Scarica La Nascita della Lingua Italiana: Dante, Petrarca e Boccaccio - Prof. Montuori e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! Le ragioni del prestigio il ruolo di Firenze Le testimonianze più importanti delle scritture in volgare ci sono giunte dalla Toscana e sopratutto da Firenze. Nel 1200 la città è attraversata da un grande fervore culturale dovuto alla sua grande crescita economica. In questo periodo la città conosce l'espansione dei commerci, delle attività mercantili artigianali e la nascita di importanti banche. La città diviene il centro degli scambi economici mondiali. Nel 1252 viene coniato per la prima volta il fiorino d'oro (giglio di Firenze), la moneta d'oro di Firenze ed è la prima valuta in oro dell'Europa occidentale. Il fiorino, mantenendo stabile per decenni il proprio valore ha un ruolo privilegiato nell'economia internazionale. Le grandi banche di Firenze sono in grado di finanziare anche le imprese dei sovrani. Proprio questa espansione economica fa sì che si sviluppi per le scritture mercantili un lessico specifico laddove vengono riprodotti i testi sulla base di formulari rigorosi. Le scuole di abaco, assicurano l’acquisizione delle nozioni necessarie alla professione mercantile, mentre quelle di gramatica e loica assicurano un tasso di alfabetizzazione molto alto, rispetto alla media del tempo. Quindi in una realtà così ricca e infermento che avviene l'incontro tra la cultura latina e il volgare. In questi anni aumenta la popolazione di Firenze e anche le dimensioni della città, viene costruita una seconda cinta muraria e i contadini si riversano nella città. Tra il XIII e il XIV si avvia la costruzione dei prestigiosi edifici cittadini e con l'arrivo degli ordini mendicanti ( frati francescani ), inizia la costruzione delle più belle chiese della città come: Santa Maria Novella e Santa Croce. Nel periodo tra il medioevo e il rinascimento Firenze conoscerà l'egemonia linguistica e culturale su tutto il territorio italiano grazie ai suoi scrittori ai suoi artisti e grazie anche alla conservazione delle scritture, letterarie e documentarie, pubbliche e private è inevitabile che Firenze acquista un ruolo essenziale nella storia dell'italiano e che quindi l’attenzione si concentri sul percorso che conduce dal Fiorentino alla lingua Nazionale. Prima riflessione per la nascita di una lingua Il posto occupato da Dante nella storia della lingua a lui spettano molti meriti nei confronti del volgare, accominciare dalla riflessione sulla sua origine, sul suo divenire e sul suo ruolo. Le idee di Dante sul volgare sono sviluppate in parte nel Convivio e più ampiamente nel De vulgari eloquentia. Il Convivio fu scritto tra 1304 e 1306, e avrebbe dovuto contenere il testo - commento di quattordici canzoni, però si ferma dopo l'esegesi (commento) dei primi tre componimenti. Si tratta di un'opera scritta in volgare che contiene elaborazioni autonome e originali con considerazioni di natura scientifica e filosofica (pur partendo dai testi della cultura medio - latina). La decisione di adottare il volgare, definito luce nuova e sole nuovo, si giustifica innanzitutto con la necessità di usare la stessa lingua in cui sono state composte le canzoni: il latino non può essere sottoposto alle esigenze del volgare perché il latino è una lingua nobile capace di rimanere stabile nel tempo e di trasmettersi immutata. Il latino inoltre è superiore per virtù e per bellezza perché è una lingua ricca e quindi capace di esprimere concetti e teorie ed è bella per la sua grammatica che consente di armonizzare le parole. Il volgare segue l'uso e non l'arte e non riesce a raggiungere la stessa capacità di espressione del latino. Dante giustifica la scelta del volgare per ampliare la platea dei lettori che non conoscono il latino e quindi di raggiungere i non litterati che desiderano conoscere. Per quanto riguarda i litterati a loro sarebbero giunti solo il contenuto del commento e non il significato e la bellezza delle canzoni, poiché esse sono state concepite in volgare e non è possibile tradurre in una lingua ciò che originariamente è stato armonizzato secondo il metro di un’altra lingua. Il volgare illustre il De volgari eloquentia (eloquenzia o arte del dire in volgare), fu scritto durante l'esilio, tra la metà del 1304 e 1306, è un’opera incompiuta perché si interrompe al 14 capitolo del secondo