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Storia della Lingua Italiana (Riassunto Manuale Marazzini) + Bello (riassunto), Appunti di Storia della lingua italiana

Riassunto integrale del manuale ''La lingua Italiana (Storia, testi, documenti)'' di Marazzini + riassunto del libro ''Bello'' di Yorick Gomez Gane

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 18/04/2023

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Bello, Yorick Gomez Gane
Bello è una parola fondamentale della nostra lingua, presente nel lessico fondamentale dell’Italiano
composto da 2000 termini che da soli costituiscono circa il 90% de testi scritti o discorsi, e riguarda la vita
quotidiana, facendo parte del repertorio lessicale dei nostri rapporti sentimentali. L’aggettivo appare ne Il
contrasto, 1190, ‘’Bel messer’’ e l’anonimo Ritmo su sant’Alessio, ‘’bella figura’’. Primo esempio in testi di
natura pratica nel 1211 (Bellacalza in un libro di conti toscano). Bello deriva dal latino Bellus in maniera
ereditaria, e significava Carino, Grazioso, mentre il significato derivava da Pulcher e già dal Satyricon di
Petronio si inizia a preferire Bellus grazie al latino volgare che aveva una particolare predizione per le forme
affettive ed espressive quali diminuitivi e metafore (da agnus ad agnellus) e nelle altre lingue la sua storia è
continuata (bell in catalano, da formosus a hermano). Bellus deriva dall’arcaico Duenos (Buono) e Duenolus
(Buonino) come diminuitivo, e da qui Bellus (carino).
Essere bello: Dante dice nel convivio che consiste nell’armonia delle parti, San Francesco d’assisi lo usa
come apprezzamento generico ed è un termine molto ricco dal punto di vista semantico: lo dividiamo in tre
significati: Bello fuori, bello dentro, bello grande. La sua forma inoltre è varia (be’, begl’, begli, bei, bel,
bell’, bella, belle, belli, bello) dipendente dal contesto (varianti di posizione), e oltre alle svariate forme poi
diffuse (bell’è, che bello, bello e morire) si può raggrupparle seguendo due principali meccanismi della
morfologia lessicale:
-Derivazione: prefisso sopra- (ora super) e suffisso – ino (carino), -uccio, -etto, -occio, bellezza
dell’asino, finire in bellezza, beltà o bellore, ribellire
-Composizione: farsi bello, fare il bello in piazza, farsi bello di qualcosa, bel bello, in bellavista, di
belle speranze, bellimbusto, bella gamba, bellumore, belle arti, settebello, belvedere, nome di piante
Bello compare in tantissimi modi di dire, cosi come nei vari dialetti: in bolognese è una persona ingenua, o
per sapere da dove proviene la merce (è bela?, è comprata), o usata dal palo durante le rapine (a seim bii,
siamo belli), in veneto bel è un fiammifero e belo è la luce, nelle mache bell’ è il furto di una automobile, in
puglia la bella è la cocaina, le belle sponde sono le natiche a Torino, cosi come una donna procace o un
omosessuale. Nelle parolacce però, a noi interessa l’eufemismo, esprimibile in antifrasi, perifrasi, elevata
tecnica o bassa e infantile. A esempio, il nome italiano del membro virile può derivare dal maschio dell’oca
Oco + azzo, o dalla Cazza, mestolo, o dall’Akation, albero maestro della nave. I Calofemismi sono anche
parte dell’eufemismo, legato anche al linguaggio politicamente corretto. Oggi, Bella! È usato tra i giovani e
la nascita è discussa: Giovinardi pensa a un ellissi di Bella cosa o bella prova, Costa lo riconduce a Fare la
bella e D’Achille da Bella Ciao per contiguità sintagmatica.
8 capitoli: le sottolineature intervallano i capitoli (1-2-3-4-5-6-7-8)
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Bello, Yorick Gomez Gane Bello è una parola fondamentale della nostra lingua, presente nel lessico fondamentale dell’Italiano composto da 2000 termini che da soli costituiscono circa il 90% de testi scritti o discorsi, e riguarda la vita quotidiana, facendo parte del repertorio lessicale dei nostri rapporti sentimentali. L’aggettivo appare ne Il contrasto, 1190, ‘’Bel messer’’ e l’anonimo Ritmo su sant’Alessio, ‘’bella figura’’. Primo esempio in testi di natura pratica nel 1211 (Bellacalza in un libro di conti toscano). Bello deriva dal latino Bellus in maniera ereditaria, e significava Carino, Grazioso, mentre il significato derivava da Pulcher e già dal Satyricon di Petronio si inizia a preferire Bellus grazie al latino volgare che aveva una particolare predizione per le forme affettive ed espressive quali diminuitivi e metafore (da agnus ad agnellus) e nelle altre lingue la sua storia è continuata (bell in catalano, da formosus a hermano). Bellus deriva dall’arcaico Duenos (Buono) e Duenolus (Buonino) come diminuitivo, e da qui Bellus (carino). Essere bello: Dante dice nel convivio che consiste nell’armonia delle parti, San Francesco d’assisi lo usa come apprezzamento generico ed è un termine molto ricco dal punto di vista semantico: lo dividiamo in tre significati: Bello fuori, bello dentro, bello grande. La sua forma inoltre è varia (be’, begl’, begli, bei, bel, bell’, bella, belle, belli, bello) dipendente dal contesto (varianti di posizione), e oltre alle svariate forme poi diffuse (bell’è, che bello, bello e morire) si può raggrupparle seguendo due principali meccanismi della morfologia lessicale:

  • Derivazione: prefisso sopra- (ora super) e suffisso – ino (carino), -uccio, -etto, -occio, bellezza dell’asino, finire in bellezza, beltà o bellore, ribellire
  • Composizione: farsi bello, fare il bello in piazza, farsi bello di qualcosa, bel bello, in bellavista, di belle speranze, bellimbusto, bella gamba, bellumore, belle arti, settebello, belvedere, nome di piante Bello compare in tantissimi modi di dire, cosi come nei vari dialetti: in bolognese è una persona ingenua, o per sapere da dove proviene la merce (è bela?, è comprata), o usata dal palo durante le rapine (a seim bii, siamo belli), in veneto bel è un fiammifero e belo è la luce, nelle mache bell’ è il furto di una automobile, in puglia la bella è la cocaina, le belle sponde sono le natiche a Torino, cosi come una donna procace o un omosessuale. Nelle parolacce però, a noi interessa l’eufemismo, esprimibile in antifrasi, perifrasi, elevata tecnica o bassa e infantile. A esempio, il nome italiano del membro virile può derivare dal maschio dell’oca Oco + azzo, o dalla Cazza, mestolo, o dall’Akation, albero maestro della nave. I Calofemismi sono anche parte dell’eufemismo, legato anche al linguaggio politicamente corretto. Oggi, Bella! È usato tra i giovani e la nascita è discussa: Giovinardi pensa a un ellissi di Bella cosa o bella prova, Costa lo riconduce a Fare la bella e D’Achille da Bella Ciao per contiguità sintagmatica.

8 capitoli: le sottolineature intervallano i capitoli (1-2-3-4-5-6-7-8)

Marazzini, La lingua italiana (storia, testi, strumenti) St. e Stilistica Lingua Italiana

1. L’italiano

1. L’italiano tra le lingue d’Europa

L’italiano appartiene alla famiglia linguistica indoeuropea , la prima nel mondo per numero di parlanti. Rientrano in questa famiglia quasi tutte le lingue d’Europa e quelle di molte regioni dell’Asia meridionale, ritenute geneticamente affini. Nel Cinquecento, con le conquiste coloniali, alcune lingue indoeuropee arrivarono in altri continenti (inglese nell’America Settentrionale e in Africa, spagnolo e portoghese nell’America Centrale e Meridionale). In Europa sono indoeuropei tre grandi gruppi linguistici maggioritari: romanzo, nel quale si colloca l’italiano, germanico e slavo. Appartengono inoltre alla famiglia indoeuropea le lingue celtiche, le baltiche, le zingaresche, l’albanese e il neogreco, erede del greco antico, lingua di eccezionale tradizione. Nel nostro continente si parlano anche alcuni idiomi non indoeuropei, le lingue ugro-finniche (ungherese, finlandese, estone e lappone), il basco e il maltese. Le lingue romanze sono figlie del latino, e sono: l’italiano e i suoi dialetti, il portoghese, lo spagnolo (castigliano), il catalano (nel sud della Spagna), il francese, il provenzale (sud della Francia), il rumeno. La somiglianza di gran parte del loro lessico rivela la comune origine. Oggi circa 640 milioni di persone adoperano lingue romanze. L’italiano sta al quindicesimo posto nel mondo per numero di parlanti madrelingua, stimati in circa 59 milioni. Il prestigio e il fascino di una lingua, tuttavia, non dipendono solo dal dato quantitativo dei parlanti, ma anche dalla storia, dal patrimonio culturale e dalla forza economica e produttiva della nazione che la parla. L’italiano è stato raramente una lingua aggressiva sul piano politico-militare:, la sua importanza è legata piuttosto alla ricchezza letteraria e artistica accumulata nel corso dei secoli.

