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Storia della mafia di Salvatore Lupo, Sintesi del corso di Storia Politica Sociale Contemporanea

Riassunto del libro "Storia della mafia" Salvatore Lupo, può sostituire il testo per sostenere l'esame

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 12/03/2022

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Scarica Storia della mafia di Salvatore Lupo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Politica Sociale Contemporanea solo su Docsity! Riassunto Storia delle Mafie di Salvatore Lupo 1 – Origini Anche prima dell'unificazione italiana erano diffusi nel Mezzogiorno termini atti a indicare forme di affarismo criminale particolarmente radicate nella società. Esisteva il termine camorra, non esisteva il termine mafioso o mafia. Si affermarono immediatamente dopo che il vecchio regime Borbonico venne abbattuto e si instaurò il nuovo regime nazionale italiano. A quel tempo il Regno delle due Sicilie rifiutava le idee liberali di Costituzione e sovranità della legge e l'Italia unità, che si rifaceva a modelli liberali, trovò utile o necessario attribuire un nome che indicasse lo scarto tra quella teoria e la pratica. Lo scatto era effettivamente forte perché l'estrema periferia siciliana era inadatta a ospitare i nuovi ordinamenti, ma perché l'Italia nuova non era liberale fino in fondo. Nell'isola, la Destra cercò di garantire l'ordine pubblico su entrambi i versanti facendo ricorso allo Stato d'assedio e al Governo militare, ma non riuscì mai a conquistare un gran consenso. Rimase prevalentemente un partito settentrionale sia per composizione che per impostazione politica. Ed è questo il motivo per cui in Sicilia venne montata una protesta di varia natura in cui la Sinistra diede voce assumendo il ruolo dell'opposizione costituzionale, trovando un grande leader in Francesco Crispi, ottenendo una frequenza di successi elettorali nel 1874 e nel 1876. La svolta si ebbe tra queste due lezioni quando una scomposizione e ricomposizione della maggioranza parlamentare portò alla guida del governo il leader della sinistra Agostino Depretis. Già da un pò di tempo la storiografia citava una relazione del 1838 di un magistrato napoletano in servizio a Trapani, nel quale denunciava l'esistenza di unioni o fratellanze, specie di sette che si dicono partiti, capitanate da possidenti o arcipreti, che si configuravano come piccoli governi nel governo. Un altro funzionario Borbonico scrisse che i ladri in Sicilia senza intenderlo erano i mezzi di una rivoluzione e che saranno lo strumento della rivolta di cui ne godrà chi ora li protegge. Lo storico Antonino Recupero indica la strada giusta, collocando quest'intreccio in luoghi variegati: corporazioni artigiane, associazioni segrete di operai, confraternite, gruppi ecclesiastici, società segrete e strutture verticali. C'è da chiedersi quale fosse nella capitale della rivoluzione, Palermo, la base sociale delle squadre, che nel 1848 e nel 1860 ne furono la forza armata. Le fonti riferiscono genericamente di operai, giardinieri e contadini che nei momenti decisivi affluivano in armi in città dalle borgate e dai paesi circostanti. Quanto ai leader, facciamo due esempi ambientati in due luoghi chiave della mafia ventura: uno in un paese della provincia palermitana ovvero Corleone, l'altro nella stessa capitale. A Corleone nel 1848 il Partito Democratico era capeggiato da Francesco Bentivegna, grosso proprietario con parentele aristocratiche. Egli guidò una squadra a Palermo per sostenere l'insurrezione e non si lasciò normalizzare dalla successiva restaurazione. Alla fine del 1856 mobilitò nuovamente una squadra popolare, battendo la campagna con l'idea di piombare su Palermo insieme ad altri gruppi al momento giusto. Fu catturato e subito dopo fucilato dopo un processo sommario. Questo partito si schierò con la corrente radicale garibaldina nel 1860 e assunse la veste di un proto-movimento contadino che tra l'estate e l'autunno promosse una sorta di sciopero per per migliorare patti colonici al grido: Viva l'unità italiana, Viva Vittorio Emanuele, Viva Garibaldi! Alcuni anni più tardi troviamo Giuseppe Bentivegna, fratello di Francesco, tra i comandanti delle camicie rosse sull'Aspromonte; e in data 1944 troviamo Rosario Bentivegna, pronipote di Francesco, comunista e comandante partigiano, che mise in atto il celebre attentato di via Rasella a Roma contro i Tedeschi. A Palermo, Giovanni Corrao veniva dall'ambiente artigiano cittadino, essendo figlio di un costruttore di barche. Partecipò attivamente alla rivoluzione del 1848 conseguendo nell'esercito italiano il grado di capitano di artiglieria. Dopo un pò di anni finisce in prigione e poi in esilio, prima in Italia e poi all'estero, facendosi unitario e mazziniano spinto. Egli sbarco in Sicilia prima di Garibaldi e lo seguì fino a Volturno dove fu ferito, divenne colonnello dell'esercito regolare ma si dimise per tener fede alla sua posizione repubblicana. Al suo fianco c'erano altri due cospiratori antiborbonici di antica data: il primo era Giuseppe Badia, che veniva anche lui da una famiglia di artigiani palermitani, mentre l'altro era Francesco Bonafede che era figlio di piccoli possidenti della provincia e aveva partecipato alla congiura dei Bentivegna. Infine un altro elemento suggestivo, Stefano Bonanno, altro artigiano palermitano che nel 1860 capeggiò una squadra di volontari unitasi ai garibaldini, era il bisnonno del giudice Giovanni Falcone. Rilevanti suggestioni possono venirci anche dalle biografie di due altri personaggi legati al movimento garibaldino. Il primo è Emanuele Notarbartolo, che nonostante fosse nato in una famiglia aristocratica borbonica, egli si schierò per la causa liberale e nazionale italiana fin dal 1857. Tre anni più tardi su unì ai garibaldini combattendo a Milazzo, passò nell'esercito regolare contro i Briganti del Mezzogiorno continentale e infine lasciò le armi. Si impegnò in politica nel partito liberal-moderato e divenne sindaco di Palermo nel 1873. Nel 1876 fu nominato direttore del Banco di Sicilia dall'ultimo governo della Destra storica, per poi essere confermato da quelli successivi della Sinistra. Egli si contrappose a interessi mafiosi e finì assassinato divenendo il primo simbolo del movimento definibile come Antimafia. Il secondo è Napoleone Colajanni. Qui parliamo dell'ultimissima generazione garibaldina perché quest'ultimo si arruolò volontario a soli 15 anni, polemizzando contro gli antropologi che negli anni Ottanta, che misuravano crani e ragionavano di atavismi etnici, pretendevano di stabilire scientificamente il perché i meridionali fossero così predisposti a comportamenti antisociali o criminali, difendeva la razza maledetta dei meridionali ma senza indulgere al volgare e pernicioso sciovinismo di chi nasconde le piaghe del nostro paese. Egli fu in prima fila, oltre che nella battaglia parlamentare sugli scandali bancari di fine secolo, anche nelle battaglie polemiche occasionate dal delitto Notarbartolo. Possibilmente i Corrao e i Bentivegna si sono rapportati durante il loro percorso, anche a elementi definibili come proto-mafiosi. Quanto a coloro che furono qualificati come capimafia, in età postunitaria, troviamo nella loro biografia non pochi punti di contatto con l'esperienza rivoluzionaria. In questo senso credo si possa dire che la mafia rappresentò il frutto tossico di una stabilizzazione post-rivoluzionaria. Per inquadrare meglio questo concetto veniamo alla figura di Nicolò Turrisi Colonna. Egli era di buona famiglia sia dal lato materno che dal lato paterno, era molto impegnato sul fronte dell'innovazione agraria, era una persona colta ed era collegato per via personale e familiare alla grande tradizione dell'aristocrazia liberale palermitana del 1812. Partecipò attivamente ai movimenti risorgimentali dove mostro particolare ardimento nel frenare come il regno della mafia. Questa trae le proprie fortune dalla possibilità di regolare le relazioni sociali ed economiche con la violenza o con l'intimidazione; soddisfatte queste precondizioni trova nello sviluppo economico una chance, non certo un ostacolo. Come esempio di paese di mafia della marina, prendiamo Castellammare del Golfo, che nell'ultimo quarto dell'800, sviluppò grazie ad una fiorente industria della pesca, a un'agricoltura relativamente sviluppata e all'esportazione di vini da taglio in Francia. Nel 1911 aveva 17.000 abitanti e ai suoi criminali, nell'ultimo decennio dell'Ottocento, furono attribuiti ben 200 omicidi. Il raggio d'azione dei mafiosi castellammaresi andava ben oltre la loro cittadina marinara. "Incutendo timore, vessando, superavano i monti che le facevano Corona, prendevano in affitto aziende agrarie al di là di essi, assumevano quel carattere invadente e denigratorio che è insieme scuola e minaccia. Facevano del loro paese il centro di una rete di scala sub-provinciale comprendente due diversi contesti geografici ed economici: la costa e l'interno. Spostiamoci nella zona montana delle Madonie nella provincia di Palermo ai confini di Messina. Antonino Cutrera, altro poliziotto criminologo autore del 1900 di un libro importante, cito un motto popolare, "il brigante nasce a San Mauro e cresce a Gangi". Si riferiva a San Mauro Castelverde, paese che dall'età postunitaria produsse una serie di banditi, con nuove bande che derivano dalle vecchie; e a Gangi, cittadina non molto lontana, sede di un'influente aristocrazia provinciale. Questo perché il brigante di San Mauro raggiunge il successo se trova forti protettori tra i membri della classe dominante a Gangi, ovvero in un sistema di relazione sub-provinciale. Un altro paese tipicamente di mafia era Monreale che si trova in una collina che delimita da sud-ovest l'agro palermitano. La parte del territorio agricolo di Monreale confinante con quello palermitano ne condivideva i caratteri di fondo perché vi era molto presente la coltivazione degli agrumi, fortemente intensiva e irrigua. Di più, era in territorio di Monreale che si trovavano le ricche sorgive a monte destinate a fornire una parte delle acque più utilizzate a valle in quello palermitano. Queste condizioni particolari accentuarono a Monreale condizioni generali che molto influirono nelle genesi e nel rafforzamento della fenomenologia mafiosa. Abbiamo una confusa sovrapposizione tra sfera pubblica e sfera privata, abbiamo incertezze nel regime di proprietà delle fonti idriche della stessa terra e abbiamo un periodo di espansione economica che inasprisce le competizioni su risorse naturali limitate. Ne derivarono conflitti violenti e soluzioni extralegali; le fonti ci dicono di quanto sia facile per i proprietari terrieri "di sopra" usurpare l'acqua che scorre a valle per irrigare i terreni "di sotto", quanto da tutto questo risulti enfatizzato l'arbitrio di chi dovrebbe sorvegliare i turni e i modi della distribuzione del prezioso liquido. Ora possiamo spostarci su Palermo, una delle più grandi città italiane, dove erano già sorte durante il Settecento le prime vie principali, che durante l'Ottocento vennero ingrossate per la confluenza della forza lavoro impegnata nei lavori agricoli, soprattutto quelli legati alla coltivazione degli agrumi. Ci vivevano lavoratori ma anche i possidenti in certi periodi dell'anno, vi sorgevano fastose ville sette/ottocentesche e sul finire del secolo splendidi edifici in stile liberty. All'epoca gli agrumeti erano di piccola estensione ma di elevatissimo valore fondiario per ettaro, appartenevano alle classi medie o alte, che potevano far parte del ceto civile o potevano essere anche nobili. C'erano poi gli industriosi ovvero gli imprenditori che gestivano l'impresa agrumicola o quelli impegnati nel commercio degli agrumi. In questo senso le borgate rappresentavano solo uno dei poli di un economia che avevano un altro polo ben radicato in città, ovvero la zona del porto con i suoi grandi magazzini e le sedi delle ditte esportatrici che curavano la spedizione degli agrumi verso loro sbocchi lontani. Arrivavano li da una catena finanziario-commerciale basata su due fasi. Nella prima, quella finanziaria, l'input partiva da una ditta di operatori stranieri i quali attraverso loro corrispondenti palermitani finanziavano una rete degli intermediari locali, che a loro volta finanziavano i riproduttori. Nella seconda, quella commerciale, il meccanismo funzionava in senso inverso, ovvero la merce passava di mano in mano procedendo dal produttore, all'intermediario, all'esportatore, all'importatore e al consumatore. Le cosche mafiose gestivano attività illecite, ma anche lecite: sorvegliavano gli impianti e i frutti appena raccolti, davano direzione alle aziende, erano intermediari commerciali e fornivano acqua. I contratti di compravendita lasciavano spesso spazio a controversie tra le parti perché non sempre gli accordi venivano rispettati, non sempre la merce veniva consegnata nei tempi giusti e nelle condizioni giuste e non sempre i debiti venivano effettivamente onorati. L'idea era che l'accordo potesse essere garantito dall'appartenenza ad uno stesso partito dei soggetti impegnati in ciascuna di queste quattro funzioni. Di fatto i gruppi di mafia ricorrevano spesso e volentieri omicida per tenere a bada la criminalità comune, per rispondere alle ingerenze degli altri gruppi, per definire la gerarchia al proprio interno. Gestivano un'economia ricca e i loro capi erano gente agiata. 