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Storia della letteratura greca, Appunti di Letteratura Greca

Introduzione alla letteratura greca (periodizzazione, generi, generi del teatro greco, vite dei tragici, maschere nell'antica Grecia), Grandi Dionisie (Dioniso ad Atene, teatro greco: struttura e pubblico), caratteristiche della tragedia (tragedia e mito, senso di uno spettacolo tragico, funzione del coro, sopravvivenze e rinascite)

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 20/06/2022

auroratn
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Scarica Storia della letteratura greca e più Appunti in PDF di Letteratura Greca solo su Docsity! a.a. 2020 – 2021 LETTERATURA GRECA Appunti del corso 1 INTRODUZIONE ALLA LETTERATURA GRECA La letteratura greca non è paragonabile ad una letteratura nazionale, come quelle attuali, perché si estende attraverso tempi e spazi molto più vasti: nel momento della sua massima espansione il mondo greco abbracciava il mondo antico dalla Spagna all’India, con una pluralità di centri culturali che non necessariamente corrispondono con l’idea che oggi abbiamo della Grecia; inoltre le prime testimonianze risalgono all’VIII secolo a.C. ed arrivano fino al giorno d’oggi. Essa è inoltre diversa dalle altre perché costituisce un repertorio inesauribile di storie, miti, personaggi e canoni che ancora oggi costituiscono un grande modello per ogni produzione, affascinando ed influenzando popolazioni e culture anche molto diverse tra loro sin dal Medioevo. Per lungo tempo il mezzo di comunicazione principale in Grecia fu l’oralità, quindi i primi testi poetici erano stati composti per essere recitati da un cantore e recitati da un pubblico e non esistevano in forma scritta ma solo in forma di canto in occasione di feste pubbliche, private o qualsiasi altro tipo di adunanza. La tragedia, diffusasi nel V secolo a.C., nasce già quando la scrittura era ormai estesa, ma non era un testo fruibile attraverso la lettura perché era prima di tutto spettacolo (rappresentazione – visione – ascolto). Furono però i Greci a costituire la cosiddetta “civiltà del libro”, trovando in esso uno strumento di comunicazione fondamentale della letteratura. La parola greca per “libro” è biblion e si trova ancora oggi in parole italiane, solo che non indicava il libro nel formato che noi abbiamo in mente bensì indicava il rotolo di papiro, un supporto scrittorio vegetale derivante da una pianta diffusa in varie zone del Mediterraneo e composto di vari fogli incollati insieme e arrotolati intorno ad un bastone di legno da tenere in mano per aiutarsi a svolgerlo orizzontalmente durante la lettura. Fu solo molti secoli più tardi che al rotolo si sostituì il codice, nella forma di libro che abbiamo adesso. PERIODIZZAZIONE DELLA LETTERATURA GRECA Non sappiamo esattamente quando far iniziare la letteratura greca. I Greci arrivarono nella loro sede originale intorno al II millennio a.C. con una serie di successive migrazioni interne, ma la prima grande civiltà greca è quella micenea del 1600-1200 a.C. con sede principale a Micene, nel Peloponneso. Questa civiltà ci ha lasciato tracce di scrittura ma non sono testi letterari bensì burocratici utili all’amministrazione da parte dei diversi sovrani a capo delle varie città. Con il crollo misterioso del mondo miceneo e delle regge in cui il potere veniva esercitato scomparve anche l’uso della scrittura fino all’800 a.C., anche se negli stati vicini questo mai accadde. All’anno della sua ricomparsa corrisponde la scrittura alfabetica che, con vari adattamenti dall’alfabeto fenicio, usato nell’odierno Libano, diede i natali anche al nostro attuale alfabeto latino. La prima fase della letteratura greca è detta Fase Arcaica e va dalle origini al V secolo a.C. circa, un periodo in cui vennero composti i poemi attribuiti ad Omero ed Esiodo e le varie composizioni 4 personaggio esaltandone le virtù. Successivamente si svincolò però dal supporto lapideo e dall’evento occasionale diventando un genere letterario autonomo. Tipicamente greca è anche l’oratoria politica, epidittica (cioè dimostrativa e pronunciata dinnanzi a grandi adunanze) o giudiziaria, sviluppatasi in età classica e sempre ad Atene, la città democratica che per eccellenza rappresentava il luogo del dibattito con i suoi tribunali popolari e di cui furono rappresentanti Lisia, Eschine e Demostene. Ad essa connesse si svilupparono le teorie della retorica. Non ci aspetteremmo però di trovare fra i generi d’invenzione greca anche il genere del romanzo, una forma di narrazione di avventura che rispettava canoni e luoghi comuni, come racconti di intrighi, peripezie, separazioni drammatiche e ricongiunzioni di due amanti, i tipici protagonisti di questo tipo di narrativa. Uno schema topico e già antico, se ci si pensa, ma sfruttato anche da Alessandro Manzoni nei suoi Promessi Sposi. Nacque poi il genere della biografia, di grande fortuna in età romana e redatta soprattutto da Plutarco nelle sue Vite Parallele, in cui metteva a confronto un romano ed un greco di fama mondiale, oppure ancora da Diogene Laerzio con le su Vite dei filosofi e da Filostrato con le sue Vite