2. Dove si parla italiano

L’italiano è parlato in tutto il territorio della Repubblica, di cui è la “lingua ufficiale”, come dichiara il primo articolo della legge sulla protezione delle minoranze linguistiche, la 482/1999., nello Stato del Vaticano (anche se la lingua ufficiale della Chiesa resta il latino), nella Repubblica di San Marino (circa 30.000 persone), in alcuni Cantoni della Svizzera (300.000 in Ticino nei Grigioni), Toso: «i problemi dell’italiano in Svizzera finiscono per assomigliare sempre più a quelli di una lingua minoritaria».e ci sono piccole aree di italofoni in Slovenia e in Croazia. Questa presenza risale all’antico dominio veneziano in Istria e sulla costa dalmata, e accade di incontrare persone che ci comprendano nel Nizzardo e nel Principato di Monaco, nei territori delle ex colonie italiane e nell’ex protettorato di Rodi. Gli emigrati italiani sparsi in tutto il mondo poi, partiti tra seconda metà dell’Ottocento fin verso gli anni Sessanta del Novecento, parlavano un dialetto e pochi conoscevano l’italiano. La lingua italiana è generalmente nota alle persone di ceto elevato a Malta, dove fu di casa per secoli, prima di essere soppiantata dall’inglese. Grazie alla televisione in Albania si è rinnovato un antico legame. Anche il turismo collabora in qualche misura alla diffusione della nostra lingua

3. Alloglotti d’Italia

Occorre prestare attenzione anche alle minoranze linguistiche. Entro i confini politici della Repubblica italiana sono presenti gruppi alloglotti (dal greco “allos” “altro” e “glotta” “lingua”) di origine romanza e non

  • penisole” o (propaggini) di alloglotti (aree linguistiche più grandi, confinanti, anche all’interno dei nostri confini, tedescofoni in Alto Adige e dei Francofoni in Valle d’Aosta)
  • “isole linguistiche” (comunità di alloglotti molto piccole e isolate) La presenza di alloglotti ha dato luogo a discussioni sull’opportunità di interventi di natura politica destinati a proteggere e rilanciare la specifica cultura di queste comunità. Oggi la legge 482/1999 tutela, con modalità che lasciano perplessi e che spesso non sono applicate appieno, le minoranze linguistiche albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene, croate, francesi, franco-provenzali, friulane, ladine, occitane e sarde. Prima di questo provvedimento, le sole lingue minoritarie riconosciute e tutelate erano il francese in Valle d’Aosta, il tedesco in provincia di Bolzano e lo sloveno nelle province di Trieste e Gorizia. Molti alloglotti parlano lingue del gruppo romanzo.
  • Piemonte (provenzale occitano nelle valli alpine occidentali delle province di Torino e di Cuneo, nell’alta Valle di Susa. I più importanti centri provenzali nella Val Pellice sono di religione valdese. Una colonia valdese medievale (XV sec.) è sopravvissuta in Calabria, a Guardia Piemontese (Cs), dove si riconoscono le tracce di un dialetto provenzale arcaico. 2

I dialetti dell’area meridionale si caratterizzano per:

  1. la sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione postnasale (“mondone” per montone, “angora” per ancora);
  2. la metafonesi delle vocali toniche “e” ed “o” per influsso di “i” e “u” finali (“acitu” per aceto e il dittongo metafonetico “dienti” per denti);
  3. l’uso di “tenere” per “avere”;
  4. l’uso del possessivo in posizione enclitica (“figliomo” per mio figlio). Si tratta di una forma non ignota all’antico toscano e comunque in genere circoscritta alle prime due persone singolari. La classificazione delle aree dialettali è strumentale e non sempre i confini di un fenomeno linguistico sono chiari e univoci. Ebbene, benché in linea di massima le cose stiano come abbiamo detto, si verificano diverse eccezioni e anomalie. In alcune zone della stessa Toscana si manifesta (forse per influsso settentrionale) la tendenza a trasformare “k” intervocalico in “g”. La stessa lingua italiana letteraria in diversi casi ha accolto forme sonorizzate come “ago”, “sugo”, “drago”, “spiga”, “lattuga”, “padella”. Ma, a parte la lingua letteraria, nelle parlate di Marche, Umbria e Lazio si possono sentire delle pronunce in cui k t p intervocaliche vengono lenite (indebolite). Molto forte è la variabilità dei dialetti, che mutano da luogo a luogo, anche all’interno di una stessa regione o di una stessa città. Oggi, solo una percentuale assai ridotta di italiani parla esclusivamente il dialetto, ma il vernacolo locale può affiorare in un discorso informale, in una frase o in espressioni proverbiali. Il dialettologo si affida oggi a inchieste sul campo, basate sull’autocoscienza e sulla competenza linguistica dei parlanti. Prima descrizione sistematica e “scientifica” dell’Italia dialettale: Ascoli nel 1885, e su di essa quelle successive, fino alla rappresentazione cartografica di Pellegrini (1977) 5. Gli italiani regionali Le varietà di italiano dipendono dalla distribuzione geografica e dall’influenza esercitata dai dialetti locali; risultato storico dell’incontro tra i dialetti e la lingua nazionale. Queste varietà, varietà diatopiche dell’italiano o, secondo la denominazione a suo tempo adoperata da De Mauro, di “varietà regionali di italiano” o “italiani regionali”, hanno caratterizzazione più evidente e immediata a livello di pronuncia e di prosodia (di cui fa parte l’intonazione, quella che nel linguaggio comune è detta spesso cadenza o accento ), per le quali è facile distinguere, ad es., un bergamasco da un romano. Principali varietà di italiano regionale.
  • Settentrionale
  • Toscana
  • Romana
  • meridionale
  • sarda. Poiché Roma, oltre che metropoli, è capitale della politica e dello spettacolo, ha accolto molti elementi estranei, una tendenza a municipalizzarsi, e ha influenzato a livello lessicale le altre varietà regionali attraverso la radio, il cinema, la televisione. Sono entrate stabilmente nel vocabolario italiano parole di origine romanesca come “abbioccarsi”, “borgata”, “caciara”, “cazzata”, “fanatico”, “fasullo”, “frocio”, “inghippo”, “intrallazzo”, “scippo”, “stuzzichino”, “strazio”, “stronzo”, “tardona”. Differenze negli usi si hanno all’interno di una stessa varietà. Solo per fare un paio di esempi, l’espressione lombarda “fare i mestieri” per “fare i lavori domestici” non è intesa dai vicini piemontesi. I nomi locali si differenziano vistosamente nel campo dei cibi, nelle specialità della cucina regionale, negli utensili della casa, nelle designazioni botaniche. I regionalismi più vistosi si riscontrano dunque a livello lessicale e fonetico, ma nei livelli bassi di italiano regionale, propri soprattutto delle fasce sociali più popolari, investono anche fenomeni sintattici, per il maggior influsso del dialetto.
  1. L’italiano popolare Il linguaggio è patrimonio di tutta la comunità dei parlanti. La lingua non può essere dunque considerata proprietà esclusiva di singoli individui o delle classi più colte, ma in passato il basso popolo è stato considerato di nessun valore, o addirittura dannoso, l’interesse andava solo alla gente di Toscana, l’unica che parlasse un idioma analogo a quello letterario. L’interesse per il popolo inteso in maniera moderna, per le masse più umili, è nato nell’Ottocento con lo sviluppo delle scienze folcloriche e della dialettologia, e occupandosi del periodo storico successivo all’Unità d’Italia, i linguisti hanno riscoperto il popolo studiando l’italiano dei semicolti, le persone solo parzialmente alfabetizzate. Il popolo postunitario era arrivato a utilizzare una modesta lingua “italiana”, piena di elementi dialettali e di “errori” influenzata da vari modelli. Gramsci , in uno dei “Quaderni dal Carcere”, già nel 1935, aveva dedicato un paragrafo all’analisi dei fattori di livellamento nell’uso dell’italiano tra il popolo, individuando come poli di attrazione linguistica la scuola, i giornali, gli scrittori, teatro, il cinema, la radio, le riunioni pubbliche, in particolare quelle religiose, i rapporti di conversazione tra ceti più colti e meno colti.

