentazione della drammaticità a favore della raffigurazione della bellezza e dell’eleganza. Il paesaggio è descritto in modo accurato e gli alberi sono lussureggianti, grazie anche alla preziosità della materia, levigatissima. Nella Formella con la Storia di Giuseppe ebreo, Giuseppe venne venduto dai fratelli invidiosi e una volta arrivato in Egitto venne assoldato come ministro presso il faraone poiché interpretava i suoi sogni. I fratelli giunsero in Egitto a causa della carestia, Giuseppe si fece riconoscere, li perdonò e accolse. La scena viene raccontata in 7 episodi, tutti entro la stessa formella. I personaggi sono collocati intorno ad una loggia circolare, non collocata correttamente nello spazio perché a ghiberti interessava rendere eleganti le figure, arcuate grazie anche ai panneggi ricurvi delle vesti e la minuzia calligrafica delle capigliature: era legato più al particolare, che all’armonia spaziale sperimentata dai suoi giovani colleghi. La cornice risulta essere più complessa con infiorescenze, ma anche con figure dentro delle nicchie e testoline entro clipei, da cui emerge la stessa figura di Ghiberti, ma senza turbante. Donatello si forma nel cantiere della porta nord del Battistero, sotto Ghiberti, e poi nel cantiere della porta della mandorla. “Donatello e l’invenzione dell’umano” : Donato di Niccolò di Betto Bardi detto Donatello (1386- 1466) Il primo contratto per istoriare la Porta nord del Battistero di Firenze (1403) prevedeva 11 collaboratori per Ghiberti tra cui il giovane Donatello, innovatore assoluto del linguaggio di inizio 400 nella scultura. La scultura in questo periodo fece da traino alla pittura nel linguaggio rinascimentale, infatti questa si innoverà solo più tardi, con Masaccio. La scultura è l’incunabolo del nuovo linguaggio rinascimentale con 17 Donatello venne chiamato a realizzare un Crocifisso per Santa Croce a Firenze, 1406-08: è una delle prime opere che conosciamo dell’artista, che si era formato nella bottega ghibertiana, pertanto, prima dello sviluppo del linguaggio rinascimentale della sua scultura, questa mette in risalto elementi proprio originari del contesto in cui egli si era formato. L’opera è in legno intagliato e dipinto. Ghibertiano è ancora il perizoma indossato da Cristo, con pieghe taglienti e sinuose, mentre il volto è diverso: emerge un naturalismo allora sconosciuto. Il volto di Cristo esprime la tipica espressività che sarà caratteristica essenziale delle sue opere. Poco dopo Brunelleschi ne relizzerà uno per Santa Maria Novella. Orsanmichele: Donatello, Nanni di Banco, Ghiberti Durante i lavori per il Duomo, Donatello ricevette un’altra importante commissione da parte dell’Arte dei Linaioli: realizzare una figura per una nicchia nella chiesa di Orsanmichele. Le nicchie di Orsanmichele erano ad altezza d’occhio e qui vi lavorarono molti scultori: questo cantiere inaugurò una nuova stagione artistica, in cui tutti potevano vedere e studiare le opere esposte. In Orsanmichele ogni nicchia era di proprietà di un’arte, che aveva il compito di commissionare le sculture da porvi. Tanto più gli artisti riuscivano a realizzare delle statue degne di nota, tanto più le arti entrarono in competizione per commissionare opere sempre più belle e colossali. San Marco di Donatello per l’Arte dei Linaioli, 1411-13, oggi al Museo dell’Orsanmichele: San Marco era il protettore di questa corporazione. Anche qui Donatello omise il simbolo del santo, ma lo inserì nella predella. San Marco si trova nella nicchia tardogotica con ghimberghe ed è una figura nuova: Donatello conferisce alla testa del santo un aspetto leonino, dopo aver riposto nella predella il simbolo del leone (se si confronta col marzocco del Bargello di Donatello, lui lì ha conferito all’animale un espressione umana, mentre a San Marco ha conferito una temerarietà tipicamente leonina). Posizione dell’evangelista ripresa da statua romana: gamba dritta salda in terra e gamba sx piegata su cui si appoggia il mantello. Ma la pesantezza della figura nell’opera di donatello è data da un dettaglio (Donatello gioca sempre sui dettagli): san marco appoggia i piedi su una sorta di piedistallo: in realtà si tratta di un cuscino con i bottoni. Il cuscino si ricollega da una parte all’arte dei linaioli, che dovevano essere riconoscibili nell’opera, ma dall’altra con questo elemento, donatello riuscì ad evidenziare la pesantezza del corpo: il piede affonda nel cuscino e mostra come il corpo del santo sia fisicamente presente= grande regalismo. Tra 1406 e il 1415 Donatello aveva completamente stravolto la sua scultura ed eliminato gli stilemi tardogotici, andando verso l’invenzione dell’umano. L’Orsanmichele era ed è un luogo simbolo di Firenze, che si trova tra Palazzo della Signoria e il Duomo; è fondamentale per la presenza di sculture nello spazio viario, un museo a cielo aperto dove tutti potevano studiare ed osservare quelle opere, infatti si può definire come un esercito di sculture che invasero lo spazio pubblico. Orsanmichele è una chiesa gotica: c’era un monastero femminile con la chiesetta dedicata a San Michele in Orto che però venne demolita nel 1240 per fare posto ad un mercato di granaglie, la cui loggia, già presente nel 1290, probabilmente fu disegnata da Arnolfo di Cambio. Nel 1304 la loggia venne distrutta da un incendio e venne ricostruita nel 1337 come chiesa di una confraternita con all’interno il tabernacolo scolpito da Andrea Orcagna, ospitante la maestà di Bernardo Daddi. Orsanmichele ha 4 facciate, che lo porta a fare da quartiere infatti ha intorno 4 strade. Al primo piano c’è l’ oratorio e poi il piano rialzato per la riserva del grano di Firenze. È un alto edificio rispetto a quelli circostanti. Nel 1339 ogni arte prese in carico la decorazione delle 14 nicchie commissionando le sculture da decorare. Le prime ad iniziare furono l’Arte di Calimala e quella della Seta, ma nel 1340 scoppiò la peste a Firenze, che interruppe i lavori e che ripresero solo dopo 60 anni. Nicchia con la Madonna col Bambino o Madonna della Rosa di Piero di Giovanni Tedesco, commissionata dall’Arte dei Medici e Speziali: di Piero di Giovanni Tedesco abbiamo informazioni grazie ai Commentarii ghibertiani, in cui l’autore ci dice che secondo lui proveniva dalla Germania. Sappiamo che dal 1406 lavorò nel cantiere Santa Maria del Fiore per cui realizzò due angeli musicanti, oggi 20 al Museo dell’Opera del Duomo. Sono due angeli in cui spicca eleganza e graficità delle pieghe che nascondono copro sottostante, mostrano riecheggiamenti tardogotici). Anche nella Madonna col Bambino si vede il gusto tardogotico, che Piero sembra non abbandonare: preponderanza di elementi decorativi sulla corporeità, espressività quasi assente, severa e distante. L’unico elemento meno altero è il bambino che accenna un sorriso e tocca i fiori (=Madonna della Rosa). Il colore della scultura oggi è bianca ma al tempo era colorata, così come le altre sculture dell’epoca, a riprodurre i tessuti prodotti a Firenze. Sotto le pieghe infatti si nascondono pigmenti che ricoprivano completamente le sculture tardogotiche: Si vede bene nella passamaneria della vestina del bambino e anche in quella della Vergine. Nel 1406 si rallentarono lavori a Orsanmichele: accelerazione lavori che diede impulso alla realizzazione di sculture e le arti entrarono in competizione nel coinvolgimento degli scultori più grandi, anch’essi in competizione. San Pietro di Donatello e Brunelleschi, 1408-13, marmo, commissionato dall’Arte dei Beccai: non è frontale, ma rivolta verso la sua destra, quindi c’è uno scatto ed un rifiuto della perfetta assialità. Volto perfetto dove emerge la conoscenza dell’antico sia nella rappresentazione della barba che in quella della capigliatura, derivante da scultura imperiale. Non sappiamo chi lavorò di più tra Donatello e Brunelleschi: forse più il secondo perché nel 1408 Donatello era impegnato nella realizzazione di altre due opere. Brunelleschi decora anche la nicchia con tarsie marmoree in cui si manifestano i suoi studi prospettici. Con san Pietro si manifesta il proseguire della competizione con il tabernacolo dei Lianioli e il San Marco di Donatello: inizia tensione tra Donatello, Ghiberti e Nanni di Banco. San Giovanni Battista di Ghiberti l’Arte di Calimala, 1412-16, in bronzo (+costosa). Ghiberti realizza anche tabernacolo goticheggiante. L’opera è firmata. Venne fusa in 4 parti che poi vennero assemblate perché la statua era alta circa 2 metri e fondere un unico pezzo sarebbe stato rischioso: se la fusione fosse andata male, Ghiberti avrebbe dovuto pagare il bronzo per la seconda fusione, a differenza della prima fusione in cui il materiale sarebbe stato fornito dall’Arte di Calimala. fondendola in 4 parti Ghiberti ridusse il rischio di fusione. Vello caprino ricopre il santo, è caratterizzato da una forte inarcatura messa in risalto anche dalla lunga e affilata piega del panneggio. L’argento intorno agli occhi rende intenso lo sguardo e la sua espressione. Minuzioso calligrafismo nella barba pettinata. La lingua figurativa è il gotico internazionale, che mostra il santo intento a predicare nel tabernacolo. L’opera ottenne grande successo e Vasari lodò l’opera di Ghiberti definendola come realizzata in buona maniera moderna. Stile grafico, elegante e ancora tardogotico. La competizione entrò nel vivo e divenne pubblica, dove i voti erano proprio relegati ai fiorentini, che potevano vedere le opere nelle nicchie e commentarle. Competizione totalmente diversa da concorso 1401, dove la giuria era ristretta. Per la prima volta i fiorentini potevano ammirare queste opere senza dover entrare in un palazzo con una collezione privata. Si tratta di un’operazione straordinaria che diffuse nuove modelli, un nuovo linguaggio artistico che portò al confronto tra artisti. Le sculture guideranno anche il rinnovamento della pittura. Esempio di pittura che si rifà a Orsanmichele: Chiesa Assunta c’è dipinto di Paolo Uccello ora AL Museo dell’Opera del Duomo di Prato che rappresenta Jacopone da Todi: figura all’interno della nicchia. Paolo Uccello recupera idea di Orsanmichele dove inserice la sua figura, ispirandosi alla scultura fiorentina. Fatta nel 1436. Tuttavia il confronto con la pittura si può fare anche in una prospettiva all’indietro: già le nicchie esterne con figure c’erano nel 1339: Orsanmichele ha riportato in una scultura monumentale il dossale di Giotto con strutture a nicchie, dove quella centrale risulta essere la più grande con la madonna col bambino, tuttavia l’idea è la medesima. Ovviamente gli scultori hanno avuto il problema di inserire figura nella nicchia, creando un rapporto tra lo spazio e i corpi in un armonico equilibrio, l’altro problema era il rapporto con il riguardante: le predelle delle nicchie sono ad altezza d’occhio, quindi ben visibile, pertanto lo scultore doveva coinvolgere lo spettatore: era necessario creare un approccio visivo. un terzo problema era di riconoscere i santi: non tutti i santi erano riconoscibili per l’impossibilità del pubblico, quindi dovevano essere identificabili, così come dovevano essere riconosciute le arti committenti: quindi vennero inserite delle storie dei santi nelle predelle. Talvolta vennero inseriti simboli e strumenti che fanno 21 riferimento alle arti committenti (come il cuscino nel San Marco che rappresenta i Linaioli). Queste sono innovazioni socio-economiche perché le arti si facevano una vera e propria pubblicità. Le successive opere in orsanmichele sono: I Quattro Santi Coronati Di Nanni Di Banco per l’Arte dei Maestri di Pietra e Legname, 1409-17, marmo, Museo dell’Orsanmichele. Nanni realizzò in una nicchia 4 personaggi, i santi protettori della corporazione committente, che erano scalpellini cristiani martirizzati all’epoca di diocleaziano. Opera difficile: Nanni doveva rendere riconoscibili i 4 santi coronati, infatti nella predella rappresenta il loro mestiere, cioè una bottega di scultura, ispirata però a quelle del suo tempo, che ci permette di conoscere la modalità di lavoro in una bottega del 400. Scalpellino a sx vicino a un forno che sta per infornare modelli di terracotta, l’altro scolpisce con un trapano a violino una colonnina tortile, sdraiata sul piano, di spalle a questo uno scultore definisce un capitello composito a foglie d’acqua. L’ultimo scultore realizza un putto che si trova su una lastra di legname che gli consentiva di definire le braccia, eliminando il marmo superfluo. Anche nella parete di fondo sono appesi strumenti del mestiere. È un rilievo molto profondo tanto che le figure in parte spiccano dalla scatola. Per quanto riguarda la nicchia, per disporre i santi 4 coronatI, Nanni scelse la soluzione più economica, ovvero la disposizione a semicerchio, che segue la forma della nicchia e che fornisce anche un elemento di dialogo: i 4 sembrano infatti parlarsi. Si vede il rifacimento all’antico, tipico di Nanni: innanzitutto i 4 sono nelle vesti di patrizi romani. La testa del primo santo ha la bocca aperta che ci indica che sta parlando, andando a rafforzare l’idea del dialogo e di una presenza fisica reale nella nicchia (coinvolge spettatori). I capelli, che sono lavorati finemente, con tocchi di trapano sottilissimo nei riccioli, cadenti sulla fronte del santo, e la barba si rifanno alla statuaria classica. (ritratto caracalla 211 dc nei Musei Vaticani assomiglia molto a scultura di Nanni, che mostra come lui studiò l’antico, che divenne sempre di più un riferimento costante). Nella citazione dell’antico è veramente puntuale, sicuramente quindi conosceva la statuaria antica. Figure realizzate in 3 blocchi di marmo: 3 figure di marmo a sx in 3 blocchi, le figure a destra ricavate in un blocco unico e si vede dall’unitarietà del basamento. Vasari ha parlato dei 4 santi coronati in modo negativo per privilegiare la figura di Donatello: ci racconta un anedotto secondo il quale nanni aveva iniziato a fare sculture e quando cercò di metterle nella nicchia, ce ne entravano solo 3 e quindi chiese aiuto a Donatello (falso, non sarebbe ricorso all’aiuto di Donatello) e donatello gli avrebbe concesso l’aiuto se Nanni gli avesse pagato una cena e se fosse andato a concludere per lui un lavoro a Prato (lo tratta come allievo) , ma sappiamo che Donatello non voleva andare a Prato perché era in ritardo nel lavoro con il pulpito. Poi ci dice che Donatello smussò ampiezze dei gesti dei 4 santi e le fece entrare nella nicchia (operazioni che nanni avrebbe potuto fare anche senza donatello). Sappiamo che però vasari ha mistificato la realtà e che l’opera è frutto del sacco di Nanni. La posa disposizione con cui Nanni ha sistemato i personaggi nella nicchia venne ripresa nel Tributo della Moneta di Masaccio, presso la Cappella Brancacci, nella Chiesa del Carmine a Firenze. Il gruppo centrale delle figure intorno a cristo mostra come il loro dialogo sia stato ispirato alla scultura a semicerchio di Nanni di Banco, come se Masaccio sicuramente avesse studiato il suo capolavoro scultoreo. La scultura ebbe infatti un grande impatto nella pittura successiva. La competizione in Orsanmichele tra le arti continuò: l’impulso di Nanni venne recepito nella nicchia dell’Arte dei cCrazzai dove la scultura nella nicchia venne realizzata da Donatello: San Giorgio, Donatello, 1415-17, per l’Arte dei Corazzai, marmo, Museo del Bargello: Arte corazzai realizzava armi, scudi, corazze. Riconoscibile nella predella sottostante il santo. San Giorgio indossa una corazza e ha un enorme scudo che dà forza ed energia a questo giovane santo combattente. Lo scudo copre il movimento del santo, ma era fondamentale per riconoscere l’arte committente, così come la corazza da lui indossata. Donatello fu quindi vincolato nella rappresentazione del corpo e per dare vitalità alla figura puntò sugli elementi scoperti dall’armatura e dallo scudo: le mani e la testa. L’armatura è straordinariamente dettagliata, probabilmente studiata dal vero, incisa con chiodini, tasselli uniti, che mostra la sua grande maestria orafa. Della mano che tocca sul fianco si vedono le nocche, venature e pieghe delle dita, la mano dx sembra un pugno chiuso che ora è vuoto, ma forse conteneva una spada in 22 Cristo nel far investigare il suo discepolo. Verrocchio rielabora in stile matura le sperimentazioni di Donatello, Ghiberti, Brunelleschi scultore, Nanni di Banco. La produzione di Donatello è variegata poiché lui era un grande sperimentatore. Le cantorie del Duomo di Firenze Donatello era interessato alla rappresentazione del movimento, dell’ espressione, non solo allo studio dell’antico. Il movimento è fondamentale in un’opera di Donatello: la cantoria. Brunelleschi, oltre ad occuparsi del cantiere della cupola, progettò anche l’arredamento della parte sottostante di essa, in corrispondenza dell’altare maggiore. Brunelleschi pensò di disporvi una coppia di cantorie (due balconi) che dovevano accogliere l’organo e i coristi. Erano sopra due porte che immettevano nelle sagrestie del duomo di firenze: quella di Luca della Robbia sopra l’ingresso della sagrestia delle messe, quella di Donatello sopra quello della sagrestia dei canonici. Luca della Robbia iniziò il lavoro nel 1431, mentre a Donatello la commissione viene fatta nel 1433. Entrambe le cantorie vennero completate nel 1438. Oggi conservati al Museo dell’opera del Duomo di Firenze. La Cantoria di Donatello: venne lodata da Vasari per il movimento e intensità espressiva. Donatello per dare forza al movimento realizza un fregio continuo di putti danzanti: egli si rifà all’antico (infatti era tornato da poco dal suo secondo viaggio a Roma dove studiò i frontoni dei sarcofagi classici). Il fregio è continuo perché i putti danzano, si rincorrono e vanno in direzione diverse su un prato di giunchi; indossano vesti ariose. Le colonnine binate che scansionano l’opera non toccano il fondo e si vede in particolar modo nella colonnina nell’angolo a sx: ciò consente ai putti di correre ininterrottamente su tutta la superficie. Qui Donatello sperimenta nuovamente una tecnica che già aveva tentato nel pulpito di Prato (rotondo, esterno con corsa di putti che suonano su sfondo a mosaico, paraste binate però interrompono la corsa). Nella cantoria del Duomo fa un passo avanti e senza eliminare la scansione con le colonnine tortili binate, discostandole dal fondo, crea un porticato passeggiabile senza che i personaggi vengano ostacolati dall’elemento architettonico. Un’altra innovazione è lo sfondo: inserisce paste vitree dorate e multicolore per cerare un effetto luministico, una vivacità che attira lo sguardo e fa vibrare la luce (passo avanti perché nel pulpito usa i marmi). Tutto ciò consente di riproporre elementi antichi, ma rimodernati con volute nelle parte alta, negli elementi architettonici e nell’incrocio delle parti del corpo dei putti nella loro corsa. Vediamo come Donatello accelerò la tensione espressiva del suo linguaggio, allontanandosi dallo stile composto di Brunelleschi, che però venne reinterpretato da Luca della Robbia. Inoltre le figure sono poco più che abbozzate e questa scelta è legata anche all’altezza a cui si trovava la cantoria. Non vi è una rigida compostezza, vista la vitalità della scena. La Cantoria di Luca della Robbia: i putti sono composti, eleganti e più contenuti di quelli donatello. Luca per rappresentarli si rifà al salmo 150, che riporta scritto nelle cornici della sua cantoria. Il salmo invita a lodare dio con danze e con il suono dei tamburi e della cetra: cose rappresentate da luca nei 10 riquadri divisi da paraste binate. Luca, a differenza di Donatello, separa le scene. Sono putti più garbati ed eleganti, ben levigati nel marmo ed in carne. Le pose dei putti talvolta sono riprese da rappresentazione dell’antico e nonostante alcune teste si muovano alla ricerca di virtuosissimi scorci da sotto in su, la raffigurazione è dominata da un’armoniosa serenità. La sua arte è composta ed equilibrata e la maturò nella bottega di Nanni di Banco. L’ordine architettonico è scandito su due registri dalle mensole del balcone e da coppie di paraste. Le Cantorie rimasero in duomo fino al 1668, quando vennero smontate per matrimonio del grande principe Ferdinando e Violante di Baviera. David di Donatello Datata 1435-40, per Palazzo Medici in via Larga, su richiesta di Cosimo de’ Medici, oggi è al Museo del Bargello di Firenze, bronzo con tracce di dorature. David è rappresentato come un adolescente dai capelli 25 lunghi, nudo: ha solo il cappello e i calzari, con la spada nella mano destra e la pietra nella sinistra, mentre un piede è al di sopra della testa del gigante, ormai morto. La figura si contraddistingue per quest estrema eleganza che lega la scultura in un certo senso all’opera ghibertiana, ma in realtà Donatello inserisce sempre il nuovo senso della nuova arte: è un statua a tutto tondo. La statua nella collocazione originaria si ergeva su una colonna e quindi era visibile di sotto in su e nonostante ciò era possibile incrociarne lo sguardo grazie al fatto che Donatello gli donò un volto rivolto verso il basso. Giuditta e Oloferne di Donatello Datata 1457-64, in bronzo dorato, sempre per Palazzo Medici in via Larga. L’eroina è rappresentata in atto di uccidere Oloferne, un gruppo scultoreo a tutto tondo dalla forza impressionata per lo scarto energico di Oloferne che sta per essere ucciso da Giuditta, che alza la spada con la sua veste fremente. Sul basamente corrono tre scene bacchiche che alludono all’ebbrezza di oloferne. In origine la statua recava anche un’iscrizione in latino per volere di Piero, figlio di Cosimo, ormai morto, che esprimeva come la statua fosse dedicata all’unione di fortezza e libertà per la difesa della Reoubblica fiorentina. Con la cacciata dei Medici dalla città nel 1494 la statua venne requisita dalla Repubblica ed esposta presso la facciata di palazzo vecchio, anche se in realtà era stata eretta per stare vicino al David, dopoche palazzo Medici venne ampliato da Michelozzo di Bartolomeo, allievo di Brunelleschi. Tra 1425-33, Michelozzo si affermò come architetto adopo aver lavorato anche come scultore. Egli fu allievo di Brunelleschi, tanto che alla morte del suo maestro nel 1446, venne nominato capomastro del cantiere del Duomo. Divenne achitetto di Cosimo de’ Medici che gli affidò la costruzione del Palazzo Medici in Via Larga: la costruzione risale al 1444-60 e l’impianto orginale del palazzo coincideva con i primi 10 assi finestrati spostandoci da sinistra verso destra: i restanti vennero aggiunti nel corso del 600, quando il palazzo venne acquistato dai Riccardi, che vi fecero erigire anche il colonnato berniniano nel 1670 circa. Il palazzo rappresenta il prototipo di edificio gentilizio rinascimentale e il fatto di essere sia elagante che sobrio al tempo stesso corrisponde al voler manifestare la ricchezza del signore. Originariamente la struttura cubica venne costruita intorno ad un cortile. Le finestre al piano terra sono attribuite a Michelangelo che inserisce il tema della finestra inginocchiata. Il prospetto presenta le forme michelozzoniane: al secondo e al terzo ordine vi sono una serie di bifore coronate da archi a sesto acuto. Una caratteristica dell’edificio è quella del paramento murario: il primo livello presenta un bugnato rustico, che salendo di registri, si ingentilisce e leviga sempre di più. L’innovazione di Donatello fu fondamentale per molti artisti: egli ispirò l’opera di Maso di Bartolomeo la Cassetta della Cintola, 1446-48, rame dorato, avorio e legno, per il Duomo di Prato, oggi al Museo dell’Opera del Duomo di Prato. Donatello ispirò l’opera di un orafo, che però realizzò la danza di putti a tutto tondo. Colonnine non sono binate ma singole, putti si rincorrono e sono applicati su scatoletta di legno interna. Banchetto di Erode di Donatello, 1435, Museo di Lille (Francia). Tecnica dello stiacciato. Ricordato nel 1492 in un inventario: un quadro marmoreo in cui l’artista fece ricorso alla prospettiva. Complessa composizione architettonica, con scala, porticato su sfondo, scena banchetto in primo piano e sempre dietro colonnato corinzio. Vi è una complicazione straordinaria tanto cara a Donatello e che