2 – L’accusa e la difesa, 1875-1889 Durante il 1870, l'economia siciliana continuava sulla strada degli anni '60: trasformazione agricola soprattutto costiera, vivaci flussi di esportazione di zolfi, vini e agrumi. Dal punto di vista politico, l'avvento della sinistra candidò la classe dirigente isolana a esercitare un peso politico maggiore che in passato. Questo perché fino al 1896 l'isola avrebbe fornito 28 ministri ai governi e soprattutto il siciliano Crispi fu il primo meridionale ad assumere la carica di capo del governo nel 1887. Al tempo non esisteva il termine "antimafia" come oggi va a definire un mondo di istituzioni, gruppi politici e società civili, convergenti intorno al nodo della legalità. Invece Malusardi puntò a sfruttare proprio la nuova sintonia tra centro e periferia, tra istituzioni e classi dirigenti isolane conseguendo successi senza precedenti sul fronte del banditismo. Non per questo si può dire che l'abbia distrutto o a maggior ragione che abbia eliminato la mafia dall'interno. In questo versante seguiremo le indagini avviate tra il 1874-1875 e intensificatesi con Malusardi, le quali proseguirono pure dopo la sua morte, fino alla celebrazione di clamorosi processi della fine del decennio e l'inizio di quello successivo. Utilizzeremo la nostra documentazione per guardare più da vicino tre gruppi: quello dell'Uditore, quello di Piazza Montalto e quello di Monreale. Si esagerava quando si indicava Turrisi Colonna come il capo della mafia, ed è difficile anche pensare che un uomo colto e aperto al progresso come lui fosse uno dei capi, mandante o ispiratore di omicidi; ma i mafiosi erano inseriti in reticoli che al centro, o al vertice, avevano gente come lui. Potenzialmente erano coinvolti in maniera ben più condizionante di lui certi sindaci o capi-partito dei paesi di mafia, e certi deputati. Tra di essi Raffaele Palizzolo spicca come il personaggio più rappresentativo della connessione politica-mafia in età liberale. Egli dovunque avesse proprietà, la sua famiglia era in buone relazioni con i banditi ed era lui stesso a vantarsene. Politicamente era considerato vicino al gruppo clericale-regionista palermitano ma non si sa quanto le sue appartenenze partitico-ideologiche siano importanti per inquadrare un personaggio come lui. In campagna elettorale si accompagnava di circa 50 individui a cavallo, tutta gente sedicente civile, che altro non era che un miscuglio di mafia, di bravi, e di sollecitatori intriganti ognuno di loro. Presso Ventimiglia Palizzolo alloggiò presso un certo Domenico Nuccio, possidente già imputato assassino, e due volte ammonito, inoltre era compare del più tenuto bandito del tempo, Antonino Leone nativo di quel paese. Persino i banditi provenivano da strati sociali intermedi perché Leone era figlio di un piccolo proprietario e dopo aver servito l'esercito garibaldino e quello regolare, organizzò un commercio di tessuti e in seguito si trasferì a Palermo dove mise su una bottega di tabacchi in società col suo padrino. Fu qui che entrò in contatto con ambienti di pregiudicati, dandosi alla latitanza dopo aver ucciso proprio il padrino suo socio dopo che aveva scoperto che lo stava truffando. Nonostante questo fatto, e i molti che seguirono, la sua popolarità crebbe a Ventimiglia e dintorni. Questo perché redistribuiva i propri profitti e nel suo caso la leggenda plebea del brigante come vendicatore degli oppressi prese proporzioni epiche, per quanto si trattasse di un uomo brutale, feroce coi deboli e rispettoso coi potenti. Arrivato il prefetto Malusardi, egli era ben consapevole della necessità di dare segnali forti. Il momento culminante fu raggiunto il 30 aprile 1887 con lo scioglimento del corpo dei militi a cavallo. Ben 100 di loro furono inviati al domicilio coatto, quanto al resto, Malusardi, sapeva che non avrebbe avuto successo nel rincorrere i banditi delle campagne ma bisognava agire sulla rete su cui si sostenevano ovvero su gente come Palizzolo. Il prefetto minacciò quest'ultimo di ammonirlo e impedirgli di candidarsi nella Camera dei Deputati spiegandogli che la sua elezione sarebbe stato frutto non della legittima volontà dei degli elettori ma della prepotenza della mafia. La sua opera venne apprezzata da gran parte della stampa palermitana, anche se non mancarono voci contrarie e reazioni, anche in giudiziaria, di qualcuno dei potenti messo sotto pressione. I capi mafia erano gente che mediava innanzitutto tra persone perbene e criminalità comune, tra città e campagna, tra proprietà e impresa, tra produzione e mercato. Cominciamo con Di Liberto, procuratore della mensa arcivescovile di Monreale e delegato per il controllo delle sue acque. Parliamo di un proprietario benestante di giardini, uno che grazie al ruolo istituzionale in cui era collocato, andava a riempire una casella essenziale del vuoto di potere verificatosi a Monreale dopo la rivolta del 1866. In quella fase la sede arcivescovile era vacante, i monasteri venivano chiusi, il patrimonio fondiario ecclesiastico veniva incamerato dallo Stato e distribuito in piccole quote e impazzava la lotta tra i proprietari dei giardini di sopra e di sotto per decidere a chi l'acqua andasse concessa e a chi fosse negata. Intorno alla metà del 1870 Di Liberto fu indicato in varie fasi, o come cittadino esemplare o come capomafia. Lui si difendeva da queste accuse dicendo che: è assurdo accusare una persona della sua qualità sociale di essere un volgare criminale. Anche se molti solidarizzavano con lui, un magistrato sintetizzò il concetto, che poi era quello generale del liberalismo: colui che ha molto da perdere, è attaccato dall'ordine. Nella fattispecie l'argomento però si prestava a essere ribaltato, e lo fu da ben 2 delegati in pubblica sicurezza di quelli che si alternarono a Monreale che dissero: la mensa vescovile e l'acqua irrigatoria sono e saranno le sorgenti di ricchezza di Di Liberto; ma senza prepotenza, senza mafia e senza camorra quella sorgente produrrebbe poco, e la tanto vantata ricchezza potrebbe anche sparire se la giustizia avesse qui il suo primo rigore. In paese, stando al comandante delle guardie campestri le teorie erano due: o egli era amico di questi affiliati e li protegge e li dirige, o si tiene amici costoro perché dubita di quella setta essendo il ricco, ma nei li protegge e ne li dirige ma li accarezza per il proprio tornaconto. In mancanza di prove precise Di Liberto non fu mai incriminato dato che governo nel 1896 promosse in Sicilia un'operazione spacciata per decentralista ma che in realtà era super-centralista e autoritaria, affidando all'isola un cosiddetto commissario civile che era il conte imolese Giovanni Codronchi, che si dimostrò determinato a fare pulizia a tutti i costi. Quest'ultimo, disse a Rudinì, che non si sarebbe fermato neanche davanti ai suoi amici anche se Rudinì sapeva che Palizzolo fosse una canaglia, ma nonostante questo strinse contatti di stretta collaborazione col sospetto assassino sulle questioni politiche di rilievo come su quelle minute. Il killer, Giuseppe Fontana, presentò un alibi da cui possiamo arguire la dimensione anche internazionale del suo business perché all'ora del delitto disse che si trovava come ogni anno in Tunisia per organizzare una spedizione di agrumi locali a Palermo, per poi farli arrivare a New York. A condurre le indagini era Antonino Cutrera che già conosciamo, e tra i soci di Fontana mise in particolare nel mirino un certo Anfossi. Si trattava di un personaggio borderline perché da un lato lavorava per conto di rispettabili ditte inglesi e americane, mentre dall'altro era coinvolto in tutti gli affari loschi del commercio; questo losco personaggio era l'agente di borsa di Palizzolo. Quest'ultimo aveva sempre sostenuto interessi della Navigazione generale, la maggiore società armatoriale italiana che era controllata dalla più illustre dinastia imprenditoriale siciliana, i Florio, mentre Notarbartolo aveva di recente sponsorizzato progetti a questa sgraditi. Quando Notarbartolo venne allontanato dalla direzione della banca, cominciò una speculazione finanziaria per azioni della Navigazione generale, con l'utilizzo di capitale del Banco stesso e sfruttando le proprie relazioni con la nuova direzione Palizzolo vi si inserì per proprio conto. Sembra che il deputato si sia determinato a far uccidere l'ex direttore temendo che potesse rilevare questi intrighi e magari tornare a guidare il banco. Arriviamo al 1896 quando Leopoldo Notarbartolo si era trovato davanti a un muro di gomma perché sperò che Rudinì e Codronchi l'avrebbero aiutato ma si rese conto che l'influenza di Palizzolo stava crescendo. Cercò alleati in due settori politici diversi, da un lato i socialisti che colsero l'occasione per uscire dalla gabbia in cui erano stati messi nel 1894 per voler accusare chi li aveva accusati, dall'altro c'era la rete di parentele e conoscenze aristocratiche di Leopoldo stesso che, caduto Rudinì, lo aiutarono a contattare il Generale Luigi Pelloux, nuovo capo del governo. Fu proprio lui che nell'agosto del 1898 sancì il cambio di rotta nominando questore di Palermo Ermanno Sangiorgi. Entrò in polizia nel 1860 e la sua carriera seguì le logiche dell'amministrazione centralizzata, le quali prevedevano frequenti trasferimenti dei funzionari da un punto all'altro del paese. Nessuno di quelli che lo conobbero può negare la sua abilità professionale, anche se qualcuno dei suoi superiori non gradiva il suo stile anticonvenzionale. Superò brillantemente tutte le trappole che i suoi nemici gli posero davanti e giunse al rango di questore cominciando da una provincia che per la maggior parte era il punto d'arrivo, ovvero Milano. Rilevante il suo contributo nel 1894 alle indagini sull'attentato alla vita di Crispi. Era stato perpetrato da un anarchico in apparenza isolato ma Sangiorgi si impegnò a dimostrare che dietro c'era il complotto di una società segreta o setta. Faceva ricorso a strumenti interpretativi analoghi a quelli che lui stesso e i suoi colleghi avevano applicato alla mafia in Sicilia un ventennio prima. Ritorniamo alla sua nomina di questore di Palermo nel 1898 e incaricato di rompere il muro della complicità attorno a Palizzolo; in effetti le cose andarono proprio nella maniera prevista. Fu proprio lui a gestire l'arresto di Palizzolo prima ancora che la recalcitrante magistratura palermitana emettesse un mandato di cattura, fu sempre lui a stanare Fontana datosi alla latitanza riuscendo a convincere il principe Mirto a consegnarlo alla giustizia. Fu sempre il questore a testimoniare della capacità a delinquere di Palizzolo e a trarre dagli archivi le prove documentarie delle pressioni esercitate dal deputato in favore di tanti mafiosi; nel frattempo andava sciogliendo commissioni e consigli amministrativi di cui Palizzolo faceva parte. Il nome Sangiorgi però è anche legato a un documento di straordinaria importanza, ovvero il grande rapporto di polizia chiamato il rapporto Sangiorgi, una relazione di 500 pagine che si basava su una serie di informazioni provenienti all'interno, ovvero dagli sconfitti in una guerra di mafia. Un nome era sulla bocca di tutti Francesco Siino, che come abbiamo visto era un membro influente del gruppo mafioso Malaspina-Uditore-Passo di Rigano. Stando al rapporto questo territorio venne diviso in tre gruppi guidati rispettivamente da Francesco Siino, da suo fratello Alfonso e da Giuseppe Giammona; il padre Antonino continuava a giocare un ruolo importantissimo anche come consigliere del figlio, i quali appoggiavano amici e parenti che guidavano i gruppi di Perpignano e Piana dei Colli. Non c'erano confini facili da definire e le fazioni un tempo alleate entrarono in conflitto dove la fazione dei Giammona prevalse facilmente e Siino dovette trovare rifugio a Livorno. Il rapporto addebita all'organizzazione altri delitti: ladri e spie da punire, indipendenti da mettere a posto, gerarchie interne da definire e qualche questione privata. Sempre il rapporto ci fornisce non solo informazioni su persone e fazioni ma anche un quadro e un'interpretazione di insieme perché descrive una mafia articolata in gruppi che prendono il nome delle singole borgate, operano nei loro territori e su di essi rivendicano una competenza esclusiva. Ogni gruppo è regolato da un capo, che è chiamato caporione e a questa compagine di malviventi è preposto un capo supremo; la scelta dei capi è fatta dagli affiliati, quella del capo supremo dai caporioni riuniti in assemblea. Ovviamente questo schema non si sa se sia stato realistico perché i super poliziotti come Sangiorgi hanno qualche difficoltà a concepire fenomeni collettivi, credono nelle catene di comando e adorano l'idea del capo dei capi. Il questore scrive: "sgraziatamente, i caporioni della mafia stanno sotto la salvaguardia di Senatori, deputati ed altri influenti personaggi che li proteggono e li difendono, per essere poi, a loro volta, da essi protetti e difesi; la mafia è un'associazione di delinquenti forte dell'appoggio di autorevoli proprietari". Mentre Sangiorgi stilava il suo rapporto, scompaginava le cosche dell’hinterland cittadino con massicce retate, tanto che il prefetto sentenziò: la mafia è stata ridotta al silenzio e all’inazione. Nel maggio del 1901 giunse il procedimento penale per cui si era lavorato, ma sulla sbarra salì solo per minoranza di quanti venivano chiamati in causa dal rapporto (51 su 218). Ai pochi che parlarono per l’accusa (Siino in testa), si contrapponevano coloro che testimoniavano sulla buona fama degli imputati, in cui presero posto i protetti-protettori dell’alta società. Alla fine il processo si concluse con miti condanne (3 anni e 6 mesi) per associazione per la maggioranza degli imputati, e con 19 assoluzioni. L’esito rifletteva un problema sul fronte politico; Sangiorgi sperava che dall’elitè dei proprietari palermitani avrebbe ricevuto qualche sostegno, e invece se la trovò contro, impegnata a negare la stessa esistenza di quella cosa là, la mafia, ancorata ad una linea definibile negazionista. Il questore disse: “non poteva essere diversamente, se quelli che li denunziavano la sera, andavano a difenderli la mattina”. Inoltre la sentenza evidenziava una questione tecnico-giuridica, per la difficoltà per il codice penale di inquadrare il fenomeno come l’associazione mafiosa. Ne usciva fuori una linea minimalista che possiamo sintetizzare così: la mafia esiste in effetti ma consta di gruppi piccoli, tra loro slegati; non è rappresentabile, come pretende la polizia, alla stregua di una grande organizzazione criminale. 3 – Tra Sicilia e America: prima e seconda ondata La grande emigrazione otto-novecentesca portò milioni di italiani nelle Americhe, e con l'inizio del nuovo secolo i siciliani scelsero gli Stati Uniti in una percentuale più elevata di tutti gli altri italiani; erano spinti dal bisogno, ma anche consapevoli di andare incontro a grandi opportunità. Trovarono una frontiera permeabile e una porta quasi aperta, facendo raggiungere il loro culmine nel 1906 e nel 1910. In certe zone di New York, e di altre grandi città come Chicago, si crearono ibridi culturali denominati Little Italy. Si ebbe un altro formidabile boom di queste migrazioni tra il 1919/20, ma poi la porta venne chiusa l'anno successivo e ancora più drasticamente nel 1924. Quella dell'immigrazione non fu l'unica proibizione che caratterizzò il dopoguerra americano ma ci fu anche quella della produzione e del commercio degli alcolici. Per alcuni aspetti i due proibizionismi conseguirono effetti perversi, opposti a quelli che si proponevano da realizzare. La proibizione degli alcolici generò contrabbando su larga scala offrendo straordinaria occasione di arricchimento ad una nuova leva di criminali; e le nuove leggi restrittive sull'immigrazione non impedirono l'arrivo di criminali che avrebbero fornito buona parte del quadro dirigente alla Cosa Nostra americana. La New York di inizio '900 veniva già da una storia antica di criminalità etnica legata alle ondate migratorie, questa era legata all'industria del vizio: gioco d'azzardo, lotterie, scommesse e prostituzione. Gli imprenditori per garantire l'ordinato svolgimento, assoldavano dei pistoleri e contavano anche su un occhio di riguardo della polizia, in cambio procuravano voti e finanziamenti alla macchina politica cittadina. Gli irlandesi che durante l'Ottocento avevano alimentato i più grandi flussi migratori svolgevano un gran ruolo nell'affarismo para-criminale nella macchina politica e nella polizia, mentre gli italiani ultimi arrivati no e non avevano neanche la possibilità di poter votare. Ma partecipavano al cosiddetto "Padrone System" che era una sorta di racket sul lavoro. Questi cosiddetti padroni erano degli italiani che procuravano lavoro ai connazionali e lavoro agli imprenditori americani, ricavando tangenti dagli uni e