A Gramsci interessava cogliere «il processo di formazione, di diffusione e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria». Le masse popolari erano viste come protagoniste di questo processo. La categoria di italiano popolare si è fissata all’inizio degli anni Settanta: “la parlata degli incolti di aspirazione sopradialettale e unitaria”. Le ricerche degli anni Settanta e Ottanta hanno avuto per oggetto quasi esclusivamente testi scritti come lettere, cartoline, racconti autobiografici e diari: la “Storia linguistica dell’Italia unita” di De Mauro, 1963, già collegava strettamente la storia linguistica ai grandi fatti sociali, assegnando alle masse popolari il ruolo di protagoniste. La scoperta di una ricca serie di documenti dimostra come anche tra gli appartenenti ai ceti sociali più bassi, almeno nelle grandi città, la capacità di leggere e scrivere non fosse totalmente assente: Petrucci ha scoperto e illustrato un quaderno di conti di una pizzicarola trasteverina della prima metà del Cinquecento, memoria di prestiti e debiti, che porta un gran numero di registrazioni autografe dei debitori e dei creditori della pizzicarola Maddalena. Alcune delle registrazioni risultano vergate da semianalfabeti, che dimostrano grande difficoltà nell’uso della lingua scritta, ma tuttavia scrivono. Sempre più spesso escono dagli archivi testi risalenti al periodo tra il Cinquecento e il Settecento, redatti in quello che si è soliti definire italiano popolare , scritture di semicolti (lettere, note, diari ecc) materiale prodotto da gente del popolo che, sebbene in maniera imperfetta, si dimostra pur in grado di usare la penna a fini strettamente pratici e utilitaristici, adoperando un italiano scorretto grammaticalmente e ortograficamente, saturo di dialettismi, ma comunque diverso dal mero dialetto. Anche le masse popolari, quindi, benché estranee alle grandi scelte culturali decisive per la storia dell’italiano, hanno partecipato indirettamente all’evoluzione della lingua, se non altro subendo le conseguenze dei grandi processi di trasformazione sociale.

7. L’italiano standard Il toscano è la parlata regionale che più si avvicina alla lingua letteraria, poiché la lingua letteraria deriva appunto dal toscano trecentesco. Firenze è stata considerata in passato la città in cui si poteva imparare a conversare nella lingua migliore. Ma il fiorentino è l’italiano non sono la stessa cosa, anche se in molti tratti si identificano. Berruto (1993) ha riassunto molto bene i vari concetti che entrano a comporre l’idea di standard , una lingua che possiamo dire di tipo ‘neutro’ (cioè “non marcato” nel senso che respinge la variazione dialettale, bassa ecc), corrispondente al tipo codificato dai grammatici in base a principi normativi largamente riconosciuti, quindi un italiano a cui è attribuito prestigio da parte della comunità. L’italiano normato è stabilmente diffuso a livello scritto: è la lingua insegnata a scuola, descritta nelle grammatiche, usata nei quotidiani, nella saggistica e in buona parte della letteratura. L’italiano ha in comune con il fiorentino classico:

1. l’anafonesi, ovvero il fenomeno per il quale una “é” tonica si trasforma in “i” davanti a -gn e -ng-

mentre la “o” tonica si trasforma in “u” davanti a -ng- ฀ famiglia<fameglia<familia(m), lingua<lengua<lingua(m)

2. la dittongazione di E ed O del latino in sillaba libera;

3. il passaggio di e atona protonica a i (nepote > nipote, decembre > dicembre)

4. il passaggio di –ar- atono a –er- nel futuro della prima coniugazione (amarò > amerò), il

passaggio di –rj- intervocalico a –j- (gennaio da januarius);

5. l’assenza della metafonesi, presente invece nei dialetti settentrionali e meridionali.

Un’altra caratteristica che distingue oggi il fiorentino dall’italiano comune è la tendenza alla monottongazione di –uò-: buono e nuovo sono in Toscana bòno e nòvo. L’italiano non segue in questo il fiorentino (salvo che per il monottonga mento di –uo- dopo palatale: gioco, figliolo ecc), ma tende anzi ad applicare per analogia il dittongo anche in posizione non tonica: nuovissimo, buonissimo. Tuttavia, p ersino dentro al parlato normato si infiltrano infatti alcuni elementi di substandard, informali, regionali, usati anche dai parlanti colti. Sabatini ha elaborato la categoria di italiano dell’uso medio , sulla base di una serie di fenomeni grammaticali ricorrenti nell’italiano oggi comunemente parlato anche dalle persone colte nelle situazioni comunicative di media formalità. La differenza rispetto all’italiano standard sta nel fatto che questo italiano accoglierebbe alcuni fenomeni colloquiali, presenti magari da tempo nello scritto, ma generalmente tenuti a freno dalla norma grammaticale, che ha sempre tentato di respingerli ed emarginarli. Altri studiosi preferiscono usare, in riferimento all’italiano dell’uso medio, la denominazione di italiano neostandard (così Berruto), ma il concetto è sostanzialmente analogo.

8. Qualche esempio di testi dialettali

  • Giuseppe Gioacchino Belli: “Le lingue der monno” (1832) Il romano Giuseppe Gioacchino Belli è, con il milanese Carlo Porta, il maggior poeta in dialetto della nostra letteratura dell’Ottocento. Nei suoi sonetti è raffigurata con sarcasmo, profondo spirito critico e
  • Lettera di un emigrato politico Molte testimonianze di italiano popolare si ricavano da lettere familiari scritte da emigranti o da soldati lontani da casa. Proponiamo qui la lettera di un emigrato politico veneto che dalla Francia, nel 1936, scrisse ai parenti rimasti ad Adria. La sua lettera non giunse però a destinazione: sequestrata dalla polizia per le dichiarazioni antifasciste, finì in questura e poi all’Archivio di Stato di Rovigo. Nella lettera dell’emigrato Pietro, la punteggiatura è limitata quasi esclusivamente al punto fermo. Lo scrivente è estraneo alle convenzioni grafiche della lingua scritta: non tanto perché usi “ò” per “ho”, quanto perché ha difficoltà nella corretta divisione delle parole (si registrano così le concrezioni litalia “l’Italia”, sene “se ne”, nelafrica “nell’Africa”) e introduce la q al posto di c in “asiqurare”. Il dialetto si riflette nelle pronunce filio, meso e nell’uso dell’aggettivo “suo” per “loro”, e ancora nell’incerto trattamento delle geminate, con numerosi scempiamenti e due ipercorrettismi (“statto” per “stato e “avantano” per “vantano”). Tratto dialettale settentrionale è anche il verbo “agiutare” “aiutare”. L’importanza di questa lettera rivela come egli provasse ad avvicinarsi alla lingua standard o almeno alle regole grammaticali dell’Italiano, in un tentativo ma riuscito che però testimonia un salto in avanti dall’Italia Post-Unitaria
  • Italiano e dialetto in un canto popolare piemontese: “La barbiera” Questa canzone popolare è stata registrata con il magnetofono da Marazzini a San Benedetto Belbo, nelle Langhe cuneesi, nell’estate del 1980 mentre veniva cantata da un coro di abitanti del paese al termine di una serata di veglia contadina. Si tratta dunque di letteratura popolare.

La letteratura popolare è in genere in dialetto e si distingue tra spontanea e riflessa (volontaria scelta del

dialetto come strumento d’arte da parte di un autore colto), Chi, ragionando come un purista del dialetto, cercasse la perfezione della parlata locale, resterebbe molto deluso. Il canto mescola infatti vistosamente forme italiane e dialettali, persino all’interno di una stessa frase. La variazione è un fenomeno che si verifica anche nella conversazione quotidiana, perché è una costante della comunicazione linguistica: a questo concetto ricorre la dialettologia moderna per interpretare la dinamica dei fatti linguistici. è celebre tra i canti piemontesi, noto attraverso una gran quantità di versioni non solo italiane: in esse, però, il finale non è tragico. La versione delle Langhe finisce con l’uccisione della donna perché il testo si è incrociato con un’altra canzone tradizione, il tipo detto del “ritorno del soldato” , in cui ricorre la vendetta d’onore del marito tradito. Come accade di frequente nel canto popolare e anche nelle fiabe, due storie diverse si sono fuse producendone una sola. Curioso è il mestiere insolito della barbiera, che nasconde in maniera non troppo oscura la metafora sessuale.