troviamo anche in rilievo in stucco policromo nella sagrestia vecchia. In questo banchetto usò lo stiacciato e il rilievo è lustrato così finemente tanto da sembrare alabastro e non marmo. L’interno viene costruito in modo razionale inidce del fatto che Donatello aveva preso conoscenza delle regole di Leon Battista Alberti, scritte nel suo trattato sulla pittura : per alberti il quadro è una finestra aperta da cui si può ammirare ciò che sta dietro. Rilievo ha cornice, come una finestra per assistere, appunto, al banchetto. Donatello costruisce lo spazio con architettura in cui inserisce le figure. Quindi siamo in una concezione tipicamente razionale in cui 26 è l’architettura che crea lo spazio e non le figure: grazie a questa organizzazione spaziale rigida e razionale fu in grado di rappresentare due scene: danza Salomè e presentazione a Erode della testa del Battista nel momento del banchetto. La salomè danzante è una citazione delle antiche baccanti (come principessa del san Giorgio). Questo rilievo ebbe molto successo e venne molto ammirato e studiato dagli artisti della generazione successiva. Decorazione scultorea del Fonte Battesimale Battistero di Siena con Convito di Erode, 1423-27, bronzo: Scena realizzata ricorrendo allo stiacciato e alla prospettiva per inserire i personaggi in uno spazio tridimensionale. In primo piano viene presentata ad Erode la testa del Battista, infatti è inorridito e, davanti, Salomè danza a ritmo della melodia suonata dai musicisti di profilo in secondo piano, al di là di una loggia. Sullo sfondo, davanti alle scale che portano ai piani superiori del palazzo, donatello rappresenta una scena precedente: la presentazione della testa del battista ad erodiade. L’architettura,in cui donatello inserisce i personaggi, è ispirata all’antichità con archi e tutto sesto e il paramento murario in mattoni: lui va a creare piani spaziali diversi in cui inserice tempi diversi della medesima storia. L’opera del duomo di siena commissionò questo rilievo a donatello per decorare le pareti esterne del fonte battesimale del battistero di siena, ciclo a cui parteciparono anche Jacopo della Quercia, che realizzò l’Annuncio a Zaccaria 1428-30,, dove cerca di imitare le novità spaziali apportate da Donatello, ma senza ottenere il medismo risultato e Lorenzo Ghiberti con il Battesimo di Cristo, 1425-27, dove cerca di adottare lo stiacciato di Donatello che usa per andare a esaltare l’eleganza lineare della corona che sta per poggiarsi sul capo di Cristo e non tanto per andare a creare uno spazio: sia questo che la figura di Giovanni, inarcato in modo eccentrico, mostrano il goticismo della mano ghibertiana. Desiderio da Settignano (1439-64) apprese la tecnica stiacciato in quanto si formò in ambito donatelliano e nel suo rilievo lo ripropone in modo più dolce: Rilievo con San Girolamo nel deserto, 1461 alla National Gallery di Washington. In primo piano vediamo san Girolamo inginocchiato davanti alla croce con i leoni che stanno per attaccarlo, ma lo riconoscono come figura buona tanto che tra gli animali e il santo si instaura un rapporto pacificoo. Sullo sfondo c’è una montagna conica in cui vediamo le stratificazioni della terra: il suo rilievo dialoga con pittura dell’epoca, infatti la montagna stratificata è una citazione della montagna del San Girolamo Di Filippo Lippi, 1439, Museo Altenberg: la montagna sembra un insieme di lastre sovrapposte. Nel rilievo ci sono cipressi ed alberi dalla forma strana (le foglie sembrano disposte in orizzontale a strati, una sopra l’altra) (in alto a sx). La rappresentazione di alberi di questo tipo è ripresa da Cappella dei Magi in Palazzo Medici (1459-61), dove Bonozzo Gozzoli realizzò cipressi simili a quelli del rilievo. Dietro a san Girolamo, nel rilievo di Desiderio da Settignano, c’è una giovane figura urlante che fugge per paura dei leoni: iconografia ripresa dallo Scudo dipinto di Andrea del Castagno, 1450-57, alla National Gallery di Washington. Desiderio riprende da Donatello: la tecnica, l’idea del rilievo autonomo e anch’egli gioca sulla cornice, ma in due punti la rappresentazione esonda dalla cornice: la croce a sx a rompe l’unitarietà cornice poiché la sovrasta, così come dall’altra il dito della figura fuggente. I meccanismi inseriti da Donatello nei suoi rilievi a stiacciato vengono poi elaborati e reinterpretati da artisti della generazione successiva. Donatello a rilievo realizza anche Madonna Pazzi, 1420-25, marmo, una Madonna col Bambino, tema fondamentale nel 400 fiorentino. l’opera è detta Pazzi perché viene dalla collezione famiglia Pazzi di Firenze, ma poi venduta allo Staatliche Museen di Berlino da Stefano Bardini nel 1886 dove era in contatto con Wilhem Bode, il curatore del museo in germania, interessato alle opere rinascimentali. Nel trasferimento da Firenze a Berlino l’opera si ruppe e ancora oggi sono visibile le fratture. I nuovo soggetti si trovano in una scatola prospettica, dove gli stipiti sono in prospettiva. Stiacciato. Qua emerge l’invenzione dell’umano di Donatello, nell’intimità tra madre e figlio, che, di profilo, uniscono le loro fronti e i nasi: il rilievo si caratterizza così di una grande dolcezza, che ancora non si era vista nelle rappresentazioni. Oltre all’innovazione data dalla rappresentazione dell’intimità tra 27 anche temi profani, come i neonati in fasce presso lo Spedale degli Innocenti o il Fregio antiquario del 1490 che Lorenzo il Magnifico si fece realizzare per la Villa di Poggio a Caiano. Grazie al nipote di Luca, Andrea la bottega andò avanti fino alla metà del 500, esportando opere anche al di fuori della penisola. Architettura e pittura: riflessi tra le arti Brunelleschi dopo il primo viaggio a Roma cercò di carpire i segreti delle proporzioni degli edifici classici, fondamentali nelle sue prime progettazioni. Masolino da Panicale (1383-1440) nella Cappella Brancacci (Chiesa del Carmine), dove collaborò con Masaccio, realizzò la Guarigione dello storpio e la Resurrezione di Tabita, scene che si svolgono all’interno di un’architettura civile. L’affresco venne realizzato tra 1424-25 e mostra una vera e propria Firenze di inizio ‘400. Sulla sinistra troviamo un porticato aperto (percorribile) sulla piazza con esili colonnine: evidente è come Masolino cercò di creare delle quinte prospettiche, sicuramente rimase colpito da un’architettura reale fatta tra 1424-25 a Firenze: un porticato aperto, che dialogava con la piazza. Si tratta della loggia dello spedale degli innocenti. Spedale degli Innocenti Brunelleschi dotò lo spedale di un loggiato, un’ architettura rivoluzionaria, che venne addirittura rappresentata nella Cappella Brancacci da Masolino. L’opera gli venne commissionata dall’Arte della Seta nel 1419 ed era volta ad abbellire ed ingradire il plesso dell’orfanotrofio. Il loggiato venne innalzato tra il 1421-24 e quest’innovazione venne subito recepita nel 1425. Nell’orfanotrofio i bambini venivano accuditi ed istruiti fino alla maggiore età, erano bambini che le famiglie non potevano mantenere. I bambini venivano lasciati nella ruota per far sì che la madre potesse non essere riconosciuta: la ruota era nella finestrella, ora non c’è più, ma vi è un’ incisione dell’800 sopra che lo rappresenta. Brunelleschi progetta la costruzione in termini geometrici e aritmetici, dove egli riprogettò (era una struttura preesistente rimodernata dal 1419) il giardino centrale e la nuova facciata. Brunelleschi cercò di fare una struttura nuova e diversa, accogliente, adatta ai bambini e che garantisse un approccio amichevole. Brunelleschi infatti pensò ad uno spazio aperto sulla piazza di santissima annunziata con un porticato che facesse da tramite tra la città e la struttura interna. È un loggiato modulare che si affaccia su piazza dei servi, che si ripete e dialoga con lo spazio esterno e l’architettura interna. Brunelleschi riprende l’ architettura classica per creare una cesura con lo spoglio dell’architettura medievale: sceglie ordine corinzio, più elegante e snello, e con questo determinò le proporzioni dell’interno edificio. La facciata è giocata sulla bicromia, caratteristica fondamentale di brunelleschi: pietra grigia serena per le venature delle architetture e il bianco per il restante paramento murario. Con la restaurazione sono state aggiunte due porte dorate con apertura bislacca che hanno disarticolato la perfetta architettura brunelleschiana. Le colonne del loggiato sono esili e sono sovrastate da un capitello elegante e sono il punto di partenza per fare tutto il loggiato: ogni campata ha identica misura, con proporzioni derivanti dall’architettura classica, con arcate a tutto sesto che si impostano su colonne, che sembrano ricalcare i suoi studi sulla prospettiva. Il loggiato è così costruito: l’altezza di ciascuna colonna è pari a 18 volte il suo diametro e il rapporto tra l’altezza delle colonne e la loro distanza è di 2 a 3, con l’armonia delle proporzioni basate su calcoli matematici precisi diede vita ad una costruzione modulare: ogni campata è un quadrato con al centro un cerchio che lo divide a metà. Il meccanismo di proporzioni che troviamo nel loggiato deriva da vitruvio e in un’architettura così razionale brunelleschi ridusse al minimo l’uso di materiali: grigio pietra serena per gli elementi portanti (edicola che inquadra le finestre, archi, capitelli, colonna, cornice..) e intonaco bianco. Per la prima volta l’architettura qui è pensata in termini geometrici ed aritmetici. Tra un arco e l’altro, a tutto sesto che si impostano sulle colonne, vi sono delle terracotte invetriate: sono tondi che sicuramente erano vuoti nel progetto brunelleschian, ma sicuramente, l’inserimento delle terracotte, rappresentanti i bambini dell’orfanotrofio, 30 vennero inserite nel 1483, quando brunelleschi era già morto. Le terracotte sono eleganti, raffinate, belle e graziose ed attribuite ad Andrea Della Robbia. I putti all’estremità a dx e sx della loggia non sono robbiane, ma vennero aggiunte nell’ottocento, come le due logge estreme corrispondenti, fatte dalla fabbrica di porcellana delle docce. Nella Predella della Pala Strozzi del 1423 di Gentile da Fabriano, nella scena della presentazione di Gesù al tempio, si vede l’influenza dell’ architettura di Brunelleschi. Gentile è un pittore del gotico fiorito, elegante, non espressivo, ma nella parte destra con i due mendicanti c’è un porticato con capitelli corinzi, che richiama il porticato di Brunelleschi: nostante il gusto tardogotico percepì subito la rivoluzione dell’architettura brunelleschiana. Oggi questa scena della predella è conservata al Louvre ed è un tempera su tavola. La Porta del Paradiso di Ghiberti, realizzata con 10 riquadri più grandi, gli consentì di mettere in scena sfondi architettonici più complessi: nella formella con l’incontro tra Salomone e la regina di Saba vi sono architetture sullo sfondo, mentre in primo piano vi sono due personaggi sotto un arco acuto, con ai suoi lati un porticato aereo. Un altro porticato aereo è rappresentato nell’Annunciazione del 1440 di Filippo Lippi, era la pala d’altare per la Cappella Martelli in San Lorenzo a Firenze. È la prima pala quadrangolare in cui si vede influenza dell’architettura brunelleschiana: lo stesso Brunelleschi, che si stava occupando della ristrutturazione dell’edificio, auspicò che i nuovi altari dovessero essere dotati di pale con questo formato, piuttosto di polittici gotici, pertanto Lippi si attenne a tali richieste. Un altro elemento di derivazione brunelleschiana in questa pala è la perfetta prospettiva aerea con cui costruisce lo spazio, che la rende perfettamente misurabile: il pittore acquisì l’architettura e la prospettiva lineare di Brunelleschi. La scena si svolge all’interno di un loggiato all’antica che si apre con due arcate, mentre sul fondo mostra la fuga prospettica di un giardino urbano delimitato da palazzi. L’arcata di destra si vede emergere parte della veste e delle ali dell’arcangelo Gabriele, inginocchiato di fronte a Maria, che si mostra sorpresa. Il pittore hausato un espediente per poter bilanciare la rappresentazione: egli nell’arcata di sinistra costruisce un gradino su cui pone una coppia di angeli. Sorprendenti sono dei dettagli iperrealistici rappresentati da Lippi: in primo piano emerge una tarsparente ampolla di vetro, riempita d’acqua a metà, ma soprattutto che si trova in una nicchia che sembra essere stata costruita apposta per essa. Questo virtuosismo deriva sicuramente dalla conoscenza della pittura fiamminga, che consentivano giochi di luce e ombra. Il loggiato fu alterato tra 1438-40 quando venne costruito il piano nella parte superiore. Brunelleschi e l’invenzione della prospettiva Si assegna a brunelleschi l’invenzione della prospettiva lineare, ovvero una tecnica per rappresentare gli oggetti nello spazio per ottenere l’effetto della terza dimensione su una superficie bidimensionale e farli apparire come si vedono nella realtà da un punto di vista specifico, così da ottenere il senso della profondità, dei volumi e della distanza. Se oggetti aveva cercato di raggiungere questi effetti con la scatola spaziale ed accorgimenti empirici, brunelleschi studiò un rigoroso metodo matematico attraverso il quale era possibile individuare sulla superficie un punto di fuga corrispondente al centro dell’orizzonte corrispondente al centro dell’orizzonte verso il quale si dirige lo sguardo dell’osservatore. Nel punto di fuga convergono una serie di linee, ovvero direttrici che creano una gabbia spaziale entro la quale vengono inseriti gli oggetti secondo le loro relazioni proporzionali: ciò che è più vicino appare più grande, mentre ciò che si trova in lontananza appare più piccolo., secondo la distanza e la proporzione dell’oggetto. La prospettiva pertanto si configurò come uno strumento matematico attraverso cui era possibile individuare i rapporti proporzionali tra gli oggetti da collocare nello spazio. Ciò fu possibile perché durante la sua permanenza a Roma, brunelleschi ebbe l’occasione di studiare la proporzionalità delle architetture classiche e delle sculture antiche, e riuscì a cogliore la simmetria delle architetture e la il realismo delle sculture. Brunelleschi e donatello pertanto individuarono dei modelli di riferimento da imitare , cosa che per la pittura non fu possibile in quanto le pitture antiche andorono perdute: per questo la scultura gli farà da 31 traino. Con l’elaborazione di brunelleschi tuttavia anche la pittura poté rappresentare la simmetria e l’armonia. È una tecnica di rappresentazione razionale che permette di rappresentare la terza dimensione su un supporto bidimensionale, che consente di dare profondità alle rappresentazioni, da notare che precedentemente le rappresentazioni con profondità erano empiriche, non venivano seguite delle regole fisse, come i coretti nella cappella scrovegni, che ci danno senso di una profondità, ma lo elaborò con metodi empirici, non sa del punto di vista unico, elaborato a inizio 400 da brunelleschi tramite rigoroso metodo matematico, verso quel punto di fuga unico converge lo sguardo del riguardante. Nel punto di fuga convergono le linee prospettiche della rappresentazione dove vengono inserite le figure a diversi gradi di profondità. Quindi la prospettiva lineare è un metodo matematico scientifico preciso che fu una grandissima innovazione per gli uomini del tempo. Brunelleschi diffuse la sua opera con un esperimento scientifico in piazza del duomo: fece tavoletta di piccole dimensioni dove rappresentò con un punto di fuga unico e linee prospettico i tre lati del battistero che riusciva a vedere, cielo fatto con foglia d’argento. Poi lui fece foro nello specchio riflessa la sua costruzione prospettica con dietro il battistero. Così la prospettiva divenne una sorta di regola che lo stesso brune che volle diffondere: percepita da donatello nella predella del san giorgio di orsanmichele. Tra il 1419-25 forte l’impatto brunelleschiano con i suoi esperimenti, con lo spedale ecc. nel frattempo stava lavorando sulla cupola del duomo di firenze, opera per cui è maggiormente ricordato. Brunelleschi realizzò una tavola prospettica con disegnato il battistero di firenze per spiegare la prospettiva e questo ce lo dice il suo allievo, Antonio Manetti, ma oggi la tavola è andata perduta. Ci dice che al posto dell’azzuro del cielo lui avesse messo delle lamine metalliche per per riflettere il cielo reale e dipinse la veduta dell’edificio tirando le linee prospettiche da un punto di fuga centrale in corrispondenza di cui fece un buco: chi avesse guardato la tavoletta riflessa in uno spacchio attraverso il foro e posizionandosi nel punto in cui brunelleschi aveva fatto il disegno, avrebbe visto il battstero come dal vero, con le sue dimensioni e caratteristiche reali. Ne fece una seconda con la veduta di piazza della signoria. Brunelleschi lavorò anche come scultore: a lui è attribuito il Crocifisso ligneo in Santa Maria Novella e datato 1410-15, legno intagliato e dipinto. La composizione è serena, ma ciò che più ci stupisce è la resa dell’anatomia, tanto che l’opera sembra il frutto del rinascimento maturo. Ciò perché Brunelleschi aveva intrapreso un viaggio a roma verso il 1410, dove l’antichità classica suscitò l’interesse degli artisti in modo molto diverso rispetto alle rinascenze dei secoli medievali. Ricordiamo come Brunelleschi avesse patecipato al concorso del 1401 per istoriaire le porte del battistero, ma essendo il contesto fiorentino ancora un momento in cui il linguaggio rinascimentale si stava sviluppando e il tardgotico ancora era in vita, il concorso venne vinto da Ghiberti. Antonio Manetti, allievo di Brunelleschi, ci dice che il suo maestro, dopo aver perso il concorso, avesse fatto un viaggio a Roma per studiare le sculture antiche e le architetture romane(studiando tecniche costruttive, misurando anche i monumenti) e che con lui vi fosse recato anche Donatello. Ancora Roma non era una capitale artistica a causa sia della cattività avignonese (1309-77) sia dello scisma interno alla chiesa occidentale (1378-1417): probabilmente brunelleschi voleva che la repubblica fiorentina guardasse agli antichi valori civili della repubblica romana e questo è dimostrato da grandi intellettuali del tempo come Coluccio Salutati o Leonardo Bruni, che con i loro ideali promossero il recupero dell’antico di brunelleschi e donatello che fecero della scultura l’arte guida del periodo. Cupola di Santa Maria del Fiore Vediamo come nel 1860 la facciata del Duomo di Firenze non esisteva: la facciata era nuda e quella odierna venne fatta nella seconda metà del 400. La cattedrale era stata ricostruita agli inizi del ‘300 su disegno di Arnolfo di Cambio, ma senza che si riuscisse ad innalzare la cupola a causa delle sue dimensioni. A fine del ‘300 il rigoglio economico di firenze fece si che la copertura della parte absidale venisse terminata e che 32 Brunelleschi usa il proporzionale modulo cubico dello spedale degli innocenti, che si genera da colonne monolitiche di pietra ribattute sulle areti retrostanti dalle paraste. Il cantiere durò molto tempo tanto che l’ultima fase di costruzione corrispose al periodo successivo dell’ascesa di Cosimo de’ Medici (il vecchio) nel 1442. Per la decorazione degli altari Brunelleschi richiese delle pale d’altare quadrate e non più polittici gotici, in quante quelle quadrangolari rispecchiavano l’idea di semplicità e rigorosità delle proporzioni. Le proporzioni della sagrestia si riflettono nella scarsella, un vano rettangolare che ospita l’altare. L’apparato decorativo della Sagrestia Vecchia: su ogni lato si sviluppano grandi lunette a tutto sesto, sopra le quali si innalza una cupola, che simposta su 4 grandi pennacchi, dove si riconosce lo stemma mediceo con le palle rosse in campo d’oro. Sotto il tavolo liturgico in marmo, al centro della sgrestia, si trova il monumento funebre di Giovanni di Bicci de’Medici, morto nel 1429. Nella scarsella c’è un vano a pianta rettangolare che ospita l’altare, uno spazio architettonico dove risaltano i rilievi di Donatello: quelli sugli arconi, sui pennacchi e sui sovrapporta della sagrestia. Sulla trabeazione ci sono piccoli tondi in sequenza con teste di cherubino, nei sottarchi e nei pennacchi ci sono tondi più grandi decorati, realizzati da donatello. Nei tondi dei pennacchi sono rappresentate le storie di san giovanni evangelista, mentre nei tondi dei sottarchi ci sono le figure dei 4 evangelisti. La decorazione di donatello prosegue anche nei sopra porta ai lati dell’altare con i santi lorenzo e stefano da un lato e cosma e damiano dall’altra (protettori dei medici) e anche nelle porticine di bronzo che portano ai piccoli ambienti che affiancano l’altare maggiore. Donatello andò ad incrinare la perfetta bicromia voluta da Brunelleschi: se i tondi con i 4 evangelisti presentano le 4 figure bianche con fondo scuro (non intaccano molto), i 4 tondi dei sottarchi con le storie di san giovanni evangelista, invece, distrubano la rigorosa bicromia brunelleschiana perché sono policromi. In questi tondi donatello diverge dall’idea del suo collega, motivo per il quale, dopo i lavori in sagrestia vecchia, il rapporto tra i due si incrinò perché Brunelleschi stesso non approvava questo scarto policromo così evidente dei tondi con le storie di san giovanni evangelista. I tondi hanno il diametro di 2 metri, che Donatello realizzò in situ grazie ad alti ponteggi, sono in stucco policromo (cioè stucco dipinto), per strati sovrapposti infatti si vede la gradazione, come se Donatello avesse usato lo stiacciato del marmo anche sullo stucco, ma in questo caso dovette scavare strati di questo materiale per rilevare le figure e le architetture: i partiti architettonici li ha ricavati con righelli e strumenti taglianti in modo da ricavare strati fino ad aggiungere quello di fondo, mentre le figure, per farle rilevare, le costruì su supporti di chiodi. I chiodi avevano teste grandi, vennero piantati sullo sfondo e vi mise lo stucco sopra per renderle plastiche, volumetriche e sporgenti, sono figure dalla grande espressività e dalla gestualità concitata. In queste opere donatello ci mostra la sua completa comprensione della prospettiva: nella scena con la Resurrezione Di Drusiana, la scena stessa è contenuta nella scatola prospettica, vi sono archi rigradanti verso il fondo e gli archi in prospettiva dello sfondo stesso. Nella Visione di San Giovanni a Patmos e nel Martirio Di San Giovanni si vede bene la costruzione prospettica. Nel martirio la policromia è ottima, con le nuvole in cielo ed il divampare del fuoco sotto il pentolone in cui è contenuto il santo. La scala scende verso il nostro spazio è fortemente realizzata in prospettiva, è tagliata in diagonale e congiunge lo spazio della scena con quello del riguardante, sintomo del tentativo degli artisti 35 rinascimentali che volevano coinvolgere emotivamente l’osservatore. La scena Dell’ascensione Di San Giovanni ha architetture molto complicate in cui i porticati e le quinte scenico-architettoniche si soprammettono ed è quasi difficile per noi capire come queste architetture si dispongano nella scena, ma anche qui c’è volontà di voler inserire gli osservatori nella scena grazie ad una figura tramite: è quella che in basso cerca di arrampicarsi verso l’alto per osservare meglio l’assunzione di san giovanni. La composizione di donatello è immaginifica e mostra una grande sapienza nella creazione dello spazio e di creare figure che attraggono l’attenzione del riguardante da un punto di vista così ribassato, anche la policromia rende ancora più vivaci le scene e cattura la nostra attenzione. Nei tondi con le storie di san giovanni evangelista quindi abbiamo delle rappresentazioni espressivamente efficaci, mentre nei 4 tondi con gli evangelisti, donatello giocò con l’effetto della figura singola e della meditazione, infatti gli evangelisti sono concentrati sulla redazione del loro vangelo, sull’effetto della citazione dell’antico che si vede in molti dettagli: ad esempio l’ara su cui poggia il bue alato di San Luca e come il giaciglio su cui san luca si appoggia, che è una sorta di trono. Addirittura san luca è vestito