dei sofisti. Il problema della letteratura greca, quando ci si accinge a studiarla, è l’assenza dei manoscritti degli autori, perché il papiro è un materiale deperibile, tanto pregiato quanto delicato, che tende a sfaldarsi e scomparire con il passare dei secoli. All’epoca l’autore componeva il proprio testo, che veniva messo in scena, letto o recitato; esso, se fortunato, veniva poi copiato diverse volte, sottoponendosi ogni volta all’inserimento di errori e di omissioni arrivando fino a noi profondamente mutato. Un’altra difficoltà è data dal fatto che della letteratura greca la maggior parte dei testi siano andati perduti, perché poco interessanti, o distrutti in incendi o altri eventi calamitosi, comunque in parte in maniera casuale e in parte in modo deliberato: si stima che possediamo solo il 10% di tutto quello che è stato scritto, si pensi che Euripide aveva scritto una novantina di tragedie e ce ne sono pervenute appena diciassette. Quindi è necessaria da parte dello studioso una consapevolezza del fatto che le generalizzazioni fatte in merito potrebbero essere completamente sbagliate e fuorvianti. Ogni tanto però testi nuovi e sconosciuti vengono ancora scoperti e gettano una luce diversa su ciò che sappiamo della letteratura. GENERI DEL TEATRO GRECO “L’esperienza greca contiene in nuce tutto ciò che il teatro è stato nei secoli successivi, ma anche tutto ciò che il teatro non è più stato capace di essere.” (GIORGIO IERANO’, La tragedia greca. Origini, storia, rinascite) L’etimologia più facile da analizzare è senza dubbio quella della parola dramma, che provenendo dal verbo greco dran significa semplicemente “azione”. Il genere più antico del teatro greco era la tragedia, di cui gli eruditi ci dicono che sia stata messa in scena per la prima volta ad Atene tra il 534 a.C. e il 532 a.C. da Tespi (secondo la leggenda nato nel borgo di Ikarion esattamente come Susarione, mitico inventore della commedia), una figura 5 di cui noi nemmeno siamo sicuri dell’esistenza ma il cui nome è stato riportato su di un’epigrafe sull’isola di Paro. Aristotele ci disse che l’origine della tragedia antica andrebbe ricercata nelle improvvisazioni (in greco autoschediasma) ditirambiche cantate dagli exarchontes ( = capicoro che davano via al canto, magari con l’accompagnamento di uno strumento musicale), via via fattesi più complesse e sempre meno giocose fino alla forma che ad oggi noi le riconosciamo. Il passaggio essenziale da capire sarebbe dunque quello che porta il cantore delle gesta degli eroi ad identificarsi con l’eroe stesso e a parlare quindi in prima persona. Alcuni cercarono di ricostruire il significato e la storia della tragedia a partire dalla sua etimologia, visto che in greco tragodia sembrerebbe significare letteralmente “canto del capro” (tragos odos): questo vuol dire che si sacrificava un capro come vittima espiatoria (il famoso pharmakos) per purificare la città liberandola in tal modo dalle sue colpe accumulate durante l’anno, oppure che il coro era formato da uomini vestiti da satiri (in realtà in origine i satiri erano per metà equini e per metà umani quindi anche questa ipotesi faticherebbe a reggersi in piedi), oppure ancora che il vincitore riceveva in premio un capro? Il primo testo integrale a noi rimasto è però quello de I Persiani di Eschilo (tra l’altro una tragedia eccezionale perché mette in scena una vicenda politica realmente accaduta, dal punto di vista del nemico quindi comunque la dimensione dell’alterità viene rispettata attraverso una distanza non più temporale bensì spaziale), del 472 a.C., capiamo dunque quanto sia vasta la lacuna fin dalle origini del genere. Conosciamo poi i nomi di centinaia di poeti tragici, come Cherilo, Pratina e Frinico (colui che fu multato per aver messo in scena la presa di Mileto – oikeia kaka - e aver suscitato un pianto generale nel pubblico), ma della gran parte di loro nessuna opera ci è giunta perché in forma integrale ci sono giunte solo quelle di Eschilo, Sofocle ed Euripide, tutti poeti del V secolo a.C. e che già gli antichi ritenevano i più grandi poeti tragici in assoluto, cosa che fece la loro fortuna. Anche di questi autori, però, non tutti i drammi sono arrivati fino a noi: Eschilo avrebbe scritto una novantina di tragedie e ne possediamo solo sette (sappiamo inoltre che in antichità era considerato il miglior autore di drammi satireschi ma nessuno di questi è giunto fino a noi), Sofocle ne avrebbe scritte 123 e ne abbiamo sette, Euripide una novantina e ne abbiamo solo diciassette per le quali è difficile inoltre stabilire una cronologia precisa. Le opere che possiamo toccare con mano sono state tutte scritte da Ateniesi e messe in scena tutte ad Atene dal 472 (Persiani di Eschilo) al 401 a.C. (Edipo a Colono di Sofocle, per altro rappresentata postuma), un arco di tempo estremamente limitato per parlare di tragedia greca in generale perché infatti riflettono le idee di una determinata città in un preciso periodo di tempo, sicuramente non sono lo specchio un insieme di esperienze variegate quali il teatro greco sarebbe effettivamente stato. Le tragedie avevano più o meno gli stessi temi della poesia