libro. A differenza del Convivio, è scritto in latino ed è interamente dedicato al volgare e alla poesia volgare. Il centro della trattazione è occupato dall'eloquenza in volgare, cioè vi è lo sforzo fatto per raffinare e potenziare la lingua della società civile costruendo armoniosi componimenti poetici per aiutare la comunità per migliorare la propria comunicazione. Dante prende lo spunto dal racconto biblico del genesi per spiegare il rapporto tra il volgare (locutio vulgaris) e il latino (loqutio secundaria), secondo l’interpretazione di sant'Agostino. La lingua è trasmessa da Adamo, che pronuncerà la sua prima parola, EL (Dio), in una lingua detta ebraica perché conservata solo presso i figli di Eber. Dopo la cacciata dal paradiso terrestre, i discendenti di Adamo ed Eva nella piana di Sennaar, cominciarono a costruire la torre di Babele nel tentativo di raggiungere il cielo. Dio punisce la loro presunzione e confonde le lingue, cioè fa in modo che gli uni non comprendano la lingua degli altri. Tutti quelli che hanno partecipato alla costruzione della torre di Babele dimenticano la lingua di Abramo, ed ogni gruppo di lavoratori muratori, architetti, trasportatori dà vita da un proprio idioma e così viene impedita la comunicazione reciproca. Gli unici che conservino la lingua originaria sono i discenti di Eber, che non hanno partecipato alla costruzione della torre di Babele e così daranno origine al polo di Israele, da cui nascerà il redentore ed essi non useranno la lingua della confusione, ma la lingua della grazia. Nella bibbia è contenuti un'altra spiegazione della molteplicità delle lingue, che riguardava il ripopolamento della guerra avvenuto dopo il diluvio universale e il dispersi dei tre figli di noè nelle tre grandi parti del mondo: Asia, Africa ed Europa. Dante conosce questa storia contenuta nella bibbia ma preferisce partire dall'episodio della torre di Babele, perché ne enfatizza la somiglia con la città terrena profanatrice, contrapposta nel De civitate dei di Agostino. Questa somiglianza è rappresentata, nel De vulgari eloquentia come un comune diviso tra corporazioni di operai e professionisti. Come si sono generati i volgari che ad oggi adoperano tutte le popolazioni ? Dante, secondo gli studiosi ebbe l’idea che le diverse lingue si fossero formate a partire dalla dispersione dell’umanità che muovendo da Babele si dirige verso ogni parte del mondo; in pratica Dante ha avuto l’idea che tutte queste lingue si fossero generate dopo la migrazione, partendo da un'unica lingua e quindi, il poeta ebbe l'intuizione di una comune origine delle lingue indoeuropee. Gli studi più recenti dicono che tre dei gruppi migratori partiti da Babele si indirizzano verso l'Europa portando con se tre diversi idiomi: ( il proto - germanico -slavo, parlato dal gruppo che si sarebbe sistemato nella parte nord occidentale, il proto greco, adoperato da coloro che avrebbero occupato l'area orientale dell'Europa e dell'Asia, il proto romanzo, posseduto da coloro che raggiunsero l'Europa sud occidentale). Da questi diomi sarebbero derivati più lingue volgari producendo , nel caso del proto - romanzo i tre volgari D'oc, d'oil e del Si che sarebbero identificati in base alla particella affermativa di ciascuni di loro, e coincidenti rispettivamente con il provenzale, il francese e l’italiano. i tre diomi si sarebbero ulteriormente diversificati tra loro, confermando così che la mutazione delle lingue avviene sia nello spazio che nel tempo: è questa l’intuizione più innovativa di Dante, un intuizione avuta dal confronto tra i volgari D'oc, d'oil e del si e la scoperta delle tante somiglianze che le accomunano. Molto sono infatti i concetti come dio, cielo, amore che vengono espresse nei tre diomi. Si tratta di lingue che sono destinate a cambiare nel tempo e nello spazio e proprio per rimediare a questo continuo cambiamento delle lingue naturali è stata costruita la gramatica. ne si identifica con il latino, ovvero con una lingua artificiale in grado di conservarsi mutata durante il tempo e nei diversi luoghi in cui è adoperata. Anche prima di Dante era diffuso l’idea che il latino non era una lingua storica naturale, ma era una lingua inventata dai grammatici. Dante, nel De Vulgari Eloquentia, dice che il latino sarebbe stato costruito solo tenendo conto dei volgari d'oc, d'oil e si, ma sarebbe stato privilegiato