all’antica. San Giovanni è una figura originale, nelle vesti di un vecchio saggio su un trono classico con i putti che sorreggono ghirlanda e volute classiche. San giovanni si appoggia su un’ara classica, anche questa con ghirlande vegetali sostenute da teste di putti. San giovanni medita con gravità e forte espressività. Rispetto alle storie di san giovanni evangelista, nei tondi con i 4 evangelisti, donatello fa meno ricorso alla policromia: vi è il bianco per venature ed elementi architettonici, sfondo scuro, la doratura per alcuni elementi come l’aureola del santo ed altri elementi decorativi. Decorata è anche la piccola volta celeste del piccolo ambiente dove si trova l’altare, volta celeste dipinta dal Pesello nel 1442 (più avanti rispetto al momento in cui venne realizzata la cappella stessa). Sulla volta il cielo rappresenta il cielo astrologico, il giorno della venuta a firenze di Renato d’Angiò, re di gerusalemme, che avrebbe potuto condurre una nuova crociata = alto valore simbolico. La decorazione interna delle porte che servono per accedere alla sagrestia sono state anch’esse decorate da donatello: Santo Stefano con una pietra in testa perché venne lapidato e San Lorenzo con la sua graticola perché fu bruciato. Dall’altro Cosma E Damiano, i santi taumaturghi. I santi sono in stucco bianco su sfondo scuro, con le aureole decorate d’oro, all’interno di una cornice con delle piante che nascono da anfore, di gusto classico. Le teste dei santi presentano un potente modellato con lineamenti esasperati volti a creare un effetto drammatico. Anche queste figure, come quelle dei tondi dei sottarchi e dei pennacchi, vennero realizzate in situ, dipinte di bianco con le bordature dorate nelle vesti e nelle aureole e con lo sfondo scuro azzurrognolo (oggi ossidato e quindi ancora più scuro), che richiama le soluzioni di andrea e luca della robbia: anche i colori di queste rappresentazioni risultarono essere troppo vivaci nel progetto brunelleschiano e ha portato ad una critica mossa dallo stesso Brunelleschi a Donatello. Donatello venne incaricato anche di realizzare le due porticelle bronzee (una detta porta dei martiri le fece tra 1433-43) a due ante: ognuna con 10 riquadri (5 per lato), sono molto semplici e noto è il rifacimento all’antico: donatello infatti sembra riprendere i dittici consolari in avorio di età romana, come ad esempio il dittico di stilicone del 400 dc in avorio, conservato nel tesoro del duomo di monza. Donatello quindi conferisce una struttura molto semplice alle due porticelle, dove entro i 10 riquadri raffigura in ciascuno due figure disposte frontalmente, in modo più o meno simmetriche, ma con posizioni quasi instabili e gesti decisamente espressivi e talvolta caricaturali. Sono santi, profeti, filosofi antichi che discutono tra loro animosamente, animosità che si riflette nello svolazzare delle vesti e nei volti. L’accentuazione dell’espressività di queste figure andò incontro a qualche critica e Alberti sembra riferirsi a queste figure nel de pictura in modo molto critico: secondo lui i filosofi sono troppo vivaci, sono troppo schernitori, poi alcuni sono dei martiri e hanno nelle mani le palme del martirio e per alberti dovevano essere rappresentati in veste di meditatori, ma donatello voleva proprio che la porta fosse vivace grazie a queste figure. L’ultimo importante elemento di donatello nella sagrestia vecchia è il monumento funebre poco preso in esame perché non ben visibile: il Mausoleo di Giovanni De Medici e la Moglie Piccarda. Il mausoleo, pur essendo al centro del vano, è poco visibile perché si trova 36 sotto il tavolo della stessa sagrestia, mobilio fondamentale dal momento in cui nella sagrestia si preparavano tutte le funzioni della messa e anche il sacerdote. Il monumento è di Giovanni Di Bicci De’medici, il padre di Cosimo il Vecchio e vero fondatore della dinastia medicea, che morì nel 1429. Il figlio Cosimo fu l’esecutore del testamento e nel 1433 pagò per la realizzazione di questa tomba fatta da donatello con la collaborazione del buggiano, collaboratore di Brunelleschi. Il sarcofago, all’antica, venne fatto da Donatello sull’esempio di un sarcofago che aveva già realizzato per Baldassarre Cossa nel Battistero di Firenze del 1424, era Giovanni XXIII, antipapa eletto nel 1413 e deposto nel 1415 nel concilio di Costanza, che aiutò i Medici e per questo la sua tomba venne dificata nel Battistero fiorentino: la sua tomba era conosciuta da Cosimo, che volle che quella del padre avesse la medesima struttura. La tomba di Baldassare Cossa era di impianto medievale, stratificata con in alto il baldacchino con la lunetta dove è rappresentata la madonna col bambino e sotto il gisant sopra il cataletto che insiste su un sarcofago all’antica con effigiati due putti che sorreggono un cartiglio con il nome del defunto, luogo di morte e la datazione della realizzazione della tomba. Cosimo volle un sarcofago per il padre fatto da Donatello e il Buggiano, con coperchio classico al posto del cataletto. Su una fronte del sarcofago c’è una coppia di angeli che regge una pergamena sul quale c’è l’iscrizione, come nel monumento di Baldassare Cossa. L’azione degli angeli si svolge mentre lo guardiamo quindi c’è un effetto di verità e non è un’azione sospesa. Sull’altra fronte c’è un’altra coppia di angeli che tengono una tavoletta all’antica con un’iscrizione in veri a cui Donatello conferisce una forma trapezoidale giocando con la prospettiva: è come se Donatello l’avesse inclinata per farcela leggere meglio. Oggi l’entrata della sagrestia è diversa da quella di un tempo: entrando al tempo probabilmente la prima fronte visibile del sarcofago era quella con la tavoletta classica, ma l’entrata del tempo venne coperta con la tomba di piero Giovanni De’ Medici realizzata dal Verrocchio. Con l’obliterazione avvenuta con il monumento del Verrocchio, la visione del monumento di Giovanni De’medici non corrisponde più a quella originaria. Il monumento venne posto sotto il tavolo secondo la politica della dissimulazione dei Medici: questi, prima di diventare granduchi, gestivano la politica fiorentina senza dare nell’occhio, quindi la tomba di Giovanni De’ Medici è al centro della sagrestia più importante di firenze in San Lorenzo, ma viene appunto dissimulata perché si trova sotto il tavolo. Donatello però cercò di indurre il nostro sguardo verso il monumento attraverso degli elementi costruttivi: il tavolo è retto da 4 pilastrini angolari e al centro dei lati lunghi troviamo due colonnine tuscaniche bronzee, che si distinguono dal bianco di tutto il monumento, elementi che appunto catturavano lo sguardo. Inoltre da queste colonnine sembra uscire qualcosa che arriva al di sopra del tavolo: dal capitello della colonnina infatti parte un cespuglio di edera in bronzo dorato che varica il bordo del tavolo e lambisce un disco bronzeo su cui si trova lo stemma mediceo: le palle dei Medici. L’edera è il simbolo dell’eternità e indica che toccando il simbolo dei medici significa che il segno della famiglia perdurerà nel tempo con la dinastia. Donatello riesce a creare uno strumento di coinvolgimento del riguardante. La sagrestia vecchia, luogo così dimesso fu un luogo fondamentale non solo per l’opera brunelleschiana ma anche per l’innovazione donatelliana. Le invenzioni di Brunelleschi saranno fondamentali per firenze, specilamente per quanto riguarda l’allestimento interno delle chiese: ad esempio San Lorenzo, la cui struttura viene esemplata secondo la bicromia di Brunelleschi, dove gli elementi portanti sono in pietra serena e gli elementi murari in intonaco bianco. San Lorenzo già iniziata nel 1419, qundo Brunelleschi stava lavorando per lo Spedale degli Innocenti. Struttura interna di San Lorenzo la troviamo anche in Santo Spirito, iniziata invece nel 1428: anche qui vi è una costruzione modulare attraverso il ripetersi delle campate. In San Lorenzo Brunelleschi progetta la costruzione di cappelle che dovevano essere tutte della stessa dimensione, poco profonde, senza pittura a fresco, con altari poco profondi e addossati alla parete con pochi elementi decorativi: chi comprava una cappella in San Lorenzo doveva decorarla secondo le modalità prestabilite da Brunelleschi: gli altari delle cappelle laterali dovevano essere tutti uguali, così come la forma delle pale d’altare, ad esempio la pala del Sogliani con la crocifissione del Pantacrazio. La forma delle pale d’altare in San Lorenzo dovevano avere forma 37 Attribuito a Masaccio solo nel 1961 da Luciano Berti per una serie di innovazioni. Ha la forma di un polittico in quanto l’innovazione di Brunelleschi con pala riquadrata si innesta a partire dagli anni 30 del ‘400. Il polittico è diviso in 3 scomparti. Luciano Berti fu colpito dal fatto che la madonna in trono è costruita secondo un punto di fuga unico: tutte le direttrici convergono in un punto di fuga unico, quindi Masaccio conosceva le regola della prospettiva; anche i santi ai lati hanno matrice prospettica: è la prima opera pittorica in cui viene applicata prospettiva brunelleschiana; lo spazio del trittico è unificato da punto di fuga unico. Al centro troviamo la madonna con bimbo con angeli ai lati che ci danno spalla, a destra i santi Giovenale e Antonio e abate, a sx Bartolomeo e Biagio. Berti attribuisce la pala a Masaccio anche la per la naturalezza della rappresentazione: da notare il bambino, lui non è ieratico come nelle opere precedenti, ma gli conferisce una vivacità ed una struttura fisica tipica dei bambini, infatti lo stesso bambino di Masaccio si mette le dita in bocca. Così la madre tiene i piedini del bambino in modo delicato: probabilmente dato dall’osservazione della realtà. Le carni sono vere, non più bianche, ma rosa e più intense sulle guance. L’angelo ha capigliatura a ciocche che si vede anche in donatello e nanni di banco tipica di sculture classiche, noi riusciamo a vedere la guancia e nessun altra parte del volto. Masaccio fece tutto ciò in un contesto tradizionale: forma del polittico e fondo oro che poi scomparirà. Sempre al suo periodo giovanile appartiene la Celebrazione di una nascita del 1422 allo Staatliche Museen di Berlino, perfetta costruzione prospettica dell’elemento architettonico che ci fa capire come masaccio avesse perfettamente acquisito gli strumenti prospettici di Brunelleschi che Donatello stava applicando nella predella del San Giorgio di Orsanmichele. Nel retro di questo disco d’appalto c’è un putto che gioca con animale: il suo volto è simile a quello del polittico a San Giovenale, motivo per cui gli è stata attribuita. Masaccio e Masolino Masaccio a Firenze conobbe Masolino da Panicale (1383-1447) e i due iniziarono a collaborare insieme. Sant’Anna Metterza 1424-25 per la chiesa di Sant’Ambrogio a Firenze, dal 1919 è passata agli Uffizi tempera e oro su tavola Sappiamo la storia grazie a Vasari e le sue “Vite”, di cui sono state redatte due edizioni: la torrentiniana nel 1550 e la giuntina nel 1568, differenti perché lui viaggiò nel periodo di mezzo tra le due, operando dei rimaneggiamenti al suo scritto. Nell’edizione giuntina lui assegna la Sant’Anna Metterza interamente a Masaccio, ma nel 1940 roberto Longhi, celebre storico dell’artedel XX secolo, disse che secondo lui l’opera era frutto della collaborazione tra Masaccio e Masolino: secondo Longhi, Masaccio ha fatto la Madonna col bambino e l’angelo con il cangiantismo verde e rosso della veste e la capigliatura totalmente diversa, così come il carnato. La Madonna ha lo sguardo grave, ma un carnato reale, un corpo pesante che la rende fisicamente presente: insomma, si nota come la madonna e il bambino siano due figure solide e volumetriche. Nonostante l’aulico fondo oro e le aureole piatte, i due sono manifesto di una concretezza trdimensionale: il bambino Gesù si contraddistingue anche per un attento studio anatomico. Sant’Anna invece è più innaturale, mentre il bambino è una figura vivace che è in intimità con la madre, ha le guance rosse, lo sguardo vivido, capelli biondi e mossi. La Madonna di Masaccio è seria ed assorta perché prevede cosa accadrà, ma è una donna vera con capelli raccolti sotto il velo, sant’anna invece è grinzosa, sembra un manichino, non è una citazione della realtà ed ha la testa più grossa. L’angelo di masaccio ha la capigliatura al vento e cangiantismo della veste. Quello di masolino è elegante, tardogotico. Masaccio e masolino collaborarono proprio perché i due stessi non notavano la differenza tra i loro linguaggi artistici: in quel momento i due linguaggi ancora convivevano. Milkroz Boskovis parla della natura della collaborazione tra i 40 due artisti: masolino è un artista del gotico cortese tendente al neogiottismo, ma che non cambiò il suo stile quando iniziò a collaborare con l’innovatore masaccio. Quindi, nonostante le aureole bidimensionali, la madonna e il bambino presentano una concretezza tridimensionale. Dopo Sant’Anna Metterza, a Masaccio venne commissionato: Polittico Di Pisa 1426 National Gallery di Londra tempera e oro su tavola Il polittico venne commissionato da Ser Giuliano Di Colino Degli Scarsi per le sue cappelle, dedicate a San Nicola e San Giuliano, nella Chiesa del Carmine a Pisa. Il polittico venne smembrato nel ‘600 e venduto a pezzi, che si trovano oggi in diversi musei. Ser Giuliano era banchiere e notaio, committente importante che commissionò anche la Madonna dell’umiltà a Gentile da Fabriano, oggi e al Museo Nazionale di San Matteo a Pisa, dove la rappresentazione è bidiminsionale e tutto è appiattito sullo sfondo e sul nero mantello della Vergine, fatto tra 1420-23, tempera e oro su tavola. Il polittico di Pisa è caratterizzato dal nuovo linguaggio rinascimentale. Pisa, dopo un periodo sotto Firenze, ritornò indipendente e nel 1426 ospitò i più importanti artisti del rinascimento: Masaccio, Donatello e Michelino da Besozzo nel monumento del cardinale Rainaldo Brancaccio, in marmo, fatto tra 1426-28, nella Chiesa di Sant’Angelo a Nilo (Napoli). Ha il gisant tradizionale, poi vergine con bambino e angeli, in fronte del sarcofago vediamo lo stiacciato di Donatello con l’assunzione della Vergine. Anche Brunelleschi nel 1426 era a Pisa per fare la fortificazione di Vico Pisano per salvaguardia del territorio, egli ridisegnò la rocca. La descrizione del polittico di Pisa di Vasari ci ha permesso di ricostruirlo e ci dà informazioni: dice che si trovava in una delle cappelle del tramezzo e che nella pala centrale c’è la madonna con bambino e gli angeli musicanti e che la vergine era affiancata da San Pietro e San Giovanni Battista a sinistra e a destra da San Giuliano e San Niccolò che si pensa che fossero disposti su piani diversi rispetto alla madonna col bambino, seguendo delle regole prospettiche. Nella pedrella, costituita da 5 scenette circa, ci sono le storie di tutti e quattro i santi sovrastanti, al centro la visitazione dei magi e altri santi: oggi questa è conservata allo Staatliche Museen di Berlino. Vasari dice anche che ci sono dei cavalli “ritratto dal vivo”, cavalcati da uomini vestiti secondo la moda contemporanea di Masaccio. Alla fine delle storie della predella c’era la crocifissione. La madonna col bambino: su un bellissimo trono forte e architettonico, costruito con le linee di fuga che convergono in un punto di fuga unico. Il trono è classicheggiante con in basso, alla base, un richiamo alla scultura antica, che lui trasse dalla stessa pisa, con la strigidatura. Si vede la volontà nel creare un collegamento con l’osservatore: l’angelo a destra della vergine ci guarda. Ai piedi della madonna col bambino ci sono due angeli musicanti. Il bambino è vivace, intenso e mangia l’uva, prendendo i grappoli dalla mano della madre, mentre si porta le dita in bocca. Grazie agli elemnti che Masaccio inserisce e ai gesti dei personaggi, riesce a coinvolgere l’osservatore mediante io senso della vista, l’udito per angeli musicanti e il gusto perché il bambino mangia l’uva. L’aureola del bambino è uno scorcio. Su richiesta del committente, Masaccio realizza un polittico ancora tardogotico su sfondo oro, probabilmente nel registro principale la composizione era unificata in un solo spazio. Nella pala centrale c’è la madonna col bambino: Masaccio cerca di inserirci nel dipinto grazie alla vista, all’udito (angelo musicante sulla sx, ai piedi della madonna) e il gusto (bimbo mangia uva che prende dalla mano della madre). Il bambino è vivace, non sembra un manichino, anzi, forte è la gestualità con cui si porta le dita alla bocca. L’aureola del bimbo, a differenza di quella dell’angelo accanto a lui, si vede di traverso e mostra la conoscenza della prospettiva brunelleschiana, mentre l’aureola dell’angelo non è vista in prospettiva (classica rappresentazione del 41 cerchio bidimensionale). La disposizione degli strumenti degli angioletti musicanti creano le quinte sceniche nella pala centrale del polittico, dove la vergine veste un mantello panneggiato, che aiuta a strutturare la sua figura. Il bambino sembra un piccolo ercole che si protende verso lo spettatore. Sopra la pala centrale, in una pala più grande dei santi laterali, è rappresentata la crocifissione che si trova al Museo Nazionale di Capodimonte a Napoli. Realizzata su fondo oro (mantiene la tradizione), rappresenta dei forte dei sentimenti. Ai piedi della croce c’è la Vergine che implora verso il figlio, a destra San Giovanni Battista, ma a dilaniarsi dal dolore, senza guardarci, è la Maddalena, in ginocchio con le mani al cielo; lei veste un manto rosso bordato d’oro, su cui si stagliano i suoi capelli sciolti, di una donna redente di Cristo, e biondi. Lei alza le mani al cielo in un grido di dolore e ci porta dentro l’intensità espressiva delle figure masaccesche. Grazie alla figura della maddalena, masaccio esplicita in questa scena la terza dimensione. Nel compianto di Cristo morto di Giotto nella cappella Scrovegni, le posizioni dei personaggi addolorati sono simili a quella di Masaccio, anche se prima, a filtrare le emozioni, ci fu Donatello. Cristo non è completamente prospettico: ha la testa completamente incassata nella cassa toracica, ma a capodimonte questa opera si vede ad altezza d’occhio, ma è un errore osservarla ad altezza d’ occhio, perché originariamente l’opera si trovava in alto, nella cimala, sopra la pala d’altare e questo comportò delle correzioni ottiche di Masaccio: il collo non poteva realizzarlo normale, se l’avesse fatto, a guardare l’opera dal basso, cristo sarebbe sembrato senza collo, così appiattì la testa sotto la cassa toracica: non si tratta di un errore, ma di una corretta interpretazione spaziale e prospettica della figura. A fianco della crocifissione c’erano santi: al Museo Nazionale San Matteo di Pisa c’è San Paolo, mentre Sant’Andrea è al Getty Museum di Malibù: queste sono figure inserite nello spazio, hanno una presenza fisica che non viene annullata dai drappi pesanti e prosperosi, anzi ci aiutano a percepire la loro intensità, anzi sembrano ritratti di personaggi a lui noti, infatti se si guardano i loro sguardi dolenti, sono molto intensi, sguardi verso l’alto, rivolti verso la crocifissione: è un’opera ricca di intensità espressiva che deriva probabilmente dalla conoscenza della ritrattistica e statuaria donatelliana. Nella predella del polittico di Pisa, Masaccio inserisce una storia narrativa in 5 scenette, ognuna delle quali corrispondeva alle figure soprastanti (da sempre luogo in cui era più facile narrare una storia, rispetto alla pala stessa): rappresenta l’adorazione dei magi che rispecchia la madonna col bambino: sulla dx arrivano i magi con un corteggio sobrio e dimesso, in un ambiente naturale brullo e sobrio, a dx capanna con madonna Gesù, Giuseppe, bue e asino. Il cielo è atmosferico e accurato è lo studio delle ombre dello scorcio delle aureole e della disposizione dei personaggi nello spazio. La capanna è realizzata prospetticamente e sorretta da una salda concezione spaziale, i magi si presentano con una severa solennità, dove l’unico elemento di lusso è rappresentato dalla seduta della Vergine, una sedia dalla forma della sella curule, ovvero la seduta da viaggio delle più alte magistrature romane; nell’adorazione si ritrova anche la rappresentazione del cielo atmosferico. Al di sotto dei santi Pietro e Giovanni Battista c’era la crocifissione di San Pietro a testa in giù con la decollazione del Battista. Forte intensità di pietro a testa in giù con la prospettiva delle piramidi che alludono a roma, e san pietro che sta per essere decollato e gesto dell’aguzzino, che sta per ucciderlo, colore molto intenso. Dall’altra parte San Giuliano che uccide ai genitori e sulla destra San Nicola che offre la dote alle tre fanciulle, con un gesto di magnanimità per permettergli di farsi una dote. Il santo si avvicina alla grata dove dormono le fanciulle per larciare le tre palle dorate. L’Adorazione si può confrontare in parallelo ad un’altra adorazione (più grande), quella realizzata nel 1423 da Gentile da Fabriano (oggi agli Uffizi, commissionatagli nel 1423 da Palla Strozzi), che mostra come nella Firenze del tempo convivessero i due linguaggi: tardogotico e rinascimentale. Il polittico di Fentile da Fabriano ha le cuspidi come un polittico tardogotico, con tre archi a tutto sesto (quello centrale più grande), ma la scena è un unicum, non è separata da colonnine tortili. Gentile racconta la storia dell’adorazione usando tutto lo spazio, rappresentandovi diversi momenti: la narrazione inizia in alto a sx con i magi che vedono la stella cometa e decidono di seguirla ed il corteggio dei magi prosegue nella lunetta successiva, fino ad entrare in città ed arrivare in primo piano dove c’è la vera e propria adorazione dei magi. 42 intorno a lui. A sinistra c’è Pietro che, arrivato al fiume, prende il pesce ed estrae la moneta per poi pagare il tributo; sulla destra il pagamento del tributo. A sinistra Pietro ha le vesti blu ed è inginocchiato sul fondo, mentre il gabelliere è vestito con calzamaglia e camicia rossa, le medesime che indossa nel momento della discussione con Cristo, anche se lì lo vediamo di spalle. Il tributo della moneta è una scena narrativa con un paesaggio sullo sfondo di montagne, alberi brulli digradati in profondità in modo proporzionale e il lago all’estrema sinistra, dove lo stesso paesaggio è illuminato da un cielo atmosferico solcato da nubi. I tre episodi sono allestiti entro un’unica scenografia, tridimensionale, dove masaccio ha applicato le novità prospettiche brunelleschiane al fine di realizzare una pittura di storia secondo le regole compositive della narrazione continua. Evidente lo studio dei volti, sempre più realistici, ritratti in prospettiva come l’architettura sullo sfondo. Da notare che la graziosa testa di Cristo è stata realizzata da Masolino, mentre il resto dell’opera è stato realizzato da Masaccio: infatti gli apostoli sono statuari e quasi donatelliani, dotate di aureole rappresentate ora in scorcio. Ogni personaggio ha la propria ombra proiettata a terra. Meraviglioso è l’incrocio di mano del gabelliere, in prospettiva di scorcio. Sulla parete di fondo, a sinistra della finestra nel secondo ordine in c’è la Predicazione di san Pietro di Masolino che, a differenza di Masaccio, non conferisce tridimensionalità alle sue figure e tantomeno profondità alla rappresentazione, infatti i personaggi si accalcano sulla montagna con una forte bidimensionalità. Pietro appoggia i piedi per terra ma sembra fluttuante, le figure sembrano prive di corporeità e manca il senso di profondità: Masolino non perde gli stilemi del tardogotico. Però vi è un filo rosso con le scene fatte da masaccio: San Pietro ha aveste blu e manto giallo, come nel tributo. Masaccio, tuttavia, dà più forza espressiva alla sua figura nel tributo, mentre masolino rappresenta principalmente una maschera. Nella parete di fondo, a destra della finestra, nel secondo ordine c’è il Battesimo dei neofiti di Masaccio, dove le figure sono corrette anatomicamente parlando e non usa la prospettiva inversa. La scenografia è studiata e la quinta scenica è caratterizzata da monti sullo sfondo, ben disposti in prospettiva e digradati in profondità, che