dagli altri. Molto spesso sono loro a pagare per intero i viaggi dei migranti, tanto che alcuni di loro si definirono banchieri. Molti anni dopo perché per spiegare le origini della mafia l'FBI sarebbero riferiti a loro chiamandoli "cumpars" o "block bosses". Si collocava nel campo delinquenziale il fenomeno della Mano Nera, sigla comparsa in calce alla lettera estorsiva indirizzate ad italiani agiati seguiti da atti di violenza o attentati dinamitardi. Non si sapeva se era la criminalità organizzata ma una quantità di giornalisti e politici assunse quella sigla come il nome di un'associazione criminale o di una società segreta originatasi nel vecchio mondo e trapiantata nel nuovo. Già da un quindicennio l'America aveva cominciato a parlare di mafia immaginandola come una setta straniera impegnata a complottare contro le libertà americane, antichissima al pari del tenebroso mondo mediterraneo da cui veniva. Nel 1908 ritroviamo in America un personaggio a noi noto, Raffaele Palizzolo, che una volta sbarcato a New York venne accolto da festeggiamenti e bacchetti in suo onore. Recitò poesie in omaggio all'America e si presentò come un perseguitato impegnando la propria oratoria nella difesa del buon nome dei corregionali dalle calunnie di cui erano oggetto. I giornalisti del New York Times sapevano chi era e decisero di intervistarlo. Lui nell'intervista si presentò proprio come l'epigono di un tempo remoto e spiegò che la parola mafia in arabo significava perfezione e tracciò l'equazione tra omertà e virilità. Insomma Palizzolo proponeva l'ideologia mafiosa impunemente strong arm man. Va detto inoltre che oltre a questo contrabbando di alcolici, giocò un ruolo fondamentale per la formazione della nuova elitè gangeristica metropolitana il labor racket spiegato in precedenza. Concludiamo chiedendoci se e quanto sia paragonabile alla mafia siciliana il gangsterismo americano degli anni venti. La principale differenza è che la società americana ha carattere multietnico e la criminalità riflette questo carattere, peraltro proprio questa situazione garantisce al gagnsterismo americano un contesto popolare tra i connazionali, negli slum più miserabili, analogo a quello di cui godono i mafiosi nella loro terra d'origine. Più in generale la risposta può essere positiva se ragioniamo, per l'uno e l'altro capo, della domanda sociale di regolamentazione di un'ampia zona grigia tra legalità e illegalità. 5 – Vecchia e nuova mafia I discorsi sulla mafia sono stati spesso articolati secondo uno schema particolare: si è diffusa ultimamente una mafia, ormai ridotta a delinquenza, che non ha più il senso del rispetto e dell'onore della vecchia, che non ha più la sua capacità di limitare il ricorso alla violenza. In questa veste l'argomento è retorico dato che lo ritroviamo imputato in ogni fase della nostra storia, dato che serve a salvaguardare l'ideologia protettiva e onorifica della mafia stessa, proiettandola verso un indefinito passato, fare salvaguardandola dalle dure repliche dei fatti. Questo sarà il motivo della testimonianza di Tommaso Buscetta, in riferimento a un periodo ancora successivo in cui in cui la mafia-Cosa Nostra avrebbe perso le proprie antiche virtù, venendo sfigurata dall'avidità di ricchezze e dall'urgenza di potere dei loro capi. Corleone, nel 1911 aveva 19.000 abitanti, ed era già un centro di mafia ma soprattutto di latifondo. Corleone è stato anche un centro molto importante delle lotte contadine fin dal tempo del movimento dei fasci; partiremo da qui e dal fondatore e leader del fascio corleonese Bernardino Verro. Nel 1892, punto più alto del movimento da lui capitanato, obbligò agli esercenti a sottoscrivere patti agrari più favorevoli ai contadini, che divennero noti a livello nazionale come Patti di Corleone. Stando a documentazioni di polizia, Verro stesso avrebbe ammesso di aver prestato giuramento secondo il rituale che noi ben conosciamo, alla locale setta dei "fratuzzi". Ma perché Verro arrivò a tanto? Forse sperava che la setta potesse parargli le spalle nel momento della contrapposizione con l'autorità, forse riteneva che i nemici del popolo fossero in prima istanza i feudatari, forse non metteva il problema della legalità borghese al primo posto nei propri pensieri. Verro, nonostante quel giuramento, si allontanò subito dalle alleanze mafiose perché disse: "da quando il socialismo è divulgato, è diminuita la bassa delinquenza, sperando che col tempo verrà pure a diminuire l'assassinio ordinato dall'alta mafia. Era il 1902 ed egli svolgeva un ruolo primario nell'organizzazione dei grandi scioperi agrari che ebbero il loro epicentro a Corleone, espandendosi fino ad Agrigento. Va detto che, in quella fase e in quei luoghi, il movimento non coinvolgeva tanto i braccianti quanto i borghesi, il ceto medio contadino. Nel 1902-1903 puntava sulla trasformazione dell'affitto in mezzadria e in generale sul miglioramento dei patti agrari, ma col procedere degli anni conseguì i suoi successi organizzando affittanze collettive, ovvero cooperative che prendevano in affitto i latifondi e poi ne distribuivano le terre in piccole quote ai loro soci. Durante il 1913 la Sicilia si poneva al secondo posto del Movimento Cooperativo Italiano. Enrico La Loggia, avvocato agrigentino, leader socialriformista della federazione siciliana delle cooperative, destinato a una lunghissima e importante carriera politica, definiva le affittanze "organi pacifici di una nuova trasformazione economico-sociale-agraria, tranquillamente sviluppatesi tra piccoli affittuari e mezzadri"; la componente maggioritaria del movimento era la sua, quella moderata, poi c'era una componente cattolica e una componente radicale che si rifaceva al partito socialista ufficiale. Come ben sappiamo tra gabellotti, c'erano soggetti che, per i loro legami con il mondo mafioso, usavano risolvere i problemi di concorrenza in maniera tutt'altro che pacifica; a un certo punto le affittanze cominciarono a far loro una concorrenza efficace. Nel 1910 Verro si era salvato per un pelo da un attentato e per un periodo lasciò il paese, ma l'anno seguente venne assassinato un altro reduce dei fasci, al pari di Verro aderente al PSI, ovvero Lorenzo Panepinto che era maestro elementare e sindaco del paese di Santo Stefano Quisquina. A quel punto Verro iniziò a mandare lettere per chiedere aiuti e consigli a Colajanni e per lamentare il sostegno che Gennaro e la mafia dei "fratuzzi" trovavano nel sottoprefetto e deputato liberal-conservatore Salvatore Avallone. Verro nelle sue lettere di aiuto raccontava di una rete molto fitta che teneva insieme prefetti e deputati, medici e capi mafia e una parte consistente della provincia di Palermo, quest'ultimo se la sentiva tutta di sopra questa rete. Nonostante tutto nel 1914 i socialisti vinsero a Corleone le elezioni amministrative e accettò di fare il sindaco per senso del dovere, ma anche lui fu assassinato nel 1915. Gli assassini di Panepinto e Verro ci mostrarono una mafia dal profilo politico e ovviamente la politica per cui uccidere corrispondeva all'amministrazione locale e ad una lotta per il controllo delle risorse in cui il movimento delle affittanze collettive entrava in concorrenza con i gabellotti. Panepinto e Verro inaugurarono un martirologio destinato purtroppo essere lungo di con una striscia di sangue che si sarebbe allargata sia nel primo che nel secondo dopoguerra. La mafia del dopoguerra era nuova anche perché si trovava ad agire in un quadro politico del tutto nuovo dato che il liberalismo italiano si dimostrò incapace di padroneggiare i traumi e i rancori collettivi sedimentati dalla prima guerra mondiale. In questo quadro gli storici collocano in genere la Sicilia con qualche difficoltà perché al momento della marcia su Roma, il Partito Nazionale Fascista era quasi inesistente nell'isola, tranne a Siracusa. Era in vista un assalto trasformistico al carro del vincitore e Mussolini diede ai prefetti il compito di regolare l'afflusso, ovvero decidere a quali dei gruppi già convertiti al nazionalfascismo fosse opportuno affidare la gestione degli organismi del partito e a quale dei gruppi fiancheggiatori appoggiarsi. A Palermo il fiancheggiatore più importante era Vittorio Emanuele Orlando, forte del suo prestigio di presidente della vittoria, della sua statura politica e anche intellettuale. Vedremo più avanti come i mafiosi tendano a dipingere la loro onorata società come onnipotente, capace di controllare tutto e farsi servire da tutti; addirittura Tommaso Buscetta ha evocato proprio Orlando, vantandosi che la mafia abbia annoverato nelle proprie fila anche un presidente del consiglio - disse che di questo fatto gliene avevano parlato in diverse occasioni e parecchi uomini d'onore. Nonostante questi racconti sembra improbabile che un personaggio come Orlando si sia sottoposto a un rito di affiliazione in qualche magazzino della mafia, invece è più probabile che abbia avuto a che fare con mafiosi quando si presentava al Parlamento del collegio di Partinico. Orlando pensava che gli spettasse garantire il contatto tra il suo collegio e il governo, e anche in questa logica prese posizione nel listone fascista in occasione delle elezioni politiche del 1924 tra i fiancheggiatori del governo Mussolini, fu si uno dei più importanti ma non fu certo l'unico. Visto che tutti questi erano in qualche modo connessi a elementi di mafia, possiamo dire che questa venne a fiancheggiare il fascismo e anche per molti aspetti ci entrò dentro. Uno dei casi più assurdi fu quello in cui il boss Francesco Ciccio Cuccia era appena diventato sindaco di Piana e di lì a poco sarebbe diventato noto in tutta Italia come il capo-mafia per eccellenza dato che Mussolini in persona, nel suo discorso parlamentare più famoso, lo chiamò in causa in relazione ad un episodio verificatosi durante il viaggio in Sicilia nel 1924. Disse che l'ineffabile sindaco si era permesso di offrire protezione a lui, il capo del governo nonché Duce dell'Italia fascista ma chissà cosa si saranno detti veramente. Le elezioni municipali tenutesi a Palermo il 2 agosto del 1925 rappresentarono l'ultima votazione libera in Italia prima che calasse la cappa del fascismo, l'ultimo scontro non opponeva fascismo e antifascismo. La lista scesa in campo contro Alfredo Cucco, giovane medico - ex nazionalista e uomo nuovo del fascismo palermitano, venne guidata da Orlando appena sceso dalla carovana filogovernativa. Non possiamo stupirci quindi delle parole del comizio rivolto agli elettori palermitani (nel libro pg.110). In questo caso, quest'ultimo, non poteva entrarci; egli inoltre parlo in modo particolare del tema della mafia. Torniamo alla mafia palermitana e nel 1937, data in cui fu raccolta una testimonianza di straordinario interesse, proveniente dall'interno dell'organizzazione stessa e fu raccolta insieme a molte altre. Il testimone si chiamava Melchiorre Allegra, nato a Gibellina del 1881 ma che praticava a Palermo. Un mafioso di ceto professionale, istruito e laureato. Si avvicinò all'organizzazione nel corso della guerra in veste di medico militare, dato che poteva concedere esenzioni e risparmiare ai giovani la partenza per il fronte; appunto per questo nel 1916 entrò in contatto con una persona di riguardo, Giulio D'Agati, lui lo portò, con altri, all'interno dell'organizzazione. Nel racconto del medico abbiamo due nomi di personaggi già conosciuti: Calogero Vizzini e Lucio Tasca Bordonaro. Un punto cruciale della testimonianza riguarda uno "stato maggiore" della mafia che si riuniva in un quartier generale palermitano, la Birreria Italia, dove confluivano molti rappresentanti di paesi che essendo diventati benestanti mediante losche attività si erano trasferiti a Palermo. Allegra precisa che a Palermo aveva sempre vissuto la parte più importante della mafia camuffata sotto diverse e molteplici forme, e di questo "stato maggiore" facevano parte, oltre capimafia che erano anche amministratori comunali in provincia, anche altri personaggi che conosciamo: Santo Termini, Ciccio Cuccia, Francesco Motisi e Salvatore Maranzano. In generale allegra ci racconta degli assetti della mafia palermitana degli anni venti e ci dà molte informazioni sulla "connection americana". In questo momento ci troviamo in un punto di passaggio tra vecchia e nuova mafia, ci dice esplicitamente che le connessioni si fecero più strette; magari un qualcosa iniziava in Sicilia si concludeva in America e viceversa. 6 – Davanti al fascismo L'operazione antimafia del fascismo cominciò il 23 ottobre del 1925 quando Mussolini nominò prefetto di Palermo Cesare Mori. Rappresenta un passaggio molto importante della nostra storia che ha influito la particolare evidenza delle sue implicazioni politico-generali. Santi Romano, grande giurista che diede a questa stagione della storia italiana notevole contributo come presidente del Consiglio di Stato disse: "l'ordinamento giuridico maggiore si impegnò a combattere a ruota si arresero altri prima e dopo di lui anche se non si sapeva di cosa fossero accusati i 300 su 450 paesani arrestati ma furono indicati genericamente come favoreggiatori. Mori a quel punto pronunciò un violento discorso in piazza, su un palco circondato da armigeri e davanti a una folla attonita; inoltre Sgadari prese posizione tra i vincitori. Tra il 1926 e il 1932 furono 105 i processi per fatti di mafia, gli imputati in primo grado furono 7000. La concentrazione maggiore si ebbe in provincia di Palermo, dove i processi furono 56 e quasi tutti si tennero nella Sicilia occidentale. Possiamo parlare di maxiprocesso, prendendo in prestito un termine che sarebbe entrato nell'uso pubblico 50 anni più tardi. Come alla parte politica e poliziesca viene accoppiato il nome del prefetto Mori, a quella giudiziaria può essere accoppiato quello del magistrato napoletano Luigi Giampietro inviato a Palermo nel febbraio 1925 per ricoprire l'ufficio di procuratore generale del re. Quest'ultimo interpretava la mafia da un lato alla luce di un paradigma funzionalistico e dall'altro alla luce di un paradigma economico, come una buona assicurazione sottoscritta da proprietari e gente d'affari per tutelare i beni e le loro persone. Era ben consapevole che nel passato era stata tutelata per ragioni politiche e anche in cambio di servizi offerti alle autorità di pubblica sicurezza; partiva da qui per radicalizzare il discorso lasciandosi dietro tante indulgenze del passato dato che l'escalation sanguinaria del dopoguerra gliene offriva un'ampia motivazione. Ricordò che i delitti di mafia non avevano nulla di cavalleresco e di onorifico perché si realizzavano sempre a tradimento, in agguato e con spettacolare ferocia aggiungendo lo sfregio al cadavere, spargendolo di petrolio o decapitandolo, ovvero mutilandolo facendone orrido scempio a segno della potenza terrificante della mafia. Giampietro come Mori era stato fino al 1922 conosciuto come nittiano antifascista e anche lui ben corrispose agli scopi che il governo voleva realizzare con, ovviamente, qualche importante differenza. La polizia impiegava metodi energici e senza regole, perché faceva ricorso a pestaggi e ad autentiche