Scarica Storia della filosofia moderna, tratto da Storia della filosofia moderna di G.Belgioso e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! LA <<NOVA FILOSOFIA>> DI GIORDANO BRUNO Giordano Bruno (1548-1600) nasce in una «picciola contrada» presso Nola (nelle vicinanze di Napoli), nel 1565 entra nell'Ordine dei Predicatori, stabilendosi presso il convento di San Domenico maggiore, dove rimane per oltre un decennio. In questo periodo, accanto a letture tradizionali (da Aristotele a Tommaso d'Aquino), Bruno incontra le opere di Erasmo, con cui intraprende un lungo confronto, riguardante aspetti particolarmente delicati del suo travagliato rapporto con il cristianesimo. A seguito del processo napoletano, all’inizio del 1576, Bruno si reca a Roma, su cui pesano il ritrovamento, di cui il Nolano aveva provato a disfarsi, e l'accusa di aver ucciso, gettandolo nel Tevere, un suo confratello - lo spinge a deporre l’abito e a fuggire dalla città, dando inizio alla sua lunga peregrinatio. Nel 1579 è a Ginevra, coglie una nutrita comunità evangelica italiana. Durante il suo soggiorno in città, Bruno aderisce formalmente al Calvinismo ma, una volta iscrittosi all'università ginevrina come professore di teologia, si trova presto coinvolto in un duro scontro con le gerarchie ecclesiastiche per aver pubblicato un libel diffamatoire in cui sono elencati ben venti errori commessi da Antoine De la Faye, titolare della cattedra di filosofia, in una sola lezione. Lasciata Ginevra, il Nolano si dirige in Francia, trovando sistemazione a Tolosa, presso la cui università approfondisce i suoi interessi per l'astronomia, sembra possibile che proprio nell'ambiente tolosano Bruno abbia raccolto notizie sulle innovative teorie esposte nel De revolutionibus orbium coelestium (1543) di Niccolò Copernico (1473-1543). Nel 1581, gli scontri delle guerre civili costringono il Nolano a trasferirsi a Parigi. Nella capitale francese, Bruno vive un periodo fecondo, facilitato dalla protezione del re Enrico III che, affascinato dalla sua straordinaria memoria, lo fa chiamare a corte e lo ammette nel gruppo dei lecteurs royaux. In questi anni Bruno si dedica all'incarico di insegnamento ottenuto e alla pubblicazione delle sue prime opere, con cui approfondisce, secondo una precisa prospettiva filosofica, due discipline che occupano un posto rilevante nell’enciclopedia rinascimentale del sapere: l.la mnemotecnica, l'antica arte (la cui invenzione è tradizionalmente attribuita al poeta greco Simonide di Ceo) che tramite un sistema di immagini e luoghi consente di organizzare e ricordare, secondo un determinato ordine, numerose informazioni. 2.il lullismo, la dottrina ispirata alle opere del mistico catalano Raimondo Lullo (1232- 1316), che, grazie a un sistema combinatorio di lettere e all'uso di determinate figure (come alberi e ruote), prospetta un metodo universale capace di conoscere ogni cosa, argomentando e raggiungendo la verità in ogni questione. Tra gli scritti bruniani del primo soggiorno parigino è particolarmente significativo il trattato latino intitolato Le ombre delle idee (1582), che si compone: di un Dialogo prelibatorio, con cui il Nolano discute critiche e obiezioni avanzate negli ambienti parigini a seguito delle sue lezioni; di una prima parte, dal taglio squisitamente speculativo, organizzata secondo due serie di trenta riflessioni intorno alle «intenzioni delle ombre» e ai «concetti delle idee»; e di una seconda sezione completamente dedicata all'esposizione dell’ars memoriae. Il nucleo filosofico dell’opera va individuato nella nozione di ombra - non «tenebra, ma traccia della tenebra nella luce, o traccia della luce nella tenebra» che per Bruno esprime i limiti ma anche le potenzialità della conoscenza umana: l’uomo non può arrivare alla prima e più alta verità, ma proprio a partire dall'’ombra in cui è immerso può, in uno straordinario atto di concentrazione, riuscire a cogliere l’unità sottesa al mondo naturale, sedendosi, secondo l’immagine tratta dal Cantito dei cantici, «all'ombra del bene e del vero». A Parigi Bruno pubblica anche la sua unica commedia, il Candelaio (1582), che ha per oggetto, «i gloriosi frutti di pazzia» rappresentati dalle vicende dei tre protagonisti: le pene amorose di Bonifacio, le ricerche alchemiche di Bartolomeo, la pedanteria di Manfurio. Lasciata Parigi a caus dei conflitti tra cattolici e ugonotti, si reca in Inghilterra al seguito dell’ambasciatore francese Michel de Castelnau. Nell'estate del 1583 è a Oxford, ottiene l’incarico di tenere un ciclo di lezioni nel prestigioso ateneo inglese, da cui tuttavia è presto allontanato a seguito dell’accusa di plagio dal De vita ficiniano. Si tratta di un provvedimento in larga misura dovuto all’avversione degli accademici inglesi per le tesi copernicane esposte dal Nolano nelle sue conferenze. Bruno si stabilisce quindi a Londra, dove nel 1583 pubblica un ciclo di scritti latini dedicati all'arte della memoria e incentrati sul concetto di sigillo. (Ars reminiscendi, Explicatio triginta sigillorum, Sigillus sigillorum). Nel biennio 1584-1585, in un momento di straordinaria attività, dà alle stampe le sue opere più note, i sei dialoghi filosofici in volgare indirizzati alle élites culturali della corte di Elisabetta |. Altra opera importante fu, la Cena de le ceneri (1584). Nell'opera, il filosofo chiarisce il suo giudizio sul modello copernicano: insiste, secondo un ragionamento che stringe in un solo nodo filosofia e autobiografia, sui meriti della propria teoria filosofica, che si distingue dalla prospettiva matematica proposta da Copernico come il «sole» del giorno dalle prime luci dell’«aurora» (Cena, in Dialoghi filosofici italiani, p. 25).il Nolano argomenta a favore dell’esistenza di un universo infinito, popolato da mondi innumerabili che abitano un cielo immenso, privo di sfere solide, di distinzioni gerarchiche e di qualsias ite capace di circoscriverlo, scardinando, i pilastri della cosmologia aristotelico-tolemaica. AI fondo del quadro cosmologico della Cena si situa la scoperta della vita, come principio che informa la realtà, annullando distruggendo, attraverso l’idea di un prodursi infinito, tutte quelle nozioni immaginarie architettate da Aristotele e dai suoi seguaci. Centralità del «principio vitale». Se «ogni cosa participa di vita» (Cena, in Dialoghi filosofici italiani, p. 82), non c'è alcun motivo per credere che la Terra sia fissa al centro dell’universo, come non vi è ragione per escludere che il cielo sia «una inmensa eterea reggione» dove vegetano «corpi innumerabili [...] che concorreno alla constituzion del mondo Segue immediatamente la pubblicazione, il De la causa, principio et uno, Bruno ripensa le nozioni principali di causa e principio, forma e materia, atto e potenza, per elaborare una concezione della sostanza universale, dando origine agli infiniti enti che abitano l'universo. A proposito del principio formale, il Nolano insiste sulla correlazione di forma, anima e vita. La forma, intesa come anima del mondo. Bruno può dunque sostenere che «l’anima de l'universo, in quanto che anima et informa, non ha raggione di principio, ma di causa.>>. Tali risultati, si accompagnano a un'intensa riflessione sul concetto di materia, volta a dimostrare che il principio materiale non va identificato con «quel prope nihil, quella potenza pura, nuda, senza atto, senza virtù e perfezione», delineata dalla scuola peripatetica. Per conseguire tale obiettivo è necessario, in primo luogo, operare una riconsiderazione della nozione di potenza, sottolineando, la stretta connessione tra potenza passiva e potenza attiva. La potenza costituisce, piuttosto, il segno distintivo di «virtù» ed «efficacia». «L'eccellenza della potenza» richiama, a sua volta, la «raggione di materia», di cui si può discutere in modo ben più alto «senza detraere alla divinità». Si tratta di un ragionamento ulteriormente precisato dalla messa a fuoco di un solo sostrato materiale tanto del corporeo che dell’incorporeo, ossia di una materia che, «per essere attualmente tutto quel che può essere, ha tutte le misure, ha tutte le specie di figure e di dimensioni All’indigenza del principio materiale inteso come pura potenza e indeterminazione si sostituisce così la fecondità e vitalità di un'unica materia universale, che, escludendo «ogni essere particolare», partorisce dal proprio grembo tutte le forme, al pari di una «pregnante» che «è senza la sua prole, la quale la manda e la scuote da sé». Delineati i caratteri principali della sua filosofia della natura, Bruno volge la sua considerazione alla terribile crisi che travaglia il continente europeo, di cui individua, con energia inedita, la matrice religiosa e, precisamente, ‘riformata’: con la dottrina della iustitia sola fide, Lutero e i suoi seguaci - identificati con gli angeli nocentes del Lamento ermetico - hanno diffuso tra i popoli un’etica dell’ozio e dell’inerzia, e, eliminando dall’orizzonte umano, assieme all'idea di merito anche il concetto di giustizia. Da tali convinzioni nasce lo Spaccio de la bestia trionfante, testo che, attraverso il racconto della «purgazione» del cielo indetta da Giove, presenta un programma di riforma universale volto a restituire «la tanto bramata quiete alla misera et infelice Europa». Bisogna quindi valorizzare i canali di comunicazione tra «mondo archetipo» e «mondo fisico», nonché individuare una nuova forma di religione che - sul modello del culto magico degli Egizi - consideri la natura il luogo dove «quel dio» che «come absoluto, non ha che far con noi» si «diffonde e si communica» senza riserve agli uomini. Ma anche il messaggio di rinnovamento morale e civile consegnato allo Spaccio è destinato a cadere nel vuoto, contribuendo piuttosto a diffondere l’immagine di Bruno quale uomo «infedele, empio, ateo». Amareggiato per il generale atteggiamento di chiusura del mondo inglese rispetto alla sua filosofia, il Nolano dà alle stampe la Cabala del cavallo pegaseo (1585), dialogo in cui si raccolgono le istanze più radicali della sua riflessione, come dimostra il feroce attacco alla religione cristiana. La stagione dei dialoghi italiani si conclude con la pubblicazione degli Eroici furori (1585). Lo scritto indaga, la forma più alta di conoscenza che l’uomo può raggiungere attraverso l’esperienza straordinaria dell’eroico furore. Per chiarire la specificità della sua posizione, il Nolano distingue il furioso dal sapiente. Se quest’ultimo si confronta con la contrarietà insita nel mondo naturale, limitandosi a contemplare la legge di «moto, mutazione e vicissitudine» che regge il tutto, e alla luce di tale comprensione radica la sua virtù nella temperanza, il furioso assume la contrarietà dentro di sé, sforzandola al massimo grado; per questo la sua esperienza si situa sul piano del vizio. | furori oggetto dell’opera coincidono con un «impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello che conosce» grazie al quale l'individuo, potenziato nelle sue facoltà, «si procure di farsi perfetto con trasformarsi et assomigliarsi» alla divinità. Bruno illustra il difficile percorso conoscitivo intrapreso dal furioso grazie alla vicenda di Atteone: come il cacciatore della mitologia, con l’aiuto di «veltri» e «mastini», si mette alla ricerca di Diana e, una volta imbattutosi nella dea, è Nell'aprile del 1621 Bacon è infatti posto in stato d'accusa per aver accettato doni e regalie nell'esercizio delle sue funzioni di magistrato e giudice. Riconosciuto colpevole, viene condannato ed imprigionato nella Torre di Londra, dove rimane per tre giorni. Abbandonata la vita politica, da giugno a ottobre di quello stesso anno, compone La storia del regno di Enrico VII. Bacon dedica gli ultimi anni della sua vita all'indagine di fenomeni naturali. La Sylva sylvarum, la grande «foresta» di esperimenti, osservazioni, commenti e riflessioni, pubblicata postuma nel 1626, insieme alla sua appendice ‘utopica’, la New Atlantis. Bacon muore a Highgate, a casa di Thomas Howard. Pensiero Metafisica: desiderio, materia e conoscenza Secondo Bacon, la mente dell’uomo, l'intelletto, è uno ‘specchio’ la cui naturale costituzione è quella di riflettere il mondo in immagine. Di qui deriva l'assunto ontologico che innerva la filosofia baconiana, vale a dire il fatto che la realtà e la conoscenza rappresentino due universi paralleli che si corrispondono in assoluta fedeltà. Si tratta di una forma di parallelismo ontologico, nel quale la veridicità della conoscenza corrisponde alla realtà dell'essere. Il più alto livello di conoscenza consiste nell’apprensione del bene, che si identifica con l’amore disinteressato (carità) a servizio della comunità. In questo senso, l'esercizio cognitivo culmina nella volontà, intesa come consapevolezza di perseguire il bene universale. La conoscenza, è resa possibile dal desiderio, che secondo Bacon costituisce anche il fondamento ultimo della realtà naturale. Il fine della conoscenza, ha la funzione di trasformare la realtà in conformità con gli ideali di benessere universale e vantaggio comune. Tale concezione presuppone, come si vede, una stretta complementarità tra conoscenza e realtà: alla conoscenza, intesa come processo che evolve dinamicamente da appetito del particolare a volizione dell’universale, corrisponde una realtà in continua trasformazione, soggetta a cambiamenti che possono essere tanto materiate quanto immateriate. Le trasformazioni della conoscenza e le trasformazioni della realtà possono essere considerati ‘movimenti’ della mente e della materia. Nella metafisica baconiana, la forma più elementare di movimento è una tendenza primordiale alla vita - appetite/appetitus - accompagnata da una parallela inclinazione a evitare o allontanare la morte. La corrispondenza tra intelletto e materia rende possibile all'uomo di conoscere la verità. In conseguenza dell’irruzione del peccato originale e della caduta, si è prodotto un pervertimento di tutte le funzioni naturali e delle facoltà cognitive e l'intelletto non può più conoscere la verità se non attraverso il supporto di dispositivi atti a sopperire alle sue carenze. La corrispondenza tra intelletto e natura può allora avvenire solo attraverso un lungo e laborioso processo di riconciliazione tra le due serie causali. della conoscenza La sua prima funzione è quella di rendere coscienti gli uomini di quelle false nozioni che ingombrano la loro mente e aprono loro la strada verso la verità. Esistono 4 generi di idoli: -della tribù(idola tribus)= Tutti quei pregiudizi che si basano sulle cattive interpretazioni del genere umano su dei significati che noi vogliamo dare a delle cose che in realtà non possiamo conoscere. sono fondati su una stessa natura e inoltre l'intelletto umano subisce l'influenza della volontà e degli affetti. -della spelonca(idola specus)(caverna):sono tutti i pregiudizi del