in lontananza sovrastano le figure umane. San Pietro ci volge le spalle perché sta battezzando una schiera di neofiti che si spogliano, alcuni sono ancora vestiti, alcuni nudi tremano per il freddo. La scena è rivoluzionaria perché i giovani nudi sono anatomicamente perfetti, sono forti e dalla fisicità sconvolgente per i tempi di Masaccio, un corpereità finora vista solo nella scultura di donatello e non in pittura. Masaccio è attento non solo all’anatomia, ma anche a raprresentare le sensazioni del corpo stesso: realismo nella resa anatomica e nella reazione del corpo al freddo. Sono corpi atletici che probabilmente masaccio vide nei sarcofagi classici, ma che probabilmente usò anche dei modelli. Il neofita inginocchiato ha l’acqua che gli copre i polpacci e i piedi mentre San Pietro gli bagna i capelli: qui si vede un altro elemento di realismo con i capelli riccioluti che scendono poiché bagnati. Nella parete di fondo (sotto il battesimo dei neofiti) a destra dell’altare Masaccio rappresenta la Distribuzione dei beni e la morte di Anania che si oppone alla distribuzione dei beni: ambienta la scena in un mondo cittadino, dove le architetture sono carpite dalla contemporaneità di Masaccio, dunque l’architettura crea le quinte sceniche in cui grazie alla prospettiva vi inserisce le figure, prospetticamente costruite. Lo storpio assiste alla scena, poi la madre riceve i denari con il bambino tra le braccia, del quale emerge il sedere dalle vesti. San Pietro, sempre vestito di blu e di giallo, ha dietro un apostolo che ci guarda con sguardo dolente e un altro che guarda di profilo, creando un incrocio di sguardi, come se Masaccio avesse ripreso e riproposto il dialogo di sguardi e la scalatura dei volti dei 4 santi coronati in Orsanmichele di Nanni di Banco (anche gli apostoli del tributo posti a semicerchio riprendono la posizione a semicerchio dei 4 santi coronati di Nanni di Banco). Nella parete di fondo a sinistra dell’altare Masaccio rappresenta San Pietro che risana la propria ombra : il santo protagonista indossa sempre la stessa veste blu e gialla ed è accompagnato da pochi apostoli. La scena è ambientata in uno spazio urbano reso prospetticamente, spoglio, con un palazzo a bugnato con archetti sospesi e affiancato ad abitazioni più povere di cui riproduce anche gli sporti aggettanti tipici dell’epoca che servivano a conferire una maggiore spazialità ad edifici non molto grandi di per sé, mentre sullo sfondo vi è 45 un’architettura sacra con un portico, un frontone, una colonna corinzia: tutti elementi architettonici sicuramente visti a Firenze, dunque Masaccio riprende la vita quotidiana e probabilmente ricrea in pittura una via popolare della città di allora. Masaccio inserisce anche molti poveri all’interno delle scene, come nella distribuzione dei beni, che sicuramente vedeva in città tanto da rappresentarli in modo veridico anche nelle sue opere. Il pittore pone attenzione a sottolineare l’ombra del corpo di San Pitero che risana il povero e anche ai dati anatomici delle figure, che mostrano come Masaccio avesse fatto ricerca da uno studio reale, dal vivo. Nella cappella Brancacci, Masaccio fa un’esperienza fondamentale, prima di recarsi alla Chiesa del Carmine per farne il polittico e poi morire molto giovane. La cappella alla morte di Masaccio non era conclusa: i Brancacci vennero cacciati dalla città e quando rientrarono i grandi artisti degli anni venti erano scomparsi. I lavori ripresero a partire dagli anni 80 del ‘400 e come artista per completare i lavori scelsero Filippino Lippi (1457 Prato- 1504 Firenze), figlio di Filippo Lippi, uno dei colleghi di Masaccio. Masaccio era considerato un grande artista da parte dei pittori della nuova generazione e soprattutto la cappella Brancacci fu luogo anche di formazione per i pittori fiorentini. Filippino nacque da una relazione illegittima del padre con una suora di Prato ed entrò subito nella sua bottega. Nel 1469 Filippo morì a Spoleto tanto che negli anni successivi Filippino continuò il suo apprendistato pittorico nella bottega di Sandro Botticelli, che influenzò molto la sua prima produzione artistica (come i tre arcangeli e Tobiolo 1477-78 alla Galleria Sabauda di Torino, tempera e olio su tavola trasportata su tela) , ma quando Filippino entra nella cappella nel 1480 e nel 1485 finisce le ultime due scene lasciate incompiute da Masaccio e Masolino, capisce come nel contesto fiorentino fosse importante ed influente il linguaggio masaccesco. In tutte le scene adotta uana composizione severa e semplificata senza prestare attenzione agli ornati, adeguandosi al linguaggio masaccsecso, seppur si nota la formazione nella bottega di Botticelli. Le scene che realizza sono la resurrezione di Teofilo, San Pietro in cattedra e la crocifissione di San Pietro nella parete sx, primo ordine: due eventi della vita di San Pietro ad Antiochia, che avvengono nelle due metà dell’opera. Storie derivano dalla Legenda aurea. Nella scena della resurrezione di Teofilo san Pietro e il figlio di Teofilo, morto 14 anni prima, viene resuscitato, azione per cui tutti gli abitanti Antiochia rimangono colpiti, infatti sulla destra vediamo la fondazione della chiesa con San pietro in cattedra. Essendo passato molto tempo, vediamo come la scatola prospettica sia costruita in modo perfetto; inoltre nell’opera c’è il ritratto di Masaccio. Nel primo ordine della parete destra c’è la scena con la disputa Simon Mago e la crocifissione di Pietro: la crocifissione di Pietro non avviene a Roma, ma infatti viene rappresentata nel vero luogo. A destra la disputa di Simon Mago a Roma, fuori dalle mura, davanti a Nerone con il gesto di condanna di simon mago e con la caduta dell’idolo pagano a terra che mostra la buona azione di Pietro, però Pietro per questo viene crocifisso, a sinistra, a testa in giù e gli aguzzini girano la croce. Filippino Lippi imita Masaccio in alcune figure secondarie, in altre invece si vede il linguaggio della sua formazione, di fine 400, quello della bottega di Botticelli: si nota infatti in alcuni volti e in alcuni panneggi una resa più grafica ed elegante. Questa esperienza nella Cappella Brancacci nessuno sarà in grado di alludere alla conoscenza di Masaccio e della scultura donatelliana. La Trinità in Santa Maria Novella È l’opera che segna la fine delle opere fiorentine di Masaccio. 1427 affresco. Quest’opera rappresenta un nuovo epilogo nell’uso della prospettiva: Masaccio usa questo strumento per affrescare un’architettura illusionistica sulla parete della basilica fiorentina, tale da far sembrare “bucato quel muro”, come disse il Vasari. La raffigurazione consiste in una sorta di arco trionfale all’antica al di sotto 46 del quale si erge Dio padre, una figura monumentale, con che sorregge la croce da cui pende il figlio, invece la colomba dello spsirito santo plana in picchiata sopra la testa di Cristo, verso lo spettatore. Ai piedi della croce vediamo i due dolenti che inquadrano le figure della trinità, mentre sulla soglia di questo spazio sacro stanno pregando in adorazione eterna Berto di Bartolomeo e la moglie a indicare quasi che per l’uomo il cammino della redenzione è lungo e faticoso. Sicuramente al di sotto della figurazione vi era una mensa d’altare che con l’affresco probabilmente andava a conferire al tutto il senso di una pala d’altare, una cappella funebre. Nel registro inferiore si trova figurato uno scheletro che allude a quello di Abramo, che ricorda come la passione, la morte e la resurrezione di Cristo abbiano sconfitto la morte di ogni uomo. Masaccio, ovviamente, si stacca dalla tradizione medievale: non è importante la rappresentazione gerarchica dei personaggi, ma la realtà e la prospettiva sono molto più importanti: è necessario creare uno spazio tridimensionale in cui inserire in modo proporzianale le figure e digradando sia queste che gli oggetti nello spazio. L’archiettura pittorica dell’opera sembra impostata da Brunelleschi proprio per l’utilizzo di elementi architettonici antichi come paraste, capitelli compositi. Dopo l’esperienza fiorentina, Masaccio si trasferisce a Roma, dove ritorva Masolino, il quale era tornato dall’Ungheria: insieme lavorarono per l’entourage di Martino V. Masaccio morì a roma nel 1429. Allievi di Masaccio: Sassetta, Beato Angelico, Filippo Lippi Giovanni Di Stefano Detto Il Sassetta (1400-50) Originario di Cortona, ma protagonista nel primo ‘400 della pittura senese, Sassetta recepì subito le novità della pittura fiorentina. Polittico per l’arte della Lana 1423-24 Siena Il polittico è stato smembrato: nelle scene rimaste si comprende come le novità di Brunelleschi si fossero diffuse anche al di fuori del contesto fiorentino, come ad esempio nel frammento di predella con Sant’Antonio battuto dai diavoli, alla Pinacoteca Nazionale di Siena, tempera e oro su tavola, rappresenta un cielo atmosferico e tre demoni che sembrano disporsi a semicerchio intorno all’eremita per dare il senso dello spazio, tuttavia le figure di quest’artista mantengono una sottigliezza gotica che andrà sempre a caratterizzare le sue opere. Guido Di Pietro (Beato Angelico. Vicchio Del Mugello 1395 – 1455 Roma) Beato Angelico trova retaggi della pittura del gotico internazionale nel suo dipingere, in particolare era l’aspetto vezzoso delle sue figure e inoltre, si possono definire come pitture devote perché l’artista era un frate domenicano e veniva spesso chiamato dallo stesso ordine per lavorare nelle loro chiese. Filippo Lippi (1406 Spoleto – Spoleto 1469) Lippi apparteneva invece all’ordine carmelitano che prese i voti nel 1421 nella chiesa del Carmine a Firenze, egli fu il più fedele tra tutti i masacceschi nel contesto fiorentino. Madonna dell’umiltà e santi 47 La pittura di luce trova i suoi cardini nella prospettiva, nell’elaborazione di una composizione essenziale e lineare con un’ordinata narrazione della storia e un ordinato uso dei colori, che sono chiari e luminosi. Beato Angelico (1394-1455) Beato Angelico fu un grande artista che lavorò molto nel Convento di San Marco a Firenze, dove decorò anche le celle dei frati con scene di preghiera, meditazione, flagellazione. Una delle prime opere è il Trittico del 1429 che realizzò per il covento femminile domenicano di San Pietro Martire a Firenze, nel quale riecheggiava la lezione masaccesca del Polittico di Pisa. Anche qui la carpenteria presenta un fromato gotico, con figure che si stagliano sullo sfondo dorato. Beato Angelico unifica qua lo spazio del registro principale del polittico, dove la Vergina si caratterizza ancora per avere la grazia di una regina, ma ai lati, i santi, si caratterizzano per una solida statuarietà: in tre di questi si riconoscono anche le vesti domenicane bianche con il mantello nero. Il pavimento marmoreo è tipico della pittura dell’artista. Convento Di San Marco Michelozzo ne fu l’architetto ristrutturatore tra 1437-43 su finanziamento di Cosimo il Vecchio: Michelozzo realizza degli spazi che omaggiano l’idea dell’architettura brunelleschiana, dove il chiostro e la biblioteca presentano degli spazi razionali, ognuno dei quali è scandito dai moduli delle campate e con archi a tutto sesto. Beato Angelico, che di fatto era un frate domenicano e pittore, realizzò al suo interno importanti cicli figurativi, che determineranno il rapporto intimo tra egli e il luogo. A stabilire che Beato Angelico avrebbe affrescato le pareti del complesso di Michelozzo (oltre che le opere mobili per la chiesa) fu quello che all’epoca era priore e che poi divenne l’arcivescovo di Firenze: Antonino Pierozzi. Gli affreschi dell’Angelico risalgono al 1440 e lavorò nel complesso insieme alla sua bottega. Oggi i suoi affreschi creano quello che è diventato il Museo di San Marco. In cima alla scala che conduce al primo piano presenta la figurazione dell’Annunciazione, dove l’Angelico riesce a istituire un dialogo con la severità dell’architettura di Michelozzo: infatti il pittore rappresenta la scena all’interno di un porticato misurato e prospettico con all’interno la Vergine e l’arcangelo, che sono anche gli unici protagonisti della scena, priva di eccessi figurativi. Maria è seduta su uno sgabello fratesco e al difuori dell’edificio al di sotto di quale si trovano i personaggi, si caratterizza per un hortus conclusus, separato dalla restante natura mediante una palizzata di legno. La natura in questo affresco appare ridimensionata rispetto a come veniva realizzata dagi pittori del gotico internazionale. La pittura scaturita da Masaccio e poi evidente anche in quella di Beato Angelico era molto più adeguata per la povertà dei frati domenicani. TABERNACOLO DEI LINAIOLI: commissionato da arte dei linaioli nel 1433 e completato nel 1435, tempera su tavola. Oggi conservato al museo di san marco a firenze. La struttura architettonica venne realizzata da ghiberti, che disegnò edicola, timpano con dio padre e pilastri laterali in cui inserisce l’inserto ligneo. Le figure mostrano conoscenza di masaccio: citazione dei volti masacceschi. Tabernacolo ha ante che si aprono, al centro madonna e bimbo con intorno 12 angeli musicanti, che fanno da cornice e madonna seduta introno, cortinaggio e fondo oro (tradizione tardo gotica). Nelle due ante da una parte san giovanni battista e dall’altra san giovanni evangelista. Beato fa figure plastiche, saldate in terra, mantenendo ancora qualche legame con la tradizione, dovuto alla collaborazione con ghiberti e la sua bottega, infatti nel san marco e san pietro nell’altra parte delle due ante che ricorda il san marco in orsanmichele di ghiberti stesso. Il battista è vivo ed intenso anche nel volto. Angioletti hanno figure allungate, tardogotiche perché non reali, ma si adattano alla cornice e al suo andamento, senza una particolare attenzione alla prospettiva: commistione tra novità e tradizione tardogotica. Altare di San Marco: oltre ad affrascare le stanze del convento, Beato Angelico realizzò la pala per l’altare maggiore tra 1438-40, oggi conservata nel Museo di San Marco ed è un tempera e oro su tavola. La pala 50 venne donata da Cosimo dei Medici A San Marco perché vi sono rappresentati i due santi Cosma e Damiano, protettori dei medici, inginocchiati ai piedi della Madonna. La struttura è quella della sacra conversazione con madonna in trono e intorno la schiera di santi, dove emerge la costruzione prospettica. La profondità è data dal tappeto orientale, caratterizzato da trame complesse che ci servono per dare quelle direttrici che convergono nel punto di fuga unico, che corrisponde al collo della vergine (da insegnamenti di brunelleschi). La pala ha un formato quadrato, come quello richiesto da Brunelleschi per le tavole in San Lorenzo e che di lì a poco si sarebbe affermato come modello ufficiale per le pale d’altare rinascimentali. Anche qui, nello schema della sacra conversazione, vediamo la Madonna in trono al centro, con il bambino, inquadrata da una trabeazione, mentre intorno a lei si disponevano i santi, figure che un tempo stavano negli scomparti laterali dei polittici, ma che ora si riunificano in un unico spazio. Le altre figure disposte a semicerchio sono santi e beati legati all’ordine domenicano perché San Marco era entrato nel convento domenicano: rispettivamente a sinistra di maria vi è un gruppo di frati domenicani, rispettivamente: Domenico, Francesco e Pietro Martire. A destra della Vergine invece vi sono santi Lorenzo, Giovanni (onomastici del fratello e del padre di Cosimo de’ Medici) e Marco (titolare della chiesa). In basso, inginocchiati in primo piano, sono i santi Cosma e Damiano, protettori dei Medici, che donarono l’opera a San Marco. San Cosma è il santo a sinistra e ci sta guardando. L’opera è dominata da un punto di fuga unico, che si trova in corrispondenza del collo della vergine, in cui convergono le direttrici della composizione, che dipartono dal tappeto, dove Beato Angelico realizza anche una pala con la crocifissione. Fondamentale oltre alla prospettiva è anche il problema di rappresentazione della luce: i personaggi sono inseriti in uno spazio semiaperto (un orto conluso: gli spazi sono architettonicamente definiti con alla fine un muro di cinta, oltre il quale vediamo un paesaggio, un bosco). L’illuminazione è naturale e proviene dal retro, anche se risulta essere crepuscolare, ma il mantello di San Damiano, a causa della luce, cangia e diventa quasi dorato sul braccio davanti, quindi risulta esserci un’altra fonte di luce. La superficie del dipinto appare oggi impoverita rispetto alle sue originali condizioni: sicuramente i suoi colori erano più vivi. L’aspetto che aveva all’epoca della sua realizzazione ci è testimoniato dalle scene rappresentate nella predella in cui erano narrate le storie dei santi rappresentati, ma è stata smembrata: al Museo di San Marco di Firenze si trova ancora la scena con la Resurrezione del diacono Giustiniano, in cui si certifica la professione e le capacità miracolose dei santi Cosma e Damiano. Tuttavia l’aspetto curioso di questa scena è il fatto che sia ambientata in un luogo domestico, costruito secondo le regole della prospettiva e illuminato da una fonte di luce che entra nella stanza sia dalla finestra che dalla porta. È una luce particolare, che talvolta evidenzia dettagli delle tende e delle vesti, sicuramente frutto degli influssi della pittura di Jan van Eyck, che dalle Fiandre riecheggiò molto in Toscana. Nonostante il formato della pala sia quadrangolare e brunelleschiano, Beato Angelico creò pale d’altare anche simil polittico, ad esempio la Pala con la Deposizione, inizialmente commissionata a Lorenzo Monaco, che però morì nel 1424, quindi nel 1438 la commissione passò a Beato Angelico che finì l’opera nel 1443. Oggi la pala è consevata al Museo di San Marco a Firenze. La pala ha la forma di un polittico che, però, non presenta le colonnine che separano la tavola centrale da quelle laterali (come Gentile da Fabriano nell’Adorazione dei magi): il pittore aveva tutto la spazio a disposizione. I colori usati dall’Angelico sono volutamente delicati e liquidi per giocare con l’incidenza della luce e , dunque, in questo caso, per rappresentare un sole caldo e intenso mattutino, che si intride nella composizione e crea effetti di lucidità nelle vesti, nei manti e nell’intera composizione. Beato Angelico intorno agli anni 40 del XV secolo, era sicuramente entrato in contatto con opere della pittura fiamminga e ciò si nota nella particolare attenzione reticolare con cui realizza lo sfondo dell’opera: la città è rappresentata dalle mura merlate di Gersualemme, di cui l’Angelico rappresenta le singole abitazioni, l’una riconoscibile dall’altra; anche le montagne sono dettagliate ed evidente è una costruzione i cui contorni sono ben definiti e riconoscibili. I pittori fiorentini riuscirono ad entrare in contatto con le opere fiamminghe grazie al fatto che queste giunsero in Toscana per le vie dei mercanti. In un momento 51 successivo, Beato Angelico venne chiamato a Roma da Eugenio IV, che lo apprezzò come pittore durante la sua tappa a Firenze. Il pittore venne chiamato in concomitanza dei lavpri di Filarete, che nel 1445 inaugurò la Porta vaticana. L’Angelico rimase nella città almeno fino al 1449, anche se nel 1447 fece una sosta ad Orvieto, quando stava per essere eletto papa Niccolò V (1397-1455), che era un’umanista, il cui nome prima del pontificato era Tommaso Parentucelli. Fu proprio Niccolò V a commissionare all’Angelico il ciclo figurativo nella: Cappella Niccolina Nel palazzo apostolico,che è di fatto l’unica opera che il pittore ci ha lasciato a Roma. Egli dipinse le Storie dei santi Stefano e Lorenzo (1447-1448) con l’aiuto di Benozzo Gozzoli (1420-1497), suo allievo. La grandezza del pittore in questo ciclo fu la realizzazione di storie di santi e protomartini con una pittura solenne e degna di una commissione pontificia, oltre che molto diversa della pittura austera che si imprime negli affreschi nel Convento di San Marco a Firenze. Se si prende in esame la scena con Lorenzo che viene consacrato da l diacono Sisto II, sembra essere rappresentato il classico momento liturgico della consacrazione, mentre il pontefice è circondato dai suoi dignitari.il gesto compiuto dal pontefice avviene nello spazio di una chiesa che si erge su due colonne che solidamente sorreggono una porta architravata, secondo la tipologia delle basiliche paleocristiane. La curiosità è che Sisto II in realità è ritratto come Niccolò V, un espediente che l’Angelico adotta anche nella scena con Sisto II che affida a Lorenzo i tesori della chiesa. Anche qui il pittore realizza un unico vasto spazio per inscenare due sequenze: mentre i due soldati a sinistra stanno scardinando il portale rinascimentale del palazzo, sulla destra viene realizzato un cortile interno in cui il papa porge le ricchezze della chiesa a Lorenzo. I tesori sono rappresentati in modo molto dettafliato: si cerca di rendere l’abbaglio dell’argento grazie allo studio di una fonte di luce che illumina l’intero episodio tale da modellare anche i volti dei personaggi: l’evidenza ritrattristica mostra come Beato Angelico a Roma conobbe anche l’opera di Jean Fouquet, anche egli a Roma all’epoca di Eugenio IV. Intorno alla metà del 1400, l’Angelico tornò per un breve periodo a Firenze, per tornare a Roma, dove morì nel 1455: venne sepolto nella chiesa domenicana di Santa Maria sopra Minerva. Rinascimento e rinascenze: pittura fiamminga e francese Contesto storico Il 17 luglio del 1453 l’esercito francese di re Carlo VII sconfisse in Aquitania l’esrcito inglese, ponendo fine alla guerra dei cent’anni: finalmente l’Inghilterra possedeva solo il porto il di calais, il resto dei territori erano rientrati sotto la corona francese. Carlo VII salì al trono dopo una dura disputa sull’appartenenza della corona con il re di Inghilterra, Enrico VI che ne richiamava l’ereditarietà. Tuttavia Carlo, dopo la conquista di Orleans per merito di Giovanna D’Arco, venne incoronato presso la cattedrale di reims e avviò il paese alla costituzione del moderno stato nazionale francese, ereditato poi da suo figlio: Luigi XI. Carlo VII diede vita ad una corte in cui prosperarono le arti, ad esempio ricordiamo il famoso pittore quattrocentesco Jean Fouquet, che lo ritrasse, con sotto l’iscrizione che ci permette di riconoscere il soggetto, che lo stesso pittore definì vittorioso, probabilmente alludendo al conflitto secolare contro gli inglesi. In francia al tempo erano presenti dei feudi autonomi, come ad esempio la borgogna e la provenza. Il ducato di borgogna venne infeudato nel 1363 da re Giovanni il Buono per il figlio, Filippo l’Ardito, il quale seppe allargare poi i suoi domini anche alle fiandre e l’hainaut, ubicate molto più a nord. Si trattava di un ducato ricco e di rilievo strategico grazie ai mrcati fiamminghi, che godevano di autonomia amministrativa. L’ultimo duca di Borgogna fu Carlo il Temerario, che morì nel 1477, anno di scomparsa anche del ducato, che cessò di 52 commissionata a Nicolas Rolin, cancelliere della Borgogna e delle Ande, per la sua Cappella nella chiesa di Notre-Dame-du-Chastel ad Autun oggi conservata al Louvre olio su tavola La pala ha un fromato quadrato. Nicolas Rolin viene rappresentato nel dipinto mentre prega inginocchiato di fronte all’apparizione della Vergine con il bambino, che sta per essere incoronata dall’angelo che sopraggiunge. La scena si svolge in una dimora privata decorata con marmi policromi, dunque molto raffinata. Il cancelliere veste un broccato (tessuto lavorato a rilievo) raffinatissimo che mostra la sua ricchezza, mentre la veste della Vergine è dorata e nella doratura ci sono pietre colorate tagliate a cabochon, che amplifica il gioco di luce. La dimora si apre su un retrostante e sottostante hortus conclusus, di cui vediamo un fiume, che riverbera la luce proveniente dal cielo, mettendo in evidenza una città costruita da architetture gotiche, la rigogliosa vegetazione e con due figure che vi si affacciano (sull’hortus conclusus). Il pittore rappresenta anche i passanti sul ponte della veduta, ponendo grande attenzione al dettaglio, che sopperisce a necessità di narrazione. La capacità di raccordare la minuziosa descrizione di un ambiente interno e al tempo stesso di un paesaggio naturalistico era sconociuta in Italia, però si fece presto strada con Piero della Francesca. La corona che sta per poggiarsi sul capo della Vergine è un’opera di grande oreficeria, che probabilmente Jan van Eyck aveva studiato dal vivo, è molto policroma grazie alle pietre e le perle che sono incastonate nei gigli. La loggia è tradizionale e i suoi capitelli molto dettagliati, come seil pittore li avesse studiati dal vivo: ci sono capitelli con intrecci tardomedievali, in altri ci sono delle figure, in altri ancora ci sono delle infiorescenze. La luce arriva da molte parti: una luce diurna e limpida arriva dalla loggia, ma non è sufficiente ad illuminare i due personaggi, infatti un’altra luce filtrata arriva dalle vetrate laterali (scelta di complicazione per la figurazione). Un’altra fonte di luce proviene in alto dalle due vetrate colorate sullo sfondo. Jan van Eyck passò l’ultimo decennio della sua vita, dal 1431 fino alla morte nel 1441, a Bruges, dove realizzò una delle sue più grandi opere: Polittico dell’agnello mistico 1426-1432 per la Cattedrale di San Bavone a Gand in particolare destinata alla cappella del ricco mercante Joos Vyd olio su tavola oggi nella cattedrale per cui era stato realizzato; è ad ante chiuse. È una macchina d’altare di grandissime dimensioni, che ottenne anche molto successo. La pala è ancora tardomedievale nel formato e nel soggetto rappresentato con le ante dipinte su entrambi i lati. Ante esterne: in basso è ritratto Joos Vyd con la moglie, inginocchiato davanti alle statue di santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista, mentre nel registro sovrastante vi è l’Annunciazione con a coronamento le sibille e i profeti. La pala ad ante aperte: nel registro ineferiore si apre un lussuoso giardino con al centro l’agnello, simbolo di Cristo, mentre viene adorato dagli angeli e un’umanità varia, ma differenziata a livello gerarchico. Nello scomparto superiore dominano le figure di Dio Padre, la Vergine e il Battista, affiancate da un gruppo di angeli vivi e fisicamente presenti, mentre nelle ante laterali sono rappresentati a destra Eva, a sinistra Adamo. Ancora vi è una grande attenzione per i dettagli delle vesti, delle corone, degli strumenti musicali e delle fisionomia. Il chiarore del cielo illumina il paesaggio, dettagliato in ogni singolo elemento, ma è privo di rigore prospettico. L’iscrizione del polittico tuttavia rende omaggio ad Hubert, fratello di Jan van Eyck, che sappiamo morì nel 1426, anno in cui venne iniziata l’opera. 