epica eroica perché narravano miti (mythos significa semplicemente racconto) di dei ed eroi smisurati nel bene e nel male (la verità viene alla luce quando il mondo degli dei e degli eroi e quello degli uomini si ricongiungono), lontanissimi nel tempo, ma si riteneva che fossero fatti comunque realmente accaduti nella storia più antica dell’umanità, di cui infatti i Greci avevano scandito una cronologia, per quanto le date fossero contraddittorie. Un eroe, nel mondo greco, era una creatura intermedia fra gli uomini e le divinità, sovrumani perché più belli, forti e potenti degli uomini comuni, ma mortali e vulnerabili, salvo casi eccezionali di divinizzazione dopo la morte. Oggi l’eroe è positivo, ma all’epoca la sua vera caratteristica era l’eccesso sia nel bene che nel male, quindi poteva essere anche un assassino o uno stupratore. Tutte queste storie eroiche, comunque, in questo periodo erano già diventate il fulcro di vicende politiche. Essendo ben note al pubblico e consacrate da grandi poeti, queste storie riscuotevano successo semplicemente per il modo in cui tale mito veniva rielaborato e presentato, con variazioni di tema e personaggi purché non ledano i tratti essenziali ma solo quelli di contorno. Bisogna comunque ricordare che ciò che ci è giunto della tragedia greca, ma è un discorso che vale per qualsiasi testo antico, è frutto di una scelta che è stata fatta nel rispetto del gusto delle diverse 6 epoche passate, dalle antologie scolastiche come quelle degli Antonini nel II secolo a.C., alle sillogi create dai teorici bizantini, alle varie copie redatte in epoca medievale fino ai giorni nostri. Per quanto concerne le interpretazioni che sono state fatte in merito in epoche successive, interessante è ad esempio l’opinione della cosiddetta Scuola di Cambridge che, influenzata da Il ramo d’oro di James Frazer, attribuiva alla tragedia una mera dimensione rituale, vedendo in Dioniso il dio della morte e della resurrezione, lo spirito dell’anno che moriva d’inverno per rinascere a primavera. Altra interpretazione ritualistica venne data da René Girard ne La violenza e il sacro, libro nel quale sosteneva che la tragedia sarebbe assimilabile al rito del capro espiatorio per purificare la città dai propri mali. Resta il fatto che il teatro fu un fenomeno troppo complesso per essere schematizzato in un qualsiasi modo, anche se non è escluso il fatto che molti rituali durante le feste greche si svolgessero in forma drammatizzata. Infatti una visione del tutto laica risulterebbe in ogni caso inadeguata, poiché le rappresentazioni e le feste dionisiache non possono essere viste solo come occasioni per non lavorare e per bere, un po’ come qualsiasi altra sagra di paese. Il problema che noi abbiamo nell’interpretazione del mondo greco e delle sue istituzioni è che abbiamo perso la capacità di credere in una pervasività tra il sacro e tutti gli aspetti del vivere quotidiano sia individuale che collettivo. Le diverse interpretazioni scaturiscono dalle necessità della cultura che le produce, e in quanto tali non potranno mai essere imparziali o completamente esatte; questo non solo perché il mondo greco è diverso dal nostro ma anche perché il nostro è caratterizzato da una sua molteplicità di realtà ugualmente importanti. L’invenzione della tragedia, perfettamente inserita in un universo politico, sociale e letterario allo stesso tempo, costituirebbe una nuova maniera secondo la quale l’uomo può comprendere se stesso nei suoi rapporti con gli altri, con la natura e con gli dei. Poiché nella tragedia ogni norma sembra essere fatta per essere trasgredita, o comunque messa in discussione, non stupisce che questa sia associata a Dioniso, il dio della confusione e della trasgressione per eccellenza. “La tragedia nasce quando si comincia a guardare il mito con gli occhi del cittadino.” WALTER NESTLE Il costume tipico degli attori tragici consisteva in un tipo di calzatura particolare, stivali rialzati detti coturni e usati soprattutto dopo l’età classica, ma a parte questo ogni drammaturgo decideva come vestire i suoi personaggi: quelli di Eschilo erano solitamente eleganti e fastosi, Euripide invece li vestiva di stracci e per questo venne anche scherzosamente rimbeccato da commediografi come Aristofane. L’altro grande genere drammatico è la commedia, sviluppatasi nel 487-486 a.C. circa e messa in scena per le prime volte si crede sempre ad Atene. Sempre da ciò che conosciamo grazie alla testimonianza di Aristotele, la commedia trarrebbe la propria origine dalle falloforie, ossia le processioni falliche in cui questo oggetto veniva appunto trasportato per le vie della città (e che talvolta si concludevano proprio in un teatro) in virtù delle sue funzioni apotropaiche e di fecondità con l’accompagnamento di canti in onore di Dioniso e di battute e scherzi osceni rivolti a tutti i presenti. Come è stato fatto anche per la tragedia, molti hanno provato a ricostruire le sue origini a partire dall’etimologia, in quanto il termine comodia sembrerebbe fare riferimento al canto del komos, ossia un corteo di ubriaconi che in una processione notturna cantavano e si rivolgevano scherzi osceni. Oggi