soggetto,individuali che nascono dalla conoscenza sbagliata di qualcosa. Essi derivano dall'individuo singolo infatti ciascuno di noi ha una spelonca all'intero in cui la luce della natura si disperde e si corrompe per varie cause come l'educazione o le abitudini. -del foro(idola fori)= derivano dai rapporti che gli uomini hanno tra loro e sono legati al linguaggio. -del teatro(idola theatri)= Sono tutti quei pregiudizi che sono legati alla cattiva comprensione di determinate cose. Per Bacone la mente umana è assimilabile ad uno specchio incantato che ci trasmette della natura un immagine deformata condizionati dalla cultura e dalle abitudini abituali degli uomini. Egli nel Novum organum ci presenta una classificazione di errori definiti ldola che annebbiano e ingannano la mente umana. Il ‘nuovo’ metodo baconiano Una volta liberata la mente dalle anticipazioni (gli idoli), ovvero dai pregiudizi, si può procedere all’interpretazione della natura. Si tratta della semplice esperienza, che procede a caso, ma di un'esperienza ordinata e matura, che funge da verifica scientifica, ossia l'esperimento. A tal proposito Bacon distingue tra esperimenti fruttiferi (che danno frutti) ed esperimenti luciferi (che portano luce). Il metodo baconiano non è fondato solo su base sperimentale, ma anche razionale, ossia su una nuova induzione. Infatti, esso non è né totalmente induttivo, come vorrebbero gli ‘empirici’, che Bacon paragona alle formiche che accumulano e consumano, né interamente fondato sulla ragione, come vorrebbero i ‘razionalisti’, che egli paragona ai ragni che ricavano da se stessi la loro tela. AI contrario, la ‘nuova scienza’ segue il metodo delle api in grado di ricavare dai fiori il materiale che essi poi trasformano e digeriscono grazie alla loro capacità. È nel Nuovo organo, in particolare, che elabora una nuova induzione, capace di riconciliare la mente dell’uomo con la natura procedendo con estrema cautela da «assioma» ad «assioma», ovvero da generalizzazione a generalizzazione, prestando fede a quel che l’esperienza smentisce e non a quel che l'intelletto ‘anticipa’. In questo modo, la mente tiene a bada l'andamento precipitoso dell’immaginazione e le aspettative dogmatiche della volontà. Auto- controllo mentale, controllo dei sensi e, allo stesso tempo, sapiente moderazione di ogni eccessiva tendenza al controllo che arrivi a reprimere il corso spontaneo e libero (in quanto naturale) della conoscenza. La ‘vera’ induzione e la forma Come abbiamo detto, la prima parte del metodo baconiano è induttiva. Essa prevede la raccolta e la descrizione dei fatti particolari, operazione che il filosofo chiama storia naturale e sperimentale. Tale raccolta, che deve essere ordinata e organizzata, viene realizzata con l'ausilio di tavole di casi ed esempi riguardanti un dato fenomeno preso in esame: 1)tavole di presenza, 2) tavole di assenza, 3) tavole dei gradi o comparative. Una volta confrontati i dati classificati nelle tavole, si può procedere alla ‘prima vendemmia’, vale a dire alla formulazione di una prima ipotesi, che dovrà essere sottoposta a verifica passando per esperimenti ulteriori, che Bacon chiama istanze prerogative (ci sono ventisette tipi differenti di istanze), tra esse la più importante e decisiva è l'istanza cruciale, che è quella che permette di scoprire la causa del fenomeno analizzato. L'obiettivo di tutto il processo induttivo consiste nello scoprire la causa delle cose naturali. Infatti, come già in Aristotele, per conoscere qualcosa bisogna conoscerne le cause, e in particolare, per Bacon, la forma, l’unica vera causa su cui si basa il sapere scientifico (delle quattro cause egli esclude la finale, in quanto inutile). Conoscere la forma di una natura vuol dire conoscere le sue leggi eterne ed immutabili e di questo si occupa la metafisica. Diversamente, la fisica si occupa della causa efficiente, della materia, dello schematismo latente (la struttura atomica dei corpi) e del processo latente (il processo ininterrotto che avviene nei corpi e che è impercettibile ai sensi). Alla fisica Bacon subordina la meccanica e alla metafisica la magia, utile ad assicurare il dominio dell’uomo sulla natura. La conoscenza come via e fonte di progresso Alla conoscenza il filosofo assegna un ruolo fondamentale nel promuovere il progresso materiale e intellettuale dell'umanità, da un punto di vista sociale, politico ed economico. Nell’Advancement of Learning troviamo un'appassionata difesa del valore della conoscenza. In quest'opera Bacon presenta infatti un «archivio generale del sapere», un «globo in miniatura del mondo intellettuale» da usare anche come difesa contro un certo numero di insidiose obiezioni rivolte all'esercizio della conoscenza. Esse provengono dalla religione, dalla politica e dalle stesse forme istituzionali di sapere. In questo senso, sottolinea Bacon, la conoscenza ha anche nemici interni; anzi, la forma peggiore (e più subdola) di anti-intellettualismo proviene a volte proprio da coloro che sono i rappresentanti della cultura: studiosi e uomini di lettere si lasciano sedurre da sogni di vanità personale, frivole curiosità e da un’'imbarazzante propensione alla credulità. Morale, politica e religione L'azione umana tra conoscenza e desiderio Nell’Advancement of Learning e nel De augmentis scientiarum, Bacon organizza il suo sistema secondo una divisione tripartita delle facoltà della conoscenza): memoria, immaginazione e ragione. Alla memoria compete la storia; all’immaginazione le varie forme di invenzione a; alla ragione la comprensione della realtà suoi aspetti (naturali, morali, politici e religiosi). A ciascuna facoltà corrispondono tre desideri: 1.la memoria è espressione del naturale desiderio umano - ‘antiquario’ - di preservare il ricordo di eventi e cose; 2.l’immaginazione nasce dal desiderio naturale di evadere da situazioni di costrizione e monotona ripetizione che si concretizza in atti di finzione e invenzione creativa (poesy, in inglese); 3.la ragione nasce dal desiderio naturale di comprendere la realtà e ha la sua espressione più alta nella filosofia. Queste osservazioni sono particolarmente utili per comprendere la visione baconiana dei rapporti tra morale, politica e religione. Secondo Bacon, la verità (che compete all’intelletto) e il bene (che compete alla volontà) si richiamano a vicenda, nonostante il naturale rispecchiarsi della conoscenza e dell'essere culmina nel riconoscimento che l’amore, in quanto tendenza al bene comune, è la forma più elevata di conoscenza. Il vero sapere corrisponde alla carità. Bacon lo ripete nel De augmentis scientiarum: non il desiderio di conoscenza ha causato la caduta dell’uomo, ma piuttosto la sua volontà di auto-determinarsi in senso morale. La conoscenza in ambito morale, politico e religioso è allora una progressiva ascesa dal bene individuale al bene comune e infine al bene divino in un movimento che va dai desideri naturali, dagli appetiti legati alla necessità della sopravvivenza vitale, alle disposizioni razionali, al benessere collettivo (materiale e spirituale) e al senso del bene universale (identificato con Dio). Nella società, come in natura, il nesso tra conoscenza e desideri è alla base di ogni forma di vita, dalle più elementari alle più articolate. A fondamento del vincolo sociale è la conoscenza che deriva dall'esperienza della realtà mondana («conoscenza universale delle cose del mondo»), la quale si divide in (1) conoscenza dei rapporti umani, (2) conoscenza di affari (rapporti economici) e (3) conoscenza dell’arte di governo. Qui Bacon ribadisce la necessità che gli uomini di studio e i filosofi siano animati da un forte senso del dovere, in modo che l’azione morale e politica possa aspirare a realizzare il bene comune. La politica come bene comune Non a caso, il principio secondo cui il bene comune debba prevalere sull’interesse privato. Nel suo discorso in Parlamento del 17 febbraio del 1607, ad esempio, egli sostiene con passione il progetto dell'unione politica dell'Inghilterra con la Scozia, difendendo l'uguaglianza dei diritti di produzione e scambio commerciale e l'estensione della cittadinanza a tutti i membri dei due regni. E ritiene quindi che la potenza di uno stato dipenda dalle virtù dei suoi cittadini e dalle loro armi piuttosto che dalla sua prosperità economica e da ampliamenti territoriali. Nel corso della sua carriera politica, Bacon sembra aver oscillato tra la difesa della prerogativa reale e la salvaguardia della legge. Anche in questo caso, tuttavia, il filosofo non arriva mai a disconoscere l’importanza del parlamento. Tra i suoi primi scritti, Bacon compone per la regina un testo dal titolo Massime della legge e compone un Trattato generale sulle leggi e la giustizia. Cercando di conciliare la common law con il diritto romano. La religione: un ‘pilastro’ del buon governo La religione è definita come il vincolo primario di ogni consorzio umano e la fonte principale dell’unità. In più luoghi, Bacon dimostra di essere particolarmente sensibile alla lezione di Machiavelli e Guicciardini riguardo ai possibili usi politici della religione. Interessante, a questo proposito, il modo in cui nei Saggi viene presentato Maometto, in un contesto in cui la discussione verte sul ruolo dell’audacia (boldness) e come essa aiuti persone abili e senza scrupoli a far credere agli altri tutto quel che vogliono. Il «miracolo di Maometto» ha una sorta di corrispettivo nella Nuova Atlantide, l'isola utopica descritta da Bacon nell'opera omonima. Maometto, così come viene rappresentato nei Saggi, è l'esempio del profeta armato, associato a un tipo particolare di spada che Bacon caratterizza come né temporale né spirituale, diretta a mantenere l'unione nelle comunità di credenti attraverso il puro uso della violenza. La «spada di Maometto» è quella che ‘propaga’ la religione «attraverso guerre o persecuzioni sanguinarie dirette a forzare le coscienze». Il vero potere, secondo Bacon, è invece ciò che trasforma i pensieri e i sogni in realtà: «Il potere di far del bene è il fine vero e legittimo di ogni aspirazione, dal momento che i buoni pensieri, nonostante siano graditi a Dio, quando si rivolgono agli uomini sono poco meglio di buoni sogni, a meno che non vengano messi in atto, ed essi non possono esserlo senza che si faccia riferimento a potere e rango». Si ripresenta qui una delle antitesi baconiane per eccellenza, quella tra rappresentazione (in imagination) e realtà (in fact). L'immaginazione è la giovinezza della mente, il sogno del cambiamento. movimento la Terra, Copernico ritiene di poter riportare la spiegazione delle irregolarità che si osservano nel corso dei pianeti al comporsi dei loro movimenti con quello dell'osservatore situato sulla Terra. L’astronomo polacco sostiene che la sua soluzione, oltre a essere più efficace, è anche più semplice ed economica di quella tolemaica, che richiedeva un gran numero di espedienti matematici (epicicli, deferenti ed eccentrici), atti a spiegare il moto irregolare dei pianeti. Tolomeo aveva adottato un modello matematico detto ‘epiciclo-deferente’, in cui il pianeta procede lungo una circonferenza detta ‘epiciclo’, il cui centro, a sua volta, si muove su un’altra, più grande, denominata ‘deferente’. La combinazione dei moti del sistema produce una traiettoria costituita da cappi, che serve a spiegare le differenti apparenze del pianeta lungo la sua orbita. Ora, Copernico è convinto che la sua proposta cosmologica semplifichi questo complicato ordinamento di cerchi su cerchi. In realtà, però, l'assetto copernicano, che pure continua a utilizzare il modello ‘epiciclo-deferente’, «risultò solo poco meno macchinoso di quanto non fosse il sistema di Tolomeo. Entrambi impiegavano più di trenta circoli. Un deciso punto di vantaggio della soluzione eliocentrica è rappresentato dall’esatta corrispondenza tra la distanza di ciascun pianeta dal Sole e il suo periodo di rivoluzione, che cresce proporzionalmente alla lontananza del pianeta dal centro del mondo (il Sole). La diffusione della cosmologia copernicana deve molto ad un professore di matematica dell’Università di Wittenberg, Georg Joachim Rheticus (1514-1574). Dopo aver divulgato la nuova concezione nella sua Narratio prima (1540), Rheticus svolge un ruolo decisivo nel convincere Copernico a pubblicare il De revolutionibus. Non potendo curare di persona la stampa dell’opera, Rheticus ne affida il compito al teologo luterano Andreas Osiander (1498- 1552), il quale, senza alcuna autorizzazione, aggiunge al testo originale di Copernico una prefazione priva di firma, volta a sottolineare come le teorie esposte nel libro rivestissero un ruolo meramente ipotetico, senza alcuna pretesa di verità. L'efficacia matematica della dottrina copernicana riceve, peraltro, un’indubbia consacrazione dalla pubblicazione delle Tabulae Prutenicae (1551), le nuove tavole dei moti celesti che Erasmus Reinhold (1511-1553) computa sulla base, appunto, del modello copernicano. Benché ne utilizzasse i dati, Reinhold non aderì al sistema eliocentrico. L’interpretazione ‘ipoteticista è accolta positivamente da diversi studiosi dell’epoca, in quanto consente di salvaguardare la verità della posizione geocentrica e geostazionaria espressa nella Bibbia. Non sono pochi, infatti, i passi delle Scritture che affermano che il Sole si muove e la Terra è immobile al centro del mondo. TYCHO BRIAN E JOHANNES KEPLER Tycho Brahe (1546-1601),elabora un proprio sistema nel quale tutti i pianeti orbitano attorno al Sole, a sua volta in moto rispetto al vero centro del mondo, rappresentato dalla Terra immobile. Una particolarità dell'impianto ticonico atteneva al fatto che l'orbita di Marte non racchiudeva completamente quella solare, e finiva con l’intersecarla in due punti. Tra costoro spicca certamente il tedesco Johannes Kepler (1571-1630), che di Brahe fu collaboratore a Praga, succedendogli poi (nel 1601) quale astronomo dell’imperatore Rodolfo Il. Prima di recarsi a Praga, Kepler ha già pubblicato un volume, il Mysterium cosmographicum (1596), in cui cerca di spiegare il numero e la grandezza delle orbite dei pianeti con il metterle in relazione con i cinque solidi regolari della geometria euclidea (cubo, tetraedro, dodecaedro, icosaedro e ottaedro). Assumendo sei pianeti e cinque intervalli interplanetari, Kepler afferma che la sfera di Saturno risulta circoscritta a un cubo, in cui è inscritta la sfera di Giove, a sua volta circoscritta al tetraedro, cui è iscritta la sfera di Marte. Secondo Kepler, infatti, Dio ha creato il mondo seguendo un preciso modello geometrico; l’uomo può comprendere la struttura del cosmo proprio perché ha impressi nella sua mente i princìpi della scienza geometrica. Kepler si propone di trovare la forza che tiene i pianeti in orbita attorno al Sole. Ispirandosi all'opera dell'inglese William Gilbert (1544-1603), secondo