55 Hugo Van Der Goes(1440-82) Trittico Portinari 1477-78 olio su tavola Uffizi Ha due ante che quando si chiudono mostrano un’Annunciazione in bianco che simula due sculture marmoree. Il trittico rappresenta l’adorazione dei pastori a cui partecipano i santi Tommaso e Antonio Abate e dall’altra parte Santa Margherita e Maddalena. Nell’opera inginocchiati i membri della famiglia Portinari, rappresentati con la prospettiva inversa, infatti sono più piccoli. Portinari era un mercante a Burges. L’arrivo del trittico a Firenze fu importante: arrivò per mare a Pisa e da Pisa imbarcato lungo l’Arno per arrivare a Firenze il 23 o 28 maggio del 1483, un giorno di festa perché l’opera venne portata nella chiesa con una processione. Al centro Gesù nudo sulla paglia, la natività, e una Madonna inginocchiata che prega insieme ai pastori, il bue, l’asino (personaggi che danno un tono rustico al tutto).Dove ci sono le sante c’è l’acqua nel bicchiere trasparente e un vasetto con i fiori, indice di una grande attenzione al dettaglio. La luce: l’ambiente è aperto perché la capanna non copre tutto il cielo e un’altra luce proviene dal bambino, che illumina tutta una parte della rappresentazione, schiarendo ciò che ha intorno: ci sono sia la luce naturale che la luce divina. I memebri della famiglia Portinari, nei laterali, accompagnano la scena inginocchiati, mentre sono protetti da coppi di santi. Der Goes porta avanti gli studi di Van Eyk. I fiorentini studiarono quest’opera e ciò si vede nell’: Adorazione Pastori di Domenico Ghirlandaio(1449-94) Domenico Ghirlandaio appartiene alla generazione di artisti fiorentini della fine del XV secolo e lui fu uno dei protagonisti nello scenario della decorazione, mediante la realizzazione di cicli di affreschi, di cappelle familiari in edifici pubblici: a lui si deve la decorazione tra 1482-85 della Cappella Sassetti in Santa Trinita (Firenze) con le storie dell’adorazione dei pastori e di San Francesco e della Cappella Tornabuoni, tra 1485- 90, in Santa Maria Novella con le storie della Vergine e di San Giovanni Battista. In questi luoghi Ghirlandaio dovette cnfrontarsi con ambienti gotici di precedente costruzione, che lui però riadattò realizzando, in pittura, delle architetture antiquarie illusionistiche. Il padre del Ghirlandaio, che aveva lo stesso sprannome, era un orafo che si era specializzato nella realizzazione di ghirlande, ornameno tipico delle fanciule dell’epoca, da tenere sul capo (ce lo dice Giorgio Vasari). Ghirlandaio fece un apprendistato con Alesso Baldovinetti (era un pittore di luce) e anche lui studiò col Verrocchio nel 1470, elaborando poi un linguaggio artistico affabile, chiro e sereno. Per quanto riguarda la Cappella Sassetti, gl affreschi e l’Adorazione dei pastori: 1482-85 Francesco Sassetti fu un fedele amico di Lorenzo il Magnifico infatti ricevette l’icarico di dirigere il banco mediceo. Lui voleva che la sua cappella venisse decorata con il suo santo onomastico, Francesco d’Assisi, affidando il lavoro a Domenico Bigordi, detto il Ghirlandaio. E’ un’opera dove la citazione dell’antico è fondamentale, ci sono vestigia all’antica. Per quanto riguarda le storie francescane, decise di ambientare alcuni episodi a Firenze. La scena della Conferma della regola sembr un pretesto per realizzare una veduta, sul fondo, di Piazza della Signoria, di cui riconosciamo alcuni pezzi di architetture 8la loggia e la facciata di palazzo Vecchio); sul proscenio ci sono dei personaggi del giro laurenziano: a destra, vestito di rosso, F. Sassetti, affiancato dal figlio e dal Magnifico, di fronte i figli maggiori di Sassetti, mentre dalla scala centrale 56 sta salendo Angelo Poliziano con i rampolli di casa Medici. Per la Cappella il Ghirlandaio realizza una Pala con l’Adorazione dei pastori, 1485, tempera e olio su tavola che insieme alle due figure laterali inginocchiate (a destra la moglie del Sassetti, Nera Corsi, e a sinistra lui, affrescati) costituiscono una sorta di trittico. È rappresentata una madonna dell’umiltà che prega il bambino, come Van Der Goes, con i pastori, l’ambientazione è però classica: vi è una porta urbica e l’arco trionfale, le lesene della capanna, il sarcofago adattato a mangiatoia e persino il formato e la carpenteria la differenziano dall’opera del pittore fiammingo, anche se la composizione è ripresa dal trittico Portinari, così come evidente è il verismo dei pastori e dei committenti come omaggio alla pittura fiamminga. Per quanto riguarda la Cappella Tornabuoni: 1485-90 Affresco Santa Maria Novella Mentre i lavori nella Cappella Sassetti stavano per finire, Ghirlandaio firmò il contratto per affrescare la cappella maggiore di Santa Maria Novella. Il committente fu lo zio del Magnifico, Giovanni Tornabuoni, il quale richiese la rappresentazione delle Storie della Vergine e di San Giovanni Battista. Due episodi in particolare riassumono le caratteristiche principali del ciclo: nella Natività della Vergine lobstesso Vasari riconobbe diligenza vista la qualità illusionistica della finestra che illumina la camera, illudendo chi guardava la scena; descrive anche la quotidianità della scena, l’atteggiamento delle donne che in modo anche materno si prendevano cura della bambina. Si ratta delle donne della famiglia Tornabuoni. La camera non è ambientata al tempo della nascita della Vergine, bensì in termii di arredi e architetture vediamo una ricca camera fiorentina di fine ‘400 con spalliere e fregi intagliati all’antica. Una camera simile è anche nella Nascita di San Giovanni Battista. Nella scena dell’Annuncio a Zaccaria della nascita el Battista al tempio troviamo il culmine del richiamo all’antico grazie al fatto che la scenografia realizzata si ispira as un arco romano. Ad assistere all’apparizione dell’angelo ci sono membri della famiglia Tornabuoni e anche alcuni personaggi della cerchia medicea: in alto a destra vi è una targa la cui scritta venne dettata proprio da Angelo Poliziano (rappresentato anche nella scena) con lo scopo di esaltare la grandezza di Firenze attorno al 1490 grazie alla politica del Magnifico, che non cita direttamente, ma chiaro è il riferimento a lui. Beato Angelico (1394-1455) I colori che usa derivano dalla conoscenza della pittura fiamminga, ad esempio nella Madonna col bambino O Madonna di Torino, oggi alla Galleria Sabauda, 1440, tempera su tavola, rappresenta la Vergine assisa su una sorta di trono, è un’architettura con paraste michelloziane, da cui però la Madonna è superata. Il bambino è la luce divina ed è scritto anche sul cartiglio, ma c’è una luce anche frontale testimoniata dal blu del manto della madonna che non è unifromemente blu. Dietro il cortinaggio, che si trova dietro la testa della Vergine, c’è un pezzettino di finestra, che è un’altra fonte di luce dell’opera, una fonte di luce che però si percepisce dal cambiamento di colore delle paraste: la prima parasta è in ombra, le altre si schiariscono così come il rosa del muro a cui si addossano. Questo gioco lo ripropone anche Filippo Lippi (1406-69) Nella Madonna di Tarquinia, 1437 (la data è scritta nel cartiglio che c’è nell’opera, nella padana su cui poggia i piedi la Vergine). È un tempera su tavola, oggi conservato alla Galleria Nazionale di Arte Antica a 57 sue opere. Il ciclo , tuttavia, rimase inconcluso nel 1445. Venne terminato da Andrea Del Castagno con Alesso Baldovinetti. Andrea del Castagno(ante 1419-1457) Andrea del Castagno è il nome con cui è ricordato uno dei primi pittori di luce: Andrea di Bartolo del Bargilla. Castagno era il paese in cui nacque, sul Monte Falterona. Tra il 1451-53 fu incaricato di terminare il ciclo in Sant’Egidio, iniziato da Domenico Veneziano e seppur i gusti pittorici dei due artisti erano pressochè analoghi, le figure del Castagno si caratterizzano per una maggiore energia e fierezza. Il Cenacolo di Sant’Apollonia Già nel 1447 Andrea del Castagno aveva terminato di affrescare la parete principale del cenacolo del monastero delle Camaldolesi di Sant’Apollonia a Firenze: sotto alcune scene delle Storie della Passione, egli aprì la scatola prospettica dell’Ultima Cena, che scelse di ambientare in una stanza all’antica illustrata in sezione perché priva della parete anteriore, che si annulla per mostrare al riguardante cosa accade all’interno. Le linee delle pareti, del oavimento, dello spiovente e del soffitto convergono verso il centro dell’architettura, esagerando l’effetto prospettico dello spazio entro cui sono inseriti i personaggi. Ai lati della seduta dei personaggi troviamo decorazioni con arpie, mentre le pareti sono interamente ricoperte da lastre di profido e marmo colorato (decorazione cara ad Alberti). Le figure sono statuarie: Giovanni è reclinato accanto a Gesù, mentre Giuda è su lato anteriore della mensa , con il manto che, come bagnato, si raggruma sul suo corpo, a richiamare la scultura donatelliana. La luce intensa unifica la scena insieme alla prospettiva, e accende moltissimo il bianco della tovaglia. Gli uomini illustri della Villa Carducci 1447-49 Commissionati da Filippo Carducci per decorare la loggia della sua villa a Legnaia, oggi sono stati staccati e si trovano agli Uffizi Affreschi Il tema rappresentato è profano, come mostrano gli uomini illustri rappresentati: Dante, Boccaccio e Petrarca e per rappresentarli, Andrea del Castagno richiama il modello classico della raffigurazione come modelli di virtù. Vennero rappresentate anche donne virtuose a gruppi di tre, così come le altre figure poste di sequenza: prodi militari, poeti fiorentini. Tutti si affacciano da una loggia illusionistica all’antica, ornata sul fondo da lastre di marmo e porfido colorate. Monumento equestre di Niccolò da Tolentino Nel 1456 l’artista venne incaricato di affrescare il Monumento equestre di Niccolò da Tolentino all’interno del Duomo di Firenze per rendergli onore: egli fu il condottiero che portò l’esercito nella battagla di San Romano. La figura prende a modello il Giovanni Acuto che Paolo Uccello aveva affrescato vent’anni prima vicino alla navata in Duomo: in entrambi i casi si affresca una scultura monumentale. Rogier van der Weyden 60 Rogier van der Weyden fu, insieme a Jan van Eyk, uno dei protagonisti della prima pittura fiamminga. Nacque a Tournai, nell’allora Ducato di Borgogna nel 1399, nel 1435 si trasferrì a Bruxelles, dove si affermò come pittore ufficiale della città. La Deposizione di Lovanio ante 1443 olio su tavola fatta per la Cappella della Corporazione dei Baletsrieri a lovanio Museo del Prado, Madrid È una pala d’altare con al centro la Deposizione in cui emerge la devozione divina in un accalcamento di personaggi che riescono a costruire uno spazio razionale ed in cui vi è una forte attenzione al dettaglio (le lacrime), ma anche una solidità dei personaggi rappresentati, che al tempo stesso compiono dei gesti teatrali (tipico della statuaria tardomedievale). Polittico del Giudizio Universale post 1443 olio su tavola fatto per l’ospedale fondato a a Beaune da Nicolas Rolin, cancellerie di Filippo il Buono oggi all’Hotel-Dieu a Beaune Sicuramente il pittore aveva a mente la pala di Gand di Jan van Eyk, una sorta di modello per l’alternanza, grazie alla chiusura ed apertura delle ante, di due immagini diverse: la visione terrifica dell’Arcangelo Michele, che divide i dannati dai beati sotto gli occhi della corte celeste e la la venerazione, da parte del committente e della moglie, di due statue raffiguranti i santi Sebastiano e Antonio abate, entrambi santi coerenti nel contesto ospedaliero poiché proteggono dalle epidemie. Sopra le sculture dei santi, sempre sottoforma di statue, l’arcangelo Gabriele e la vergine ella sccena dell’annunciazione. Queste statue dipinte sono rese con la tecnica trome-l’oeil (illusoria). La Miniatura nelle Chroniques de Hainaut 1446-48 miniatura su pergamena (nel frontespizio) Biblioteca Reale del Belgio, Bruxelles Tra il 1446-48 Jean Wauquelin, un letterato, tradusse le Chroniques de Hainaut in francese per Filippo il Buono. Il testo originario era in latino e risaleva alla fine del XIV secolo e veniva raccontata la storia della contea di Hainaut da parte dello storico Jacques de Guyse.nella miniatura del frontespizio il pittore fiammingo ha rappresentato il momento in cui Filippo il Buomo riceve le Chroniques de Hainaut: è un ascena di corte infatti l’offerta del libro sottintende un atto di vassallaggio nei confronti del signore della contea. L’uomo inginocchiato che offre i libro cn la veste grigia è il committente dell’opera, Simon Nockart, consigliere del duca e non l’autore. Colui che si erge a ricevere il dono è Filippo il Buono, mentre indossa un abito nero raffinato con il collare del Tonson d’oro, ordine cavalleresco che lui stesso fondò nel 1430: il medesimo accessorio simbolico è indossato dai memnri dela corte a sinistra del duca, mentre a destra: in abito blu è Nicolas Rolin, in rosso il vescovo di Tournai e in grigio un altro membro cenrale nell’amministrazione ducale. La scena di Rogier van der Weyden è quotidiana grazie anche al fato che i personaggi sono inseriti in una stanza quasi domestica e meno regale. Caratteristica importante è la moda 61 dell’epoca con calzature appuntite, copricapi e abit cinti in vita, ma soprattutto la veridicità materica che l’artista vuole rappresentare, creando un’atmosfera intima. Rogier van der Weyden in Italia L’artista si recò in Italia tra il 1449-50 artecipare all’anno santo, soggiornando a Ferrara, Roma e Firenze. Qui, dopo il 1450 realizzò una tavola con Deposizione di Cristo nel sepolcro, olio su tavola. Oggi agli Uffizi. All’inizio si pensava che l’opera fosse stata realizzata per Lionello d’Este, ma oggi si crede che questa fosse stata realizzata poco dopo il rientro di Rogier a Bruxelles per poi spedirla ai Medici per abbellire Villa Careggi. Dal punto di vista della composizione sembra aver preso a modello la Deposizione di Cristo nel sepolcro di Beato Angelico, 1440, oggi all’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera, dalla predella della Pala di San Marco, tempera e oro su tavola. Tuttavia rispetto al pittore di luce, Rogier trasforma il tutto con il verismo fiammingo, sottolineando il dolore dei personaggi e allargando il paesaggio grazie alle due vie laterali sullo sfondo, che, allontanandosi, si perdono. Una volta tornato a Bruxelles, Rogier continuò con la sua carriera lavorando per committenti delle sue terre, ma anche di terre lontane e formò anche una nuova generazione di artisti, tra cui Zanetto Bugatto, lombardo inviatogli nel 1461 dalla duchessa Bianca Maria Sforza. La fortuna dei pittori fiamminghi in Italia Al 1456 risale il De viris illustribus scritto dal letterato umanista Bartolomeo Facio (1410-57) per conto di Alfonso d’Aragona, quando aveva stabilito la sua corte a Napoli. Lo scritto comprende circa 90 biografie di artisti contemporanei suddivise per professione in cui l’autore dell’opera celebra non solo Gentile da Fabriano e Pisanello, ma anche Jan van Eyk, Rogier van der Weyden, ricordando anche loro opere che si trovavano proprio in Italia. L’arte fiamminga si era ormai affermata anche nella penisola. Hans Memling: un protagonista del secondo Quattrocento Meming nacque in Assia, a Seligendstadt nella seconda metà degli anni 30 del XV secolo e Vasari ci dice che avesse fatto un apprendistato con van der Weyden. Alla morte del suo maestro nel 1465, si trasferì a Bruges dove aprì una bottega che gli conferì fama fino alla morte, avvenuta nel 1494. Memling arrivò a medesimo successo dei suoi redecessori, ma dimostrò un’evoluzione stilistica. Il Giudizio Universale di Danzica 1473 trittico, olio su tavola per la cappella della famiglia Tani nella Badia di Fiesole, oggi al Museo Nazionale di Danzica (Polonia) La storia dell’opera è curiosa perché venne commissionata a un importante personaggio dell’epoca, Angelo Tani, direttore del banco mediceo di Bruges, per la sua cappella di famiglia presso la Badia di Fiesole, ma l’opera non vi giunse mai poiché la nave incaricata di trasportare l’opera a Firenze venne assalita da un corsaro polacco che trafugò il dipinto conducendola dove ancora oggi è conservato. Memling ridusse gli scomparti del trittico da 9 a 3, rispetto a van der Weyden, così da disporre i personaggi in una struttura tripartita: la corte celeste è cinfinata nella parte alta della pala centrale e al di sotto di questa si trova la figura dell’arcangelo Michele eretta a dividere le anime, divisione che si riflette negli scomaparti laterali: a sinistra convergono i beati, accolti da San Pietro, che si trova ai piedi della porta del paradiso, che ha le forme di una facciata di una cattedrale gotica. Nello scomparto destro convergono i dannati, che finiscono 62 artista specialmente negli anni 1444, 1445 e 1446e sicuramente sappiamo fosse presente a Basilea dopo il concilio del 1434. Jean Fouquet Fouquet nacque a Tours nel 1420 circa e fu un pittore di fama non solo in Francia, ma anche in Italia poiché capace di “ritrarre il naturale” tanto da essere lodato nel trattato di Filarete, che in special modo riferimento ad un ritratto di papa Eugenio IV, perduto. In quanto papa Eugenio IV rientrò a Roma, dopo l’esilio, solo ne 1443 e morì nel 1447, sicuramente Fouquet scese a Roma in questo circoscritto periodo e sicuramente fece tesoro del viaggio in Italia e visitò anche Firenze. Lo studio delle opere dei pittoricoevi italiani sono evidenti nelle opere che realizzò dopo essere rientrato in Francia, mostrando grandi abilità sia nella pittura che nella miniatura per conto del tesoriere di Carlo VII, Etienne Chevalier, a partire dal 1452. Il Dittico Melun 1452 Smalto dipinto su rame Per la tomba della moglie di Etienne Chevalier in Notre-Dame di Melun, oggi smembrato, è conservato un piccolo tondo conservato al Louvre. Un’ anta con Etienne Chevalier e Santo stefano è oggi alla Gemaldegalerie di Berlino, mentre la pala centrale con la Madonna col bambino oggi è al Museo di Anversa (Koninklijk Museum voor Schone Kunsten) Il tondo che è rimasto del dittico riporta un autoritratto dell’artista, che è anche firmato. È un mezzobusto dipinto di tre quarti, monocromo su sfondo scuro che mostra la perizia anche di miniatore dell’artista. La pala laterale con Etienne Chevalier e Santo Stefano: il primo è in veste scarlatta ed è presentato dal suo santo eponimo, che si riconosce grazie al sasso, attributo del martirio, che qui diviene una pietra preziosa, scheggiata e retta da un libro. i due personaggi guardano verso la pala centrale con la Madonna col bambino, circondati da cherubini e serafini. Le figure sono iluminate da una luce fredda e astratta e la Vergine ha un corpo formoso, con una vita sottile, i seni accentuati e una pelle cristallina, in netto contrasto con le pelli rosse e blu degli angeli. Il corpo della vergine sembra quasi una scultura, anzi, ricorda quasi le figure di Piero della Francesca, rilette con un tono francese. Il riferimento all’Italia si nota molto di più nella pala sinistra, dove alle spalle dei due personaggi si erge un muro posto in diagonale e incrostato di marmi all’antica dalla forme geometriche (rif. a Leon Battista Alberti). Le luci nitide, la solidità dei personaggi, la definizione delle loro teste sono una convergenza con la pittura di Beato Angelico, che forse Fouquet aveva conosciuto nella Roma di Eugenio IV: ce lo testimonia l’affinità strutturale tra le figure del Dittico Melun e delle figure che l’Angelico affrescò nella Cappella Niccolina (nel Palazzo Apostolico Vaticano) tra il 1447- 48, vedi il dettaglio di Sisto II che affida a Lorenzo i beni della Chiesa. Piero della Francesca (Sansepolcro 1415-92) Piero della Francesca rientra nella cerchia dei pittori di luce, anzi, egli fu capace di diffondere questo tipo di pittura oltre i confini fiorentini. Egli nacque a Sansepolcro, cittadina dell’alta Valle del tevere, oggi in provincia di Arezzo. All’epoca era una terra fiorentina e godeva di una posizione strategica per i contatti e commerci tra Toscana, Umbria, Marche ed Emilia. Piero, oltre a lavorare per i più importanti centri della penisola, dedicò la sua arte anche a Sansepolcro. Nel 1439 entrò nella bottega di Domenico Veneziano, da cui acquisì importanti nozioni sull’utilizzo delle fonti di luce. Piero applicò queste nozioni in ambito teorico nel suo trattato, il De prospectiva pingendi (la prospettiva in pittura), che raccoglie anche tutti gli studi di matematica e prospettiva che coltivò durante la sua vita. Nella sua pittura fondamentale è la 65 rappresentazione dello spazio con un’attenzione particolare all’architettura classica (come Mantegna), il tutto corredato da una luminosità chiara che rendeva i colori brillanti e chiari, mentre le figure sono volumetriche. Quando Piero arrivò a Firenze visitò la Cappella Brancacci e studiò la pittura di Masaccio, cogliendone alcune istanze, ma di cui rifiutò la drammaticità delle figure. Le figure di Piero della Francesca sono vicine all’espressività di Donatello, ma meno, era più una pittura intellutuale e non emozionale. Polittico della Misericordia 1445-62 Fatta per la Confraternita della Misericordia di Sanseplcro, oggi alla Pinacoteca Comunale Sansepolcro Tempera e olio su tavola Piero iniziò l’opera nel 1445, ma riuscì a terminarla dopo molte interruzioni perché nel frattempo fu impegnato a Rimini, Arezzo e Ferrara. Il polittico è alla maniera gotica e le tavole utilizzate sono di varie dimensioni: quella centrale è sovradimensionata e vi è rappresentata la Vergine su fondo oro. Si tratta di una figura moderna che con il suo ampio gesto