torture. In qualche caso questi abusi vennero alla luce in sede giudiziaria squalificando la costruzione accusatoria. Nel 1929 Mori lasciò la prefettura di Palermo e forse le condizioni politiche non erano più quelle giuste, da quando il suo vecchio nemico, Arpinati, aveva preso le redini del Ministero degli Interni. Però sarebbe eccessivo dire che sia stato messo a riposo per punizione, magari perché aveva colpito troppo in alto; la verità è che colpì dove era previsto che colpisse. Rimase a Palermo 4 anni, più della media dei suoi colleghi dato che il fascismo non lasciava troppo a lungo i suoi funzionari nello stesso posto e fu promosso al rango di senatore al pari di Giampietro in un modo che non può suonare con una sconfessione. L'operazione Mori sul piano simbolico o propagandistico fu un grande successo. Resta il fatto che alla fine ebbe sulla mafia un impatto minore di quello che ci si sarebbe potuto aspettare. Va anche rilevato il diverso impatto della repressione nelle diverse aree territoriali. Su 105 processi, furono inflitte anche pesanti condanne, compresi 54 ergastoli. In maggioranza gli ergastoli andarono a colpire le mafie dall'interno, quella di Gangi tra le altre. Non è un caso se la mafia delle Madonie non recupererò mai la centralità che aveva avuto in periodo pre-fascista. Il grande rapporto di polizia del 1938 spiega che nel periodo di Mori la mafia della provincia di Trapani non venne attaccata in profondità, che negli anni trenta era ancora con tutti i suoi quadri al completo. Noi già sappiamo della scarsa incidenza della repressione a Castellammare, roccaforte italo-americana, ma la mafia del trapanese era pronta per riassumere un ruolo centrale nel cinquantennio successivo. Modesto fu l'impatto della repressione Mori- Giampietro nell'agro palermitano, il luogo in cui la mafia era maggiormente innervata di relazioni con la classe dirigente, il terreno della sua più pericolosa riproduzione attraverso il tempo. Gli investigatori nel 1938 descrissero il modo in cui in quest'aria decisiva i mafiosi, man mano che uscivano di prigione e tra un periodo di confino e l'altro, riottenevano le gabelle, tornavano a occuparsi dei loro affari e si impegnavano in nuove guerre di mafia. Molto rumore per nulla? Si può dire che vennero ottenuti risultati modesti. Basterà comparare le pene erogate nel contesto dell'operazione Mori con le centinaia di ergastoli inflitti nella tarda età repubblicana, dopo il maxiprocesso palermitano del 1985-87. Possiamo però dire sin d'ora che dal confronto esce radicalmente smentita la tesi stando alla quale la repressione di una patologia così profondamente radicata sarebbe possibile solo per un regime super-autoritario, e impossibile in uno democratico. 7 – Gangster e mafiosi Torniamo in America quando nel 1935, Boris Berger, giornalista del New York Times, delinea la figura del racketeer moderno. Lo descrive mentre lavora in ufficio come un manager, dopo aver abbandonato la strada, mentre si mostra nei locali o nei club senza più temere per la propria vita, mentre si mischia alle classi superiori sul campo da golf e alle corse dei cavalli. Berger dà grande rilievo alla figura emergente del settore italiano, come Lucky Luciano, e lo dipinge come un personaggio molto popolare a Broadway, frequentatore abituale di nightclub, dei posti in prima fila al Madison Square Garden o a Miami per le vacanze al mare. Lo si può incontrare in qualche caffè italiano del Sud, ma non perché lo porti lì la nostalgia ma per mostrare agli amici che il successo non l'ha fatto diventare uno snob. Luciano in effetti cerca di dare di se stesso l'impressione dell'uomo emancipato si dal retaggio del vecchio paese, però resta un siciliano d'America e la sua storia si intreccia indissolubilmente con quella della mafia o dell'unione siciliana. Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro, tornando a quel 1930-31 in cui a New York la conflittualità raggiunse una misura che ai contemporanei sembrò superiore a qualsiasi cosa questa città abbia mai conosciuto in passato. Il principale tra gli scontri tra gang ebbe protagonisti siciliani: da un lato il boss per eccellenza Joe Masseria, in mezzo Lucky Luciano, sul versante opposto l'ultimo castellammarese Salvatore Maranzano. Luciano esprime grande antipatia per quell'old bastard di Maranzano, per la sua mafia e per tutte le sue diavolerie da vecchio mondo. Lo incontra per la prima volta al ristorante Palermo di Brooklyn, qui fu infastidito dal sentirsi chiamare "giovane Cesare". Non seppe che rispondere quando gli fu chiesto perché avessi abbandonato il nome che li accomunava ma la realtà è che non voleva spiegare il desiderio di tenersi lontano da tutte le sicilianerie, inoltre non accolse l'invito dell'interlocutore a farla finita con le amicizie ebraiche. In un secondo incontro, quando Maranzano fece ricorso alla retorica familista tipica dei suoi pari definendolo "il suo bambino", Luciano disse che non aveva il diritto di sostituirsi al suo papà dicendo che gli avrebbe sparato all'istante. Una terza volta Luciano fu oggetto di un'attenzione di Maranzano di tutt'altra natura, quando fu sottoposto ad un pestaggio da cui uscì vivo per mera fortuna guadagnandosi il soprannome di Lucky. Comprese ,in quel frangente, che bisognava farla finita con le logiche di vendetta portate dal quella gente immancabilmente provvista di baffi e proveniente dal vecchio paese. Tutti i giovani odiavano gli old mustaches e quello che stavano facendo, perché loro cercano di portare avanti un business al passo coi tempi mentre loro rimanevano ancorati a 100 anni prima. A quel punto egli si alleò con Joe "the boss" Masseria, un altro che considerava un rottame del vecchio mondo ma del quale rispettava la forza. Attraverso informazioni di altri reduci di questa guerra, ci arrivano notizie che Maranzano fece uccidere diversi luogotenenti di Masseria, Luciano, coadiuvato da fidi Costello e Genovese, decide di mollare Joe e lo fece uccidere per andare ad una mediazione con la controparte. I giornalisti, sia americani che d'oltreoceano palermitani, osservavano di come questo delitto era un segnale che il governo invisibile del racket intendeva restaurare l'ordine e che le forze dell'ordine si guardavano dall'interferire, quasi come se quelle vicende non le riguardassero. Dopo un po' di tempo Maranzano convoca un'assemblea con 500 partecipanti, nella grande sala per ricevimento del Grand Concourse del Bronx, qui il nuovo boss riorganizzò il sistema in cinque gruppi ribattezzati famiglie, per evitare il senso negativo di gang o mob. Qui Maranzano enunciò le regole che avrebbero dovuto garantire la convivenza pacifica tra i gruppi e si autonominò "capo dei capi" secondo l'antico uso della mafia siciliana. Luciano si mosse d'anticipo quando Maranzano cominciò a sconfinare nel labor racket ebraico di Manhattan di Lepke e Gurrah. Un commando composto proprio da ebrei, sconosciuti dunque alle guardie del corpo del boss castellammarese, e travestiti per giunta da poliziotti, penetrò nell'ufficio di Maranzano in Park Aveune e lo eliminarono il 10 settembre 1931. I detective del dipartimento di polizia presero atto che il morto era stato uno dei pezzi grossi dei racket del paese, consultarono i suoi documenti e la sua famosa agendina nera scoprendo i contatti col mondo "di sopra", inoltre rivelarono alla stampa che era stato eletto nel giugno precedente a Coney Island a capo dell'Unione siciliana al posto di Lucky Luciano. Lasciarono intendere che l'assassinio chiudeva la lotta al vertice dell'organizzazione. Sino a quel momento, la criminalità newyorkese andata al potere col proibizionismo aveva goduto di sostanziale impunità. Si può dire che le varie fazioni si selezionassero da se, accumulando denaro e amicizie ed eliminando i concorrenti a raffiche di mitra. Nel corso degli anni trenta le cose cambiarono radicalmente perché la legge mise fuorigioco i top gangster di Manhattan nella fase successiva; si può dire che nei nuovi tempi, sopravvissero quelli che seppero evitare l'urto. Nel 1929 era crollata la borsa e la grande depressione aveva afferrato alla gola il paese, l'opinione pubblica era meno disponibile a tollerare la corruzione metropolitana così ben rappresentata dal sindaco Walker. A quel punto i repubblicani cercarono di cavalcare la protesta e dove trovò udienza all'interno dello stesso campo democratico in Franklin D. Roosevelt, all'epoca governatore dello Stato. Roosevelt commissionò un'inchiesta sulla corruzione dei pubblici ufficiali che non mancò di rilevare quanto profondamente il racket pervadesse la struttura economica newyorkese. Le stesse autorità si erano mostrate così distratte e si dissero così preoccupate non solo del fiorire di un economia illegale, ma anche della situazione in quella legale. Roosevelt, a quel punto, fece il passo decisivo perché nel 1932, dopo aver conseguito la nomination al partito della presidenza dell'Unione, mise alla gogna Walker in pubblica udienza ottenendo le dimissioni. Eletto presidente, e avviato il New Deal, si rafforzarono i movimenti riformatori con la consulenza di repubblicani progressisti e democratici desiderosi di emanciparsi da Tammany Hall. Il nuovo governatore era Herbert Lehman e il nuovo sindaco Fiorello La Guardia. Quest'ultimo divenne un simbolo di integrazione e successo per la comunità italo-americana. Il nuovo sindaco sosteneva il corso anti- che era meglio riparare in Sicilia piuttosto che fare la fine di Luciano, o peggio incorrere nel rischio che Mangano lo considerasse uno spione - stessa cosa poi fece anche Genovese. Che Mangano fosse un boss in quella fase ce l'ha confermato Gentile stesso e anche il più importante tra i pentiti americani, il 76enne Angelo Leonardo in un importantissimo processo celebratosi nel 1986 di fronte a una commissione parlamentare d'inchiesta. Suo padre fu assassinato nel 1927, e lui ci dice della sequela dei delitti che spiegheranno la successione al vertice della famiglia, l'ultimo dei quali venne perpetrato da lui stesso ed alcuni suoi cugini che portò il nuovo capo della famiglia di Cleveland a New York, Al Polizzi, per perorare la causa degli assassini di fronte a Mangano e ad altra gente. Polizzi spiegò il come e il perché fosse accaduta quella cosa che stando alle regole introdotte non sarebbe dovuta accadere, e fu in quel momento che Mangano emanò una condanna con molti distinguo, che venne revocata in occasione della successiva riunione tenutasi a Miami nella quale erano presenti i boss di New York e di Chicago. Nel 1986 Leonardo Jr. dipinse Mangano come il membro più autorevole di una commissione che sembra ovvio identificare con quella che la tradizione vuole creato da Luciano, ma l'identificazione tanto ovvia non è. Realisticamente il termine commissione può essere attribuito a gruppi che potrebbero anche essere diversi. Chiediamoci se l'autorità di questo istituto fosse di tipo nazionale, chiediamoci anche se fosse assoluta come vorrebbero la tradizione, l'autorità e molti analisti. All'una e all'altra domanda sembrerebbe no perché la ricostruzione di Leonardo e quella anche fatta indipendentemente da Gentile sembrano attribuirle funzioni più che altro mediatrici. Questo perché la mafia si basa su un network gerarchicamente strutturato ma il potere della gerarchia stessa non è quasi mai così totalitario come lo si presenta. 9 – Il lungo armistizio, 1946-1960 Nel corso dell'età repubblicana, diciamo dal 1946 al 1960, il governo nazionale fu ininterrottamente controllato dalla Democrazia Cristiana e la discussione sulla mafia venne inserita nel grande contenzioso della guerra fredda. In molti dicevano sul versante filo-governativo che in Sicilia c'è delinquenza come dappertutto e il resto rappresenta solo una grossolana menzogna; il più autorevole rappresentante di questa posizione era il cardinale di Palermo Ernesto Ruffini ed è in questo nuovo contesto che venne riproposto l'argomento antico della classe dirigente isolana, ovvero la mafia non organizzazione criminale, ma un comportamento, il residuo di un arcaica cultura anti-statalista, che nell'immediato non è contrastabile dall'autorità e sul lungo periodo si dissolverà da se. Alla banda Giuliano si attribuiscono centinaia di omicidi, il delitto più tristemente celebre fu quello del primo maggio del 1947 dove la banda, attestata su un'altra, aprì il fuoco con una mitragliatrice pesante, sul pianoro di Portella della Ginestra assassinando 11 persone e ferendone molte altre; erano socialisti e comunisti provenienti da paesi vicini che con le loro famiglie, donne e bambini, festeggiavano la festa del lavoro. Fu un feroce atto di terrorismo politico che in molti hanno ricondotto alla stessa misteriosa volontà stragista destinata a insanguinare l'Italia degli anni '70, ma dal 1947 al 1969 sono troppi anni di distanza perché si possa ragionevolmente pensare ad un'unica frequenza. Credo sia importante che il dramma di Portella non venga decontestualizzato ed è chiaro che si mantenga ben ancorato ai conflitti politici locali, regionali e nazionali del suo tempo. Per quanto riguarda la politica locale c'era quella di Piana degli Albanesi dove c'era una comunità che per definizione aveva una specifica identità etnica e religiosa, che in quel secondo dopoguerra stava rinverdendo la propria tradizione rossa. Quanto alla tradizione bisogna ricordare anche quella che nel dopoguerra precedente aveva portato i mafiosi di Piana ad assumere direttamente il potere con Ciccio Cuccia, assassinando diversi socialisti. Naturalmente c'era anche la politica locale di Montelepre, paese natale di Giuliano e i compaesani non mancavano di fornirgli un rifugio, che nel frattempo giocava a fare il Robin Hood dimostrandosi generoso con contadini e pastori del luogo. Per quanto riguarda la politica regionale, in vista del referendum del 1946, il movimento per l'indipendenza della Sicilia si divise in due parti, una maggiormente monarchica guidata da Finocchiaro-Aprile e Tasca Bordonaro, mentre l'altra minoritaria, repubblicana, guidata dall'avvocato Antonino Varvaro. Il 2 giugno gli elettori siciliani si pronunciarono a maggioranza per la monarchia e premiando i movimenti di destra oltre che la Democrazia Cristiana, punendo i due partiti di sinistra. Ma sommati, i due gruppi in cui era suddiviso il Mis, non andarono oltre il 10% dei voti; non erano mai stati rappresentativi della volontà popolare come da tre anni pretendevano. Giuliano quindi non mostrò un gran fiuto politico dato che diede indicazioni agli elettori di Montelepre di votare per l'ala perdente del partito perdente ma era intelligente ed energico e al contempo alquanto ignorante. Non poteva aspettarsi grande aiuto intellettuale dai membri della banda tranne da un elemento istruito, suo cognato. Fino ad allora era stato nelle mani dei maggiorenti del Mis, ma ora si sentiva isolato avendo puntato sul cavallo sbagliato. La strage del 1947 ebbe mandanti politici? Sarebbe logico cercarli nell'area della destra, interessata ad una radicalizzazione dello scontro, che giustificasse la creazione di un largo fronte anticomunista, ma Giuliano stesso lasciò