il quale la Terra si comporta come una grande calamita, con le polarità magnetiche coincidenti con i poli geografici, Kepler assimila in un primo tempo tale forza motrice al magnetismo. Mediante l’irradiazione di una forza magnetica, il Sole determinerebbe un'influenza sui pianeti, con un'efficacia che diminuisce all'aumentare della distanza, per cui farebbe muovere più velocemente i pianeti vicini e più lentamente quelli lontani. Kepler si interroga a lungo sulla relazione tra le distanze dei pianeti dal Sole e la loro velocità orbitale, e, dopo un estenuante lavoro di elaborazione matematica, giunge a concludere che il raggio vettore (cioè la linea immaginaria che unisce il centro del pianeta a quello del Sole) descrive aree eguali in tempi eguali. E questa la famosa legge delle aree o seconda legge di Kepler, la quale implica, appunto, che i pianeti non si muovano con velocità uniforme, ma procedano più rapidamente quando sono in prossimità del Sole e più lentamente quando si trovano a maggiori distanze La cosiddetta prima legge di Kepler (ogni pianeta si muove lungo un'orbita ellittica di cui il Sole occupa uno dei due fuochi) si accorda mirabilmente con i dati osservativi e con la legge delle aree. Essa sancisce, di fatto, la fine di quella tradizione millenaria che identificava nel cerchio, figura ‘perfetta’, la forma dei movimenti celesti. Nel prosieguo delle proprie ricerche, Kepler continua a comparare pazientemente le velocità, i periodi e le distanze dal Sole dei vari pianeti, scoprendo, infine, che i quadrati dei loro tempi di rivoluzione sono proporzionali ai cubi delle distanze medie dal Sole. Questa terza legge stabilisce un preciso rapporto tra il corso dei diversi pianeti, determinando con esattezza la proporzione che regola la progressiva diminuzione delle loro velocità in relazione alla distanza delle varie orbite planetarie dal Sole. Il risultato ottenuto realizzava così, almeno in parte, il sogno di cogliere la struttura necessaria della realtà con l’individuare la segreta armonia che Dio aveva assegnato al mondo. La trasformazione del sapere medico In quello stesso 1543 che vede la stampa del De revolutionibus di Copernico, la storia della scienza conosce anche un'altra rilevante iniziativa editoriale. Il belga Andrea Vesalio (1514- 1564) pubblica, infatti, a Basilea, il De humani corporis fabrica, un’opera destinata a cambiare in profondità il sapere anatomico del tempo. Vesalio aveva studiato a Lovanio e a Parigi, prima di addottorarsi a Padova, dove insegna dal 1537 al 1542, Ritenendo che lo studio dell'anatomia debba prendere le mosse dall'esperienza diretta. Nei testi che accompagnano le immagini, Vesalio descrive minuziosamente le varie parti del corpo umano, entrando spesso in polemica con le tesi di Galeno, autorità incontrastata della medicina del tempo. In particolare, le critiche concernevano l’imprecisione dell'anatomia galenica, una circostanza che induce Vesalio a sottolineare come le teorie della tradizione affondino le radici non nell'esame diretto del corpo umano ma nella dissezione di animali, quasi sempre di scimmie. Paracelso (1493-1541). Fortemente polemico nei confronti del sapere tradizionale, Paracelso intende dar vita a una nuova medicina, con una marcata connotazione astrologica e alchemica. In linea con una tesi cara al platonismo rinascimentale, egli ritiene che esista una corrispondenza tra l’uomo (microcosmo) e l'universo (macrocosmo), da lui considerato come un grande organismo dotato di sensibilità, in cui si verificano gli stessi processi tipici del corpo umano (digestioni, secrezioni, ecc.). Sul piano terapeutico, Paracelso promuove l’uso di farmaci basati su metalli e minerali quali il mercurio e l’antimonio, che stima efficaci in quanto in grado di interagire proficuamente con i processi chimici (distillazioni, fermentazioni, sublimazioni) proprie della fisiologia dell’uomo. Così, Paracelso apre la strada alla medicina chimica o iatrochimica. Ma il contributo più innovativo alla trasformazione della scienza medica, è rappresentato dalla scoperta della circolazione del sangue, effettuata, negli anni Venti del Seicento, dall'inglese William Harvey (1578-1657). Dopo aver studiato a Canterbury e a Cambridge, Harvey si trasferisce a Padova, dove domina la filosofia aristotelica, che ne influenza notevolmente il pensiero. Proprio su basi empiriche Harvey contesta le tesi della tradizione galenica. Questa riteneva che il sangue venisse prodotto di continuo dal fegato per sostituire quanto se ne perdeva nel nutrire gli organi e i tessuti del corpo. Secondo Harvey, invece, lungi dal consumarsi, il sangue ritorna ciclicamente al cuore, da dove poi viene di nuovo espulso e spinto in circolo. Il motore del flusso sanguigno è individuato nel cuore che, oltre a infondere calore nel sangue, con il suo pulsare lo muove e ne impedisce la coagulazione. Il cuore viene da Harvey celebrato come «principio della vita» e «Sole del microcosmo», in quanto «serve l’intero organismo dando nutrimento, calore, vitalità». Importante è anche la funzione svolta da un nuovo strumento, il microscopio, il cui impatto sulla medicina e le scienze della vita risulta assolutamente cruciale. Con l’ausilio di questo strumento, Marcello Malpighi (1628-1694) analizza i tessuti polmonari ed è in grado di rilevare il passaggio del sangue dalle arterie alle vene attraverso i vasi capillari dei polmoni. Verso una nuova fisica Una delle conseguenze più rilevanti della riscoperta umanistica della scienza antica è rappresentata dalla diffusione delle opere di Archimede. Di fatto, lo scienziato siracusano offrì agli studiosi della prima età moderna un nuovo modello di spiegazione dei fenomeni del mondo fisico, basato sull’applicazione di precise procedure matematiche alla realtà. In virtù del suo orientamento sostanzialmente quantitativo (matematico e geometrico), la scienza archimedea venne considerata come una valida alternativa al paradigma qualitativo della fisica aristotelica, su cui si basava l'insegnamento scientifico allora impartito nelle università di tutta Europa. L'ispirazione archimedea caratterizza anche la dinamica elaborata dal veneziano Giovan Battista Benedetti (1530-1590). In contrasto con la tesi aristotelica che considerava la velocità di caduta proporzionale al peso assoluto dei corpi, Benedetti afferma che - proprio come nella spiegazione del galleggiamento data da Archimede - essa è invece determinata dalla differenza tra il peso specifico del mobile e quello del mezzo in cui è immerso (per esempio aria o acqua). Ciò implica che corpi della stessa materia, anche se di differenti dimensioni, si muovono nello stesso mezzo con eguale velocità. Se, infatti, due corpi sono omogenei (della stessa materia), hanno un identico peso specifico. Qualche anno dopo, la medesima teoria sarà proposta da Galileo nei suoi scritti giovanili De motu. GALILEO VITA E OPERE Galileo Galilei (1564-1642) nasce a Pisa, da Vincenzo, musicista e importante teorico della musica, e Giulia Ammannati. Iscrittosi alla facoltà di medicina dell’Università di Pisa, nel 1585 abbandona gli studi senza conseguire la laurea. Più proficuo per il suo futuro si dimostra l’aver seguito le lezioni di geometria tenute da Ostilio Ricci (1540-1603) presso l'Accademia del Disegno di Firenze. Appassionatosi alla matematica, il giovane ne approfondisce la conoscenza e, nel 1589, riesce a ottenere una cattedra all’Università di Pisa. _ Trascorre in Veneto diciotto anni, che ricorderà spesso come i «migliori» della propria vita. È qui che, nel 1609, comincia a scrutare il cielo con un nuovo strumento: il telescopio. Le scoperte telescopiche danno a Galileo una fama europea, consentendogli di tornare in patria in qualità di ‘Matematico e Filosofo primario del Granduca di Toscana”. Per tutta risposta, egli non solo difende con energia le sue scoperte, ma intraprende un’energica campagna a favore della dottrina copernicana, che, a suo parere, riceve una decisiva conferma dai riscontri telescopici. La generosa battaglia cosmologica subisce un duro colpo nel 1616, quando - nonostante la proposta galileiana di stabilire una rigorosa distinzione di ambiti tra scienza e religione - la Chiesa giudica la dottrina eliocentrica in netto contrasto La condanna di Galileo, nel giugno 1633, metteva fine al suo progetto di innovare la cultura del tempo a partire, in primo luogo, dall'assunzione della cosmologia copernicana. Ma con l’abiura galileiana falliva anche il sogno di introdurre una rigorosa distinzione tra il discorso scientifico e la fede. | giudici si concentrarono sul carattere ‘eretico’ delle convinzioni di Galileo e, alla fine, la sentenza lo dichiarò colpevole «d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture». Il cosiddetto ‘caso Galileo’ pone fondamentali interrogativi circa le relazioni tra due ambiti, la ricerca naturalistica e l'impegno religioso, entrambi essenzialmente costitutivi dell'esperienza umana. L’ATOMISMO E GASSENDI Pensare a un mondo semplice: l’atomismo Sebbene la dimostrazione dell’esistenza degli atomi risalga al secolo scorso (ad opera di Albert Einstein), l'ipotesi della struttura atomica dell'universo, che secondo il fisico Richard Feynman (1918-1988) andrebbe tramandata. Democrito, fu il primo a capire che la realtà è fatta di particelle, gli ato «senza odore né colore né sapore». Gli atomi di Democrito sono sostanze semplici, indivisibili, ingenerati, indistruttibili, immersi nel vuoto e omogenei: pur essendo composti della stessa sostanza (physis), essi possono assumere infinite e differenti forme. Non sono solo le cose a essere fatte di atomi (il cielo, le stelle, gli alberi), ma anche i nostri pensieri, i sogni e le immagini delle cose. Oggi il cosiddetto atomismo è alla base della meccanica quantistica, ma per lunghi secoli gli atomi sono stati esclusi dalla spiegazione fisica della realtà. Pochi, fra i pensatori antichi, avevano accolto la teoria degli atomi. Innanzitutto Epicuro; e poi Lucrezio, il quale, nel poema De rerum natura (La natura delle cose), riassume il pensiero di Democrito portando numerosi argomenti a sostegno dell’esistenza degli atomi: Ne abbiamo una prova viva davanti agli occhi: se guardi con attenzione un raggio di sole che entra per un piccolo foro in una stanza buia, vedrai lungo la linea luminosa muoversi e mischiarsi molti piccoli corpi, che si scontrano l’uno con l’altro, si avvicinano e si allontanano senza sosta. Da questo puoi dedurre come si muovono gli atomi nello spazio (II, 160). Il testo di Lucrezio, anch'esso dimenticato per secoli, sarà riportato alla luce nel 1417 dall’umanista Poggio Bracciolini (1380-1459), che ne fa fare una copia all'amico Niccolò Niccoli (1365-1437) [+ 1, $ 1.2]. Questa copia, tutt'oggi conservata a Firenze nella Biblioteca Laurenziana, farà il giro dell'Europa: l'ipotesi della struttura atomica dell'universo torna a vivere. Nel 1551 il Concilio di Trento mette al bando il De rerum natura, ma la rivoluzione è ormai in atto: è la fisica aristotelica a correre il rischio, adesso, di essere superata dall’atomismo. Gli atomi eliminano il ‘bene’ e il ‘male’ dalla fisica, eliminano la perfezione del Cielo e l’imperfezione della Terra: tutto è fatto di sostanze semplici e tutto può essere spiegato ricorrendo ai concetti di materia (o estensione) e movimento. La filosofia meccanicistica Il meccanicismo, definito come il tentativo di spiegare la realtà sulla base del movimento dei corpi. E infatti, che il mondo fosse un sistema di corpi in movimento, le cui particelle potevano influire l'una sull'altra attraverso il contatto, era il principale caposaldo di tutte le dottrine atomistiche. La parola rimanda, senza dubbio, ad altri due sostantivi di uso quotidiano: ‘macchina’ e ‘meccanica’, intesi il primo come ordigno inanimato funzionante in virtù di automatismi interni e/o esterni, e il secondo come scienza che studia il movimento dei corpi materiali. Il motivo è il seguente: pensare il mondo come a una macchina non mette necessariamente capo a una visione che possa dirsi ‘genuinamente’ meccanicistica della realtà. Questa macchina - come è stato d'altronde escogitato da molti pensatori - avrebbe infatti bisogno di un ‘macchinista’, quel famoso orologiaio spesso identificato con Dio, capace, da un lato, di garantire il funzionamento perfetto degli ingranaggi e, dall’altro, di muovere la macchina verso un fine. Gli studiosi Daniel Garber e Sophie Roux li hanno così sintetizzati): 1.la sostituzione della filosofia del ‘senso comune’ (cioè la filosofia aristotelico-scolastica) con una ‘nuova filosofia’; 2.la reazione all’ilemorfismo aristotelico e l'adozione di una concezione secondo la quale tutti i fenomeni naturali possono essere compresi sulla base del movimento di piccoli corpuscoli che formano i corpi; 3.l’equiparazione del mondo animale al funzionamento e alla struttura di macchine pensate come esistenti o immaginarie; 4.l’associazione con la meccanica, intesa come nuova scienza matematica del movimento, le cui leggi sono descritte come le leggi della natura in generale. È facile notare, dunque, come il meccanicismo non si riduca né al mero concetto di ‘macchina’ né al mero rifiuto delle ‘forme’ aristoteliche, ma sia l’una e l’altra cosa insieme Invero, a motivare questa concezione della filosofia meccanicistica intervengono direttamente i testi dei filosofi, i quali, per quanto non si definissero ‘meccanicisti’ utilizzavano pur tuttavia una terminologia tecnica per significare in forma più che esplicita ciò che è inteso nel concetto di ‘meccanicismo’. Robert Boyle (1627-1691), fisico e chimico irlandese, sarebbe stato il primo a coniare l’espressione ‘ipotesi o filosofia meccanicistica’in riferimento alle teorie corpuscolari, che, sin dai tempi di Leucippo e Democrito, permettono di spiegare i fenomeni della natura ricorrendo unicamente «al movimento e alle altre affezioni delle piccole particelle della materia. [...] Questa è - scrive Boyle - quella che io chiamo ipotesi o filosofia meccanicistica». Le species Il concetto di specie risale alla filosofia della percezione sensibile di Aristotele. Per giustificare la comunicazione fra il corpo conosciuto (materiale) e il corpo conoscente (immateriale), egli elabora il concetto di species o immagine: per mezzo di essa, l'oggetto esterno si ‘unisce’ al soggetto, che può dunque conoscere la cosa. Questa definizione, destinata a esercitare notevole influenza fra i contemporanei, è una delle più famose, ma non è certo l’unica. L'idea secondo cui i fenomeni fisici possono essere spiegati meccanicamente, senza più ricorrere ai concetti di specie o forme sostanziali, diviene il principio che guida la speculazione di filosofi come Descartes, Hobbes, Gassendi. «In natura tutto è fatto meccanicamente (in natura omnia mechanice fieri) - scrive ad esempio Hobbes -, e da una materia, agitata da moti