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Storia della Filosofia Unimarconi, Appunti di Storia Della Filosofia

Riassunti Storia della Filosofia

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 03/07/2021

GIOVANNI.LP
GIOVANNI.LP 🇮🇹

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Scarica Storia della Filosofia Unimarconi e più Appunti in PDF di Storia Della Filosofia solo su Docsity! LA NASCITA DELLA FILOSOFIA La filosofia nasce come desiderio di conoscenza e rappresenta l’espressione della curiosità dell’uomo, del senso di meraviglia che si manifesta quando l’uomo trova risposte significative alla sua ricerca. La filosofia è amore per la verità, per la conoscenza e per il sapere. La filosofia vuole cercare una risposta ai quesiti e ai problemi contingenti all’uomo. Il pensiero filosofico nasce quando l’uomo si pone domande e cerca di dare risposte. Essa rappresenta anche il gusto di sapere per il sapere, senza la finalità di raggiungere obiettivi pratici. Comunemente si pensa che la filosofia sia nata nella regione dell’Ellade in Grecia, anche se la speculazione filosofica pone le radici in civiltà mediorentali e culture più antiche, come quella dei Caldei, dei Babilonesi e degli Egizi. Dagli Egizi derivano alcune conoscenze matematico-geometriche, mentre dai Babilonesi alcune cognizioni astronomiche, che però vennero rielaborate dai Greci in una teoria generale e sistematica dei numeri e delle figure geometriche, andando al di là degli scopi iniziali prevalentemente pratici. Per poter capire la filosofia di un popolo e di una civiltà, è indispensabile far riferimento all’arte, alla religione e alle condizioni socio-politiche. L’arte tende a raggiungere in maniera mitica (intuizione e immaginazione) obiettivi propri della filosofia. La religione tende a raggiungere tramite la fede certi obiettivi che la filosofia cerca di raggiungere con la ragione. Importanti sono anche le condizioni socio- economiche e politiche, che spesso condizionano il nascere di determinate idee. Anteriormente alla nascita della filosofia, i poeti ebbero grande importanza nell’educazione e nella formazione spirituale dell’uomo greco, soprattuto OMERO con l’Iliade e l’Odissea (esercitarono un influsso analogo a quello che esercitò la Bibbia). I poemi omerici contengono alcuni caratteri dello spirito greco, essenziali per la nascita della filosofia; nonostante siano ricchi d’immaginazione e di elementi fantastici, essi cadono raramente della descrizione del mostruoso e del deforme. L’immaginazione omerica si struttura secondo armonia, proporzione, limite e misura, cose che la filosofia elevò successivamente al rango di principi ontologici. La poesia omerica non si limita a narrare una serie di fatti, ma ne ricerca le cause e le ragioni, cercando di presentare la realtà nella sua interezza (totalità). Molto importante fu che ESIODO con la sua Teogonia, che narra la nascita di tutti gli dei. Molti dei coincidono con parti dell’universo e con i fenomeni del cosmo, quindi la teogonia diventa anche cosmologia, ovvero la spiegazione mitico-poetica della genesi dell’universo e dei fenomeni cosmici, a partire dal caos originario. Altra componente cui bisogna fare riferimento per capire la genesi della filosofia greca è la religione. Bisogna distinguere due forme, ovvero la religione pubblica e la religione dei misteri. Nella religione pubblica gli dei sono uomini amplificati e idealizzati, quindi differenti dall’uomo comune solo per quantità e non per qualità, ecco perché gli studiosi classificano la religione pubblica dei greci come una forma di naturalismo, in quanto essa chiede all’uomo di non mutare la propria natura ma di seguirla. ORFISMO - oltre la religione pubblica si svilupparono dei misteri, presso cerchie ristrette, aventi proprie credenze specifiche e proprie pratiche. Tra questi ricordiamo l’Orfismo, il cui nome deriva dal poeta trancio Orfeo. L’Orfismo introdusse nella civiltà greca un nuovo schema di credenze e una nuova interpretazione dell’esistenza umana. Mentre la tradizionale concezione greca, a partire da Omero, riteneva l’uomo mortale e poneva la fine della sua esistenza con la morte, l’Orfismo proclama invece l’immortalità dell’anima e concepisce l’uomo secondo lo schema dualistico che contrappone il corpo all’anima. Nell’uomo abita un principio divino, un demone (anima), caduto in un corpo per una colpa originaria. Questo demone non solo preesiste al corpo, ma non muore con esso, ed è destinato a reincarnarsi in corpi successivi per espiare la colpa originaria. La vita orfica con i suoi riti e le sue pratiche è la sola in grado di porre fine al ciclo delle reincarnazioni e di liberare l’anima dal corpo. Per chi si è purificato vi è un premio nell’aldilà, cosi come per i non iniziati vi sono delle punizioni. Con questo nuovo schema l’uomo vede contrapporsi, per la prima volta, i due principi anima 1 (demone) corpo (tomba o luogo di espiazione dell’anima). L’uomo comprese che alcune tendenze legate al corpo fossero da reprimere, e che la purificazione dell’elemento divino da quello corporeo fosse lo scopo del vivere. Nel VII e VI secolo a.C. la Grecia subì una trasformazione socio-economica considerevole, favorita dallo sviluppo dell’artigianato e del commercio. Le città divennero fiorenti centri commerciali e questo comportò una incremento demografico. Il nuovo ceto di commercianti/artigiani si oppose all’accentramento del potere politico, favorendo la nascita di nuove forme repubblicane, ed è da qui che la vita pubblica aprì il passo alla scienza. La filosofia nacque prima nelle colonie e non nella madrepatria (prima nelle colonie d’Oriente dell’Asia Minore, a Mileto, e dopo in quelle d’Occidente nell’Italia meridionale). Solo successivamente il fiorire della filosofia passo nella madrepatria, raggiungendo il culmine ad Atene. CARATTERI ESSENZIALI DELLA FILOSOFIA ANTICA Il termine filosofia deriva da “filo-sofia”, ovvero amore di sapienza (sofia). Quindi per filosofia s’intende una tendenza alla sofia, un continuo avvicinarsi al vero, un amore di sapere mai appagato del tutto. Fin dalle origini la filosofia presentò tre connotati: - CONTENUTO - la filosofia vuole spiegare la totalità delle cose, tutta quanta la realtà, senza esclusione di parti o di momenti. - METODO - la filosofia mira a essere spiegazione puramente razionale. Ciò che vale è l’argomento di ragione, la motivazione logica, il logos. Deve andare oltre il fatto, oltre le esperienze, per trovare le cause solo con la ragione. Mentre le scienze particolati sono ricerche razionali di realtà e di settori particolari, la filosofia è ricerca razionale di tutta quanta la realtà. - SCOPO - lo scopo sta nel puro desiderio di conoscere e contemplare la verità. La filosofia greca è disinteressato amore di verità. La meraviglia è la radice della filosofia. I PERIODI DELLA STORIA DELLA FILOSOFIA ANTICA La filosofia antica parte dal VI secolo a.C. e giunge fino al 529 d.C.. Possiamo distinguere un periodo naturalistico (tra il VI e il V secolo a.C.), caratterizzato dal problema della physis (della natura) e del cosmo, che vede il succedersi degli ionici, dei pitagorici, degli eleati, dei pluralisti e dei fisici eclettici. Poi abbiamo il periodo umanistico che coincide con la dissoluzione della filosofia naturalistica e che ha come protagonisti i sofisti e Socrate. Poi abbiamo il momento delle grandi sintesi di Platone e Aristotele (IV secolo a.C.). Segue il periodo caratterizzato dalle Scuole ellenistiche, che va dalla conquista di A.Magno alla fine dell’era pagana, ed è segnato dalla fioritura del Cinismo, dell’Epicureismo, dello Stoicismo, dello Scetticismo e il successivo diffondersi dell’Eclettismo. Infine vi è il periodo religioso, caratterizzato soprattuto dalla rinascita del platonismo (neoplatonismo); in questo periodo nasce e si sviluppa il pensiero cristiano. I NATURALISTI Nel VI secolo a.C. si sviluppò nella Ionia (regione lungo la costa della parte meridiana dell’Asia Minore) la SCUOLA IONICA, un centro di riflessione conoscitiva molto fiorente. L’interesse filosofico era particolarmente rivolto alla ricerca delle cause dei fenomeni naturali. Nel mondo greco molte spiegazioni dei fenomeni naturali venivano offerte grazie all’esistenza e alla presenza degli dei, che indicava l’esigenza da parte dell’uomo di trovare risposte ad eventi della natura umana. Inizia così il periodo dei PRESOCRATICI, che erano un gruppo di pensatori, anteriori a Socrate, che si occuparono del problema della natura e della realtà. Il fondatore della scuola ionica fu Talete di Mileto e tra i centri più importanti del VII e del VI secolo a.C. ricordiamo Mileto, Efeso, Colofone, Siamo e Chio. 2 fiume sopravviene già altra acqua, e noi stessi prima che si sia completata l’immersione, per quanto celere possa essere, siamo già altri. Eraclito assolutizza il divenire, ponendolo come realtà suprema senza cercare ulteriori spiegazioni della sua origine. Le cose nascono per effetto del continuo passare da un contrario all'altro (le cose fredde si riscaldano, quelle calde si raffreddano e cosi via); questa è la struttura dinamica della realtà, caratterizzata da una continua contrapposizione, da una guerra tra i contrari, che si avvicendono l'uno all’altro. Il FUOCO è raffigurato come il simbolo dell'incessante divenire e della perenne animazione di tutte le cose; esso è sempre stato e sarà fuoco vivo in eterno. Due sono le vie che spiegano in che modo dal fuoco primitivo abbaino origine le varie mutazioni, la via in giù e la via in sù. La prima parte dal fuoco che, condensandosi, diventa umido e che, quando viene compresso, si trasforma in acqua; l'acqua poi, congelandosi, si trasforma in terra. La seconda via invece procede in senso inverso, ovvero dal liquefarsi della terra nasce l'acqua e da questa, per evaporazione e condensazione, si giunge al fuoco. DOTTRINA DELL’ARMONIA DEI CONTRARI (unità degli opposti) - il divenire di tutte le cose è caratterizzato da un continuo passare da un contrario all’altro: le cose fredde si riscaldano, le calde si raffreddano, le umide si disseccano, le secche si inumidiscono, il giovane invecchia, il vivo muore, ma da ciò che è morto rinasce altra vita giovane, e così via. Quindi il divenire, secondo Eraclito, si configura come un’incessante passaggio da un opposto all’altro, come una perenne lotta tra contrari, una guerra perpetua che si rivela però essenziale. Ma la guerra è anche pace perché le cose opposte si conciliano e così dal contrasto nasce un’armonia. Lo scorrere perpetuo delle cose e il divenire universale di rivelano come armonia dei contrari, sintesi degli opposti, superiore unità che costituisce il principio che spiega tutta la realtà e dunque l’Essere Divino. La fiamma del fuoco esprime bene il cambiamento e il contrasto, infatti si muove continuamente, essa è viva e si consuma, si trasforma in fumo e in cenere. Egli identifica il fuoco con Dio a cui riconosce e attribuisce anche l’intelligenze (logos), il fuoco è espressione della legge razionale. Per quanto riguarda la verità e la conoscenza, Eraclito dice che bisogna stare in guardia nei confronti dei sensi, perché questi si fermano alle apparenze delle cose. Bisogna guardarsi dalle opinioni degli uomini, basate sulle apparenze. La Verità consiste nel cogliere, al di là dei sensi, quell’intelligenza che governa tutte le cose. Pur mantenendosi nell’ambito di un’orizzonte fisico, Eraclito, con l’idea della dimensione infinita dell’anima, apre uno spiraglio verso qualcosa di non fisico. Sembra che egli abbia accolto alcune idee degli orfici sulla natura umana, affermando che l’uomo è mortale-immortale, a seconda che si consideri il suo corpo o la sua anima. PITAGORA E I PITAGORICI La figura di Pitagora è avvolta dalla leggenda e poche sono le notizie certe che ci sono state tramandate. Nacque a Samo (colonia greca dell’Asia Minore) attorno al 571-570 a.C. e in Italia (a Crotone) fondò una scuola che ebbe una grande influenza non solo filosofica ma anche religiosa e politica. Morì nei primi anni del V secolo a.C.. Probabilmente Pitagora non scrisse nulla ma tramandò le sue dottrine attraverso l’insegnamento orale, ed è proprio per questo che non è possibile distinguere il pensiero di Pitagora da quello dei Pitagorici (i suoi discepoli che lo veneravano come fosse un nume), di conseguenza è opportuno parlare di dottrine dei Pitagorici o della Scuola pitagorica. La Scuola era nata come una sorta di confraternita o di ordine religioso, organizzata secondo precise regole di convivenza e di comportamento. Il fine era la realizzazione di un determinato tipo di vita, di cui la dottrina e la scienza costituivano un mezzo, un bene comune. Le dottrine erano considerate come un segreto di cui solo gli adepti dovevano venire a conoscenza e di cui era vietata la diffusione. Con i Pitagorici la ricerca filosofica passa dalle colonie ioniche di Oriente a quelle dell’Italia meridionale. 5 IL NUMERO - i Pitagorici invece che nell’acqua, nell’aria o nel fuoco, indicarono nel numero il principio di tute le cose. Essi furono i primi a notare che in tutte le cose esiste una regolarità matematica, quindi numerica. Fu determinante la scoperta che i suoni e la musica sono traducibili in rapporti numerici e rappresentabili per mezzo della matematica (la diversità dei suoni delle corde di uno strumento musicale dipende dalla diversità di lunghezza delle corde, determinabile quindi secondo un numero). Inoltre, le leggi numeriche determinano anche l’anno, le stagioni, i mesi, i giorni, e permettono di spiegare i fenomeni del cosmo e della natura. A noi moderni può risultare difficile comprendere il motivo per cui il numero potesse essere considerato il principio di tute le cose non essendo un elemento fisico ma astratto. In realtà i Pitagorici credevano che il numero fosse una cosa reale, la cosa più vera e realtà, tanto da diventare fondamento di tutte le altre cose. Secondo i Pitagorici i numeri si possono raggruppare in due gruppi: pari e dispari, tranne il numero uno che appartiene ad entrambi in quanto è capace di generare sia un numero pari (aggiungendo l’uno ad un numero dispari si ottiene un numero pari), sia un numero dispari (aggiungendo l’uno ad un numero dispari si ottiene un numero pari). L’opposizione tra pari e dispari si riflette in tutte le cose della realtà che sono un’emanazione o di un numero pari o dispari. Il numero pari è, per sua essenza, illimitato (meno perfetti), mentre il numero dispari è, per sua essenza, limitato (più perfetti). Questa identificazione di pari/illimitato e dispari/limitato si può spiegare ricorrendo al modo in cui i Pitagorici rappresentavano il numero come un insieme di punti disposti in senso geometrico; i numeri pari se divisi da una freccia non incontrano un punto di arresto ma procedono all’infinito, invece nei numeri dispari la freccia incontra un limite costituito dall’unità. Limite e illimitato sono i principi primi da cui hanno origine i numeri che quindi sono sintesi dell’uno con il limite (i numeri dispari) o dell’uno con l’illimitato (i numeri pari). Siccome dai numeri derivano tutte le cose, esse sono una sintesi di limite e illimitato. I Pitagorici considerano il numero dispari come maschile e il pari come femminile, ma anche i numeri pari come rettangolari e quelli dispari come quadrati. UNO - l’uno non è né dispari né pari, ma è un parimpari, infatti da essi procedono tutti i numeri, sia pari sia dispari; aggiunto a un pari genera un dispari e aggiunto a un dispari genera un pari. Lo zero rimase invece sconosciuto ai pitagorici e alla matematica antica. Il numero perfetto fu identificato con il 10, raffigurato come un triangolo perfetto, formato dai primi quattro numeri, avente il numero 4 per ogni lato (tetraktys) e contenente anche un numero eguale di multipli e sottomultipli. Nascono così le basi del sistema decimale (tavola pitagorica). COSMO - i numeri erano concepiti come punti, ossia come masse, ed erano di conseguenza concepiti come soliti, e quindi il passaggio dal numero alle cose fisiche era ovvio. L’illimitato è il vuoto circondante il tutto e il mondo nasce mediante una sorta d’ispirazione di questo vuoto da parte dell’Uno. Quindi, il vuoto che entra con l’ispirazione e la determinazione che l’Uno produce ispirando dà origine alle varie cose e ai vari numeri. Se il numero è ordine (accordo di elementi illimitati e limitanti) e se tutto è determinato dal numero, tutto è ordine; e poiché in greco “ordine” si dice kosmos, i pitagorici chiamarono l’universo “cosmo” (ovvero ordine). É dei pitagorici l’idea che i cieli, ruotando secondo numero e armonia, producano una celeste musica di sfere (bellissimi concerti) che le nostre orecchie non percepiscono o non sanno più distinguere. Con i pitagorici il mondo ha cessato di essere dominato da oscure e indecifrabili potenze ed è diventato numero; il numero esprime ordine, razionalità e verità. Senza il numero non sarebbe possibile né pensare né conoscere nulla. Con i pitagorici l’uomo ha imparato a vedere il mondo con altri occhi, ovvero come l’ordine perfettamente penetrabile dalla ragione. ANIMA - Pitagora è stato il primo filosofo ad insegnare la dottrina della metempsicosi, secondo cui l’anima è costretta a vivere più esistenze reincarnandosi in corpi di uomini o di animali per spiare la colpa originaria. Ciò significa che i pitagorici consideravano 6 l’anima immortale, preesistente al corpo ed eterna. L’anima è divina rispetto al corpo che invece è corruttibile e mortale. Conseguenza di questa dottrina è la concezione dell’esistenza che i pitagorici professavano e che praticavano all’interno della loro scuola, in cui conducevano uno stile di vita volto a purificare l’anima e a liberarla dai bisogni del corpo attraverso la conoscenza e il culto della scienza. Gli adepti della scuola pitagorica erano tenuti a seguire dei precetti chiamati simboli. I pitagorici furono gli iniziatori di quel tipo di vita che fu chiamato biòs theoritikòs, vita contemplativa/pitagorica, cioè una vita spesa nella ricerca della verità e del bene tramite la conoscenza, che è la più alta purificazione (comunione con il divino). SENOFANE DI COLOFONE Senofane nacque a Colofone intorno al 570 a.C.. Egli critica la concezione degli dei che era stata fissata da Omero ed Esiodo, proprio della religione pubblica e dell’uomo greco. Egli ritiene sbagliato attribuire agli dei forme esteriori, caratteristiche psicologiche e passioni uguali a quelle degli uomini; quindi va contro l’antropomorfismo. Viene contestata la credibilità non solo degli dei tradizionali, ma anche dei loro conclamati cantori. I grandi poeti sono dichiarati banditori di menzogne. Senofane dopo aver nevato con argomenti del tutto adeguati che Dio possa essere concepito con forme umane, afferma che Dio è il cosmo. Estendendo la sua considerazione all’universo, Senofane afferma che l’Uno è Dio, sommo tra gli dei e gli uomini. TERRA E ACQUA - Senofane pose come principio la Terra, dichiarando che dalla terra tutto deriva e in essa tutto finisce. Terra e acqua sono tutte le cose che vengono generate e che crescono. Egli si preoccupò anche di mostrare le sue teorie con osservazioni rigorosamente scientifiche, additando la presenza di fossili marini sulle montagne, segno che lì ci fu acqua altre che terra. Senofane affermava, contestando le idee correnti, la superiorità dei valori dell’intelligenza e della sapienza sui valori vitali della robustezza e della forza fisica degli atleti, venerati in Grecia. Egli riteneva che non fosse il vigore o la forza fisica a rendere migliori gli uomini e le città, ma piuttosto la forza della mente. PARMENIDE Parmenide nacque a Elea (oggi Velia) nella seconda metà del VI secolo a.C. e morì verso la metà del V secolo a.C.. A Elea egli fondò la Scuola eleatica. Dalla tradizione sappiamo che fu un politico attivo. Del suo poema Sulla natura ci sono giunti integralmente il prologo, quasi tutta la prima parte e frammenti della seconda. LA SCUOLA DI ELEA - Parmenide si presenta come un radicale innovatore, un pensatore rivoluzionario. Con lui la cosmologia riceve un profondo e benefico scuotimento dal punto di vista concettuale, trasformandosi in ontologia (teoria dell’essere). Egli affida il racconto del suo pensiero a una DEA RIVELATRICE di tutta la verità, che gli indica tre possibili vie della ricerca: - quella dell’assoluta verità - quella delle opinioni fallaci (doxa fallace), ovvero della falsità e dell’errore - quella dell’opinione plausibile (doxa plausibile) 1.Il grande principio esposto da Parmenide è: l’essere è e non può non essere, il non essere non è e non può in alcun modo essere. Essere e non essere hanno un unico significato, ovvero l’essere è il puro positivo e il non essere è il puro negativo, l’uno è l’assoluto contraddittorio dell’altro. Egli ritiene che non si può pensare, o dire, se non pensando, o dicendo, ciò che è. Pensare il nulla significa non pensare affatto, dire il nulla significa non dire nulla; quindi il nulla è impensabile e indicibile. Pensare ed essere coincidono. Esso è considerato il principio di non contraddizione, che afferma l’impossibilità che i contraddittori coesistano a un tempo. I due supremi contraddittori sono dunque l’essere e il non essere; se c’è l’essere è necessario che non ci sia l’essere. Da questo principio ben si comprendono gli attributi strutturali dell’essere. Esso è in primo luogo ingenerato e incorruttibile. Inoltre, l’essere non ha un passato, perché il 7 però non sono solo infiniti di numero presi nel loro complesso (infinite qualità), ma sono anche infiniti presi ciascuno singolarmente, quindi infiniti anche in quantità (sono inesauribili), potendosi dividere all’infinito, senza che la divisione arrivi a un limite (al nulla). Quindi è possibile dividere all’infinito qualsiasi seme (sostanza/qualità) in parti sempre più piccole, che avranno tutte la stessa qualità. Proprio per questa divisibilità i semi sono chiamati omeomerie, ovvero parti similari, parti qualitativamente eguali, che in origine costituivano una massa in cui tutto era mescolato insieme, in modo che nessuna si distingueva. Successivamente una divina Intelligenza determinò un movimento che dalla caotica mescolanza originaria ne produsse una ordinata, da cui scaturirono tutte le cose, che di conseguenza sono mescolanze ben ordinate, in cui troviamo i semi di tutte le cose variamente proporzionati. La prevalenza di uno dei semi determina la differenza delle cose; quindi tutto è in tutto. Nulla viene dal nulla e nulla va nel nulla, ma tutto è nell’essere da sempre e per sempre, anche la qualità apparentemente più insignificante (il pelo, il capello). L’Intelligenza è infinita, indipendente e non mescolata ad alcuna cosa, essa è sola, lei in se stessa. Platone e Aristotele, pur apprezzando il lavoro di Anassagora, lamentarono il fatto che egli non abbia utilizzato l’Intelligenza in modo sistematico, preferendo a volte spiegare i fenomeni con i modelli usati dai precedenti filosofi. ATOMISMO LEUCIPPO E DEMOCRITO L’ultimo tentativo di rispondere ai problemi sollevati dall’Eleatismo, restando nell’ambito della filosofia della physis, è stato compiuto da Leucippo e da Democrito con la scoperta del concetto di atomo. Anche gli atomisti affermano l’impossibilità del non essere e ritengono che il nascere non è che un aggregarsi di cose che sono, mentre il morire un disgregarsi (un separarsi delle medesime). Nuova però è la concezione di queste realtà originarie, trattandosi di un infinito numero di corpi, invisibili per piccolezza e volume. Questi corpi indivisibili sono detti atomi (in greco significa non-divisibile), essi sono anche ingeneratili, indistruttibili, immutabili, qualitativamente indifferenziati; sono tutti quanti un essere-pieno allo stesso modo, differenti tra loro solo nella forma o figura geometrica. Gli atomi sono la frantumazione dell’Essere-Uno eleatico in infiniti esseri-uni, che aspirano a mantenere il maggior numero possibile di caratteri dell’Essere-Uno eleatico. Esso indica un’originaria forma, indivisibile, e si differenzia dagli altri atomi, oltre che per figura, anche per ordine e posizione (tutte cose che possono variare all’infinito). L’atomo non è percepibile con i sensi, ma solo con l’intelligenza (è la forma visibile dell’intelletto). Per essere pensato come pieno (di essere) esso suppone necessariamente il vuoto (di essere, e quindi il non essere). Il vuoto, quindi, è necessario così come il pieno, senza vuoto gli atomi non potrebbero differenziarsi e nemmeno muoversi. Atomi, vuoto e movimento sono la spiegazione di tutto. La verità è data dagli atomi, che si diversificano fra di loro solamente per figura, ordine e posizione, oltre che dal vuoto; i vari fenomeni e le loro differenze derivano dal diverso modo in cui gli atomi si aggregano e dall’ulteriore incontro delle cose da essi prodotte con i nostri sensi. Bisognerebbe distinguere nell’Atomismo originario 3 forme di movimento: 1) movimento caotico, come il pulviscolo atmosferico che si vede nei raggi del sole. 2) movimento vorticoso, che porta gli atomi simili ad aggregarsi tra loro e quelli diversi a disporsi in modo diverso e a generare il mondo. 3) movimento degli atomi che si sprigionano da tutte le cose e che formano gli effluvi. Poiché gli atomi sono infiniti, è evidente che infiniti sono i mondi che da essi derivano, diversi l’uno dall’altro (ma a volte anche indettici). Tutti i mondi nascono, si sviluppano e poi si corrompono, per dare origine ad altri mondi, ciclicamente e senza termine. Gli atomisti sono considerati coloro che pongono il mondo a caso. 10 L’ordine (il cosmo) è effetto di un incontro meccanico degli atomi, non progettato e non prodotto da un’intelligenza. La stessa intelligenza segue e non precede il composto atomico. La conoscenza deriva dagli effluvi di atomi che si sprigionano da tutte le cose e che vengono a contatto con i sensi. Gli atomi simili furti di noi impressionano quelli simili in noi, così il simile conosce il simile (come già aveva detto Empedocle). Democrito però insiste sulla differenza tra conoscenza sensoriale e conoscenza intelligibile: la prima ci dà solo l’opinione, la seconda la verità. LA SOFISTICA Sofista significa sapiente, esperto del sapere. Il termine ha acquisito un’accezione negativa soprattuto per la presa di posizione polemica di Platone e di Aristotele, che sostenevano che il sapere dei sofisti era apparente e non effettivo, professato non ai fini di una disinteressata ricerca della verità, ma a scopo di lucro (inconsistenza teoretica). Il movimento sofistico fu in genere svalutato e considerato prevalentemente come un momento di grave decadenza del pensiero greco; solo nel secolo scorso è stata possibile una loro rivalutazione storica. I sofisti hanno operato una vera e propria rivoluzione spirituale, considerando l’uomo come membro di una società e incentrando i loro interessi su etica, politica, retorica, arte, lingua, religione, educazione, ovvero sulla cultura dell’uomo. Con i sofisti inizia il pensiero umanistico della filosofia antica. Tutto ciò fu reso possibile sia grazie al fatto che la filosofia della physis via via esaurì le sue possibilità, sia grazie ai fermenti sociali, economici e politici che ebbero luogo nel V secolo a.C.. MUTAMENTI SOCIO/POLITICI - primo tra tutti va ricordata la crisi dell’aristocrazia, che va di pari passo con il potere crescente del demos (popolo). L’afflusso di forestieri nelle città e l’ampliarsi del commercio contribuirono al diffondersi delle esperienze e delle conoscenze di viaggiatori che portavano all’inevitabile confronto di usi, costumi e leggi totalmente differenti da quelli ellenici. Il crescente affermarsi del potere del demos e la crescente possibilità di un salto sociale fecero crollare la convinzione che l’areté fosse legata alla nascita (che virtuosi si nascesse e non si diventasse) e pose in primo piano il problema di come si conquistasse la virtù politica. I sofisti seppero cogliere le istanze dell’età travagliata in cui vissero e furono in grado di esplicitarle, dando loro forma e voce, girando in varie città-stato. Per essi era fondamentale la ricerca di allievi, infatti il problema educativo e l’impegno pedagogico emersero in primo piano e assunsero un nuovo significato. I sofisti ritenevano che la virtù non dipendesse dalla nobiltà del sangue e dalla nascita ma sul sapere, quindi che l’educazione fosse basata sulla diffusione del sapere. Sappiamo che i sofisti esigevano compensi per i loro insegnamenti. Essi fecero del sapere un mestiere e così facendo ruppero lo schema sociale che limitava la cultura a determinati ceti, offendo la possibilità anche ad altri di acquisirla. I sofisti furono criticati per l’essere girovaghi e di non rispettare l’attaccamento alla propria città (un dogma etico per i greci). Essi compresero che i limiti della polis non avevano più ragione d’essere e si fecero portatori d’istanze panelleniche, più che cittadini di una semplice città si sentirono cittadini dell’Ellade. Possiamo distinguere 4 gruppi di sofisti: - i maestri della prima generazione (Protagora, Gorgia, Prodico), che non erano affatto privi di morale. - gli eristi, che portarono all’esasperazione l’aspetto formale del metodo, persero interesse per i contenuti e il ritegno morale che caratterizzava i loro maestri. Essi escogitarono tutta un’apparecchiatura di ragionamenti ingannevoli che vennero detti sofismi. - i sofisti politici, che caddero in eccessi di vario genere. Essi applicarono l’arte dialettica alla prassi politica e la piegarono alla conquista del potere, ponendosi in modo provocatorio contro la morale e la fede tradizionale. 