intendere ai suoi accoliti che seguiva direttive superiori. Può essere pure che bluffasse perché magari pensava che prima o poi qualcuno gli sarebbe stato riconoscente, promuovendo un amnistia analoga a quella emanata da Togliatti appena l'anno prima. Il cardinale Ruffini, già autorevole rappresentante dell'ala filo-monarchica, scrisse al Papa nel giugno del 1947 riferendosi alla strage dicendo "inevitabile la resistenza e la ribellione di fronte alle prepotenze, alle calunnie, ai sistemi sleali e alle teorie anti italiane e anticristiane dei comunisti". Giuliano moltiplicò gli attacchi alle Camere del lavoro in provincia di Palermo e poi fece circolare messaggi in cui si diceva dispiaciuto di dover colpire i carabinieri mostrandosi determinato a concentrare i suoi attacchi contro gli "agenti di Pubblica Sicurezza", che parte sono partigiani, dato che erano traditori e assassini degli italiani. A lui può essere riconosciuta la qualifica di bandito politico e anche mediatico perché ospitava sulle montagne giornalisti e soprattutto giornaliste straniere; girava con una macchina fotografica con l'idea di rendere pubbliche le immagini delle imprese, indirizzava ai giornali lettere più o meno sgrammaticate per rivendicare le proprie azioni. Ne scrisse una addirittura al presidente Truman, in cui si diceva militante di un partito antibolscevico pronto a tutto pur di non cadere sotto il giogo di Stalin, chiedendo l'annessione agli Stati Uniti. Lasciamo il lato politico per ritornare in quello mafioso perché come abbiamo detto fin dalla sua prima clamorosa impresa si mostrò in buon rapporto con la mafia di Monreale. Tommaso Buscetta e altri pentiti di fine '900 affermarono che era lui stesso un mafioso, un uomo d'onore regolarmente affiliato alla famiglia guidata da Salvatore Celeste. Alla fine della guerra, Giuliano, disponeva di una grande forza militare, di proprie influenti relazioni politiche ed un enorme fascino. Non lo si può immaginare come uno strumento della mafia e neanche come gregario di qualche famiglia, ma si trattava di un grande capobanda, legittimato da una scelta politica e baciato dal successo. Buscetta racconta che l'avrebbe incontrato nel 1947 con Salvatore Greco, egli aveva 19 anni e veniva da una famiglia di artigiani residente nel centro storico, priva di agganci nel mondo dell'onorata società. Mentre Buscetta si sarebbe entusiasmato nel prendere le armi al fianco di Giuliano in difesa della Sicilia oppressa, Salvatore Greco già stava studiando per diventare boss e rifiutò l'offerta pur dimostrando il dovuto rispetto per chi la faceva. Buscetta in questo caso mostrò una considerazione per la politica che non inserirà mai più nelle sue storie, ma in effetti la mafia, che si schierò col e nel Mis, assunse tra guerra e dopoguerra una politicità che non aveva mai avuto e non avrebbe mai avuto più. Il pentito spiega che l'intento di Giuliano era meramente intimidatorio e non voleva di certo ammazzare donne e bambini senza colpa; solo per un errore di puntamento di chi manovrava la mitragliatrice e i colpi caddero sulla folla invece di perdersi per aria. Questo è il motivo per cui l'assunzione dei racconti dei pentiti come fonte storica possa essere fuorviante perché ingigantiscono il rischio di assumere il loro stesso punto di vista e glorificando una qualche mafia buona del passato. A credere a Buscetta mai la mafia fu stile ai comunisti e al movimento Cittadino, ma perché avrebbe dovuto? Noi invece capiamo bene il perché la mafia si ancorò al fronte anticomunista e conservatore, ribadendo a Portella la scelta fatta 3 anni prima a Villalba con l'attentato a Li Causi. Forse i mandanti si compiacquero quando nello stesso maggio del 1947, a Roma De Gasperi pose termini all'esperienza dei governi di unità nazionale rompendo con entrambi i partiti di sinistra. L'anno successivo la Democrazia Cristiana trionfa nell'elezioni politiche facendo vedere che non ha bisogno della destra su scala nazionale, ma si preparò ad egemonizzarla su scala regionale. Paradossalmente in Italia la situazione stava migliorando perché nel 1946 gli omicidi erano stati 1726, l'anno successivo erano calati a 722 e due anni dopo erano stati 498. Si trattava ancora di cifre importanti ma l'Italia stava iniziando ad andare verso la normalizzazione e pensava che fosse venuto il momento di farla finita con Giuliano, scheggia impazzita proveniente dal passato. Le forze messe in campo dalla Repubblica coincidevano con quelle a suo tempo schierate dal regime fascista e fino all'estate del 1949 a coordinarle fu l'Ispettoraro di Pubblica Sicurezza per la Sicilia, dove nel quale erano ancora chiamati a collaborare polizia e carabinieri. Inizialmente questo ispettorato fu affidato ad un poliziotto formatosi nella scuola di Mori, Ettore Messana, che insieme ai suoi successori, ripropose i metodi di Mori e dei suoi predecessori di fine Ottocento post- unitario. Pure nelle sue memorie, il Maresciallo dei Carabinieri Lo Bianco, veterano anche lui dell'ispettorato, definisce quei metodi incompatibili col nuovo clima di democrazia. Ma la strategia di Messana riproponeva addirittura modelli antichi, risalenti addirittura a Malusardi. Negli intrighi che ne seguirono, si palesò incoercibile il dualismo tra polizia e carabinieri, ma nel frattempo Messana trattava con Vincenzo Rimi, capomafia di Alcamo, che però era in buone relazioni con i carabinieri. Il capo dell'ispettorato, quindi, decise di puntare su Salvatore Ferreri detto Frà Diavolo, membro della banda di Giuliano, che seppur fornito di salvacondotto firmato da Messana, fu intercettato dai carabinieri ad Alcamo, catturato dopo un sanguinoso conflitto a fuoco e portato in Teniamo conto che si mantenne anche latitante, come i suoi faranno più avanti, a cominciare da Riina, dato che vissero per lunghissimo tempo in questa condizione. Al 1958 le questioni che interessavano la gang di Liggio non erano relative solo a Corleone in sé, quanto alla sua relazione con Palermo. I liggiani mantenevano fin dall'inizio un presidio nel cuore della vecchia mafia di giardini, in una vecchia borgata palermitana, con una ditta di trasporti affidata allo zio di Toto Riina, che gli stava assumendo un peso sempre maggiore. Assunsero il capoluogo come base della loro attività e divennero una delle fazioni egemoni della mafia palermitana. Infine abbiamo un altro personaggio che non rimase segregato nella natia Corleone ma si trasferì nel 1950 a Palermo, ovvero Vito Ciancimino. Suo figlio Massimo diceva che si trattava di un emigrato tornato a Corleone dagli Stati Uniti, relativamente agiato e che si occupava di import-export. Sempre suo figlio disse che Vito era in ottime relazioni con Provenzano, ma diffidava di Riina che gli avevo promesso di risparmiare la vita ad un suo cugino, uno dei maggiorenti della fazione di Navarra e invece lo fece uccidere; non si ha modo di riscontrare questa parte del racconto ma a Riina spetta nel racconto standard sulla mafia la parte del super-cattivo. Negli anni '50 Palermo era già da un decennio non più soltanto un capoluogo provinciale, ma la capitale dell'ente regione, il luogo dunque di nuovo potere politico, che decideva dell'erogazione di una crescente pesa pubblica. Tale spesa, tra l'altro, si traduceva in espansione e speculazione edilizia. Ci fu dunque una convergenza sulla città di molti affaristi o criminali in cerca di occasioni di profitto e potere; gruppi che erano stati d'altronde sempre connessi al capoluogo da mille fili, che erano abituati a ragione su scala provinciale. Quante ai mafiosi delle borgate palermitane, non ebbero problema di spostarsi perché bastò che la città si spostasse verso i territori da loro controllati tradizionalmente; questo perché con la costruzione di nuovi edifici e quartieri residenziali nell'antica Conca d'Oro, la rendita agricola di cui godevano gli amici-protettori dei mafiosi si valorizzò trasformandosi in rendita urbana. Su quei territori le imprese agricole di trasformarono in imprese edilizie, e i proprietari, costruttori edili, acquirenti, decisori di politiche pubbliche dovettero fare i conti con la capacità della mafia di organizzare grandi network politico- affaristici, di proteggere, indirizzare, dissuadere e intimidire. 10 – La Cosa nostra Negli Stati Uniti la controffensiva del governo federale contro il gangsterismo italo-americano, si dispiegò a partire dal 1957. Qualche anno prima che in Italia si determinasse una prima rottura del lungo armistizio tra stato e mafia. Il nuovo attivismo dell'autorità, sull'una e sull'altra sponda, determinò un'ondata di rivelazioni all'interno, sul presente e anche sul passato della mafia, che restano cruciali per ogni ricostruzione della sua storia. La testimonianza più importante fu resa nel 1963 dal gangster italo-americano Joe valachi, che ricordiamo membro della squadra di killer di Maranzano nel corso della guerra castellammarese di 30 anni prima. Il testimone indicò con il termine Cosa Nostra l'organizzazione che negli Stati Uniti era stata in precedenza chiamata in varie maniere oltre che mafia. Però l'espressione usata da Valachi comparve per la prima volta nel 1973 grazie alla confessione del mafioso palermitano Leonardo Vitale; e solo nel 1984 venne canonizzata da Tommaso Buscetta nella più celebre e importante delle confessioni di un protagonista del sottomondo mafioso. Egli disse che Cosa Nostra era il vero nome, sia in Sicilia che negli States. Inoltre nel 1963, con la costituzione della commissione parlamentare d'inchiesta, comunemente chiamata antimafia, venne introdotto nel linguaggio pubblico italiano un'altra parola nuova. Negli Stati Uniti l'anno cruciale fu il 1957, ma già fin dal 1950-51 le cose si erano messe in moto. Non solo sul fronte esterno, ma anche sul fronte interno con l'assassino di una nostra vecchia conoscenza, il capo della commissione Vincenzo Mangano, che è stato sostituito danno da Bonanno, boss castellammarese ed esponente di una mafia che aveva capisaldi su entrambi i versanti dell'oceano. Il boss fece la sua comparsa all'hotel delle Palme a Palermo, tra il 12 e il 16 ottobre, alla testa di una delegazione composta da Bonventre e Garofalo, da Carmine Galante e da castellammaresi; e incontrò una quantità di personaggi appartenenti all'underworld mafioso. Il summit si concluse il 16 ottobre e nemmeno 30 giorni più tardi ne cominciò un altro oltreoceano in una località montana dello stato di New York, chiamata Apalachin, nel territorio sotto la responsabilità della gang castellammarese di Buffalo, guidata da Stefano Magaddino. Si può dire che ci fu uno straordinario incrocio continentale e una sequenza cronologica astringente. In mezzo, il 25 ottobre, ci fu l'assassinio di Albert Anastasia nel salone del barbiere di un lussuoso albergo newyorkese e il nuovo numero uno della famiglia divenne Carlo Gambino. Il progetto dei castellammaresi di Sicilia e d'America era articolato in due fasi: la prima a Palermo con la riorganizzazione e la collaborazione dei siciliani in flussi di narcotraffico, e la seconda ad Apalachin dove l'elite criminale italo-americana fu posta davanti agli accordi siglati oltreoceano per guadagnare credibilità in una fase caratterizzata da grandi conflitti interni e rivolgimenti di gerarchie. Un incidente impedì la realizzazione della seconda fase perché la polizia fece irruzione nella villa dove stava cominciando il meeting fermando 61 persone anche se altri riuscirono a fuggire. Così i boss della seconda ondata, che erano rimasti per più di 30 anni nella penombra, finirono per la prima volta sotto la luce dei riflettori. Per Bonanno e i suoi colleghi cambiò tutto perché tutto cambiò dall'opinione pubblica, per il governo federale e per l'FBI. La questione della criminalità venne inserita nell'agenda della guerra fredda, dato che il gran capo dell'FBI, Edgar Hoover, definì un disastro nazionale l'eventualità che all'impiego contro il comunismo non corrispondesse quello contro il crimine. Il primo vero colpo portato a termine dell'era post bellica contro boss, fu contro Vito genovese condannato ad una lunga pena detentiva per traffico di stupefacenti. Era il 1959 quando egli si trovò faccia a faccia con Valachi con cui era in pessimi rapporti; Valachi pensò che il boss avesse decretato la sua eliminazione e accadde che ammazzasse con le sue mani un innocente compagno di detenzione credendolo un killer. A quel punto non gli restò altro che collaborare, prima con il Narcotic Bureau e poi con l'FBI. Sostanzialmente l'attivismo delle autorità incrinò la compattezza dell'underworld mafioso perché la testimonianza di Valachi di fronte alla commissione senatoriale portò a compimento la svolta cominciata 6 anni prima con l'irruzione ad Apalachin. Valachi raccontò di una società segreta riservata agli italiani, in cui si entrava per giuramento, formata da famiglie e con una commissione che le dirigeva tutte. L'unica cosa che resta da capire è il perché egli abbia chiamato l'organizzazione non mafia ma "La Cosa Nostra". Probabilmente Cosa Nostra era un nome antico iniziatico della società segreta, rimasto fino ad allora ignoto ai profani. Però non è possibile perché in questo caso sarebbe venuto fuori ben prima del 1963, quando in Sicilia era venuta fuori la parola base del prima e del dopo, sia sull'una che sull'altra sponda: famiglia. Questo termine indica, quanto è più di Cosa Nostra, un valore indiscusso nella società perché ben rappresenta la necessità di un'ampia legittimazione che caratterizza questo tipo di criminalità. Pare indicativo che il termine Cosa Nostra si sia materializzato prima in America e poi in Sicilia, questo è quello che pensa il sociologo Diego Gambetta perché, a suo dire, nel nuovo mondo i mafiosi sentivano nel bisogno di un nome con cui definire se stessi. I pentiti siciliani di oggi adoperano frasi ammiccanti come era cosa mia, o era colpa nostra, o era nelle nostre mani. A Valachi venne richiesto di tradurre in inglese l'espressione Cosa Nostra, ed egli la tradusse in "our thing", ma aggiunse che poteva anche tradursi in "our family". Teniamo anche in conto dell'influenza che avevano i suoi interlocutori dell'FBI su di lui e può darsi che l'abbiano scoraggiato ad utilizzare la vecchia parola mafia, volendo far dimenticare all'opinione pubblica la propria passata sottovalutazione del problema. Sembra abbiano sentito il termine nuovo da fonti confidenziali o in intercettazioni ufficialmente non utilizzabili perché ottenute con metodi illegali. Un confronto con testimonianze di gangster, rese successivamente a quella di Valachi, ma riferite a quel periodo, indica che l'espressione era usata da qualcuno ma non da tutti e non sempre. D'altronde era l'America ufficiale che aveva bisogno di dare un nome ufficiale con cui indicare il nemico, e quest'ultima si adattò. Ci sono state anche delle forzature interpretative a cui fu sottoposta la testimonianza di Valachi. La prima riguarda l'estensione dell'organizzazione sul territorio perché l'FBI attribuì al nemico dimensione nazionale per impressionare l'opinione pubblica ma anche per meglio giustificare il proprio attivismo nei confronti delle