di vari generi e misure, si sviluppano tutti i fenomeni» (Vitae Hobbianae Auctarium, p. xxviii); e ancora, «le regole della meccanica sono le stesse della natura» - afferma Descartes nel Discorso sul metodo (parte V). La materia tra atomi e corpuscoli. Il problema del vuoto L'ipotesi meccanicistica, come si è visto, trova d'accordo numerosi filosofi moderni. C'è un punto, tuttavia, sul quale essi divergono: la ‘composizione’ della materia. In effetti, le particelle che compongono i corpi verranno designate dai filosofi con due nomi che solo erroneamente sono considerati sinonimi: atomi e corpuscoli. L’atomo è pensato come una particella semplice, ossia una quantità discreta, minima e ultima, che, stando anche all’etimologia del termine, non è più divisibile. Il corpuscolo, al contrario, è sì una particella piccolissima, ma non è ultima: essa è sempre e ulteriormente divisibile. Questa differente concezione ‘particellare’ della materia avrà delle ricadute anche sul piano dell'ammissione o meno del vuoto. In linea generale, infatti, si può dire che gli atomisti (antichi e moderni) sono sostenitori del vuoto. L'urto, il contatto e la combinazione causale degli atomi è possibile proprio perché essi si muovono in uno spazio vuoto. Per di più, alla dimostrazione dell’esistenza del vuoto utilizzando strumenti come il barometro e la pompa ad aria, si sforzavano di riprodurre ‘in laboratorio’ uno spazio vuoto. La paura del vuoto (horror vacui) porterà molti filosofi a cercare un'alternativa tanto agli atomi, sostituiti con corpuscoli illimitatamente divisibili, quanto al vuoto, sostituito con un fluido etereo, neutro e inattivo, che impregna tutto lo spazio. Tra i maggiori oppositori dell’esistenza del vuoto vi è Descartes, promotore di una fisica cosiddetta corpuscolarista, secondo la quale i corpi sono composti da corpuscoli (corpuscula) o particelle (particulae) impercettibili ai sensi.Democrito, il filosofo francese respinge la tesi per cui tali corpuscoli siano indivisibili e che intorno a essi vi sia il vuoto. A partire dagli sviluppi dell'ottica nel XVII secolo, il termine ‘corpuscolarismo’ comincerà a essere impiegato in relazione alla teoria corpuscolare della luce proposta da Isaac Newton (1642-1727). Si tratta di un modello secondo cui la luce si compone di piccoli corpuscoli che si propagano in linea retta in un mezzo omogeneo. Questa teoria sarà presto soppiantata da quella ondulatoria proposta da Christiaan Huygens (1629-1695), il quale spiega la luce come un insieme di onde meccaniche che si propagano in linea retta a velocità finita. A partire dall’Ottocento, la chimica offrirà risposte incoraggianti circa la struttura atomica della materia. | chimici intuiscono, infatti, che le sostanze sono composte da molecole fatte di combinazioni fisse di atomi: ad esempio, l’acqua (H20) è composta da due parti di idrogeno (H2) e una di ossigeno (0). Oggi sappiamo che l'atomo non è più ‘indivisibile’. Esso si compone, a sua volta, di particelle supatomiche: gli elettroni, che ruotano intorno al nucleo, e i neutroni e i protoni, che formano il nucleo stesso. Pierre Gassendi Al prete cattolico Pierre Gassendi (1592-1655) si deve la ripresa e la fortuna dell’atomismo classico nel Seicento. dogmatica, Gassendi si sforza di conciliare le dottrine atomistiche, di tendenza naturalmente materialistica, con la dottrina cristiana. Non poteva e non doveva essere un ‘peccato’ definirsi atomista: gli atomi non sono un ostacolo per la fede, ma uno ‘strumento interpretativo’ per meglio comprendere l’opera del Creatore. In effetti, secondo Gassendi, il problema dell’atomismo antico è stato quello di aver parlato degli atomi utilizzando attributi divini, quali l'eternità e l’infinità. Gli atomi non sono infiniti e non si muovono causalmente, ma è Dio che controlla il loro movimento, che risponde, pur sempre, a leggi meccaniche. Inoltre, gli atomi sono invisibili ma estesi: sono pertanto divisibili matematicamente. A essi appartengono una serie di proprietà: la dimensione, la figura, il sito (cioè la condizione dell’atomo rispetto all'ambiente), l'ordine (cioè il modo in cui gli atomi sono disposti) e il peso. Come per Democrito ed Epicuro, gli atomi si muovono perché esiste il vuoto. Gassendi condanna, dunque, la fisica del pieno di Descartes [+ 8, $ 2.1], incapace, a suo avviso, di rendere ragione dei fenomeni naturali e del movimento dei corpi. Infatti, nel Syntagma philosophicum, pubblicato postumo nel 1658, Gassendi tenta di dimostrare l’esistenza del vuoto (a suo parere confermata sia da argomenti razionali sia da prove empiriche) richiamandosi ai recenti esperimenti eseguiti con il barometro da Evangelista Torricelli e Blais Pascal. ammettere la loro esistenza, devono pensarsi come corporei, ossia materiali. Nell’Appendice alla versione latina del Leviatano, Hobbes scrive con un certo sarcasmo: «Tutti siamo e ci muoviamo in Dio>>. Il corpo La filosofia come ‘ragione naturale’: suddivisione e metodo Assumendo, dunque, che esistono soltanto corpi, nella prima sezione degli Elementa, appunto il De corpore, viene precisato che i corpi possono divenire oggetto di studio della filosofia a patto di possedere una proprietà essenziale: la generazione. In altri termini, «l’oggetto della filosofia - spiega Hobbes - o la materia di cui essa si occupa, è qualunque corpo di cui si può concepire una generazione e di cui si può istituire un confronto con altri corpi. Ne consegue, pertanto, che la filosofia esclude dal suo campo di indagine le discipline che si occupano di oggetti di cui non è possibile concepire alcuna generazione. Esse sono principalmente due: la teologia (la «dottrina che riguarda la natura e gli attributi di Dio, eterno, ingenerabile e incorruttibile») e la storia, sia naturale sia politica (in quanto si basa non sul ragionamento, ma sull'esperienza o autorità). Neppure la retorica e la poesia, però, possono dirsi propriamente filosofia, poiché lo scopo di quest’ultima non è né persuadere né commuovere, ma conoscere mediante retto ragionamento. Così stabilito l'oggetto della filosofia, Hobbes afferma che esistono due generi di corpi: i corpi naturali, che sono opera della natura, e i corpi civili, che «sono costituiti dalla volontà umana, mediante convenzioni e patti». Di essi si occupano, rispettivamente, la filosofia naturale e la filosofia civile. Ad accomunarle è l'utilizzo di un metodo che possa condurre alla conoscenza delle cause dei corpi, sia di quelli prodotti dalla natura sia di quelli prodotti artificialmente dall'uomo. Tale conoscenza deve avvenire nella maniera più breve possibile e deve guardare alla geometria come modello da imitare. Si racconta che durante il secondo viaggio europeo Hobbes abbia letto gli Elementi del matematico greco Euclide. Hobbes distingue tra due metodi di indagine: il metodo deduttivo (o sintetico) e il metodo induttivo (o analitico). Il primo muove dalle cause agli effetti, il secondo dagli effetti alle cause. La differenza fra le due vie tracciate da Hobbes non sta solo nel procedimento (dalle cause agli effetti e viceversa) ma anche e soprattutto nel risultato: se il primo metodo (quello deduttivo) conduce alla conoscenza certa delle cause o generazioni dei corpi, il secondo (quello induttivo) conduce alla semplice supposizione delle cause o generazioni proba che hanno potuto generare un fenomeno. Nel primo caso si ha propriamente scienza, vale a dire una conoscenza per cause, nel secondo una conoscenza ipotetica. Le discipline che procedono per via deduttiva condividono una proprietà fondamentale: le cause degli oggetti di cui esse si occupano sono costituite dagli uomini, i quali sono pertanto artefici della verità dei princìpi su cui tali scienze si fondano. Esse sono: 1.la geometria: le figure sono ‘tracciate’ dagli uomini, i quali si occupano anche di stabilirne le proprietà e i teoremi; 2.la logica: il linguaggio è una creazione umana; 3.la politica e l'etica, in quanto sono creazioni umane tanto il ‘corpo’ dello Stato, quanto i patti, le leggi e le regole del vivere insieme, secondo il giusto e l’ingiusto. L’uomo può avvicinarsi alla verità mediante la formulazione di nuove ipotesi, ma non potrà mai comprenderla pienamente. Tuttavia, anche la fisica ha il diritto di aspirare a divenire propriamente una scienza, e questo perché, come aveva insegnato Galilei, la natura è un libro scritto in caratteri matematici. La fisica dovrà quindi basarsi sui princìpi a priori della geometria, attraverso i quali potrà «rendere ragione dei fenomeni naturali, quali siano, poniamo, i movimenti e gli influssi dei corpi celesti un'importanza che potremmo definire non solo metodologica ma anche gnoseologica, in quanto serve a chiarire la tesi per cui la mente umana possa concepire e immaginare solo corpi. In effetti, l’uomo può conoscere solo ciò che è corporeo non semplicemente perché i corpi sono le uniche cose esistenti, ma anche perché la mente umana può ‘figurarsi’ solo immagini di corpi, cioè figure descritte all’interno di spazi. Pur accettando la distinzione fra immagini retiniche e immagini mentali, Hobbes stabilisce uno stretto legame fra le due, convinto del fatto che lo studio delle seconde sia necessario a una più adeguata comprensione delle prime. In altre parole, la visione non si conclude con la proiezione sul fondo della retina dell'immagine dell'oggetto, ma continua con la formazione delle immagini mentali, le quali, nonostante il loro carattere ingannevole, costituiscono, secondo Hobbes, l’unica conoscenza che il soggetto possiede del mondo circostante. Tutti gli oggetti, infatti, possiedono una figura e delle dimensioni proprie, ossia un'estensione che Hobbes chiama anche spazio reale. AI contrario, quando vediamo un oggetto o lo richiamiamo alla memoria, osserviamo o ricordiamo un corpo - sottoforma di immagine - che possiede una figura, delle dimensioni e uno spazio che non sono più reali, ma apparenti. Questo spazio è ciò che Hobbes chiama spazio immaginario: esso non è l’immagine dello spazio, ma è il ‘fantasma’ - cioè l’immagine - di un corpo particolare così come appare o appariva al soggetto percipiente La seconda ‘coordinata’ mentale della nostra conoscenza:il tempo immaginario. Esso non è l’immagine del tempo, ma è «l’idea di un corpo che passa ora per questo, ora per quello spazio, in una continua successione», subendo, dunque, un mutamento. Spazio e tempo immaginari sono le ‘strutture formali’ che consentono di delimitare, cioè porre dei ‘limiti geometrici’ al contenuto della nostra rappresentazione: se ciò che esiste è sempre ‘figurato’ e se le nostre immagini non possono che riprodurre tali figure, allora la nostra conoscenza è necessariamente limitata a ciò che è corporeo e sensibile. Solo ciò che ha dimensioni, cioè solo ciò che è finito, può occupare uno spazio e muoversi nel tempo. Ecco perché Dio è inconcepibile: essendo al di là di ogni limite spazio- temporale, la sua immagine non può essere ‘misurata’ e, pertanto, non può essere compresa fra le ‘quattro mura’ della nostra mente. L'ipotesi annichilatoria: il ‘potere’ dell'apparenza Per chiarire la natura immaginaria dello spazio e del tempo il lettore viene invitato a un ‘esperimento mentale’: la finta annichilazione di tutte le cose. Si tratta di un topos ricorrente nelle opere del filosofo: negli Elements, nella critica al De mundo di White e nel De corpore. Immaginiamo, scrive Hobbes, che il mondo venga annientato e che sopravviva un solo uomo. Bene, costui continuerà a ragionare come se nulla fosse accaduto, perché egli conserva nella sua mente le immagini e i ricordi delle cose viste e percepite prima del loro annichilamento: «ognuno sa per sua propria esperienza - si legge ad esempio negli Elements - che l'assenza o la distruzione di cose altra volta immaginate non determina l'assenza o la distruzione dell’immaginazione stessa». Nel De corpore, Hobbes è ancora più preciso e afferma che, benché distrutte, le cose (conservate nella memoria sottoforma di idee) appariranno all’ipotetico sopravvissuto ancora come esterne e «niente affatto dipendenti da un potere della mente». È questa la ragione per cui lo spazio è il fantasma di una cosa che appare fuori di noi. In tal senso, dalla forza ‘distruttiva’ restano immuni non semplicemente i nostri pensieri, ma persino il loro carattere apparente: l'inganno persiste nonostante intorno non vi sia più nulla. Detto altrimenti ancora, che il mondo esista o smetta tutto a un tratto di essere, la struttura della rappresentazione non muta, poiché l’immagine si dà sempre come l'apparenza di qualcosa che è fuori di noi. Ma per comprendere in maniera definitiva la natura e il motivo di tale apparenza e, dunque, di tale ‘inganno’, dobbiamo passare all'analisi dell’uomo e della fisiologia della sensazione. L’uomo La sensazione Tutta la conoscenza, afferma Hobbes, proviene dai sensi. Non esistono idee innate, il che significa che tutti i nostri concetti sono prodotti dall'azione dei corpi esterni sui nostri organi di senso. Se tutto ciò che esiste è corpo, anche l’uomo è un corpo, anzi il più perfetto fra i corpi naturali, perché dotato di ragione. Gli ‘attori’ della conoscenza sensibile sono due: il soggetto conoscente (l’uomo con i suoi cinque sensi) e l'oggetto conosciuto (i corpi esterni). Affinché si produca in noi un concetto (conception), ossia una rappresentazione mentale delle cose di cui si fa esperienza, è necessario che l’organo di senso venga stimolato, cioè mosso dagli oggetti esterni. In altre parole, la sensazione è un processo di tipo meccanico, che possiamo suddividere in due fasi: l.in un primo momento, l'oggetto esterno colpisce l'organo di senso: il movimento non si esaurisce in esso ma procede verso l’interno, passando per i nervi, le membrane e i legamenti del corpo, e arriva al cervello e poi al cuore. Il cuore, descritto aristotelicamente come il «principio della vita», è tuttavia pensato al pari di una ‘pompa’ meccanica, il cui movimento di azione e reazione, quello tipico di sistole e diastole (scoperto di recente dal medico inglese Harvey, è necessario perché si generi conoscenza; 2.