il volgare italiano e ciò lo avrebbe derivato dal fatto che l'avverbio affermativo “sic” era stato coniato sulla base del si. Quindi al volgare italiano viene attribuito un titolo di merito fondato sulla somiglianza con il latino e chiamato nel trattato Latius, espressione parallela a quella di Latium attribuita all'italia, parallela all'espressione latino associata agli italiani. Dante dice che l’importanza del volgare d'italia si fonda sulla grandezza dei suoi poeti: se la letteratura è in lingua d'oc, infatti, aveva raggiunto vette altissime nella prosa e quella d'oil nei componimenti poetici è nella poesia lirica in volgare la maggiore dolcezza il più alto grado sono stati raggiunti da due autori contemporanei Cino da Pistoglia e il suo amico. Nell'opera passa in rassegna i diversi volgari della penisola e geograficamente pone sette volgari a destra dell'appennino e sette a sinistra, quattordici in tutto. Questi volgari vengono esaminati con tanta attenzione con lo scopo di trovare la lingua a cui si possa attribuire il titolo di “illustre” . Esamina i tanti diomi e si sofferma sulle qualità del siciliano adoperato dai poeti della corte di Federico II, artefici di una raffinata lingua poetica lontana dal siciliano parlato. Ma il giudizio di Dante è condizionato dal fatto che ha letto i poeti siciliani nella veste toscanizzata di cui non è consapevole. Poiché il volgare italiano è diviso in tante varietà, Dante intende cercare la lingua più decorosa e illustre d'Italia, una lingua che non può derivare dalla depurazione dei volgari municipali. La lingua unitaria, in grado di porsi al di sopra delle altre deve possedere qualità ben precise, identificate da Dante con gli attributi di illustre, cardinale, aulica e curiale: con illustre si riferisce a qualcosa che risplende e che illumina gli altri e li innalza; con l'aggettivo cardinale s'intende che il volgare illustre deve avere la stessa funzione del cardine intorno al quale gira la porta, gli altri volgari dovranno seguire la sua guida e lasciarsi da lui regolare nelle loro specifiche funzioni. Gli attributi aulico e curiale, esprimono il valore politico del volgare illustre, il termine aulico si riferisce all'aula, ossia al palazzo imperiale, il termine curiale si riferisce alla epistole raccolte nelle Familiares, Semiles, Variæ. Ancora abbiamo i poemi epico pastorale dell’Africa e del Bucolicum Carmen. Da qui emerge un profilo intellettuale di Petrarca molto complesso, infatti, non fu solo un poeta in volgare e in latino, ma anche uno studioso raffinato della cultura classica. Però le opere per cui Petrarca esercita un ruolo fondamentale nella storia linguistica e letteraria sono i versi in volgare dei Rerum vulgarium fragmenta (canzoniere), che lui indicava come Muge o Nugellle, cioè inezie, cose senza importanza, in contrasto con il maggior rilievo che assegnava alle sue opere in latino. Il Rerum vulgarium fragmenta fu scritto in lingua volgare ma con uno stile alto e raffinato e per per Petrarca è frutto di una precisa scelta letteraria: ossia rendere omaggio ad una tradizione poetica già dotata di prestigio. Fermo restando però che il latino, costituisce per Petrarca, la lingua propria di ogni uomo di cultura. È in latino il titolo deciso dal poeta Rerum vulgarium fragmenta (frammenti di cose volgari), mentre Canzoniere è una denominazione forgiata a partire dalla seconda metà del 400. Nella produzione di Petrarca il latino e il volgare non appaiono come poli opposti ma come registi linguistici differenti. Anche Petrarca, come Dante sembra condividere l’idea, diffuso nel medioevo, che il latino fosse in grado di conservarsi immutata nel tempo poiché creata artificialmente. La lingua del canzoniere Carlo bembo a proposito della commedia parla di plurilinguismo, ossia di mescolanza delle voci in cui troviamo latinismi, prestiti da altri volgari, neologismi, parole di estrazione bassa e popolare e contrappone il plurilinguismo di Dante all'unilinguismo di Petrarca, anche se vari studi hanno messo in discussioni lo stabile monolinguismo dei fragmenta. D'altrocanto nei versi in volgare di Petrarca troviamo la presenza del Dante della commedia e tale presenza riguarda sia i tratti fonetici sia le scelte lessicali. È in dubbio che la lirica sia un genere non adatto al plurilinguismo e al realismo del poema dantesco e che nel Rerum vulgarium