11 - la scuola naturalistica, che contrapponeva la legge positiva a quella naturale, privilegiando quest’ultima e relativizzando la prima. PROTAGORA - Il più famoso dei sofisti fu Protagora, nato ad Abdera nel decennio fra il 491 e il 481 a.C. e morto verso la fine del secolo. “L’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono per ciò che sono e di quelle che non sono per ciò che non sono” (principio dell’homo mensura). La misura di cui parla Protagora è la norma di giudizio e le cose sono tutti i fatti e le esperienze in generale. Con questo principio Protagora intendeva negare l’esistenza di un criterio assoluto in grado di discriminare essere e non essere, vero e falso. Criterio è solamente l’uomo, il singolo uomo; per egli nessuno è nel falso, ma tutti nel loro vero. Nella sua opera principale, le Antologie, si dimostrava che intorno a ogni cosa ci sono due ragionamenti che si contrappongono, fra di loro, quindi è possibile dire e contraddire, addurre ragioni che reciprocamente si annullano. Si tratta di insegnare a criticare e a discutere. Egli insegnava a rendere più forte l’argomento più debole; insegnava i modi con cui tecnicamente e metodologicamente era possibile sorreggere e portare a vittoria l’argomento (qualunque fosse il contenuto in oggetto) che nella discussione, in date circostanze, poteva risultare più debole. La virtù che Protagora insegnava era l’abilità nel saper far prevalere qualsiasi punto di vista su quello opposto. Per Protagora tutto è relativo: non esiste un vero assoluto e non esistono nemmeno valori morali assoluti (beni assoluti). Esiste qualcosa che è più utile, più convincente, più opportuno. Sembrerebbe che per Protagora, il bene e il male siano rispettivamente l’utile e il dannoso; e che il migliore e il peggiore siano il più utile e il più dannoso. GORGIA - Gorgia nacque a Lentini intorno al 485/480 a.C. Egli scrisse il trattato Sulla natura o sul non essere che è una sorta di manifesto del nichilismo occidentale e si impernia sulle seguenti tre tesi: - Non esiste l ’ essere, ossia nulla esiste . I filosofi che hanno parlato dell’essere lo hanno determinato in modo tale da pervenire a conclusioni che si annullano a vicenda, sicché l’essere non potrà essere né uno, né molteplici, né ingenerato, né generato e dunque sarà nulla. - Posto anche che l ’ essere esista, esso non potrebbe essere conoscibile . Per provare questo asserto, Gorgia cercava di inficiare il principio parmenideo secondo il quale il legame fra essere e pensare è strutturalmente inscindibile: il pensiero è sempre e solo pensiero dell’essere e il non essere è impensabile. Gorgia rovescia ambedue questi capisaldi dimostrando che ci sono dei pensati (ad esempio cocchi che corrono sul mare) che non esistono e che ci sono non-esistenti (Scilla, la Chimera) che sono pensati. Fra essere e pensiero c’è divorzio e rottura. - Posto anche che sia pensabile, l ’ essere rimarrebbe inesprimibile. Infatti, la parola non può comunicare in maniera veritativa qualcosa che sia altro da sé: la parola esprime nient’altro che la parola. “Come neppure la vista non conosce suoni, così neppure l’udito ode i colori, ma i suoni; e certo dice, chi dice, ma non dice né un colore né una esperienza”. Così il divorzio fra essere e pensiero diventa anche divorzio fra parola, pensiero ed essere. Distrutta la possibilità di raggiungere una verità assoluta (l’alétheia), a Gorgia non parrebbe rimanere che rimanere la via dell’opinione (doxa). Invece viene negata anche questa, perché è considerata la più infida delle cose. Egli cerca di battere una terza via, quella della ragione che si limita a illuminare i fatti, circostanze, situazioni della vita degli uomini e delle città. Gorgia è allora uno dei primi rappresentanti di un’ etica della situazione. I doveri variano secondo il momento, l’età, la caratteristica sociale; una stessa azione può essere buona o cattiva a seconda di chi ne è soggetto. Nuova e originale è la posizione di Gorgia nei confronti della retorica. Se non esiste una verità assoluta e tutto è falso, la parola viene ad acquisire una sua autonomia, 12 tutti gli altri esseri (come ad esempio la struttura fisica perfetta, il possesso dell’anima e dell’intelligenza), che l’artefice divino si è preso cura dell’uomo in maniera del tutto particolare. Il mondo e l’uomo sono costituiti in modo tale che solo una causa adeguata (ordinata, finalizzante e intelligente) ne può dare ragione. Il Dio di Socrate è intelligenza che conosce ogni cosa senza eccezione, è attività ordinatrice, Provvidenza che si occupa del mondo e degli uomini in generale (non il singolo uomo in quanto tale). DAIMÒNION SOCRATICO - Fra i capi d’accusa contro Socrate c’era anche l’aver introdotto nuovi daimònia, nuove entità divine. Il daimònion socratico era una voce divina che gli vietava determinate cose, che veniva interpretata come una sorta di privilegio che lo aveva salvato più volte dai pericoli o da esperienze negative. Esso non ha nulla a che vedere con l’ambito delle verità filosofiche. La voce divina interiore né rivela affatto a Socrate la sapienza umana di cui egli è portatore, né alcuna delle proposizioni generali o particolari della sua etica. Per Socrate i principi filosofici traggono la loro validità dal logos e non da divina rivelazione. Il daimònion non ordina, ma vieta; si tratta di un fatto che riguarda l’individuo Socrate e gli eventi particolari della sua esistenza, un segno che lo distoglieva dal fare cose da cui avrebbe tratto danno (ad esempio la partecipazione attiva alla vita politica). METODO DIALETTICO - Socrate non scrisse nulla, affidando esclusivamente all’insegnamento orale la trasmissione delle sue dottrine. Il metodo scelto da Socrate per comunicare i suoi insegnamenti è quello dialogico, con cui egli identifica il suo fare filosofia. Il metodo e la dialettica di Socrate risultano legati alla sua scoperta dell’essenza dell’uomo come psychè, perché tendono in maniera perfettamente consapevole a spogliare l’anima dall’illusione del sapere e in questo modo a curarla, al fine di renderla idonea ad accogliere la verità. Le finalità del metodo socratico sono fondamentalmente di natura etica ed educativa (solo secondariamente di natura logica e gnoseologica). Il dialogare con Socrate portava a un esame dell’anima, a un rendere conto della propria vita, un esame morale. Far tacere Socrate con la morte per molti significava liberarsi dal dover mettere a nudo la propria anima. La dialettica di Socrate coincide con lo stesso dileggiare (dia-logos) di Socrate che è formato da due momenti essenziali: la confutazione e la maieutica. Nel far questo egli si avvaleva della maschera del non sapere e della temuta ironia. SO DI NON SAPERE - i sofisti più famosi si ponevano in maniera superba nei confronti dell’uditore (atteggiamento di chi sa tutto), al contrario Socrate, che sapeva di non sapere, considerava l’interlocutore come qualcuno da cui imparare. Il non sapere socratico voleva essere un’affermazione di rottura nei confronti del sapere dei naturalisti, dei sofisti, dei politici e dei cultori delle varie arti. Il significato dell’affermazione del non sapere socratico si calibra esattamente se lo si mette in relazione con il sapere di Dio, oltre che con quello degli uomini. Per Socrate Dio è onnisciente, dal momento che la sua conoscenza si estende dall’universo l’uomo senza restrizione di sorta. Proprio paragonandolo alla struttura del sapere divino, il sapere umano si mostra in tutta la sua fragilità e pochezza, così anche la stessa sapienza umana risulta un non sapere. Quindi, il sapiente per Socrate è colui che sa di non sapere, ovvero colui che sa che la conoscenza umana non si fonda sul possesso della verità; l’unico veramente sapiente è Dio in quanto possiede la verità, l’uomo può soltanto impegnarsi nella ricerca della verità senza però pretendere di arrivare a possederla pienamente. IRONIA SOCRATICA - il sapere socratico è strettamente collegato all’ironia. In generale, ironia significa dissimulazione, mentre in questo caso indica il gioco scherzoso e vario delle finzioni e degli stratagemmi messi in atto da Socrate per costringere l’interlocutore a dar conto di se stesso. Quindi, lo scherzo è metodico e sempre in funzione di uno scopo. A volte Socrate fingeva addirittura di accogliere come propri i metodi dell’interlocutore (specialmente se era un uomo di cultura) e giocava a ingrandirli fine al limite della caricatura, per rovesciarli con la stessa logica che era loro propria fino a inchiodarli nella contraddizione. Sotto le varie maschere che Socrate 15 assumeva però erano sempre visibili i tratti della maschera essenziale, quella del non sapere e dell’ignoranza (il suo obiettivo era smascherare il presunto sapere). CONFUTAZIONE E MAIEUTICA - La confutazione (èlenchos) costituiva il primo momento del dialogo socratico, il momento in cui Socrate portava l’interlocutore a riconoscere la propria ignoranza. Egli costringeva a definire l’argomento intorno a cui verteva l’indagine, poi scavava in vario modo nella definizione fornita (esplicitava e sottolineava le contraddizioni) e poi esortava a tentare una nuova definizione, che con il medesimo procedimento criticava e confutava; così procedeva fino al momento in cui l’interlocutore si riconosceva ignorante. Sui saccenti e sui mediocri la discussione provocava irritazione, mentre nei migliori provocava un effetto di purificazione dall’ignoranza. Il secondo momento del dialogo è invece costituito dalla maieutica, ovvero l’arte di far partorire le anime di coloro che, purificata l’anima dalle opinioni e dalle certezze apparenti, sono pronti a tirar fuori la verità dalla propria anima. Per Socrate, l’anima può raggiungete la verità solo se ne è gravida. Come la donna, che è gravida nel corpo, ha bisogno dell’ostetrica per partorire, così il discepolo che ha l’anima gravida della verità ha bisogno di una sorta di spirituale arte ostetrica, che aiuti questa verità a venire alla luce (maieutica socratica), tramite un processo di auto- educazione che il discepolo compie su di sé in modo autonomo grazie all’aiuto del maestro. LOGICA - Socrate contribuì e mise in moto il processo che portò alla scoperta della logica, ma non giunse a definizioni logiche (mise solo in moto in moto il processo ironico-maieutico); egli non stabilì la struttura del concetto e della definizione. Socrate fu dotato di grande ingegno logico ma non si spinse mai a formulare consapevolmente, o a elaborare in maniera tecnica, le scoperte logiche. MORTE DI SOCRATE - Socrate morì nel 399 a.C. in seguito a una condanna per empietà, ovvero fu accusatori non credere negli dei della città e di corrompere i giovani con i suoi discorsi. Socrate fu processato e condannato a morte, anche perché dietro l’apparente accusa si celavano antiche ostilità da parte dei democratici. Egli accettò la condanna e scelse la morte per rimanere fedele alle leggi della sua città, egli infatti avrebbe potuto scagionarsi dalle false accuse, o comunque sarebbe potuto fuggire dalla prigionia grazie all’aiuto di amici influenti. La condanna e la morte di Socrate ci sono giunte grazie a Platone, sia nella sua opera Apologia di Socrate, in cui viene riportato il discorso che il filosofo face in sua difesa davanti ai giudici, sia nei dialoghi Critone e Fedone, che riportano le ultime ore del filosofo trascorse in prigione, in attesa della morte e in compagnia dei suoi discepoli (come raffigura l’opera di Louis David “La morte di Socrate” del 1787). Dopo la sua morte bevendo la cicuta, i suoi allievi cominciarono a dimostrare una certa sfiducia nella società. Possiamo distinguere i cinici (disprezzo per le cose terrene, non vogliono più farsi toccare dai problemi della quotidianità) e i cirenaici (estrema ricerca del bene, edonismo). PLATONE Platone nacque ad Atene nel 428/427 a.C. da una famiglia aristocratica. Il suo vero nome era Aristocle, mentre Platone è un soprannome derivatogli o dal vigore fisico, o dall’ampiezza del suo stile, o dalla vastità della sua fronte. Fin da giovane la nascita, l’intelligenza e le attitudini personali lo spinsero verso la vita politica. Intorno ai vent’anni fu discepolo di Socrate e la sua morte segnò profondamente la vita di Platone. Viaggiò molto fino ad arrivare in Italia meridionale dove venne a contatto con le scuole pitagoriche. A Siracusa cercò di persuadere il tiranno Dionigi il Vecchio di attuare delle riforme politiche, ma questi lo fece vendere come schiavo. Di ritorno ad Atene, Platone fondò l’Accademia, una scuola dal modello pitagorico che si costituì come associazione religiosa. Si recò altre due volte a Siracusa chiamato alla corte di Dionigi il Giovane, che nel frattempo succedette al padre, per consigliare il tiranno sulle riforme da attuare, ma fallì di nuovo entrambe le volte. Tornò ad Atene dove rimase fino alla morte avvenuta nel 347 a.C.. 16 ORALITÀ E SCRITTURA - Platone è stato il primo filosofo antico di cui ci sono pervenute tutte le opere. Egli scrisse un’Apologia di Socrate, 34 dialoghi e 13 lettere. Diversamente da quanto aveva fatto Socrate (che non scrisse nulla per riservare la trasmissione orale delle sue dottrine), Platone scrisse molto, ma sotto forma di dialogo, una forma espositiva che più si avvicinava al discorso parlato. La scrittura non ha una funzione conoscitiva ma è utile per aiutare la memoria di coloro che già sanno. Nella maggior parte dei suoi dialoghi, Platone scelse Socrate come protagonista, anche se non si tratta del Socrate storico, ma piuttosto il pensiero socratico che emerge è in realtà il risultato dell’interpretazione platonica di Socrate (Socrate costituisce la principale maschera di Platone). Altrettanto importante è il ruolo del lettore, poiché proprio ad esso spesso è lasciato il compito di trarre maieuticamente la soluzione di molti dei problemi. MITO - Abbiamo visto che la filosofia è nata come affrancamento del logos dal mito e dalla fantasia. Platone rivalutò l’espediente mitologico, che successivamente utilizzò in modo costante e al quale attribuì una grande importanza. Platone rivaluta il mito allorché comincia a rivalutare alcune tesi di fondo dell’Orfismo e della sua tendenza mistica e la componente religiosa. In lui il mito è espressione di fede e di credenza più che di fantasia. In effetti, dal Gorgia in poi, la filosofia di Platone diventa una forma di fede ragionata: il mito cerca una chiarificazione nel logos, e il logos cerca un completamento nel mito. Platone, affida alla forza del mito il compito, quando la ragione sia giunta ai limiti estremi delle sue possibilità, di superare intuitivamente questi limiti, elevando lo spirito a una visione, o almeno a una tensione, che si può dire metarazionale. Si tratta di un mito che non solo, come abbiamo detto, è espressione di fede più che di stupore fantastico, ma è altresì un mito che non subordina a sé il logos, ma fa da stimolo al logos e lo feconda nel senso che abbiamo spiegato, e perciò è un mito che, mentre viene creato, viene insieme anche demitizzato, e viene dal logos stesso spogliato dei suoi elementi fantastici, per fargli mantenere solo i poteri allusivi e intuitivi. SECONDA NAVIGAZIONE - Platone scoprì l’esistenza di una realtà soprasensibile, ossia di una dimensione soprafisica dell’essere (di un genere di essere non fisico), della quale la precedente filosofia della physis non aveva avuto alcun sentore. Tutti i naturalisti avevano cercato di spiegare i fenomeni ricorrendo a cause di carattere fisico e meccanico (acqua, aria, terra, fuoco, caldo, freddo ecc.). Platone intraprese la seconda navigazione. Nell’antico linguaggio marinaresco, seconda navigazione era detta quella che si intraprendeva quando, caduto il vento e non funzionando più le vele, si poneva mano ai remi. Nell’immagine platonica, la prima navigazione simboleggia il percorso della filosofia fatto seguendo il vento della filosofia naturalistica; la seconda rappresenta invece l’apporto personale di Platone, la navigazione fatta con le proprie forze e quindi pi ù faticosa . La prima navigazione si era rivelata sostanzialmente fuori rotta, perché i filosofi presocratici non erano riusciti a spiegare il sensibile con il sensibile; la seconda navigazione trova invece la nuova rotta che porta alla scoperta del soprasensibile, dell’essere intellegibile. La filosofia di Platone è divisibile in 3 grandi punti focali: la teoria delle Idee, la teoria dei Principi primi, la dottrina del Demiurgo (dell’Intelligenza divina). 1.MONDO DELLE IDEE (IPERURANIO) - le cause di natura non fisica sono realtà intellegibili e sono state denominate da Platone con i termini idèa ed èidos e indicano la forma. Esse sono entità, sostanze e non delle semplici rappresentazioni mentali, non rappresentano semplici pensieri. Le idee sono le essenze delle cose, la forma generale di tutte le cose. Platone usò anche il termine di paradigmi, per indicare che le idee costituiscono il modello di ciascuna cosa (come devono essere). I caratteri basilari delle idee sono: l’intelligibilità (l’idea è per eccellenza oggetto dell’intelletto e coglibile solo da esso), l’incorporeità (appartengono a una dimensione diversa da quella sensibile), l’immutabilità (sono sottratte a qualsiasi forma di cambiamento, oltre al nascere e al morire), la perseità (le idee sono in sé e per sé, ovvero oggettive), l’unità (sono ciascuna un’unità). Platone parla di Iperuranio (luogo 17 intuitivo, colgono le Idee pure e risalgono da Idea a Idea, fino ad arrivare a cogliere l’Idea Suprema (Incondizionato). Questo processo è chiamato dialettica e secondo Platone solo tramite essa si giunge alla verità. Esiste sia una dialettica ascendeva, che è quella che libera dai sensi e dal sensibile, che via via abbraccia la molteplicità nell’unità; sia una dialettica discensiva che compie il cammino opposto, distinguendo via via Idee particolari contenute nelle generali e giungendo alle Idee che non includono in sé altre Idee. Per Platone la dialettica porta a capire come i molti siano l’uno e l’uno sia i molti; si tratta della scienza che permette sia di ridurre la molteplicità in unità, sia di far derivare dall’unità la molteplicità. La dialettica è il coglimento, fondato sull’intuizione intellettuale, del mondo ideale, della sua struttura, del posto che ciascuna Idea occupa. Essa porta alla comprensione. ARTE - Platone si occupa dell’arte perché nel mondo greco era un aspetto fondamentale; essa era uno strumento che la civiltà commerciale ateniese aveva conquistato come identificazione di un raggiungimento di livello di capacità di rappresentare all’esterno il proprio modo di vedere le cose. Platone però condanna qualsiasi forma d’arte in quanto imitazione della natura (mentre la natura è imitazione del mondo delle idee, quindi lìarte è imitazione dell’imitazione); egli dice che l’arte non disvela il vero ma piuttosto lo vela, poiché non è una forma di conoscenza; essa è menzognera poiché non migliora l’uomo ma lo corrompe, non educa ma diseduca perché si rivolge alle facoltà razionali dell’anima, che sono le parti inferiori di noi. Platone considera la poesia inferiore alla filosofia per svariate ragioni: il poeta è tale per razionale intuito e non per scienza e per conoscenza, esso quando compone è invasato e inconsapevole (non sa spiegare cosa fa e non sa insegnarlo ad altri). Secondo Platone il poeta è tale per sorte divina e non per virtù di conoscenza. Nel X libro della Repubblica Platone dice che l’arte (in tutte le sue espressioni), da punto di vista ontologico, è mimesi, ovvero imitazione di eventi sensibili. L’arte è una copia che riproduce una copia, per questo rimane lontana dalla verità; essa imita l’apparenza esteriore e cosi i poeti parlano senza sapere e senza conoscere, quindi il loro parlare è un gioco. Secondo Platone l’arte è una corruttrice che si rivolge alla parte meno nobile della nostra anima, per questo deve essere bandita o eliminata dallo Stato perfetto, a meno che non si sottometta alle leggi del bene e del vero. Il poeta, se vuole salvarsi, deve assoggettarsi alla filosofia, che è la sola capace di raggiungere il vero. RETORICA - Secondo Platone la retorica (l’arte dei politici ateniesi) è adulazione e contraffazione del vero. Come l’arte pretende di ritrarre e imitare tutte le cose senza averne piena conoscenza, così la retorica pretende di persuadere e di convincere gli altri senza avere alcuna conoscenza. La retorica crea credenze illusorie e il retore è colui che, pur non sapendo, ha l’abilità di essere persuasivo più di chi veramente sa, giocando sui sentimenti e sulle passioni. La retorica, come l’arte, si rivolge alla parte peggiore dell’anima, alla parte instabile; quindi, il retore è lontano dal vero quanto l’artista. Come alla poesia va sostituita la filosofia, così alla retorica va sostituita la vera politica, che coincide con la filosofia. Solo conoscendo la natura delle cose, tramite la dialettica e la natura dell’anima umana, alla quale sono diretti i discorsi, sarà possibile costruire una vera arte retorica, quindi di persuadere con i discorsi. AMORE - L’amore o eros viene inteso come forza mediatrice tra il sensibile e il soprasensibile, come una forza che eleva, attraverso i vari gradi della bellezza, alla metaempirica Bellezza in sé. Poiché per i greci il Bello coincide con il Bene (è un suo aspetto), così Eros è forza che eleva al Bene. Nel Simposio Platone dice che Amore, contrariamente a quanto si possa pensare, è sete di bellezza, di bontà, di felicità e di sapienza. Amore non è né Dio né un uomo, quindi non è mortale ma neppure immortale, si tratta di un essere demoniaco (intermedio tra uomo e Dio), generato da Penia (povertà) e Poros (risorsa). Amore, data la sua natura di essere che desideri ciò che gli manca, è filosofo nel senso vero del termine, perché non possiede la sapienza (posseduta solo da Dio) ma aspira ad essa in una ricerca continua come fa l’amante con l’amata. 20 Per Platone l’amore è desiderio del bello, del bene e della sapienza, che sono poi i diversi gradi attraverso i quali Amore trascende il mondo sensibile (il finito) per raggiungere l’Assoluto (il mondo intellegibile). CONCEZIONE DELL’UOMO - Platone ha una concezione dualistica dell’uomo. Egli intende il corpo non tanto come il ricettacolo dell’anima, ovvero come uno strumento al servizio dell’anima come Socrate), ma piuttosto come tomba o carcere dell’anima, come luogo di espiazione dell’anima. L’anima, finché è in un corpo, è intrappolata come in una tomba, fino a quando con il morire del corpo viene liberata. Il corpo è radice di ogni male, è fonte di insani amori, di passioni, di discordie e di ignoranza (ed è proprio questo che imprigiona l’anima). Nel Fedone Platone dice che la morte riguarda unicamente il corpo, infatti non danneggia l’anima, ma piuttosto le reca un grande beneficio, permettendole di vivere un vita più vera; quindi, il filosofo è colui che desidera la vera vita (morte del corpo) e la filosofia è esercizio di vera vita, della vita nella pura dimensione dello spirito. La fuga dal corpo è il ritrovamento dello spirito. Nel Teeteto, invece, Platone spiega che fuggire dal mondo significa diventare virtuosi e cercare di assimilarci a Dio, quindi fuggire dal corpo e dal mondo è possibile grazie a virtù e conoscenza. PURIFICAZIONE E IMMORTALITÀ DELL’ANIMA - Differentemente da Socrate che aveva posto nella cura dell’anima il supremo compito morale dell’uomo, Platone precisa che la cura dell’anima significa purificazione. Questa purificazione si realizza quando l’anima, trascendendo i sensi, s’impossessa del puro mondo dell’intelligibile e dello spirituale, congiungendosi coma a ciò che le è connaturale. La purificazione coincide con il processo di elevazione alla suprema conoscenza dell’intellegibile. La novità del misticismo platonico sta nel riconoscere alla scienza e alla conoscenza il valore di purificazione dell’anima, si tratta infatti di uno sforzo di ricerca e di una progressiva ascesa verso la conoscenza. Nella misura in cui il processo della conoscenza ci porta dal sensibile al soprasensibile, ci porta dalla falsa alla vera dimensione dell’essere, quindi l’anima si purifica, si cura e si eleva conoscendo (in questo sta la vera virtù). Platone afferma che l’anima umana è capace di conoscere le realtà immutabili ed eterne, e proprio come le realtà sono immutabili ed eterne, allora anche l’anima deve esserlo. Nel Timeo Platone precisa che le anime sono generate dal Demiurgo, con la stessa sostanza con cui è stata fatta l’anima del mondo (composta di essenza, d’identità e di diversità); esse hanno dunque una nascita ma non sono soggette a morte, così come non è soggetto a morte tutto ciò che è direttamente prodotto dal Demiurgo. L’anima per Platone è la dimensione intellegibili, metaempirica e incorruttibile dell’uomo, ed è con Platone che l’uomo ha scoperto di essere a due dimensioni. L’anima, in cui Socrate (superando la visione omerica, presocratica e orfica) indicava il vero uomo, identificandola con l’io consapevole-intelligente-morale, riceve con Platone la sua adeguata fondazione ontologica e metafisica, oltre che una precisa collocazione della visione generale della realtà. METEMPSICOSI - la metempsicosi è la dottrina che indica la trasmigrazione dell’anima in vari corpi, ovvero la rinascita in differenti forme (si rifà agli orfici). Egli presenta la dottrina in due forme complementari. La prima è quella presentata nel Fedone, in cui dice che le anime che hanno vissuto una vita eccessivamente legata ai corpi (quindi passioni, amori e piaceri) non riescono a separarsi totalmente dal corpo con la morte; queste anime vagano come fantasmi fino a quando, attratte dal desiderio corporeo, si legano nuovamente a dei corpi di uomini o di animali (dipende dalla bassezza del tenore di vita morale nella precedente vita), invece, le anime che hanno vissuto secondo virtù comune si reincarnano in uomini probi o animali mansueti. La seconda forma della dottrina viene presentata invece nella Repubblica, dove Platone parla di un secondo genere di reincarnazione dell’anima. Le anime sono in un numero limitato quindi di conseguenza, secondo Platone, anche i premi e i castighi ultraterreni hanno una durata limitata e un termine fisso. Platone, probabilmente influenzato dalla mistica pitagorica e dal numero 10, ritiene che la vita ultraterrena deve avere una 21 durata di mille anni (dieci volte cento anni), mentre per le anime che hanno commesso crimini insanabili la punizione continua; trascorso questo tempo, le anime devono tornare a reincarnarsi. Si tratta sia di un ciclo individuale di reincarnazioni, legato alle vicende dell’individuo, sia di un ciclo cosmico, che è millenario. Proprio a quest’ultimo si riferiscono il mito di Er, contenuto nella Repubblica, e il mito del carro alato, contenuto nel Fedro. IL MITO DI ER - Il mito di Er chiude la Repubblica e narra il ritorno delle anime sulla terra. Terminato il loro viaggio millenario, esse si radunano su una pianura, dove verrà determinato il loro destino. Qui Platone opera una rivoluzione della tradizionale credenza greca secondo la quale sarebbero gli dei e la Necessità a decidere il destino dell’uomo. I paradigmi delle vite stanno in grembo alla Moira Lachesi (figlia di Necessità) e vengono proposti alle anime, non imposti, così la scelta è consegnata alla libertà delle anime stesse. L’uomo non è libero di scegliere se vivere o non vivere, ma è libero di scegliere se vivere secondo virtù o secondo il vizio. Il profeta di Lachesi getta a sorte i numeri per stabilire l’ordine con cui le anime devono recarsi a scegliere e stende sul prato i paradigmi delle vite, in numero superiore rispetto alle anime; cosi facendo il primo a cui tocca scegliere ha a disposizione molti più paradigmi di vita rispetto all’ultimo, anche se gli resta comunque la possibilità di scelta di una buona vita. La scelta fatta dalle anime viene poi suggellata dalle altre due Moire, Cloto e Atropo, e così diventa irreversibile. Le anime infine bevono la dimenticanza nelle acque del fiume Amelete e poi scendono nei corpi, in cui realizzano la vita scelta. IL MITO DEL CARRO ALATO - Platone nel Fedro racconta il mito del carro alato. Originariamente l’anima viveva una vita divina al seguito degli dei, ma poi cadde in un corpo Silla terra per una colpa. Platone paragona l’anima a un carro alato condotto da un auriga e tirato da due cavalli, uno dei quali è buono, mentre l’altro è cattivo e per sua colpa la guida risulta difficile. L’auriga simboleggia la ragione, i due cavalli le parti logiche dell’anima, ovvero quella irascibile e quel concupiscibile. Secondo Platone le anime procedono al seguito degli dei, volando per il cielo e cercando di arrivare alla contemplazione della Pianura della verità (il mondo delle Idee), ma, a differenza di ciò che accade agli dei, per le anime è molto più ardua l’impresa (sopratutto a causa del cavallo cattivo che tira verso il basso). Avviene cosi che alcune anime riescono a vedere l’Essere (anche in parte) e per questo continuano a vivere con gli dei, altre invece, non riuscendo a raggiungere la Pianura della verità, si ammassano e si scontrano, facendo così spezzare le ali e precipitare a terra. La vita umana, alla quale l’anima cadendo dà origine, è moralmente più perfetta a seconda se ha visto o meno la verità nell’Iperuranio. Passati diecimila anni tutte le anime rimettono le ali e ritornano presso gli dei, anche se le anime che hanno vissuto secondo filosofia, per tre vite consecutive, godono di una sorte privilegiate e mettono le ali dopo soli tremila anni. LO STATO - Platone in gioventù fu dominato dalla passione per la politica, infatti degli avrebbe voluto partecipare attivamente alla vita politica ateniese se non fosse stato per gli eventi che culminarono con la morte di Socrate. Secondo Platone lo scopo della politica è il bene dell’uomo e dato che il massimo nome per l’uomo consiste nel bene dell’anima, allora ne consegue che la politica deve porsi la cura dell’anima come obiettivo primario. Visto che la cura dell’anima è possibile grazie al filosofare, allora la politica coincide con la filosofia, di conseguenza il vero politico coincide con il filosofo (o viceversa) e solo così può costruirsi la vera Città, ovvero lo stato fondato sul supremo valore della giustizia e del bene. Nella Repubblica Platone disegna il suo Stato ideale, partendo da una riflessione sulla natura della giustizia intesa come fondamento di ogni comunità umana. Costruire la Città vuol dire conoscere l’uomo e il suo posto nell’universo; infatti, lo Stato è l’ingrandimento della nostra anima (una sorta di gigantografia che riproduce in grandi dimensioni quello che c’è nella nostra psyché). Secondo Platone lo Stato deve essere costituito da 3 classi: - i governanti, a cui appartiene la saggezza (in loro predomina l’anima razionale) 22 La grandezza di Aristotele non è meno elevata di quella di Platone, ma è di tutt’altro tipo. Allievo presso l’Accademia, la scuola platonica, vi rimane per vent’anni, fino alla morte di Platone. DIFFERENZE CON PLATONE - Abbandonata l’Accademia, Aristotele si distacca progressivamente dal pensiero del proprio maestro pur conservandone il massimo rispetto e riconoscenza. Lo divide man mano una diversa concezione della struttura e degli scopi del sapere, anche in rapporto al mutamento culturale in corso nel passaggio dall’età classica a quella ellenistica. Platone vede il mondo secondo un’ottica verticale e gerarchica, suddiviso tra la superiore realtà delle idee e la realtà inferiore delle cose sensibili. Aristotele guarda il mondo secondo un’ottica tendenzialmente orizzontale e unitaria, considerando tutti i diversi tipi di realtà su di un piano di pari dignità ontologica e tutti i tipi di scienze e di conoscenze su di un piano di pari dignità gnoseologica, per cui la realtà, pur unitaria, si mostra articolata in vari settori, ognuno dei quali è oggetto di scienze distinte, basate ognuna su principi e metodi propri. Aristotele lascia cadere gli influssi mistico-religiosi presenti nella filosofia di Platone, derivanti dalla religione orfica e misterica, e privilegia un’impostazione più rigorosa, meno idealistica e più scientifico-razionale. Mentre Platone nutriva maggior interesse per le scienze matematiche, Aristotele ha maggior interesse per le scienze empiriche, fisiche e naturali. Platone è convinto della finalità politica della conoscenza e concepisce il filosofo come governante della città. Aristotele concepisce la filosofia come conoscenza disinteressata della realtà e vede il filosofo soprattutto come sapiente o scienziato, dedito esclusivamente alla ricerca e all’insegnamento. In Platone prevale l’intento politico-educativo, in Aristotele quello conoscitivo e scientifico. Mentre la maieutica, ereditata da Socrate, ha indirizzato Platone ad un tipo di filosofare mai compiuto, inteso come ricerca senza fine, lo spirito scientifico conduce Aristotele ad una sistemazione organica delle conoscenze acquisite, come pure ad una distinzione dei diversi temi e problemi secondo la differente specie, con conseguente differenziazione di metodi. Ad Aristotele si deve, in tal senso, il primo compiuto sistema enciclopedico del sapere con le sue parti: logica, metafisica, fisica, psicologia, politica, etica, estetica, retorica, poetica. Con acutezza Aristotele coglie la struttura generale di ciò che studia e la sua ordinata composizione, lasciandoci per ogni campo scientifico-conoscitivo distinzioni, classificazioni e sistematizzazioni rimaste in parte inalterate sino ai nostri giorni. Molto di quanto elaborato da Aristotele già preesisteva, prodotto dai filosofi e scienziati precedenti, ma non aveva forma sistematica; a ciò pensò Aristotele. SCRITTI - Gli scritti aristotelici si dividono in due grandi gruppi: 1) gli scritti “essoterici” (esterni), composti per lo più in forma di dialogo e destinati al grande pubblico, dei quali sono rimasti solo pochi frammenti; 2) gli scritti “esoterici” (interni), riservati ai discepoli. Questi ci sono pervenuti quasi tutti, ma solo quasi trecento anni dopo, nella metà del primo secolo a.C., quando furono pubblicati da Andronico di Rodi. Per la pluralità enciclopedica degli interessi, gli scritti esoterici trattano i più vari argomenti, inerenti pressoché tutto lo scibile umano. Innanzitutto gli scritti di logica, noti complessivamente col nome di “Organon”, significante in greco strumento metodologico di ricerca. Segue quindi l’opera più famosa, la Metafisica, in 14 libri. Poi gli scritti di filosofia naturale, di cui i principali sono la Fisica, in otto libri, e il trattato Sull’anima, in tre libri. Infine, gli scritti di etica, politica, poetica e retorica. Numerose sono anche le opere di scienza naturale, specialmente di studio degli animali. LOGICA O ANALITICA - Nella sua classificazione delle scienze Aristotele non ricomprende la logica perché, a suo avviso, essa non è una scienza ma piuttosto uno strumento, il metodo del ragionamento e in quanto tale applicabile a tutte le scienze. Aristotele non usa il termine logica, introdotto successivamente, egli adotta il termine analitica, che significa fare l’analisi. La logica è lo studio del pensiero e del linguaggio, o meglio del pensiero come esso si esprime attraverso il linguaggio. Scopo principale è la distinzione tra proposizioni coerenti o non coerenti. 