riesce a costruire uno spazio prospettico ben definito, nostante il tradizionale fondo oro. Piero riesce a dare vita ad un’architettura di figure con la Vergine al centro e le figure astanti, che pregano, che la chiudono. Come nel Polittico di Masaccio, nella cimasa c’è una crocifissione: nella crocifissione di Piero siamo più vicini a quella di Masaccio, ma manca la figura della Maddalena, che viene eliminata ifatti l’attenzione volge tutta su Cristo, con il collo ritagliato, visto di scorcio e con la testa attaccata al busto. Sotto i due dolenti, con la Vergine che alza le barccia verso figlio e il Battista che apre le braccia: è la gestualità del dolore, più trattenuta rispetto a Masaccio. A sinistra della Vergine ci sono San Sebastiano e San Giovanni Battista su sfondo oro, che, però, poggiano i piedi su un basamento che ci dà il senso di pesantezza e corporeitàdelle figure, forte è la plasticità di cui possiamo definire le membrature della muscolatura, plasticamente definita dalla luce, come si vede in San Sebastiano, con righe rosse definite a rappresentare il sangue che cola dalle sue membra. Il corpo del santo è ben tornito e parte della gamba è scura quindi si vede come la fonte della luce venga da destra: la parte destra del corpo è illuminata, la parte sinistra in ombra. La figura nell’insieme è maestosa e statica. A destra della Vergine ci sono i santi Giovanni Evangelista e Bernardino. Il Battesimo di Cristo 1443-45 Tempera su tavola Nato pr stare al centro di un trittico cuspidato, la Pala di San Giovanni in Val d’Afra per l’omonima chiesa in Sansepolcro, oggi al Museo Civico di Sansepolcro. Il trittico venne fatto da Matteo di Giovanni (1428-1495) (uno degli esponenti della scuola pittorica senese di inizio Quattrocento). Il Battesimo di Piero è alla National Gallery di Londra Piero dimostra la comprensione della pittura di luce nel Battesimo di Cristo. Il tripudio di luce che ha realizzato, crea tutto lo spazio della rappresentazione, dimostrando grande attenzione alla resa luminosa. Cristo, insieme alla colomba dello spirito santo, costituisce il perno della composizione policentrica, con la folla di neofiti al fiume, che, in profondità, sono un altro polo d’attrazione, come i tre angeli alla sinistra (figure criptiche, numerose interpretazioni sui suoi personaggi). I tre angeli si tengono la mano e forse alludono alla riconicliazione tra chiesa d’Oriente e d’Occidente nel Concilio di Firenze del 1439, infatti di solito i tre angeli tengono la veste di Cristo e qui no. Un altro richiamo al concilio fiorentino sono le vesti bizantine dei personaggi che sono rappresentati dietro il neofita che si sta spogliando. Gioco di riflessi di 66 figure sul fiume, specialmente nei sacerdoti che assistono al battestimo dietro al neofita che si spoglia, riflettono le loro vesti nel fiume e riflettono i colori delle rappresentazione di Piero. Per quanto riguarda lo spazio, gli alberi che digradano in lontananza danno l’effetto della tridimensionalità. Il paesaggio richiama un po’ quello del Tondo di Berlino di Domenico Veneziano, così come il cielo cristallino, mentre le figure così candide sembrano le terracotte invetriate di Luca della Robbia. La visione nell’insieme è serena e distaccata. Le Storie della Vera Croce nella Cappella Maggiore di San Francesco ad Arezzo Post 1452. Affresco Anche in questo ciclo è evidente la sperimentazione della pittura di luce. Commissione arriva dalla famiglia Bacci, commercianti di stoffe (importantissimi i mercanti nel Rinascimento toscano perché trainavano l’economia produttiva). Inizialmente la famiglia Bacci commissionò l’opera a Bicci di Lorenzo, ma morì nel 1452, riuscendo a decorare solo le vele della volta a crociera con un cielo e gli evangelisti. Subentrò Piero come unico pittore della volta, mentre insieme all’aiuto dei suoi assistenti, Giovanni di Piamonte e Lorentino d’Andrea, dipinse il ciclo di affreschi che si dispiega sulle pareti della cappella e che rappresenta le Storie della Vera Croce, un tema molto caro alla devozione francescana e raccontato nella Legenda aurea di Jacopo da Varazze, che Piero prese come punto di riferimento. Si tratta di un testo medievale e non sacro, è agiografico perché racconta la vita sulla croce: a partire dalla flagellazione fino a morte, per poi 67 1 Morte di Adamo 2 Adorazione della Croce e incontro tra Salomone e la Regina di Saba 3 Sollevamento della Croce 4 Annunciazione 5 Sogno di Costantino 6 Vittoria di Costantino su Massenzio 7 Tortura dell'ebreo 8 Ritrovamento delle tre croci e verifica della Croce 9 Battaglia di Eraclio e Cosroè 10 Esaltazione della Croce 11 Profeta Ezechiele 12 Profeta Geremia 13 Un angelo Lionello d’Este, rimanendo a Ferrara fino alla sua morte, venendo celebrato anche da Matteo de’ Pasti in una delle sue medaglie di bronzo nel 1446, oggi al National Gallery di Washington. Vittorino da Feltre venne ospitato, invece, presso la corte dei Gonzaga, a Mantova, all’epoca in cui il signore era Gianfrancesco. Qui Vittorino diede vita alla sua scuola, la Ca’ Gioiosa, dove si formò anche Federico da Montefeltro, futuro signore di Urbino e appassionato di libri, tale da poter vita ad una grande biblioteca presso la sua corte, che accoglieva per lo più codici manoscritti. Altro signore che fu appassionato di cultura greca e latina fu Sigismondo Pandolfo Malatesta tale che alla sua corte ospitò vari intellettuali ed artisti per mettere appunto il progetto del Tempio Malatestiano. Umanisti non erano solo i signori a capo di organizzazione poliiche, ma anche i papi, come ad esempio Egugenio IV che, dopo il suo rientro a Roma nel 1443, rese Roma una capitale del Rinascimento. In questo contesto operò l’importantissima figura di Tommaso Parentucelli (futuro papa Niccolò V, dal 1447-55. Egli riuscì a stipulare la Pace di Lodi nel 1454 dopo aver eletto imperatore Federico III) e papa Pio II (1458-64), che era Enea Silvio Piccolomini, ricordato per aver fondato Pienza, costruita secondo un piano urbanistico moderno. un evento storico important da segnalare è la caduta di Costantinopoli nelle mani dei Turchi guidati dal sultano Maometto II nel 1453. Nello stesso contesto, la Repubblica di Venezia conobbe un grande sviluppo: questa si espanse nel suo entroterra dando vita ad uno Stato multiculturale e multiterritoriale, che fondava ancora le sue ricchezze sul commercio con l’Oriente. Paesaggi e città nel Quattrocento Nel corso del XV secolo il paesaggio inizia ad essere apprezzato da un punto di vista estetico, ad esemipio: Papa Pio II, nei suoi Commentari, celebra la veduta del Monte Amiata che poteva osservare dalla loggia del suo palazzo a Pienza, poteva osservare e fare passeggiate in una natura incontaminata. Si tratta di un paesaggio che esiste ancora, salvo le alcune modifiche apportate con le bonifiche novecentesche. Al Museo della Certosa di San Martino (Napoli), invece, è conservata la Tavola Strozzi, ante 1478, olio su tavola, realizzata da un pittore fiorentino e rappesentante una veduta sulla città di Napoli, molto dettagliata, dove in primo piano sembra essere rappresentata una flotta aragonese, probabilmente di ritorno dalla battaglia di Ischia. Questa veduta sembra essere una fotografia fatta con il pennello, vesta l’accuratezza con cui sono stati realizzati i dettagli: una città chiusa nelle su mura, di cui possiamo ammirare forezze, chiese, campanili. La grande differenza tra la Napoli quattrocentesca e quella odierna è la mancanza delle mura, che hanno consentito agli edific di occupare le allora verdeggianti colline. Il fenomeno dell’espansione delle città non ha colpito solo Napoli, ma anche altri importanti centri. La Tavola è detta Strozzi perché è stata ritrovata in una delle collezioni della famiglia fiorentina: Filippo Strozzi, mercante e banchiere, all’epoca fece molti affari con la corte aragonese. Un’alra opera che ci mostra lo sviluppo e la diffusione della città è l’ Affresco raffigurante Firenze durante l’assedio delle truppe di Carlo V nel 1529-30 (che portò fine alla Repubblica) fatto da Giovanni Stradano tra i 1556-62 presso la Sala di Clemente VII a Palazzo Vecchio. Firenze è solcata dall’Arno ed è arroccata dietro le mura trecentesche, tra gli edifici che la compongono si distinguono i palazzi più eminenti, mentre tutto intorno si srotola una verde campagna con le truppe imperiali insediate. A questo fenomeno è rimasta estranea Venezia, tutt’oggi isolata dalla laguna, come ci mette in evidenza la veduta a volo d’uccello nell’Incisione fatta da Jacopo de’ Barbari tra 1498-1500, oggi al Museo Correr: è un esempio di cartografia urbana, precisissima che farà da modello a vedute di città incise di secoli successivi. L’introduzione delle armi da fuoco portarono alla rovina delle mura medievali che proteggevano e città, motivo per cui già dalla seconda metà del XV secolo, architetti e ingegneri escogitarono nuovi sistemi difensivi, realizzando ora murature più spesse, elaborando fortificazioni a pianta geometrica. Le torri medievali vennero sostituite dai bastioni a pianta circolare o poligonale, nuovo elemento cardine dell’architettura militare. Michelangelo, già prima dell’assedio che pose fine alla Repubblica, aveva 70 progettato dei bastioni che avevano lo scopo di difendere la città di Firenze. In ogni caso, le esigenze dovute alle guerre anche nel corso del Cinquecente portarono a grandi cambiamenti nell’assetto delle città. Con caduta della Repubblica, il duca di Firenze Cosimo I si impegnò per la fortificazione e la difesa del suo Stato. Si trovano anche città dalle piante più complesse, come quella a stella di Palmanova voluta dalla Repubblica di Firenze alla fine del Cinquecento: le strade sono organizzate in modo geometrico e conducono tutte verso la piazza centrale grazie all’estrema razionalità della progettazione urbanistica prevista per la stessa. Queste progettazioni razionali, attente alle forme ed alle piante hanno portato alla definizione di città ideale, tema d’interesse in pittura ed architettura già dalla seconda metà del Quattrocento. Il caso di Loreto: Loreto è una città che si trova nelle Marche, vicino a Reacanati, e che è stata fondata sulla base della storia dell’arrivo di una reliquia, cioè la casa di Nazareth in cui Maria ricevette l’annuncio della nascita di Gesù, che si dice fosse arrivata miracolosamente attraverso un volo. È una città volta all’accoglienza dei pellegrini, infatti nella parte più alta e antica della città si conserva la Santa Casa. Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento venne costruito il santuario per volere di papa Giulio II nel 1507, affidandoe la costruzione a Bramante. Il santuario venne protetto da bastione nella zona absidale e la sua cupola venne eretta da Giuliano da Sangallo, che prese a modello la cupola fiorentina del Brunelleschi. Grazie al presbiterio della chiesa era possibile avere accesso alla Santa Casa che nel Cinquecento è stata rivestita dai marmi scolpiti da Sansovino, Baccio Bandinelli e altri. In questo periodo, molte chiese vennero innalzate per onorare immagini miracolose, solitamente aldilà delle mura delle città, vicino alle porte d’accesso all’urbe. Vicino Corton, ad esempio, venne costruita la Chiesa di Santa Maria delle Grazie al Calcinaio, dal 1485 su progetto di Francesco Martini. la chiesa ha pianta a croce latina e presenta caratteri rinascimentali ed era adibita alla conservazione di una Madonna col Bambino dipinta su una vasca che serviva per la conceria. A Montepulciano, invece, Antonio da Sangallo il Vecchio venne incaricato di fare il progetto di costruzione del Tempio di San Biagio, post 1518, dove prima si trovava la piee medievale di San Biagio: in quel luogo era stato rinvenuto un lacerto di affresco con la figura della Madonna che pare che nel 1518 avesse mosso gli occhi. A Todi, sempre per ragioni miracolose, nel 1508 si decise di costruire il Temio di Santa Maria della Consolazione con l’intervento di celebri architetti come Baldassarre Peruzzi o Jacopo Vignola. Il tempio a pianta centrale è sovrastato da una grande cupola, che sembra prendere in esempio il progetto che Bramante aveva messo a punto per San Pietro a Roma, ma che di fatto, venne modificato da chi lo sostituì nell’impresa dopo la sua morte. Roma moderna: Filarete, Beato Angelico, Leon Battista Alberti Eugenio IV terminò il suo esilio a Firenze nel 1443, potendo tornare a Roma, una Roma ancora spento in seguito al periodo della Cattività avignonese (1309-77) e lo Scisma interno alla chiesa d’Occidente. Seppur Martino V (1417-31) avesse avviato dei cantieri che avevano lo scopo di tirar su la città e che avevano attirato personalità cme Gentile da Fabriano o Pisanello, ancora Roma non era un grande centro artistico e culturale come lo sarà dopo. La città di per sé non era molto popolata e alivello architettonico e artistico l’impianto urbanistico vedeva una convivenza tra ciò che era paleocristiano e medievale con le tracce dell’antichità. San Giovanni in Laterano era preceduta dal Monumento equestre di Marco Aurelio, che poi Michelangelo traslò in Campidoglio, opera a lungo scambiata per ritratto di Costantino, motivo per cui sopravvisse, divenendo un modello per gli scultori del Quattrocento: Donatello e Filarete (1400 Firenze- 1469 Roma), quest’ultimo ne realizzò una Copia in bronzo tra 1440-45, donata a Piero de’ Medici nel 1465, un modello di bronzetto, oggi allo Staatliche Kunstsammlungen di Dresda. Filarete e la Porta di San Pietro 71 Filarete, il vero nome era Antonio Averlino, nacque a Firenze nel 1440, città in cui si formò nel seguito di Ghibeti, per poi recarsi a Roma dal 1433 al 1445. Il viaggio venne intrapreso perché papa Eugenio IV gli commissionò la realizzazione dei Battenti bronzei della Basilica di San Pietro a Roma, 1433-45. I battenti recano l’immagine di Cristo, la Vergine, i santi Pietro e Paolo con le storie del loro martirio. Tuttavia, Filarete non seppe aggiornarsi sulla visione dell’antico elaborata da Donatello, infatti non ne recepì né l’organizzazione spaziale né i moduli stilistici e compositivi: i suoi rilievi appaiono privi di profondità, le scene sono affollate e sono presenti ornati ispirati all’antichità. Si può dire che a dominare siano fantasia e decorazione, che non lasciano spazio al rigore prospettico, motivo per cui Vasari non apprezza l’opera dell’artista, seppur queste impresa gli garantì successo tale da affermarsi a Milano alla corte degli Sforza, tra 1451-66. Nello stesso momento in cui Eugenio IV chiamò Filarete per lavorare ai battenti, nel 1445 chiamò anche Beato Angelico, che rimase a Roma fino al 1449: nel 1447 Eugenio IV morì e il nuovo papa fu l’umanista Tommaso Parentucelli con il nome di Niccolò V, che incaricò l’Angelico di affrescare la Cappella Niccolina (già fatta, p. 54). Niccolò V fu il capostipite della promozione della politica culturale e artistica che aveva lo scopo di rinnovare Roma sia in vista del giubileo del 1450, sia per garantire una futura stabilità. Sotto di lui si cercò di rinnovare la Basilica di San Pietro incaricando del progetto Bernardo Rossellino (Settignano 1409- Firenze 1469), che pensò di mantenere il nartece e il corpo longitudinale a cinque navate dell’antica basilica, rinnovando invece le forme di coro e transetto. Nonostante fosse stata avviata l’attuazione di questo progetto, questo fece solo da premessa ai lavori che Bramante attuò dopo aver ricevuto l’inacrico da papa Giulio II. Leon Battista Alberti (1404 Genova – 1472 Roma) e l’antico Nelle vicende della modernizzazzione e valorizzazione di Roma, giocò un ruolo fondamentale Leon Battista Alberti. Alberti nacque a Genova nel 1404 da un mercante fiorentino esiliato e si formò tra Venezia, Padova e Bologna in legge, lettere, matematica, astronomia, arti figurative e musicali, insomma, una cultura umanistica che gli garantì successo presso la curia pontificia. Nell’urbe iniziò la sua carriera nel 1432 come abbreviatore apostolico nella cancelleria di Eugenio IV. Tra il 1434-43 seguì papa Eugenio IV nel suo esilio a Firenze, dimostrando familiarità e conoscenza del linguaggio degli antichi: questo si vede nell’ Autoritratto del 1435 in bronzo, oggi alla National Gallery di Wahington, in cui si rappresenta di profilo, con uno sguardo serio e la capigliatura corta, quasi come se fosse un imperatore romano e anticipando le medaglie di Pisanello. Fu in questi anni in cui iniziò a scriverela prima versione del De pictura in latino. Il De re aedificatoria: nel 1452 l’Alberti scrisse anche un tratto sull’architettura, prendendo a modello per la struttura e stesura dell’opera, il De architectura libri decem di Vitruvio. lo scopo era di definire i nuovi principi tecnici ed estetici di edifici di varia natura, secondo il gusto ed il linguaggio rinascimentale. L’opera si struttura in dieci libri, come quella vitruviana e tratta non solo delle questioni costruttive, ma anche di edifici privati, pubblici, civili, sacri, le loro funzioni, caratteristiche, l’aspetto decorativo, il tutto grazie ai numerosi studi che aveva condotto sull’architettura antica. Egli si soffermò più a realizzare progetti e a portare avanti riflessioni teoriche sull’architettura, più che costruire edifici, contribuendo alla nascita del nuovo profilo intellettuale di questa figura professionale. Bernardo Rossellino fu uno dei suoi più fedeli seguaci e che si trovò ad operar in cantiere per portare a frutto i progetti di Alberti, che alla rigida proporzionalità brunelleschiana aggiungevano monumentalità e un apparato decorativo all’antica. Il cantiere del Tempio Malatestiano a Rimini Il Tempio Malatestiano è un edificio costruito per volere di Sigismondo Pandolfo Malatesta (1417-68), celebre condottiero della famiglia che governava Rimini già dal Duecento. Malatesta decise di costruire il 72 corinzie. Tutta la facciata si caratterizza per un rivestimento in bugnato liscio e piatto. La sovrapposizion degli ordini prende a modello quella del celebre Colosseo. Il De statua Come il De pictura ed il De re aedificatoria, il trattato è stato scritto in latino ed è l’ultimo della cerchia: Alberti avava trattato tutt’e tre le grandi tematiche artistiche. Nel trattato lui esegue la grande distinzione tra la scultura per via di porre e la scultura per via di levare: la prima consente di modellare una materia plasmabile, la seconda di scavare la pietra. Afferma che il fine della scultura è l’imitazione della natura attraverso un metodo scientifico che consente di creare una statua secondo il criterio di individuazione delle proporzioni del corpo umano e delle caratteristiche individuali: sono rispettivamente dimensio e definitio. Ne consegue che le statue dovevano essere a tutto tondo, come un colosso antico, studiata nell’anatomia e nelle proporzioni, probabilmente avendo una buona conoscenza archeologica. Urbino, la corte di Federico da Montefeltro e il Palazzo Ducale Urbino dominava un territorio piuttosto vasto tale che a nord arrivava a confinare con le terre malatestiane, ma non era ricchissima. Tuttavia, la città divenne una dei maggiori centri artistici runascimentai grazie al suo signore, che emerse come uno dei più grandi condottieri del suo tempo, che investì molto nelle guerre e nella sua città. Federico da Montefeltro (1422-82) che nel 1474 venne nominato duca di Urbino da papa Sisto IV. Negli anni 30 del Quattrocento si formò con Vittorino da Feltre a Mantova e quando iniziò ad esercitare i suo potere, ad Urbino diede vita ad una corte n cui si raccoglieva il personale amministrativo, i suoi guerrieri, uomini di lettere, matematici e artisti, rendendo Montefeltro un moderno centro artistico e culturale. Tutti gli intellettuali operavano nel Palazzo Ducale. Baldassare Castiglione celebrò il Palazzo Ducale, dimora di Federico da Montefeltro, nelle pagine di apertura de Il Cortegiano, uscito nel 1528. Egli lo descrive non tanto come un palazzo, ma una città, vista la sua estensione che lo vide inglobare edifici preesistenti con dei lavori che iniziarono nel 1454. All’esterno, del Palazzo Ducale vediamo la cosiddetta facciata torricini: il prosepetto, slanciato, è affiancato da tue torri angolari e rotonde, che inquadrano quattro logge sovrapposte, dove le due più in alto si contraddistinguono per il paramento murario in marmo bianco, come richiamo all’antichità grazie anche alle decorazioni a lacunari delle volte. Alberti è stato attestato ad Urbino e presso la corte attorno a 1464, quindi è probabile che abbia giocato qualche ruolo nell’ideazione del progetto. Il giardino d’onore di Luciano Laurana: Laurana (1420/25 – 1479) fu incaricato di comandare i lavori di costruzione della facciata antistante la vallata. Era un architetto dalmata (all’epoca la Dalmazia era di dominio veneto) che fu attivo anche presso la corte dei Gonzaga a Mantova, per poi passare, tra 1466-72 al servizio di Federico da Montefeltro. Il duca lo incaricò di progettare il cortile d’onore, perno attorno a cui è stato costruito il Palazzo e luogo in cui venivano accolti gli ospiti. Attorno ai quattro lati del cortile troviamo un primo ordine di oggiati dove colonne corinzie sorreggono arcate a tutto sesto, combinati con la soluzione di pilastri angolari. Sopra le arcate un’iscrizione latina celebra Federico da Montefeltro non solo come condottiero, ma anche ricordando tutti i ruoli da lui rivestiti. Sopra vi è un ordine di finestre tamponate (?) alternate a delle lesene. Lo studiolo di Federico e le tarsie prospettiche 75 Gli ambienti del Palazzo Ducale erano monumentali e magnifici tale da impressionare la maggior parte dei visitatori che vi vennero ospitati. Tuttavia, egli decise di ridurre le dimensioni del suo luogo privato all’interno della sua dimora: lo studiolo. Lo studiolo è una piccola stanza attigua alla loggia torricini i cui lavori di decorazione occuparono il biennio 1474-76. Nel registro più alto le pareti sono decorate con ritratti di uomini illustri realizzati da Giusto di Gand e Pedro Berruguete. Nel registro inferiore si contraddistingue l’arredo ligneo rivestito da tarsie prospettiche realizzate dalla bottega fiorentina di Giuliano e Benedetto da Maiano. Tra alcune delle immagini rappresentate vediamo l’Armatura di Federico da Montefeltro. Questa tecnica della tarsia, già in uso nel Medioevo, nel corso del periodo rinascimentale, come nel caso dello studiolo del duca urbinate, venne usata come strumento per creare effetti di illusione spaziale e resa veristica e minuziosa dei dettagli. Esempi precedenti realizzati dalla medesima bottega si ritrovano negli Armadi della Sagrestia delle Messe in Duomo a Firenze, fatti tra 1463-68. Piero della Francesca a Urbino Il Dittico Montefeltro 1460-65 Olio e tempera su tavola Per il duca di Urbino nel Palazzo Ducale, oggi agli Uffizi Piero della Francesca, dopo le esperienze a Roma (1458-59), Sansepolcro, Arezzo, si recò ad Urbino, al servizio del duca. Piero venne incaricato di realizzare un dittico in cui fossero rappresentate le effigi del duca e della moglie Battista Sforza. I due coniugi sono rappresentati di profilo e a mezzobusto, mentre si stagliano su uno sfondo paesaggistico, come se i due si trovassero davanti a delle finestre del palazzo, con dietro le colline e gli specchi d’acqua del Montefeltro. Il paese è rappresentato a volo d’uccello e Piero ne rappresenta ogni dettaglio con una pittura luminosa e dettagliata, ispirata, insomma, alle novità fiamminghe. Egli riesce ad avere un effetto più simile alla pittura fiamminga grazie all’uso della pittura ad olio, riuscendo ad ottenre delle carni concrete e nei tessuti veridic e materici delle vesti. Federico ha la parte alta del naso smussata (persa, con un occhio, durante un torneo). Battista ha il volto pallido e un’acconciatura alla moda che le lascia la fronte alta scoperta; è adornata da ricchi e preziosi gioielli. I due pannelli vennero dipinti anche dietro con il trionfo dei due personaggi accompagnati da figure allegoriche di virtù. Ognuno dei due coniugi guida il proprio carro, sullo sfondo circondati dal paesaggio del Montefeltro, mentre in basso ci sono due iscrizioni latine (strofe saffiche) che li celebrano. Vediamo in questa opera una convivenza tra l’amore per la cultura antiquaria, un nuovo sguardo sul paesaggio e la nitida visione della pittura nordica. La Madonna di Senigallia 1474 Olio e tempera su tavola Dalla Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Senigallia, oggi alla Galleria Nazionale delle Marche ad Urbino Nel dipinto sono rappresentati la Madonna col bambino affiancati ai lati da due angeli, delle figure maestosi e concretamente presenti, volumetriche a mezzobusto, inserite all’interno di uno spazio domestico in cui l’atmosfera risulta ovattata ed è rischiarato da raggi di luce filtrati dalla finestra a sinistra. A destra è rappresentata una sorta di nicchia con brani di natura morta soretti da due mensole: uno è un cesto di panni e in questo aspetto della rappresentazione emerge l’influsso nordico. 