polizie locali. Mostrarono alla stampa una mappa raffigurante 24 famiglie secondo un unico modello gerarchico, sparsi in forma simmetrica per l'America e governata da una sola commissione. Il problema è che l'esperienza di Valachi era limitata a New York e a qualche località circostante ma fortunatamente, come testimoniarono alcune indagini successive, queste confermarono la centralità di New York con cinque famiglie forti di ben 2000 affiliati a cui si aggiungeva quella del New Jersey, di Buffalo, di Cleveland, di Boston e di Philadelphia. Chicago rimaneva l'altra capitale gangsterismo. Per Valachi i Siciliani erano quella strana, barbara gente arrivata negli anni venti, che negli anni trenta aveva ancora in uso strani costumi ma che per fortuna si riuscirono a civilizzare perché erano diventati ricchi, avevano imparato tutto negli ultimi 25 anni. Egli racconta che il boss presenta se stesso come uno che non violerebbe mai le regole, che lavora per la pace e l'armonia, che si ispira a criteri di ragionevolezza ed equilibrio e afferma, per esempio, che non farebbe mai pestare qualcuno solo per riavere gli spiccioli dati in prestito; ma chissà se dice sul serio. Questa rappresentazione "ufficiale" non corrispondeva neanche agli elementi empirici ricavabili dall'esperienza del supertestimone ma Valachi si valse della propria condizione di affiliato per scalare diversi gradini sulla scala sociale: prima rapinava le banche, si faceva sparare addosso dai poliziotti e passava lunghi periodi della sua vita in prigione, ma dopo entrò nella gestione del gioco d'azzardo e in quella dei night club, comprò cavalli da corsa e grazie a ottimi rapporti con le forze dell'ordine si mantenne lontano dalla galera, finché a Apalachin cambiarono le regole del gioco. Nel suo racconto insistette sempre di più su un punto: gli affari in cui si impegnava, i capitali che impiegava, gli oggetti che comprava e vendeva, gli avvocati a cui faceva ricorso, erano proprio suoi e non della famiglia. Non descrisse se stesso come la rotella di un compatto ingranaggio bensì come un imprenditore che gestiva per proprio conto e nel proprio Catalano, mafioso originario di Ciminna, che gli portò in regalo una somma di denaro che però rifiutò, preferendo di far ricorso all'aiuto dei corregionali in loco- Si fece una plastica facciale per non essere riconosciuto, nel 1964 dal Messico andò in Canada, per poi passare il confine con destinazione New York ospite, appunto, di Catalano. Stabilito nella Grande Mela avrebbe accettato quella somma donatagli da Gambino per aprire una pizzeria e poi un'altra ancora, in modo da mantenere se stesso e le sue due famiglie. Sostanzialmente Buscetta non ci ha fornito credibili spiegazioni sulle motivazioni dei propri spostamenti Milano-Città del Messico-Toronto-New York nel 1963-64, dei regali ricevuti da Gambino e sui modi in cui quella in quella fase si guadagnava da vivere. Ma ci ha lasciato degli indizi perché ha ammesso di essere arrivato a Città del Messico con una lettera di presentazione firmata dal genero della vecchia nostra conoscenza Nick Gentile. Altri indizi li possiamo trovare dal modo in cui ha raccontato il suo breve soggiorno in Canada, disse di aver il casualmente incontrato alcuni esponenti della famiglia dei Cuntrera-Caruana e che conosceva il capo della famiglia mafiosa di Siculiana, Pasquale Caruana e Leonardo Caruana; inoltre fu coinvolto in un affare di contrabbando di "latte in polvere" dove avrebbe accettato non senza chiedersi come facesse a sopravvivere una famiglia i cui maggiori esponenti erano da tempo fuori zona. La realtà dei fatti è che i Cuntrera-Caruana erano contrabbandieri su scala intercontinentale e non di latte in polvere ma di eroina. Per gestire questi traffici erano sempre in moto tra Canada, Venezuela, Brasile, Svizzera, Inghilterra e Italia centrale. Disponevano di aziende e attività economiche pulite anch'esse collocate un po' dappertutto e finalizzate al riciclaggio di denaro accumulato con la droga, inoltre esse rappresentavano soci collocati in vari paesi e continenti. In conclusione Buscetta commerciava in droga, lo faceva in società Caruana e Catalano, e a questi traffici si dedicava con qualcuno della corte di Carlo Gambino, se non personalmente col boss in barba al decreto emanato dalla commissione newyorkese. Ripartiamo dall'attentato del 30 giugno del 1963, dove morì tra loro il tenente Malausa che abbiamo conosciuto come abile investigatore. Il tuo Rapporto c'entra qualcosa con questa tragica fine? Non conosciamo indagini che abbiano affrontato il tema ma è certo che una cosa del genere non accadeva dall'uccisione di sette carabinieri a Passo di Rigano-Bellolampo del 1949. Allora l'azione fu considerata banditesca ma ora era indubbiamente mafiosa; inoltre sembra che il bersaglio non fossero i militari ma i Greco. L'attentato indicava comunque una nuova pericolosità, ovvero una crescente arroganza. Nel 1965 fu varata una legge, la prima espressamente rivolta per perseguire gli appartenenti ad associazioni mafiose, che ripropose il concetto politico delle misure preventive, insomma il confino di polizia. La polizia si era già attivata e nel 1964-65 era stato messo nel mirino un gran numero di mafiosi delle diverse fazioni e molti di loro si diedero latitanti, mentre aspettarono il giudizio in galera. Per la prima volta la leadership mafiosa di ultima generazione dei Greco e dei Bontate, nonchè i La Barbera, Buscetta e i Leggio, incontrarono per la prima volta un'antagonista che nel corso degli anni '50 si era come eclissato: la repressione statale mossa non da spirito di ordinaria amministrazione ma da a specifica intenzionalità politica. In Italia si attivava la commissione antimafia mentre negli States erano in corso le sedute della commissione McClellan nel corso delle quali Valachi non solo introdusse nella discussione pubblica l'espressione Cosa Nostra, ma si soffermò anche sugli eventi remoti che avevano portato alla nascita l'organizzazione: la guerra castellammarese 1932-33, la vittoria prima e poi la sconfitta di Maranzano, l'avvento di Lcuky Luciano il padre fondatore. Proprio nel suo esilio napoletano, Luciano, decise di parlare di quelle stesse cose non con l'autorità ma con un cineasta, Martin Gosch, in vista di un film da realizzarsi sulla sua vita. Il progetto non venne ben accolto dai vecchi amici newyorkesi e l'ex boss dovete spiegare a Gosch che dovevano ripiegare per un'intervista da inserire in un libro, il quale venne chiamato "L'ultimo testamento di Lucky Luciano" pubblicato 12 anni dopo la sua morte (1962), ovvero nel 1974. Dunque si può dire che Luciano e Valachi, gangster italo-americani non in contatto tra loro, collocati in due diversi continenti, rievocarono in uno stesso momento uno stesso remoto passato. Potenzialmente non l'avrebbero fatto se la situazione non si fosse rimessa in moto nel presente e lo stesso possiamo dire proprio sul versante siciliano quando un quotidiano isolano chiamato "L'Ora", pubblicò nel gennaio del 1962 la confessione del dottor Allegra del 1937. 11 – Punto di snodo. La Repubblica e i suoi nemici A cavallo tra anni '60 e '70, la democrazia italiana molto si è arricchì sul fronte diritti civili e sociali, ma incontrò anche crescenti difficoltà. La Democrazia Cristiana non era più capace di legittimare il proprio monopolio sul potere governativo, il Partito Comunista continuava a essere incapace di proporre un'alternativa ed è chiaro che a cavallo tra anni Settanta e anni Ottanta, i partiti rappresentavano di meno la società. La storia italiana in questo periodo si riduce a violenza, terrorismo, mafia e poteri occulti. Negli anni '60 in Italia gli assassini erano in media 434 l'anno e la prima metà degli anni settanta videro un incremento che poi si trasformò in un boom. Tra il 1975 e il 1993 la media fu di 1434 omicidi l'anno. In quel caso i terrorismi erano due, quello neo-fascista che era molto più feroce di quello stragista facendo i propri esordi nel 1969 a Piazza Fontana, mentre quello dell'estrema sinistra promosse uno stillicidio di intimidazioni, gambizzazioni, assassini di gente indifesa, svuotando l'idea di legalità e strumentalizzando quella di garantismo. I terrorismi, il primo molto più del secondo, diedero il contributo alla prima fase dell'escalation dei delitti di sangue, ma entrambi lo fecero normalmente di meno delle mafie perché nel 1991, anno di picco, si ebbero 700 morti in un solo anno a causa del crimine organizzato. La sequenza cronologica sembra indicare che l'escalation della violenza criminale seguì quella della violenza politica e se ne alimentò. Durante questo periodo entro nell'uso comune il plurale "mafie" per indicare l'insieme delle bande della criminalità organizzata dell'Italia meridionale; anche se più che altro le une vennero indicate pur sempre con il nome antico di camorra, mentre per le altre si impose nel discorso pubblico un termine in passato poco noto ovvero 'ndrangheta. Tra gli anni '70 e gli anni '80 l'infezione mafiosa si aggravò nelle aree della Sicilia occidentale, della Calabria meridionale e nella Campania, inoltre raggiunse delle regioni ex novo come la Puglia. Certe bande allargarono il loro raggio d'azione verso il settentrione italiano o verso l'estero, in Europa o extra Europa; le mafie si inserirono in diversi traffici, leciti e illeciti, inquinando il tessuto sociale, la convivenza civile e la democrazia, inoltre fecero molto più ricorso alla violenza rispetto al passato. Molte vicende, tra gli '70 anni e '80, potrebbero essere citate per dimostrare l'assunto della permeabilità tra l'illegalismo politico e quello mafioso. L'autore del libro vuole evocarne brevemente una, quella di Raffaele Cutolo e della sua Nuova camorra organizzata (Nco). Egli usufruiva di larghi spazi di tolleranza a cominciare da quello che in teoria dovrebbe essere più efficacemente presidiato dallo stato, ovvero il carcere. Fu lì che i suoi adepti combatterono alcune delle più sanguinose battaglie con i loro nemici, senza che le autorità carcerarie facessero un granché per frenarli. C'è anche un aspetto ideologico nella sigla Nco, che richiamava a certe sigle politiche della nuova sinistra come autonomia organizzata, dato che Cutolo diede sin dall'inizio all'organizzazione un carattere di compattezza e centralizzazione, reinventò i rituali di affiliazione, adottò una sorta di ideologia pseudo-meridionalista, propagandandola con interviste ai giornale e addirittura con un libro scritto di suo pugno. L'autore si rende conto che da questa angolazione può risultare deformato il tema del rapporto tra le mafie e l'Italia dei movimenti, che invece in generale è stato di contrapposizione e anche di resistenza, ma sembra giusto introdurre una storia che qualcosa di importante dice su questo secondo aspetto, quella di Giuseppe Impastato detto Peppino. Egli nacque a Cinisi, il padre Luigi era già confinato in periodo fascista e imparentato con mafiosi siciliani e americani, inoltre faceva parte dell'entourage di un boss che come sappiamo non è solo paesano, don Gaetano Badalamenti. Fin da giovane Peppino si orienta verso la sinistra nuova e addirittura estrema, scelta politica dovuta anche e soprattutto al contrasto col padre; ma questa contrapposizione padre-figlio, inizialmente politica, si accentra ben presto sul nodo della mafia, perché Peppino su una radio privata messa su da lui e dai suoi compagni, denuncia le speculazioni di Badalamenti sui terreni intorno all'aeroporto di Punta Raisi. Il padre muore, il che forse gli fa mancare una qualche protezione, e di conseguenza viene ucciso pure lui. Gli assassini fecero esplodere il suo corpo con una carica esplosiva sulla linea ferroviaria in modo che si creda che stesse perpetrando un attentato, e l'autorità trovò facile e/o conveniente crederci. D'altronde era il 9 maggio 1978, giorno del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro e ci vorranno 24 anni perché, nel 2002, un tribunale riconosca Badalamenti il mandante del delitto. La rivolta generazionale del figlio che si schiera contro il padre, la rottura di gerarchie culturali antiche, la spinta emancipatrice e libertaria e questa esperienza di Peppino Impastato esprime nel profondo i caratteri generali e di fondo della svolta culturale dell'Italia post sette-ottocentesca. Il giorno del funerale, quella maggioranza che giudicava Peppino un estremista restò ben chiusa a casa, e furono i compagni palermitani del movimento a scendere in piazza per gridare la propria rabbia; del resto a Palermo formavano essi stessi una piccola minoranza. L'Italia era scossa da corruzione, terrorismo e mafia, disordini di massa in cui alcune forze politiche e parti di istituzioni erano coinvolti attivamente, da cui altre erano paralizzate. La Repubblica era chiamata a trovare in se le forze per riportare l'ordine ma rispettando la costituzione e i diritti fondamentali ma, ovviamente, non era facile. I fatti sono questi: diversi gruppi e militanti si organizzavano in forma più o meno clandestina per compiere una miriade di azioni violente, altri li aiutavano, altri pubblicamente li applaudivano invocando la militarizzazione del movimento. Nell'interpretazione degli inquirenti la rete dell'Autonomia fungeva da coordinamento operativo, oltreché ideologico, per le azioni terroristiche. Nel 1975 erano stati varati diversi provvedimenti, più o meno straordinari, per l'ordine pubblico che aumentavano i poteri della polizia e diminuivano le garanzie a difesa; il reato di associazione sovversiva tornava in auge insieme ai fatti politici cui poteva essere riferito, inoltre venne riutilizzata la fattispecie accusatoria della banda armata. Per fronteggiare le Brigate Rosse, Carlo Alberto Dalla Chiesa, creò nel 1974 il Nucleo speciale antiterrorismo dei Carabinieri. Questo nucleo riuscì a catturare i capi delle Brigate Rosse, uccidere a Milano l'avvocato Ambrosoli. Nel frattempo c'era anche chi minacciava il gran regista del mondo bancario italiano, Enrico Cuccia, spiegandogli che Sindona stesso era da considerarsi un uomo morto se non avesse rispettato i suoi impegni con certi italo-americani. Però se dobbiamo credere alla successiva testimonianza di due pentiti, Stefano Bontate e i suoi amici di Cosa nostra palermitana avevano subito pesanti perdite con la crisi delle banche di Sindona, in cui avevano versato i proventi nel narcotraffico, e pretendevano la restituzione del denaro. Ma, per aggiustare questa cosa, Giovanni Gambino accompagnò nel 1979 Sindona in Sicilia e possiamo immaginarlo d'accordo anche con gli Inzerillo, visto che a Palermo soggiornò in caso Di Maggio. Già da tempo il banchiere attribuiva le proprie disavventure giudiziarie alla persecuzione dei comunisti e cercava in ogni modo di seminare un qualche fasullo comunicato firmato Brigate Rosse che facesse credere a tutti quello che stava subendo. Ma il tentativo di di trovare una qualche indulgenza presso gli americani non ebbe esiti, perché i giudici statunitensi lo condannarono a ben 25 anni di prigionia come bancarottiere e lo estradarono in Italia. A questo punto era pronto a dire qualcosa che si avvicinasse