fragmenta, le parole di uso quotidiano sono utilizzate in senso metaforico e separata dalla realtà contingente. Del resto la lirica del Petrarca ha assunto il ruolo di modello per la letteratura successiva proprio perché è caratterizzata da una selezione accurata del lessico, della metrica e dei temi che riguardano proprio la lirica. Se Dante rimane immortale per la memorabilità dei singoli versi, Petrarca al di là delle parole rimangono i sintagmi, le immagini, le situazioni. Tutto ciò non deve far pensare che Petrarca riproponga forme antiche della lirica opponendosi a Dante. I componimenti di Petrarca in volgare in realtà sono frutto di una ricerca aperto alla modernità e la sua lingua, così aristocratica e selettiva, possiede una plasmabilità e una ricchezza di lemmi che la distinguono nettamente dalla lirica antica. A differenza delle opere di Dante, della versione definitiva del canzoniere, avviata nel 1366 possediamo un testimone che è una prova sicura della lingua scelta dall'autore: il manoscritto Vaticano latino 3195, infatti, è in parte autografo, vergato, cioè, dalla stessa mano del poeta, e in parte trascritto sotto suo diretto controllo dal copista ravvennate Giovanni malpaghini. La redazione finale del testo aderisce al fiorentino del tempo, anche se ci sono tratti che rilevano la storia linguistica e culturale dell'autore che va dall’ latino, al fiorentino, provenzale e francese. Fra i tratti fonomorfologici che avranno una particolare rilevanza per la futura poesia italiana troviamo la preferenza per le forme monottongate, che saranno un tratto tipo della poetica italiana. Nei fragmenta il monottongo è regolare nei casi di O aperta come in trovo o copri; meno regolare ma prevalente per la e aperta. Il lessico dei Fragmenta si muove entro un insieme ridotto di parole a cui il poeta sapientemente estende ogni singolo significato, esempio: l’aggettivo dolce lo troviamo legato a parole come acque, vista, canti rime ecc. Ma a volte lo troviamo accostato anche a sostantivi che contrastano con il termine dolce come, affanno, errore, paura e morte. A volte la polisemia viene ottenuta anche forzando il significato del termine, si pensi al sostantivo albergo che significa dimora o alloggio e il Petrarca lo usa nel Canzoniere di cuore o corpo. Ricchissimi sono anche gli usi figurati delle parole: il corpo di Laura, per esempio, può divenire, bel velo, bel carcere terreno, bella pregione e la stessa donna amata appare come bell'lume, tenero fior, candida cerva, ma anche fera bella et cruda. Nel lessico di Petrarca sono esigui i termini gallo-romanzi come augello (uccello), veglio o speglio, ridotti sono anche i provenzialismi in anza (baldanza, rimembranza ecc), mentre molto più alti sono i latinismi come “flagro (ardo), avurse (strappò) palustre (paludoso). Alcune voci rare, come adunco (ricurvo) per la prima volta lo troviamo nei versi di Petrarca e si è stabilizzato nella nostra lingua. Anche Petrarca si spinge a creare dei neologismi come il verbo incischiare (intaccare con tagli e tormentare), inalbare ( far diventare chiaro, luminoso), sbrancare (cessare di abbracciare), inostrare (ornare con l'ostro). La sintassi mostra un’ampia varietà di soluzioni che riguardano sia l’ordine delle parole nella frase, essenzialmente lineare, sia la costruzione del periodo. In alcuni casi l’ordine lineare è sovvertito per esigenze mediche. La sintassi del canzoniere è quello dei sonetti continui o monoperiodali, cioè costituiti da un unico periodo e ottenuti grazie a lunghe enumerazioni di elementi coordinati tra loro. Boccaccio e il modello narrativo Composto dopo il 1348, l’anno in cui anche Firenze era stata travolta dalla pestilenza e sicuramente prima del 1360, il Decameron si pone all'origine della novellistica e diviene modello per la letteratura successiva, italiana ed europea. Indicato da Pietro Bembo come guida da seguire per le composizioni in prosa, il volgare usato dal Boccaccio sarà determinate per la codificazione per la nostra lingua e sarà punto di riferimento per la norma grammaticale. Quando fu pubblicato il Decameron fu oggetto di censura in seguito alle disposizioni del concilio di Trento e le stampe successive si sforzeranno di conservare, nonostante i tagli della censura originale. Due istanze culturali Boccaccio si muove fra due lingue e non poche opere sono state scritte in latino. In