ci rimangono undici testi integrali attribuiti esclusivamente ad Aristofane, che visse tra il 445 e il 385 a.C. e che conosceva bene il contemporaneo Euripide, e qualche cosa di Menandro (342- 292 a.C.), che scrisse in età ellenistica. Sebbene ci venga naturale attribuire anche la nascita della 9 forse è proprio per questa sua straordinaria modernità che oggi noi lo apprezziamo più di quanto non fosse stato apprezzato in passato. Come funzionava nelle botteghe degli artisti, anche il mestiere del drammaturgo si tramandava di generazione in generazione: Eschilo e il figlio Euforione, Sofocle e il figlio Iofonte, Euripide e il nipote (o figlio) Euripide il Giovane, ecc… MASCHERE NELL’ANTICA GRECIA Oltre alle maschere comiche e tragiche indossate dagli attori durante le rappresentazioni, esisteva in Grecia tutta una serie di maschere cultuali in marmo, terracotta o legno usate per raffigurare una data divinità o per coprire i volti di tutti coloro che officiavano un determinato rito. Le tre divinità che tradizionalmente richiedevano nei loro culti la presenza di una maschera erano Artemide, Dioniso e la Gorgone. La maschera di Medusa, unica mortale fra tutte le Gorgoni e in quanto tale decapitata da Perseo, era attiva e diffusa fin dal VII secolo a.C. e consisteva in uno spaventoso volto femminile, con gli occhi sgranati e il volto dilatato, dal ruolo apotropaico e decorativo. Vi è una predominanza dello sguardo, in questa maschera, uno sguardo che incute panico irrazionale, un terrore soprannaturale trasformato in protezione per un processo di inversione; ed ecco dunque spiegata la sua frequenza sugli scudi dei grandi eroi. Tradizionalmente, si dice che Atena abbia inventato il flauto per imitare la voce delle Gorgoni ma che, vedendosi in uno stagno abbruttita dalle gote gonfie, lo abbia gettato via. Il satiro Marsia se ne sarebbe poi appropriato e ne avrebbe fatto lo strumento delle possessioni iniziatiche. L’alterità di questa maschera starebbe, in sintesi, nella sua dimensione mostruosa, contrapposta nettamente a quella umana, oltre al fatto che incarna al tempo stesso diversi valori: gioventù e vecchiaia, bello e brutto, maschile e femminile, umano e bestiale, mortalità ed immortalità. Come abbiamo già detto, anche il culto di Artemide, dea cacciatrice, attribuisce un ruolo centrale a travestimenti e maschere. Prima di iniziare un discorso organico su questa alterità bisognerebbe dire che lo spazio artemisiano è sostanzialmente una zona di frontiera come lo sono le montagne, o luoghi lontani dalla città in cui spesso i santuari a lei dedicati si trovano, o ancora le spiagge (limiti tra terra e mare); luoghi insomma dove selvaggio e civilizzato vengono a contatto. Artemide è inoltre la dea che presiede i rituali di passaggio dei giovani adolescenti, preparando le giovani donne al matrimonio e i giovani uomini alla cittadinanza, aiutando dunque ognuno di loro a prendere coscienza della propria identità in modo da occupare il posto che gli spetta nella vita adulta. Per fare un esempio, le ragazze non potevano prendere marito se tra i cinque e i dieci anni non avevano mimato l’orsa e il suo percorso: si fa riferimento ad un’orsa addomesticata con la quale una fanciulla giocò troppo e si trovò ferita, cosa che portò suo fratello ad uccidere l’animale. La maschera fondamentale, però, per la tragedia greca e per il teatro greco in generale, era quella di Dioniso, che si occupava di insegnare e trasportare nell’alterità non i ragazzi bensì gli adulti, agendo sulla loro vita quotidiana. E Dioniso era, in fondo, l’altro per eccellenza visto che i Greci lo consideravano un dio estraneo pur essendo forse il più radicato nella loro cultura; e anche nel suo caso la faccialità è essenziale, gli è indispensabile per affascinare chiunque lo guardi e questo aspetto viene ribadito anche nelle Baccanti di Euripide. 10 Durante le feste dionisiache, si appendeva su un pilastro la maschera barbuta del dio, si sistemava su di essa una parrucca e una corona d’edera e si vestiva il pilastro di stoffa prima di cominciare ad organizzare intorno ad esso un culto: davanti ad esso le donne distribuivano solennemente il vino agli uomini e agli dei, dato che loro non potevano berne. In tutti i casi visti finora, dunque, vediamo come la maschera altro non fosse che un modo per affrancare l’umanità dalle strette costrizioni sociali a lei imposte attraverso un universo parallelo. 