alla verità ma senza rinunciare ai depistaggi, inoltre John Gambino fungeva da messaggero delle famiglie siculo-americane che con lui avevano rapporti negli Stati Uniti. Si rendeva conto che si trattava di narcotrafficanti? Rispose che lo poteva escludere visto l'alone di prestigio di cui erano contornati e citò in particolare gli Spatola, definendoli imprenditori di grande successo e grandi mezzi. Abbiamo ipotizzato che Gaetano Badalamenti sia stato messo alla testa della commissione nel 1973, al momento della sua ricostituzione, per valorizzare la connessione siculo-americana; in quello stesso anno tornò a Palermo dagli Stati Uniti anche Salvatore Inzerillo. Lo zio materno, Rosario, capo della famiglia di Passo di Rigano era anziano, e Inzerillo lo sostituì nel ruolo, ottenendo anche la nomina a membro dell'appena ricostituita commissione. Evidentemente sul versante siciliano non esisteva un corrispondente della regola vigente in America che sanciva la divisione tra le due mafie e prendiamo atto della crescente influenza a Palermo dell'elemento siculo-americano con conseguente rafforzamento del legame con la famiglia Gambino. Visto che Buscetta tace o glissa quando si arriva alle connessioni Sicilia-America faremo ricorso alla testimonianza di Calderone. egli racconta che la gestione Badalamenti si aprì con l'uccisione del camorrista che qualche decennio prima aveva osato schiaffeggiare Lucky Luciano, lavando l'offesa col sangue seppur con ritardo, facendo capire agli americani che per merito suo la provincia di Palermo si era sistemata e che era lui il capo dei capi in grado di risolvere le questioni. Calderone, inoltre, spiega che sulla base di questa relazione privilegiata solo alcuni gruppi si arricchissero con la droga dal momento in cui alcune molte famiglie si trovavano in difficoltà finanziare e molti uomini d'onore erano alla fame. Già conosciamo com'era il meccanismo, ovvero gli investimenti erano individuali e i profitti distribuiti in maniera ineguale. Nel 1977 Badalamenti non solo dovette abbandonare la guida della commissione ma venne addirittura espulso da Cosa Nostra. Lasciò la Sicilia temendo per la propria vita e il nuovo capo divenne Michele Greco. Dopo che i greco di Ciaculli erano scomparsi nelle Americhe in una in una latitanza che non ebbe mai fine, la guida della famiglia di Ciaculli era passata a quelli di Croceverde e Michele Greco ti alleò coi corleonesi garantendo loro credibilità e prestigio nell'ambito tradizionalista di Cosa Nostra. L'alleanza godeva anche della maggioranza della commissione e anche dei servizi della squadra di killer più efficienti, quindi era più forte dell'opposta fazione guidata da Bontate e Inzerillo, anche se: il primo ne garantiva grande radicamento nella classe dirigente siciliana, nonché relazioni politiche e il secondo un ruolo privilegiato nel grande affare dell'eroina, nonché relazioni oltreoceano. Il sangue cominciò a correre in periferia quando nel 1978 i corleonesi decretarono l'assassinio di Giuseppe Di Cristina e consentirono quello di Pippo Calderone da parte del loro alleato catanese catanese Nitto Santapaola. Gli eventi accelerarono della primavera 1979 quando il capo della squadra mobile palermitana Boris Giuliano, che stava operando in stretta collaborazione con la DEA statunitense, scoprì che l'eroina destinata in America veniva non solo commercializzata, ma anche raffinata nel palermitano e nel trapanese, la polizia fece irruzione delle raffinerie. Nel luglio venne assassinato, pagando con la vita la sua efficienza e il suo coraggio. Siamo ad un passaggio cruciale ancora più brusco di quelli avvenuti prima all'Hotel delle Palme e ad Apalachin, perché in quello stesso luglio del 1979 vennero assassinati a New York Carmine Galante e a Milano l'avvocato Ambrosoli. Gli interessi in gioco erano enormi e i profitti annui del traffico di eroina in quella fase era di parecchie centinaia di milioni di dollari e si inoltrò, in quel gigantesco intrigo, l'inchiesta condotta a partire dal maggio del 1980 dal giovane e brillante magistrato palermitano Giovanni Falcone. Egli capì che non poteva non collaborare con i colleghi statunitensi e si recò a New York dove apprese qualcosa delle gesta degli zips. Seguì i movimenti della merce e a partire delle scoperti di raffinerie di eroina nel palermitano e nel trapanese, dagli arresti di chimici marsigliesi e di mercanti come Gerlando Alberti, dei seguenti e dai sequestri di grandi quantità di droga in transito in Sicilia, Milano e New York. Subito mostrò grande capacità di indagare gli aspetti finanziari perché trovò anche le tracce del denaro che si muoveva in direzione opposta, individuando i suoi movimenti tortuosi e vanificando gli espedienti intesi a depistare gli investigatori. Capì il ruolo svolto dagli Inzerillo nella fase A del circuito e quello degli Spatola nella fate B, completo l'indagine nel gennaio del 1982 quando il quadro era radicalmente mutato. Finalmente Buscetta iniziò ad ammettere che per gli anni '80 i mafiosi erano dentro il narcotraffico, dopo averle negate per gli anni Settanta. Gli inquirenti del maxiprocesso si fecero l'idea di una gestione unitaria del traffico di stupefacenti da parte di Cosa Nostra siciliana, ma nella fattispecie gestione unitaria non vuol dire proprietà collettiva né tantomeno distribuzione egualitaria delle opportunità e dei redditi, questo Buscetta lo chiarì benissimo. Seguendo il suo racconto l'approvvigionamento della materia prima partiva dall'Estremo e Medio Oriente, curato da elementi già attivi nel contrabbando di sigarette i quali lavoravano ognuno per conto suo e mantenendo gelosamente segreti i propri canali. Le famiglie si limitavano a fornire ai loro aderenti il permesso di darsi da fare, garantendo ad ogni affiliato il diritto di vedersi inserito negli affari dei confratelli anche se poi questa opzione privilegiata, poteva essere fatta valere solo in presenza di capacità finanziarie adeguate. Chi aveva più possibilità economiche lavorava di più, chi era più vicino al boss veniva coinvolto nei migliori affari. Quindi il circuito non era per nulla lineare dato che c'era chi vendeva la materia prima alle raffinerie e chi la ricomprava dopo la trasformazione lasciando ai trasformatori i rischi e i guadagni relativi nella fase intermedia. Alla fine di questa fase, gli esportatori si trovavano in mano partite di merce la cui metà era attribuibile in diverse quote a diversi soggetti, la spedivano, aspettavano che i confratelli in America la vendessero all'ingrosso e poi, quando il flusso tornava indietro in forma di denaro, provvedevano alla redistribuzione. Buscetta volle dire apertamente che tutto questo l'avrebbe saputo da Bontate nel 1980 il quale l'aveva ospitato a Palermo dopo la sua scarcerazione ma non ha spiegato quale contributo don Stefano si aspettate da lui visto che non disponeva di alcune forza in quella Palermo dove mancava da molto tempo. Egli si vantò solo di possedere quella cosa in più, il carisma, fornito a lui personalmente da madre natura. L'autore del libro di avere un'altra ipotesi: Bontate lo chiamava in causa in forza dei suoi legami con gli amici d'oltreoceano, nella speranza che costoro potessero introdurre i corleonesi nella moderazione al fine di garantire la continuità del grande affare del narcotraffico. Buscetta dice di aver rifiutato l'invito e consigliando al suo ospite e ai suoi amici di stare tranquilli; nel 1981 ripartì per il Brasile. Sta di fatto che mentre era in quel lontano paese, parlò al telefono come degli imprenditori del giro dei Salvo dal quale ricevette una nuova invocazione di aiuto ma a quel punto l'atteso showdown era appena cominciato. Bontate era stato ucciso il 23 aprile, Salvatore Inzerillo pensava di essere al sicuro almeno finché Riina non avesse incassato quanto dovuto per la vendita della sua partita di droga, ma l'11 maggio venne ucciso anche lui mentre usciva dalla casa dell'amante e neanche l'auto blindata, di cui era dotato, servì a molto. Cominciò così un massacro senza precedenti e la statistica ufficiale ne indica le dimensioni solo il pRTE perché non hanno potuto registrare l'enorme numero di cadaveri sciolti nell'acido o fatti sparire per sempre. Stando all'opinione degli inquirenti ci sarebbero stati, sono nel palermitano, tra i 500 e i 1000 morti ma, ancora una volta, Buscetta negò che la strage derivava dalla questione della droga e che tutto derivasse dalle mire egemoniche dei corleonesi. Di certo questo massacro non andrebbe descritto come una seconda guerra di mafia, perché le differenze con la prima sono troppo grandi. Innanzitutto per la mancanza del tipico meccanismo delle reciproche rappresaglie ma si può parlare di una sorta di stretta totalitaria intesa a rafforzare col terrore le gerarchie e altre sradicare il dissenso. La testimonianza dell'ex boss di Caccamo Antonino Giuffrè, indica le due fasi: nella prima i corleonesi si impegnarono in una guerra lampo per eliminare il gruppo avverso che teneva nelle mani il narcotraffico, la seconda vide una svolta terroristica intesa a garantire, in senso più generale, il controllo del gruppo ristretto di Salvatore Riina su tutti gli altri. Bussetta non fu l'unico espatriato in America ad essere coinvolto, perché provò una mediazione anche di Nicola Greco, cugino dell'antico boss Salvatore Greco; l'informazione fu direttamente confermata da Riina in una delle conversazioni avute con un compagno di cella. Quanto a Salvatore Inzerillo, si ricordavano a vicenda come ancora dopo la morte di Bontate gli fosse stata data una possibilità di accordarsi ma non la colse e fu peggio per lui. Noi sappiamo che le cose andarono molto male anche a suo fratello Santo e ad un suo figlio adolescente Giuseppe, assassinati a Palermo, nonché ad un suo zio (Antonio) e ad un altro suo fratello (Pietro). Il cadavere di Pietro in particolare aveva un biglietto da 5 Dollari nella bocca e altri due sui testicoli, che in simbologia mafiosa indicava che aveva parlato troppo e che era stato troppo avido. Gli americani intanto avevano tentato una mossa, almeno stando alla collaborazione di Gaspare Mutolo, che racconta di aver partecipato a Palermo, all'indomani dell'assassinio Inzerillo, ad un incontro tra John Gambino, Rosario Naimo e Rosario Riccobono. Gambino si sarebbe reso latore di una richiesta di indulgenza per gli scappati oltreoceano e particolarmente per gli Inzerillo. A quel punto Riccobono telefonò in America a uno dei condannati proponendogli di dimostrare la propria buona volontà, ovvero di fornire agli amici palermitani notizie utili a beccare Buscetta, ma ne ebbe una risposta evasiva. La famiglia Gambino, allora, lasciò che la mannaia corleonese cadesse sugli Inzerillo scappati e Mutolo ne dedusse che Cosa Nostra americana, chiedendo a Cosa Nostra palermitana direttive a cui attenersi, ne Nostra per acquisire il controllo della Dc. A quel punto la figura era troppo ingombrante Lima lo scaricò. In tutto questo Andreotti si mantenne sempre sulla negativa e in un'intervista rilasciata nel 1993 ci fornì un abbozzo di interpretazione. Secondo il diario di Dalla Chiesa, con annotazioni fatte durante un colloquio che ebbe con Andreotti nell'aprile 1982 - prima di assumere quella carica di prefetto palermitano per gli sarebbe stata fatale, spiegò ad Andreotti cosa intendeva fare. Sostanzialmente Dalla Chiesa lo invitò a prendere le distanze, proponendo in estrema sintesi una sua interpretazione dell'intera questione. Distinse tre livelli: il primo dove Andreotti stesso, che a suo parere ha con la mafia una relazione molto immediata, ovvero strumentale, ridotta a problema elettorale; il secondo dove i suoi grandi elettori, Lima, D'Acquisto, Martellucci, i membri di quella che in altro luogo ha definito "la famiglia più inquinata dell'isola"; il terzo dove l'elettorato dei suoi grandi elettori, le famiglie di mafia distinte appunto da quelle politiche. Andreotti rispose a tono in maniera tutt'altro che folkloristica dicendo che era abbastanza disinformato. Egli dimostrò una straordinaria conoscenza delle dinamiche che abbiamo analizzato, perché evocò personaggi come Sindona, Pietro Inzerillo, col particolare dei dollari messigli in bocca dai suoi assassini. Volle suggerire una pista all'investigatore che non capi o forse non era informato quanto lui. Gli spiegò che il pericolo vero veniva dalle fazioni mafiose in conflitto intorno al nodo del narcotraffico siculo-americano, non da Lima e dai politici più o meno collusi. 13 – Sfida e risposta Potremmo distinguere nei delitti eccellenti due diverse tipologie. La prima dove la mafia uccide persone da cui si sente minacciata sul piano politico-generale, mentre la seconda uccide persone che minacciano nell'immediato le sue attività. Si vede in entrambe la specifica politicità di Cosa Nostra rispetto ad altre forme di criminalità organizzata. Sono di tipo politico-generale le ragioni che inducono la mafia ad uccidere Pio La Torre. Fece parte della commissione antimafia e nel 1975 ne ha fermato una relazione finale di grande rilievo. Si è a lungo impegnato, in Parlamento, nell'elaborazione di una legge contro l'associazione a delinquere privilegiando la tematica del sequestro dei beni dei boss. Nelle drammatiche circostanze del 1981 venne richiamato a Roma e posto alla guida della federazione regionale del partito, ma finì assassinato insieme al compagno che gli faceva da autista, il 30 aprile del 1982. Il giorno dopo, il primo maggio, Dalla Chiesa viene nominato prefetto di Palermo, e il peso dei suoi poteri reali non è proporzionale a quello nominale dei titoli. A quel punto rilascia un'intervista a Giorgio Bocca, ricordando il precedente prefetto Mori, lasciando intendere che anche a lui andrebbe attribuito un qualche ruolo di coordinamento provinciale e inter-forze. Spiega di aver riflettuto sulle condizioni che conducono che inducono la mafia a decretare la morte dei potenti e di aver capito che la pena di morte viene decretata contro chi si trova isolato. Bocca annota che Dalla Chiesa dà proprio quell'impressione. Si trova contro tutto lo Stato Maggiore della corrente andreottiana siciliana, della famiglia politica più inquinata dell'isola. Adesso colpire un bersaglio così ben evidenziato diventa facile, prima non lo era, dato che nessun mafioso avrebbe mai pensato di sparare a Palermo ad un prefetto che era anche un generale dei carabinieri. Dalla Chiesa, uomo di prestigio, di grande e conosciuta esperienza sul campo, viene spedito a Palermo più che altro per fare da simbolo e subito viene simbolicamente eliminato. Cadde in un agguato insieme alla moglie e ad un agente di scorta il 3 settembre 1982; l'opinione pubblica si convince che sia stato volutamente sacrificato da uno Stato incapace e/o complice. Quando il terrorismo mafioso sembra invincibile, qualcosa di importante si inizia a muovere sul fronte opposto perché si comincia a intravedere in atto il meccanismo sfida-risposta che tanti protagonisti di quel tempo non possono vedere. L'assassino di Pio La Torre non blocca l'iter della legge sulle associazioni mafiose, anzi la sblocca e due mesi prima dell'assassinio di Dalla