  • Un canto italiano popolare: “Mamma mia, dammi cento lire Questo canto è nato alla fine dell’Ottocento durante il grande flusso migratorio popolare verso l’America e, benché di origini autenticamente popolari, è ora famoso anche grazie all’impiego canzonettistico a scopo commerciale. La versione qui trascritta, tratta da Vettori (1974) è stata raccolta da Gurro, in Val Cannobina (nella zona del Lago Maggiore), nel 1954. In questo testo, l’italiano substandard affiora in più punti, e dunque siamo di fronte a un campione perfetto di italiano popolare, seppure non tratto dalla conversazione comune, ma da un canto, cioè da un prodotto poetico. Questa canzone ottocentesca si riallaccia a un tipo più antico, che i folcloristi conoscono come “La maledizione della madre”, nella quale una ragazza si vuole maritare contro la volontà della genitrice, e fugge a cavallo con lo sposo. Giunta sulla riva del mare, cade da cavallo e affoga. In certe versioni, la mamma manda alla figlia la maledizione affacciandosi alla finestra, proprio come in “Mamma mia, dammi cento lire”, a riprova del legame tra questa canzone “moderna” e la tradizione popolare più antica.

2. Nozioni elementari di fonetica e grammatica storica

  1. La trascrizione fonetica I sistemi di scrittura delle lingue naturali sono frutto dell’evoluzione storica della grafia. Manca l’univocità nel rapporto tra suono e grafia, necessaria a scopo scientifico (l’italiano, ad es., ha un sistema grafico abbastanza ragionevole, e tuttavia certe volte la scrittura si complica): oggi il sistema prevalente di trascrizione fonetica adoperato dagli studiosi di tutto il mondo è l’IPA, International Phonetic Alphabet, la cui prima versione apparve nel 1886. Da allora è stato più volte rivisto, perfezionato e ampliato. Molti vocabolari stranieri adottano la trascrizione in IPA, divulgandola tra il largo pubblico, ma in Italia, però, essa ha meno fortuna. Esistono infatti diversi livelli di scrittura fonetica, trascrizione stretta e una larga, la prima molto più precisa, la seconda semplificata, tale da rendere solo l’informazione essenziale della pronuncia tipica di una comunità, indipendentemente dai caratteri del singolo individuo. L’alfabeto fonetico nasce da una standardizzazione internazionale concordata, ma non è di uso agevole per tutti gli utenti: singole nazioni, e anche l’Italia, hanno elaborato per tempo, per proprio conto, sistemi diversi di notazione dei suoni a scopo scientifico. Il padre della linguistica italiana, Ascoli, fondando nel secondo

Ottocento gli studi dialettologici nel nostro paese, elaborò un sistema di trascrizione fonetica poi ripreso da studiosi successivi (Merlo). Per verificare le differenze tra i sistemi di trascrizione fonetica, si consideri la parola italiana “rosa” (nel senso di ‘fiore’). Il alfabeto IPA, si scriverà /’rɔza/, nel sistema Ascoli-Merlo ‘roʃa. Un problema emerso di recente, parallelamente alla grande affermazione dell’alfabeto fonetico, è la difficoltà di scrivere l’IPA sulle tastiere dei computer, e quindi nella Rete. Per questo si stanno studiando corrispondenze standardizzate tra i segni IPA e i caratteri ASCII dei pc.

2. Fonetica e grafia dell’italiano

Non ci si può accostare alla grammatica storica senza possedere qualche nozione di fonetica, per padroneggiare la terminologia comunemente adoperata nella descrizione dei fenomeni linguistici. La fonetica studia la natura fisica dei suoni delle lingue. La fonetica articolatoria studia il modo in cui i suoni delle lingue vengono articolati nell’apparato fonatorio umano. A noi interessa essenzialmente conoscere la classificazione dei suoni della lingua italiana, la quale ha un sistema di sette vocali perché la e e la o si distinguono in chiuse e aperte. Tale distinzione é/è e ò/ó ha valore fonematico in quanto può distinguere due parole altrimenti identiche: pésca (atto del pescare) e pèsca (frutto), bótte (recipiente in legno) e bòtte (percosse). → Il fonema può essere infatti definito come l’unità distintiva minima priva di significato. Le vocali si classificano in base al luogo di articolazione nella cavità orale, ovvero alla posizione che assume la lingua nella pronuncia del suono: centrale, anteriore o posteriore.

  • La vocale centrale o media è la a,
    • le tre vocali anteriori o palatali sono i, è, é (così chiamate perché la lingua è in posizione avanzata, vicino al palato)
    • le tre posteriori o velari sono u, ò, ó (così chiamate perché nell’articolare questi suoni la lingua arretra verso il velo palatino). Le vocali posteriori possono essere inoltre chiamate labiali o arrotondate , poiché nell’articolazione del suono le labbra sono protese in avanti. A differenza delle consonanti, tutte le vocali sono sonore: infatti sono pronunciate facendo vibrare le corte vocali. Le vocali che portano l’accento sono dette toniche , le altre sono atone. I manuali di fonetica raffigurano le vocali in uno schema a forma di trapezio o quadrilatero, il cd. trapezio vocalico, che è raffigurato anche nella tavola dell’IPA. Combinazioni particolari di suoni vocalici sono i dittonghi , che possono essere ascendenti (piede, uomo) o discendenti (fai, causa). → La i e la u (chiamate iod e waw) che entrano nei dittonghi vengono pronunciate in una maniera intermedia tra quella di una vocale e quella di una consonante: prendono quindi il nome di semiconsonanti (o semivocali nei dittonghi ascendenti, secondo alcuni). A differenze delle vocali, le semivocali non possono portare l’accento tonico. Le consonanti vengono pronunciate con un restringimento o con un’occlusione del flusso d’aria. Nel primo caso (restringimento) sono dette fricative, nel secondo (occlusione) sono dette occlusive. La combinazione delle prime e delle seconde produce le affricate. Le consonanti possono essere sorde o sonore: nelle sorde non si ha vibrazione delle corde vocali, nelle sonore sì. La classificazione delle consonanti tiene conto di tre diversi fattori: il modo di articolazione, la vibrazione delle corde vocaliche e il punto di articolazione (che può essere le labbra, la zona dei denti, il palato, il velo palatino). Le occlusive sono le labiali /p/, /b/, le dentali /t/, /d/, le velari /k/ (casa), /g/ (gaio). /p/, /t/, /k/ sono sorde /b/, /d/, /g/ sono sonore Le fricative, nelle quali si realizza un restringimento nel flusso dell’aria fino a produrre un attrito o fruscio, sono le labiali /f/, /v/, le dentali /s/ (sano), /z/ (rosa), le palatali /ʃ/ (pesce), /ʒ/ (come nel francese je, in italiano standard questa consonante non esiste, ma è presente nella pronuncia fiorentina). Le affricate sono le dentali /ts/ (alzare), /dz/ (zero), e le palatali /tʃ/ (cena), /dʒ/ (giallo). Nel modo di articolare alcune consonanti, intervengono anche fattori quali movimenti della lingua o partecipazione della cavità nasale. → Se l’occlusione della cavità orale si combina con il passaggio di aria nel naso, si ottengono le consonanti nasali , che sono /m/ (mamma), /n/ (nonno), /ɲ/ (ogni). → Se la lingua occlude solo la parte centrale della cavità orale, lasciando libere le zone laterali, avremo le consonanti laterali : la dentale laterale /l/ e la palatale laterale /ʎ/ (figlio).
    • la /r/ è consonante vibrante , perché la lingua produce una serie di ostruzioni che si susseguono rapidamente, come vibrazioni, in certi casi, però, la /r/ viene eseguita in maniera diversa, poco o non vibrante, come nella cd. “r moscia”. Il sistema grafico dell’italiano è, nel complesso, abbastanza coerente con la pronuncia. Molto più forte è lo scarto tra grafia e pronuncia che si riscontra nel francese o nell’inglese; lo spagnolo, per contro, ha un rapporto segno-suono ancor più preciso dell’italiano.

caldo.