11 GRANDI DIONISIE Il V secolo a.C. fu per la Grecia un periodo storico che portò con sé grandi cambiamenti, situazioni destinate poi ad evolversi nel corso del IV secolo a.C. come, per fare un esempio, il passaggio dalla polis democratica all’impero universale del re macedone Alessandro Magno, con tutto ciò che questo comportava. Consapevole del prestigio ottenuto nella piana di Maratona nel 490 a.C. e nella battaglia di Salamina del 480 a.C. contro i Persiani, Atene istituì intorno a sé una confederazione di isole e città marinare dalle quali ricavava i tributi che le consentirono di prosperare, di arricchirsi di monumenti voluti da Pericle e di suscitare le invidie di Sparta che portarono le due poleis a fronteggiarsi nella Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), una guerra che porterà il suo impero a crollare su se stesso così come furono distrutte le sue famose Lunghe Mura. Quando Alessandro Magno intraprese le sue campagne di conquista si creò un mondo multietnico in cui la cultura greca e quella orientale, strettamente a contatto tra loro, si mescolarono definitivamente. Si dice poi che le grandi feste civiche del VII e VI secolo a.C. siano state sfruttate dai tiranni, fra i quali i Pisistratidi, per consolidare il proprio potere personale mediante delle feste che fossero simbolo di una religiosità ecumenica in grado di soddisfare i ceti popolari, del cui consenso i tiranni avevano disperatamente bisogno per restare al potere, oltre al fatto che queste si presentavano anche come occasioni in cui la suggestione era sovrana. Secondo Erodoto sarebbe stato il tiranno di Corinto Periandro ad introdurre i primi spettacoli ditirambici, così come il tiranno di Sicione Clistene avrebbe istituito una riforma non meglio precisata riguardante i cori tragici. Non era poi pratica rara celebrare un dio attraverso l’istituzione di agoni di qualche tipo, basti pensare alle Olimpiadi in onore di Zeus Olimpio o degli agoni sportivi e canori in onore di Apollo a Delfi e a Delo. DIONISO AD ATENE Le tragedie greche erano scritte per occasioni specifiche, ossia feste in onore del dio Dioniso che si svolgevano ad Atene. La più importante si chiamava Grandi Dionisie, così chiamata per distinguerla dalle Dionisie rurali invernali, e durava cinque giorni tra fine marzo e inizio aprile, il mese che gli Ateniesi chiamavano Elafebolione: si trattava, come tutte le feste greche, di un’occasione di rottura con il quotidiano. I testi erano pensati per uno specifico teatro, ossia quello di Dioniso alle pendici dell’Acropoli (oggi ne vediamo una monumentale ricostruzione di epoca romana, infatti nel V secolo a.C. i sedili non erano in marmo ma erano banchetti di legno che sfruttavano le pendenze di colline preesistenti), non vi era alcuna idea del teatro come evento ripetibile e replicabile, bensì si trattava di un momento unico all’aperto, anche se nella realtà potevano esserci repliche in teatri minori di cittadine intorno ad Atene, anche se non colpivano così tanto il pubblico dal punto di vista emotivo come l’occasione principale; inoltre le prime repliche istituzionalizzate risalivano al 386 a.C. Il teatro esisteva poi solo all’interno di una specifica cornice religiosa, rituale, 14 esemplificativo. A partire dal 449 a.C., inoltre, vennero addirittura istituiti dei concorsi per la scelta degli attori, che assunsero via via un ruolo sempre più importante talvolta anche rimaneggiando le tragedie per esaltare la propria parte, motivo per cui lo statista ateniese Licurgo nel 330 a.C. fece mettere per iscritto i testi dei tre grandi tragici senza la possibilità di modificarli. I primi tre giorni erano destinati alla rappresentazione delle tragedie in una dimensione agonale: infatti i tre poeti tragici erano in gara l’uno contro l’altro e concorrevano per un primo premio facendo partire le proprie rappresentazioni (tre tragedie e un dramma satiresco) all’alba. Il quarto giorno venivano invece rappresentate l’una dopo l’altra fino al tramonto cinque commedie in competizione tra loro. Per garantire l’imparzialità della giuria incaricata di nominare i vincitori degli agoni tragici e di quelli comici, veniva estratto a sorte dall’arconte eponimo un cittadino per ognuna delle dieci tribù in cui la città era divisa, gli si faceva prestare un giuramento solenne e, per scongiurare eventuali pressioni e intimidazioni, si estraeva il giudizio di solo cinque di essi. Per quanto riguarda però i criteri adottati dai giudici non sappiamo un granché, anche se possiamo facilmente immaginare che la coreografia, e l’accompagnamento musicale costituissero una parte rilevante del giudizio insieme ad altri elementi spettacolari. Caratteristica poi della festa era l’usanza degli “sberleffi dal carro”, una pratica secondo la quale dei cantori sarebbero andati in giro per la città insultando i cittadini che li guardavano o rivolgendo loro battute scherzose. Alla fine della rappresentazione e delle celebrazione in generale, un’assemblea di cittadini riuniti a teatro valutava la festa e la condotta dell’arconte eponimo, che eccezionalmente prendeva il posto dell’arconte basileus nella gestione di questa straordinaria cerimonia religiosa. TEATRO GRECO: STRUTTURA E PUBBLICO In origine le rappresentazioni venivano messe in scena nell’agorà, dove veniva costruita un’orchestra e il pubblico sedeva su banchi di legno chiamati ikria, il cui crollo nel V secolo a.C. portò all’erezione definitiva di un teatro (theatron ha la stessa radice del verbo che in greco significa “guardare”) in legno, anche se l’evento traumatico non è verificabile e infatti la struttura in pietra venne costruita solo nel 330 a.C. Dalle fonti archeologiche e da ciò che Vitruvio ci raccontò nel suo trattato De architectura, nel teatro greco, quello di Dioniso ad Atene ospitava circa quindicimila persone, vi era un koilon a semicerchio dove sedevano gli spettatori divisi per tribù