76 La Pala Montefeltro 1472-74 Olio e tempera su tavola Per Urbino, oggi alla Pinacoteca di Brera (Milano) I personaggi rappresentati nell’opera sono al centro la Madonna col bambino, con alle sue spalle due coppie di angeli, mentre ai lati, a gruppi di tre sono rappresentate figure di santi: da sinistra, i santi Giovanni Battista, Bernardino e Girolamo. Da destra, i santi Francesco, Pietro Martire e Giovanni Evangelista. In primo piano a destra, inginocchiato e nella sua lucente armatura, è rappresentato Federico da Montefeltro, ancra una volta rappresentato di profilo. La Vergine è il perno attorno a cui si costrusce questo monumentale e maestoso spazio prospettico tanto che il centro del suo volto è il punto di fuga, caratterizzato da una nicchia il cui catino absidale presenta la conchiglia, che richiama il tema della fertilità e corrisponde all’area presbiteriale. Incredibile il richiamo all’antico nella costruzione architettonica, che potrebbe benissim rispecchiare un progetto albertiano, con la parete della nicchia decorata da riquadri di marmi policromi, lesene scanalate con i capitelli e i lacunari estremamente dettagliati della volta che precede la nicchia. L’uovo di struzzo che pende dalla conchiglia, in quest’opera ha la funzione di accentuare la tridimensionalità dell’architettura. Estremo realismo dela mano del duca di Urbino, gonfia per la gotta, ma anche l’attenta rappresentazione della fonte di luce che proviene da sinisra, provcando un riflesso nell’armatura di Federico e illumina i personaggi, mentre crea i gioco di ombre sull’architettura. Presenze fiamminghe a Urbino: Giusto di Gand e Pedro Berruguete Gli influssi della pittura fiamminga ad Urbino giunsero non solo grazie alle opere pierfrancescane, ma anche grazie al fatto che vi operarono, verso la metà degli anni 70 del Quattrocento, per il duca Federico, Giusto di Gand e Pedro Berruguete. Giusto di Gand e la Pala del Corpus Domini o Comunione degli apostoli 1473-74 Olio su tavola Per la compagnia del Corpus Domini di Urbino, oggi alla Galleria Nazionale delle Marche ad Urbino Giusto di Gand era un pittore fiammingo, che nel 1474 ultimò la pala d’altare per la compagnia del Corpus Domini di Urbino, dipingendo la Comunione degli apostoli. Tuttavia, la sua non fu l’unica mano che vi lavorò: Paolo Uccello, durante un soggiorno ad Urbino, ne realizzò la predella tra 1467-68 dando vita a delle storiette prospettiche, poi la compagnia decise di far terminare l’opera a Piero della Francesca nel 1469, ma la commissione non andò in porto. L’opera venne fatta terminare a Giusto di Gand che in un linguaggio nordico rappresentò l’ultimo momento dell’ultima cena. Tutti i personaggi hanno abbandonato la tavola: i discepoli sono inginocchiati intorno a Cristo, la figura in piedi al centro della rappresentazione, mentre offre il primo sacramento. Nello scenografia, nella cura dei dettagli, nella fisionomia dei personaggi nella visibilità di altri edifici grazie alle aperture laterali vediamo completamente una pittura fiamminga, anche nella maggiore irrazionalità della composizione. A destra, tra le figure sullo sfondo e di profilo, riconosciamo il volto di Federico da Montefeltro, accompagnat da alcuni cortigiani. La predella di Paolo Uccello: egli realizzò tutta la pedrella dipingendo sei episodi in cui viene raccontato il Miracolo dell’ostia profanata, tempera su tavola. La storia rientra nel graznde tema delle persecuzioni antisemite e parla di un ebreo parigino che oltraggiò il sacramento e dopo essere stato scoperto venne 77 Nella quinta destra della piazza prende spazio Palazzo Piccolomini che nel prospetto richiama la facciata di Palazzo Rucellai che Rossellino aveva costruito seguendoil progetto di Alberti. Il palazzo è organizzato attorno ad un cortile centrale ed era la dimora che il pontefice usava nei period di vacanza. All’interno accoglie una loggia che si apre sul giardino pensile, sospes sul panorama della val d’Orcia tale che nella sua opera scritta, il papa rivela il nuovo rapporto con il paesaggio. Tavole quadrate senza pinnacoli I Commentarii ci documentano delle commissioni che papa Pio II fece per la decrazione della Cattedrale, fatte a Giovanni di Paolo, Sano di Pietro, Vecchietta e Matteo di Giovanni. Egli richiese di dipingere non polittici, bensì “tabule quadratae sine civoriis”, ovvero delle pale dal formato quadrato tipico del Rinascimento. Ad esempio la Pala di Matteo di Giovanni, 1460-62, tempera e oro su tavola oggi ancora nella Cattedrale. Nel registro principale, tra due lesene scanalate, è rappresentata la Madonna col bambino accompagnata da una corte di angeli e santi. Il tutto è coronato da una lunetta in cui è raffigurata la Flagellazione, con gli aguzzini dinamici e aggressivi. Rimane un aspetto tipicamente gotico: il fondo oro. Successivamente l’arte senese cambierà e si aggiornerà con il linguaggio rinascimentale, abbandonando anche il retaggio del fondo oro. Donatello a Siena Durante il pontificato di Pio II deciso fu l’opera di Donatello a Siena, che consentì un aggiornamento e una svolta nella città in cui si era trasferito, ormai settantenne, per lavorare sulle porte bronzee della Cattedrale. Giunse in città nel 1457, ma nel 1461 tornò a Firenze perché il progetto fallì. Tuttavia a Siena egli lasciò un’opera, il San Giovanni Battista, 1476 in bronzo, ancora oggi conservato nel Duomo di Siena. L’opera intrisa di un crudo vigore e di quell’espressività propria delle ultime opere donatelliane. Da questa opera pare aver desunto un insegnamento Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta, che ha realizzato la Statua bronzea di un Cristo risorto, 1476, in Santissima Annunziata a Siena. La scultura venne destinata alla cappella sepolcrale del suo esecutore e vediamo un’aderenza alla scultura donatelliana nelle anatomie tirate, nel volto che semra una maschera brutale, nel perizoma che, come bagnato, aderisce alle forme del corpo di Cristo. Padova: Donatello, Squarcione e Mantegna Donatello a Padova: Gattamelata e l’Altare del Santo Negli anni 40 del ‘400 è necessario spostarsi a Padova, grande centro propulsore, perché nel 1443 vi si trasefrì donatello, chiamato a realizzare delle importanti opere. Il Gattamelata 1443-53 Bronzo Sagrato della Basilica di Sant’Antonio a Padova Erasmo da Narni, detto Gattamelata, era un uomo di armi, che dal 1439 riconquistò Verona, strappandola a Filippo Maria Visconti e Gianfrancesco Gonzaga, ponendola nuovamente sotto il dominio veneziano. Gattamelata morì nel 1443 a Padova e l’opera celebrativa del condottiero venne commissionata dagli eredi, con il consenso della Repubblica di Venezia: Donatelle non fece solo la statua equestre, ma anche il piedistallo. La statua ha una grande importanza pubblica in quanto si trova accanto alla Basilica del Santo, 80 nonostante fosse un’opera privata. Donatello creò qualcosa di nuovo guardando ad altre statue equestri, come quella di Cangrande Della Scala, attribuita al Maestro dell’arca di Mastino II, in pietra tenera, fatta tra 1325-50, tra le più celebri sculture Scaligere. La struttura del cavallo è appesantita dalla maglia che lo ricopre, come l’elmo sulla schiena che Cangrande si è tolto per guardarci e sorridere, oggi al Museo di Verona. Si tratta di un prototipo di statua non accettato da Donatello infatti ciò che realizzò lui è totalmente diverso: intanto si rifà all’antico scegliendo il bronzo, come la statua di Marco Aurelio che sicuramente studiò (nell’antichità tutte le statue equestri erano in bornzo), e che al suo tempo era nei pressi di San Giovanni in Laterano (prima in Campidoglio, ma venne spostato per volontà di papa Farnese), oggi ai Musei Capitolini di Roma. Il cavallo donatelliano incede, infatti l’artista ha posto una sfera sotto la zampa per conferire equilibrio, mentre il cavallo di Cangrande è statico. Gattamelata tiene il bastone del comando teso sulla folla sottostante. Vasari riconobbe la vivacità di Gattamelata, una figura pesante e , appunto, vivace. Altare di Sant’Antonio 1446-50 Bronzo Altare maggiore della Basilica di Sant’Antonio a Padova La commissione dell’altare maggiore della Basilica di Sant’Antonio, retrostante il Gattamelata, risale al 1446. L’altare venne realizzato in seguito ad una donazione fatta alla fabbriceria. Questo si compone di 7 statue di bronzo, a tutto tondo: al centro c’è la Madonna col bambino in trono, lateralmente decorato da sfingi, che a sinistra è affiancata da San Francesco, a destra da Sant’Antonio da Padova e Ludovico di Tolosa e dall’altro tre santi venerati a Padova: Prosdocimo, Daniele e Giustina. Sono tutte figure monumentali che si ergono con sicurezza nello spazio, che indossano delle vesti, che in alcuni punti aderiscono agli arti mettendo in evidenza le forme del corpo sottostanti. Sul fronte e sul retro dello zoccolo dell’altare, Donatello ha realizzato 22 rilievi che si strtturano in due registri. Nei rilievi sono rappresentati: la Deposizione, quattro scene di vita di Sant’Antonio nel registro superiore, che si distinguono per un’applicazione virtuosa dello stiacciato della tridimensionalità prospettica. Tra le scene di vita di Sant’Antonio vi è il Miracolo della mula, l’animale è al centro della rappresentazione e si inginocchia davanti al santo per ricevere il sacramento; il tutto è inserito in un’architettura con tre volte a botte che contengono una massa di figure, espressive, dinamiche, monumentali e animose di assistere alla scena; probabilmente voleva rappresentare l’interno di una basilica. Per rappresentare la scena ricorre alla prospettiva di sotto in su, tenendo di conto che ilriguardante avrebbe ammirato l’opera da un punto più basso. Nei rilievi è anche rappresentato il Tetramorfo, una Pietà e 12 angioletti. Oggi noi vediamo la ricostruzione dell’altare, avvenuta alla fine dell’Ottocento, che non rende l’idea di come fosse montato all’epoca della sua realizzazione: l’altare aveva uno zoccolo rialzato, con la predella ed un tempietto a ricreare una sacra conversazione, la posizione era più in alto rispetto ad oggi. Manca, inoltre, la cornice architettonica che la inquadrava e al di sopra è coronata da un Crocifisso, sempre opera di Donatello, ma che originariamente era destinato ad un altro luogo della basilica. Nel 1448 venne montato un altare di prova con le sculture ancora da terminare, questo venne augurato nel 1450, nella ricorrenza antoniana. Donatello a Padova portò tutte le sue innovazioni: architettura dell’altare in cui viene inserita quella del tempietto, il rigore prospettico, l’interesse per l’antico, il tutto in una narrazione frenetica degli episodi, andando a incidere sulle maestranze locali e ponendosi come punto di riferimento per un nuovo linguaggio. Francesco Squarcione: il maestro di Mantegna Francesco Squarcione (1397-1468), coevo di Donatello, era il principale pittore di Padova, ma anche un imprenditore antiquario che nella sua bottega formò circa 137 giovani allievi a cui insegnava a disegnare e 81 che poteva esercitarsi grazie anche alla consultazione delle sue collezioni di statue antiche e pitture di molti maestri. Egli lavorò nel pavimento ligneo dell’altare di Donatello nella Basilica di Sant’Antonio, contemporanemente ai lavori di Donatello, che inevitabilmente conobbe. Polittico De Lazara 1449-52 Tempera e oro su tavola per per la Capella De Lazara nella Chiesa del Carmine a Padova, oggi al Museo Civico di Padova L’opera testimonia l’interesse per il linguaggio fiorentino da parte dell’artista, che convive con il linguaggio tardogotico nella struttura formale. Le figure sono intervallate da colonnine tortili che hanno anche la funzione di separare ogni singola tavola: è proprio nei personaggi che si rispecchiano le novità fiorentine, infatti queste si ergono su dei piedistalli, come delle sculture, quelle sculture che vide fondere da Donatello per la Basilica del Santo a Padova. Nella tavola centrale è San Girolamo che siede all’interno di uno studio particolare: si tratta di un’architettura prosepttica, con il muro dietro squarciato per aprirsi su un paesaggio con un cielo naturale: mostra di aver compreso la novità della scultura di Donatello. Gli altri santi (da sinistra): Lucia, Giovanni Battista, Antonio abate e Giustina, si stagliano contro un fondo oro, ma comunque sono delle figure tridimensionali. Un altro elemento donatelliano sono le espressioni vivaci dei personaggi. Madonna De Lazara firmata da Squarcione nella lastra che delimita la balaustra su cui si appoggia il bambino 1452 oggi Gemaldegalerie di Berlino Anche in quest’opera troviamo l’influsso del linguaggio donatelliano. La Madonna è rappresentata di profilo, mentre il bambino, che sembra quasi uno spiritello di Donatello, è vivace e si slancia verso la madre dal davanzale prospettico in primo piano, che ci rende la profondità dello spazio entro cui sono state inserite le figure. Come Donatello, sullo sfondo rappresenta un candelabro che si staglia su un terzo cielo nebuloso e vero, mentre nella parte superiore del dipinto tutto è coronato da ghiralnde di fiori e frutta, elementi tipici della sua pittura. Maestro esuberante che subito recepì le novità della pittura fiorentina, rileggendole con una maggiore vivacità decorativa. Andrea Mantegna (Isola di Carturo 1431 – Mantova 1506) Andrea Mantegna fu il più celebre artista che si formò nella bottega di Squarcione (che lo accolse anche come figlio adottivo), la cui produzione artistica in parte mostra l’eccentricità del suo maestro, ma soprattutto che si caratterizza per aver impiantato una tradizione fondamentale per la pittura veneziana: aprì la scuola veneziana a Giovanni Bellini e poi di Giorgione, da cui poi si sviluppò l’autonoma scuola di pittura di veneziana, che trova le sue origini nella bottega di Squarcione con l’arrivo delle novità fiorentine. Le opere di Mantegna saranno molto richieste anche all’inizio del Cinquecento, quando i gusti dei committenti erano cambiati rispetto al cuore del Quattrocento, ma egli rimase un artista di grande fama. La Cappella degli Orvetari nella Chiesa degli Eremitani a Padova 1448-57 82 1460-64 Per la Cappella del Castello di San Giorgio a Mantova, oggi al Museo del Prado di Madrid Tempera e oro su tavola Questa fu una delle prime opere che Ludovico Gonzaga commissionò a Mantegna: egli doveva decorare questa cappella privata all’interno del castello e che oggi non esiste più. La Tavola con la Morte della vergine doveva appartenere a quell’ambiente, un episodio rappresentato dall’artista in modo molto singolare. Maria, ormai vecchia, è distesa nel letto funebre circodata da un gruppo di apostoli, che sono figure donatelliane nel vigore e nel temperamento. Sul fondo della sala si apre una grande finestra rappresentata in prospettiva, che ci immerge in un paesaggio che non sembrano né Gersulamme od Efeso (luoghi in cui di dice sia morta Maria), ma una realistica veduta di ciò che si poteva vedere affacciandoci dalle finestre del castello dei Gonzaga: il ponte di San Giorgio è scorciato e viene rappresentato con il bacino lacustre che lo circondava. Questa fotografia dipinta ci testimonia come all’epoca il ponte fosse coperto (rimase così fino alla prima metà del Seicento). La costruzione di quest’opera utilitaristica risale al XII, per volere dle comune di Mantova, e aveva come scopo di regolamentare il corso del Mincio. Altre opere idrauliche fecero sì che Mantova fosse circondata da cinque laghi e non più da una palude. La Camera picta o degli Sposi 1465-74 Affresco e tempera Castello di San Giorgio a Mantova La Camera picta è una delle opere più celebri di Andrea Mantegna. La camera si trova in uno dei torrioni del castello , un’aula di rappresentanza in cui si coglie il cambiamento di gusto della committenza (nel castello ci sono degli affreschi di Pisanello). Sulle pareti si scegli di affrescare delle quotidiane scene di corte mediande la creazione di uno spazio illusionistico entro cui inserire i personaggi: un loggiato. Il loggiato è coronato da festoni e dei tendaggi si scostano per farci vedere cosa è rappresentato: non solo scene di corte, ma anche sfondi di paese. Uno degli affreschi rappresentati è quello di Ludovico Gonzaga e la sua corte. Ludovico Gonzaga è all’estrema sinistra, seduto accanto alla moglie, Barbara di Brandeburgo, e davanti si trovano i membri della sua corte, mentre lui, nel frattempo riceve una lettera da un segretario. Probabilmente sono in attesa dell’arrivo del cardinale, loro figlio. La nana e il cane del padrone sono presenti. Mantegna dovette organizzare la scena di fronte agli accidenti della parete: una porta finestra alta e il caminetto: l’artista si inventò un cortinaggio, una tenda nella parte alta per far vedere la scena, che al tempo stesso cade di lato. Sfrutta poi la base sommitale del camino per creare una scalinata, inizia da una porta in basso a destra. Mantegna cercò di annullare le preesistenze architettoniche in modo geniale. In un'altra scena è rappresentato l’Incontro tra Ludovico Gonzaga e il figlio Francesco Cardinale, mentre l’altro prelato tiene per mano il fratello minore di Ludovico, che a sua volta tiene Sigismondo. Accanto al Marchese si riconosce il nipote Francesco, che ereditò, poi, il titolo. Il ciclo non è 85 altro che una celebrazione dinastica, dove alle spalle del cardinale, Mantegna ha allestito un paesaggio dominato da una città fortificata dove la cinta muraria prende ispirazione dalle mura aureliane. Le architetture rappresentate riflettono i gusti di Ludovico Gonzaga, che negli stessi anni aveva affidato a leon Battista Alberti di cambiare il volto della città. La Camera degli Sposi è un’opera fondamentale se presa in relazione alla pittura di Raffaello, quando egli dovette affrescare le Stanze Vaticane per Giulio II con degli accorgimenti già trovati da Mantegna nella camera picta. Per quanto riguarda il Soffitto della Camera degli Sposi: Mantegna nella volta si serve della pittura per ricreare degli elementi architettonici ed una sequenza di busti di Cesari entro clipei, come se fossero dei rilievi scolpiti. Ogni imperatore è identificato da una scritta e sono la cornice dello sfondamento architettonico centrale: Mantegna sfonda il soffitto con un oculo prospettico aperto sul cielo da cui si affacciano dei putti e degli spiritelli rappresentati di scorcio. Cristo Morto 1475-80 Tempera su tela Pinacoteca di Brera di Milano L’opera è particolare poiché dipinta su tela, un aspetto inconsueto nel Quattrocento, ma soprattutto, ancora una volta, Mantegna mostra la sua grande abilità prospettica. Il soggetto è un compianto du Cristo Morto anche se i dolenti vengono spostati sul lato sinistro e di questi vediamo solo le teste. Il copro di Gesù si trova sulla pietra dell’unzione e domina lascena, mentre il sudario, dalle pieghe metalliche lo copre dal bacino arrivando fino alle caviglie, mentre nel resto del copro che rimane scoperto mantegna mette in mostra la sua abilità nella rappresentazione anatomica del copro, già a apartire dal colore della pelle. L’atmosfera del dipinto è cupa, i colori sono spenti e le figure sono scultoree. Mantegna sceglie di farci ammirare il corpo di Cristo dal basso, facendoci apprezzare la sua abilità dello scorcio di sotto in su, come così lo celebra il Vasari. Leon Battista Alberti: San Sebastiano e Sant’Andrea Alberti si recò a Mantova in occasione del concilio del 1459 e Ludovico Gonzaga ne approfittò per commissionargli il progetto di due chiese mantovane e la direzioni dei cantieri venne affidata a Luca Fancelli (1430-95), fiorentino. Chiesa di San Sebastiano Post 1460 Mantova San Sebastiano a Mantova si contraddistingue, come gran parte degli edifici progettati da Alberti, per un prospetto in cui a dominare è la razionalità, il criterio di simmetria, ma soprattutto per l’aspetto classico, anche se il tutto venne alterato rispetto all’originale concezione albertiana. La struttura è rialzata in quanto è presente una cripta. La pianta che viene adottata è quella centrale per poter giocare sull’intersecare insieme le forme geometriche del cerchio e del quadrato. Al portale centrale si accede mediante due scalinate laterali e questo è architravato. Al di sopra la struttura che richiama quella di un arco siriaco, che si inscrive all’interno del timpano all’antica . Chiesa di Sant’Andrea 1470 86 Mantova Merito di Alberti è anche la progettazione della Chiesa di Sant’Andrea a Mantova, su commissione del marchese Ludovico, che voleva ricostruire in forme moderne la vecchia chiesa medievale. L’edificio si può considerare completato solo nel XVIII secolo, quando Filippo JUvarra ne progettò e costruì la cupola. La facciata della chiesa è ispirata ad un tempio antico, mentre l’interno si caratterizza per una pianta basilicale con imponenti arcate e lacunari della navata e delle cappelle laterali. Al portale si accede mediante ad una scalinata, ma questo è preceduto da un imponente spazio coperto da volta a botte decorata con lacunari. L’arcata è sorretta da lesene scanalate. Lesene che si ritrovano a inquadrare, nei due spazi laterali, le due nicchie e le due finestre sovrapposte, mentre si ergono su alti piedistalli . queste quattro lesene sorreggono un’architrave su cui si erge solenne un timpano. Camerino Camerino è un città disposta su un’altura ed è sempre stata molto importante per la sua posizione strategica tra le coste dell’Adriatico e il crocevia dell’Umbria. È di fondazione italica , alleata di Roma, capitale del Ducato longobardo e della contea franca, libero comune e poi sede di una signoria militare. Nel Palazzo Ducale quattrocentesco oggi ha sede l’università, a simboleggiare la fioritura culturale che lasciato un’orma nella pittura italiana del Quattrocento. Oggi l’organismo urbano è disabitato in quanto tutti gli abitanti hanno perso la loro abitazione nelle scosse che sono avvenute nel 2016. Ferrara e gli Estensi: tre pittori ed un progetto urbanistico La Ferrara di Lionello e Borso d’Este Nel 1449 a Ferrara soggiornò Mantegna , quando a capo della corte c’era Lionello d’Este (1407-1450), appartenente ad una famiglia che governava la città dal Duecento. Ferrara era un grande centro culturale e renderla tale furono Lionello e suo padre, Niccolò III d’Este (1383-1441) che dagli anni 30 del Quattrocento ospitò a corte Guarino da Verona, che fu maestro di Lionello. Lionello fu signore di Ferrara dal 1441 al 1450 e in questo decennio, in città giunsero moltissimi artisti, come Pisanello, Piero della Francesca, Rogier van der Weyden e Alberti. L’ “Arco del cavallo” Nella piazza principale di Ferrara, ai piedi del Palazzo Ducale, si innalza il monumento pubblico che segna il passaggio di Alberti in città nel 1444 circa. Si tratta dell’ “Arco del cavallo”, cosiddetto perché sorregge l’effige di Niccolò III d’Este sul suo destriero (statua bronzea realizzata da Niccolò Baroncelli e Antonio di Cristoforo, oggi c’è una copia perché l’originale andò distrutto nel 1796. È un monumento che voca il Gattamelata donatelliano, ma in cui l’antico venne richiamato con maggiore forza grazie all’arco che lo sostiene, citando il passo di Plinio), tra il 1450-51. Alla morte di Lionello nel 1450, Ferrara passò nelle mani del fratello Borso (1413-1472), che salì al rango di duca ed ebbe molta passione per le arti. Nel 1451 venne commissionata la realizzazione di una sua effige a Donatello, che però non rispettò l’impegno. Ferrara era una città in continua comunicazione con Padova, infatti, sempre a metà Quattrocento, Bono da Ferrara affrescava la figura di San Cristoforo in una delle pareti nella Cappella Orvetari nella Chiesa degli Eremitani. La figura del santo è monumentale e sulle sue spalle reca Gesù bambino. Il paesaggio ricorda quasi la pittura di Piero della Francesca che aveva fatto degli affreschi nel Castello Estense e nella Chiesa di Sant’Agostino. Oggi l’affresco è andato parzialmente distrutto a causa del bombardamento del 1944. 