è infatti nel cuore che inizia la seconda fase del processo sensibile: in esso si produce una controreazione al movimento iniziale che sfocia nella formazione di un fantasma (phantasma/phantasm), ossia la sensazione immediata delle qualità dell'oggetto esterno. II movimento di controreazione che si rivolge verso l'esterno (determinando di fatto la conoscenza) è dunque la causa, puramente meccanica e fisiologica, che spiega il motivo per cui i fantasmi appaiono come qualcosa di esterno e indipendente da noi, quando in realtà non sono altro che semplici reazioni alla pressione dell'oggetto. Proprio perché fisiologica, tale illusione, definita «inganno dei sensi», accompagna l’uomo sempre e non lo abbandona nemmeno nell’ipotesi della distruzione di tutte le cose. L’immaginazione, i sogni, la memoria Questo fantasma ‘oscuro’ è ciò che si chiama fantasia o immaginazione, vale a dire «un concetto che permane dopo l’atto del senso e svanisce a poco a poco». Eppure, anche quando dormiamo, cioè quando i sensi non sono in funzione, abbiano a che fare con immagini: i sog ossia «i fantasmi di coloro che dormono», la cui caratteristica è essere immagini forti e chiare, a differenza di quelle rappresentazioni oscure e illanguidite che conserviamo immediatamente dopo una sensazione. il movimento si chiama sensazione quando l'oggetto è attualmente presente; si chiama immaginazione quando non lo è più; e si chiama sogno quando i ‘sensi dormono”. Infine, il movimento si chiama memoria quando le immagini acquisite durante la sensazione permangono per un tempo così lungo da trasformarsi in ricordi: Quando il concetto della medesima cosa si presenta per la seconda volta, noi ci accorgiamo che è la seconda volta, vale a dire che abbiamo già avuto prima il medesimo concetto, e questo equivale a ricordare una cosa passata. II linguaggio: la più “nobile” delle invenzioni umane Sensazione, immaginazione, sogno e memoria non appartengono solo agli uomini, ma anche agli animali. Uomini e animali condividano in parte il medesimo meccanismo conoscitivo: sentono, immaginano, sognano e in un certo qual modo ricordano, perché sono in grado di imparare dall'esperienza. Quel che distingue realmente gli animali dagli uomini è la mancanza della parola, cioè del linguaggio. L’uso del linguaggio consiste dunque nel tradurre i nostri pensieri in parole, cioè nel trasferire il discorso mentale in un discorso verbale. In tal senso, il processo conoscitivo culmina nell'uomo con l'assegnazione di nomi alle immagini prodotte durante la sensazione e conservate nella memoria. | nomi sono segni convenzionali, non naturali: ciò significa che l’uso delle parole deriva da una decisione arbitraria dei soggetti, i quali stabiliscono, in seguito a un atto di condivisione, i significati da attribuire ai nomi. Conseguenza inevitabile di tale concezione è l’idea per cui la verità e la falsità siano semplici requisiti linguistici, cioè appartengono al discorso e non alle cose. Si dicono vere o false le proposizioni, non le cose: «le verità prime nacquero dall’arbitrio di quelli che per primi imposero nomi alle cose o li accolsero [...]. Infatti, ad esempio, è vero che l’uomo è un animale, poiché si è deciso di imporre alla stessa cosa quei due nomi» Hobbes riconosce quattro usi principali del linguaggio: 1.registrazione dei pensieri: supporto alla memoria; 2.condivisione delle conoscenze: con re e insegnare; 3.manifestazione delle proprie volontà e propositi: aiuto reciproco; 4.divertimento e intrattenimento. Ragione e scienza Un animale non ricorda di aver perso qualcuno dei suoi cuccioli, a causa della mancanza dei nomi uno, due, tre, e così via; e allo stesso modo, un uomo che non possedesse le parole, «non saprebbe quante monete o altre cose stiano davanti a lui». Ragionare (dall’etimologia latina ratio = calcolo), significa esattamente calcolare, «cioè addizionare e sottrarre le conseguenze dei nomi generali concordati per denotare e per fornire un significato ai nostri pensieri» Ridotta a mero strumento logico, la ragione non ci appartiene sin dalla nascita, come il senso e la memoria, né si guadagna con la sola esperienza (i bambini, infatti, si dicono ragionevoli per la possibilità di avere l’uso della ragione), ma si ottiene mediante la capacità di denominazione, e acquisendo un buon metodo sistematico, attraverso il quale procediamo dai nomi singoli alle proposizioni, e dalle proposizioni ai sillogismi, questo è ciò che gli uomini chiamano scienza» Un esempio, tratto dal primo capitolo del De corpore, illustra perfettamente la capacità di calcolo della mente. Se osserviamo qualcosa da molto lontano, senza riuscire a distinguere di cosa precisamente si tratti, ci formeremo comunque un'idea della cosa vista e imporremo a tale idea la parola corpo (non potrebbe, infatti, che essere un corpo, perché solo i corpi esistono); man mano che si avvicina, vedremo il corpo muoversi, ora in un luogo ora in un altro, e ci formeremo l’idea di qualcosa che si muove, assegnando ad essa il nome animato (ricordiamo che solo il corpo è il soggetto del movimento); infine, trovandoci in prossimità di bastone pastorale, simbolo di quello ecclesiastico, a significare l’unità imprescindibile di Stato e Chiesa. Lo stato è il risultato di un contratto unilaterale e per nessuna ragione i sudditi possono scioglierlo. Sebbene assoluto, però, il sovrano non è un tiranno. Ciò significa che in nessun caso egli può ordinare a un suddito di uccidersi, di ferirsi o mutilarsi, di non difendersi in caso di aggressioni, o di fare a meno del cibo, dell’aria, dei medicinali e di qualunque altra cosa egli abbia bisogno per vivere; inoltre, nessun uomo può sentirsi obbligato a confessare un crimine di cui è colpevole o meno, perché nessuno, in generale, può essere obbligato ad accusare se stesso. In altre parole, il sovrano assoluto non può per nessun motivo violare la garanzia di quel diritto alla vita che tutti gli uomini posseggono, indipendentemente dal fatto di vivere come selvaggi nello stato di natura o come sudditi nella società civile. È così che Hobbes può essere annoverato fra i rappresentanti del giusnaturalismo moderno e, allo stesso tempo, fra i primi teorici del positivismo giuridico. Renè Descartes Renè Descartes ha contribuito in modo decisivo alla scoperta della geometria analitica in matematica e del principio di inerzia in fisica, ma è stato anche un grande filosofo, considerato come il padre del pensiero moderno. Descartes è il padre della filosofia moderna perché inaugura il soggettivismo che ne costituisce il tratto prevalente. Per lui la filosofia non è stata una professione, ma scelta di vita. Ed al filosofare, Descartes ha ritenuto necessaria la vita ritirata, ciò che spiega il suo esilio volontario nelle Provincie Unite, ma anche il ruolo centrale che nella sua vita ha avuto il frate minimo Marin Marsenne, che dal filosofo è stato il tramite principale verso la “Rèp ublique des lettres”. Descartes ha avuto a lungo un sogno: non, semplicemente, instaurare un nuovo sapere in contrapposizione a quello aristotelico, ancora dominante nella cultura delle scuole. VITA E OPERE Descartes (1596-1650), nasce in Francia, a La Haye, in Turenna. Nel 1605 entra nel collegio gesuita di La Flèche, dove studia grammatica, retorica e filosofia, insegnata, secondo le prescrizioni della Ratio studiorum. Dopo la laurea in diritto a Poitiers, nel 1616, inizia una serie di viaggi: nel 1618, a Breda, al servizio dell'esercito protestante di Maurizio di Nassau, principe d'Orange, fa l’incontro decisivo della sua vita, lo scienziato olandese Isaac Beeckeman, che lo introduce alla fisica matematica e alla scienza moderna. Nel Nel 1619, in Germania, si arruola nell’esercito cattolico di Massimiliano di Baviera (1573-1651) e, la notte dell’11 novembre, ad Ulm, fa tre sogni che gli rivelano una ‘scoperta meravigliosa’ (inventum mirabile): una nuova logica, fondamento di una scienza universale. Sugli anni Venti della vita di Descartes aleggia un alone di mistero, infittito anche per la frequentazione di un matematico, Johann Faulhaber (1580-1635), appartenente con ogni probabilità ai Rosacroce. A questo periodo risale l’incontro con Mersenne e la redazione delle Regole per la direzione dell'ingegno, che lascia incomplete e inedite, ma che porterà sempre con sé. Nel 1629 si trasferisce nelle Province Unite, dove resterà, quasi senza interruzioni, fino a poco prima della morte, ma spostandosi continuamente da un luogo all’altro per salvaguardare la riservatezza. L'’epistolario mostra la compresenza di molteplici interessi: nel 1629, intraprende la composizione di un ‘piccolo trattato di metafisica’, ma già all’inizio del 1630 passa alla stesura di quella che chiama «la mia Fisica», Il mondo o Trattato della luce (seguito dall’Uomo, redatto fra il 1633 ed il 1644), in cui è esplicita l'adesione all’eliocentrismo (pur presentato sotto le vesti di una ‘favola’); però, in seguito alla condanna per eresia inflitta a Galilei, rinuncia alla pubblicazione, confessando anzi il proposito (cui non dà seguito) di bruciare il manoscritto. A queste vicende fa riferimento nella sua prima opera, il Discorso sul metodo, pubblicato anonimo in francese nel 1637, con i tre saggi di ‘questo stesso metodo’: Diottrica, Meteore e Geometria. Nel 1641, ripreso il progetto del 1629, pubblica in latino quella che chiama «la mia Metafisica»: le Meditazioni di filosofia prima. Il manoscritto viene fatto circolare, soprattutto grazie alla mediazione di Mersenne, fra alcuni dei maggiori filosofi e teologi dell’epoca, incaricati di stendere delle Obiezioni da pubblicare, insieme alle Risposte del filosofo, in calce alle sei meditazioni: tra questi, oltre allo stesso Mersenne, Thomas Hobbes, Antoine Arnauld e Pierre Gassendi, che prolunga la schermaglia con la monumentale Disquisizione metafisica (1644), cui Descartes concede solo una breve replica, nella traduzione francese delle Meditazioni (1647) realizzata da Louis-Charles d’Albert, duca di Luynes (1620-1699), e Claude Clerselier (1614-1684), avvocato al Parlamento di Parigi. Quest'ultimo diventerà il grande editore, dopo la morte del filosofo, della corrispondenza e di buona parte degli scritti inediti, compreso Il Mondo (1664) [+ 9, &$ 6]. Nel frattempo, Descartes decide di pubblicare la ‘sua Fisica’: nel 1644, sotto forma di manuale, dà alle stampe i Princìpi della filosofia (in cui l’eliocentrismo è presentato in forma meno esplicita), destinati, nelle sue intenzioni, all'insegnamento nelle scuole. Sono, questi, anni durissimi per lui: contro la sua filosofia, ma anche contro la sua persona, a motivo del rischio, divenuto tangibile, di una penetrazione del suo pensiero nelle università, si scagliano le offensive, in Francia, del gesuita Pierre Bourdin (1595-1653) e, soprattutto, nelle Province Unite, del teologo riformato Gijsbert Voetius (1588-1676), rettore dell'università di Utrecht, che attacca uno dei suoi professori, il medico e filosofo Henricus Regius (1598-1679), reo di diffondere nei suoi corsi tesi cartesiane. La risposta di Descartes non si fa tardare ed è consegnata all’Epistola a Dinet (pubblicata, nel 1642, nella seconda edizione delle Meditazioni), dove denuncia sia Bourdin sia gli attacchi subiti nelle Province Unite. Se con Bourdin il filosofo si riconcilierà nel 1644, le controversie olandesi sono solo all’inizio. Voetius fa comporre contro Descartes nel 1643, sotto copertura, da un suo sodale, uno scritto ingiurioso (l’Admiranda methodus) in cui lo si accusa di corrompere i giovani e, addirittura, di ateismo; Descartes risponde (procurandosi lo scritto mentre questo è ancora in stampa) con l’Epistola a Voetius (1643). La polemica si allargherà alle università di Groninga e di Leida e, come se non bastasse, Descartes romperà anche con Regius, contro cui pubblicherà le Note contro un certo programma (1648) A seguito dell'invito trasmessogli dalla regina Cristina di Svezia (1626-1689), tramite l'ambasciatore francese Pierre-Hector Chanut (1601-1662), prende la decisione di trasferirsi a Stoccolma per insegnare filosofia alla regina. Prima di partire, senza troppo entusiasmo, per ‘il paese degli orsi’, pubblica un’ultima opera, Le passioni dell'anima, dedicandola alla principessa Elisabetta di Boemia (1618-1680), sua stretta corrispondente a partire dal 1643. L'11 febbraio 1650, Descartes, che la regina costringeva a tenere lezione ogni mattina in biblioteca alle cinque, si ammala di polmonite, morendo nel giro di pochi giorni. Le sue spoglie sono conservate nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi. Pensiero Il metodo Nel Discorso, Descartes ricorda come, non appena terminati gli studi, si sentisse assediato da tanti dubbi da sembrargli di non averne ricavato altro profitto se non di aver scoperto sempre più la propria ignoranza. Decide così non solo di abbandonare lo studio delle lettere, ma anche di rovesciare completamente le opinioni ricevute al fine di stabilire i «fondamenti di una filosofia più certa della volgare» La filosofia cartesiana si presenta, così, come un'impresa di rifondazione del sapere guidata dalla ricerca delle sue condizioni di possibilità, identificate con il metodo: come un uomo che cammina solo e nell’oscurità deve usare massima circospezione per non cadere, così prima di rigettare le antiche opinioni occorre avere ricercato «il vero metodo per giungere alla conoscenza». Questo perché l’uomo dispone di un ingegno che, sebbene in se stesso integro e capace di verità grazie al proprio lume naturale Il metodo consiste in un insieme di regole certe e facili che dirigono l'ingegno alla ricerca della conoscenza nelle sue due operazioni fondamentali, che sono l’intuito e la deduzione. Per questo, esso deve anzitutto determinare che cosa si intenda per scienza. Ora, secondo Descartes, la scienza è definita necessariamente da due caratteristiche, la certezza e l'evidenza: «Ogni scienza è una conoscenza certa ed evidente» l'evidenza è quindi, qui, condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente per la verità. Ne consegue che, per raggiungere la verità, è necessario, ma anche sufficiente, indagare quali discipline siano caratterizzate da chiarezza e distinzione e per quale motivo lo siano. fra tutte le discipline, non ve ne sono che due i cui asserti sono caratterizzati da chiarezza e distinzione: l’aritmetica e la geometria (che già da ora Descartes pensa unitariamente, preludendo l'unificazione che opererà nella Geometria ponendo le basi della cosiddetta geometi analitica). Ciò che costituisce la certezza della matematica consiste nel fatto che essa è del tutto indipendente dall'esperienza, in quanto si basa o sul solo intuito o su deduzioni infallibili. Questo dipende dalla natura dell’oggetto della matematica, che è semplicissimo e, quindi, perfettamente intelligibile: infatti, esso è caratterizzato da determinazioni quantitative, ossia è perfettamente misurabile (in larghezza, lunghezza, profondità); in una parola, cade sotto la misura. Concretamente, questo significa, ad esempio in fisica - come si vedrà -, che la sua fondazione come scienza dipende dal pensare la materia come pura quantità, eliminando da essa tutte le caratteristiche qualitative (qualità sensibili e forme sostanziali). Già dalle Regole, nondimeno, è chiaro che per Descartes, se la matematica costituisce il modello ed il fondamento del sapere, tuttavia non lo esaurisce. Descartes afferma difatti l’esistenza di una scienza generalissima, denominata mathesis universalis (espressione che risale al matematico fiammingo Adriaan van Roomen, 1561-1615), che egli ricollega all'analisi di due matematici antichi, Pappo e Diofanto, e che ha quale oggetto tutto ciò che appartiene non solo alla misura, ma anche all'ordine. Per Descartes, infatti, nelle Regole, ciò che fa di qualcosa un oggetto di scienza, ossia di conoscenza certa ed evidente, non è solo la misura, ma anche l'ordine, ossia il fatto che le cose che aspiriamo a conoscere siano tali per cui «le une possono essere conosciute a partire dalle altre» Le quattro regole del metodo sono: 1.Evidenza: non accogliere come vera nessuna cosa che non sia conosciuta con evidenza (ovverosia con chiarezza e distinzione). 