  • Passaggio di /e/ pretonica e postonica a /i/: Nel toscano la e chiusa in posizione pretonica tende a chiudersi in /i/, come in NEPOTEM > nepote > nipote; MELIOREM > megliore > migliore. In diversi casi, tuttavia, il fenomeno non si riscontra, per vari motivi. Ciò accade ad es. in vocaboli di origine straniera, come il francesismo “dettaglio”, o in parole in cui la /e/ è stata ripristinata sul modello latino (eguale, delicato). Fenomeni del consonantismo
  • Caduta delle consonanti finali: Le tre consonanti che in latino ricorrevano con particolare frequenza in posizione finale subiscono nel passaggio all’italiano un indebolimento: la –T; la –M; la –S. Nel latino parlato, la –M e la –T caddero molto presto, come documentano iscrizioni e graffiti del I sec. d.C. Nelle parole latine usiamo collocare la -M dell’accusativo tra parentesi tonda, per indicare appunto la caduta di questa consonante nel passaggio alla forma volgare: la derivazione delle parole italiane va infatti rapportata alla forma dell’accusativo latino, caso più usato, che prese ad un certo punto il sopravvento. La –S finale non è semplicemente caduta, ma ha prodotto diverse trasformazioni: in alcuni monosillabi si è palatalizzata (cioè si è trasformata nella vocale palatale /i/): NOS > noi, VOS > voi..
  • Consonanti doppie: Le doppie latine si conservano in italiano e nei dialetti meridionali, ma non nelle parlate settentrionali. Hanno dato luogo quasi sempre a consonante doppia anche i gruppi consonantici latini –CT- e –PT: LACTE(M) > latte, SEPTE > sette.
  • Assimilazione: fenomeno per cui un suono diventa simile a un altro che gli si trova vicino. È regressiva quando il suono che precede diventa simile a quello che segue (il secondo suono influisce sul primo); È progressiva quando il suono che segue diventa simile a quello che precede (il primo suono influisce sul secondo). Il fiorentino, e dunque l’italiano, conoscono solo l’assimilazione regressiva.
  • Dissimilazione: È il fenomeno opposto all’assimilazione. ARBORE(M) > albero, con dissimilazione della prima /r/, a causa della seconda;
  • Sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche: Nell’Italia settentrionale le occlusive sorde intervocaliche /k/, /p/, /t/ passano alle corrispondenti sonore /g/, /b/, /d/, subendo una lenizione. La sonorizzazione avviene anche in posizione intersonantica, cioè tra vocale e R: CAPRA(M) > cavra. In quest’ultimo esempio si vede anche come spesso, nel passaggio /p/ > /b/, alla sonorizzazione subentri la spirantizzazione: la labiale sonora /b/ diventa fricativa /v/. Questo fenomeno di sonorizzazione è sconosciuto ai dialetti dell’Italia meridionale e centrale, ma in Toscana è parzialmente presente, per influsso settentrionale.
  • Spirantizzazione di /b/ intervocalica: La spirantizzazione è il passaggio dall’occlusiva labiale sonora latina in posizione intervocalica a una spirante labio-dentale (spirante equivale a fricativa): HABERE > avere, DEBERE, dovere.
  • Palatalizzazione di /k/ e /g/ : La pronuncia del latino classico CERAM e GELUM era con occlusiva velare sorda, così come in CANIS (quindi “kera”, “ghelu”). Ma le vocali palatali E / I hanno finito per influenzare la pronuncia delle consonante che precede. Si manifestò abbastanza presto la tendenza a pronunciare le consonanti velari come palatali davanti a vocali palatali, come appunto nell’italiano “cera” e “gelo”. L’antica pronuncia delle occlusive velari latine si è conservata nel sardo, che ha “kentu” (cento), “nuke” (noce) ecc..
  • Esiti consonante + jod È questo un capitolo dei più complicati nella fonetica storica italiana. Riducendo al minimo la casistica, possiamo osservare che nel passaggio dal latino all’italiano:
  • le consonanti labiali e velari seguite da J si rafforzano: FACIO > faccio, RABIA(M) > rabbia.
  • il nesso latino –TJ- ha due esiti in italiano: l’affricata dentale sorda /ts/ e l’affricata palatale sonora /dʒ/: FORTIA > forza; RATIONE(M) > ragione. Se il nesso –TJ- era in posizione intervocalica, in italiano l’affricata dentale sorda è intensa: VITIU(M) > vezzo, ARETIU(M) > Arezzo, PRETIU(M) > prezzo. → In alcuni casi risalgono allo stesso etimo latino due parole italiane, con i due diversi esiti: PRETIUM > pregio e prezzo. Questi esiti sono entrambi popolari, ma in altri casi all’esito popolare può affiancarsi un esito dotto, introdotto sul modello latino per via scritta: VITIU(M) > vezzo (popolare) e vizio (dotto), SERVITIU(M) > servigio (popolare) e servizio (dotto).
  • il nesso latino –DJ- si trasforma in italiano in affricata dentale sonora intensa: RADIUM > razzo, ma può anche avere come esito l’affricata palatale sonora intensa, raggio. Anche in questo caso l’intensità dell’affricata è dovuta alla posizione intervocalica del nesso –DJ-.
  • il nesso latino –LJ- dà laterale palatale intensa: FILIU(M) > figlio, FOLIA(M) > foglia.
  • il nesso latino –NJ- dà in italiano la nasale palatale intensa : IUNIU(M) > giugno, VINEA(M) > vigna.

Allo stesso esito giunge il nesso latino –GN- che in epoca classica veniva invece pronunciato /gn/: così LIGNU(M) > legno.

  • Esiti di consonante + L

3. Gli strumenti della disciplina

1. Nascita e consolidamento della disciplina.

La storia della lingua italiana ha come oggetto di studio l’italiano, in tutte le sue forme e in tutti gli impieghi, dalle origini ai giorni nostri. La prima cattedra universitaria di Storia della lingua italiana fu istituita nel 1937-38 nella Facoltà di Lettere di Firenze e fu affidata a Bruno Migliorini, ma studi dedicati a questa materia esistevano già prima, in un quadro diverso del sapere. Marazzini ne ha ricostruito la storia dall’Umanesimo al Romanticismo, Stussi dall’inizio dell’Ottocento ala seconda metà del Novecento. Il primo libro dal titolo “Storia della lingua italiana”, in forma di manuale dalle origini a inizio Novecento, fu pubblicato da Migliorini nel 1960 (celebrazione dei mille anni della lingua italiana: Il primo documento dell’italiano, l’atto di nascita per così dire della nostra lingua, è infatti il “Placito Capuano” del 960). È però doveroso segnalare un altro saggio che ha preceduto l’uscita della “Storia…” di Migliorini e che pure contiene una sintesi completa di storia dell’italiano, sebbene di mole ridotta e di impostazione diversa: il “Profilo di storia linguistica italiana” (1953) di Devoto. I primissimi anni Sessanta, accanto al capolavoro di Migliorini, videro l’uscita di altri due libri che hanno segnato la storia della disciplina: la “Questione della lingua” di Vitale (1960) e la “Storia linguistica dell’Italia unita” di De Mauro (1963), legato strettamente alla storia sociale, in particolare alle vicende delle classi popolari. Rilevante l’uso di dati statistici ed economici, solo il 2,5% dei cittadini al momento dell’unificazione politica era in grado di parlare italiano. Nell’ultimo cinquantennio, la Storia della lingua italiana ha consolidato il suo status accademico. Nel 1992 è stata fondata l’ASLI, l’Associazione per la Storia della lingua italiana, che raggruppa gli studiosi della disciplina e ha il compito di promuovere gli studi del settore.