ma non per classe sociale (tranne il sacerdote di Dioniso che aveva il suo trono centrale e le alte cariche dello stato e gli orfani di guerra che sedevano nella proedria), davanti vi era un’orchestra che rappresentava lo spazio per le danze del coro; le tragedie greche infatti prevedevano la partecipazione di minimo uno e massimo tre attori (protagonista, deuteragonista introdotto da Eschilo e tritagonista introdotto da Eschilo o Sofocle) e di un coro che interloquiva con loro e che entrava nell’orchestra sfilando da accessi laterali chiamati parodoi. La skené, frequentemente riutilizzata visto che tanto la scenografia era per lo più verbale, era in origine una tenda che stava dietro agli attori e dietro alla quale essi si cambiavano e rappresentava una facciata di palazzo con tre porte d’accesso (ma se si immaginava che i protagonisti arrivassero da lontano avrebbero dovuto usare la parodos), essa 15 cominciò ad essere dipinta, si pensa, con Sofocle. Gli attori recitavano di solito su di una piattaforma rialzata posta davanti alla skené e che li separava dal coro, pur avendo qualche gradino percorribile nelle scene di dialogo fra le due parti del cast. Già il fatto che il teatro fosse all’aperto, privo di giochi luminosi ed effetti sonori (sebbene la musica e la danza avessero un ruolo centrale nelle rappresentazioni) e popolato di un pubblico il più delle volte indisciplinato e schiamazzante (spesso richiamato a suon di bastonate da un servizio appositamente istituito, ossia quello dei rabduchoi) che comunque pagava due oboli per accedervi, rendeva difficile credere nella finzione scenica: gli spettatori non perdevano mai la cognizione dello spazio e del tempo anche se spesso credevano che fosse reale ciò che i drammaturghi mettevano in scena per loro. Inoltre, durando tutto il giorno le rappresentazioni, gli spettatori si attrezzavano spesso con cibi, che potevano anche essere lanciati sulla scena, bevande e cuscini. 16 CARATTERISTICHE DELLA TRAGEDIA TRAGEDIA E MITO Il mito narrava storie che si credeva fossero realmente avvenute in un lontano passato, un tempo astratto che già i Greci del V secolo a.C. provarono a collocare in una determinata cronologia. In tutta la Grecia esistevano infatti santuari dove si celebrava il culto degli eroi, luoghi in cui venivano conservate reliquie a loro connesse e in cui si pregava o si faceva appello al modello che erano diventati dopo la morte. La specificità del teatro consisteva nel mettere in scena protagonisti trattati da qualsiasi forma d’arte inserendoli in un tempo contemporaneo agli spettatori, sta in questo la magia del teatro: l’attore, attraverso la maschera, si trasformava per un breve tempo in questo o quell’eroe (si parla di attualità scenica), che affrontava temi e problemi legati alla polis del V secolo a.C. con un linguaggio attuale, legato alle usanze, alle leggi, agli ordinamenti statali e ai valori di quel determinato periodo. Rispetto al ditirambo, la tragedia metteva in scena una versione nuova e problematica dell’eroe utile al poeta per indurre i cittadini a riflettere sul rapporto fra realtà e apparenza e su quello tra verità e menzogna non solo nel mondo del mito ma anche in quello a loro contemporaneo. Non stupisce allora che Karl Jaspers abbia definito la tragedia “il luogo del conflitto inconciliabile”, visto che il vero viene presentato nella sua molteplicità e la realtà viene presentata nelle sue più intime contraddizioni. Si sa che i Greci con il conflitto avevano un rapporto stretto visto che sono unanimemente riconosciuti come gli inventori dell’attività politica, che oggettivava i conflitti tipici del mondo umano senza però sperare in questo modo di annullarli; in quest’ottica la letteratura greca, di qualsiasi genere, appare dunque come qualcosa che dissimuli una realtà che sta cercando di nascere e svilupparsi: “la storiografia riconosce e circoscrive, entro certi limiti, il conflitto politico; l’orazione funebre lo annulla; la commedia lo volge a derisione nella sua stessa essenza; e la tragedia lo espatria”. Un poeta comico del IV secolo a.C., Antifane, prendeva in giro i poeti tragici per la comodità tipica di poter trarre spunto da miti antichi e conosciuti da tutti anziché inventare trame innovative, oltre al fatto che per risolvere problemi di intreccio si ricorreva spesso a macchinari scenici ed effetti speciali che giocavano sullo stupore del pubblico. Ecco alcuni esempi di macchinari usati nelle rappresentazioni: il bronteion, una scatola metallica con all’interno pietre per riprodurre il rumore dei tuoni, il keraunoskopeion per i fulmini, “scale di Caronte” culminanti in una botola in mezzo all’orchestra per la comparsa e scomparsa improvvisa dei personaggi, periaktoi dipinti con scenari diversi su ogni lato del prisma. È però probabile che tutti questi marchingegni siano di epoca successiva al V secolo a.C. Sicuramente, invece, i Greci di quel periodo facevano uso della mechané, una sorta di gru utile alla simulazione del volo di una divinità, molto amata da Euripide per l’apparizione delle divinità (da qui il detto deus ex machina, usato per indicare l’intervento di una divinità comparsa dall’alto per sciogliere l’intreccio); e poi c’era l’ekkylema, un carrello su ruote o una piattaforma girevole per spostare il materiale scenico o i protagonisti. E in realtà l’intera faccenda è un po’ diversa da come ci viene presentata dal commediografo. 