87 Con il procedere della sua carriera artistica, Ercole de’ Roberti maturò un linguaggio più suo, che si stacca dalle propensioni per Tura, acquisendo un registro più quieto. Questo nuovo linguaggio emerge nella pala che dipinse tra 1479-81 per l’altare maggiore della Chiesa di Santa Maria in Porto a Ravenna, oggi alla Pinacoteca di Brera, olio su tela. È l’unica opera accertata dell’artista in cui notiamo un formato più moderno rispetto a quello usato dai suoi colleghi: egli abolisce le cornici divisiorie per dare vita ad uno spazio realmente unificato grazie alla costruzione di un quadriportico all’antica, all’interno del quale inserisce i personaggi. La Vergine è seduta solenne sull’elevato baldacchino, mentre sylle ginocchia tiene il figlio, che si slancia verso Sant’Anna, alla sinistra della Vergine; a destra c’è Sant’Elisabetta. La abse e il coronamento del trono sono rivestiti da scenette a rilievo. Il trono è sopraeleveto a mostrare sullo sfondo una marina offuscata da un cielo nebuloso con una città portuale circondata da alture e rocce scheggiate: si tratta di un riferimento a Pietro degli Onesti, un beato, che è anche rappresentato ai piedi del trono, a sinistra. Egli era scampato ad una tempesta mentre era in nave e, successivamente, donsò la chiesa come ex voto per essere stato salvato. La figura a lui speculare è Sant’Agostino. Emerge una precisione al dettaglio nella rappresentazione della decorazione architettonica del baldacchino e della ricca veste di Pietro degli Onesti. Il piano urbanistico di Biagio Rossetti Gli Estensi furono molto attenti alla razionale organizzazione del contesto urbano, che culminò, poi, nell’addizione erculea. I lavori di ammodernamento della città iniziarono con Borso d’Este, ma solo con il suo fratello e successore Ercole (signore di Ferrara dal 1471 al 1505), si diede vita ad un progetto che permise di ampliare lo spazio viario, aggiornare le difese militari, fu Biagio Rossetti a disegnare il nuovo progetto urbanistico, nel 1484, mentre i lavori iniziarono nel 1492 e terminarono nel 1510. Con addizione erculea si intende la costruzione della città sulla base di assi: vengono presi come punto di riferimenti gli assi viari ortogonali di Vitruvio per impostare la città su due viali: quello che andava da nord a sud collegava il Palazzo Estense con la nuova parte di città, e prende il nome di cardo, mentre l’asse che va da est a ovest e prende il nome di decumano, collegavala Porta Po alla Porta Mare. I due assi si intersecavano nel cosiddetto quadrivio degli Angeli, che trova corrispondenza in un angolo del Palazzo dei Diamanti. Il Palazzo dei Diamanti venne progettato da Rossetti per un altro figlio di Niccolò III, Sigismodno d’Este, nel 1492. Questo prende il nome dal paramento murario esterno, realizzato con il bugnato in marmo lavorato a punta di diamante. Gli Sforza ed il primo Rinascimento a Milano Nel 1447 Filippo Maria Visconti morì senza eredi maschi, motivo per cui si vede il passaggio dal ducato dei Visconti a quello degli Sforza, poiché il suo erede fu Francesco Sforza (1401-66), che nel 1441 sposò Bianca Maria, figlia dell’ultimo duca Visconti. Francesco Sforza divenne ufficialmente duca nel 1550, egli si formò a Ferrara con Guarino Veronese e da questo momento in poi inizia l’apertura della corte milanese verso il linguaggio rinascimentale. Il Castello Sforzesco e la Torre di Filarete 90 Una delle prime iniziative di Francesco Sforza fu quello di ristrutturare il Castello di Porta Gioivia, dando vita al Castello Sforzesco, che era un residenza fortificata che prendeva spazio al centro della corte. L’ingresso venne protetto maggiormente con un torrione merlato e possente, di gusto gotico, che è andato distrutto nel 1521, quella odierna è frutto di un restauro capitanato da Luca Beltrami tra 1901-05 con lo scopo di restituire al castello l’aspetto quattrocentesco. La Torre è detta di Filarete perché è tramandandata la notizia che il proetto fosse di questo architetto e scultore fiorentino. Il suo reale nome era Antonio Averlino e dopo l’esperienza romana si trasferì a Milano, alla corte sforzesca, nel 1451, ottenendo dallo stesso duca un ruolo di rilievo. Sforzinda Durante il soggiorno milanese, Filarete scrisse un Trattato, dedicato alla progettazione della città ideale di Sforzinda. Francesco Sforza compare nelle pagine del trattato, che risale al 1460-64 ed alcune delle sue pagine sono conservate alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Questo scritto si caratterizza per un ricco corredo di illustrazioni progettuali. La pianta di Sforzinda doveva essere perfettamente geometrica e a stella, con al centro della piazza centrale una torre dai caratteri sia gotici lombardi che rinascimentali. Sforzinda, di fatto non fu mai fondata, ma Filarete progettò l’Ospedale maggiore di Milano, fondato nel 1456. Oggi l’ospedale non ha più l’originaria funzione, ma è sede dell’università di Milano. La facciata vede una compresenza di bifore ad arco acuto e gli archi a tutto sesto e le colonne del resgitro inferiore del loggiato. Si tratta di un edifcio in cui riverbera la cultura ibrida, gotica e rinascimentale, di Filarete. Vincenzo Foppa: solidità rinascimentale e verismo nordico Foppa fu il pittore che aprì la strada al linguaggio rinascimentale in pittura a Milano, ponendo le premesse per l’affermazione, alla corte sforzesca, di Leonardo e Bramante. Galeazzo Maria Sforza (duca dal 1466-76), figlio di Francesco, concesse a Foppa la cittadinanza di Pavia. La Cappella Portinari 1465-68 gli affreschi. La costruzione 1462-68 In Sant’Eustrogio, chiesa domenicana Non sappiamo chi abbia progettato l’architettura della cappella, ma questa è intrisa dell’influsso dei razionali moduli brunelleschiani. Alcuni degli affreschi sono stati realizzati da un pittore lombardo, Vincenzo Foppa (Brescia 1430-1515/16). Vediamo come il suo linguaggio pittorico si caratterizzi per l’uso della prospettiva, che probabilmente aveva appreso studiando Donatello a Padova. Egli nella cappella ha afferscato le lunette e gli arconi con le Storie di San Pietro Martire e della Vergine. Nella scena del Miracolo di Narni, l’episodio, dove il domenicano si inginocchia a risanare il piede di un giovane che si era amputato l’arto perché pentito di aver tirato un calcio alla madre, è inserito all’interno di uno spazio tridimensionale piuttosto complesso con una proiezione prospettica in diagonale. La successione dei piani, che è segnata da due robusti archi a tutto sesto bicromi (uno sopra le teste di protagonisti, visto di sotto in su, l’altro è quello sullo sfondo), ci suggerisce la profondità. Zanetto Bugatto: il mistero di un lombardo a Bruxelles La corte sforzesca amava i dipinti dei maestri nordici. Foppa dipinge alla Fiamminga 91 Vincenzo Foppa nel 1465 dipinse una Madonna col bambino, tempera su tavola, oggi conservata alla Pinacoteca del Castello Sforzesco. L’opera mostra come nel linguaggio di Foppa fossero subentrati dei caratteri tipici della pittura fiamminga come la soffusa aria domestica e l’impostazione dell’opera. La Vergine tiene il bambino col braccio sinistro, mentre poggia su un soffice cuscino poggiato sul davanzale, mentre un tendaggio a sinistra si scorge a mostrare i protagonisti della scena; una finestra sullo sfondo si apre sul cielo. Questi ultimi sono elementi che si ritrovano nella Madonna con bambino alla National Gallery di Londra, 1465, olio su tavola, attribuita a Dirk Bouts, allievo di Rogier van der Weyden. Se mettiamo le due opere a confronto, vediamo come i pittori italiani rileggevano la pittura nordica mantendendo la solidità strutturale delle figure, delle cose e dello spazio. Zanetto Bugatto a Bruxelles Zanetto Bugatto era un pittore lombardo che venne inviao all’inizio degli anni 60 del Quattrocento, da Bianca Maria Visconti, nella bottega di Rogier van der Weyden a Bruxelles. A quanto dicono i documenti, Bugatto era una dei pittori favoriti a Milano, ma non ne sono rimaste opere sicure. Sulla base del soggiorno a Bruxelles, si pensa che lui abbia realizzato la Madonna Cagnola, 1470-75, tempera grassa su tavola presso Villa Cagnola a Cazzada (Varese), oggi Collezione Cagnola. Evidente è l’adesione al linguaggio nordico, più decisa rispetto a Foppa, come si vede dai panneggi geometrici della veste di Maria, dalla luce, dai colori e dalle fisionomie degli angeli intorno alla Vergine con le ali appuntite. Alla morte di Bugatto nel 1476, Galeazzo Maria Sforza, figlio di Bianca Maria, cercò di reclutare a corte Antonello da Messina, pittore italiano che bene interpretava il linguaggio fiammingo nelle sue opere, che all’epoca era a Venezia ma si era formato nella Napoli di Alfonso d’Aragona. Napoli capitale aragonese: da Colantonio ad Antonello Nel 1443 Alfonso il Magnanimo fece il suo ingresso a Napoli, diventando il nuovo re. Alfonso aveva sconfitto la dominazione angioina, che aveva preso luogo con Roberto d’Angiò, che fu re della città dal 1309 al 1343, aprendo una felice stagione per le lettere e le arti, ma anche Alfonso seppe rilanciare napoli come capitale culturale. Castel Nuovo Alfonso d’Aragona stabilì la sua corte a Castel Nuovo, edificio angioino completamente restaurato per volere del nuovo re. L’ingresso della residenza è segnato dalla presenza di due possenti torri laterali che lo inquadrano, sono a pianta rotonda e vennero progettate da Guillermo Sagrera post 1443. . verso il centro urbano si rivolge un arco all’antica, eretto alla fine del 1453 e seppur segua il gusto albertiano ha ancora un carattere gotico nell’allungamento verticale del prospetto mediante l’aggiunta di un secondo registro con un secondo arco. In questo cantiere lavorararono numerosi artisti, come Antonio da Pisa, Francesco Laurana ed altri ed ancora oggi è difficile capire chi abbia scolpito cosa. Sopra il primo arco, inquadrato da due colonne su plinti, sopra l’architrave che sorreggono è rappresentata la scena con il trionfo di Alfonso con un’iscrizione che lo celebra. Egli incede sul carro preceduto da suonatori di tromba, mentre alle spalle ha il suo seguito. Una testa di Donatello: 1475, al centro dell’arco superiore, oggi vuoto vi era un monumento equestre con l’effige di Alfonso, in bronzo. Donatello, però non terminò mai l’opera, seppur nel Museo Archeologico di Napoli, una testa di cavallo che impressiona per il verismo della resa dell’animale, molto allineato con la scultura greca e romana. Bartolomeo Facio e i gusti aragonesi 92 Olio su tavola trasportata su tela Dalla Chiesa dell’Annunciata a Palazzo Acreide, oggi alla Galleria Regionale di Palazzo Bellomo a Siracusa I protagonisti dell’episodio sono inseriti all’interno di una stanza di un edificio domestico che non è altro che una descrizione della casa di Nazareth in cui Maria ricevette l’Annuncio. La parete dello sfondo è scura, ma confina con vani illuminati ed è aperta su un paesaggio grazie alle due finistre nella parete retrostante a Gabriele e Maria. La luce e la definizione dei dettagli sono fiamminghi e si innsetsano su una resa tridimensionale sia dell’architettura che delle figure, dove la colonna in primo piano scandisce la scena e sorregge una cornice architettonica. Con questo linguaggio moderno, Antonello da Messina conquistò Venezia. Verso il nuovo secolo: umanesimo e cultura antiquaria Contesto storico Sul finire del Quattrocento si afferma la generazione successiva di artisti che fecero maturare il linguaggio rinascimentale, mentre l’Italia, ancora divisa in piccoli Stati rivela la sua debolezza rispetto alle altre realtà unificate. Il 9 aprile del 1454 a Lodi, in Lombardia, venne firmata la Pace, detta di Lodi, tra la Repubblica di Venezia ed il Ducato di Milano degli Sforza. Questa pace fu fondamentale per garantire un periodo di stabilità agli assetti territoriali e politici. Le principali potenze erano Venezia, Milano, la Repubblica di Firenze dei Medici, lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli aragonese. La seconda metà del secolo fu importante perché a Firenze, la famiglia Pazzi antimedicea, escogitò una congiura per poter prendere il potere nella signoria. Nel 1464 morì Cosimo il Vecchio lasciano il controllo del banco mediceo a Piero il Gottoso, che a sua volta lo lasciò a Lorenzo il Magnifico (1449-1492) e Giuliano(1453-78), quando morì nel 1469. I due fratelli Medici riuscirono a mantenere il controllo su Firenze e dovettero anche fronteggiare la Congiura organizzata dai Pazzi: nell’aprile del 1478 in Duomo, i Pazzi assalirono i due fratelli, Lorenzo si salvò mentre Giuliano perse la vita; il tutto portò ad uno schieramento con i Medici, mentre i Pazzi vennero in parte uccisi ed in parte esiliati. Dietro al complotto vi era anche la Chiesa, gli Aragonesi e la Repubblica di Siena. Lorenzo de’ Medici, tuttavia, riuscì con le sue doti politiche a stabilire una pace che portò a consolidare la Repubblica fiorentina. Per quanto riguarda lo Stato della Chiesa, Francesco della Rovere (1414-1484) divenne papa nel 1471 col nome di Sisto IV, dopo aver fatto “carriera” entrando nell’ordine francescano, ricevendo una formazione umanistica e insegnado in varie università. Egli si distinse per il mecenatismo ed il nepotismo favorendo l’elezione a capi politici di membri della sua famiglia, promosse la costruzione della Biblioteca Vaticana, della Cappella Sistina (1480-82). Maometto II, che nel 1453 aveva conquistato Costantinopoli, nel 1480 inviò una grande flotta contro l’Italia meridionale Occupando l’estremità della Puglia, minacciando sia Roma che Napoli: questo evento fu involontariamente a favore dei Medici poiché in questo contesto Ferdinando d’Aragona e Sisto IV furono spinti a firmare la pace con Firenze per riuscire a riconquistare Otranto e cacciare i turchi, tutto ciò accadde nel 1481, quando Maometto II era già morto. Solo la Repubblica di Venezia era riuscita a portare avanti un accordo il sultano nel 1479 favorendo a se stessa scambi commerciali ed artistici infatti Gentile Bellini soggiornò a Costantinopoli dal 1479 al 1481 realizzando un Ritratto di Maometto II, olio su tela probabilmente trasferito da una tavola e ridipinto, 1480 oggi alla National Gallery di Londra. Gentile realizzò un Ritratto di Caterina Cornaro, regina di Cipro, nel 1500, olio su tavola oggi al Szépmuvészeti Mùzeum. Lei alla morte del marito decise di abdicare e lasciare l’isola alla Repubblica di Venezia, che estese il suo dominio sul Mediterraneo, lei in cambio ricevette la terra di Asolo dove lei diede vita ad una corte colta. L’equilibrio, precario, che si era creato tra gli stati italiani presto tornò in pericolo a causa dei sovrani francesi: Carlo VIII 95 (1470-98) poiché in quanto nipote di Maria d’Angiò rivendicava il trono del Regno di Napoli infatti nel 1494 mosse l’esercito varcò le Alpi contro gli Aragonesi. L’intento riuscì, ma nel 1495 Carlo VIII venne cacciato a causa di un’insurrezione filoaragonese. Milano e Venezia diedero vita ad una lega per evitare la ritirata del sovrano e venne combattuta una battaglia nel 1495 che però non vide vincitori. Tutto cioò aveva, in compenso, genrato un periodo di continue battaglie nella penisola, denominato “guerre d’Italia”. Nel 1498 salì al trono il successore di Carlo, Luigi XII, che rivendicò il trono napoletano e anche il Ducato di Milano: nel 1499 riuscì a prendere la città lombarda ponendo fine al dominio degli Sforza e di Ludovico il Moro, mentre nel 1501 partì alla volta di Napoli scontrandosi, però, con gli interessi di Ferdinando il Cattolico, colui che aveva cacciato tutti i musulmani dalla Penisola Iberica e sovrano sotto il quale Cristoforo Colombo scoprì l’America. Nel 1504 ratificarono il Trattato di Lione con cui Milano diventata francesce, mentre Napoli si confermava spagnola. Per quanto riguarda Firenze, alla morte del Magnifico nel 1492, la città passò in mano al figlio Piero detto il Fatuo, che non seppe opporre resistenza al passaggio del sovrano francese in Toscana e venne cacciato nel 1494 da Firenze. L’esilio dei Medici fu un’opportunità per Girolamo Savonarola di prendere il poetere e guidare la repubblica per rendere Firenze una città cristiana ideale. I suoi ideali portarono a mettere al rogo molte opere d’arte che erano esponenti della cultura umanistica promossa da Lorenzo il Magnifico, tuttavia egli venne condannato a morte nel 1498 da una città che non tollerava più il suo comando. Prese vita una nuova repubblica. In questo periodo lo Stato della Chiesa passò sotto il controllo di Rodrigo Borgia, papa col noe di Alessandro VI dal 1492 al 1503. Borgia era noto per la corruzione e per l’aver passato una vita tutt’altro che casta e soprattutto negli eccessi e nei lussi condannati dallo stesso Savonarola. Sotto il suo dominio, Roma continuò ad essere un importante capitale artistica in espansione: fu proprio sotto il pontificato di Alessandro IV che venne riscoperta la Domus aurea di Nerone facendo sì che i pittori dell’epoca prendessero spunto da ciò che lì era giunto, come il motivo decorativo della grottesca. Alla fine del secolo importante fu la figura di Michelangelo, che con le sue sculture rese Roma grande e tracciò la strada della Maniera Moderna. “Maniera Moderna” è la definizione data da Vasari per indicare le opere d’arte prodotte nel periodo in cui l’Italia era terra di conquista da parte degli altri stati nazionali. Lo storico fiorentino Francesco Guicciardini ci dice che dapprima l’Italia era divisa in cinque stati: il Papato, Napoli, Venezia, Milano e Firenze, che avevano portato ad un equilibrio perché vi era attenzione a mantenere i propri confini e i conflitti militari si svolgevano in modo molto più lento. Tuttavia, con l’arrivo dei francesi si squarciò l’unione di Italia e vedendo cadere le dominazione e le città, gli stati assunsero un atteggiamento passivo, ma le guerre si fecero improvvise e violente: le scelte sulle dominazioni italiane non dipendeva più dai loro signori, ma dalle decisioni dei sovrani dei grandi stati nazionali. All’inizio del Cinquecento, Milano era già stato conquistato dai francesi, mentre nel 1504 il Regno di Napoli passò alla corona aragonese. Nel 1508 l’impero di Massimiliano d’Asburgo, la Spagna, la Francia, alleati anche con Mantova, il Papato e Ferrara, si coalizzarono nella Lega di Cambrai per attaccare Venezia e spartirsi i suoi territori, ma l’intento fu vano perché presto si presentarono degli squilibri all’interno della lega. Giuliano della Rovere succedette lo zio, Sisto IV, sul trono pontificio nel 1503 con il nome di Giulio II e seppe ben distinguersi come mecenate, avviando ad esempio il progetto di ricostruzione della Basilica di San Pietro, la decorazione delle Stanze Vaticane con Raffaello, la Volta della Cappella Sistina, ma al tempo stesso fu un bellicoso capo di Stato. Nel 1510 fece sciogliere la Lega di Cambrai e l’anno successivo creò la Lega Santa per unirsi con Venezia e liberare il Ducato di Milano dalla dominazione francese; nel 1512 si alleò nella lega anche Massimiliano d’Asburgo. Abbiamo un Ritratto di Giulio II alla National Gallery di Londra, da Santa Maria del Popolo, fatto da Raffaello, 1511, olio su tela. Nonostante i francesi avessero indetto un Concilio a Pisa per deporre Giulio II, il tentativo fallì, vennero temporaneamente cacciati e Milano tornò agli Sforza, mentre i domini della Chiesa si ampliavano. Giulio II morì nel 1513 e nello stesso anno salì sul trono pontificio il primo papa Medici, Leone X, uno dei figli cadetti di Lorenzo il Magnifico. Egli non era un papa incline alla guerra e si distinse soprattutto per il mecenatismo, grazie a lui i Medici vennero 96 riammessi a Firenze in cui nominò arcivescovo e poi cardinale il cugino Giulio de’Medici, che poi lo successe come nuovo papa con il nome di Clemente VII. Raffaello ha anche fatto un Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de’Medici e Luigi de’Rossi, 1518, olio su tavola, oggi agli Uffizi, in cui il pontefice è seduto su uno scrittoio a leggere un manoscritto miniato con una lente tra le mani, realismo nei volti e nei dettagli mentre l’atmosfera è gloriosa e serena. Leone X dovette affrontare anche l’avvento della Riforma Luterana: nel 1517 Martin Lutero affisse le 95 tesi con cui condannò la chiesa di Roma e la vendita delle indulgenze, ovvero la Chiesa che richiedeva denrao per “la liberazione dei peccati” e i papi lo usavano per finanziare le proprie imprese: Giulio II per le sue commissioni artistiche e le imprese miliatri, mentre Leone X pure. Martin Lutero visitò Roma nel 1510 e rimase indignato dal fasto della curia e riteneva che tutto fosse eccessivo e pagano, aspetto che venne criticato anche da Savonarola ed Erasmo da Rotterdam. Dopo l’affissione delle tesi, Lutero venne scomunicato nel 1521, ma cercò di difendere le sue convinzione durate la Dieta di Worms: inizialmente Carlo V rimase fedele alla chiesa, ma Lutero seppe portare dalla sua parte numerosi principi tedeschi, dando vita al periodo delle guerre di religione, che sconvolsero l’Europa fino alla metà del Seicento. Carlo V divenne imperatore nel 1519 a soli diciannove anni ed oltre ad essere imperatore del Sacro Romano Impero era anche re di Spagna e Napoli, vantava diritti sul Ducato di Borgogna e sulle terre del nuovo mondo grazie all’operato dei conquistadores. Il suo più grande nemico fu Francesco I di Francia, colui che sal’ al trono nel 1515 e che aveva conquistato il Ducato di Milano con un conflitto che si risolse solo nel 1525 nella battaglia di Paia, con la sconfitta delle truppe francesi. Francesco I venne fatto prigioniero e liberato solo dopo aver rinunciato alla pretese sul Regno di Napoli, il Ducato di Milano e sulla Borgogna. Nel 1523 Giulio de’Medici divenne papa e dovette subire il sacco di Roma nel 1527 ad opera di Carlo V. Nuove generazioni: Pollaiolo e Verrocchio Cappella dei Magi in Palazzo Medici Nel 1459, Palazzo Medici progettato da Michelozzo per volere di Cosimo de’ Medici era concluso e gli ultimi lavori che si stavano portando avanti erano quelli di decorazione della Cappella dei Magi, affrescata tra 1459-60 da Benozzo Gozzoli, allievo di Beato Angelico. L’ambiente della cappella è intimo e fastoso e si caratterizza per armonizzare al suo interno l’architettura brunelleschiana, modulare e razionale, con i modi dell’Alberti: il soffitto è cassettonato ed il pavimento è decorato da lastre di porfido e marmi. Fu Cosimo a decidere cosa Benozzo dovesse affrescare: il Viaggio dei Magi, che l’artista interpreta in modo sfarzoso, con l’oro, colori acessi e lapislazzuli. All’interno della raffigurazione sono rappresentati i membri della famiglia Medici, ovviamente con intento celebrativo, anzi nella figura del mago Gaspare, si pensava che fosse ritratto un giovane Lorenzo il Magnifico. Dietro Gaspare cavalca Piero il Gottoso con suo padre Cosimo anziano e dietro un seguito popoloso, in cui c’è anche il ritratto di Benozzo. L’autore dell’affresco non aderisce al nuovo linguaggio rinascimentale, poiché seppur le figure siano volumetriche, come i cavalli, il paesaggio è tardogotico e bidimensionale e soprattutto non richiama il paesaggio fiorentino, è una scena cortese, di una famiglia che stava iniziando a percepersi regnante nella città di Firenze, tanto che sullo sfondo è anche rappresentata una battutta di caccia. Antonio del Pollaiolo Antonio pittore Piero il Gottoso verso il 1460 commissionò ad Antonio del Pollaiolo (Firenze 1431/32- Roma 1498) la realizzzione di un terzetto di tavole con le Storie di Ercole che lui aveva realizzato su delle ele di formato quadrato che oggi sono andati perduti, ma delle Tavolette degli Uffizi, sempre fatte da Antonio del 97