  1. Dalla “Storia” di Migliorini ai nuovi manuali Migliorini lavorò alla “Storia…” per venti anni: un quadro linguistico chiaro e ben strutturato, costruito su un’enorme quantità di dati e informazioni, dalla latinità di età imperiale all’inizio del Novecento, e organizzata in un impianto di capitoli che, con poche eccezioni, è diviso per secoli. (Tra le eccezioni: capitolo dedicato a Dante, in quanto padre della lingua italiana, e l’Ottocento che occupa i due capitoli finali). Nell’epilogo, Migliorini dichiara di chiudere la trattazione al 1915 perché gli anni successivi segnati da grandi sconvolgimenti politici e sociali e da una forte influenza dei nuovi mezzi di comunicazione avrebbero richiesto “altro discorso”. Migliorini fu pioniere nello studio dell’italiano contemporaneo. Grande attenzione è riservata al lessico, alle parole e alla loro origine. L’autore aveva dichiarato: «uno dei compiti più affascinanti è per esempio quello di vedere come si formino (o come si attingano ad altre lingue) le parole più tipiche».Dagli anni Settanta in poi, sono uscite molte sintesi generali di storia della lingua italiana, ideate anche per il pubblico colto e per l’uso universitario. Negli anni Novanta sono infine usciti tre grandi manuali di riferimento per la Storia della lingua italiana:
  • la collana di monografie “Storia della lingua italiana” diretta da Bruni; un impianto per secoli, con la vistosa eccezione del tomo interamente dedicato a Manzoni. L’opera, che presta attenzione anche alle aree non toscane e alle differenze geoculturali, è stata pensata principalmente come manuale per gli studenti universitari la “Storia della lingua italiana” di Serianni e Trifone: struttura tematica. Monografie affidate a diversi specialisti, che affrontano una grande varietà di argomenti, fino a la filologia dei testi a stampa, i dialetti, le caratteristiche del parlato, i media. Il primo volume contiene saggi che trattano la storia della grammatica, la lessicografia, la grafia, le teorie linguistiche e la lingua letteraria. Il secondo volume raggruppa monografie sulle varie forme di italiano settoriale e sulla commistione di italiano parlato e italiano scritto. Il terzo volume, infine, propone saggi sugli antichi dialetti italiani e sull’incontro dell’italiano con le lingue straniere.
  • i due volumi di “L’italiano nelle Regioni” diretti da Bruni. Si compone di un primo volume di monografie, ciascuna dedicata alla storia dell’italiano in una regione della penisola, e di un secondo volume di testi e documenti commentati e annotati. L’indagine si estende alle zone in cui la nostra lingua ha tutt’oggi o ha avuto in passato una posizione di rilievo: specifiche sezioni sono dedicate a Malta, alla Dalmazia, al Canton Ticino e alla Corsica.
  1. Riviste scientifiche Numerose sono le riviste che accolgono contributi di Storia della lingua italiana assieme a temi di

italianistica, di linguistica, di dialettologia, ma esistono anche alcune riviste specifiche della disciplina. Nel 1939 fu fondata a Firenze “Lingua Nostra”, diretta da Devoto e Migliorini, che divenne un punto di riferimento fondamentale per gli studi della disciplina. La rivista esce tutt’oggi. Gli “Studi linguistici italiani” furono fondati da Castellani nel 1960. “Lingua e stile”, fondata nel 1966 da Heilmann e Raimondi, era un tempo orientata verso la linguistica, la filosofia del linguaggio e la critica letteraria, ma dal 2002 e specificatamente dedicata alla storia della lingua italiana. “Lid’O – Lingua italiana d’oggi” (2004) è tra le riviste di più recente fondazione.

  1. Grammatiche storiche La grammatica storica si occupa dello sviluppo diacronico della lingua, di cui descrive l’evoluzione fonetica, morfologica e sintattica, a partire dalla formazione dal latino. Questa disciplina si è sviluppata nell’Ottocento a partire dalla Germania, quando gli studiosi riconobbero nell’evoluzione delle lingue una serie di regole costanti di cambiamento.
  • “Italienische Grammatik”, uscita nel 1890, dallo svizzero Meyer-Lubke, limitata all’italiano letterario e ai dialetti toscani, mentre le altre parlate italiane non vi trovano spazio.
  • “Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti” del tedesco Rohlfs (1966-69). Al centro di questo studio sono non solo il toscano e la lingua letteraria, ma anche le altre parlate della penisola. Questa grammatica è composta in modo che gli sviluppi dialettali si illuminino a vicenda gettando luce concentrica sulle vicende centro-italiane, toscane e fiorentine. I dati non riguardano solo testi antichi e fonti letterarie, ma, soprattutto, sono il frutto di numerose indagini dialettologiche. L’autore fu infatti dialettologo autorevolissimo e collaborò all’ “Atlante linguistico dell’Italia e della Svizzera meridionale”. I tre ricchissimi volumi della “Grammatica storica” sono dedicati rispettivamente a: Fonologia, Morfologia, Sintassi e formazione delle parole. Gli studiosi che citano questa grammatica usano far rinvio non alla pagina ma ai paragrafi, la trattazione è ricca di esempi tratti da tutti i dialetti italiani, settentrionali, centrali e meridionali, e non privilegia affatto le forme toscane. Accanto alle tante forme del parlato, sono prese in esame anche quelle attestate in letteratura. Castellani, riconosciuto maestro di studi linguistici e specialista di italiano antico, autore tra l’altro di un’edizione commentata dei più antichi testi italiani, ha avviato una poderosa grammatica storica che si è però arresa al volume I “Introduzione”, e dunque non può rispondere a tutte le domande, per se contiene i paragrafi relativi all’elemento latino volgare e classico, all’influsso gallo-romanzo, ai grecismi, alle varietà toscane nel Medioevo, alla formazione della lingua poetica. Gli studenti che si accostano per la prima volta alla materia possono utilizzare strumenti più snelli, come quelli di Serianni, D’Achille o Patota. Anche altri libri di Serianni risultano utili, in quanto contengono un profilo grammaticale della lingua poetica italiana.
  1. Grammatiche descrittive e normative La grammatica è uno strumento che descrive sistematicamente la lingua, ne illustra le regole, suggerisce (in alcuni casi, impone) scelte di carattere normativo e di stile. Manuale fondamentale di consultazione per ripercorrere la storia della grammatica italiana è il pur vecchio Trabalza (1908), non sostituito, ma oggi affiancato dalle ottime sintesi di Patota (1993) e Fornara (2005). Serianni (1988), di cui esiste anche un’edizione economica. La “Grande grammatica italiana di consultazione” di Renzi e Salvi (1988-95) non è ispirata a criteri normativi ma linguistici. Si preoccupa di descrivere l’uso reale della lingua nei vari livelli comunicativi, segnalando l’esistenza di varianti regionali e di costrutti talora giudicati “scorretti” dalla grammatica normativa, ma possibili nel parlato (es. “a me mi”). La “Grammatica dell’italiano antico”, uscita nel 2010 di Salvi e Renzi è una grammatica ideata con criteri analoghi a quelli di Renzi e Salvi, ma che descrive una fase antica, il fiorentino duecentesco, documentato attraverso testi pratici e letterari del Duecento e dei primi anni del Trecento.
  2. Manuali di metrica e retorica Per secoli le trattazioni di metrica hanno trovato spazio all’interno delle grammatiche, mentre oggi più raramente le grammatiche generali forniscono informazioni ampie su questa materia. Conoscenze di metrica e retorica servono comunque allo studioso di storia della lingua per leggere, interpretare e commentare testi letterari. Il manuale di riferimento per la metrica italiana è

Sotto la nuova direzione sono inoltre aumentati gli esempi ricavati da testi scientifici e giornalistici. Il Battaglia può essere utile persino per ricavare interessanti spunti critici: alcune voci infatti permettono di verificare al primo colpo d’occhio certi rapporti tra scrittori, testimoniati dalla ripresa di lessico, ad es. parole rare, colte e preziose. La ripresa di una stessa parola, in secoli, epoche o scuole letterarie differenti, costituisce in molti casi una sorta di filo sul quale tessere la tela dell’interpretazione critica. Strumento insostituibile per lo studio della lingua italiana dei primi secoli, fino al Trecento, è il “Tesoro della lingua italiana delle Origini” (TLIO), vocabolario storico di tutte le varietà dell’italiano antico , dalle origini al 1375 (il limite assunto convenzionalmente dai redattori coincide con la data di morte di Boccaccio). Il corpus contiene testi in versi e prosa dei grandi maestri del Trecento, Dante, Petrarca e Boccaccio, ma anche di moltissimi “minori”, e raccogli inoltre documenti non letterari (libri pratici e di medicina, carte mercantili o notarili). I testi del corpus sono sfogliati tramite il database dell’OVI (Opera del Vocabolario Italiano), il TLIO è diretto da Beltrami e sinora sono state redatte più di 21.500 voci, tutte liberamente consultabili su internet. Il TLIO è circoscritto a un periodo storico limitato, ma all’interno di questo periodo la schedatura dei testi è completa. La maschera di interrogazione del sito permette ricerche complete e articolate.