2.Analisi: scomporre ogni difficoltà in tante piccole parti, per quanto possibile, per meglio risolverla. 3.Sintesi: condurre con ordine i propri pensieri, risalendo per gradi dalle cose più semplici e facili da conoscere a quelle più complesse. 4.Enumerazione: fare ovunque delle enumerazioni così intere e delle revisioni così complete da essere sicuri di non omettere nulla. La svolta era stata determinata dalla dottrina denominata, dagli studiosi, teoria della creazione delle verità eterne - avanzata nella primavera del 1630 in tre lettere a Mersenne -, secondo la quale Dio è il creatore non solo delle cose esistenti, ma anche delle essenze delle cose e delle verità eterne che ne costituiscono la struttura, e, quindi, anche delle verità matematiche; Da questa teoria discendono almeno due conseguenze capitali per l'insieme della filosofia cartesiana: a) l'evidenza matematica non costituisce più la forma più alta della conoscenza umana e richiede di essere fondata sulla metafisica; b) l'ordine non coincide con l'ordine matematico e, quindi, non è ristretto alla misura. La filosofia Nella Lettera-Prefazione alla traduzione francese dei Princìpi della filosofia del 1647, la filosofia è definita ‘studio della saggezza’: il suo fine ultimo resta quindi per Descartes, così come era per Aristotele, l’uomo e la sua felicità su questa terra. Ma, se lo scopo della filosofia consiste nella morale, il suo grado più alto consiste nella conoscenza della verità ed il suo fondamento nella metafisica, «una piccolissima parte della filosofia, la più difficile di tutte» (Epistola a Voetius, parte III), su cui si edificano la fisica e, tramite questa, la medicina, la meccanica e la morale: Tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale La fisica Il mondo sum (“penso dunque sono”). La certezza di questo cogito non riguarda io come corpo, ma riguarda solo la mia mente. Il cogito quindi costituisce un passo verso l'essenza: io esisto in quanto penso, ciò costi isce l'essenza, il che significa che sono una cosa- sostanza (res cogitans) ovvero una mente (mens) 3 Dubbio del Dio ingannatore: Esiste un Dio che può tutto e dal quale sono stato creato. DIO il filosofo deduce che l’idea di Dio, essere onnipotente, onnisciente, di sommo bene e dotato di ogni perfezione, essendo chiara e distinta, è un'idea innata, impressa da Lui stesso nella nostra mente. Primo argomento dell’esistenza di Dio: da dove proviene l'idea di Dio? più uno pensa a una determinata cosa, più si pensa che provenga da Dio. Essendo ognuno di noi sostanza finita, l'idea di Dio non proviene dagli individui in quanto Dio è un essere infinito. Secondo argomento dell’esistenza di Dio: L'uomo possiede innata l’idea di Dio, essere perfetto ed infinito, ma la causa di questa idea non può essere l’uomo, poiché esso è finito ed imperfetto; questa idea è causata direttamente da Dio, che dunque deve necessariamente esistere. Terzo argomento dell’esistenza di Dio (prova ontologica): Dio è perfetto, e perfezione significa l'insieme di tutte le qualità esistenti, pertanto Dio esiste, poiché essendo perfetto, deve possedere anche la qualità dell’esistenza. La altre certezze Dopo aver scoperto l’esistenza di Dio, Cartesio giunge ad altre certezze: * Se Dio è buono e sapiente, non può ingannare l’uomo, dunque non può essere il genio malvagio e di conseguenza possiamo essere certi delle nostre capacità conoscitive. *. Avendo ricevuto da Dio, nostro creatore, la facoltà di giudicare e distinguere il vero dal _ falso, allora disponiamo di una capacità conoscitiva affidabile. È così dimostrata l’esistenza di Dio in quanto causa dell'idea di Dio, la quale dunque è innata (ed innata è anche l’idea dell’io, che, come ogni altra idea del finito, si origina per negazione dall'idea dell'infinito). Se tale dimostrazione segue il modello tradizionale delle vie a posteriori, come una prova dagli effetti alla causa, di cui il modello più rappresentativo era costituito dalle cinque vie di Tommaso d'Aquino Descartes elabora una seconda prova a posteriori (che, tuttavia, di fatto, egli considererà sempre una variante della prima), in cui l’effetto da cui si muove non è l’idea di Dio, ma l’io (ossia una realtà formale), in quanto ha in sé l’idea di Dio: a)poiché io non vengo da me stesso, devo venire da altro; b)questo altro non possono essere né i miei genitori, né altri enti meno perfetti di Dio; c)dunque, esiste una prima causa, da cui vengo, ossia Dio. L'errore Infatti, l'inganno è un’imperfezione e, quindi, non può provenire dall'ente sommamente perfetto e infinito;La riflessione cartesiana su questo problema è stata spesso presentata come una teodicea dell'errore, ossia una giustificazione di Dio. dall’accusa di essere l’autore dell'errore: esattamente come il male, infatti, l'errore è una privazione, ossia la negazione di una perfezione dovuta, perché errare non significa semplicemente non sapere, ma sbagliare. Per rispondere, Descartes sostiene inizialmente che i fini di Dio non debbono essere indagati: all’infinita potenza di Dio sono possibili innumerevoli cose di cui io, che sono finito, ignoro il perché. Descartes, infatti, pur non negando l’esistenza delle cause finali, sostiene che di esse non si debba fare uso alcuno in fisica. L'eliminazione del finalismo non è, però, sufficiente a risolvere il problema dell'errore: la domanda sul perché dell’errore, infatti, concerne non il fine, ma la causa efficiente. La soluzione di Descartes è che questa consista nel libero arbitrio: secondo Descartes, difatti, la volontà umana è infinita e, per conseguenza, può estendersi al di là di ciò che ci è dato conoscere mediante l’intelletto; questo significa che essa ha il potere di formulare giudizi non solo in presenza di percezioni chiare e distinte, ma anche oscure e confuse. In questo potere consiste il suo libero arbitrio, il quale, però, proprio per questo motivo, è la causa dell’errore il quale consiste, infatti, precisamente in un giudizio formulato sulla base di percezioni non chiare e distinte. L'ESSENZA DELLE COSE MATERIALI Dimostrata la veracità di Dio, è possibile riscattare il valore dell’evidenza stabilendo la regola di verità: tutto ciò che è chiaro e distinto è vero. È così possibile, finalmente, accedere anche alla conoscenza della realtà della res extensa, ossia delle cose materiali. Descartes ne determina l'essenza, che identifica con l'estensione: percepisco in modo chiaro e distinto che la natura del corpo consiste nell’estensione in lunghezza, larghezza e profondità (i cui modi - ossia le caratteristiche variabili - sono la figura ed il movimento); ora, però, tutto ciò che è chiaro e distinto è vero; dunque, la natura del corpo consiste nell’estensione (ed i suoi modi nella figura e nel movimento). In questo modo, Descartes compie anche un passo decisivo verso la fondazione metafisica della ‘sua’ fisica meccanicistica in quanto: 1) tutte le proprietà che percepisco chiaramente e distintamente appartenere al corpo sono proprietà quantitative (le qualità sensibili sono percepite oscuramente e confusamente); 2) tali proprietà costituiscono delle essenze, ossia delle «nature vere ed immutabili» In questo modo, Descartes compie anche un passo decisivo verso la fondazione metafisica della ‘sua’ fisica meccanicistica in quanto: 1) tutte le proprietà che percepisco chiaramente e distintamente appartenere al corpo sono proprietà quantitative (le qualità sensibili sono percepite oscuramente e confusamente); 2) tali proprietà costituiscono delle essenze, ossia delle «nature vere ed immutabili» (Meditazioni, V), oggetto di idee innate. Ne risulta che le proposizioni della fisica non dipendono né (a) dalla nostra mente (per cui le verità della fisica sarebbero delle convenzioni, secondo la posizione di Gassendi, o dei semplici nomi, secondo la posizione di Hobbes), né (b) dall'esperienza (secondo la posizione aristotelica), ma (c) da essenze necessarie. In tal modo, è fondata la fisica come scienza di proposizioni logicamente necessari L'oggetto della matematica è, infatti, costituito da essenze eterne ed immutabili, le quali non sono date empiricamente e costituiscono il punto di partenza di dimostrazioni a priori. Lo svolgimento di tali dimostrazioni è compito che Descartes assumerà nella seconda parte dei Princìpi della filosofia, mentre nelle Meditazioni il riconoscimento della legittimità di una dimostrazione a priori nel caso delle verità matematiche e fisiche gli offre l'occasione per un’altra prova dell’esistenza di Dio.poiché nel concetto evidente dell'essenza di Dio è inclusa l’esistenza, in quanto Dio è l'ente perfettissimo e l’esistenza è una perfezione, l’esistenza potrà essere affermata come necessariamente appartenente a Dio. Ne risulta di nuovo provata l’esistenza di Dio, ma, stavolta, non mediante una prova a posteriori, ossia dagli effetti, bensì a priori, in quanto il suo punto di partenza è costituito dall’essenza di Dio, che, come l'essenza delle cose materiali (estensione), punto di partenza delle dimostrazioni della matematica e della fisica, non è data empiricamente. La distinzione reale, l’esistenza delle cose materiali e l'unione sostanziale Pervenuto all'idea chiara e distinta della mente e del corpo, Descartes dispone di tutte le premesse per dimostrare l’incorporeità della mente. Essa è una sostanza pensante e non estesa. Al tempo stesso, ne prova l’incorporeità e la distinzione reale dal corpo: mente e corpo sono due sostanze e non due co-princìpi (forma e materia) di una sola sostanza, come erano invece in Aristotele e, in parte, anche in Tommaso d'Aquino. Ne risulta una critica contro il concetto di anima, cui Descartes oppone il suo concetto di mente. Secondo la concezione tradizionale, risalente ad Aristotele: 1) l’anima, in quanto ‘atto primo di un corpo fisico-organico’, costituisce il principio della vita e della sensazione, che risiedono nel corpo ma sono originate dall'anima; 2) la mente costituisce solo una parte, per quanto la più alta, dell'anima, ossia il principio del pensare. Per Descartes, invece, poiché le funzioni vitali e sensoriali dipendono esclusivamente dal corpo, la mente va considerata «non come parte dell'anima, ma come quell’anima tutta che pensa» Risulta così dimostrata, insieme all'esistenza dei corpi (il che implica il superamento del dubbio del sogno), anche quella di idee avventizie (= derivanti dall'esterno), che si distinguono non solo dalle idee innate (l’idea dell’io e di Dio), ma anche da quelle fattizie (= prodotte dall’io, come nei sogni). Descartes osserva che l’io non si trova nel corpo come un pilota nella sua nave, ma vi è «strettissimamente congiunto e quasi commisto» componendo con esso «un qualcosa d'uno» (Meditazioni, VI). Non solo: pur non asserendo che mente e corpo costituiscono una sostanza, afferma non solo che esse agiscono l’una sull'altra (dottrina dell'interazione), ma anche che sono unite ‘sostanzialmente’ (dottrina dell'unione sostanziale), spingendosi, anzi, nella corrispondenza con Elisabetta, a dire che «concepire l'unione che c’è tra due cose significa concepirle come una sola» Descartes, anzi, sempre nella corrispondenza con Elisabetta, aveva dichiarato che la nozione di unione sostanziale, così come quella di mente e quella di corpo, sono delle nozioni primitive, ossia delle nozioni originarie che non devono essere spiegate l’una con l’altra; ma, a differenza della distinzione della mente e del corpo, che, come si è visto, può essere conosciuta con chiarezza solo attraverso le meditazioni metafisiche, la conoscenza dell'unione non potrà mai essere realizzata attraverso la sola meditazione, ma sarà accessibile solo sperimentandola concretamente, attraverso i sensi, nella vita quotidian Tale analisi costituisce lo scopo dell'ultima opera del filosofo, Le passioni dell'anima. Descartes si sofferma, per la prima volta in modo sistematico, a spiegare le funzioni derivanti dall'unione, cui fa seguire una classificazione delle passioni. La principale distinzione stabilita da Descartes, nella seconda parte dell’opera, è quella fra passioni primitive e passioni particolari, o derivate. Le prime sono come i generi di cui le altre passioni costituiscono le specie e sono sei: meraviglia, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza. Un elemento di originalità nella dottrina di Descartes sta, anzitutto, nella nuova classificazione delle passioni, a cominciare dall’inclusione, fra di esse, per la prima volta nella storia della filosofia, della meraviglia, che è la passione che si produce allorché, imbattendoci per la prima volta in un oggetto e, sorprendendoci, lo giudichiamo nuovo o molto diverso da quel che conoscevamo in precedenza, Frutti dell'albero: meccanica, medicina, morale Secondo l’immagine dell'albero della filosofia, le scienze principali dipendenti dalla fisica sono la meccanica, la medicina e la morale. Alla meccanica, intesa quale studio delle macchine e del loro funzionamento, il filosofo si era dedicato almeno a partire dagli anni Trenta, quando cercava artigiani capaci di realizzare le lenti descritte nella Diottrica e macchine per tagliarle, al fine di ottenere, come si legge nel Discorso, «la conservazione della salute, che è senza dubbio il primo bene» (parte VI). Descartes redigerà anche uno scritto di meccanica, che invierà ad Huygens, ma mai un trattato. D'altronde, come si evince dalla dichiarazione del Discorso, la finalità ultima della stessa meccanica è da ricercare prop nella medicina, che Descartes aveva avuto a lungo la convinzione di poter non solo elevare a scienza, ma di condurre alla scoperta di verità «finora ignorate» È, questo, l'ambito della morale, in cui Descartes distingue una morale provvisoria. La morale provvisoria, che Descartes aveva presentato nella terza parte del Discorso, era caratterizzata da tre regole: l1.obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese, continuando ad osservare la religione in cui si è stati educati sin dall'infanzia e seguendo, per il resto, le opinioni più moderate; 2.essere quanto più fermi possibile nelle proprie azioni, seguendo anche le opinioni più dubbie, una volta che si sia determinati ad esse, come se fossero certe; 3.cercare sempre di vincere se stessi e i propri desideri piuttosto che la fortuna e l'ordine del mondo e credere che non