25 Per Aristotele la logica è la tecnica che definisce i requisiti necessari di una proposizione per potersi dire corretta, coerente, cioè non contraddittoria. La logica aristotelica è stata da alcuni definita "logica formale", finalizzata ad analizzare la forma del ragionamento in termini di coerenza anziché di verità o falsità; ma Aristotele non ha voluto dare alla logica un'impostazione puramente formale, del tutto slegata dai contenuti di verità o falsità delle proposizioni. Essa non può escludere anche un rapporto tra ordine coerente del ragionamento e sua corrispondenza alla realtà. Nelle opere di logica Aristotele inizia partendo dalla concezione platonica di dialettica intesa come procedimento di divisione e unificazione delle idee per stabilirne le relazioni, cioè per stabilire in quali casi le idee si implichino fra loro e in quali no, vale a dire in quali casi un predicato appartiene ad un soggetto o non gli appartiene. Aristotele distingue quattro modi in cui il predicato può essere formulato: - Per definizione , quando il predicato è usato per definire il soggetto cui si riferisce. In questo caso vi è identità fra predicato e soggetto come nella definizione "l'uomo è (=) un animale razionale". La definizione si ottiene ricavando rispetto al genere cui il soggetto appartiene la differenza specifica, che è ciò che caratterizza e distingue il soggetto da ogni altro individuo, cosa o specie che rientrino nello stesso genere. Nell’esempio recato "animale" è il genere e "razionale" è la differenza specifica che distingue e definisce l'uomo rispetto a tutti gli altri animali. - Per genere , dove il soggetto rientra interamente nel predicato, che tuttavia è più ampio del soggetto stesso. Nell’esempio riportato, l'uomo rientra nel genere “animali” ma non si identifica con questo perché non ogni animale è un uomo. - Per propriet à , che è predicato il quale, pur non esprimendo la differenza specifica che distingue il soggetto, nondimeno appartenere soltanto ad esso. Per esempio, se il soggetto è "uomo", una sua proprietà è "colto" o “incolto". - Per accidente , che è predicato che può o non può appartenere ad un certo soggetto; esprime ciò che accade e capita al soggetto, o meno, in modo accidentale, casuale. Per esempio, se il soggetto è "uomo", un suo accidente è "alto" o "basso". Nella logica, composta da sei trattati, Aristotele svolge argomenti che vanno da quelli più semplici a quelli più complessi; egli indaga e analizza prima i concetti e le categorie, poi le proposizioni e quindi il ragionamento. CONCETTI E CATEGORIE - La logica di Platone, che egli chiamava dialettica, era scienza delle idee, cioè di realtà universali e separate dal mondo sensibile, nonché delle relazioni tra le idee medesime. Aristotele respinge la teoria platonica concernente l'esistenza di un mondo delle idee separato e distinto dal mondo sensibile poichè, una volta eliminato il mondo sovrasensibile delle idee, la logica rimane scienza di concetti non più separati dalle cose sensibili ma esprimenti gli aspetti essenziali di realtà concrete appartenenti ad una medesima specie, genere o categoria. Aristotele non usa il termine "concetti", introdotto successivamente, ma quello di "nomi", più o meno universali. I concetti sono il primo elemento della logica: sono le parole, i termini del linguaggio, della proposizione. Sono i singoli nomi delle cose, sia individuali che collettive, e che in grammatica costituiscono la prima parte del discorso (il nome, appunto). Aristotele rileva che i concetti sono distribuiti secondo una scala che va da quelli più estesi ed universali a quelli meno estesi e più particolari. I più estesi sono i concetti di genere, ovvero il genere a cui un gruppo di cose appartiene. Meno ampi e più circoscritti sono i concetti di specie, ad esempio il quadrato appartiene al genere dei poligoni ed alla specie dei quadrilateri. Al gradino più basso della scala dei concetti vi sono i concetti elementari, quelli specifici e particolarissimi che sotto di loro non hanno nessun altro concetto, nessuna ulteriore e possibile specificazione. I concetti elementari sono quelli che indicano le singole cose concrete, i singoli individui. Il termine "individuo" non indica solo le singole persone ma anche le singole cose: questa matita qui, questo albero qui; individuo significa ciò che è "indivisibile", che non è divisibile in altre possibili sottocategorie. I concetti elementari sono da Aristotele chiamati sostanze prime in quanto sostanze di base al di sotto delle quali 26 non ve ne sono altre di più particolari. Le specie e i generi in cui le sostanze prime rientrano sono a loro volta chiamati sostanze seconde. Aristotele nota che tutti i concetti, siano essi sostanze prime o seconde, sono riconducibili a dieci generi superiori, ancora più in alto nella scala dei concetti, chiamati "generi sommi" o categorie. Sono sommi perché al di sopra di essi non vi è alcun altro genere più elevato nel quale essi possano a loro volta rientrare. Le dieci categorie individuate sono la sostanza, la qualit à , la quantit à , la relazione, il luogo, il tempo, lo stato, il possesso, l’attivit à , la passivit à . Dal punto di vista logico esse sono i modi più generali con cui noi pensiamo e parliamo delle cose. Viene poi approfondita la differenza tra sostanza e accidenti, enunciando sia che ogni sostanza è sostrato, ovvero ciò che sta sotto e permane pur nel mutare esteriore della cosa, sia che la sostanza prima è separata da ogni altra (Socrate esiste indipendentemente, separatamente, dall'esistenza di Platone) mentre gli accidenti, invece, sono sempre uniti a qualche sostanza. Inoltre la sostanza non ha in sé contrario (non esiste il contrario di Socrate) diversamente dagli accidenti (esiste sempre il nero, contrario dell'accidente "bianco", così come sempre esiste il contrario di ogni altro accidente). La sostanza, altresì, non consente in sé gradazioni (non si può essere più o meno uomo, mentre si può essere più o meno alto); successivamente però la sostanza può accogliere anche i contrari (un individuo dapprima basso può diventare poi alto crescendo, mentre l'accidente "alto" non può mai essere "basso". Infine la sostanza prima è "un questo", ovvero solo un certo e preciso individuo o ente, mentre gli accidenti sono soltanto "un quale", indicano cioè quale carattere o proprietà appartiene casualmente ad una data sostanza prima. DEFINIZIONE - Per Aristotele la definizione di un concetto non consiste nello spiegarne il significato, ricavandosi invece dal collegamento di un predicato al soggetto che, appunto, lo definisca, che ci dica che cosa è (ad esempio: "l'uomo è un animale razionale"). Nella definizione vi è identità fra soggetto e predicato:"uomo"(soggetto) è identico a “animale razionale" (predicato). Intesa in tal modo la definizione, le categorie in quanto generi sommi non sono pertanto definibili perché non possono essere collegate a nessun altro predicato o termine al di sopra di esse. Altrettanto indefinibili, all'estremo inferiore della scala dei concetti, sono gli individui, o sostanze prime, perché sono entità elementari a cui non può essere collegato nessun altro predicato al di sotto di esse. Sono invece definibili i termini che nella scala dei concetti occupano una posizione intermedia, ossia i generi e le specie. La definizione si ottiene stabilendo il genere prossimo in cui rientra il soggetto, ovvero il termine che si vuol definire, individuando quindi la differenza specifica che distingue quel soggetto da ogni altra specie rientrante nel medesimo genere prossimo. Se voglio definire cos'è "l'uomo" devo stabilirne il genere prossimo, che non è quello di "vivente", perché lo sono anche le piante, ma è quello di "animale"; poi devo individuare la differenza specifica che contraddistingue l'uomo da ogni altra specie appartenente al genere "animale". Nel nostro esempio la differenza specifica è "razionale" perché nessun altro animale lo è. Da ciò la definizione di uomo come animale razionale. PROPOSIZIONI O GIUDIZI - Secondo Aristotele le proposizioni sono costituite dall'unione di un concetto, o nome o termine o parola, con almeno un predicato, verbale o nominale (ad esempio, "Mario corre" oppure "Mario è simpatico”). I nomi e i predicati presi ciascuno da solo non sono né veri né falsi (ad esempio, quel Mario lì - sostanza prima- ci può essere o non essere e può correre o non correre). La verità o falsità è invece attribuibile alle proposizioni compiute: sono vere quando corrispondono alla realtà verificabile dei fatti di cui si fa esperienza; sono false quando non vi corrispondono (REALISMO LOGICO). Poiché le proposizioni affermano o negano qualcosa circa la realtà dei fatti, esse allora "giudicano" il vero o il falso di questi fatti stessi; perciò sono anche chiamate "giudizi". 27 ha metafisica quando si determinano cause e principi non di una sola cosa o di un gruppo di cose o fenomeni, come le scienze particolari, bensì di tutte quante le cose; quando cioè si determinano i principi e i fondamenti comuni di tutta la realtà, comuni a tutto l’essere. DOTTRINA METAFISICA - Aristotele sottolinea il carattere plurisemantico dei termini e del linguaggio della metafisica; una pluralità di significati che tuttavia non cade nell’equivocità perché i termini della metafisica non sono predicati né univocamente ne equivocamente, ma analogicamente. Si ha predicazione univoca (univoca attribuzione di significato) quando fra due o più termini vi è in comune non solo il nome ma anche la corrispondente essenza. Ad esempio “cane” e “bue” si predicano (si dicono) entrambi “animali” in quanto hanno in comune sia il genere che la corrispondente essenza. Si ha invece predicazione equivoca quando vi è in comune solo il nome, mentre diversa è l’essenza corrispondente; ad esempio il termine “cane” sia talora predicato di un animale e talaltra di un “ritratto” del cane il nome è comune ma la rispettiva essenza è diversa. Si ha infine predicazione analogica quando si mettono insieme cose che, pur non appartenenti al medesimo genere o specie, hanno nondimeno un qualche rapporto. Essa è un tipo singolare di unificazione di fatti e fenomeni, è una unificazione più debole di quella stabilita dalla specie e dal genere, è una somiglianza che nasce dalla presenza di relazioni simili. Ad una predicazione analogica si prestano in particolare i termini della metafisica poiché ad essi, più che ad altri, si addice la proprietà di esprimere una somiglianza che sta al di fuori del genere e della specie. Aristotele dà quattro definizione di metafisica, o filosofia prima, quale scienza che: - studia l ’ essere in quanto essere - indaga la sostanza - indaga le cause e i principi primi o supremi - indaga le sostanze immobili sovrasensibili e, quindi, Dio. Sono quattro definizioni distinte per genere e per specie ma fra di esse complementari, in rapporto analogico. La metafisica è scienza delle cause o principi primi ed è anche scienza dell’essere. Come scienza dell’essere intende pervenire alle cause prime dell’essere. E tutti i significati dell’essere ruotano a loro volta intorno al significato centrale di sostanza. Infine, il Dio/Motore immobile aristotelico è principio supremo. Ognuna delle quattro definizioni determina la natura della metafisica da un distinto punto di vista a seconda che si voglia dare rilievo all’oggetto, al metodo oppure al fine. Perciò la diversità delle caratterizzazioni non comporta incongruenze o contraddizioni. METAFISICA COME SCIENZA DELL’ESSERE - Se obiettivo finale della metafisica è quello di scoprire le cause ultime i principi primi come già aveva insegnato Platone, egli però, con un sol balzo, esce precipitosamente da questo mondo e si colloca immediatamente nel mondo sovrasensibile senza aver dato prova della sua esistenza. Aristotele invece, in via iniziale, concentra l’indagine sullo studio della sostanza materiale e dei suoi elementi costitutivi, muovendosi sul terreno ontologico- fenomenologico. Solo in seguito, per graduali argomentazioni, egli si spingerà oltre la fenomenologia, varcando la soglia della trascendenza metafisica col passare dalle sostanze sensibili materiali a quelle sovrasensibili. In polemica con Parmenide, Aristotele afferma che il termine “essere” non indica una sola realtà; esso non ha un’unica forma ed un unico significato ma una pluralità di significati, peraltro analogicamente collegati, precisamente quattro di fondamentali: - l’ essere come categorie o essere per s é ; - l’ essere come atto e potenza (il divenire); - l’ essere come accidente (l ’opinione); - l’ essere come vero. L’essere come vero e l’essere come accidente cadono al di fuori dell’indagine metafisica, poichè l’essere come vero è studiato dalla logica mentre l’essere come accidente, casuale, non è oggetto di scienza poiché essa si occupa solo di ciò che è necessario, di ciò che non può essere diversamente da come è. Quindi la metafisica si 30 occupa propriamente dei due restanti significati dell’essere, ovvero dell’essere come categorie e dell’essere come potenza e atto. Le categorie considerate nella metafisica sono la sostanza, la qualità, quantità, relazione, luogo, tempo, stato, possesso, attività, passività. Mentre nella logica sono i modi generali con cui noi pensiamo e parliamo delle cose, nella metafisica sono i modi generali dell’essere, sono i modi costitutivi degli enti, ne esprimono le caratteristiche fondamentali, strutturali, sono i generi sommi che elencano tutte le proprietà dicibili dell’essere. Si riferiscono alle proprietà immutabili degli oggetti (le essenze) oppure a quelle mutevoli e contingenti (gli accidenti). Le categorie aristoteliche hanno dunque valore sia logico che ontologico. Già Platone, pur senza pretese di completezza, aveva parlato di generi sommi “comuni a ogni cosa”, includendovi l’essere e il non essere, la somiglianza e la dissomiglianza, l’identità e l’alterità, il pari e dispari e “tutte le altre proprietà che si accompagnano a queste”; ma solo Aristotele ha offerto una vera e propria dottrina delle categorie, attribuendo anche un valore tecnico al termine kategorein, che nel linguaggio volgare significava accusare mentre per Aristotele significa predicare, attribuire predicati. PRIMATO DELLA SOSTANZA - Di tutte le categorie, la più importante è la sostanza, l’unica autonoma mentre tutte le altre la presuppongono. La dipendenza di tutte le altre categorie dalla sostanza è ciò che assicura l’unità dell’essere contro il pericolo che la pluralità inerente ai diversi significati dell’essere conduca alla privazione di una qualsiasi unicità, nel qual caso non sarebbe possibile la filosofia prima. Un essere però non esiste solo come sostanza pura poiché possiede proprietà corrispondenti ad una o più delle altre categorie. La dottrina aristotelica dell’essere come categorie si configura soprattutto e propriamente come USIOLOGIA (teoria della sostanza). Solo dopo aver stabilito che cosa sia in genere la sostanza sarà lecito per Aristotele chiedersi se esistono solo sostanze sensibili o anche sovrasensibili. L’usiologia aristotelica prende le mosse dal terreno fenomenologico, dalle sostanze sensibili, dagli enti osservabili, costituiti da sostanze materiali corruttibili. Tali sostanze, tali enti, sono Aristotele definiti forma e materia. Per forma non ha da intendersi l’aspetto esteriore di una cosa ma la sua intima natura, la sua essenza. L’essenza di una cosa è l’insieme invariante delle sue proprietà o attributi, è ciò che la fa essere ciò che è e che la distingue da ogni altro ente, da ciò che non è. Così, ad esempio, la forma o essenza dell’uomo è l’anima razionale, la ragione, mentre la materia è il corpo. La forma è l’elemento attivo che dà forma specifica alla materia, mentre quest’ultima è l’elemento passivo modellato dalla forma. Di conseguenza ciò che qualifica le sostanza sensibili, il sinolo, è propriamente la forma più che la materia, tant’è che le sostanze si possono chiamare forme. L’essere come categorie è soprattutto sostanza e la sostanza è soprattutto forma per cui vale l’equivalenza: essere= sostanza=forma, termini che Aristotele usa come sinonimi. Se da un punto di vista empirico è il sinolo ad apparire costitutivo della sostanza, dal punto di vista speculativo la sostanza per eccellenza è la forma, la causa formale, poiché è la forma che contraddistingue una sostanza. Aristotele giunge al concetto di materia attraverso l’analisi delle trasformazioni delle sostanze. Non è possibile il divenire se di ciò che diviene non c’è nulla che preesista, e questo qualche cosa è la materia, soggetto della propria mutazione. Quanto alla forma, Aristotele giunge al relativo concetto mediante l’analisi di ciò che differenzia una cosa dall’altra. La forma funge da principio di specificazione, conferisce al sinolo i tratti specifici, atti a distinguerlo da ogni altro. La materia invece funge da principio di individuazione, conferisce le caratteristiche individuali. In Aristotele la materia e la forma in sé non si generano né si corrompono. Ciò che si genera e si corrompe è la sostanza individuale, il sinolo. La materia invece non può essere generata perché, essendo ciò (l’elemento primo) da cui la cosa è tratta, deve preesistere ad essa. Neppure la forma viene prodotta ma viene plasmata sulla materia costitutiva degli enti secondo il modo in cui ciascun ente, nel suo divenire, è potenzialmente suscettibile di trasformarsi. 31 Rispetto all’accidente, la sostanza è ente determinato e stabile in quanto essenza necessaria di una cosa; pertanto è direttamente contrapposta all’accidente stesso, il quale indica non già l’essenza di una cosa ma ciò che quella cosa può o non può avere. La sostanza è un modo di essere necessario in sé e per sé, mentre l’accidente è un modo di essere fortuito, casuale, della sostanza a cui si riferisce. La sostanza ha priorità logica , ovvero è implicita nella definizione di tutte le altre categorie; priorità gnoseologica, la conoscenza completa di qualsiasi altra categoria esige la conoscenza della sostanza; priorità storica , la sostanza è stata storicamente, da sempre, al centro della ricerca e della discussione filosofica; e infine priorità ontologica, le altre modalità dell’essere presuppongono l’essere, l’esserci, della sostanza. Rispetto agli altri titoli, il primato ontologico della sostanza è quello prevalente. La sostanza ha con l’essere un rapporto unico ed esclusivo: possiede l’essere in proprio. Dal primato ontologico della sostanza Aristotele ne deriva le singolari proprietà: - è sostrato, la base, di tutti gli altri modi di essere (delle altre categorie); - è sussistente di per sé, indipendentemente da altro; - è in primo luogo una essenza, ossia una determinazione ben definita, non una qualità generale o universale come le specie o i generi; perciò la sostanza del singolo ente è, come nella logica chiamata, “sostanza prima”, “questa cosa qui” (ad esempio Socrate), distinta dalle “sostanze seconde” relative alla specie (uomo) e al genere (animale); - è intrinsecamente unitaria e non un aggregato di parti. Identificata con la forma, o essenza, sostanza e essenza coincidono con la definizione della cosa, la quale è ciò che la contrassegna rispetto ad ogni altra. Secondo Aristotele è vero che si danno definizioni anche di tutte le altre categorie. Si danno definizioni anche in ordine all’essenza della qualità, della quantità, della relazione, del tempo, ecc. Ma ciò non toglie che essenza sia anzitutto e soprattutto la sostanza. L’essere si predica sia della sostanza sia delle altre categorie, ma non allo stesso modo, ma secondo analogia. Il principio primo intrinseco dell’essere di una cosa non può essere che uno, la sua sostanza. Le cose possono anche essere costituite da più elementi, ma solo la loro sostanza le identifica nella rispettiva unitaria essenza. Aristotele si avvale del principio di non contraddizione per corroborare il primato della sostanza. Così come ogni scienza stabilisce propri principi primi, assiomi o postulati, allo stesso modo anche la filosofia deve ridurre tutti i molteplici significati della parola “essere” ad un significato unico e fondamentale, poiché deve anzitutto considerare l’essere non come qualità, quantità, movimento, ecc., ma proprio e solo in quanto essere. A tal fine ha bisogno di un principio fondamentale, individuato nel principio di non contraddizione. Esso mostra che ogni essere ha una sua propria natura determinata che è impossibile negare senza contraddirsi e che, in tal senso, è necessaria non potendo essere diversa da così com’è. La natura necessaria di un qualsiasi essere è la sua sostanza: la sostanza è l’essere dell’essere, il suo significato ed essenza fondamentali. Platone aveva posto le essenze fuori delle cose, nell’Iperuranio. Ma per Aristotele occorre ridiscendere dal cielo in terra: l’essenza, la forma, va posta e ricercata all’interno delle cose di questo mondo materiale di cui facciamo esperienza tutti i giorni. L’essenza è la sostanza stessa vista più sotto l’aspetto della sua intelligibilità e definibilità che dal punto di vista della sua sussistenza. L’essenza è il fulcro della sostanza ed esprime la sua singolarità, la sua determinatezza, la sua indivisibilità. Ma inoltre, mentre la sostanza è sempre sussistente nell’essere, l’essenza esprime anche la potenzialità dell’essere, il proprio poter essere, il proprio divenire. Aristotele non distingue, come farà Tommaso d’Aquino, tra essenza ed esistenza perché non vede mai l’essere come dimensione distinta dalla sostanza. Tuttavia già intravede l’essenza come altra dall’essere dato che l’essenza sta anche nell’essere potenziale, mentre la sostanza è “il concreto esistente”. 32 intendimento. L’uomo può raggiungerne una certa conoscenza, però limitata e imperfetta poiché attinge ad essa non direttamente bensì indirettamente, per astrazione dai dati forniti dalla sensazione, e la esprime non mediante concetti chiari e distinti ma mediante concetti derivati secondo analogia. Tre ne sono i principali attributi da Aristotele evidenziati: - è eterno perché eterno è il movimento di cui è causa prima; - è immobile perché solo l’immobile è causa assoluta del mobile, non condizionata a sua volta; - è atto puro, assolutamente privo di potenzialità, di potenza; infatti, se fosse in potenza potrebbe anche non muovere ma ciò è assurdo perché non vi sarebbe, come invece c’è, un movimento eterno, sempre in atto. Per Aristotele, secondo lo schema delle quattro cause, il movimento può essere prodotto o da una causa efficiente o da una causa finale; ma in quanto immobile il primo motore non può certo cagionare il movimento come causa efficiente imprimendo una spinta alle cose; lo produce invece come causa finale, come fonte di attrazione che fa muovere e attira verso di sé tutte le altre sostanze e gli altri esseri (così come la persona o l’oggetto amato, pur rimanendo impassibile ed immobile, attrae verso di sé l’amante). Dio è forma e perfezione assoluta che, restando immobile, attira a sé come una calamita tutto l’universo comunicandogli e causandone il moto. Poiché causa finale, e non efficiente, Dio non ha creato il mondo, che invece è eterno. Non c’è stato un momento in cui prima c’era il caos e non il cosmo perché, se così fosse, sarebbe contraddetto il principio della priorità dell’atto sulla potenza (prima ci sarebbe stato il caos, che è potenza, e solo dopo il mondo, che è atto, il che è assurdo dato che l’atto precede sempre la potenza). L’universo non è niente altro che uno sforzo della materia verso Dio, un desiderio incessante di prendere una forma sempre più perfetta. Perciò nell’universo di Aristotele non è Dio che ordina e dà forma al mondo, ma è il mondo che, aspirando alla perfezione divina, si auto-ordina assumendo le varie forme delle cose. Con il Motore immobile Aristotele non intende più di tanto mostrare l’origine prima del movimento e della generazione quanto piuttosto l’eternità del mondo. Come entità perfettissima e totalmente compiuta a Dio non manca nulla, non ha bisogno di nulla poiché in lui non vi è alcun scopo irrealizzato. La vita del Dio-Motore immobile è la vita del puro pensiero, quella della pura intelligenza, alla quale l’uomo si solleva solo per fuggevoli periodi mentre Dio ne gode continuamente. Come puro pensiero l’attività di Dio è assolutamente contemplativa ed oggetto della sua contemplazione è lui stesso (autocontemplazione di sé). Poiché perfetto, Dio non può che pensare alla perfezione stessa, ossia a se medesimo. Egli è “pensiero di pensiero”. Egli non ama il mondo, ama solo se stesso. È il mondo che tende a lui quale oggetto d’amore e d’attrazione. Il Dio aristotelico, pertanto, non è provvidenza. Nella concezione platonica e aristotelica l’amore si rivela sempre come una mancanza d’essere, una mancanza di qualche cosa. Dio allora, non mancando di niente, non può amare. È infatti per lo più estraneo alla mentalità greca antica il concetto di amore inteso come solidarietà, come trasporto verso gli altri e come dono gratuito di sé. Aristotele ritiene che Dio non basta da solo a muovere tutte le sfere celesti. Dio muove direttamente il primo mobile, quello più nobile, il Cielo delle stelle fisse; ma fra questo e la Terra, secondo la concezione astronomica tolemaica, vi sono molte altre sfere concentriche, quelle dei pianeti e dei satelliti. Aristotele ne conta cinquantasei, degradanti e rinchiuse l’una nell’altra. Egli è persuaso che queste altre sfere non siano mosse meccanicamente per moto derivante dal Primo motore, ma che siano invece mosse da altrettanti motori di rango inferiore, tuttavia anch’essi sostanze sovrasensibile, capaci di muovere in modo analogo al Primo motore immobile, vale a dire come cause finali. Per Aristotele, così come per Platone e per i Greci in genere, il divino non è persona ma è sostanza sovrasensibile diffusa, distribuita in molti enti ed entità: divino è il Primo motore immobile ma divine sono anche le altre sostanze sovrasensibile motrici delle sfere sottostanti al Cielo delle stelle fisse; divina è anche 35 l’anima intellettiva degli uomini; divino è tutto ciò che è eterno e incorruttibile (tendenziale politeismo). Vicine al monoteismo sono l’unicità, la superiorità e l’indipendenza assoluta del Primo Motore rispetto all’universo. Il Dio di Aristotele è soprannaturale nel senso aristotelico del termine in quanto immateriale e trascendente l’ordine delle cose di natura, ma non è soprannaturale nel senso religioso del termine poiché, in quanto ragione e causa della struttura del mondo, ne fa lui stesso parte. In ogni caso quello di Aristotele rimane distante dal Dio delle religioni monoteistiche per il fatto che il primo Motore non è creatore dell’universo ma soltanto causa finale del suo movimento. CRITICA IDEALISMO PLATONICO - La dottrina delle quattro cause costituisce il principale motivo del distacco di Aristotele dalla teoria platonica delle idee. Platone aveva concepito le idee quali vere cause del mondo sensibile. Questa ipotesi è per Aristotele inammissibile poiché la teoria delle idee non spiega l’essere delle cose. Se le idee sono la forma, l’essenza delle cose, è impossibile concepirle al di fuori delle cose stesse. L’essenza ontologica delle cose non può che risiedere dentro esse, nelle loro forme intrinseche sostanziali. L’umanità, ad esempio, non è un’idea esistente nell’Iperuranio, ma indica semplicemente la specie biologica umana, immanente negli uomini e non separata da essi. Inoltre, la teoria delle idee non è neppure in grado di spiegare la conoscenza delle cose sensibili poiché, per Aristotele, essa avviene mediante i concetti, che sono il risultato di un processo di astrazione a partire dalle sensazioni empiriche. È impossibile quindi che i concetti, platonicamente intesi come idee pure separate, consentano la conoscenza delle cose se si trovano al di fuori di esse. Ed ancora, essendo le idee platoniche immutabili ed immobili, non esercitando quindi funzioni di causa efficiente, non possono nemmeno essere in grado di spiegare il movimento e il divenire delle cose. In particolare, rileva Aristotele, “L’idea di per sé non significa altro che “un quale”, una certa qualità o natura, e non “un questo”, un individuo. Evidentemente adunque la causa delle essenze specifiche (delle cose sensibili), come alcuni sogliono intendere le idee, se consiste in cose estranee agli individui in nulla contribuisce alle generazioni (al divenire) e alle essenze stesse; né per suo mezzo esisterebbero le sostanze per sé”… Il dire che le idee sono esemplari e che le cose partecipano di esse importa un vaniloquio e l’uso di metafore poetiche”. Infine, conclude, le idee sono un inutile doppione; sono altrettante realtà che si aggiungono alle realtà sensibili complicando anziché semplificare la spiegazione: “Coloro che proposero le idee come cause, di fatto raddoppiarono il numero delle cose da spiegare”. Questa critica alla dottrina delle idee scosse duramente anche i più fedeli discepoli di Platone, molti dei quali abbandonarono il deduttivismo assiomatico del maestro per lasciarsi andare allo scetticismo. Ma non era questo l’intento di Aristotele. Il suo percorso verso il metafisico non è basato su postulati o assiomi dai quali dedurre poi tutta la realtà, bensì su un’indagine accurata e approfondita del mondo dell’esperienza, dal quale salire quindi induttivamente al trascendente. Aristotele non distrugge il platonismo per sprofondare in un empirismo scettico. STRUTTURA DELLA METAFISICA - Dopo l’esposizione della metafisica aristotelica, per una miglior assimilazione della significativa portata giova risaltarne e approfondirne la complessiva struttura sia in ordine all’ambito scientifico che all’oggetto, alle proprietà, al metodo e ai principi. Di tali questioni Aristotele si occupa specialmente nei libri primo, sesto e dodicesimo della sua filosofia prima. AMBITO SCIENTIFICO E OGGETTO - Nella sua celebre classificazione delle scienze Aristotele distingue tra scienze pratiche (l’etica e la politica), scienze poietiche o produttive (le produzioni artistiche e letterarie come pure le tecniche), e scienze teoretiche (la matematica, la fisica, la metafisica), le quali ultime non riguardano la prassi né la produzione ma soltanto la conoscenza disinteressata della realtà. Le scienze teoretiche hanno per oggetto il necessario, ciò che non può essere diverso da così com’è, mentre le scienze pratiche e poietiche hanno come oggetto il possibile, ciò che può essere agito o prodotto in modi diversi o non agito e/o non prodotto. 