volgare prima del Decameron sono state scritte composizioni in versi di argomenti amorosi come: il poemetto della caccia di Diana, il Filostrato, Il teseida, La commedia delle ninfe fiorentine, l’amorosa visione e il ninfale fiesolano, sia opere in prosa quali (il Filocolo, L'elegia di madonna frammenta e l'epistola napoletana) tutte scritte tra il 1333 e il 1346. Le opere in latino invece affrontano tematiche storiche, teoriche, etiche e culturali rivolte ad uno un pubblico più ristretto. Negli stessi anni vengono prodotti altri testi in volgare, come il corbaccio, il Trattatello in Laude di Dante o le esposizioni sopra la Comedia. Le due istanze culturali, rappresentate dalla ,etterstura in volgare e dalla produzione in latino hanno convissuto in vario modo. La convergenza tra la componente latina e quella volgare affiora in molti luoghi del Decameron, a cominciare dal titolo posto all'inizio dell'opera. “Comincia il libro chiamato Decameron cognio minato Prencipe galeotto, nel quale si contengono cento novelle in dieci dì dette da sette donne e da tre giovani uomini.” Al grecismo Decameron, si affianca come sottotitolo, Prencipe galeotto, con un rinvio esplicito all’inferno di Dante e al libro in cui narrava l’amore del lancilotto e Ginevra. Per rispettare l’origine greca del titolo formato da Deca (dieci) Emeron (giorno), il titolo del libro si pronuncia decameròn. La tradizione classica nel Decameròn non è solo nel titolo ma in esso troviamo alcuni luoghi dell'eneide, a cui Boccaccio attinge servendosi tanto di sintesi volgarizzate quanto dell'originale latino: Uno degli esempi riportato da Bruni riguarda il sogno in cui Enea, nella notte della conquista di Troia, vede Ettore quasi sfigurato, con la barba irsuta e i capelli insanguinati e ne ascolta le parole sulla gravità e pericolo imminente. I versi che raffigurano Ettore scarmigliato e lacero sono ripresi da Boccaccio in più modi e in più luoghi. L’autografo e le forme del Decameron Del Decameron di Boccaccio disponiamo del manoscritto autografo: nella seconda metà del 900, gli studi di Branca e Ricci (1962) hanno dimostrato Hamilton novanta è di mano dello stesso autore. Il ritrovamento dell’opera autografa è stato importante per sistemare il testo perché le copie giunte fino a noi erano caratterizzate da molte incertezze: le cento novelle ebbero un successo straordinario sopratutto tra i mercanti e furono spesso copiati non da amanuensi esperti ma da lettori che non erano sufficientemente rispettosi del suo testo, arrivando a rimaneggiarlo e tagliarlo. Il codice Hamilton novanta ci tramanda la redazione finale del Decameron, così come copiata dal Boccaccio, in età avanzata, intorno al 1370. Boccaccio era nato nel 1313 e l’opera era già stata completata quindici / vent’anni prima rispetto alla sistemazione finale che abbiamo trovato nel codice Hamilton novanta: si tratta di un arco temporale che vede rapidi cambiamenti nella lingua fiorentina, che dopo la carestia e la pestilenza che avevamo ridotto drasticamente il numero degli abitanti, a partire dal 1350 Firenze ha visto crescere la sua popolazione grazie a numerosi immigrati che, provenienti dalla campagna e dall'area pisana avevano portato con se nuovi caratteri linguistici. Il Decameron conserva sia i tratti fono - morfologici antichi ma si apre all'accoglienza di nuovi termini. Affiora nel fiorentino ipotesi di monotoggamenti che appaiono nel fiorentino del tardo 300. Ci sono pochi casi di monottongo come prego o prova e le desinenze della terza persona plurale dei perfetti, differenza di quando abbiamo visto nella commedia, sono quasi esclusivamente in: arono - erono - irono. Boccaccio spazia fra tutte le forme che fiorentino dell’epoca gli mette a disposizione: si tratta di una lingua duttile e in via di cambiamento degli anni in cui l'autore mette a punto la redazione finale del Decameron nell’ Hamilton novanta e quest'opera diviene il serbatoio di forme diverse e di un lessico ricchissimo e ricco di parole. L'autore riesce a piegare questa lingua fiorentina alla molteplicità dei temi e personaggi presentando in tal modo una prosa nuovissima. La sintassi del Decameron è apparsa l’innovazione più potente del tempo e ha influenzato tutta la letteratura successiva. Nella costruzione della frase vediamo l’influenza della sintassi latina e dall'altra un linguaggio più vicino all'uso vivo.