ci sia nulla interamente in nostro potere se non i nostri pensieri; La morale perfetta rimane un progetto incompiuto. In particolare, le tre regole della morale si radicano,sulla distinzione fra sommo bene e beatitudine: il primo è il fine o scopo ultimo cui devono tendere le azioni umane e coincide con la virtù; la seconda è identica con la felicità, ossia con l’appagamento dell'animo derivante dal possesso del sommo bene, e costituisce il motivo per cui noi lo ricerchiamo. In questo modo, Descartes opera una sintesi fra stoicismo ed epicureismo. Il tratto più originale di questa sintesi risiede nella dottrina della libertà e della generosità su cui tale sintesi si radica e sulla base della quale Descartes dà una risposta definitiva al problema del rimedio delle passioni. Il motivo per cui il sommo bene coincide con la virtù risiede, infatti, proprio nel fatto che la virtù è il solo bene, fra tutti quelli che possiamo conseguire, a dipendere interamente dal libero arbitrio, il quale, però, è anche la sola cosa che ci dia una buona ragione per stimarci, in quanto è principalmente esso che ci rende in qualche modo simili a Dio. E qui ripresa la dottrina metafisica del libero arbitrio della quarta meditazione ed innestata nel cuore della morale mediante il concetto di generosità: questa è, insieme, la passione e la virtù (perfetta) mediante la quale esperiamo in noi la ferma e costante risoluzione a usare bene il libero arbitrio. Il generoso, dunque, stimerà se stesso al più alto grado e non solo sarà portato a fare grandi cose (compreso il bene per gli altri ed il disprezzo per il proprio interesse), ma diventerà «interamente padrone» Tale dottrina costituisce la soggetti à Come il sapere metafisico è ricostruito da Descartes a partire dall’io, così è ancora sull’io che si fondano la morale e l'ideale della saggezza. In tal modo, è ‘inaugurata’ la modernità non solo in metafisica, con l’identificazione del fondamento primo nel pensiero (e non nell’ente della tradizione aristotelica), ma anche in etica, mediante l'individuazione nel singolo in quanto tale (e non nel singolo quale ‘animale politico’) del soggetto della morale, la quale, così intesa, troverà in Kant, la sua espressione più radicale. ‘libera necessità’ di Dio va dunque intesa nei termini di un ordine geometrico che regola, determinandole matematicamente, la realtà e le sue leggi, così come dalla definizione di triangolo derivano necessariamente le sue proprietà. Mente e corpo Ai modi che derivano ‘necessariamente’ da Dio, mente e corpo, è dedicata la seconda parte dell’Etica (Natura e origine della mente), nella quale viene precisato che il proposito dell’Etica è portare l’uomo ‘alla conoscenza della mente umana e alla beatitudine”. Ordine e connessione delle idee/Ordine e connessione delle cose Pensiero ed estensione sono due attributi tra loro eterogenei della sostanza unica (Dio): per il primo, ‘Dio è cosa pensante’, per il secondo, ‘Dio è cosa estesa”. La mente umana come idea del corpo Dal parallelismo degli attributi e dei loro modi deriva la definizione della mente come idea del corpo. La mente dell'individuo è in effetti l’idea singolare attraverso la quale Dio conosce un certo corpo effettivamente esistente. Parallelismo significa che la conoscenza divina ha come oggetto questo corpo singolare esistente e questo corpo singolare nel momento in cui viene ad esistere non può non essere nell’intelletto divino.In altre parole, Dio non potrebbe conoscere quel che accade al corpo di un individuo se la mente di questo individuo non esistesse come idea avente come oggetto questo corpo esistente. Ci sarebbe infatti una deficienza nella conoscenza divina circa l'attributo dell'estensione: nel momento in cui un certo corpo viene ad esistere, deve esserci un'idea nella conoscenza divina, ossia questo corpo deve avere una mente (ciò che vale per le modificazioni di tutti gli attributi). Dunque tra mente e corpo non c'è interazione così come non ve n'è tra gli attributi di cui essi sono dei modi. La mente, in quanto idea singolare di Dio (nel senso che ha un oggetto singolare, finito), non viene ad esistere se non per il fatto che, nel contempo, il corpo di cui essa è l’idea viene ad esistere, La mente umana, in quanto modo dell'attributo del pensiero (che consiste di idee), non è nient'altro che ‘l’idea di una certa cosa singolare esistente in atto’ (Etica II, prop. 11); in quanto idea, oggetto della mente, è il corpo che è un modo dell'estensione. In questo caso tale conoscenza non è un’idea singolare, ma è compresa nell’intelletto infinito di Dio che costituisce il modo infinito immediato del pensiero e che non è altro che l’idea che Dio ha della sua natura. La mente che viene ad esistere è dunque costituita da una parte eterna (la conoscenza dell'essenza del suo corpo) e da una parte peritura (la conoscenza dell’esistenza di questo corpo). L'uomo è modificazione (modo) di due attributi di Dio: è infatti partecipe e conosce solo il pensiero e l'estensione. Il corpo umano (1) è composto da moltissimi individui di diversa natura (fluidi, molli, duri) ciascuno, a sua volta, composto; (2) è affetto in molte maniere dai corpi esterni; dai quali (3) viene rigenerato; (4) può muovere e disporre i corpi esterni in molte maniere (Etica II, postulati 1-6). Ne consegue che, essendo il corpo oggetto della mente (in quanto idea), necessariamente si dà, di ciascun individuo di cui il corpo si compone, un'idea in Dio: l’idea del corpo umano «è composta di queste moltissime idee delle parti componenti» | tre generi di conoscenza e la beatitudine Baruch Spinoza articola il processo conoscitivo in tre stadi o momenti che corrispondono a tre modi di concepire la realtà e di agire di fronte ad essa: 1) Il primo grado é quello della percezione sensibile o dell’immaginazione (fase sensibile), in cui le idee sono raccolte in ordine casuale e confuso; senza essere comprese o collegate, unite solamente attraverso i nomi comuni. È un genere del tutto inadeguato e il suo corrispondente etico è la schiavitù delle passioni ossia la situazione in cui l’uomo non comprendendole non riesce a moderare le passioni ed è dunque in balia della fortuna. 2) Il secondo é il grado della ragione o dell'intelletto che conosce le nozioni comuni a più cose ossia quelle idee chiare e distinte (modi infiniti) che esprimono proprietà generali delle cose (modi finiti). Diversamente dal primo grado questa conette le cose tra di loro in base ai loro rapporti di causa-effetto. Il corrispondente etico di questo stadio è la vita secondo ragione o virtù in cui l’uomo è in gradi di autoconservarsi e di controllare gli istinti e le passioni. 3) La terza e più elevata forma di conoscenza, propria della facoltà dell'intelletto, é la scienza intuitiva che ci permette di vedere la derivazione necessaria delle cose dalla causa prima (Dio) secondo il loro giusto ordine geometrico. Dalla conoscenza di esso nasce l’amore intellettuale di Dio che corrisponde al grado più alto dell’ascesi e ad uno stato dove la libertà e la virtù sono portate ai massimi livelli. L'amore intellettuale di Dio è eterno ed è parte dell'amore con cui Dio ama se stesso. La salvezza concede cosi con la beatitudine che è eterna come la conoscenza che la genera. AFFETTI, PASSIONI, AZIONI Rispetto alle cose esterne possiamo essere passivi o attivi: siamo passivi (patiamo) quando ci accade qualcosa o qualcosa segue dalla nostra natura di cui siamo causa inadeguata o parziale, ossia una causa che non spiega il suo effetto; siamo attivi (agiamo) quando segue dalla nostra natura qualcosa in noi o fuori di noi di cui siamo la causa adeguata, ossia «causa il cui effetto può essere percepito chiaramente e distintamente» L’uomo che ha sviluppato, in rapporto alle cose esterne dalle quali è stato determinato ad agire, una conoscenza adeguata, vive, nei differenti casi della vita, conformemente alla sua natura, ossia è libero: «L'uomo libero [...] vive secondo il solo dettato della ragione» AFFETTI PRIMITIVI E CONATUS Ogni ente, anche l’uomo, tende alla propria autoconservazione, mentre la sua distruzione può provenire solo da una causa esterna . Nell'uomo la tendenza o sforzo a conservare il suo essere diventa resistenza a ciò che minaccia di distruggerlo. Questo sforzo (conatus), quando è riferito alla sola mente, si chiama volontà; quando è riferito alla mente e al corpo si chiama appetito. Ora, l’uomo è mente e corpo, dunque l'appetito è ‘l'essenza dell’uomo’ ed è sempre necessariamente volto ad assicurarne la conservazione. La consapevolezza di questo appetito è ciò che si chiama cupidità. Ed è questo che spiega perché l’uomo non si propone, vuole, desidera una cosa perché la ritiene buona, ma al contrario, giudica una cosa buona, perché se la propone, la vuole, la brama e la desidera. Accanto alla cupiditas, Spinoza riconosce due altri affetti primari: gioia, affetto che consiste nel passaggio ad una perfezione più grande, e tristezza, affetto che consiste nel passaggio ad una perfezione minore. Da questi affetti derivano tutti gli altri. Forza degli affetti, schiavitù dell’uomo, regole della vita razionale Anche l’uomo non sfugge a tale regola e, in quanto parte della natura, patisce, ed è soggetto alle passioni. Proprio perché la natura non ha nessun fine, e ogni cosa è sempre tale e quale deve essere, in natura non ci sono né bene né male, né perfezione né imperfezione, che sono piuttosto ‘modi di pensare’, nozioni e concetti umani. È dunque solo dal punto di vista dell’uomo, della sua conoscenza, e della sua forza, che si può parlare di: l.bene è «ciò che sappiamo con certezza che ci è utile», vale a dire ciò che ci permette di perseverare nell'essere; 2.male è «ciò che sappiamo con certezza che ci impedisce di impadronirci di un certo bene», vale a dire ciò che ci impedisce di perseverare nell'essere; 3.perfezione è la realtà o essenza di una cosa in quanto esiste e opera in una certa maniera senza tener conto della sua durata o del perseverare nell'esistenza che non dipende dall’essenza della cosa, ma da cause esterne, ossia dalla fortuna; è dunque in quanto la natura o potenza di agire di una cosa è aumentata o diminuita che sarà detta più o meno perfetta. 4.fine è l'appetito grazie al quale tendiamo verso ciò che ci sembra aiutarci a perseverare nell'essere; 5.virtù, o potenza, è l'essenza dell’uomo in quanto egli ha il potere di produrre degli effetti che possono essere compresi con le sole leggi della sua natura Ora, da un lato, come abbiamo visto, l’uomo è passivo, dall'altro, grazie alla ragione, può essere attivo e agire secondo virtù, ossia può conoscere ciò che è veramente utile: «Agire in assoluto secondo virtù non è altro in noi che agire, vivere e conservare il proprio essere secondo la guida della ragione 1) il primo precetto è: «Di niente sappiamo con certezza che sia bene o male, se non di ciò che veramente conduce a intendere secondo verità o che può impedirci di intendere» 2) il secondo precetto è: gli uomini sono utili gli uni agli altri. Avendo la stessa natura, ciò che è realmente un bene per l’uno è ugualmente un bene per l’altro. Agire secondo la propria natura significa vivere sotto la guida della ragione e non delle passioni. Queste ultime, per definizione, ci sottomettono all’azione di cause esterne e ci fanno agire in funzione della loro e non della nostra natura. Questo significa che Stato e conservazione della concordia sociale sono i principali mezzi attraverso i quali ciascuno può sviluppare il suo potere di comprendere. La salvezza fuori dallo Stato non è possibile in quanto solo nella società è possibile la filosofia. L'etica spinoziana si intreccia dunque con la riflessione politica alla quale spetterà, tuttavia, di scegliere le istituzioni politiche più favorevoli allo sviluppo della conoscenza umana (Trattato politico). La concordia civile è fondamentale giacché per l’uomo non ci può essere salvezza fuori dallo Stato. E infatti è soltanto nella società che la stessa filosofia (intesa come via verso la salvezza) è possibile. IL POTERE DELL’INTELLETTO E LA LIBERTA’ UMANA Spinoza consegna ad uno scritto pubblicato anonimo, il Trattato teologico-politico, la sua concezione della libertà di pensiero, o ‘libertà di filosofare”. Il trattato si compone di due parti. Nella prima si ‘provvede’ «a separare la filosofia dalla teologia, e a dimostrare la libertà di filosofare che questa [la teologia] consente a ciascuno» (cap. XVI); nella seconda si cerca «fin dove si estenda questa libertà di pensare e di dire quello che si pensa in uno Stato ben ordinato» Dopo avere analizzato l'influenza delle passioni ed esplicitato la regola della vita razionale, si passa all'analisi della ‘via che conduce alla libertà, ossia alla maniera nella quale la ragione governa gli affetti e si realizza - a questo ‘tende’ l’Etica - la libertà della mente e la beatitudine. Chi conosce in maniera adeguata (chiara e distinta) sé e i propri affetti (le passioni), ama Dio e tanto più li conosce, in quanto riferisce tutte le affezioni dei corpi (ossia le immagini delle cose) all'idea di Dio: la potenza della mente (la sua capacità di agire) è definita dalla conoscenza adeguata, mentre l'impotenza (ossia il suo ‘patire’), dalla ‘privazione di conoscenza’, vale a dire dalla conoscenza inadeguata. il terzo genere di conoscenza (conoscenza intuitiva), il cui fondamento è la conoscenza di Dio. Tale conoscenza, che non elimina ‘totalmente’, ma riduce al minimo gli affetti, «genera l'Amore verso la cosa immutabile ed eterna», ossia Dio. La mente va poi considerata nell’’eternità’.Scolio). L'eternità concerne la parte attiva della mente (e quindi capace di opporsi agli affetti contrari alla sua natura), più perfetta rispetto a quella che perisce. L'eternità non deve tuttavia essere confusa, come spesso accade, con l'immortalità. L’immortalità è una rappresentazione erronea dell’eternità, in quanto consiste nel credere che dopo la morte del corpo permanga la conoscenza che la mente aveva dell’esistenza del corpo e della durata (immaginazione e memoria), esattamente le cose che, secondo Spinoza, sono deperibili inquanto sempre false o inadeguate. Alla conoscenza eterna, conoscenza di terzo genere, corrisponde una emozione eterna, l’amore intellettuale di Appare ora chiaro come ciò che separa Spinoza da Descartes è la diversa maniera di presentare il rapporto tra mente e corpo. Spinoza su questo punto è tranchant: per il filosofo francese il corpo è soggetto alla mente che «unita [...] alla ghiandola detta pineale [...] sente tutti i movimenti che vengono eccitati nel corpo e gli oggetti esterni; e [...] per il fatto solo che lo vuole può muovere in vario modo [la ghiandola pineale]». LA SCRITTURA, IL DIRITTO NATURALE E LO STATO La concezione di Spinoza dello Stato presenta notevoli punti comuni con Hobbes. Anche Spinoza parte dall' ipotesi di uno stato