19 FUNZIONE DEL CORO Fin dall’antichità, si pone nella critica sulla tragedia il problema della funzione del coro (choros in greco fa proprio riferimento alla danza più che al canto) nella tragedia greca, presente fin dal V secolo a.C. per interagire con gli attori, cantare e intervenire direttamente nell’azione drammatica. Già la Poetica di Aristotele si pone questa questione, interpretando il coro come se fosse uno degli attori, ma la lettura tradizionale del coro tragico ne privilegiava la funzione di spettatore ideale o idealizzato (opinione di August Wilhelm Schlegel), portavoce della comunità raccolta in teatro, proiezione sulla scena tragica della collettività degli spettatori e con essi della polis ateniese, incarnava i valori e gli ideali di un autore in sintonia con la sua città: ma bisognerebbe supporre in tal caso che Atene non fosse una città divisa quando invece era dilaniata da conflitti interni come qualsiasi altra polis. Quindi il coro assisterebbe alla scena tragica e la sua funzione sarebbe quella di commentarla e ciò spiegherebbe gli insegnamenti morali che spesso il coro trae dall’azione con una funzione un po’ didattica: rispettare gli dei e le leggi, non trasgredire, ecc… Tale lettura è stata però messa in discussione negli ultimi anni: John Gould ha sottolineato il fatto che, a parte rare eccezioni, il coro non rappresenta quasi mai un gruppo in cui la comunità cittadina può automaticamente identificarsi, poiché i cittadini, uomini tra i 20 e i 60 anni, non potevano riconoscersi in una comunità di anziani che esaltava la propria vecchiaia (Aristotele stesso nella Politica definiva gli anziani “cittadini fino ad un certo punto”, poiché non potevano più militare nell’esercito salvo casi eccezionali e quindi perdevano anche diritti politici), oppure in donne addirittura schiave o straniere. Vi è dunque un carattere marginale ed eccentrico del coro rispetto al pubblico e anche rispetto all’azione teatrale, non è portatore di messaggi particolari in cui si possa riconoscere la voce dell’autore o del pubblico, sulla trama della tragedia non ne sa più degli altri personaggi e infatti le massime sono generiche di una morale popolare greca, banalità sostanzialmente. Un tentativo di recuperare una funzione più centrale del coro è stato fatto da altri studiosi, concentrati sul fatto che effettivamente coloro che cantavano e danzavano erano cittadini maschi che incarnavano questo o quel personaggio. Quindi sarebbe sì un personaggio della tragedia, ma era anche un coro rituale come tanti altri che cantava e danzava in onore di una divinità: il coro a questo punto rappresenterebbe dunque la comunità che onora Dioniso nel teatro di Dioniso, è una proiezione della devozione nei confronti della divinità, una devozione in cui tutta la comunità si riconosce. Anche questa lettura in realtà non è esente da problemi, in quanto non prenderebbe in considerazione l’idea aristotelica del coro come attore e perché le danze rituali venivano espletate già nei primi giorni della festa con cori di cittadini di cinquanta e non quindici persone come nelle tragedie o ventiquattro come nelle commedie, che tra l’altro cantavano senza maschera e travestimenti quindi erano immediatamente riconoscibili come comunità che venerava il dio. C’è poi il problema, per i registi contemporanei, di come mettere effettivamente in scena il coro nelle varie tragedie, non sapendo come far cantare i personaggi, se farli cantare uno alla volta o tutti insieme, e quindi nelle varie riscritture sono state formulate diverse soluzioni. Il coro delle Baccanti di Euripide, per esempio, era sicuramente molto colorato ed esotico nei costumi e forse anche la musica aveva delle sfumature orientaleggianti. 20 SOPRAVVIVENZE E RINASCITE Già dopo la morte di Eschilo nel 456 a.C. si era concesso ai didaskaloi di portare in scena i suoi drammi mediante repliche, un privilegio che nel 386 a.C. venne esteso poi a tutti i poeti facendo così della ripresa delle tragedie antiche un momento canonico degli agoni teatrali. Fu poi nel 339 a.C. che la possibilità di replicare spettacoli antichi venne estesa anche alle commedie e questo sancì ufficialmente la nascita del repertorio. Spesso queste repliche sono legate strettamente alla performance di qualche attore famoso, come Neottolemo, che fu maestro di dizione dell’oratore Demostene. Del divismo attoriale sono per altro rimaste tracce nelle tragedie per come noi oggi le conosciamo, in quanto era pratica comune per gli attori quella di rimaneggiare i testi in modo da dare alla propria parte un maggior rilievo, motivo per il quale lo statista ateniese Licurgo nel 330 a.C. fece redigere una versione ufficiale delle tragedie canoniche di Eschilo, Euripide e Sofocle in modo che tutti dovessero basarsi su quello senza modificarlo in alcun modo. A lui si deve inoltre la ricostruzione interamente in pietra del Teatro di Dioniso ad