36 Premesso che secondo Aristotele la fisica studia specificatamente la sostanza che ha capacità di movimento, ossia la sostanza sensibile, quella dei corpi materiali, e che la matematica si occupa solo di alcune (non tutte) proprietà delle cose sensibili, come le lunghezze e i piani, e che inoltre gli oggetti di cui essa tratta non sono enti che sussistono di per sé, come in Platone, ma solo astrazioni del pensiero, a tale ultimo riguardo egli scrive: “Anche la matematica è teoretica; anche se non è chiaro se si occupi (solo) di eventi immobili o separati, ma è certo che considera alcuni enti matematici come immobili o come separati. Ma se sussiste alcunché di eterno, immobile e separato, evidentemente deve essere oggetto di conoscenza di una scienza teoretica, non certo però della fisica, ché la fisica studia alcuni degli enti mutevoli, e nemmeno della matematica, ma di una scienza distinta da entrambe. Poiché la fisica si occupa di enti inseparabili (dalla materia), ma non immobili, e la matematica si occupa di alcuni enti, immobili sì, non però separabili forse ma come si trovano nella materia, la filosofia prima, per contro, tratta degli enti separati ed immobili. Ora, è necessario che tutte le (vere) cause siano eterne e queste specialmente poiché da esse dipendono le manifestazioni delle cose divine… Si potrebbe chiedere se mai la filosofia prima è universale oppure si occupa di un genere determinato e di una natura particolare. Infatti, a questo riguardo, nello stesso ambito delle matematiche c’è diversità: la geometria e l’astronomia riguardano una determinata sfera di realtà, mentre la matematica generale si estende a tutte. Se, adunque, non esistessero altre sostanze tranne quelle che si producono per natura, la fisica sarebbe la prima scienza; ma se vi è una sostanza immobile, questa ha la precedenza e la filosofia (che la studia) è veramente prima, e in tal modo è universale perché è prima. E così ad essa spetta di occuparsi dell’ente in quanto ente, della sua essenza e delle proprietà che ineriscono ad esso in quanto ente”. PROPRIETÀ DELLA METAFISICA - Nei libri dell’Etica e della Metafisica Aristotele evidenzia più volte le singolari proprietà della nuova scienza, la filosofia prima: - È prima , ma non già nell’ordine pedagogico ma in quello assiologico, valoriale. Non viene insegnata per prima ma per ultima. Però nella scala dei valori occupa, tra le scienze, il gradino più alto. È prima perché studia i principi primi; perché studia le sostanze separate e immobili, che sono quelle più elevate, nobili e perfette. - È universale . Il suo oggetto è l’intero. Studia tutta quanta la realtà: l’ente in quanto ente nonché le cause o principi che stanno all’origine di ogni cosa e di ogni movimento; e le cause prime sono gli “universali supremi” grazie a cui diventano conoscibili tutte le altre cose. - È speculativa e non pratica . Ha di mira esclusivamente la conoscenza e la contemplazione della verità, non il successo o l’utile. - È libera perché non asservita né ad altre scienze né ad altri fini. È fine a se stessa. - È divina perché tratta di realtà divine (le realtà separate, il Dio-Motore immobile). - È beatificante poiché, al di là della religione tradizionale, prospetta una nuova via di salvezza, ossia la sapienza alla quale è attribuito il valore della più eccellente tra le virtù. Solo nella sapienza, nella contemplazione della verità e del sommo bene, l’uomo, attuando la piena realizzazione della più nobile delle proprie facoltà, raggiungerà la felicità e diverrà “uomo beato”. IL METODO - Platone aveva adottato il metodo assiomatico della matematica, ovvero poste le idee e i principi primi, da essi aveva ricavato la sua costruzione metafisica. Nuovo è il metodo assunto da Aristotele, consistente in due momenti: quello dell’astrazione per la formazione dei concetti; quello dell’argomentazione e della discussione per l’elaborazione delle dottrine. .ASTRAZIONE DEI CONCETTI - Per Aristotele la conoscenza umana implica la cooperazione della sensibilità e dell’intelletto. Contro Platone rifiuta la teoria dell’innatismo. L’intelletto è una tabula rasa, un foglio bianco che in sé non reca niente di innato; solo le sensazioni sono in grado di imprimervi dei segni. L’intelletto altro non è che la capacità di formare i concetti; è pura potenzialità che si traduce in atto costruendo i concetti sulla base dei dati sensibili ricevuti dall’esperienza. La gnoseologia aristotelica è intesa 37 estremo, quale ad esempio in Eraclito, nella misura in cui sostiene che ogni cosa muta continuamente e non è mai se stessa finisce col negare qualsiasi consistenza all’essere, ovvero una qualsiasi permanenza della sostanza, risultando così impossibile affermare di una cosa che è questo o quello. PRINCIPIO DI CASUALITÀ - Il principio di non contraddizione basta da solo a garantire le verità di ragione ma non le verità di fatto. È sufficiente per la logica e la matematica, non per la fisica e la metafisica, che operano non solo a livello di concetti ma si occupano dei fenomeni e delle realtà, ricercandone le cause. È necessario pertanto ricorrere ad un altro principio: il principio di causalità. Si deve ad Aristotele la prima definizione organica e la prima giustificazione del principio di causalità, così definito: “Ogni cosa che è mossa, è necessario che sia mossa da qualcos’altro; infatti se non ha in sé il principio del movimento, è chiaro che è mossa da un altro”. A giustificazione del principio causale Aristotele, rimarcando l’assurdo di una cosa parimenti mossa e movente, vale a dire effetto e causa allo stesso tempo, ne fonda in primo luogo la validità sul principio di non contraddizione. In secondo luogo, ad ulteriore sostegno, adduce la già considerata impossibilità che nella serie delle cause si possa retrocedere all’infinito perché, in tal caso, non si troverebbe mai una spiegazione conclusiva; si verrebbe paradossalmente a dire che in realtà non esiste nessuna causa che sia l’origine dell’oggetto indagato. “Se la serie delle cause fosse infinita, sarebbe impossibile il sapere scientifico”. Il regresso all’infinito è dichiarato incompatibile sia nell’ordine gnoseologico che ontologico. ANIMA - Aristotele colloca lo studio dell’anima nell’ambito della psicologia, considerata una parte della fisica in quanto l’anima, definita forma del corpo, è per ciò stesso incorporata nella materia fisica. I corpi viventi sono il sostrato materiale, e quindi potenziale, di cui l’anima è sostanza formale; essa pertanto non è sinolo ma atto. L’anima è definita “entelechia” (fine, scopo) del corpo; essa è la prima attuazione-realizzazione di un corpo che ha la vita in potenza, che potenzialmente può prendere vita per intervento dell’anima. La concezione dell’anima come forma del corpo implica il rifiuto (pars destruens) dei due principali modelli di spiegazione dell’anima dei filosofi precedenti, ossia: - il modello naturalistico-materialistico, per cui l’anima è una sorta di sola materia sia pur “sottile” (gli atomisti); - il modello orfico-pitagorico e platonico, per cui l’anima è sostanza a sé stante, del tutto autonoma e distinta dal corpo. Per Aristotele invece, in quanto forma e attuazione di un corpo, da un lato l’anima non è riducibile al solo corpo né, dall’altro, può tuttavia operare al di fuori del corpo ma solo a contatto con esso. Aristotele, preoccupato che l’unità sostanziale tra anima e corpo comprometta la soluzione del problema dell’immortalità dell’anima, si premunisce affermando che non è da escludere la possibilità di un’esistenza separata dell’anima. Oltre che forma del corpo, l’anima è parimenti concepita come vita; l’anima è la causa primaria in virtù della quale noi viviamo, pensiamo e percepiamo. Anche da questo punto di vista è confermata l’unione sostanziale dell’anima con il corpo e l’insostenibilità della tesi di Platone che faceva entrare l’anima da fuori unendola al corpo in modo accidentale (mito del carro alato). In corrispondenza con le tre principali funzioni vitali, Aristotele, come Platone, distingue tre fondamentali tipi di anima: vegetativa, sensitiva e razionale ma, oltre Platone, fornisce in misura più organica una rappresentazione delle loro reciproche interrelazioni in termini di rapporto di anteriorità e posteriorità (oggi si direbbe emergentismo), per cui ne risulta un ordine funzionale gerarchico. L’anima vegetativa presiede alle funzioni della nutrizione, della riproduzione e dello sviluppo, comuni a tutti gli esseri viventi; l’anima sensitiva regola le funzioni sensitive, percettive e motorie, comuni a tutti gli animali; l’anima razionale consente la funzione intellettiva, propria dell’uomo. Ogni genere di essere animato possiede una sola categoria di anima, quella che gli corrisponde, la quale svolge anche le funzioni di tipo inferiore 40 mentre non vale il contrario; le funzioni superiori assorbono quelli inferiori e non sono ad esse riducibili. ANIMA VEGETATIVA - l’anima vegetativa è il principio più elementare della vita, ossia quello che governa e regola le attività biologiche. Con il suo concetto di anima Aristotele supera nettamente la spiegazione dei processi vitali data dai naturalisti; infatti, secondo lui, causa dell’accrescimento non sono il fuoco né il calore, né in genere la materia, esse al massimo sono concause. In ogni processo di nutrizione e di accrescimento è presente una regola che proporziona grandezza e accrescimento, che il fuoco di per sé non può produrre, e che dunque sarebbe inspiegabile senza qualcos’altro oltre il fuoco, e questa è appunto l’anima. Il fenomeno della nutrizione cessa di essere spiegato come meccanico gioco di rapporti fra elementi simili oppure fra certi elementi contrari: la nutrizione è l’assimilazione del dissimile, resa possibile sempre dall’anima mediante il calore. L’anima vegetativa presiede alla riproduzione, che è lo scopo di ogni forma di vita finita nel tempo. Infatti ogni forma di vita, anche la più elementare, è fatta per l’eternità e non per la morte. ANIMA SENSITIVA - La prima funzione dell’anima sensitiva è la sensazione, che è quella più importante. I filosofi precedenti avevano spiegato la sensazione, alcuni come un’affezione o passione o alterazione che il simile subisce a opera del simile, altri come un’azione che il simile subisce a opera del dissimile. Aristotele procede assai oltre affermando che abbiamo facoltà sensitive che non sono in atto, ma in potenza, cioè capaci di ricevere sensazioni. Esse sono come il combustibile, il quale non brucia se non a contatto con il comburente; e così la facoltà sensitiva, da semplice capacità di sentire, diventa sentire in atto a contatto con l’oggetto sensibile. Nella sensazione viene assimilata solamente la forma: “In generale per ogni sensazione, bisogna tener presente che il senso è ciò che ha la capacità di ricevere le forme sensibili senza la materia come la cera riceve l’impronta dell’anello senza il ferro o l’oro, riceve cioè l’impronta del ferro o dell’oro, ma non in quanto oro e ferro”. Aristotele passa quindi in esame i cinque sensi e i sensibili che sono propri di ciascuno di essi. Quando un senso coglie il sensibile proprio, allora la relativa sensazione è infallibile. Oltre ai “sensibili propri” ci sono anche i “sensibili comuni” che, come ad esempio moto, quiete, figura, grandezza, non sono percepiti da nessuno dei cinque sensi in particolare, ma possono essere percepiti da tutti. Quando il senso agisce in maniera aspecifica, allora può facilmente cadere in errore. Dalla sensazione derivano la fantasia, che è produzione di immagini, e la memoria, che è conservazione della medesima, e l’esperienza, che nasce dall’accumularsi di fatti mnemonici. L’appetito nasce in conseguenza della sensazione: “Tutti gli animali hanno almeno un senso, ossia il tatto; ma chi ha sensazione, sente piacere e dolore e piacevole e doloroso, e chi prova questi ha altresì desiderio: infatti il desiderio è appetito del piacevole”. Il movimento degli esseri viventi deriva dal desiderio: “ Il motore è unico: la facoltà appetitiva”, e precisamente il “desiderio”, che è “una specie di appetito”. E il desiderio è messo in moto dall’oggetto desiderato che l’animale coglie mediante sensazioni. Appetito e movimento dipendono dunque strettamente dalla sensazione. ANIMA INTELLETTIVA -L’atto intellettivo è analogo all’atto percettivo, in quanto è un ricevere o assimilare le “forme intellegibili”, ma differisce perché non è mescolato al corpo e al corporeo: “L’organo dei sensi non sta senza il corpo, mentre l’intelligenza sta per conto suo”. L’intelligenza è capacità, potenza di conoscere le pure forme, che a loro volta sono contenute in potenza nelle sensazioni e nelle immagini della fantasia, occorre pertanto qualcosa che traduca in atto questa doppia potenzialità, in modo che il pensiero si attualizzi cogliendo in atto la forma e che la forma contenuta nella immagine diventi concetto colto e posseduto in atto. 41 Da qui nasce quella distinzione divenuta fonte di innumerevoli problemi e discussioni, fra intelletto potenziale e intelletto attuale (fra intelletto possibile e intelletto attivo). “C’è un intelletto potenziale in quanto diventa tutte le cose e c’è un intelletto agente in quanto tutte le produce, che è come uno stato simile alla luce: infatti anche la luce in un certo senso rende i colori in potenza colori in atto. E questo intelletto è separato, impassibile e non mescolato e intatto per sua essenza: infatti l’agente è sempre superiore al paziente e il principio è superiore alla materia”. L’intelletto attivo è “nell’anima”. Aristotele afferma che “l’Intelletto viene dal di fuori e solo esso è divino”, mentre le facoltà inferiori dell’anima sono già in potenza nel germe maschile e attraverso esso passano nel nuovo organismo che si forma nel seno materno; ma è altrettanto vero che, pur venendo “dal di fuori”, esso rimane “nell’anima” per tutta la vita dell’uomo. L’affermazione che l’intelletto “viene dal di fuori” significa che esso è irriducibile al corpo per sua intrinseca natura, e che è trascendente il sensibile; quindi significa che in noi c’è una dimensione metempirica, soprafisica e spirituale, e questo è il divino in noi, ma se l’intelletto agente non è Dio, esso rispecchia i caratteri del divino. TEORIA DELLA CONOSCENZA - Per Aristotele la conoscenza umana implica la cooperazione della sensibilità e dell’intelletto. L’intelletto è la capacità di formare concetti; è pura potenzialità che si traduce in atto costruendo i concetti sulla base dei dati sensibili ricevuti dall’esperienza. Il processo conoscitivo parte dall’esperienza, dalla conoscenza sensitiva, ma non si esaurisce in essa. Conoscenza sensitiva e conoscenza intellettiva hanno la stessa struttura, in entrambe vi è un elemento passivo e un elemento attivo. Aristotele tratta come passiva la conoscenza sensitiva nella sua mera facoltà di percepire, mentre ne individua l’elemento attivo nello stimolo suscitato dall’oggetto percepito sugli organi sensoriali. Aristotele ricava la celebre teoria dei due intelletti: quello passivo o potenziale e quello attivo o agente. L’intelletto è funzione capace di cogliere nell’immagine offerta dai sensi un’essenza intelligibile, immutabile e universale. Mediante un processo di astrazione, l’intelletto enuclea la forma o sostanza intelligibile delle cose e forma i concetti. In una prima fase il processo astrattivo riunisce insieme immagini di oggetti simili percepiti traendone una rappresentazione schematica, ma diversa da persona a persona secondo le specie da ognuno osservate. L’intelletto avverte tuttavia che nella rappresentazione schematica è in potenza contenuto il concetto (ciò che vi è di essenziale in tutti gli oggetti della medesima specie anche se non osservati). Sennonché, in questo stadio, l’intelletto è considerato come ancora passivo, come sola capacità di formare il concetto (è “tabula rasa”). Per formare i concetti e possederli come pensati occorre che l’intelletto passivo subisca in qualche modo l’azione dei concetti stessi, occorre l’intervento di un intelletto che sia attivo o che diventi tale. L’intelletto attivo ha valenza universale e agisce su quello passivo in modo analogo alla luce. Poiché non individuale, l’intelletto attivo è distinto e separato dal corpo e dall’anima del singolo individuo e si congiunge ad esso solo in modo provvisorio. In quanto universale l’intelletto attivo contiene in atto tutte le verità. L’intelletto attivo è anche immateriale, eterno. Mortale è invece l’intelletto passivo individuale, potenziale e materiale; non separato dal corpo, ma incarnato in esso, infatti viene meno col venir meno del corpo. L’intelletto attivo viene dal di fuori, ha i caratteri dell’eterno e del divino e rimane nell’animo dell’uomo per tutta la sua vita. Tuttavia non coincide col corpo, non ha alcunché di materiale e, dunque, è trascendente rispetto alle cose sensibili. Vuol significare che in noi c’è una dimensione soprasensibile e spirituale, che in noi vi è un che di divino. L’intelletto attivo non è Dio ma possiede i caratteri della divinità. LA FISICA - Nelle opere di fisica Aristotele prende per primo in esame il fenomeno che più di ogni altro caratterizza la natura, vale a dire il continuo mutamento-movimento delle cose sensibili, il loro continuo divenire e trasformarsi. Definisce il mutamento- 42 però posizione nello spazio, ossia solo come punti; infine, noi possiamo considerare le cose anche come unità pure, ossia come entità indivisibili e senza posizione spaziale, ossia come unità numeriche. Gli oggetti matematici non sono né entità reali, né tantomeno qualcosa di irreale. Essi sussistono “potenzialmente” nelle cose sensibili e la nostra ragione li “separa” mediante l’astrazione. Essi sussistono come “separati” solo nella e per la mente e “in potenza” sussistono nelle cose come loro proprietà intrinseche. SCIENZE PRATICHE E POIETICHE - Poliedrico, dopo la classificazione operata in ordine alle varie scienze, Aristotele affronta nel merito lo statuto dell’etica e della politica, scienze pratiche, come pure della retorica e della poetica, incluse nel quadro delle scienze poetiche, così denominate dal greco “poiesis” significante prodotti umani, regalandoci inoltre un amabile saggio sull’amicizia. ETICA (FELICITÀ E RAGIONE) - Aristotele condivide la distinzione tra etica e politica: la prima attiene allo studio del comportamento e del fine dell'uomo come singolo; la seconda allo studio del comportamento e del fine dell'uomo come membro di una società. Tutte le azioni umane tendono a determinati e molteplici fini, molti dei quali sono desiderati soltanto come mezzo in vista di fini superiori. Ma ci deve essere un fine supremo che è desiderato per se stesso e non come mezzo. Questo fine ultimo è la felicità. Per la moltitudine, tuttavia, la felicità è fatta consistere nel piacere e nel godimento, ma ciò rende simili agli schiavi e degni delle bestie. Per alcuni consiste nell'onore, ma l'onore è qualcosa di estrinseco, che in gran parte dipende da chi lo conferisce. Per altri la felicità sta nella ricchezza, ma questa è una vita contro natura perché la ricchezza è solo un mezzo per qualcos'altro e non può valere come fine in sé. Il bene supremo dell'uomo, e quindi la felicità, consiste invece, dice Aristotele, nel perfezionarsi in quanto uomo, nell’esercizio di quell'attività che differenzia e distingue l'uomo da tutti gli altri esseri, ovvero l'attività della ragione. L'uomo che vuole vivere bene deve vivere sempre secondo ragione. Ognuno è felice quando fa bene il suo mestiere. L'indagine sulla felicità diventa quindi un'indagine sulla virtù. Virtù e malvagità dipendono solo dagli uomini, dal loro senso di responsabilità. L'uomo, certo, non sceglie il fine della felicità poiché esso è già in lui per natura; nessuno sceglierebbe di non essere felice. Ma la vera felicità, puntualizza Aristotele, non può essere disgiunta dalla virtù, dalla quale espressamente dipende la scelta dei mezzi idonei in vista di uno stato felice. E la scelta dei mezzi è atto libero, implicante senso di responsabilità, perseguito dal virtuoso e trascurato dal vizioso. Davvero libero è chiamato da Aristotele colui che ha in sé il principio dei suoi atti, che è "principio di se stesso". Il discorso socratico-platonico, ragione=felicità=virtù, è qui recepito in pieno. "Ciascuno è soprattutto intelletto", dichiara Aristotele, anche se egli, col suo robusto senso realistico, riconosce un'utilità anche dei beni materiali. VIRTÙ ETICHE E DIANOETICHE - Nell'animo umano, oltre alla parte razionale, vi è anche la parte dei desideri e delle passioni, distinta dalla ragione ma che può essere dalla ragione diretta. Esistono due virtù fondamentali:1) le virtù etiche, che consistono nel controllo dei desideri e delle passioni da parte della ragione, determinando in tal modo i buoni costumi; 2) le virtù razionali, chiamate in greco virtù dianoetiche, che consistono nell'esercizio stesso e nel miglior uso della ragione. Le virtù etiche si acquisiscono con la ripetizione di una serie di atti successivi, ovvero con l'abitudine ad esercitarle. La virtù diventa così "abito" o modo di essere. Poiché molti sono gli impulsi e le passioni che la ragione deve dominare, molte sono, altrettanto, le virtù etiche, ma tutte hanno una comune essenziale caratteristica. Gli impulsi, le passioni e i sentimenti tendono all'eccesso o al difetto, al troppo o troppo poco; la ragione, intervenendo, deve stabilire la giusta misura, la via di mezzo o "medietà" fra i due eccessi. Il coraggio, ad esempio, è una via di mezzo fra la temerarietà e la viltà; la generosità è il giusto mezzo fra prodigalità e avarizia. Secondo un atteggiamento che rispecchia totalmente la tradizionale saggezza greca, la via di mezzo non è una sorta 45 di mediocrità, ma un "culmine", un valore. La principale tra le virtù etiche è per Aristotele la GIUSTIZIA poiché è capacità di tenere un comportamento virtuoso non solo in rapporto a se stessi ma anche in rapporto agli altri. Con riferimento alla giustizia, in senso generale intesa in come rispetto delle leggi, classica è la distinzione aristotelica tra giustizia distributiva, la quale prescrive che tutti i beni devono essere distribuiti secondo i meriti di ciascuno, e giustizia commutativa, la quale commuta, trasforma le colpe in pene, a seguito della violazione delle leggi e dei contratti che regolano la convivenza sociale. Sulla giustizia è fondato il diritto, distinto fra diritto privato e diritto pubblico. Quest'ultimo è ulteriormente suddiviso in diritto positivo (le leggi scritte) e diritto naturale insito nella stessa natura umana: il diritto alla vita, alla libertà, al rispetto e quant’altro. Le virtù razionali o dianoetiche sono quelle della ragione vera e propria e consistono, si è visto, nell'esercitare la ragione nel modo migliore possibile. Esse sono: - l’arte o la tecnica: capacità di produrre oggetti; - la saggezza: capacità di regolare la condotta pratica e morale secondo il criterio del giusto mezzo; - l’intelligenza: capacità di cogliere i principi primi (postulati-assiomi) di tutte le scienze; - la scienza: capacità dimostrativa deducendo dai principi; - la sapienza: riguardante le cose più alte e universali, le verità e i principi primi che sono al di sopra della realtà sensibile; è il grado più alto della scienza e coincide con la metafisica, ossia con la "filosofia prima" intesa come conoscenza delle cause prime. La saggezza e la sapienza sono le virtù dianoetiche fondamentali. Poiché la felicità è fatta consistere nella virtù, la felicità più alta consisterà allora nella virtù più alta che è, appunto, la SAPIENZA. Il sapiente basta a se stesso. La sua vita è fatta di serenità e di pace poiché egli non si affatica per un fine esterno stante che la sapienza è fine a se stessa. La vita teoretica, quella della sapienza, è di ordine superiore alla vita umana naturale: l'uomo non vive secondo sapienza in quanto uomo, ma in quanto ha in sé qualcosa di divino. Questa assimilazione della vita contemplativa alla vita divina mancava in Platone, atteso che solo in Aristotele compare il concetto di Dio come mente suprema, pensiero di pensiero. Platone inoltre non distingueva la sapienza dalla saggezza. Per Aristotele invece la saggezza ha valore eminentemente pratico, ha per oggetto le faccende umane, che sono mutevoli e non possono essere incluse tra le cose più alte, oggetto della sapienza. Merito dell'etica aristotelica è stato la ricerca di un superamento dell'intellettualismo socratico, riconoscendo che una cosa è conoscere il bene ed altra è farlo, volerlo fare. Non a caso Aristotele ha posto l'attenzione sull'atto della scelta, legato a quello della volontà. Tuttavia, aggiunge, le scelte umane riguardano solo i mezzi e non i fini, i quali non sono oggetto di scelta poiché, a suo avviso, di per sé la volontà vuole sempre il bene o ciò che appare bene. Ciò malgrado, si tratta di una concezione ottimistica non troppo dissimile, invero, da quella socratica, secondo cui chi conosce il bene non può non volerlo. Il forte razionalismo aristotelico non riconosce la libertà- responsabilità di scelta anche degli stessi fini ma soltanto dei mezzi. AMICIZIA E FELICITÀ - Tre sono le cose che l’uomo ama e per cui fa amicizia: l’utile, il piacevole e il buono. Se tre sono i valori che si ricercano, tre dovranno essere anche le forme di amicizia: le prime due forme di amicizia sono le meno valide; anzi, sotto un certo rispetto, sono forme di amicizia estrinseche e illusorie, perché con esse l’uomo ama l’altro uomo non per quello che è bensì per quello che ha; l’amico, in larga misura, viene strumentalizzato ai vantaggi (ricchezza, piacere) che ci offre. L’autentica forma di amicizia è solamente la terza, perché solo con essa l’uomo ama un altro uomo per quello che egli è, ossia per la sua bontà intrinseca di uomo. La vera forma di amicizia è il legame che l’uomo virtuoso stringe con l’uomo virtuoso a motivo della virtù stessa. Aristotele considera l’amicizia come necessaria alla felicità: essa rientra nel novero di quegli stessi beni superiori, dal possesso dei quali dipende la 46 vera felicità. Inoltre, se è vero che l’uomo buono tende più a fare il bene che a non riceverlo, è anche vero che, proprio per questo, ha bisogno di persone cui fare il bene. PIACERE E FELICITÀ - Per Aristotele il piacere non è un mutamento, né in generale un movimento, bensì un’ attività in ogni momento perfetta. Quando noi agiamo o conosciamo, sia sensibilmente sia intellettivamente, traduciamo in atto determinate nostre potenzialità, e queste nostre attività raggiungono (attuano) il loro scopo relativamente all’oggetto che è loro proprio. Proprio perché le nostre attività sono questo oggettivo realizzarsi di potenzialità, costituiscono qualcosa di oggettivamente positivo, e il piacere si accompagna esse come risonanza soggettiva di quel positivo oggettivo. Ogni attività ha un suo piacere; come vi sono attività convenienti e buone e attività sconvenienti e cattive, così vi sono piaceri convenienti e buoni e piaceri sconvenienti e non buoni. All’uomo buono i piaceri appaiono buoni o cattivi per ragioni ben precise di fondo. Esiste un criterio ontologico per discriminare i piaceri superiori da quelli inferiori: i primi sono quelli legati alle attività teoretico- contemplative dell’uomo, i secondi sono invece quelli legati alla vita vegetativo- sensibile dell’uomo. IL PROBLEMA DELLA SCELTA - Aristotele, da buon realista, si era reso conto che conoscere il bene è una cosa ben diversa da fare e attuare il bene e, di conseguenza, ha cercato di determinare i processi psichici che l’atto morale presuppone. Egli ha richiamato l’attenzione soprattutto sull’atto della scelta (proháiresis), che ha collegato strettamente con quello della deliberazione. Quando vogliamo raggiungere determinati fini, noi stabiliamo mediante la “deliberazione” quali e quanti siano i mezzi da mettere in atto per arrivare a quei fini, da quelli più remoti a quelli più prossimi. La scelta opera su questi ultimi, mettendoli in atto. Dunque per Aristotele, la scelta riguarda solo i mezzi, non i fini. L’essere buoni dipende dai fini e i fini non sono oggetto di scelta, ma di volizione. Ma la volontà vuole sempre e solo il bene, o meglio ciò che “appare in veste di bene”. Quindi, per essere buoni, bisogna volere il “bene vero e non apparente”; ma il vero bene lo sa riconoscere solo l’uomo virtuoso, ossia buono. Ciò che Aristotele cerca e non riesce ancora a trovare è il concetto di “libero arbitrio”. Solo con l’avvento del pensiero cristiano l’Occidente scoprirà i concetti di volontà e di libero arbitrio. LA POLITICA - Per Aristotele l'origine della vita sociale è da ricercarsi nel fatto che l'individuo non basta se stesso, non solamente perché non può provvedere da solo ai suoi bisogni ma anche perché da solo, al di fuori di una comunità, l'individuo non può giungere alla virtù. L'uomo, è asserito, è un "animale naturalmente politico": la vita al di fuori della società è solo quella degli esseri inferiori (le bestie) o superiori (gli dei). Per sua propria natura l'uomo è spinto ad aggregarsi in associazioni sempre più ampie: la famiglia, il villaggio, la polis o Stato. Lo STATO è la forma più compiuta di società umana, ma Aristotele non sottovaluta il ruolo dell'individuo e della famiglia. La famiglia e il villaggio soddisfano i bisogni primari dell'uomo: la sopravvivenza individuale e la continuazione della specie. Nelle società antiche la famiglia è anche centro dell'attività economica. Però solo lo Stato, con le sue leggi e col sistema educativo, può garantire la realizzazione delle virtù etiche e quindi la felicità. Sennonché, condividendo il pregiudizio della superiorità dei Greci, Aristotele giunge a dire che, dovendo lo Stato provvedere non solo alla vita materiale ma anche alla vita spirituale, virtuosa e felice, proprio per tale motivo gli schiavi non possono partecipare alla vita politica giacché essi, in quanto tali, sono a suo avviso incapaci, per natura, delle virtù più elevate. Gli schiavi, non esita a dichiarare, sono coloro che non hanno di meglio che usare il loro corpo come strumento di lavoro e come mezzo per soddisfare i bisogni dei cittadini. Non dispongono inoltre di tempo libero, necessario per partecipare alle assemblee e all'amministrazione pubblica. Infine, poiché lo schiavo era spesso un barbaro divenuto prigioniero di guerra, in quanto barbaro già è giudicato di rango inferiore. Sulla scia di Platone, Aristotele distingue tre forme di costituzione, tre forme di Stato: la monarchia: governo di uno solo; l'aristocrazia: governo dei migliori; la polit ì a (oggi democrazia): governo della moltitudine. 