  1. Dizionari etimologici I dizionari etimologici indicano l’origine delle parole di una lingua. Anche i dizionari dell’uso e quelli storici suggeriscono l’etimologia delle parole, i dizionari etimologici, però, forniscono informazioni più dettagliate e precise. Il DELI , “Dizionario Etimologico della Lingua Italiana”, di Cortelazzo e Zolli è il più comune e diffuso dizionario etimologico italiano. È uscito in cinque volumi presso Zanichelli tra il 1979 e il 1988, poi nel 1999 in una nuova edizione rivista. Fornisce:
  • la data della prima attestazione delle parole a lemma e derivati;
  • una trattazione etimologica concepita in funzione della storia della parola
  • una breve trattazione con rimando alla bibliografia degli etimi controversi o discussi. Esiste un dizionario etimologico più vecchio del DELI, si tratta del Battisti-Alessio (1950-57), che non si può giudicare superato, perché resta il più ricco di lemmi. Devoto (1968) è un dizionario etimologico di piccola mole, ma è l’unico che nella ricerca dell’origine della parole risale più indietro del latino.

Un dizionario etimologico di recentissima uscita è “L’Etimologico. Vocabolario della lingua

italiana” di Nocentini con la collaborazione di Parenti, con cd-rom (2010).

Vocabolario etimologico di uso altamente specialistico è il LEI, “Lessico etimologico italiano”, diretto dallo studioso tedesco Pfister, redatto in Germania (in italiano). Si tratta di un’opera vasta, la cui lavorazione durerà ancora a lungo: dal 1979 al 1991 è stata completata la parte relativa alla lettera A, nel 2010 si è arrivati alla C. A distanza di qualche anno dalla pubblicazione cartacea, le voci vengono rese liberamente consultabili su internet. Le parole non sono raccolte in base all’ordine alfabetico italiano moderno ma secondo la base etimologica. Troveremo così “accentazione” sotto “accentus”. La trattazione di ogni singola voce è molto ampia, con una gran quantità di riferimenti e con un’attenzione speciale alle forme dei vari dialetti italiani antichi e moderni.

  1. Risorse elettroniche e strumenti di consultazione in internet Gli studiosi possono oggi avvalersi di utilissimi strumenti messi a disposizione in formato elettronico o disponibili su internet. Tutti i moderni dizionari dell’uso sono comunemente accompagnati dalla versione su cd, la quale offre alcuni vantaggi nelle ricerche mirate utili a studiosi di lingua e anche di letteratura: ad es., l’individuazione rapida di parole che finiscono con un determinato suffisso, o che sono comparse in un determinato secolo, la selezione di esempi tratti da uno stesso autore. La “Letteratura italiana Zanichelli” contiene mille testi della nostra letteratura, dalle origini al primo Novecento. Questi testi possono essere letti ma anche interrogati tramite un programma che permette ogni tipo di ricerca lessicale in varie combinazioni. Oltre a ottenere le occorrenze di singole forme, si possono effettuare ricerche combinando variamente più parole, oppure rintracciare con facilità una rima, con rapidità e (quasi) senza errori.

STORIA DELLA LINGUA

4 - 5. Origini e primi documenti dell’italiano e 5. I Più antichi documenti.

1. Dal latino all’italiano

L’italiano, come le altre lingue romanze e come i vari dialetti italiani, deriva dal latino, ma

non dal latino classico degli scrittori, bensì dal latino volgare. La maggior parte delle parole

italiane discende da quelle latine e trova corrispondenza con il lessico presente in altre zone

della Romània (nome dell’area romanza nel suo complesso, costituita dai territori continentali

della penisola iberica, dalla Francia, dall’Italia, da una parte della Svizzera e della Romanìa,

oltre che dalle isole Baleari, dalla Corsica, dalla Sardegna e dalla Sicilia.). Il latino volgare

era una sorta di astrazione, utile per designare in maniera convenzionale il latino parlato in

luoghi differenti, talora molto distanti tra loro, e in epoche diverse, l’equivalente del latino

plebeo di epoca repubblicana e del latino spontaneo di epoca imperiale. Il concetto fa

riferimento a uno sviluppo diacronico, che vede emergere nella tarda latinità usi linguistici

spesso all’origine degli sviluppi romanzi: una componente sociolinguistica sincronica e una

componente diacronica. Di fatto il latino, come tutte le lingue vive, non rimase sempre uguale

a sé stesso: territori dell’impero conquistati in epoca diversa ricevettero un latino in parte

differente, o non furono più raggiunti da certe innovazioni più tarde. Si cita a questo proposito

il caso di più/plus nel correlativo italiano e francese, da “plus” latino, contro lo spagnolo mas

e il romeno mai, questi ultimi da “magis”. Secondo l’interpretazione del linguista Bartoli il

comparativo costruito con “magis” si diffuse nelle aree periferiche dell’impero, e con

l’innovazione successiva, il comparativo con “plus”, non fece a tempo a raggiungere le aree

più laterali, quella iberica e quella della Dacia.

Uno dei mezzi per ricostruire gli elementi del latino volgare all’origine degli sviluppi romanzi

è la comparazione tra le lingue neolatine. Quando si riporta una parola al suo etimo latino-

volgare, a volte accade persino di individuare l’esistenza di una forma lessicale non attestata

nel latino scritto, indicata convenzionalmente dagli studiosi facendola precedere da un

asterisco: l’italiano “puzzo” può essere riportato al lat. Parlato *Putiu(m), da Putere. Putere è

effettivamente attestato nel latino scritto, mentre Putiu(m) non lo è; di esso è solo possibile

ipotizzare l’esistenza, sulla base della forma moderna. Il latino volgare conteneva molte

parole presenti anche nel latino scritto. Altri termini furono innovazioni del parlato non

attestate nelle scritture. In altri casi si ebbe un cambiamento nel significato della parola latina

letteraria, la quale assunse nel latino volgare in senso diverso (TESTA(M), all’origine un vaso

di terracotta, sostituì CAPUT: evidentemente TESTA(M) in un primo tempo designò il

CAPUT in maniera scherzosa, come noi oggi possiamo dire scherzosamente: zucca, coccia o

crapa. Poi la sfumatura ironica sparì, il termine assunse in toto il significato nuovo, anche se

capo sopravive ancora nell’italiano, ma solo come parola dotta e nobil)..

Esistono anche una serie di testi che possono darci informazioni utili per intravedere alcune

caratteristiche del latino parlato di livello popolare, o del latino tardo.

Alcuni autori classici hanno scritto a volte in maniera meno formale e sorvegliata. Si

sottraggono alle norme dell’uso classico alcuni libri dedicati a materie pratiche, come i trattati

di agricoltura, di cucina, di medicina, di veterinaria. Anche i testi teatrali latini contengono

elementi di parlato, soprattutto quelli di Plauto.

Importante dal nostro punto di vista è un romanzo come il “Satyricon” di Petronio in cui

coesistono forme come pulcher, formosus e bellus : il primo aggettivo era destinato a sparire

nelle lingue popolari moderne (esiste solo come cultismo), mentre gli ultimi due sono

all’origine delle forme romanze, rispettivamente dello spagnolo hermoso , dell’italiano bello e

del francese beau. Del resto bellus si trova anche nel poeta Catullo e in Cicerone, oltre che in

Plauto.

Molto interessanti per la conoscenza del latino quotidiano sono anche le scritture occasionali,

come quelle che si trovano sulle pareti delle case di Pompei , graffiti e scritte murali tracciate

da gente comune. Tra i documenti del latino volgare, ha rilievo la cd. Appendix Probi

(“Appendice di Probo”): una lista di 227 parole o forme o grafie non corrispondenti alla

buona norma, trasmesse da un codice scritto a Bobbio intorno al 700 d.C., conservato nella

Biblioteca Nazionale di Napoli. La lista di parole è tuttavia reputata di solito più antica del

Ad un certo punto l’esistenza del volgare cominciò a farsi sentire proprio nel latino

medievale, che lascia trapelare i volgarismi, in maniera più o meno marcata a seconda del

livello di cultura dello scrivente. Perché si affermasse la dignità delle nuove parlate romanze,

tuttavia, era necessario che si accettasse di metterle per iscritto e si prendesse l’abitudine di

farlo sistematicamente. Mettere per iscritto una lingua orale è un’operazione complessa e

verso il XIII sec alcune scuole di scrittori scelsero la nuova lingua in maniera motivata o

sistematica. La caratteristica dei documenti antichi del volgare è comunque la casualità nella

loro realizzazione, dovuta a eventi accidentali, e nel ritrovamento. La consistenza degli

antichi documenti condiziona il nostro modo di conoscere e interpretare l’affacciarsi della

lingua volgare alla ribalta della storia.

3. I più antichi documenti

Un primo problema da risolvere è l’intenzionalità dello scrivente, cioè della sua “coscienza

linguistica”. Chi ha redatto il documento voleva scrivere in italiano o in latino?