Atene, fatto che diede alla struttura una maggiore stabilità. La tendenza del IV secolo a.C. fu quella di creare opere di maggiore complessità con un sempre minore ruolo del coro all’interno delle stesse, ora ridotto infatti a semplice intermezzo fra un atto e l’altro e slegato dalla trama principale. Questo non significa però che il coro perde la sua importanza, perché infatti musica e danza acquisiscono in questo contesto un ruolo sempre più centrale. Sebbene le saghe tebane e quelle troiane non avessero perso la loro popolarità, bisogna riconoscere la fioritura in questo periodo di drammi storici di sempre maggiore fortuna. Allo stesso tempo la tragedia esce dallo stretto contesto ateniese per diventare un fenomeno panellenico, fruibile sia nella Magna Grecia sia negli accampamenti orientali di Alessandro Magno durante le sue operazioni di conquista (persino ad un sovrano del regno tolemaico in Egitto, Tolomeo IV Filopatore, venne attribuita una tragedia intitolata Adone). Siamo in un mondo in cui non c’era solo la possibilità di fruire dei testi integrali delle tragedie, messe in scena da corporazioni di autori come gli Artigiani di Dioniso, bensì si recitavano anche singoli brani. In epoca romana, sebbene alcuni avessero continuato a produrle, le tragedie persero un po’ della loro importanza a favore di altre forme di spettacolo più popolari come il mimo, la pantomima, spettacoli di marionette, attività circensi e giochi gladiatorii. In epoca medievale, con l’avanzata del Cristianesimo in Europa, il teatro venne severamente condannato da ferventi religiosi, tra i quali anche Sant’Agostino nel IV secolo, in quanto menzogna non gradita a dio. Addirittura due Concilii tenutisi a Cartagine nel 398 e nel 419 decisero di attribuire la scomunica a tutti coloro che nei giorni festivi si fossero recati a teatro anziché in Chiesa, segno che probabilmente, nonostante le critiche, il teatro continuava a conservare il suo fascino. Nel Quattrocento la tragedia greca venne riscoperta grazie allo spostamento di tutti i manoscritti da Oriente a Occidente dopo la presa di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453. Nel 1421, inoltre, l’umanista Giovanni Aurispa partì per la Grecia e ne tornò con centinaia di altri manoscritti, fra i quali alcuni dei tre grandi tragici del V secolo a.C. La prima raccolta di tragedie greche (quattro opere di Euripide) comparve nel 1495 in un’edizione a stampa, l’opera di Sofocle venne pubblicata nel 1502, quella di Euripide nel 1503 e quella di Eschilo nel 1518. Per quanto riguarda il dibattito teorico, importante fu la traduzione in latino della Poetica aristotelica ad opera di Giorgio Valla nel 1498, volgarizzata poi in italiano nel 1500 da Ludovico Castelvetro e che cominciò a diffondere l’idea di una funzione pedagogica della tragedia attraverso il concetto di catarsi. 21 Nel Seicento francese i drammi di ispirazione classica furono dominanti, sebbene molti drammaturghi, fra i quali Pierre Corneille con la sua Medea e Jean Racine con la sua Fedra, si concessero parecchie libertà rispetto al tradizionale testo tragico, complicandone l’intreccio tramite l’insistenza sulle disavventure amorose tanto di moda all’epoca. Nella cultura tedesca del Settecento, emblematico in tal senso fu Gotthold Ephraim Lessing, si recuperò l’idea di una tragedia classica che fosse pedagogica e purificatrice, alcuni drammi portarono sulla scena personaggi antichi inseriti in un contesto moderno. Una visione, questa, sicuramente influenzata dalle opinioni di Johann Jacob Winckelmann, esaltatore dell’arte greca come paradigma di bellezza ideale, di ordine, equilibrio e armonia; quindi la tragedia sarebbe vista in questo caso come un mondo di equilibrio e razionalità. Nell’epoca del decadentismo e delle avanguardie, la nozione di antico viene separata da quella di classico, si cominciano ad inseguire luoghi lontani sia dal punto di vista geografico che da quello cronologico prediligendo dunque un’antichità diversa e periferica rispetto all’Atene del V secolo a.C. Nel Novecento i grandi eroi greci vennero interpretati in moltissimi modi per parlare sovente di fenomeni contemporanei: Primo Levi, per esempio, nel suo libro Se questo è un uomo, parlava del mito di Ulisse per raccontare la vicenda dell’Olocausto; Bertold Brecht riprese la figura di Antigone per parlare del nazismo. Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia si ritagliano dunque uno spazio nella quotidianità borghese per mettere ancora una volta in crisi le nostre identità, per dimostrare la fragilità degli uomini. Per fare un esempio di come il mito possa cambiare nei suoi significati e nelle sue interpretazioni nel corso del tempo, pensiamo al caso della figura di Medea, essere talvolta divino o demonico, di cui di volta in volta si misero in scena le pene d’amore o l’esaltazione della sua natura barbarica e della sua dismisura nell’odio e nella vendetta, presentandola alternativamente come mostro o vittima (simbolo in questo caso di un’umanità oppressa) a seconda delle diverse occasioni. “Il problema non è se i classici sono attuali, il problema è se lo siamo noi rispetto a loro.” GIUSEPPE PONTIGGIA