47 Secondo Aristotele vi sono arti che completano e integrano la natura, e hanno dunque come fine la pura utilità pragmatica, e vi sono arti invece che imitano la natura stessa, riproducendone o ricreandone alcune aspetti, e i cui fini non coincidono con i fini della mera utilità pragmatica. Platone aveva fortemente biasimato l’arte, appunto perché è mimesi, cioè imitazione di cose fenomeniche; Aristotele si oppone nettamente a questo modo di concepire l’arte, e interpreta la “ mimesi artistica” secondo un’opposta prospettiva, in modo da fare di essa un’attività che, lungi dal riprodurre passivamente la parvenza delle cose, quasi ricrea le cose secondo una nuova dimensione, secondo la quale l’arte imita è quella del possibile e del verosimile. Proprio questa dimensione universalizza i contenuti dell’arte e li solleva a livello universale. Mentre la natura dell’arte consiste nell’imitazione del reale secondo la dimensione del possibile, la finalità di essa consiste nella purificazione delle passioni. Che cosa significa purificazione delle passioni? Il testo originale dice esattamente che ha per effetto la catarsi delle passioni. La catarsi poetica non è certamente una purificazione di carattere morale, ma è altrettanto evidente che essa non può ridursi nemmeno a un fatto puramente fisiologico. È probabile che Aristotele intravvedesse in quella piacevole liberazione operata dall’arte qualcosa di analogo a ciò che noi oggi chiamiamo “piacere estetico”. Platone aveva condannato l’arte anche per il motivo che essa scatena sentimenti ed emozioni, allentando l’elemento razionale che le domina; Aristotele capovolge esattamente l’interpretazione platonica: l’arte non ci carica, ma ci scarica dell’emotività, e quel tipo di emozione che essa ci procura (che è di natura del tutto particolare) non solo non ci nuoce, ma ci risana. FILOSOFIA ROMANA I latini non sono stati dei grandi filosofi speculativi, tipico della mentalità romana è il senso pratico piuttosto che la speculazione, in cui invece eccellevano i greci. Tuttavia dall'ellenismo in poi la filosofia è arrivata anche a Roma e degli illustri latini l'hanno coltivata, sia pure con un taglio eminentemente pratico. 50 Tre sono le correnti filosofiche che attecchirono maggiormente a Roma: l'epicureismo, con Lucrezio, l'Accademia nuova, in una variante eclettica, con Cicerone, e lo stoicismo, con Seneca, Epitteto e Marco Aurelio. EPICUREISMO La prima delle grandi scuole ellenistiche in ordine cronologico, sorse ad Atene verso la fine del IV secolo a.C. a opera di Epicuro. Egli nacque a Samo nel 341 a.C. e morì nel 270 a.C. La sua scuola è l’espressione della novità rivoluzionaria del suo pensiero, non una palestra (simbolo della Grecia classica), ma un edificio con un giardino (anzi un orto) nei sobborghi di Atene. Il Giardino era lontano dal tumulto della vita pubblica cittadina e vicino al silenzio della campagna. Le dottrine che venivano dal Giardino possono riassumersi in poche posizioni generali: - La realtà è perfettamente penetrabile e conoscibile dall’intelligenza dell’uomo; - Nelle dimensioni del reale c’è spazio per la felicità dell’uomo; - La felicità è mancanza di dolore e di turbamento; - Per raggiungere questa felicità e questa pace, l’uomo ha bisogno solo di se stesso; - Sono quindi inutili la città, le istituzioni, la nobiltà, le ricchezze, le cose tutte e perfino gli dei: l’uomo è perfettamente “autarchico”. È chiaro che tutti gli uomini diventano uguali, perché tutti aspirano alla pace dello spirito, tutti ne hanno diritto e tutti possono aspirare a raggiungerla, se vogliono. Di conseguenza, il Giardino volle aprire le sue porte a tutti: a nobili e a non nobili, a liberi e a schiavi, a uomini e a donne, e perfino a prostitute in cerca di redenzione. C’è in Epicuro più di un tratto che richiama le figure del profeta e del santo in dimensione “mondana”. Epicuro è un precursore di Paolo nello “spirito missionario”, non nel contenuto del suo messaggio, giacché quella epicurea è una fede nell’al-di-qua, negatrice di ogni trascendenza e radicalmente legata alla dimensione del “naturale” e del “fisico”. Gli esiti metafisici della platonica “seconda navigazione” sono radicalmente contestati e negati, così come tutti gli sviluppi aristotelici. FISICA EPICUREA - I fondamenti della fisica epicurea possono essere formulati come segue: “Nulla nasce dal non essere”, perché altrimenti ogni cosa potrebbe assurdamente generarsi da qualsiasi cosa senza bisogno di nessun seme generatore; e nessuna cosa si dissolve nel nulla, perché altrimenti, a questo momento, tutto sarebbe ormai perito e nulla più sarebbe. E poiché nulla nasce e nulla perisce, così il tutto, cioè la realtà nella sua totalità, fu sempre quale ora è, e sarà tale sempre. Questo “tutto” (la totalità della realtà) è determinato da due costitutivi essenziali: i corpi e il vuoto. L’esistenza dei corpi è provata dai sensi stessi, mentre l’esistenza dello spazio e del vuoto è inferita dal fatto che esiste il movimento; infatti, perché ci sia movimento, è necessario che ci sia uno spazio vuoto in cui i corpi possano spostarsi. Il vuoto non è assoluto non essere, ma appunto “spazio” o “natura intangibile”. La realtà secondo Epicuro è infinita. In primo luogo, è infinita come totalità; ma è evidente che, perché il tutto possa essere infinito, infinito deve essere ciascuno dei suoi principi costitutivi: infinita dovrà essere la moltitudine dei corpi e infinita l’estensione del vuoto (se fosse finita la moltitudine dei corpi, questi si disperderebbero nell’infinito vuoto e, se fosse finito il vuoto, questo non potrebbe accogliere gli infiniti corpi). Alcuni corpi sono composti, altri semplici e assolutamente indivisibili, gli atomi. L’ammissione di atomi si rende necessaria perché, nel caso contrario, bisognerebbe ammettere una divisibilità all’infinito dei corpi, la quale porterebbe, al limite, alla dissoluzione delle cose nel non essere, il che è assurdo. DIFFERENZE ATOMISMO DI EPICURO vs DEMOCRITO - Gli antichi atomisti indicavano come caratteristiche essenziali dell’atomo la figura, l’ordine e la posizione; Epicuro, invece, indica come caratteristiche essenziali la figura, il peso e la grandezza. Le forme differenti degli atomi (sono sempre e solo forme quantitativamente differenti e non qualitativamente diverse come quelle platoniche o aristoteliche, dato che gli 51 atomi sono tutti di natura identica) risultano necessarie per spiegare le diverse qualità fenomeniche delle cose che ci appaiono. Lo stesso vale per la grandezza degli atomi; le forme atomiche infatti devono essere diversissime e numerosissime, ma non infinite (per essere infinite dovrebbero poter variare all’infinito la grandezza; ma allora diverrebbero visibili, il che non accade), mentre è infinito il numero degli atomi in generale. Una seconda differenza consiste nell’introduzione della teoria dei “minimi”. Secondo Epicuro tutti quanti gli atomi, dai più grandi ai più piccoli, sono fisicamente e ontologicamente indivisibili; tuttavia, lo stesso fatto di essere corpi dotati di figura e quindi di estensione e con grandezze diverse implica che essi abbiano delle parti; ovviamente si tratterà di “parti” ontologicamente non separabili, ma solo logicamente e idealmente distinguibili, appunto perché l’atomo è strutturalmente indivisibile. E anche la grandezza di queste “parti” dell’atomo dovrà arrestarsi a un limite, che Epicuro chiama appunto “minimo” e che costituisce, come tale, l’unità della misura. Epicuro parla dei “minimi” in riferimento non solo agli atomi, ma anche allo spazio (al vuoto), al tempo, al movimento e alla “declinazione” degli atomi. La terza differenza riguarda la concezione del moto originario degli atomi. Un moto di caduta verso il basso nell’infinito spazio, dovuto appunto al peso degli atomi, come un moto velocissimo quanto il pensiero e uguale per tutti gli atomi, pesanti o leggeri che siano. Epicuro introdusse la teoria della “declinazione” degli atomi (clinamen), secondo cui gli atomi possono deviare in qualsiasi momento del tempo e in qualsiasi punto dello spazio per un intervallo minimo dalla linea retta e così incontrare altri atomi. Dagli infiniti principi atomici derivano mondi infiniti (INFINITÀ DEI MONDI) . Tutti questi infiniti mondi nascono e si dissolvono, alcuni più rapidamente, altri più lentamente, nella durata del tempo. Perciò non solo i mondi sono infiniti nell’infinitudine dello spazio, in un dato momento del tempo, ma sono anche infiniti nell’infinita successione temporale. Malgrado in ogni istante vi siano mondi che nascono e mondi che muoiano, Epicuro può ben affermare che il tutto non muta, infatti, non solo gli elementi costitutivi dell’universo rimangono perennemente quali sono, ma anche tutte le loro possibili combinazioni rimangono sempre attuate. Alla radice di questa costituzione di infiniti universi non sta dunque, alcuna Intelligenza, alcun progetto, alcuna finalità; e neppure sta la Necessità, ma il clinamen e il casuale e il fortuito. ANIMA E DEI - L’anima, come tutte le altre cose, è un aggregato di atomi, formato in parte di atomi ignei, aeriformi e ventosi, i quali costituiscono la parte irrazionale e alogica dell’anima, e in parte di atomi che sono “diversi” dagli altri e che non hanno un nome specifico, i quali costituiscono la parte razionale; quindi l’anima, come tutti gli altri aggregati, non è eterna, ma mortale. Sull’esistenza di dei, Epicuro non nutre alcun dubbio, ma nega invece che essi si occupino degli uomini o del mondo; essi vivono beati negli “intermondi”, ossia negli spazi esistenti fra mondo e mondo; sono numerosissimi, parlano una lingua simile al greco (la lingua dei saggi) e trascorrono la vita nella gioia, alimentata dalla loro sapienza e dalla loro compagnia. Epicuro adduce addirittura argomenti per dimostrare l’esistenza di dei: - Noi abbiamo di essi una conoscenza evidente e quindi inoppugnabile; - Tale conoscenza è posseduta non solo da alcuni, ma da tutti gli uomini di ogni tempo e luogo; - La conoscenza che di essi abbiamo, così come ogni altra nostra conoscenza, non può essere prodotta se non da “simulacri” o “effluvi” che da essi provengono, e quindi, è oggettiva. È molto importante rilevare il fatto che Epicuro, come sottolinea la “diversità” degli atomi che costituiscono l’anima razionale rispetto a tutti gli altri, così ammette che la conformazione degli dei “non è corpo, ma quasi corpo, non è anima, ma quasi anima”. ETICA EPICUREA - EDONISMO (bene e piacere) - I cirenaici sostenevano che il piacere è un “movimento dolce”, mentre il dolore un “movimento violento”, e negavano che lo stato di quiete intermedio, ovvero l’assenza di dolore, fosse piacere. Epicuro non solo 52 moralmente indifferenti. Fra le cose moralmente indifferenti vengono collegate sia le cose fisicamente e biologicamente positive, come vita, salute, bellezza, ricchezza ecc., sia quelle fisicamente e biologicamente negative come morte, malattia, bruttezza, povertà, l’essere schiavo, imperatore ecc. La legge generale della oikéiosis, ovvero il principio della conservazione di se medesimi, implicava che si dovesse riconoscere come positivo tutto ciò che conserva e incrementa il proprio essere, anche al semplice livello fisico e biologico; e così non solo per gli animali, ma altresì per gli uomini, si doveva riconoscere come positivo tutto ciò che è conforme alla natura fisica e che garantisce, conserva e incrementa la vita, come ad esempio la salute, la forza, la vigoria del corpo e delle membra. Questo positivo secondo natura, gli stoici lo chiamarono valore o stima, mentre l’opposto negativo lo chiamarono mancanza di valore o mancanza di stima. Pertanto quegli intermedi che stanno fra i beni e i mali cessano di essere del tutto indifferenti, o meglio, pur restando moralmente indifferenti diventano, dal punto di vista fisico, “valori” e “disvalori”; di conseguenza, da parte della nostra natura animale i primi saranno oggetto di “preferenza”, i secondi saranno invece oggetto di “avversione”. Nasce così una seconda distinzione, strettamente dipendente dalla prima, degli indifferenti “ preferiti” e di quelli “non preferiti” o “respinti”. AZIONI PERFETTE E DOVERI - Le azioni umane compiute in tutto e per tutto secondo il logos si chiamano “azioni moralmente perfette”, quelle contrarie sono “azioni viziose o errori morali”, ma tra le prime e le seconde c’è tutta una fascia di azioni che concernono gli “indifferenti”. Quando queste azioni sono compiute “conformemente a natura”, vale a dire in modo razionalmente corretto, esse hanno una piena giustificazione morale e si chiamano quindi azioni convenienti o doveri. La maggior parte degli uomini, che è incapace di azioni “moralmente perfette” (perché, per compiere queste, occorre acquistare la scienza perfetta del filosofo), è invece capace di “azioni convenienti”, ossia è capace di assolvere dei “doveri”. Ciò che le leggi comandano sono dei “doveri”, che nel saggio, grazie alla perfetta disposizione del suo spirito, diventano vere e proprie azioni morali perfette, mentre nell’uomo comune restano appunto a livello di “azioni convenienti” (kathekon). UOMO/ANIMALE COMUNITARIO - L’uomo è spinto dalla natura a conservare il proprio essere e ad amare se stesso; ma questo istinto primordiale non è finalizzato solo alla conservazione dell’individuo, l’uomo infatti estende immediatamente l’oikéiosis ai suoi figli e ai suoi parenti e mediamente a tutti i suoi simili. Da essere che vive nel chiuso della sua individualità, l’uomo torna a essere “ animale comunitario” e la formula nuova dimostra che non si tratta di una semplice ripresa del pensiero aristotelico, che definiva l’uomo come “animale politico”, ma con lo stoicismo l’uomo, più ancora che per associarsi in una polis (da cui appunto viene il termine “politico”), è fatto per consociarsi con tutti gli uomini ( ideale fortemente cosmopolitico). SUPERAMENTO CONCETTO SCHIAVITÙ - La nobiltà è detta cinicamente “scoria e raschiatura dell’uguaglianza”, inoltre tutti i popoli sono dichiarati capaci di giungere alla virtù. L’uomo viene proclamato strutturalmente libero, infatti, secondo lo stoicismo, nessun uomo è per natura schiavo. I nuovi concetti di nobiltà, di libertà e di schiavitù vengono interiorizzati collegandoli alla saggezza e all’ignoranza: vero libero è il saggio, vero schiavo è lo stolto. APATIA STOICA - Le passioni, da cui dipende l’infelicità dell’uomo, sono per gli stoici errori della ragione o comunque conseguenze di essi. Esse devono essere distrutte, estirpate, sradicate totalmente. Il saggio, curando il suo logos, e facendolo essere il più possibile retto, non lascerà neppure nascere nel suo cuore le passioni o le annienterà nel loro stesso nascere. È questa la celebre apatia stoica, cioè il toglimento e l’assenza di ogni passione, la quale è sempre e solo turbamento dell’animo. La felicità è apatia, impassibilità. 55 Il saggio si muoverà fra i suoi simili in atteggiamento di totale distacco, sia quando farà politica, sia quando si sposerà, sia quando si curerà dei figli, sia quando contrarrà amicizie, e finirà così per estraniarsi alla vita stessa. SCETTICISMO PIRRONE DI ELIDE - Pirrone di Elide, a partire dal 323 a.C., diffuse il suo verbo “scettico”. Per Pirrone una vita felice sta, precisamente, nella convinzione che sia possibile vivere “con arte”, anche senza la verità e senza i valori. Egli non ha lasciato nulla di scritto, ma il suo discepolo Timone dice che colui che vuole essere felice deve considerare tre cose (tre capisaldi del pirrorismo): - In primo luogo, qual è la natura delle cose. Pirrone mostra che le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili e indiscriminabili e per questo né le nostre sensazioni né le nostre opinioni possono essere vere oppure false. - In secondo luogo, in quale modo dobbiamo disporci nei confronti di esse . Non bisogna accordare a esse fiducia, ma bisogna essere senza opinione, senza inclinazione, senza agitazione, affermando di ciascuna cosa che è non più di quanto non è, oppure che è e che non è, oppure che né è né non è. - In terzo luogo, che cosa risulterà a coloro che si trovano in questa disposizione. Questi conseguiranno l’afasia e poi l’atarassia. Dei tre capisaldi, il più difficile da interpretare è il primo. Le cose stesse sono indifferenziate, immisurate e indiscriminate e, proprio “in conseguenza di questo”, sensi e opinioni non possono né dire il vero né dire il falso, quindi, sono le cose che rendono sensi e ragioni incapaci di verità e di falsità, e non viceversa. Pirrone ha dunque negato l’essere e i principi dell’essere e ha risolto tutto nell’”apparenza”. Questo “fenomeno” (“apparenza”) è stato trasformato dagli scettici posteriori nel fenomeno inteso come apparenza di un qualcosa che è al di là dell’apparire (ossia di una “cosa in sé”), e da questa trasformazione sono state tratte numerose deduzioni che non sembrano essere presenti in Pirrone. Le cose, secondo Pirrone, risultano pure apparenze in funzione della contrapposizione alla “natura del divino e del bene”. Misurato con il metro di questa “natura del divino e del bene” tutto appare a Pirrone come irreale, e come tale è da lui “vissuto” anche praticamente. Se le cose sono “indifferenti”, “immisurabili” e “indiscernibili” e se, per conseguenza, senso e ragione non possono dire né vero né falso, l’unico atteggiamento corretto che l’uomo può assumere è quello di non dare alcuna fiducia ai sensi né alla ragione, ma restare senza opinione, ovvero astenersi dal giudizio e, di conseguenza, restare senza alcuna inclinazione e senza agitazione, quindi non lasciarsi scuotere da alcuna cosa, restare indifferenti. Pirrone parla di astensione dal giudizio (epoché). L’afasia comporta l’atarassia e l’imperturbabilità, ossia la mancanza di turbamento, la quiete interiore, “la vita più eguale”. Lo “spogliare completamente l’uomo” è la realizzazione dell’impassibilità del saggio, è il vivere quella “vita egualissima”, che scaturisce dalla “natura del divino e del bene che è eterna”, nella misura in cui è superamento delle apparenze e annullamento di tutti i loro contraddittori effetti su di noi. ECLETTISMO A partire dal II secolo a.C. si fa sempre più forte la tendenza all’Eclettismo (termine derivato dal greco ek-léghein, che significa “trascegliere e riunire, prendendo da varie parti”), che mirava a fondere insieme e a riunire il meglio (o ciò che era ritenuto tale) delle varie scuole. Tutte le scuole ne furono contagiate. Il Giardino ne risenti poco, a causa dell’impostazione chiusa a qualsiasi discussione e possibilità di modificazione data da 56 Epicuro; invece, la totale disponibilità all’istanza eclettica si ebbe con l’Accademia che, ancora una volta, inverti la rotta, ripudiando il radicale Scetticismo. Le tendenze eclettiche si consolidarono con l’introdursi e il diffondersi della filosofia greca a Roma. A Roma infatti, la filosofia fu accolta solo nella misura in cui poteva essere suscettibile di applicazioni pratiche ed educative, cioè in quanto poteva completare la cultura e la formazione spirituale dell’uomo. La forma più tipica dell’Eclettismo fu la filosofia di Cicerone. L’Eclettismo fu introdotto ufficialmente nell’Accademia da Filone di Larissa. “Filone affermava che, quanto al criterio stoico, cioè alla rappresentazione catalettica, le cose sono incomprensibili; ma quanto alla natura delle cose stesse, comprensibili”. Il passo, stando all’interpretazione di Cicerone, direbbe questo: il criterio di verità stoico (la rappresentazione comprensiva) non regge, e poiché non regge il criterio stoico, che è il più raffinato, nessun criterio regge; ciò non implica, tuttavia, che le cose siano “oggettivamente incomprensibili”; esse sono semplicemente “da noi incomprese”. Lo scettico non può dire “la verità esiste, sono io che non la conosco”, ma può solo dire “io non so se la verità esiste; so, in ogni caso, che non la conosco”. Antioco, discepolo di Filone, criticò la dottrina di Carneade, la quale diceva: - Ci sono rappresentazioni false (che quindi non danno luogo ad alcuna certezza); - Non ci sono rappresentazioni vere che si distinguono perfettamente da quelle false per un loro carattere specifico (e quindi non si possono distinguere rappresentazioni certe e non certe). Ma Antioco obiettò quanto segue, affermando che la prima proposizione (che ammette con nettezza la possibilità di distinguere rappresentazioni false) contraddice la seconda (che dice il contrario) e viceversa; se si accetta la prima, cade la seconda, e se si accetta la seconda, cade la prima; in ogni caso, resta scossa alla base la posizione carneadea. La posizione di Filone è diversa e anche Cicerone fa sua: non bisogna sopprimere totalmente la verità e bisogna ammettere la distinzione di vero e falso; tuttavia non abbiamo un criterio che ci porti a questa verità e quindi alla certezza, ma abbiamo solo apparenze, che ci danno la probabilità. Noi alla percezione certa del vero oggetto non perveniamo, ma a essa ci avviciniamo con l’evidenza del probabile. Nasce così un nuovo concetto di “probabile”, perché esso viene caricato di una valenza decisamente positiva, che deriva dall’ammissione dell’esistenza della verità. Dalle due proposizioni stoiche (1. c’è il vero; 2. c’è un criterio per cogliere il vero), Carneade nega sia l’una sia l’altra; Filone solo la seconda. Ma proprio l’ammissione della prima cambia senso alla negazione della seconda, e soprattutto modifica la valenza del “probabile” che, posto accanto a un vero oggettivo, ne diventa in qualche modo il riflesso positivo. CICERONE - Come Filone e Antioco sono i maggiorii rappresentanti dell’Eclettismo in Grecia, così Cicerone è il più caratteristico rappresentante dell’Eclettismo a Roma. Filone elabora un Eclettismo decisamente dogmatico, Antioco un Eclettismo cautamente e moderatamente scetticheggiante. Cicerone rimane un gradino sotto i due filosofi, non presentando alcuna novità che sia paragonabile al probabilismo positivo del primo o alla critica antiscettica del secondo. Però Cicerone è di gran lunga il più efficace, il più vasto e il più cospicuo ponte attraverso il quale la filosofia greca si è riversata nell’area della cultura romana, e da qui, in tutto l’Occidente: e anche questo è un merito non teoretico, ma di mediazione, di diffusione e di divulgazione culturale. NEOSTOICISMO STOICISMO ROMANO - L’ultima grande fioritura dello Stoicismo ebbe luogo a Roma in età imperiale, dove assunse caratteri peculiari e specifici, tanto che gli storici della filosofia concordemente usano il termine Neostoicismo per designarla. Proprio le caratteristiche generali dello spirito romano, il quale sentiva come veramente essenziali solo i problemi pratici e non quelli puramente teoretici, insieme 57 vero io, il rifugio sicuro in cui dobbiamo ritirarci per difenderci da qualsiasi pericolo e per trovare le energie necessarie per vivere una vita degna di uomini. L’egemonico, cioè l’anima intellettiva, che è il nostro Demone, è invincibile, se vuole; nulla lo può ostacolare, nulla lo può piegare, nulla lo può colpire, né fuoco né ferro, né violenza di sorta, se esso non vuole; solo il giudizio che esso emette sulle cose lo può colpire, ma allora non sono le cose che lo affliggono, ma le false opinioni che egli stesso ha prodotto. Il nous è il rifugio che dà all’uomo la pace assoluta. “E ancora è dell’anima razionale amare il prossimo, il che è verità e umiltà”. Anche il sentimento religioso in Marco Aurelio va molto più in là di quello della vecchia Stoà. “Rendere grazie agli dei dal profondo del cuore”, “avere sempre nella mente dio”, “invocare gli dei”, “vivere con gli dei”. Con Marco Aurelio lo Stoicismo celebrò indubbiamente il suo più alto trionfo. NEOPLATONISMO PLOTINO - Plotino entrò a far parte del circolo di Ammonio nel 232 d.C. Plotino dal 254 d.C. iniziò a scrivere trattati. Il discepolo Porfirio ordinò questi trattati, che sono in tutto 54, dividendoli in sei gruppi di nove, lasciandosi guidare dal significato metafisico del numero nove, dal titolo di Enneadi (ennea in greco significa “nove”). Plotino morì nel 270 d.C. La Scuola di Plotino probabilmente non assomigliava a nessuna delle precedenti. Platone aveva fondato l’Accademia per poter formare, tramite la filosofia, uomini che avrebbero dovuto rinnovare lo Stato; Aristotele aveva fondato il Peripato per organizzare la ricerca del sapere; Pirrone, Epicuro, Zenone avevano fondato i loro movimenti spirituali per dare agli uomini l’atarassia, ossia la pace e la tranquillità dell’anima. La Scuola di Plotino voleva invece insegnare agli uomini il modo di sciogliersi dalla vita di quaggiù per riunirsi al divino, e poterlo contemplare, fino al culmine di una trascendente “unione estatica”. UNO (prima ipostasi)- Secondo Plotino ogni ente è tale in virtù della sua unità. Vi sono principi di unità a diversi livelli, ma tutti suppongono un principio supremo di unità, che egli denomina Uno, concepito come infinito. Plotino scopre l’infinito nella dimensione dell’immateriale e lo caratterizza come illimitata potenza produttrice; di conseguenza, poiché l’essere, la sostanza e l’intelligenza erano stati concepiti nella filosofia classica come finiti, Plotino pone il suo Uno al di sopra dell’essere e dell’intelligenza. L’Uno è una ipostasi, cioè una sostanza, che trascende lo stesso Essere. L’Uno non può essere inteso come Idea nel senso platonico, perché per Platone forma ed essenza implicano limite, invece Plotino sente la necessità di porre l’Uno al di sopra dell’essere e del pensiero, esso trascende non solo il mondo fisico, ma anche ogni forma di finitudine. Plotino tende a dare dell’Uno caratterizzazioni e definizioni prevalentemente negative, infatti, in quanto infinito, a esso non si addice alcuna delle determinazioni del finito, che sono tutte posteriori. L’Uno è contemporaneamente tutto e nulla di tutto, dal 60 momento che tutte le altre cose sono determinate e definite al di sotto del principio, che quindi non può essere caratterizzato da nessuna di esse. L’altro termine che Plotino usa più di frequente per designare il principio assoluto è Bene (agath ó n ). Si tratta del Bene in sé, non di qualcosa che ha il Bene, ma che è il Bene stesso. L’Uno è al di sopra dell’essere, del pensiero e della vita; ciò non significa che l’Uno è non-essere, non-pensiero, non-vita, ma piuttosto che, come principio infinito da cui deriva l’essere, il pensiero e la vita, l’Uno è assolutamente superiore a questi suoi prodotti: per questo in qualche caso Plotino definisce l’Uno come Super-essere, Super- pensiero, Super-vita. L’Uno assoluto, dunque, è causa di tutto il resto. Plotino ritiene che l’Uno è attività autoproduttrice, è il Bene che crea se stesso. Egli è come ha voluto essere. E ha voluto essere così com’è, perché è quanto di più alto si possa immaginare. La derivazione delle cose dall’Uno è rappresentata come l’irraggiarsi di una luce da una fonte luminosa in forma di cerchi successivi. Altre immagini sono quelle del fuoco che emana calore, quella della sostanza odorosa che emana profumo, quella della sorgente inesauribile che genera fiumi, dei cerchi concentrici che si espandono via via da un unico centro; ma queste sono immagini che illustrano solamente un punto della dottrina, ovvero che l’Uno produce tutte le cose restando fermo, e quindi permanendo, genera, nel senso che il suo generare non lo impoverisce e non lo condiziona in alcun modo. Esiste un’attività dell’Uno, che è quella per cui l’Uno è Uno e rimane Uno. L’attività dell’Uno consiste nell’autoporsi dell’Uno, nella libertà autocreatrice dell’Uno, e quindi è per eccellenza libera; invece l’attività che procede dall’Uno è una necessità che dipende da un “atto di libertà”. Questo è sufficiente a far capire che non si può parlare di emanazione, ma che si deve parlare di processione delle cose dall’Uno, e che la processione, non è mera necessità del tipo usuale, perché consegue alla suprema attività che è assoluta libertà. NOUS o SPIRITO (seconda ipostasi) - Dalla prima suprema realtà o ipostasi deriva la seconda, che Plotino chiama Nous, ovvero l’intelligenza suprema aristotelica che contiene in sé l’intero mondo platonico delle Idee, cioè l’Intelligenza che pensa la totalità degli intellegibili. La traduzione di Nous con Intelletto impoverisce l’originale significato del termine, quindi è più corretto tradurre il termine con Spirito, intendendo con esso l’unione del supremo Pensiero e del supremo Pensato. Nascita dello Spirito: l’attività che procede dall’Uno è come una potenza informe (una sorta di “materia intellegibile”), che per sussistere, deve a) rivolgersi a contemplare il principio da cui è derivata e fecondarsi o riempirsi di Esso; b) deve rivolgersi su se medesima e contemplarsi, così ripiena e feconda. Nel primo momento, nasce l’essere o sostanza o contenuto del pensiero; nel secondo momento, nasce il pensiero vero e proprio. Nasce così anche la molteplicità (dualità) di pensiero e di pensato, e anche la molteplicità nel pensato, dato che lo Spirito, quando guarda sé fecondato dall’Uno, vede in sé la totalità delle cose, ovvero la totalità delle Idee. Mentre l’Uno è la potenza di tutte le cose, lo Spirito diventa tutte le cose, o l’esplicazione di tutte le cose, a livello ideale. Il mondo platonico delle Idee è il Nous, lo Spirito. Lo Spirito plotiniano diventa così, l’Essere per eccellenza, il Pensiero per eccellenza, la Vita per eccellenza. È cosmo intellegibile in cui in ogni Idea si riverbera il Tutto, e in cui viceversa, nel Tutto si riflette ogni Idea. ANIMA (terza ipostasi) - Come l’Uno se vuole pensare deve farsi Spirito, così se vuole creare un universo e un cosmo fisico, deve farsi