di natura dove il diritto di ciascuno è eguale alla forza di cui dispone per affermare il proprio essere: perciò il più forte predomina sul più debole. Lo stato di natura è quindi una condizione di insicurezza e di pericolo La ragione, che indica agli uomini il loro vero bene, cioè la loro vera utilità, li induce pertanto a istituire un patto sociale, con il quale il potere di ciascuno viene limitato in modo da garantire a tutti la sicurezza della propria persona: si cede parte del proprio potere personale a favore di un'istanza superiore. In due punti il pensiero politico di Spinoza si differenzia tuttavia da quello di Hobbes: in primo luogo, Spinoza ritiene che nel patto i singoli non rinuncino al loro diritto naturale, ma al contrario che essi attuino semplicemente, attraverso la sua limitazione, le condizioni necessarie per conservarlo. Infatti la condizione civile per Spinoza deve somigliare il più possibile a quella naturale. Se nello stato di natura gli uomini erano uguali, uguali dovranno essere anche nello stato civile. Ciò induce Spinoza a preferire la democrazia alle altre forme di governo, tuttavia anche per lui il potere deve necessariamente essere assoluto. In secondo luogo, Spinoza ritiene che I' uomo non può rinunciare alla libertà di pensiero e di espressione. Nessun governo può quindi questa facoltà a meno che questa non si traduca in un diritto di resistenza. La religione Spinoza critica la Bibbia che secondo lui non dice la verità ma ha solo stabilito le condizioni di un obbedienza a Dio, la Fede. La Chiesa perciò opprime il popolo e minaccia la libertà di LE IDEE Il primo libro del Saggio è dedicato alla critica dell’innatismo.Nessun principio, afferma Locke, né di natura speculativa né di natura pratica, è presente nella mente umana indipendentemente dall’uso delle facoltà naturali. | princìpi speculativi (ovvero i ‘princìpi primi della logica aristotelica e gli assiomi della matematica’), non possono essere innati, perché non sono noti a tutti: i bambini e gli idioti, infatti, li ignorano e così tutti coloro che non abbiano ragionato a riguardo.L’unica via attraverso la quale tali princìpi fanno ingresso nella mente umana è l’esperienza sensibile: mediante i sensi, l'intelletto riceve le diverse idee particolari, che vengono conservate nella memoria e dotate di un nome generale non appena l’esperienza ripetuta le ha rese familiari all’intelletto. Locke, esaminando l’attività psichica dell’uomo, distingue le idee in tre grupp 1. Idee semplici, nei confronti delle quali l'intelletto è passivo perché le riceve dall'esperienza, e precisamente dal senso esterno (sensazione) e dal senso interno (riflessione); 2. Idee complesse, nei confronti delle quali l’intelletto è attivo perché le compone rielaborando in vario modo le idee semplici ed ottenendo così le idee di sostanza, le idee di modo e le idee di relazione; 3. Idee generali, nei confronti delle quali l’intelletto è ugualmente attivo, perché le forma dalle idee semplici e dalle idee complesse con l’astrazione e la generalizzazione. Locke, riprendendo la distinzione di qualità oggettive e qualità soggettive, ammessa dagli atomisti, da Galilei, da Cartesio e da Hobbes, afferma che non tutte le idee corrispondono alla realtà effettiva, ma soltanto quelle che offrono la rappresentazione delle proprietà essenziali dei corpi. Così si chiama qualità primarie l'estensione, la figura, il movimento, la solidità ... che sono inseparabili dagli oggetti e costituiscono la loro struttura; denomina qualità secondarie il colore, il sapore, l'odore, il suono ... che non appartengono agli oggetti, ma che i sensi percepiscono perché prodotte dalle varie combinazioni delle qualità primarie, dalla conformazione degli organi sensoriali e dalle condizioni fisiologiche e psichiche dei singoli individui. Perciò le qualità primarie sono immagini fedeli delle cose,mentre le qualità secondarie non lo sono affatto. LA SOSTANZA La sostanza è un'idea complessa che deriva dall'aggregazione di più idee semplici. Di una sostanza come l'oro, ad esempio, conosciamo unicamente alcune qualità sensibili, ad esempio il colore giallo, la durezza e la lucentezza; un filosofo naturale potrebbe aggiungere a queste la duttilità e la solubilità, tuttavia non avrà alcuna idea riguardo al fondamento sul quale poggiano tali qualità, ciò che appunto si intende con il termine ‘sostanza’. Tale fondamento corrisponde all'essenza reale dei corpi, la causa fisica dalla quale dipendono le loro qualità osservabili; IL LINGUAGGIO I segni convenzionali attraverso i quali gli uomini comunicano le loro idee sono le parole.Il linguaggio, osserva Locke, richiede la capacità sia di articolare suoni capaci di funzionare da segni sensibili delle idee, sia di creare un vocabolario di termini generali sufficiente a coprire le varie entità particolari: si tratta di abilità umane, non condivisi dagli animali privi di ragione. Esso è lo strumento attraverso il quale è possibile sia (1) registrare i pensieri individuali, supportando così la memoria, sia (2) comunicarli. Occorre ricordare: I nomi corrispondono a idee astratte prodotte dall’intelletto e non hanno alcuna connessione naturale con gli oggetti reali, ma solo un legame arbitrario; 2.i nomi di idee complesse, in particolare i nomi di modi misti e i termini morali possono generare oscurità e confusione tra i parlanti a causa della varietà e numerosità delle idee a cui fanno riferimento e alla mancanza di un modello in natura con cui sia possibile verificarne il significato; 3.i nomi delle sostanze possono causare incertezze, in quanto l'essenza reale dei corpi non è conoscibile; 4.le negligenze linguistiche volontarie degli «uomini delle scuole» sono applaudite come sottigliezze e alimentano ovunque oscurità e dispute La conoscenza Il quarto e ultimo libro del Saggio è dedicato alla conoscenza, che Locke identifica nella percezione della concordanza o discordanza tra le idee presenti nell’intelletto. Tale percezione può essere di quattro tipi: 1.percezione dell'identità o diversità, come nel caso in cui la mente confronta le idee del bianco e del nero e ne rileva il disaccordo; 2.percezione di una relazione, come nel caso dell’uguaglianza tra due figure; 3.percezione di una coesistenza, come nel caso dell'idea di una sostanza e di quella di una proprietà che le appartiene; 4.percezione dell’esistenza reale, come nel caso dell'idea di Dio. Locke distingue inoltre tra: la conoscenza intuitiva: si coglie con immediatezza, senza l’intermediazione di altre idee, la connessione esistente tra due idee; questo tipo di conoscenza è il più chiaro e il più certo. La conoscenza dimostrativa: la mente coglie la connessione tra due idee mediante altre idee. Conoscenza probabile: a verità sta nell'accordo o nel disaccordo tra due idee a cui si riferiscono il secondo e il terzo grado di conoscenza. Noi non siamo in grado di fare questo , quindi la nostra conoscenza è PROBABILE. RELIGIONE, TOLLERRANZA E MORALE LA DIFESA DI UN CRISTIANESIMO MORALE Così, la visione che Locke ha dell’esistenza umana è quella di un cristiano riformato: il suo interesse per la teologia è già evidente nei Saggi sulla legge di natura (1664), nei quali l’esistenza di un Dio creatore e reggitore dell'universo è concepita come fondamento della legge morale. L’opera rivela, inoltre, una prima presa di distanza dall’innatismo: la legge di natura, ovvero la legge morale che Dio ha donato agli uomini sin dalla creazione, non è descritta come un insieme di princìpi impressi nei cuori ma piuttosto come verità accessibile mediante il lumen naturale della ragione. L'interesse per la teologia si intensifica in Locke a partire dagli anni dell'esilio olandese, grazie ai rapporti che intrattiene con importanti esponenti del riformismo cristiano come Philippus van Limborch: comincia per il filosofo una fase di intenso studio delle Scritture. Locke è stato sensibile a numerose suggestioni: ha manifestato forti simpatie sia per l’anglicanesimo liberale di William Chillingworth (1602-1644) sia per il latitudinarismo - soprattutto quello più irenico dell'arcivescovo John Tillotson (1630- 1694) e del vescovo Edward Fowler (1632-1714) - e ancora per l’arminianesimo di van Limborch. Nella Ragionevolezza del Cristianesimo (1695), Locke afferma che il nucleo essenziale del Cristianesimo è il riconoscimento di Cristo come Messia e della vera natura di Dio. Ciò costituisce la base per una religione semplice, adatta a tutti, libera dai sofismi teologici. Naturalmente la fede in Cristo implica anche l'obbedienza ai suoi precetti, per quanto nessuno sia obbligato a conoscere tutti quei precetti, che ciascuno deve invece cercare di apprendere e di comprendere da sé nelle Scritture. La ragione è in qualche modo intrinseca al Cristianesimo stesso, che è nato come sforzo di liberare l’uomo dalle vecchie tradizioni; in altre parole, il Cristianesimo è stata una nuova e più efficace promulgazione della legge morale e delle verità fondamentali che reggono la vita umana. Il principio della tolleranza delle varie opinioni e in particolare delle diverse fedi religiose ha trovato un’ampia trattazione nella Lettera sulla tolleranza (1689). A fondamento del discorso vi è la netta separazione tra lo Stato e la Chiesa, cioè la distinzione tra le competenze dell'autorità civile e di quella religiosa, distinzione che fu di enorme portata storica. Pertanto lo Stato può intervenire per imporre leggi e sanzioni, ma non per imporre articoli di fede o dogmi o forme di culto. Anche il rapporto tra le varie Chiese deve ispirarsi al dovere della tolleranza. Nessuna di esse può infatti vantare alcun diritto sulle altre, giacché "ogni chiesa è ortodossa per se stessa, ed erronea o eretica per le altre". Un conflitto potrebbe sorgere solo se non si rispettano i limiti delle proprie competenze da una parte o dall’altra. Questo è purtroppo quanto accade, secondo Locke, nel caso dei cattolici, i quali, proprio per questo, vanno esclusi dal campo di chi può beneficiare della tolleranza del sovrano. Infatti la sottomissione dei cattolici al Papa è un vero e proprio passaggio ad un sovrano straniero e questo non può essere tollerato, nella misura in cui, del resto, sono essi - i cattolici - che si rifiutano, dice Locke, di rispettare gli altri. Una seconda eccezione al principio della tolleranza è costituita dall’ateismo, perché esso compromette i presupposti di qualsiasi convivenza civile. È sicuramente una contraddizione, visto che se si parla della tolleranza e la si accetta come principio, non è possibile poi non tollerare gli atei. Il liberalismo La teoria liberale di Locke trova la sua matura esposizione nei due Trattati sul governo composti in gran parte nel 1681, ovvero nel clima turbolento della Exclusion crisis. Il Primo Trattato Nel Primo Trattato sul governo è confutato il patriarcalismo di Robert Filmer (1588-1653), che nel suo Patriarcha (1630), in opposizione al modello giusnaturalistico di Grozio (1583-1645), aveva inteso legittimare la monarchia de iure divino mediante il ricorso all'autorità scritturale. Secondo Filmer, dalla sovranità concessa da Dio ad Adamo e da questi trasmessa ai suoi successori (i patriarchi) poteva dedursi l'origine divina del potere monarchico, la cui legittimità non dipendeva dunque dal consenso del popolo. Le tesi di Filmer erano dunque le seguenti: 1.nessun uomo nasce libero, ma per natura è soggetto all'autorità paterna; 2.potere paterno e potere regale coincidono ed è dunque naturale la soggezione al monarca; 3.è contro natura che il popolo governi se stesso o elegga i suoi governanti; 4.il diritto positivo rafforza il diritto naturale e paterno del monarca, che è ereditario. Basandosi sul testo biblico, Locke respinge sia l’idea che Dio abbia conferito ad Adamo e ai patriarchi un potere analogo a quello dei monarchi, sia l’idea che tale potere si sia trasmesso nei secoli in maniera ininterrotta, sia ancora l’idea che gli uomini siano stati creati da Dio come naturalmente soggetti a un monarca. Al contrario, il filosofo insiste sulla naturale uguaglianza e libertà degli uomini, fondandole sulla legge di natura; Il Secondo Trattato Il Secondo Trattato sul governo stabilisce anzitutto che la società civile è il frutto di un patto originario stipulato dagli uomini nello stato di natura. Quest'ultimo non è per Locke uno stato di guerra permanente, come voleva Hobbes bensì uno stato di libertà ed eguaglianza in cui gli uomini convivono pacificamente avendo come unico vincolo la legge di natura, che impone di non recare danno agli altri nella loro persona, libertà e averi gli uomini si riuniscono in società mediante un contratto, affidando al sovrano il compito di esercitare il potere esecutivo e alla legge la tutela delle loro proprietà. Questa tutela costituisce il fine ultimo dello stato: il sovrano non può dunque privare i sudditi dei loro beni e neppure della vita, perché questa sarebbe un’evidente violazione della legge di natura che, come regola eterna emanata da Dio, precede e legittima la legge civile. Quest'ultima non può, dunque, attribuire ad alcuno il potere di violare arbitrariamente, neppure nel caso della conquista di un paese nemico, i diritti che la legge di natura riconosce agli individui, ovvero il diritto fondamentale alla vita, alla libertà e alla proprietà intesa come godimento dei beni necessari alla propria sopravvivenza. Il tiranno è appunto colui che viola questi diritti: «Là dove finisce la legge comincia la tirannide - scrive Locke Il filosofo infatti legittima, nel quinto capitolo, l'accumulo di capitali nelle mani di pochi individui talentuosi insistendo sulla loro capacità di far fruttare i propri beni a vantaggio di tutta la comunità. Locke, d’altra parte, critica la cupidigia che spinge gli uomini ad appropriarsi di beni oltre le loro necessità naturali. Il Secondo Trattato, come si è visto, contiene una definizione organica del liberalismo le cui premesse sono le seguenti: 1.esistono diritti natura alla vita.alla libertà e alla proprietà privata; 2.la sovranità viene concessa dal popolo al sovrano, che quindi non la possiede per diritto divino. La sovranità è gestita dal Parlamento secondo i dettami della rappresentatività; 3.la costituzione è un patto a cui tutti sono obbligati, anche il sovrano. Quest'ultimo non rappresenta il supremo legislatore bensì il supremo esecutore della legge; 4.sono fissati e distinti due poteri, il legislativo (legittimato direttamente dal popolo) e l'esecutivo (esercitato dal sovrano), allo scopo di evitare ogni abuso nella società civile. Il potere legislativo, esercitato dal Parlamento eletto dai cittadini, è il più importante fra i due, in quanto garantisce la legittimità dell'esecutivo. Vi è, inoltre, un terzo potere, quello federativo, che si occupa della politica estera ed è gestito dall’esecutivo. degli uomini: si tratta del diritto