Sul primo documento della lingua francese, “I Giuramenti di Strasburgo” dell’842 non

possiamo aver dubbi. Nella “Storia dei figli di Ludovico il Pio” di Nitardo, scritta in latino, si

legge che il 14 febbraio dell’842 Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, di fronte ai loro

eserciti, giurarono alleanza contro il fratello Lotario. Ognuno dei due giurò nella lingua

dell’altro: Carlo in tedesco, Ludovico in francese: i capi dei rispettivi eserciti, invece,

giurarono nella propria lingua. La volontarietà nell’uso del volgare è in questo caso evidente,

legata a una situazione pubblica e ufficiale. Il cd. “atto di nascita” della lingua italiana, il

Placito Capuano , è una formula connessa a un giuramento ma nasce da una piccola

controversia di portata locale, dunque in tono “minore” rispetto a quello della lingua francese.

Quanto al problema dell’intenzionalità, l’esame del cd Indovinello veronese ci può aiutare a

comprendere questo problema, perché si tratta di un testo in cui non si riesce ad essere certi se

lo scrivente adoperasse un latino scorretto o volutamente abbandonasse il latino corretto,

adottando forme popolari. Le più antiche testimonianze italiane di scritture volgari sono per la

maggior parte carte notarili, in sostanza documenti d’archivio.

Caso diverso e curioso è quello dell’ iscrizione della catacomba romana di Commodilla ,

la quale è un anonimo graffito tracciato sul muro. un’antica testimonianza (all’incirca come i

Giuramenti di Strasburgo ) la quale, benché sembri a prima vista conservare un aspetto

latineggiante, almeno in un punto vistosamente rivela il suo reale carattere di registrazione del

parlato, là dove riporta il raddoppiamento fono sintattico nell’espressione “a bboce” per “a

voce”. L’ iscrizione in un affresco della basilica sotterranea di San Clemente a Roma

rientra in un progetto grafico più complesso: è collocata in un affresco in cui le espressioni

in latino e in volgare sono state dipinte accanto ai personaggi rappresentati per identificarli e

per mostrare il loro ruolo nella storia narrata. Il pittore ha aggiunto una serie di parole con

funzione di didascalia e compare un volgare vivace e popolarescamente espressivo,

testimonianza eccezionale per carattere e antichità. L’affresco fu dipinto alla fine del XI sec.

il latino è adottato nelle parti più “elevate” del testo o per esprimere il giudizio morale

sull’accaduto. Il volgare, per contro, esplode vivacemente nelle didascalie che registrano con

marcato espressionismo plebeo voci e azioni dei personaggi. Non vi è ombra di dubbio,

quindi, sul carattere volgare del testo, la cui caratterizzazione di parlato spicca rispetto alle

parole latine. Le parole che compaiono su di un affresco appartengono alla categoria delle cd.

“scritture esposte”. Nella nostra esposizione abbiamo sconvolto l’ordine cronologico, facendo

subito seguire al graffito della catacomba di Commodilla l’iscrizione della basilica di San

Clemente. Tra questi due documenti “murari” si colloca, però, un documento d’archivio, il

Placito Capuano , la cui scoperta risale al Settecento e non ebbe risonanza se non nel

Novecento. A differenza dell’Indovinello veronese, non vi può essere dubbio sulla chiara e

cosciente separazione tra latino e volgare, e inoltre il testo ha una datazione assolutamente

certa e precisa.. Il Placito Capuano del 960 è un verbale notarile, scritto su foglio di

pergamena, relativo a una causa discussa di fronte al giudice capuano Arechisi. Al suo

cospetto si erano presentati l’abate del monastero di Montecassino e un tal Rodelgrimo di

Aquino. Rodelgrimo rivendicava in lite giudiziaria il possesso di certe terre, a suo giudizio

abusivamente occupate dal monastero. L’abate di Montecassino, per contro, invocava il

diritto che oggi definiamo di usucapione, affermando che quelle terre erano utilizzate dal

monastero da ormai trent’anni, ciò che per la legge longobarda costituiva titolo per il possesso

definitivo.

Nel giorno stabilito, si presentarono di fronte al giudice tre testimoni, i quali, tenendo in mano

la memoria presentata da Rodelgrimo, recitarono uno alla volta una formula che dava ragione

alla tesi dell’abate; quindi i testimoni giurarono sui Vangeli di aver detto la verità. La causa si

concluse con la promessa da parte di Rodelgrimo di non ritornare sulla questione. D’ordine

del giudice Arechisi venne redatto un verbale da parte del notaio Atenolfo. Proprio durante la

redazione di questo verbale fu compiuta una scelta inconsueta rispetto alle abitudini del

tempo. E’ verisimile, infatti, che il dibattito orale di fronte al giudice, con l’intervento

di testimoni, dovesse svolgersi già allora in volgare, non in latino. Il latino, però, in quanto

unica lingua della cultura e della scrittura, era impiegato per la redazione di tutti i tipi di

verbali. Le formule testimoniali pronunciate in volgare durante il dibattimento venivano

pertanto tradotte in latino. Nel Placito capuano la verbalizzazione, fatta come sempre in

latino, incluse vere e proprie formule testimoniali volgari, che ricorrono ben quattro

volte.

La formula del Placito capuano del 960 non è isolata; si colloca nella serie di quelli che si è

soliti definire i “Placiti campani”. Infatti in altre tre carte notarili analoghe, una di Sessa

Aurunca e due di Teano, risalenti al 963, si trovano formule molto simili. Un buon numero

dei più antichi documenti italiani è dovuto alla penna di notai, categoria sociale che aveva più

frequentemente occasione di usare la scrittura: per le loro funzioni, erano continuamente

impegnati in un lavoro di transcodificazione dalla lingua quotidiana alla formalizzazione

giuridica del latino.

Il volgare può affiorare in forma di postilla (certe volte il notaio aggiungeva commenti o

osservazioni personali). È quanto accade nella cd. Postilla amiatina. Nel gennaio del 1087 due

coniugi donarono i loro beni all’abazia di San Salvatore di Montamiata. Il notaio estensore

dell’atto in lingua latina aggiunse alla fine una postilla: “Questa carta è di Capocotto: essa lo

aiuti da quel ribaldo che mal consiglio gli mise in corpo”. Il commento del notaio si riferirebbe

a fatti precedenti, a noi ignoti, che sarebbero stati all’origine dell’atto di donazione: ma non

sappiamo quale sia il “cattivo consiglio” che avrebbe portato Capocotto vicino alla rovina. Gli

studiosi hanno anche osservato che la postilla ha un andamento ritmico. È stata avanzata

l’interpretazione che “rebottu” alluda al maligno, al diavolo; il senso della postilla sarebbe:

“Egli (Iddio) lo aiuti dal maligno che gli mise in corpo il cattivo consiglio”. Altri atti notarili

sono di area marchigiana, nella Carta osimana del 1151, il volgare affiora non in una postilla

ma all’interno del vero e proprio testo latino del rogito. La Carta fabrianese del 1186 è un atto

originale con cui un nobile si accorda con il monastero di San Vittore delle Chiuse circa la

ripartizione dei “frutti” di un loro “consorzio e si alternano latino e volgare. La Carta picena

del 1193 è un rogito per una vendita di terre, che contiene però una parte in volgare, la quale

rende chiaro come la terra ceduta fosse in realtà un pegno per garantire la restituzione di un

prestito. Al gruppo delle carte giudiziarie vanno ricondotte due pergamene del 1158 note come

le Testimonianze di Travale. Nella seconda parte di una di queste pergamene tale giudice

Balduino ha raccolto le testimonianze di sei “boni homines” di Travale, e proprio nella

sintesi di quanto hanno detto i testimoni affiora il volgare, nel bel mezzo del testo latino, dove

vengono riportate in maniera più fedele le parole. In particolare, ricorrono alcune frasi di senso

compiuto. Altri testi volgari rintracciati in carte notarili sono la cd. Dichiarazione di Paxia ,

databile tra il 1178 e il 1182 e diversi documenti della Sardegna risalenti all’XI e XII sec. Al

filone religioso possono essere ricondotti alcuni dei documenti di cui abbiamo già parlato,

quali il graffito della catacomba di Commodilla, l’iscrizione della basilica di San Clemente, le

iscrizioni di Vercelli e Casale: tutti documenti nati in ambienti adibiti al culto o legati a

tematiche religiose. Formula di confessione umbra , la cui datazione può essere fissata tra il