Anima. L’Anima deriva dallo Spirito come questo deriva dall’Uno. Plotino distingue un’attività dello Spirito, che è quella che lo fa essere tale, un’attività che procede dallo Spirito. Il risultato dell’attività che procede dallo Spirito non è immediatamente Anima. Anche la potenza che procede dall’attività dello Spirito si rivolge a contemplare lo Spirito stesso, e così, rivolgendosi 61 allo Spirito, l’Anima trae la propria sussistenza (ipostasi) e, attraverso lo Spirito, vede l’Uno ed entra in contatto col Bene medesimo. La natura specifica dell’Anima non consiste nel puro pensare (altrimenti non si distinguerebbe dallo Spirito), ma nel dar vita a tutte le altre cose che sono, ovvero a tutte le cose sensibili, nell’ordinarle, reggerle e governarle. L’Anima è principio di movimento ed è essa stessa movimento. Essa è “l’ultima dea”, l’ultima realtà intellegibile, la realtà che confina con il sensibile, essendone essa stessa causa. L’Anima ha una posizione intermedia, e pertanto ha come “due facce”, perché, nel generare il corporeo, pur continuando a essere e a permanere realtà incorporea, entra in contatto con il corporeo da lei prodotto, ma non al modo del corporeo. Essa può entrare in ogni parte del corporeo “senza deflettere dalla unità del suo essere”, e quindi può trovarsi tutta in tutto. L’Anima è divisa e indivisa, una e molteplice. L’Anima, pertanto, è “uno e molti”. Per Plotino, la pluralità dell’Anima è sia “orizzontale” sia “verticale”, nel senso che prevede una gerarchia. In primo luogo, c’è l’Anima suprema, l’Anima come pura ipostasi che resta in stretta unione con lo Spirito da cui proviene; viene poi l’Anima del tutto, che è l’Anima in quanto creatrice del mondo e dell’universo fisico; infine ci sono le Anime particolari, quelle che “scendono” ad animare i corpi, gli astri e i viventi tutti. Strettamente connessa all’Anima del Tutto è la physis o natura, che costituisce il lembo estremo della medesima. In Plotino la natura è l’attività produttrice delle forme del sensibile propria dell’Anima, ed è essa stessa una forma di contemplazione, in quanto l’Anima è produttrice di forme della materia solo nella misura in cui è visione o contemplazione di forme che derivano mediamente, dallo Spirito e dalle Idee dello Spirito. PROCESSIONE DEL COSMO FISICO - Dopo l’Anima e al di sotto di essa si estende il mondo del corporeo e del sensibile, l’universo fisico. Plotino tenta di dedurre la materia. La materia sensibile deriva dalla sua causa come possibilità ultima, ovvero come estrema tappa di quel processo in cui la forza produttrice si indebolisce fino a esaurirsi. In tal modo la materia sensibile diventa esaurimento totale e quindi privazione estrema della potenza dell’Uno (e perciò dell’Uno) o, in altri termini, privazione del Bene (che coincide con l’Uno). La materia è male, male inteso non come forza negativa che si opponga al positivo, ma semplicemente è mancanza o “privazione” del positivo. Essa è detta anche non essere, “perché è diversa dall’essere, e giace al di sotto di lui”. La materia nasce non dall’anima suprema, interamente attiva nella contemplazione, ma dal lembo estremo dell’Anima dell’universo, in cui la contemplazione si affievolisce, nella misura almeno in cui l’Anima si rivolge più a sé che non allo Spirito. Questa contemplazione illanguidita è qualitativamente omogenea rispetto a quella dell’Anima superiore, ma quantitativamente più debole; così la materia, prodotto di questa attività contemplatrice illanguidita, non ha più la forza di rivolgersi verso chi l’ha generata e di contemplare a sua volta; così tocca all’Anima stessa sorreggerla, ordinarla, informarla, tenerla agganciata all’essere. Il mondo fisico nasce così: prima l’Anima pone la materia, che è come l’estremità del cerchio di luce che diviene oscurità; successivamente dà forma a questa a questa materia, quasi squarciandone l’oscurità e recuperandola, nella misura del possibile, alla luce. La prima azione dell’Anima consiste nell’affievolirsi della contemplazione, la seconda nell’estrema riscossa della contemplazione stessa. Il mondo fisico è uno specchio di forme, che a loro volta, sono il riverbero delle Idee, e così tutto è forma e tutto è logos. Il passaggio dal mondo intellegibile al mondo sensibile comporta il passaggio dall’essere al divenire, dall’eternità alla temporalità. La temporalità nasce dall’attività stessa con cui l’Anima crea il mondo fisico (qualcosa che è altro dall’Intellegibile che è nella dimensione dell’eterno). L’Anima, colta da “desiderio di trasferire in un diverso la visione di lassù”, esce dall’unità, avanza e si distende in un prolungamento e in una serie di atti che si 62 c'è da notare come la Chiesa ha anche in quei casi affermato che tra fede e ragione non ci può essere contrasto, osservando come tanto nel caso dell'eliocentrismo quanto in quello dell'evoluzionismo non vi fossero ancora prove scientifiche certe. L'atteggiamento non è stato “non se ne parla nemmeno” (invitando a credere ciecamente), ma piuttosto: “dateci delle prove, come finora non avete fatto”. Il Bellarmino ad esempio è esplicito in questo senso (vedi la scheda su Galileo). In effetti la Chiesa ha sostenuto che tra fede e ragione c'è armonia e complementarità, e che, se si danno casi di apparente contrasto, è necessariamente perchè uno dei due termini non è inteso rettamente, ossia si pretende che sia dogma qualcosa che dogma non è, oppure che sia scienza qualcosa che scienza non è. Non è che le due conoscenze siano sullo stesso piano: per l'uomo concreto l'assoluto reale è la fede, ma si tratta di una fede di cui uno deve continuamente cercare le ragioni, nella adeguatezza alla domanda di felicità cui la proposta di fede dice di rispondere. Per questo la Chiesa ha condannato due eccessi opposti, relativamente al problema del rapporto fede/ragione, ossia il razionalismo, che riduce la fede, e il fideismo, che comprime la ragione. GNOSI - Il razionalismo, nei primi secoli del Cristianesimo, assume essenzialmente la forma della gnosi, ossia quella impostazione che pur non rinnegando formalmente la fede, la ritiene semplicemente un momento provvisorio di un cammino che alla fine porta la ragione alla piena comprensione di ogni mistero. Per la gnosi alla fede si fermano i semplici, il popolo ignorante, ma il saggio gnostico sa che il livello delle fede, fatto di immagini simboliche, può e deve essere oltrepassato, per giungere al nucleo puramente razionale da tali simboli adombrato. FIDEISMO - In qualche modo è l'eccesso opposto al razionalismo: per il fideismo la purezza della fede sarebbe contaminata dalla ragione. Basta credere, non occorre ragionare, anzi il ragionare appesantisce e corrompe la fede. Emblematico di questo atteggiamento, condannato, come dicevamo, dalla Chiesa non meno duramente del razionalismo, fu nei primi secoli Tertulliano. Per tale autore non ci può essere alcuna utilità nella cultura classica. La fede (“Gerusalemme“) non avrebbe, per Tertulliano, niente a che spartire con la ragione (“Atene”), e con la filosofia e la cultura classiche. Grazie alla sua impostazione il Cristianesimo ha consentito più di un millennio di incontro tra fede e ragione, tra fede e filosofia. Dal III secolo fino al XIV/XV secolo la cultura filosofica occidentale è stata profondamente intrisa di elementi cristiani, senza perciò venir meno alla sua natura di ricerca razionale spregiudicata. E anche nei secoli seguiti al cosiddetto Medioevo la filosofia, pur allontanandosi progressivamente dalle sue radici cristiane, si è comunque nutrita dell'eredità cristiana: il tema del primato della soggettività umana sulla natura, quello della giustizia sociale, quello della eguaglianza tra uomo e donna e tra tutti gli uomini, senza distinzione di razza, non sarebbero comprensibili al di fuori di una matrice cristiana. E infatti storicamente non si trovano in altre civiltà. DEBITO DELLA FILOSOFIA ALLA FEDE - Molti sono gli elementi che il pensiero filosofico occidentale deve al Cristianesimo. Per la prima volta il divino non viene visto come finito, ma come infinita perfezione, e questo mistero infinitamente perfetto è un Tu, un Tu per la prima volta non minaccioso o invidioso (ricordiamo come ad esempio Epicuro vedesse invece nel divino essenzialmente un pericolo da cui difendersi). Il Mistero è un Tu buono, che avendo tutto, infinitamente più di quanto possiamo immaginare, non può volerci togliere niente, ma solo dare, in modo assolutamente gratuito. Non si finisce mai di inoltrarsi nel Mistero, di conoscerlo sempre di più e di essere sempre più felici. Se il Mistero è infinito può tutto, quindi può amare personalmente tutti di un amore infinito, così come può ascoltare la nostra preghiera come se fossimo l'unica creatura al mondo. Altra conseguenza del fatto che il Mistero è infinito è che il Mistero è mistero, per cui pur essendo creatore di tutto permette quel mistero grave che è il male, la sofferenza, la morte. Noi non capiamo come, ma Lui sa trarre anche dal male un bene maggiore. Se invece il divino fosse finito, quindi a misura della nostra razionalità, non sarebbe possibile attribuirgli la creazione, anche perché il male risulterebbe incompatibile con la sua (finita) perfezione. 65 Per il Cristianesimo “non cade foglia che Dio non voglia”. L'uomo non è più una “cosa tra le cose”, un ente naturale accanto ad altri, ma è il centro e il senso del creato. La natura gli è nettamente subordinata. L'uomo non è un'anima accidentalmente unita a un corpo (e magari a uno dei tanti corpi, come nella concezione pitagorica e platonica, che suppone la metempsicosi), ma è inscindibile unità corporeo-spirituale. Non si tratta dunque di fuggire dalla materia, ma di valorizzare la vita come essa è, nella sua fragile ma in qualche modo sacra concretezza. Decisivo non è più ciò che si conosce in seguito a ricerca razionale, ma l'adesione affettiva al dato che si offre come vero. In un mondo enigmatico e in gran parte tenebroso, la ricerca razionale era decisiva, ma in un mondo dove il senso ultimo si è Lui stesso rivelato, basta avere il cuore buono per riconoscerlo, tutti hanno la luce bastante per questo. Per un concezione, come quella precristiana, che ritiene l'uomo come frutto del caso, l'umanità in generale e ogni individuo particolare non hanno alcun valore assoluto; per il Cristianesimo invece il Mistero infinito ha voluto creare il cosmo per l'uomo e ha voluto ogni singolo uomo, amandolo gratuitamente di un amore infinito. Qui poggia la dignità e il valore dell’uomo. Se poi uno vale perché amato dall'Infinito, allora non contano più, sono secondarie, le differenze dovute all'intelligenza, alla ricchezza, alla posizione sociale. Una fondamentale eguaglianza accumuna tutti gli uomini. Per il Cristianesimo da un lato, contro tentazioni individualistiche, la socialità è qualcosa di naturale, e di buono, e lo stato è esso pure in sé stesso positivo, d'altro lato lo stato non è un assoluto, essendo strumentale alla affermazione della dignità della persona; quindi, da un lato l'individuo trova il suo vero bene solo in qualcosa che è al contempo il bene degli altri, ed è spinto ad avere come orizzonte il mondo, dall'altro lo stato è relativizzato: non ogni legge positiva è giusta, né lo è qualsiasi decisione delle istituzioni statali: essendo fatti da uomini, anche gli stati, se gli uomini che li compongono sono malvagi, possono diventare delle bande di furfanti. FILOSOFIA MEDIEVALE PENSIERO CRISTIANO E CULTURA GRECA - Il quadro complessivo dei secoli medievali mostra uno sviluppo del pensiero filosofico, teologico e scientifico che inizia con la messa a fuoco dei problemi fondamentali posti dal confronto fra la filosofia classica e le dottrine bibliche (e coraniche per l’Islam), quindi l’esistenza di Dio, la sua relazione con il mondo e la natura dell’essere umano. Il confronto fra la tradizione filosofica classica e i temi centrali delle religioni ebraica e cristiana era iniziato prima del VI sec; nel I sec. d.C. infatti Filone d’Alessandria aveva proposto un’interpretazione allegorica della Bibbia ed aveva elaborato una filosofia in cui il tema della creazione e quello della provvidenza divina erano interpretati alla luce di concezioni neoplatoniche e pitagoriche. Dal II sec. d.C. è il cristianesimo a confrontarsi con le filosofie antiche, nelle opere di apologisti (II-III sec. d.C.), come Giustino, Ireneo, Tertulliano, Lattanzio, Origene; dei padri della chiesa greci (IV sec. d.C), come Basilio, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzo, Giovanni Crisostomo; dei latini (IV sec. d.C.), come Ambrogio, Gerolamo, Agostino; e dal VI sec. d.C. ricordiamo Gregorio Magno. I risultati del confronto risultano divisi ma nell’insieme si nota una tendenza a privilegiare, tra le varie fonti filosofiche, il platonismo e il neoplatonismo, talvolta con elementi non secondati della tradizione stoica. Esaminando il testo di Ghisalberghi notiamo che la prima parte è legata alla Patristica, la seconda parte legata alla Scolastica; la sua riflessione ci porta a sottolineare 66 l’importanza della fede legata all’intelligenza umana. Il personaggio più rappresentativo è Agostino. PATRISTICA - Agostino fu alla base dell’elaborazione e filosofica alto-medievale occidentale. Il suo pensiero, costruito su uno sfondo neoplatonico, non è però un blocco monolitico, poiché fu elaborato in risposta ad esigenze diverse, dalla ricerca interiore dei primi anni alla consapevole costruzione di un punto di vista ecclesiale nell’ultima fase della sua vita (il richiamarsi ad Agostino di molti autori medievali non indichi necessariamente una loro omogeneità di posizioni). ETÀ CAROLINGIA - La figura di Carlo Magno è fondamentale nell’età carolingia. Egli, infatti, riteneva di fondamentale importanza lo studio e la formazione. Ghisalberti afferma che tra tutti i re egli era colui che ricercava più avidamente i dotti per far risplendere il sapere nel mondo dei barbari. Carlo Magno ebbe non solo un ruolo politico, ma soprattutto un ruolo culturale, infatti la scuola Palatina, grande intuizione di Carlo Magno, fu un vero cenacolo di studi superiori. Con Carlo Magno nascono anche le scuole parrocchiali che dovevano istruire i fedeli che frequentavano la Chiesa. In questo periodo un altro aspetto fondamentale fu la nascita del monachesimo occidentale. I monaci in oriente cercavano nel silenzio di trovare Dio, mentre in occidente il monachesimo aveva non solo una valenza contemplativa, ma anche operativa (San Benedetto dice Ora et labora). ANNO MILLE - L’anno Mille rappresenta un passaggio di fondamentale importanza e porta nel mondo cristiano l’idea dell’attesa della fine del mondo (apocalisse) e si verifica un calo di interesse nel confronti della politica, della cultura e dell’economia. Il pensiero è tutto rivolto solo all’ipotetica fine del mondo. Dal 900 d.C. al 1000 d.C. si verifica un periodo di stasi del pensiero e secondo una tipica mentalità medioevale la punizione è legata sempre ad una colpa, anche le malattie del corpo sono conseguenze dei mali dell’anima. Il clima che si vive è quello plasmato da una mentalità apocalittica. Ciò porta un momento di riflessione che viene superato dall’avvento di quello che è l’anno 1033 d.C.. In questo anno si verificò una grande carestia (la tradizione racconta addirittura episodi di cannibalismo). Il bisogno era quello di trovare e mantenere una pace inviolabile; nasceva la cosiddetta “pace di Dio”. Due grandi personalità di questo periodo sono l’imperatore Ottone III e il papa Silvestro II, entrambi furono coinvolti nella ripresa degli studi umanistici. SCUOLE ED UNIVERSITÀ - Dopo il passaggio dal 900 al 1000 d.C. gli uomini cominciarono a guardarsi intorno e compresero che in effetti non era accaduto nulla di tutto che quello che era stato predetto riguardo alla fine del mondo; ci fu allora una certa ripresa degli studi e si presentò il desiderio di rinnovamento e la voglia di accostarsi nuovamente alla conoscenza. Di conseguenza si svilupparono le Scuole e le Università, che rappresentavano la rinascita culturale del pensiero filosofico e scientifico. Nel periodo che va dal 1200 d.C. alla fine del Medioevo, la nascita delle università determina condizioni esteriori estremamente favorevoli alla diffusione e produzione del pensiero filosofico e scientifico, in altri contesti e in lingue diverse dal latino, permettendo l’accelerazione e l’articolazione degli sviluppi dottrinali della Scolastica. Le opere degli antichi filosofi e dei Padri della chiesa, insieme ai testi rivelati, costituiscono i fondamentali presupposti della filosofia medievale, il cui concreto sviluppo trovò spazio nelle nuove istituzioni d’insegnamento: le scuole monastiche, le scuole cittadine, le università (a partire dal XIII secolo). Nelle Università l’insegnamento si basava sulla lettura, la spiegazione letterale (glossa) ed il commento ai testi della tradizione. Da questo modello didattico trassero origine generi letterari nuovi, dei quali il più rilevante è quello del dibattito di scuola, strutturato per argomenti contrapposti (quaestio). L’opera più importante che nacque in questo periodo fu proprio la Divina Commedia di Dante Alighieri. 67 tensioni e lacerazioni della sua volontà, messa a confronto con la volontà di Dio, che Agostino scopre l’io e la personalità umana. In Agostino la problematica religione e il confrontarsi della volontà umana con quella divina, portano alla scoperta dell’io come persona. In verità, però, per definire l’uomo Agostino di avvale ancora anche di formule greche, in particolare di quella socratica, secondo cui l’uomo è un’anima che si serve di un corpo; ma con lui il concetto di anima e quello di corpo assumono un nuovo significato, infatti il corpo per Agostino è ben più importante di come lo intendeva Plotino. La novità sta nel fatto che, per Agostino, l’uomo interiore è l’immagine di Dio e della Trinità. Agostino trova nell’uomo tutta una serie di triadi, che rispecchiano la Trinità in vari modi. Nell’anima di rispecchia Dio, e anima e Dio sono i pilastri della filosofia cristiana di Agostino. Egli ritiene che scassano nell’anima si trova Dio. VERITÀ E ILLUMINAZIONE - Secondo Agostino nella polarità anima-Dio il concetto di verità funge da cerniera. La verità sta nell’interno dell’anima, essa è un termine prefisso, una meta a cui ci si ferma dopo aver ragionato. Agostino disse: si fallo, sum “se dubito esisto e sono certo di pensare”, anticipando così il cogito, ergo sum di Cartesio. La sensazione, come già Plotino aveva insegnato, non è un’affezione che l’anima subisce, ma piuttosto possiamo dire che il corpo è passivo, mentre l’anima è attiva; la sensazione però è solo il primo gradino della conoscenza. L’anima mostra la sua autonomia rispetto alle cose corporee in quanto con la ragione le giudica, sulla base di criteri che contengono un qualcosa in più rispetto agli oggetti corporei, mutevoli e imperfetti; mentre i criteri secondo cui l’anima giudica sono perfetti e immutabili. L’intelletto umano trova la verità come oggetto a lui superiore; con essa giudica ma da essa è giudicato. La verità è la misura di tutte le cose e lo stesso intelletto è misurato rispetto a essa. Questa verità, che cogliamo con il puro intelletto, è costituita dalle Idee, che sono le supreme realtà intellegibili di cui parlava Platone. Le Idee per Agostino sono le forme fondamentali e le ragioni immutabili delle cose. Agostino modifica però la conclusione platonica in due punti: interpreta le Idee come pensieri di Dio e ripensa ex novo la dottrina della reminiscenza, trasformandola nella DOTTRINA DELL’ILLUMINAZIONE e imponendosi nel contesto generale del creazionismo. Questa dottrina è appunto la dottrina platonica trasformata sulla base del frazionismo e la similitudine della luce è quella già usata da Platone nella Repubblica, coniugata con quella della luce di cui parlano le Sacre Scritture. Agostino ritiene che Dio come Essere ci crea, come Verità ci illumina, come Amore ci attira e ci dona la pace. Secondo lui però non tutte le anime sono idonee, ma solo quelle sante e pure, ovvero quella che ha l’occhio puro con il quale intende vedere le Idee, in moda da essere simili alle Idee stesse. La purezza dell’anima diventa una condizione necessaria per la visione della Verità, oltre che per la fruizione della medesima. CONCEZIONE DI DIO - Per Agostino Dio è verità, infatti la dimostrazione dell’esistenza della certezza e della Verità coincide con la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Esistono tre prove riguardanti l’esistenza di Dio: la prima è la prova, già ben nota ai Greci, che permette di risalire all’artefice (Dio) facendo leva sui caratteri di perfezione del mondo; la seconda è quella nota con il nome del consensus gentium (anch’essa già presente nei pensatori dell’antichità pagana), secondo cui Dio è tale che non può rimanere nascosto totalmente alla creatura razionale, una volta che quest’ultima abbia cominciato a far uso della ragione; la terza prova è ricavata invece dai diversi gradi del bene, dai quali si risale al primo e supremo Bene, che è Dio (l’ultima prova termina con l’amore di Dio). Agostino non dimostra Dio con intenti intellettuali e al fine di spiegare il cosmo, come ad esempio fa Aristotele, ma piuttosto per fruirne (frui Deo), amarlo e riempire il vuoto dell’animo, quindi per essere felice. Per Agostino la vera felicità esiste solo nell’altra vita, anche se possiamo averne una pallida immagine sulla Terra; ed è solo amando Dio si conosce la vera bellezza. 70 Essere, Verità e Bene/Amore sono gli attributi essenziali di Dio. Secondo Agostino è impossibile per l’uomo una piena definizione della natura di Dio, Dio lo si conosce meglio non conoscendolo, in quanto è più facile sapere ciò che non è piuttosto di ciò che è. Gli attributi che a Dio si possono riferire vanno quindi intesi non come proprietà di un soggetto, ma come coincidenti con la sua essenza. Dio è tutto il positivo che si riscontra nella creazione. LA TRINITÀ - Per Agostino Dio è essenzialmente Trinità e a questo tema egli dedicò la Trinità, un capolavoro dottrinario. Egli dice che non si può considerare il padre come Dio per eccellenza, ovvero in senso privilegiato (come facevano molti Greci), ma piuttosto bisogna considerare Dio in senso assoluto come Padre, Figlio e Spirito, che sono inseparabili dall’essere e di conseguenza operano inseparabilmente. La Trinità per Agostino è il solo e unico vero Dio; non c’è né differenza gerarchica, né differenza di funzioni, ma assoluta uguaglianza. La natura del Bene è una sola, identica nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Altro punto fondamentale della dottrina trinitaria agostiniana consiste nelle analogie triadiche che egli scopre nel creato, le quali, da semplici vestigia della Trinità quali sono nelle cose e nell’uomo esteriore, diventano, nell’anima umana, vera immagine della Trinità stessa. CREAZIONE DEL TEMPO - tra i filosofi antichi nessuno riuscì a risolvere il problema della creazione e del tempo, che infatti è di genesi biblica. I Platonici sono stati però i filosofi che sono giunti alle posizioni meno distanti dal creazionismo. Platone nel Timeo introdusse il Demiurgo, la cui attività, pur essendo razionale, libera e motivata dal bene, risulta limitata strutturalmente sia al di sopra sia al di sotto; al di sopra vi è il mondo delle Idee, che lo trascendono e a cui egli si ispira, invece al di sottosta la Chora (materia informe), anch’essa eterna come le Idee e il Demiurgo. Quindi l’opera del Demiurgo è un’opera di fabbricazione e non di creazione. Secondo Agostino una realtà può derivare da un’altra in tre modi: - per generazione , e in questo caso deriva dal padre, quindi qualcosa di identico al generante; - per fabbricazione , e in questo caso la cosa fabbricata deriva da qualcosa che preesiste al di fuori del fabbricante (la materia), come avviene in tutte le cose che l’uomo produce; - per creazione dal nulla assoluto , ovvero non dalla propria sostanza e non da una sostanza eterna. L’uomo sa generare i figli e sa produrre gli artefacta, ma non sa creare, poiché è un essere finito, mentre Dio genera dalla propria sostanza il Figlio (che come tale è identico al Padre) e crea dal nulla il cosmo; quindi tra generazione e creazione c’è una differenza abissale. Dio creando dal nulla il mondo, ha creato anche il tempo, che è strutturalmente connesso al movimento; prima del mondo non vi era movimento. Questa tesi fu anticipata da Platone nel Timeo, ma con Agostino risulta meglio spiegata. Prima del mondo non c’era un prima temporale, non c’era tempo, ma c’è invece l’eterno, che è come un infinito presente atemporale (senza scorrimento e scansione di prima e di poi). DOTTRINA DELLE IDEE E DELLE RAGIONI SEMINALI - Secondo Agostino le Idee hanno un ruolo essenziale nella creazione, ma da paradigmi assoluti al di fuori e al di sopra della mente del Demiurgo (Platone), diventano i pensieri di Dio o il verbo di Dio. Agostino dichiara la teoria delle Idee un caposaldo fondamentale, intrinsecamente connessa alla dottrina della creazione. Ogni cosa è stata creata secondo una propria ragione o Idea nella mente del Creatore, le Idee sono quindi i pensieri-modello di Dio, eterne e immutabili (per partecipazione di esse esistono tutte le cose). Agostino per spiegare la creazione, oltre alla teoria delle Idee utilizza anche la “teoria delle ragioni seminali”, creata dagli stoici e successivamente rielaborata in chiave metafisica da Plotino. Dio ha creato, insieme alla materia, virtualmente tutte le possibilità di attuazione della materia stessa, infondendo in essa le ragioni seminali di 71 ogni cosa. L’evoluzione del mondo nel decorso del tempo è quindi l’attuarsi e il realizzarsi di queste ragioni seminali. La dottrina agostiniana dell’evoluzione del mondo, dal punto di vista ontologico, è l’esatta antitesi dell’evoluzionismo darwinianop, dato che per Agostino l’evoluzione è l’attuarsi di ciò che da sempre era già stato creato e ben fissato nelle specie, mentre per Darwin vale l’opposto. Segono Agostino l’uomo è stato creato come animale razionale ed è al vertice del mondo sensibile; la sua anima è immortale ed è immagine di Dio-Trinità. Agostino rimase però incerto sulla soluzione del problema del mondo in cui nascono le singole anime, se cioè Dio crei ciascuna anima direttamente, quindi se le abbia create tutte in Adamo e da Adamo via via si trasmettano tramite i genitori. ETERNITÀ E TEMPORALITÀ- Prima del cielo e della terra non esisteva tempo e quindi non si può parlare di un prima. Secondo Agostino tempo ed eternità sono due dimensioni incommensurabili, quindi molti errori che gli uomini fanno, quando parlano di Dio, nascono dall’applicazione indebita del tempo all’eterno, che è invece totalmente altro dal tempo. Il tempo implica passato, presente e futuro; ma il passato non è più e il futuro non è ancora, mente il presente, se fosse sempre e non trascorresse nel passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. L’essere del presente è in realtà un continuare a cessare di essere, un tendere continuamente al non essere. Agostino rileva che il tempo esiste nello spirito dell’uomo (nell’anima), perché è lì che si mantengono presenti sia il passato sia il presente sia il futuro. Il tempo, quindi, pur avendo una connessione con il movimento, non sta in esso e nelle cose in movimento, ma nell’anima; esso è un’estensione dell’anima, un’estensione tra memoria, intuizione e attesa, infatti il tempo si divide in: passato come memoria, presente come attenzione e futuro come attesa IL MALE - Agostino dopo essere stato vittima della spiegazione dualistica manichea, trovò risposte sul male in Plotino. Il male non è una sostanza o un essere, ma piuttosto una privazione di essere. Il problema del male può essere prospettato a tre livelli: metafisico/ontologico, morale e fisico. Dal punto di vista metafisico/ontologico nel cosmo non esiste male, ma esistono solo gradi inferiori di essere rispetto a Dio, dipendenti dalla finitudine delle cose create e dal differente livello di questa finitudine. I gradi inferiori dell’essere e le cose finite (anche le infime) risultano come i momenti articolati di un grande complesso armonico. Ogni cosa misurata secondo il metro dell’intero, anche quella apparentemente più insignificante, ha una senso e una ragione d’essere (costituisce un positivo). Il male morale è invece il peccato, che dipende dalla cattiva volontà; quest’ultima non ha una causa efficiente ma una deficiente. La volontà dovrebbe, per sua natura, tendere al Bene Sommo, ma poiché esistono molti beni creati e finiti, essa può tendere ad essi, rovesciando così l’ordine gerarchico, quindi preferendo i beni inferiori a quelli superiori. Il male deriva dal fatto che non vi è un’unico Bene, ma essendoci molti beni, esso consiste in una scorretta scelta tra questi. Il male morale è quindi un aversio a Deo (un volgere le spalle a Dio) e una conversio ad creaturam (un rivolgersi alla creatura). Agostino ritiene che aver avuto da Dio una volontà libera è stato un grande bene, il male sta proprio nel cattivo uso di questo grande bene. Il male fisico, i tormenti dell’animo e la morte, sono la conseguenza del peccato originale, del male. Secondo Agostino non è la carne corruttibile che ha reso l’anima peccatrice, ma è l’anima peccatrice che ha reso il corpo corruttibile. VOLONTÀ/LIBERTÀ/GRAZIA - La tormentata vita di Agostino e la sua formazione spirituale gli permisero di intendere il messaggio biblico in senso “volontatistico”, fuori dagli schemi greci. Agostino è il primo scrittore che presenta i conflitti della volontà in termini precisi. Egli ritiene che la libertà è propria della volontà e non della ragione nel senso in cui l’intendevano i greci; così si risolve l’antico paradosso socratico secondo cui è impossibile conoscere i bene e fare il male. Per Agostino la ragione può conoscere il bene e la volontà può respingerlo, perché essa, pur appartenendo allo spirito umano, è 72 fornisce una prova a priori dell'esistenza di Dio, cioè indipendentemente dall'osservazione e dall’esperienza ma basata solo sul concetto di Dio come essere perfettissimo. FEDE E RAGIONE - Anche per Anselmo, come per Agostino, vi è accordo tra fede e ragione. Pur ritenendo che la fede sia superiore, è tuttavia convinto che fede e ragione non siano in contrasto. Il suo motto è infatti “credo ut intelligam” (credo per capire meglio). Non si può capire perché esiste il mondo e la vita se non si ha fede, ma occorre dimostrare e spiegare meglio la fede con argomenti razionali (con il ragionamento). Certo, precisa Anselmo, qualora su di una questione dovesse sorgere un contrasto tra fede e ragione, bisognerebbe allora far prevalere la fede, ma Anselmo è persuaso che un tale contrasto non vi sia perché anche la ragione, come la fede, deriva dalla medesima illuminazione divina. La stessa esistenza di Dio è infatti, per Anselmo, una pura verità di ragione, che la ragione può cioè dimostrare da sola, con le sue sole forze, senza bisogno di rivelazione, la quale ci svela invece gli attributi e i precetti divini. Nel Monologion dà dimostrazioni dell'esistenza di Dio a posteriori (partendo cioè dalle cose, dal creato, che è posteriore a Dio), per risalire quindi a Dio con l'argomento dei gradi: vi sono molte cose buone nel mondo ma tutte hanno un grado maggiore o minore di bontà. Vi deve essere allora, sopra le cose, una bontà assoluta, cioè un bene assoluto da cui deriva la maggiore o minore bontà delle cose del mondo. Questo bene assoluto è Dio. Lo stesso ragionamento si può fare per ogni altro valore o perfezione esistenti nel mondo (per i diversi gradi di grandezza, di perfezione, di causa efficiente): tutti rimandano al Valore e alla Perfezione assoluta che è Dio. Prova ontologica dell'esistenza di Dio - Rispetto alle prove a posteriori dell'esistenza di Dio, quella più famosa fornita da Anselmo, espressa nel Proslogion, è la cosiddetta prova a priori o prova ontologica. Essa è a priori ed ontologica perché non parte dall'osservazione e dall'esperienza sensibile delle cose ma invece, in modo a priori (prima dell’esperienza), parte dal concetto, dall'idea di Dio, cioè dall'analisi dell’essenza ontologica di Dio (ontologia= filosofia dell'essere, dell'essenza delle cose) per giungere a dimostrarne l'esistenza. E quale è il concetto, l'idea che noi abbiamo di Dio? È certamente quella di un Essere perfettissimo, che possiede tutte le perfezioni, che possiede tutto. Allora, se l'idea di Dio è quella di un Essere che possiede ogni perfezione, al quale non manca nulla, Egli deve possedere per forza anche l'esistenza, deve per forza esistere, altrimenti non potremmo pensare a Dio come Essere perfettissimo. Questa prova ontologica e a priori dell'esistenza di Dio è in particolare rivolta nei confronti degli atei, che Anselmo chiama insipienti. Gli atei affermano che Dio non c'è, però anche per gli atei la parola "Dio" significa Essere perfettissimo. Anche l'ateo ha questa idea di Dio pur non credendo che esista. Ma in questo modo, dice Anselmo, l'ateo si contraddice, perché non può avere l'idea di un essere perfettissimo, al quale non manca nulla, e contemporaneamente dichiarare che gli manca all'esistenza, che non esiste. Quindi l'ateo si sbaglia. Tale prova ontologica dell'esistenza di Dio non ha trovato però d'accordo tutti i filosofi, sia contemporanei ad Anselmo sia successivi. Hanno accettato questa prova Alberto Magno e Bonaventura di Bagnoregio nel Medioevo ed in età moderna Cartesio, Spinoza, Leibniz ed Hegel. Ma già un filosofo-teologo contemporaneo di Anselmo, il monaco Gaunilone, l’ha criticata affermando che, pur avendo l'idea di Dio come essere perfettissimo, non si può per questo concludere che egli debba allora, necessariamente, anche esistere, così come dall'idea di un'isola perfettissima o di un cavallo alato non deriva per forza anche l'esistenza di tale isola o di tale cavallo. In effetti, non si può passare direttamente ed automaticamente dal piano delle idee al piano della realtà, sostenendo che le idee che passano nella mente, anche le migliori e più logiche, esistono necessariamente anche nella realtà. Per dire con sicurezza che ad una mia idea corrisponde una realtà concreta devo prima verificarla sperimentalmente, ossia posso dire che un'idea esiste anche nella realtà solo se vedo e tocco concretamente una cosa corrispondente a tale idea, ma Dio non 75 si vede e non si tocca (questo ad esempio sarà l'argomento usato da Kant nell'affermare che la prova ontologica di Anselmo non ha valore). Con la sua critica il monaco Gaunilone non vuole negare l'esistenza di Dio, vuole semplicemente affermare che l'esistenza di Dio è questione di fede e non di dimostrazione e che sono comunque preferibili le prove a posteriori dell'esistenza di Dio (risalendo cioè dalle cose del mondo, ossia dagli effetti, alla loro causa prima che è Dio). Anche lo stesso Tommaso d'Aquino non accetta la prova ontologica a priori di Anselmo, ma fornisce invece prove a posteriori, simili a quelle fornite da Aristotele. TOMMASO D’AQUINO Tommaso nacque ad Aquino nel 1221, da padre italiano, Landolfo, e madre normanna, Teodora. Una prima educazione la ricevette nell’abbazia di Montecassino, ma proseguì gli studi a Napoli (presso l’università di recente fondata da Federico II), dove entrò a contatto con l’ordine dei Domenicani; fu anche discepolo di Alberto Magno a Colonia e docente nell’università di Parigi. Dopo il periodo parigino, Tommaso andò peregrinando per le maggiori università europee. In seguitò ritornò una seconda volta a Parigi per controbattere gli aristotelici e gli avversori, ma la sua salute andò declinando. Tommaso morì a 53 anni nel 1274 nel monastero di Fossanova, mentre era in viaggio per il Concilio di Lione. RAGIONE E FEDE/FILOSOFIA E TEOLOGIA - Secondo Tommaso esistono una ragione e una filosofia come preamboli della fede. La filosofia ha una sua configurazione e una sua autonomia, ma non riguarda tutto ciò che si può dire o conoscere, occorre infatti integrarla con ciò che è contenuto nella Sacra dottrina intorno a Dio, all’uomo e al mondo. La DIFFERENZA TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA sta nel fatto che la filosofia offre una conoscenza imperfetta delle cose di cui la teologia è invece in grado di chiarirne gli aspetti specifici alla salvezza eterna. Secondo Tommaso la fede migliora la ragione, come la teologia migliora la filosofia. La grazia non soppianta la natura ma la perfeziona. La teologia quindi rettifica la filosofia (non la sostituisce), come la fede orienta la ragione (non la elimina); quindi è necessaria una corretta filosofia affinché vi sia una buona teologia. La filosofia come preambolo della fede ha una sua autonomia, poiché è formulata con strumenti e metodi non assimilabili agli strumenti teologici. Per Tommaso le verità rivelate superano ogni potere della ragione umana e solo la ragione può rendere possibile la discussione con i pagani. Egli è convinto che l’uomo e il mondo, nonostante la dipendenza da Dio nell’essere e nel fare, godano di una relativa autonomia. Il sapere teologico non soppianta il sapere filosofico e la fede non soppianta la ragione, anche perché secondo Tommaso unica è la sorgente della verità. (ONTOLOGIA) STRUTTURA FONDAMENTALE DELLA METAFISICA - Secondo Tommaso qualsiasi cosa che esiste è ente; esso è divisibile in ente logico e ente reale, ciò vuol dire che non tutto ciò che viene pensato esiste realmente. ENTE LOGICO (o puramente concettuale) - è espresso mediante il verbo copulativo essere, coniugato in tutte le forme. La sua funzione è di unire più concetti, senza pretendere che esistano realmente, almeno nel modo in cui sono da noi concepiti. Non tutto ciò che è oggetto dl pensiero esiste così com’è pensato; non bisogna ipostatizzare i concetti e credere che ognuno di essi abbia un corrispettivo nella realtà. Tommaso un un realista moderato sul problema degli universali, secondo lui l’universale non è reale perché è reale solo l’individuo; questa universalità però non è priva di un qualche fondamento nella realtà da cui è dedotta. L’intelletto, sollevandosi sopra l’esperienza sensibile, perviene a un’universalità che in parte è espressione della sua azione astratti a e in parte espressione della realtà. ENTE REALE (o extramentale) - ogni realtà (sia il mondo sia Dio) è ente, perché esiste. L’ente si predica di tuto, sia del mondo sia di Dio, ma in maniere analogica poiché Dio è l’essere mentre il mondo ha l’essere. In Dio l’essere si identifica con la sua essenza, 76 nelle creature invece di distingue dall’essenza. I concetti di essenza e atto di essere sono i due pilastri dell’ente reale; l’essenza infatti indica il che cos’è una cosa, ovvero l’insieme delle note fondamentali per cui gli enti si distinguono tra di loro. Secondo Tommaso in Dio l’essenza si identifica con l’essere, mentre il mondo e le creature possono essere e non essere. La metafisica di Tommaso più che la metafisica delle essenze è la quella dell’essere; essa intende offrire un fondamento del sapere più profondo di quello delle essenze, un fondamento che fondi la realtà e la possibilità stessa delle essenze. TRASCENDETALI (UNO, VERO, BUONO) - Per Tommaso uno, vero e buono sono dei trascendentali dell’essere (l’essere quindi è uno, vero e buono). - UNITÀ DELL’ENTE (omne ens est unum), in quanto uno l’essere è intrinsecamente non contraddittorio, non è diviso, che se è partecipabile. L’unità dipende dal grado di essere; maggiore è il grado di essere che possiede, maggiore è l’unità. La filosofia di Tommaso però non è la filosofia dell’unità, ma la filosofia dell’essere dell’essere, che è il fondamento dell’unità. L’unità trascendentale non è identificabile con l’unità numerica, infatti la prima si predica di ogni ente, la seconda sto degli enti quantitativi che , in possesso della quantità o materia), sono misurabili. L’unità trascendentale rientra nell’ambito della metafisica, l’unità numerica nell’ambito della matematica. - LA VERITÀ DELL’ENTE (omne ens est verum), il vero è un trascendentale dell’ente nel senso che ogni ente è intellegibile, razionale. Tommaso ritiene che anche la metafisica si debba occupare della verità, poiché il mondo e le singole creature sono l’espressione del progetto divino, sono il frutto del pensiero di Dio; quindi per Tommaso ogni ente è vero nel senso che ogni ente è espressione di un preciso progetto del Creatore; questa è la verità ontologica, ovvero l’adeguazione di ogni ente all’intelletto divino, che però è da distinguere dalla verità logica (o verità umana), che deve tendere a essere adeguazione dell’intelletto umano alla cosa. Quindi per Tommaso Dio è la somma verità perché è sommo essere; mentre gli enti finiti sono più o meno veri in base al grado di essere o partecipazione all’essere divino. Tutti gli enti però sono veri, perché ognuno a suo modo esprime un progetto, una vocazione (ha ragione d’essere); alcuni sono fedeli a questa vocazione, altri, essendo dotati d’intelligenza e di volontà, possono decidere di essere fedeli o di tradire la vocazione. - LA BONTÀ DELL’ENTE (omne ens est bonum), per Tommaso ogni ente è buono, perché frutto ed espressione della bontà suprema di Dio, infatti, il mondo con le sue meraviglie è un primo tentativo di esprimere questa bontà, quindi tutte le cose sono buone, poiché hanno un grado di essere e di perfezione. Secondo Tommaso un cristiano deve esser eradicalmente ottimista e non pessimista. Le cose sono buone in quanto volute da Dio, Dio crea amando, ed in quanto tali vengono amate. Tommaso distingue il bene onesto, che è il bene desiderato per se stesso; l’utile, che è il bene desiderato come mezzo per raggiungere altro; il dilettevole, che è il bene desiderato per il piacere che offre. Il bene onesto e dilettevole sono Dio, mentre gli altri beni sono tali in vista di quel fine cui devono condurre. ANALOGIA DELL’ESSERE - Aristotele nel IV libro della Metafisica scrive che l’ente si predica delle cose in diversi modi, sempre però in relazione a un ente privilegiato. Tommaso pur stabilendo le modalità secondo cui l’essere si predica degli enti finiti , a differenza di Aristotele, è più interessato al rapporto tra Dio e il mondo. Egli precisa il rapporto tra Dio e le creature, tra l’infinito e il finito. Tra Dio e le creature c’è somiglianza e dissomiglianza, un rapporto di analogia, quindi ciò che si predica delle creature si può predicare di Dio, ma non allo stesso modo o con la stessa intensità. Secondo Tommaso chi ricorda le implicazioni dell’essere e le sue proprietà, non si stupirà davanti al fatto che il mondo è sacro, poiché la sua relazione di dipendenza da Dio è iscritta nel suo stesso essere. Se è vivo il senso della somiglianza, è ugualmente vivo il senso della dissomiglianza tra creatore e creature; si stabilisce così il senso della teologia negativa. Se è certo che conosciamo qualcosa di Dio, è anche certo che tale nostra conoscenza, così come 77 è un venir meno alla razionalità, come per i filosofi greci, e non è identificabile con l’errore, ma è disobbedienza a Dio, rifiuto della fondamentale dipendenza dal Creatore. Per Tommaso la radice del male è nella libertà. Per Tommaso il corpo è sacro come lo è l’anima. Platone, esaltando la divinità dell’anima, ha ridotto il corpo a una prigione transitoria, e l’unità dell’anima e del corpo a un fatto accidentale. Aristotele accentua l’unità tra corpo e anima al punto da dover poi tornare a tesi platoniche per spiegare l’immortalità di questa (l’intelletto separato). Tommaso invece dice che è l’unità che occorre salvaguardare; è l’uomo individuale che pensa e non l’anima; è l’uomo che sente e non il corpo. La sostanzialità dell’anima di Platone e la formalità dell’anima di Aristotele, fuse nell’unità dell’uomo, lasciano intravedere il primato della persona sulla specie, persona partecipe dell’essere divino e destinata alla visione beatifica. ETÀ MEDIEVALE Il Medioevo va dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente fino all’avvento dell’Umanesimo rinascimentale. Questo lungo periodo è stato spesso considerato come “buio”, caratterizzato e soffocato dal primato della riflessione cristiana, che non lasciava spazio alle esigenze umane. Il Medioevo si divide in due periodi: - Alto Medioevo (V/VI - X secolo d.C.) - Basso Medioevo (XI - XIV secolo d.C.) Durante l’Alto Medioevo l’Impero Romano d’Occidente segnò la sua fine; nacquero i regni romano-barbarici, che costituirono proprie organizzazioni politiche non più dipendenti dall’Impero romano. Fu un periodo di decadenza culturale durante il quale si svilupparono le scuole monastiche (di particolare importanza fu San Benedetto), che diventarono in breve tempo veri e propri punti di riferimento non solo religiosi, ma anche politici e culturali (ad es. i manoscritti). Nell’800 Carlo Magno venne incoronato imperatore del Sacro Romano Impero (impero Carolingio), trasformando la struttura politica del mondo occidentale. Egli capì l’importanza della formazione culturale e creò una sorta di alleanza tra il potere temporale e quello spirituale. La Chiesa divenne il simbolo del mondo occidentale e intorno ad essa e al suo volere si collocarono tutti gli eventi del periodo. L’Alto Medioevo si concluse con l’anno 1000 d.C.. Il Basso Medioevo si caratterizza con la nascita delle città e di una nuova classe sociale, la borghesia, formata da persone che avevano come obiettivo quello di accumulare ricchezza ed elevarsi. Altro evento importante in questo periodo è l’apogeo della Scolastica. Il XIV secolo d.C. è l’ultimo secolo del Medioevo, per questo è chiamato l’Autunno del Medioevo, caratterizzato dal declino dell’Impero e dalla radicale frattura tra la Chiesa e i nuovi Stati Nazionali, che consolidarono le loro strutture finanziarie e i propri strumenti militari. In questo periodo si evidenziò il valore dell’individualità umana e si creò un nuovo sistema di valori, riguardanti l’uomo oltre che la religione. Nacque così la cultura umanistica che tendeva a separare la fede dalla ragione e a mettere al centro dell’attenzione l’uomo; in questo clima si fece strada Guglielmo da Ockham. GUGLIELMO DI OCKHAM Noto come il principe dei nominalisti, Guglielmo nacque a Ockham (vicino Londra) nel 1280 circa. Poco più che ventenne entrò nell’ordine dei francescani; compì gli studi universitari a Oxford e nel in seguito si trasferì nel convento francescano di Avignone, convocato da papa Giovanni XXII per rispondere all’accusa di eresia. La sua posizione di aggravò maggiormente quando si schierò, nella contesa sorta all’interno dell’ordine francescano per il problema della povertà, con coloro che rigettavano con asprezza l’orientamento moderato del papa; così Guglielmo fuggì da Avignone e si rifugiò a Pisa 80 presso Ludovico il Bavaro, seguendolo poi a Monaco di Baviera, dove morì nel 1349 a causa del colera. In quest’ultimo periodo non si dedicò più alle opere filosofica, ma a polemiche politico-religiose. INDIPENDENZA DELLA FEDE DALLA RAGIONE - I tentativi tomisti, bonaventuriani e scotisti, di mediare il rapporto tra fede e ragione con elementi aristotelici o agostiniani, quindi attraverso l’elaborazione di complessi edifici metafisici e gnoseologici, apparivano a Guglielmo inutili e dannosi. Secondo lui sono asimmetrici sia il piano del sapere razionale, fondato sulla chiarezza e l’evidenza logica, sia il piano della dottrina teologica, orientato alla morale e fondato sulla certezza della fede. Non si tratta solo di distinzione, ma d separazione. Le verità di fede non sono evidenti di per sé, come i principi della dimostrazione; esse infatti non sono dimostrabili come le conclusioni della dimostrazione stessa e non sono probabili perché appaiono false a coloro che si servono della ragione naturale. L’ambito delle verità rivelate è sottratto al regno della conoscenza razionale. Secondo Ockham la filosofia non è ANCELLA della teologia, che a sua volta non è più scienza ma un complesso di proposizioni tenute insieme dalla forza della fede e non dalla coerenza razionale. La ragione non è in grado di offrire alcun supporto alla verità di fede, perché la ragione non riesce a rendere il dato rivelato più trasparente di quanto possa fare la fede. Le verità di fede sono un dono gratuito di Dio e tali devono risultare. Non è onesto rivestire di logicità razionale verità che trascendono la sfera umana e dischiudono prospettive altrimenti impensabili e irraggiungibili. La ragione umana ha un dominio e un compito diversi rispetto al dominio e al compito della fede. EMPIRISMO E PRIMATO DELL’INDIVIDUO - Ockham concepisce il mondo come un insieme di elementi individuali, senza alcun vero legame tra loro, non ordinabili in termini di natura o di essenza. Vista la forte esaltazione dell’individuo, Ockham nega anche la distinzione interna al singolo tra la materia e la forma (distinzione che se fosse reale comprometterebbe l’unità e l’esistenza dell’individuo). Esistono due fondamentali conseguenze del primato assoluto dell’individuo: - Ockham, in contrasto con le concezioni aristoteliche e tomiste secondo cui il vero sapere ha come oggetto l’universale, ritiene che l’oggetto proprio della scienza sia costituito dall’oggetto individuale. - l’intero sistema di cause necessarie e ordinate, che costituivano la struttura del cosmo platonico e aristotelico, cede il posto a un universo frantumato in tanti individui isolati, contingenti e dipendenti dalla libera scelta divina. CONOSCENZA - Il primato dell’individuo porta al primato dell’esperienza, su cui si fonda la conoscenza. Secondo Ockham bisogna fare una distinzione tra conoscenza incomplessa, relativa ai termini singoli e agli oggetti che essi designano, e conoscenza complessa, relativa alle proporzioni che risultano composte di termini. La conoscenza incomplessa può essere anche intuitiva e astrattiva. La conoscenza intuitiva si riferisce all’esistenza di un essere concreto e quindi si muove nella sfera della contingenza (attesta l’esistenza o meno di una realtà); essa è la conoscenza fondamentale, senza la quale le altre non sarebbero possibili. La conoscenza attrattiva si accompagna alla conoscenza intuitiva e, a differenza di questa, non si occupa dell’esistenza o meno dell’oggetto. L’oggetto di entrambe le conoscenze è identico, ma è colto sotto aspetti diversi; quella intuitiva coglie l’esistenza o non esistenza di una realtà, quella attrattiva no. La conoscenza intuitiva riguarda i giudizi di esistenza, è legata all’esistenza o meno di una cosa (ad esempio il libro sul tavolo), è causata dall’oggetto presente e si occupa di verità contingenti; la conoscenza attrattiva invece prescinde dall’esistenza o meno di una cosa, presuppone l’oggetto invece di essere causata da esso e si occupa di verità necessarie ed universali. RAGIONI DEL NOMINALISMO/DISSOLUZIONE METAFISICA TRADIZIONALE - Ockham ha affermato che l’universale non è reale. La realtà dell’universale è contraddittoria e deve essere esclusa. Secondo Ockham gli universali sono dei nomi non realtà e la realtà è tutta singolare (individuale). Gli universali non sono delle cose estitstenti fuori 81 dell’anima, ma piuttosto delle forme verbali tramite le quali la mente umana costituisce una serie di rapporti di esclusiva portata logica. In tal senso la conoscenza attrattiva è sinonimo della conoscenza ricavata da più oggetti individuali. Se ogni realtà singola provoca una conoscenza altrettanto singolare, la ripetizione di molti atti di conoscenza, riguardanti cose tra loro simili, genera nell’intelletto dei concetti che significano una molteplicità di cose e non una cosa singola. Questi concetti sono detti universali e quindi rappresentano la reazione dell’intelletto alla presenza di realtà simili. Secondo Ockham il sapere metafisico cristallizza dannosamente il sapere. Egli quindi, abbandonando la fiducia aristotelica e tomista, teorizza un certo grado di probabilità che favorisce la ricerca e la stimola in un universo di cose individuali e molteplici, non correlate da nessi immutabili e necessari. RASOIO DI OCKHAM - Ockham opera una sostanziale critica della metafisica tradizionale. Basandosi sul carattere individuale di ogni realtà, sull'empirismo e sul quel procedimento metodologico che i discepoli chiamarono il "rasoio di Ockham”. Egli afferma che è assolutamente dannoso ed inutile moltiplicare gli enti (cose e concetti) se non è necessario; sono invece da tagliare con un colpo di rasoio per non creare realtà intermedie in soprannumero rispetto a quelle da spiegare, come quando, per volere intendere l'uomo, si ricorre all'idea platonica di umanità. Ockham rifiuta pertanto gran parte dei concetti metafisici poiché considerati inverificabili o superflui. Oltre il concetto metafisico di essere analogico cade anche il concetto di sostanza; nessun motivo milita a favore della di questa entità e la sua ammissione viola il principio dell’economia della ragione. Quindi il rasoio di Ockham apre la strada a un tipo di considerazione di economia della ragione che tende a escludere gli enti e i concetti superflui, primi tra tutti gli enti e i concetti metafisici che immobilizzano la conoscenza della realtà. Secondo lui non bisogna ammettere altro all’infuori degli individui e ritiene, inoltre, che la conoscenza fondamentale è quella empirica. Ockham insiste sulla difformit à tra causa ed effetto , per cui dalla conoscenza dell'effetto non si può in modo certo risalire alla conoscenza della causa. Neppure si può discendere dalla conoscenza della causa a quella dei possibili effetti se essi non sono stati dapprima appresi per esperienza. L’esperienza è l'unico fondamento possibile di un nesso tra causa ed effetto, la quale mostra però solo il legame e non la dipendenza dell’uno dall’altra. Due fatti sono legati l'uno all'altro quando, semplicemente, al verificarsi del primo anche il secondo tende a verificarsi. In ragione di detto legame non è esclusa la possibilità di enunciare le leggi che regolano il succedersi dei fenomeni ma, in ogni caso, senza la pretesa di un vincolo causale necessario, non essendovi alcuna certezza che da una determinata causa seguirà sempre, incontestabilmente, quel determinato effetto. Per quanto riguarda il tema gnoseologico inerente al dibattuto argomento se è necessario distinguere l'intelletto attivo da quello passivo, Ockham risponde che si tratta di un problema ozioso, vano. Non solo nega come superflua tale distinzione ma afferma l'unità dell'atto conoscitivo nell'intelletto: se il complesso delle conoscenze è unico, medesimo e unitario sia nell'individuo sia nella società, unico deve essere l'intelletto che le compie. La conoscenza deriva dal contatto immediato con il mondo empirico ed ogni ricorso ad entità più complicate va respinto. Altrettanto dicasi in riferimento alle "specie" e ai "generi" aristotelici, intesi come forme eterne delle cose e come immagini intermedie tra noi e gli oggetti singoli. I generi e le specie sono inutili per spiegare la percezione degli oggetti. Il loro valore conoscitivo è nullo perché, se l'oggetto non fosse immediatamente colto dai sensi, il genere o la specie non potrebbero comunque farlo conoscere. La critica alla metafisica tradizionale è condotta da Ockham anche in base ad un altro principio, quello del cosiddetto volontarismo teologico, mediante cui egli esprime la convinzione che il mondo derivi dalla volontà misteriosa e sopra-razionale di Dio, il quale crea l'universo a suo arbitrio, senza sottostare, come preteso dalla metafisica, a 82 La teocrazia e l’aristocrazia non hanno posto nella Chiesa; bisogna ridare spazio a tutti i fedeli, membri effettivi della Chiesa. Egli critica il papato ritenendolo ricco e autoritario, che tende a subordinare a sé la coscienza religiosa dei fedeli; esso è in netto contrasto con l’ideale della Chiesa, intesa come comunità libera in cui l’autorità papale deve essere solo il presidio della libera fede dei suoi membri. Ockham critica in ugual modo anche il potere temporale, ritenendo che se l’autorità del papa ha solo un carattere pastorale e morale, egli non può legiferare per tutto il popolo per quanto riguarda il potere temporale, che rientra invece nelle competenze dell’imperatore. Esse sono due sfere indipendenti e autonome, ognuno sovrana nel suo campo, quindi l’autorità imperiale non viene da Dio attraverso la mediazione del Papa. L’imperatore non deve ritenersi vassallo del papa. Ockham però più che alla politica imperiale è interessato alla vita della Chiesa, al volerla riformare nelle strutture e negli indirizzi. Egli ritiene che il papa è fallibile, mentre infallibile è solo la Chiesa intesa come comunità universale di fedeli. FINE DELL’UNIVERSALISMO UNIVERSALE - Con Ockham si intravede l’aspirazione alla riforma che nel secolo successivo sfociò nella Riforma protestante. L’epoca dell’unità e dell’armonia è tramontata. L’accentuazione dell’individuo dell’Ordine francescano e anche della società civile, porta alla nascita del diritto soggettivo e quindi alla moderna concezione di libertà del singolo, della sua autonomia, e di conseguenza alla nascita della scienza del diritto civile come di quello ecclesiastico. Si ha iil primato dell’individuo su qualunque forma universale. Con Ockham la Scolastica è al suo epilogo. FILOSOFIA DELLA NATURA RINASCIMENTALE Dal Rinascimento (XIV secolo d.C.) il tema della rinascita non riguarda solo l’uomo, la religione o la politica, ma anche i rapporti dell’uomo con la natura, concepita come il regno del dominio dell’uomo in virtù della sua posizione privilegiata. L’interesse per la natura esprime la convinzione di disporre un potere di controllo e di utilizzazione delle forze naturali simile a quello di Dio nell’universo. L’indagine sulla natura è la prevalente forma di filosofia espressa nel Rinascimento e trova in Telesio, Bruno e Campanella i principali esponenti. L’indagine naturalistica viene svolta secondo die modalità: - la magia , particolarmente coltivata nel ‘500 sulla base della convinzione dell’universale animazione della natura, che è tutta pervasa da uno spirito, e sulla base della convinzione di poter cogliere e servirsi delle forze della natura tramite incantesimi e formule. - la filosofia della natura, che si afferma con Telesio ed è caratterizzata dall’abbandono della magia e dall’adozione di metodi di ricerca legati all’osservazione e alle sensazioni empiriche. La natura viene si considerata come una totalità vivente, ma per il resto si ritiene che essa sia retta da propri principi e che le sue forze si rivelino principalmente nell’esperienza, quindi occorre soltanto riconoscerle e assecondarle. Il naturalismo rinascimentale adotta un metodo contrapposto a quello della filosofia naturale aristotelica, intende quindi interpretare la natura con la natura, attraverso l’osservazione dei fenomeni, senza ricorrere ad ipotesi o dottrine fittizie e metafisiche; si apre così la via dell’indagine scientifica sulla natura. BERNARDINO TELESIO (1509-1588) Nasce a Cosenza e studia a Padova. Opera principale: La natura secondo i propri principi. AUTONOMIA E PRINCIPI PROPRI DELLA NATURA - La fisica di Telesio è ancora di tipo prevalentemente qualitativo e descrittivo più che quantitativo. Rispetto alla mentalità rinascimentale il suo pensiero già costituisce un tentativo avanzato nell’avvio dello studio della natura fisica sulla strada di una ricerca autonoma, separata dalla magia e dalla metafisica aristotelica, che considerava invece la fisica una conoscenza teoretica delle sostanze sensibili soggette a movimento. 85 Telesio non nega un Dio trascendente, l’anima e le sostanze sovrasensibili, ma le pone al diffusori della ricerca fisico-naturalistica; egli intende stabilire l’autonomia della natura e dei suoi propri principi e di quindi l’autonomia dalla metafisica, dalla fisica aristotelica e dalla teologia. Secondo Talesio l’uomo può conoscere la natura solo in quanto è lui stesso parte di essa, per farlo deve ascoltarla, affidandosi ai sensi che la rivelano. Talesio definisce i principi della natura su base sensistica ( la natura è un organismo vivente). I sensi ci rivelano che le forze (principi) fondamentali che agiscono sulla natura sono il CALDO e il FREDDO; il caldo dilata i corpi, li rende leggeri e li mette in moto, il freddo produce condensazione e rende le cose pesanti tendendo a immobilizzarle. Il caldo e il freddo sono principi incorporei che hanno bisogno di una massa corporea (materia) su cui agire. Questi due principi pervadono ogni corpo, si contrastano e si sostituiscono a vicenda, ma è necessario che siano dotati di sensibilità, poiché ciò che è nell’effetto deve essere anche nella causa. La facoltà del caldo, del freddo e della materia produce sensazioni piacevoli rispetto a ciò che favorisce la propria conservazione e produce sensazioni spiacevoli nel caso contrario. Tutti gli elementi sentono il rapporto reciproco; tutte le cose sono vive e senzienti. Risulta quindi errata la distinzione aristotelica tra mondo inorganico e mondo vivente, perché tra i due c’è soltanto una differenza di grado. DOTTRINA DELL’UOMO COME REALTÀ NATURALE - Secondo Telesio ciò che distingue l’animale dalle altre cose è lo “spirito prodotto dal seme”, ovvero lo spirito come sostanza corporea sottilissima inclusa nel corpo (una sostanza materiale), quindi l’anima. Essa è spirito vitale, materia sottile presente in ogni parte del corpo. In base a questo principio è spiegata la conoscenza nelle sue varie forme, la cui origine sta nella sensazione (la conoscenza nasce dai sensi). L’anima umana, oltre a quella sensitiva, possiede anche la facoltà intellettuale, ma essa ha comunque natura materiale e conosce unicamente attraverso i sensi (sensismo conoscitivo). Per Telesio la sensazione produce una conoscenza vera della realtà, essa imprime nell’anima l’immagine fedele della cosa percepita, stampata dai sensi direttamente nell’anima stessa. La conoscenza razionale invece è meno certa di quella sensoriale e ad essa si deve fare ricorso solo per la conoscenza di cose di cui non si ha esperienza immediata. L’intelligenza deriva dalla sensibilità e dalle sensazioni, e consiste nell’estendere alle cose non ancora percepite le qualità che l’anima ha colto nelle cose già percepite, procedendo secondo il criterio della somiglianza. Telesio non disprezza affatto la ragione e l’intelligenza, ma tuttavia afferma che i sensi sono più credibili perché ciò che è appreso da essi non ha più bisnonno di essere indagato. VITA MORALE VITA RELIGIOSA - la vita morale dell’uomo è spiegata in base a principi e motivazioni naturali, non metafisiche e sovrannaturali. Il bene supremo per l’uomo è la propria conservazione cosi come il male è la propria distruzione. Il fondamento della morale è la tendenza di tutti gl iessri alla propria conservazione e accrescimento. Le cose o gli eventi che favoriscono questi processi producono una dilatazione dell’anima che corrisponde a una sensazione di calore, a alla quale si associa una reazione di piacere cui diamo il nome di bene. Al contrario, altri fatti producono una contrazione dell’anima, corrispondente a una sensazione di freddo che è causa di dolore, cui diamo il nome di male. Il comportamento dell’uomo è determinato dalla tendenza spontanea a ricercare io piacere e fuggire dal dolore; l’unico spazio esistente per la volontà è un calcolo del piacere maggiore e quindi la possibilità di rinunciare ad un piacere immediato per uno più grande in futuro, oppure l’accettazione di un dolore per evitarne uno più grande in futuro. Piacere e dolore non sono il fine che perseguiamo ma piuttosto il mezzo che ci agevole nel conseguire il fine dell’autoconservazione. Secondo Telesio la virtù è la condizione necessaria per la conservazione dell’uomo nel mondo, perché impone alle passioni un controllo che evita gli eccessi dannosi. Telesio 86 riduce a puri elementi naturali l’intera vita intellettuale e morale dell’uomo, ma fa diversamente per la vita religiosa, che gli appare irriducibile alla natura, in quanto si tratta si aspirazione ad un bene che non è conosciuto dai sensi e si rivolge ad un mondo diverso da quello sensibile. Oltre allo spirito materiale dell’anima naturale, esiste qualcosa di più, un genere di anima divina e immortale, che però non serve a spiegare gli aspetti naturali dell’uomo bensì quelli che trascendono la sua naturalità. Quest’anima è direttamente infusa da Dio nell’uomo ed è chiamata da Telesio “mens superadditta”; con essa l’uomo conosce e tende alle cose divine, alla salvezza eterna, la quale è oggetto di volontà, di una libera scelta, in quanto non basta conoscere il bene eterno ma bisogna anche volerlo (libero arbitrio). Egli fa una netta distinzione (ma non un contrasto) tra vita intellettuale, morale e religiosa. Il n naturalismo di Telesio non si contrappone alla religiosità, che rimane da esso distinta ma non esclusa. Talesio ammette un Dio creatore e una Provvidenza al di sopra della natura, ma nega che si debba fare ricorso a lui nell’indagine fisico- naturalistica. Egli ritiene che la concezione aristotelica di Dio ridotto a motore immobile, a funzione motrice del mondo, sia inadeguata. Dio è il principio dell’ordine delle cose naturali e della conservazione di tutti gli esseri della natura, che altrimenti si distruggerebbero a vicenda. Dio è garante dell’ordine della natura. GIORDANO BRUNO (1548-1600) È il più illustre esponenti del Rinascimento italiano. Nasce a Nola, presso Napoli. Da giovane diventa frate domenicano; tuttavia, di carattere irrequieto e ribelle, non si limita a studiare i testi sacri e la filosofia scolastica ma anche quella di Platone, di Pitagora e la filosofia araba. In particolare trova interessanti la filosofia di Nicola Cusano e la teoria di Copernico, al punto che le sue idee finiscono col non corrispondere più a quelle del cristianesimo ed esce perciò dall'ordine dei domenicani. Accusato di eresia, per sfuggire all'Inquisizione e al processo si rifugia all'estero, in molte città. Giunto a Ginevra aderisce alla religione calvinista ma ben presto si stacca anche da essa. Si reca a Parigi dove re Enrico III gli assegna l'incarico di insegnare la mnemotecnica (l'arte per aumentare la memoria), nella quale Giordano Bruno era esperto. A Parigi entra però in contrasto con gli esponenti culturali di quella città, influenzati dalla filosofia di Aristotele mentre Bruno preferisce la filosofia platonica. Si trasferisce allora in Germania. Rientrato in Italia viene arrestato dall'Inquisizione e viene processato, prima a Venezia e poi a Roma, dove viene condannato a morte e, nel 1600, bruciato vivo come eretico nel quartiere romano di Campo dei Fiori, martire della libertà di pensiero. Scrive le sue opere soprattutto in forma di dialogo tra diversi personaggi, anche allo scopo di difendersi dalle accuse di eresia pensando, inutilmente, di poter dichiarare in tal modo che le frasi eretiche erano da attribuirsi piuttosto ad uno dei personaggi del dialogo e non a lui direttamente. Tra le sue opere si distinguono: - Dialoghi metafisici: La cena delle Ceneri (sulla rivoluzione copernicana); La causa, il principio e l'uno; L'infinito universo e i mondi; - Dialoghi morali: Lo spaccio (=l'imbroglio) della bestia trionfante; Gli eroici furori. Mentre Telesio aveva affermato l'autonomia del mondo naturale e l'oggettività dell'indagine sulla natura, precorrendo lo spirito galileiano, Bruno (ed altresì Campanella) ritorna ancora, in parte, alla metafisica e alla magia, segnando un regresso dal punto di vista scientifico ma esprimendo in modo appassionato l'entusiasmo naturalistico del Rinascimento. AMORE DIONISIACO PER LA VITA/RELIGIONE DELLA NATURA -Tutte le opere di Bruno presentano una fondamentale nota comune: l'amore per la vita nella sua potenza dionisiaca, ebbra, furiosa, e nella sua infinita espansione. Questo amore passionale gli rende insopportabile il convento, tant'è che getta la tonaca, e gli fa nutrire un odio inestinguibile per tutti quei pedanti accademici e aristotelici che riducono la vita e la natura a fredda teoria senza comprenderne la forza viva, vitalistica; la vita non va compresa ma vissuta con passione. 87 sostenne a sua difesa che occorre distinguere nettamente la filosofia naturale dalla religione e dalla fede, ovvero che la fede, basata sulla rivelazione e sulla Bibbia, si occupa della morale e della salvezza dell'anima e che perciò non bisogna aspettarci che dia insegnamenti anche sulla natura e sull'universo, pertinenti invece alla filosofia naturale e alla scienza. ETICA/UOMO NEL MONDO - Nell'opera "Lo spaccio della bestia trionfante" è narrato che Giove radunò gli altri dei per cancellare i nomi di animale (la bestia trionfante) dati alle costellazioni (Toro, Ariete, Pesci, Cancro, ecc.), ossia per eliminare l'astrologia poiché falsa, mentre la virtù è invece da porre nella verità. Essa si divide a sua volta in due ulteriori virtù: la provvidenza, che è attività di Dio (Dio vede e provvede), e la prudenza (qui intesa come impegno), che è attività dell'uomo industrioso. Nell'antica età dell'oro gli uomini se ne stavano tranquilli senza far niente, erano oziosi, ma l'ozio, ebbe a sentenziare Giove, non è cosa dignitosa per l'uomo. La virtù dell'uomo deve rinvenirsi, viceversa, nell’esercizio della prudenza, nella vita attiva e laboriosa. Quando l'uomo esercita la virtù della prudenza, operando con l'intelletto e con le mani, ampliando le sue conoscenze e producendo cose, egli diventa allora simile a Dio che crea le idee e le cose (la prudenza umana è in tal senso simile a quella divina). Il cristianesimo medievale, invece, aveva trasformato l'uomo in un essere inattivo e rassegnato poiché si consideravano non importanti la vita e l'attività terrene. Secondo Bruno bisogna vincere i vizi della rassegnazione, dell’inattività (la bestia trionfante) e il loro imbroglio (lo spaccio), per liberare ciò che di veramente divino è nell'uomo, ovvero la sua capacità di conoscere di produrre proprio perché, nel suo piccolo, l'uomo sa conoscere e creare le cose similmente a Dio, che conosce e crea il mondo. La nuova filosofia di Bruno non poteva non rappresentare anche una nuova etica, espressa particolarmente nei Dialoghi morali. Il fine è non solo la comprensione ma anche la fusione dell'uomo nell'infinità della natura. Bruno descrive la crisi dei valori cristiani e l'urgenza della loro definitiva distruzione per poterne creare di nuovi. Sdegnando ogni morale ascetica e mistica, egli si dichiara a favore di una morale attivistica, che esalti i valori del lavoro e dell'ingegno umano conformemente all’ideale dell'uomo-fabbro. La contemplazione di Dio non è fine a se stessa poiché deve rappresentare per l'uomo un incentivo a fare come Dio, producendo cose, "altre nature, altri corsi, altri ordini”. Nella opera "Gli eroici furori" Bruno celebra l'ideale platonico di purificazione dell'uomo dalle sue passioni ed istinti, per elevarsi e raggiungere l'infinito attraverso la conoscenza e l'amore. L'eroico furore è impeto, brama di ricongiungersi all'infinito, il che diventa possibile per l'uomo quando comprende che Dio è nella natura, quindi anche nell'uomo per cui l'uomo stesso è parte di Dio, parte dell'infinito. La verità va ricercata in noi stessi e quando lo scopriamo siamo animati da eroici furori, presi dalla brama dei nostri stessi pensieri. Il grado più alto della riflessione filosofica non è l'estasi mistica, il congiungimento con Dio attraverso l'oblio e il distacco dal mondo, ma è la visione magica della vita inesauribile e dell'unità della natura in Dio. Il filosofo è il "furioso", l'assetato di infinito e l'ebbro di Dio che, andando al di là di ogni limite, con uno sforzo eroico ed appassionato raggiunge una sorta di sovrumana immedesimazione con il cosmo, con l'universalità della natura. L'eroico furore è la versione naturalistica del concetto platonico di amore: l'uomo, "arso d'amore", va in cerca dell'infinito nella natura che con l’infinito divino coincide; solo l'unione tra uomo e natura può appagare le sue brame, innalzandolo al di sopra dei "bassi furori" che lo tenevano incatenato alle cose finite. In questo identificarsi con la natura l'uomo, pur non annullando la libertà delle proprie volizioni, sperimenta anche il grado più alto di libertà che gli sia concesso, l'accettazione della necessità delle cose e del destino del Tutto; questo è l'uomo nuovo. TOMMASO CAMPANELLA (1568-1639) Nasce a Stilo in Calabria. Entra nell'ordine domenicano ma subisce ben presto processi e condanne per accuse di eresia. Ritornato a Stilo, partecipa ad una congiura contro il governo spagnolo nell'intento di realizzare il suo ideale religioso-politico di fondazione 90 di una repubblica teocratica. Per sfuggire alla condanna a morte si finge pazzo, anche sotto tortura, e per ben ventisette anni rimane in carcere dove compone le sue opere maggiori. Liberato, si reca prima a Roma e poi a Parigi su invito del re Luigi XIII, dove morirà. Opere principali: La città del sole, Del senso delle cose e della magia, Metafisica. FISICA, MAGIA E CONOSCENZA - Come in Telesio, il pensiero di Campanella si fonda sul sensismo, integrato con temi neoplatonici e magici. Egli parte dalla fisica e dalla magia per giungere ad una metafisica teologica assunta a base di un rinnovamento politico e religioso dell’umanità. Per Campanella tutte le cose, comprese quelle inorganiche, sono animate e dotate di sensibilità e dalla sensazione trae origine ogni conoscenza. La vera sapienza è quella basata sui sensi, i quali soltanto possono verificare, correggere o confutare ogni conoscenza incerta. "Il senso è certo e non vuol prova; ma la ragione è conoscenza incerta e vuol prova”. Il sensismo di Campanella assume un significato diverso rispetto a Telesio, esso è inteso come contatto diretto, tramite i sensi, con la natura, disgiunto quindi non solo dalla cultura libresca ma pure dall'indagine graduale e metodica praticata da Telesio. Per Campanella filosofare è immedesimarsi nelle cose, sentirle; è soprattutto intuizione, non un comprendere ma un compenetrare nella vita delle cose e gustarle; tant’è che fa derivare la parola "sapienza" da "sapore", per cui conoscere equivale ad assaporare, a compartecipare con la cosa nella sua interiorità. Mediante la compartecipazione ci facciamo in qualche modo equivalenti a Dio, il quale rende il mondo e le cose compartecipi del suo amore (l‘empirismo di Campanella si converte in misticismo). AUTOCOSCIENZA E METAFISICA - Per Campanella il sentire non è un semplice patire, un ricevere passivamente stimoli dall’esterno, ma un "percepir di patire”, è cioè autocoscienza, “sensus sui” (consapevolezza di sé). Secondo Campanella l'anima ha una conoscenza innata di sé, tale da costituirsi come sapere originario e condizione di ogni altra conoscenza. Valorizzando l’umano sentire, ovvero il soggetto senziente rispetto agli oggetti sentiti, oltrepassa in tal senso Telesio; egli dice che lo spirito senziente non sente il colore ma innanzitutto sente se stesso, sente il colore attraverso sé. Le cose esterne rimarrebbero sconosciute se l’anima non avesse originariamente, in via innata, coscienza delle proprie modificazioni. Non potremmo percepire gli oggetti se prima non percepissimo noi stessi percepenti gli oggetti. La conoscenza di sé è più certa di quella delle cose che anzi, a differenza di quanto sosteneva Telesio, di per se stesse si rivelano parzialmente e confusamente. Questa originaria autocoscienza non è esclusivamente propria dell'anima umana ma appartiene a tutte le cose naturali poiché tutte, secondo l’organicismo naturalistico rinascimentale, sono dotate di sensibilità. Ogni cosa sente se stessa di per sé ed in modo essenziale, mentre sente le altre cose in modo accidentale, ovvero solo in quanto ha coscienza delle modificazioni che esse producono. Proprio negli stessi anni anche Cartesio giunge all’intuizioni immediata dell'autocoscienza (il "cogito") come fondamento di ogni sapere. L'autocoscienza di Campanella non è pensiero, come in Cartesio, ma sensibilità, considerata propria di tutti gli esseri della natura, animati e non; di conseguenza Campanella non si pone il problema cartesiano sull'effettiva esistenza di una corrispondente realtà esterna al pensiero. L'autocoscienza di Campanella rappresenta l'ultima e più complessa formulazione della visione animistica e vitalistica del naturalismo rinascimentale. È l'autocoscienza che rivela i principi e la struttura fondamentale della realtà naturale. Tre sono questi fondamentali principi dell ’ essere della realt à , chiamati le TRE PRIMALITÀ, ovvero il potere, il sapere e l’amore, costituenti l'essenza di tutte le cose. Ogni cosa, in quanto esiste, è in primo luogo un "poter" essere, che è condizione necessariamente antecedente all'essere di ogni ente; ogni cosa prima di essere deve poter essere. In secondo luogo, tutto ciò che può essere "sa" anche di essere; per sensibilità è dotato di coscienza di sé e delle altre cose, e su questa comune sensibilità è fondato l'universale consenso delle cose, l'armonia che regge il mondo. Infine, ogni ente che 91 sa di essere "ama" il proprio essere e desidera conservarlo sfuggendo ciò che lo danneggia. Tuttavia nelle cose finite il potere, il sapere e l'amore non sono illimitati bensì delimitati, sicché esse hanno non solo l'essere ma altresì il non essere. Anche nel non essere vi sono tre primalità: l'impotenza, l'insipienza e l’odio, che si configurano come “il male” inteso come mancanza (non essere) di perfezione e di essere. Solo in Dio, che è infinito, le primalità non sono limitate dal non essere, in lui infatti la potenza non implica nessuna impotenza, la sapienza nessuna insipienza e l'amore nessuna deviazione dal bene. Attraverso le tre primalità Dio crea il mondo e lo governa. Dalla potenza di Dio deriva la necessità per cui nessuna cosa può essere o agire diversamente da come prescrive la sua natura. Dalla sapienza divina deriva il destino, ovvero la catena causale vigente nello svolgimento dei fenomeni naturali. Dall'amore di Dio deriva l'armonia, il fine a cui tutte le cose sono indirizzate. Tutte le cose, inoltre, comunicano fra loro con immediatezza, secondo una concezione vitalistica e sensistica che pure in Campanella riveste caratteri magici. Egli distingue tre forme di magia: - la magia divina, che è quella che Dio conceda ai profeti e ai santi; - la magia demoniaca, da condannare, esercitata dagli spiriti maligni; - la magia naturale che, conoscendo ed utilizzando le proprietà delle cose, può produrre effetti meravigliosi. Alla magia naturale Campanella fa risalire non soltanto tutte le invenzioni e le scoperte, ma anche la poesia e tutta la cultura; gli stessi poeti ed oratori rientrano nel novero dei maghi. Campanella dice: “la più grande azione magica dell'uomo è dar legge agli uomini”. POLITICA TEOLOGICA/CITTÀ DEL SOLE - La Città del sole è una grande utopia magica in cui Campanella esplicita le sue aspirazioni di rinnovamento politico-religioso. In lui fisica e metafisica non sono intese fini a se stesse, ma vogliono costituire il presupposto per una riforma sociale e religiosa volta a riunire l'intero genere umano in una sola comunità ideale, in un universale Stato teologico. La Città del sole è immaginata su di un colle sovrastante una vasta campagna e divisa in sette gironi che portano i nomi dei pianeti; in cima al colle si erge un tempio rotondo. La Città è retta da un principe-sacerdote, chiamato Sole o Metafisico, il quale governa gli abitanti, i Solari, assistito da tre prìncipi collaboratori, Pon, Sin e Mor, che rappresentano le tre primalità della metafisica: potenza, sapienza e amore. Come in altri analoghi modelli utopici (la Repubblica di Platone, l'Utopia di Tommaso Moro), i beni sono in comune ed è soppressa la proprietà privata. Anche il lavoro è distribuito fra tutti i cittadini e ciò fa sì che esso non sia faticoso ma limitato a sole quattro ore al giorno. L'educazione dei solari non è libresca, ma imparano perlopiù giocando. In tutte le mura dei gironi della città sono istoriate immagini che illustrano tutte le scienze. È una città magica, costruita in modo da attirare tutto l'influsso benefico degli astri. La religione dei Solari è quella naturale. Come tale essa è innata (religio indita) in tutti gli uomini ed è il fondamento di tutte le religioni positive, che sono religioni acquisite o sopraggiunte (religio addita) e possono essere imperfette o anche false, mentre quella innata è sempre vera pur se non può stare da sola, senza quella acquisita. La religiosità innata, quale universale legame, è propria di tutti gli esseri naturali che, avendo origine da Dio, tendono a ritornarvi; la religione acquisita è propria dei soli uomini ed è la sola che implica merito e valore morale quando sia liberamente scelta e praticata. A differenza di Bruno, Campanella non ha mai assunto atteggiamenti anticristiani, ritenendo il cattolicesimo la religione più vicina a quella naturale, purché riformato nei costumi e nella pratica secondo l’originaria semplicità evangelica. Con tale atteggiamento, motivato da ragioni filosofico-naturalistiche, Campanella si inserisce deliberatamente nel programma della controriforma cattolica, giustificando e difendendo la rinnovata forza di espansione della Chiesa romana. Egli fa appello a tutti i popoli della terra perché si decidano a ritornare al cattolicesimo secondo il 92 Utopia, viene narrato, è il nome di un'isola rimasta ignota ed incontrata in uno dei suoi viaggi da Amerigo Vespucci. In quest'isola Moro colloca e descrive il proprio ideale di Stato. In esso non esiste proprietà privata ma comunione dei beni, il che fa sparire le differenze sociali; tutti gli abitanti di Utopia si avvicendano a turno nei vari lavori, sia leggeri che pesanti, di modo che non vi siano classi sociali destinate a lavori privilegiati ed altre solo a lavori umili. Il lavoro non è massacrante e dura soltanto sei ore al giorno, per lasciare spazio agli svaghi e ad altre attività. La pace è la condizione naturale di vita di Utopia perché tutti seguono l’onesto piacere e onorano Dio anche se in differenti modi (si parla di tolleranza religiosa). E’ una visione espressiva di quell’ottimismo di fondo che, per allontanare i mali della società, ritiene bastevole seguire la sana ragione in perfetta armonia con la natura (vale l'equivalenza diritto naturale=razionalità). Dibattere poi se le utopie sono peggiori dei mali che vogliono sanare perché i modelli proposti, tendenzialmente, sono in contrasto con le libertà personali e recano in sé i germi dell'integralismo e del totalitarismo, oppure se sono valide ideazioni, capaci di animare e scuotere le coscienze, è materia che ha attraversato incessantemente e tuttora attraversa il pensiero politico-sociale e morale. JEAN BODEN (1529-1596) Il francese Jean Bodin fu autore dei Sei libri della Repubblica. Egli afferma che non è la popolazione o il territorio a formare lo Stato, ma l'unione di un popolo sotto un unico sovrano. Vero fondamento dello Stato è la sovranità, intesa come potere assoluto, perpetuo e senza limiti, che si esplica soprattutto nel dar leggi ai sudditi anche senza il loro consenso (assolutismo regio). Tuttavia, il potere assoluto dello Stato deve rimanere nei limiti della legge naturale, ovvero di quella legge non scritta, ma insita in tutti gli uomini, riguardante la pacifica convivenza e la moralità dei costumi. La sovranità che non rispetta la legge naturale è tirannide. In nome di questa stessa legge naturale Bodin difende la tolleranza religiosa, riconoscendo che esiste un fondamento naturale comune in tutte le religioni. Su questa base è possibile un generale accordo religioso pur senza rinunciare alla distinta religione praticata. UGO GROZIO (1583-1645) Olandese, è il maggior esponente del giusnaturalismo rinascimentale. Sostiene che i fondamenti della convivenza tra gli uomini sono la ragione e la natura, tra esse coincidenti poiché la razionalità è specificità naturale dell'uomo. Tali fondamenti si riassumono nel "diritto naturale", costituito dalle naturali inclinazioni e sentimenti presenti in tutti gli uomini, quali il diritto alla vita, alla dignità della persona, alla libertà, alla proprietà. Il diritto naturale, per di più, ha una perspicua consistenza ontologica; esso è talmente stabile e fondato che Dio stesso non potrebbe mutarlo dato che è il criterio stesso con cui ha creato l'uomo, dotandolo di ragione e di un comune sentire, tale che Dio non potrebbe alterare se non contraddicendosi. Il diritto naturale è il comando della ragione. Le azioni comandate dalla ragione sono valide in se stesse, anche qualora Dio non esistesse o non si preoccupasse delle faccende umane. È la ragione, e il derivante diritto naturale, che rivela la sostanziale razionalità od irrazionalità delle nostre azioni, mentre le azioni oggetto del diritto positivo vigente nei singoli Stati diventano lecite o illecite solo in virtù delle leggi, anche controverse, che gli uomini stabiliscono. Grozio è sostenitore e precursore dell'origine contrattualistica dello Stato, in seguito diffusamente trattata; lo Stato è una costruzione umana originata da un contratto stipulato tra gli uomini appartenenti a un determinato territorio. Mai lo Stato, tuttavia, può violare i diritti naturali degli uomini, anche in caso di guerra. Secondo Grozio così come esiste un diritto naturale eretto sulla razionalità umana, allo stesso modo esiste una religione naturale, antecedente alle religioni positive, anch'essa derivante dall’umana ragione e perciò più vera. Essa si basa su pochi principi naturalmente avvertiti e, si può dire, infusi da Dio in modo innato nell'animo dell’uomo. Poiché 95 anteriori alle religioni positive, i principi della religione naturale sono presenti in tutte le fedi; ne consegue il principio della tolleranza religiosa, particolarmente sentito da Grozio in un'Europa insanguinata dalle guerre di religione. RINASCIMENTO EUROPEO Sorti prima in Italia, l'Umanesimo e il Rinascimento si diffusero successivamente in Europa, mantenendo inoltre, rispetto a quello italiano, caratteri di maggior persistenza e durata. Al Rinascimento succede in Italia un periodo di decadenza culturale, di formalistica erudizione, in coincidenza con l'indebolimento politico e l'assoggettamento italiano alle dominazioni straniere. In Europa il Rinascimento si sviluppa invece secondo un processo magari più graduale ma tuttavia continuativo, sino a portare senza regressi, con la rivoluzione scientifica, alla formazione della mentalità e della civiltà moderna. Due ne sono i principali esponenti: Erasmo da Rotterdam e Michel de Montaigne. ERASMO DA ROTTERDAM (1466-1536) Nasce a Rotterdam, in Olanda. Viaggia e vive in molte città d'Europa. Si laurea in teologia all'Università di Torino e diventa monaco agostiniano. Non riuscendo però a sopportare la vita del convento ottiene dal Papa l'esonero dagli obblighi monacali. Muore a Basilea, in Svizzera. Opere principali: Manuale del soldato cristiano, Elogio della pazzia. L'ideale rinascimentale del ritorno dell'uomo alle sue origini si manifesta anche come esigenza di rinnovamento della vita religiosa, esortata a tornare alla primitiva semplicità evangelica contro la decadenza e la corruzione dei costumi della Chiesa del tempo. Fuori d'Italia, tale esigenza ha nell'umanista Erasmo da Rotterdam uno dei maggiori rappresentanti. Egli critica aspramente i costumi della Chiesa cattolica ma senza rompere con essa, laddove con la Riforma protestante di Lutero e Calvino si giungerà invece alla rottura dell'unità del cristianesimo. Per Erasmo il cristianesimo non è un insieme di dogmi e di riti formali ma è soprattutto sentimento di fede. Il cristianesimo deve essere compreso da tutti, anche dagli umili, e non solo dai dotti, poiché riguarda la morale e non la conoscenza. Ciò che importa è la fede, non la teoretica teologica. A tal fine Erasmo pubblica una propria traduzione aggiornata del Nuovo Testamento perché sia direttamente letto e compreso dal maggior numero di fedeli. Le critiche di Erasmo contro la corruzione e la decadenza della Chiesa sono per molti aspetti simili a quelli di Lutero, tant'è che Lutero lo invita ad aderire al protestantesimo, ma Erasmo non accetta sia perché non intende staccarsi dalla Chiesa cattolica sia perché non concorda su precisi punti della dottrina di Lutero. In effetti, mentre la mentalità di Lutero conserva un carattere ancora medievale per la concezione pessimistica dell'uomo, visto solo come peccatore, Erasmo viceversa, che non è solo un religioso ma anche un letterato e un umanista, intende valorizzare la dignità e la libertà umana. Respinge in particolare la negazione del libero arbitrio e la dottrina della predestinazione formulate da Lutero, secondo cui solo la grazia divina è causa di salvezza mentre la libertà dell'uomo è solo causa secondaria, anzi è più un effetto che una causa. Per Lutero l'offesa che l'uomo ha recato a Dio col peccato originale è così grave che la sua buona volontà ne esce non solo indebolita ma annullata. La buona volontà e le buone azioni umane non sono sufficienti ad assicurare la salvezza se non interviene la grazia e la predestinazione divina. Dio, misteriosamente, predestina alla salvezza eterna, tramite la concessione della grazia, non tutti gli uomini ma solo alcuni; quindi, anche volendo, l'uomo non è libero 96 di scegliere da solo il bene, non possiede libero arbitrio se non è graziato da Dio. La grazia è concessa solo ai predestinati ed è da sola bastevole poiché solo l'uomo che l’abbia ricevuta sarà capace, allora, di compiere anche il bene. All'uomo non resta che sperare di essere predestinato (da solo non può fare di più). Egli crede che se l'uomo sceglie il bene per amore di Dio può vivere dignitosamente e responsabilmente e confidare nella salvezza. Famosa è divenuta l'opera di Erasmo l'Elogio della pazzia, un capolavoro di sarcasmo dedicato all'amico Tommaso Moro. In quest’opera Erasmo stesso personifica la pazzia che fa l'elogio di se stessa. Essa è presentata in maniera multiforme, a volte in modo satirico ed altre in modo critico, passando dall'estremo negativo quando la pazzia manifesta la parte peggiore dell'uomo, all'estremo positivo quando la pazzia è fatta consistere nella fede in Dio, giacché può sembrare folle credere in un Dio che non si vede e non si può pienamente comprendere con la ragione. Fra i due estremi, quello negativo e quello positivo, Erasmo presenta tutta una serie di gradi di pazzia, talora facendo uso dell'ironia socratica, talora di gustosi paradossi, talora di feroce biasimo nel denunciare la degenerazione dei costumi degli uomini di chiesa. Nella maggior parte dei casi la pazzia rappresentata è l'umana illusione, l'incoscienza, l'ignoranza, la menzogna o l'impostura cui l'uomo e la società ricorrono per nascondere la propria meschinità e la cruda realtà. Così, la pazzia di Erasmo è rivelatrice di verità, essa squarcia i veli e le ipocrisie e fa vedere che la vita dell'uomo è perlopiù una commedia, in cui ognuno copre con una maschera il suo vero volto e recita la sua parte di ipocrita finzione. MARTIN LUTERO (1483-1546) Studia a Erfurt in Germania, diventa monaco agostiniano e insegna teologia presso l’Università di Wittenberg. Lutero porta a compimento sul piano storico la Riforma e la scissione protestante, spezzando l’unità del cristianesimo. La RIFORMA PROTESTANTE è così chiamata perché nasce come protesta nei confronti della Chiesa cattolica romana. Lutero critica aspramente il potere temporale della Chiesa, la corruzione dei costumi e dei comportamenti del clero e degli ecclesiastici. La goccia che fece traboccare il vaso fu lo scandalo delle indulgenze, parziali o plenarie, ovvero le richieste sempre più eccessive della Chiesa di ricevere offerte in denaro da parte dei fedeli, promettendo l’indulgenza in cambio (la riduzione o cancellazione del periodo di pena da trascorrere in Purgatorio). Nel 1517 Lutero pubblicò e affisse sulla porta della cattedrale di Wittenberg 95 tesi, contenenti sia tutti i punti e i motivi della sua critica contro la Chiesa cattolica sia i nuovi concetti e le nuove regole. Il Papa minacciò Lutero di scomunica, ma egli riconfermò tutte le sue critiche e la sua volontà di separarsi dalla Chiesa; sorse così la nuova Chiesa protestante separata. Le tesi principali della nuova religione protestante sono: - la giustificazione dell’uomo attraverso la sola fede , ovvero solo la fede rende l’uomo giusto e consente la salvezza eterna. L’uomo riceve la fede solo se è predestinato, infatti la salvezza dell’uomo dipende soltanto dalla volontà di Dio, dal suo donare misteriosamente all’uomo la grazia. - il diritto al libero esame delle Sacre scritture , poiché conoscere le Sacre scritture è il fondamento e la base della fede e della religiosità, mentre l’insegnamento della Chiesa ha valore secondario. I fedeli protestanti sono invitati a leggere ed interpretare direttamente le Scritture e non apprenderle attraverso l’insegnamento dei sacerdoti (prorpio per questo pubblica in tedesco la Bibbia). Egli ritiene che i sacerdoti non servono e che il sacerdozio va abolito, in quanto ogni buon protestante deve essere il sacerdote di se stesso. Per organizzare le cerimonie religiose non serve un sacerdote, ma solo un pastore, ovvero un laico. - l'unico capo della Chiesa è Cristo e non il Papa , vanno quindi abolite tutte le gerarchie ecclesiastiche e anche tutti i sacramenti, tranne il battesimo e l’eucarestia, piche questi sono stati direttamente istituiti da Cristo. 97