Chiesa, il 13 luglio, la squadra mobile della polizia e il nucleo investigativo dei carabinieri presentarono alla magistratura il rapporto "Greco-Michele + 160" che ricostruisce con dovizia di particolari, gli organigrammi dei vincenti delle guerra di mafia in corso. Fornisce un grande contributo di capacità investigativa il vice questore Antonino Cassarà detto Ninni, forte anche delle informazioni fornite da Salvatore Contorno, uomo d'azione già legato Bontate, sfuggito agli agguati dei corleonesi. Sul versante giudiziario abbiamo un rapporto di Rocco Chinnici che fa un bel passo avanti quando decise di valorizzare le competenze di indagini in finanziere di Falcone affidandogli, nel maggio del 1980, l'inchiesta a noi nota sul narcotraffico siculo-americano. Egli pone le basi di un pool specializzato di inquirenti nel quale siano applicate le metodologie che furono importanti nella lotta del terrorismo. Contrariamente ai precedenti caduti, è ben protetto da una scorta e da un auto blindata, ci vuole una potentissima autobomba per uccidere lui, due uomini di scorta e il portiere di uno stabile il 29 luglio 1983. Il Consiglio Superiore della Magistratura mandò a Palermo, per sostituire il magistrato assassinato, il fiorentino Antonino Caponnetto che sembra un magistrato d'altri tempi ma per fortuna di tutti non lo è, e conferma la scelta per un pool antimafia cui chiama a partecipare quattro magistrati: Falcone che è il leader del gruppo, Paolo Borsellino, Di Lello e Leonardo Guarnotta. Quindi anche l'assassinio di Chinnici non blocca il nuovo corso anzi lo conferma e lo rafforza. Torniamo un attimo nello scenario del narcotraffico quando nel 1984, Gaetano Badalamenti vieni intercettato dall'FBI quando cercava di risolvere telefonicamente, con suo nipote di Detroit, i problemi dei finanziamenti di certe parti di droga. Le due parti programmarono un incontro diretto, ma non in Brasile come si aspettavano, ma a Madrid. Fortunatamente intervenne la polizia spagnola, messa allerta dagli americani, e mentre Badalamenti veniva estradato negli Stati Uniti, Buscetta era già da qualche mese ospite nelle prigioni brasiliane, dove ne uscì a luglio per essere rispedito in Italia. Badalamenti sarebbe stato il principale imputato nel processo detto Pizza Connection che era cominciato a New York nell'ottobre del 1985. Nella notte del 29 settembre 1984 parte il primo grande blitz di polizia con gli arresti di centinaia di mafiosi, toccò anche a Ciancimino, che al termine di un breve periodo di carcere finì al soggiorno obbligato. I boss corleonesi rimasero latitanti ma nel complesso una grande caccia all'uomo mostrò la nuova efficiente determinazione delle forze di polizia. I boss non volevano ammettere che i poliziotti facevano sul serio ma vedevano nei loro particolari impegni un segno di personale inimicizia, da punire come usavano fare con i loro nemici personali. Il commissario della squadra catturandi Giuseppe Montana, detto Beppe, utilizzava anche le sue vacanze per spiare le lussuose ville della costa dove pensava potessero nascondersi i latitanti. Non sbagliava perché i sicari lo raggiunsero in pantaloncini e zoccoli e 28 luglio 1985 tutta la squadra mobile si buttò alla loro ricerca e arrestò un certo Salvatore Marino, che morì durante un pestaggio in questura. Di certo non è lecito ammazzare di botte il sospettato ma fa comunque un certo effetto vedere il leader radicale Marco Pannella partecipare al funerale di Marino, invocando i principi di legalità fianco a fianco con mafiosi che magari avevano appena sciolta nell'acido il cadavere di qualche loro nemico o progettato l'assassino di qualche uomo delle istituzioni. Il Ministro degli interni Oscar Luigi Scalfaro si precipitò a Palermo trasferendo ai quattro angoli della della penisola i funzionari di polizia coinvolti. Fa impressione la radicalità e la tempestività della risposta mai vista in altri simili casi ed è soprattutto agli antipodi rispetto alle incertezze con cui la Repubblica rispondeva a ogni passaggio della sanguinaria escalation mafiosa. Il passaggio successivo fu un dramma perché Cassarà rientrava a casa con scadenze imprevedibili, giravo in auto blindate e scordato da due tra cui Roberto Antiochia che era tornato dalle vacanze prima sapendo che c'era carenza di personale e non voleva lasciare le spalle del suo capo scoperte. Non si saprà mai come un esercito composto da 15 persone armate fino ai denti intercettò il convoglio proprio sotto casa sua e la moglie affacciata al balcone corse subito in strada per raccogliere il suo ultimo respiro. Un altro funzionario della squadra mobile, Francesco Accordino, raccontò di recente quella storia con parole piuttosto forti, dicendo che: anche Cassarà aveva paura, anche Cassarà diceva che erano uomini morti che camminavano, ma avevano una grandissima volontà di andare avanti e non farsi intimidire, ne fermare da questi delinquenti. Avevano una grandissima motivazione perché credevano veramente di portare avanti la legge, lo Stato, la legalità; ma soprattutto erano i migliori segugi affermati in Italia ed erano apprezzati dalla polizia di mezzo mondo. Abbiamo gente che lavora nelle vacanze, che rischia la pelle per difendere gli amici, polemizza con i colleghi, incontra il tradimento ma continua sulla propria strada pur prevedendo come andrà a finire, ovvero male. In quel momento gli uomini della squadra mobile sono soli, come se fossero loro i devianti sovversivi su cui si abbatte l'enorme potenza di uno Stato moderno. Il terrorismo mafioso rispose con ferocia al riarmo delle istituzioni ma per certi aspetti anche lo agevolò perché mise sotto scacco la politica ma anche determinò crescenti opposizioni. All'assassinio di Piersanti Mattarella seguirono, all'intero della Democrazia Cristiana, altri timidi tentativi di correzioni di rotta. Sulla linea politica tracciata da lui si collocò suo fratello, Sergio Mattarella che anche lui giurista che venne eletto per la prima volta in Parlamento nel 1980 destinato a giocare ruoli politici molto importante anche su scala nazionale. Il 1983 fu anche l'anno in cui la pediatra Elda Pucci divenne sindaca di Palermo in un momento di reciproca paralisi delle correnti del partito di maggioranza. Dal maggio 1985 molto più si spese nel ruolo di sindaco antimafia Leoluca Orlando. Nacque nel 1947, professore universitario di diritto, è stato vicino a Piersanti Mattarella come suo padre ed era vicino anche al loro padre. Il riposizionamento della generazione dei figli rispetto alla generazione dei padri sembra molto significativo di un evoluzione storica. Caratterizzava una parte della generazione più giovane della classe dirigente palermitana, la quale viveva come una barbara regressione la conquista mafiosa della città. L'esperimento politico di Orlando godette dell'avallo del segretario nazionale democratico De Mita disponibile a una qualche apertura al PCI per controbilanciare il suo scomodo alleato, il PSI di Craxi. Ben presto però ruppe con i socialisti appoggiando una una maggioranza anomala comprendente del PCI. Pensavo, come molti altri, che la contrapposizione tra i due maggiori partiti avesse immobilizzato un paese che aveva bisogno di cambiare e credeva che la politica avesse bisogno di forze nuove, di un bagno vivificatore della società civile. Era un'idea che si faceva spazio e avrebbe giocato un ruolo ben maggiore nella fase successiva del passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. Orlando ne sarebbe stato uno dei protagonisti su scala nazionale, formulando uno dei più appassionanti appelli per il primato della società civile e contro i residui della vecchia forma partito. Fece questo intervento nel 1971 ad appena 24 anni, in cui collegava il problema della appellano al mito della tradizione antica da contrapporre alla degenerazione del tempo presente e alla pochezza morale degli epigoni, entrambi respingono con indignazione l'accusa di aver commerciato in droga. L'avvocato difensore di Badalamenti, Michael Kennedy, mise le favole raccontate dal suo assistito sullo stesso piano dei recentissimi contributi di conoscenza e mistificazione insieme, il libro di Bonanno e la confessione di Buscetta. Spiegò che la droga non poteva entrarci nulla con la Badalamenti's Tradiction, la tradizione antica dei Beati Paoli, quella incentrata sulla difesa della famiglia e contemporaneamente del popolo siciliano oppresso. Ma le intercettazioni telefoniche, e le parole pronunciate da Badalamenti che palesemente lo mostravano impegnato a vendere una sostanza proibita? Le parole hanno più di un significato per i siciliani, dato che usavano certe parole per evitare di essere compresi. Forse lui non sapeva, ma era l'ultimo di una lunghissima serie di avvocati di mafia impegnati in difese ideologiche analoghe alle sue. 14 – Epilogo La storia dell'incontro tra Stefano Bontate e Giulio Andreotti nel 1980 può essere vera o no, ma in ogni caso non è possibile che il boss abbia detto davvero al senatore "non ci date fastidio perché sennò leveremo alla Dc i voti della Sicilia e di tutto il Mezzogiorno". Magari avrà pronunciato quella frase all'uscita per vantarsi con i propri gregari rimasti fuori dalla stanza. Sembra che 7 anni dopo il Riina abbia provato a mettere in atto una minaccia di quel genere perchè era il 1987 e non aveva come rispondere all'inesorabile incidere dell'udienza del maxiprocesso, ed erano in vista le elezioni nazionali. Avrebbe così ordinato che i voti controllati dall'organizzazione si spostassero verso il garantismo di socialisti e radicali, in particolare favorendo il numero due di Craxi, Claudio Martelli. Stavolta gli spostamenti ci furono, ma non nell'ordine delle centinaia di migliaia di voti che si diceva fossero sotto il controllo mafioso; quindi si confermo il concetto che la mafia non sa utilizzare la leva elettorale per spostare macigni politici, nemmeno nella sua roccaforte palermitana. Così, nel 1988, fece ancora ricorso al terrore nel tentativo di condizionare la politica, con l'assassinio di un democristiano, l'ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco. Seguendo le stesse logiche si mosse sul fronte giudiziario perché, viste le condanne inflitte al maxiprocesso e dei giudizi di appello e della Cassazione, non trovò di meglio che assassinare due magistrati, Antonino Saetta e Antonino Scopelliti. Nel frattempo, almeno stando ai pentiti, assicurava i boss della Cassazione avrebbero annullato la sentenza, che le cose sarebbero state aggiustate dallo zio Giulio. Invece Andreotti, nel 1989 per l'ennesima volta la guida del governo, non mosse un dito e lasciò che Martelli chiamò a Roma Falcone, assegnandogli la carica di direttore dell'ufficio affari penali presso il Ministero di Grazia e Giustizia nel marzo del 1991. Falcone aveva deciso che non voleva essere un profeta disarmato e scelse un alleato potente come Martelli sapendo che era interessato a qualificarsi davanti all'opinione pubblica come avversario della mafia; inoltre non aveva remore a puntare su Roma, tirandosi fuori dagli incancreniti conflitti del palazzo dei veleni palermitano, per ottenere risultati generali di politica giudiziaria che considerava ineludibili. Insediatosi in quella posizione centrale, cominciò a pensare ad una modifica del sistema carcerario tale da interrompere la comunicazione tra boss detenuti e le loro truppe sul territorio, avviando un cosiddetto monitoraggio della divisione del lavoro tra le sezioni della Corte di Cassazione. L'operazione era urgente perché era in vista il vaglio di quella del maxiprocesso. Falcone mise nel conto la possibilità di un contrasto con molti dei suoi tradizionali amici e sostenitori perché ora andando a collaborare col Governo, rischiava la collisione con chi temeva che il controllo dell'esecutivo sulla magistratura si risolvesse in bavaglio alla giustizia. Nel frattempo la Cassazione nel gennaio del 1992 confermò definitivamente la sentenza del maxiprocesso sancendo un risultato di portata storica. La leadership corleonese decise di reagire con i metodi che meglio conosceva, ovvero annientando il nemico. Il 23 maggio del 1992, sull'autostrada per l'aeroporto di Punta Raisi a Palermo, in prossimità dello svincolo di Capaci, un'apocalittica esplosione pose fine alla vita di Falcone, della moglie Alessandra Morvillo e di tre poliziotti di scorta. In quel tragico momento la storia della mafia andò a intrecciarsi con la storia dell'Italia in maniera districabile, come mai era successo. La Repubblica si trovava in una situazione di crisi politica e morale senza precedenti perché, qualche mese prima a Milano, Mario Chiesa, elemento di di medio livello della macchina politica socialista, era stato beccato con le mani nel sacco mentre intascava una tangente. Da quell'episodio minore, ma sintomatico del sistema di corruzione, derivò il grande scandalo di Tangentopoli che unendosi a quello di Mafiopoli, ingigantì il bisogno di riscatto, la domanda di una nuova e migliore politica. Andreotti aveva appena lasciato la guida del governo e Francesco Cossiga la presidenza della Repubblica. A soli due giorni dalla strage di Capaci fu eletto alla carica dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, tutt'altro che un uomo nuovo ma che nuovo apparve perché estraneo al giro cosiddetto CAF (Craxi-Andreotti-Forlani). Scalfaro impose a Craxi di dare via libera per la guida del governo a Giuliano Amato, socialista sì, ma non coinvolto nelle inchieste. Nel dicembre, inoltre, Craxi avrebbe ricevuto dagli inquirenti milanesi un avviso di garanzia dove nel febbraio dell'anno seguente, egli avrebbe abbandonato la direzione del PSI. Nel frattempo a Palermo Cosa Nostra aveva sferrato il secondo colpo, il 19 luglio 1992, un altro attentato dinamitardo uccise sotto casa della madre in via D'Amelio, Borsellino, e con lui caddero ancora i poliziotti della scorta. Perché tutto fosse chiaro Riina e Co. uccisero oltre i suoi nemici che si erano rivelati troppo capaci, anche due amici rivelatisi troppo incapaci: Lima il 12 marzo e Ignazio Salvo il 17 settembre. Lo stesso Antonio Caponnetto, al funerale di Borsellino, si lascio sfuggire uno scandaloso "è tutto finito" perché le modalità degli attentati di Capaci e via D'Amelio erano studiate appositamente dalla leadership di Cosa Nostra per celebrare la propria potenza di fronte al mondo, tirare su il morale delle truppe, atterrare e/o scoraggiare i nemici. In carcere i mafiosi festeggiavano il 2-0 rifilato allo Stato ma toccò proprio a loro fronteggiare la risposta in una sequenza azione-reazione che stavolta fu serratissima. Il Parlamento varò i provvedimenti lungamente richiesti dal Falcone, un regime carcerario speciale per i detenuti di mafia. Il giorno stesso della morte di Borsellino, Martelli decretò il trasferimento di centinaia di mafiosi presse le isolette di Pianosa e dell'Asinara, carceri speciali che erano state usate per rinchiudere i brigatisti. Il blitz fu realizzato alle 3 di mattina del 20 luglio, con uno spettacolare spiegamento di forze e un paio di giorni dopo, Amato ordinò la cosiddetta "operazione dei Vespri Siciliani", cioè il dispiegamento di reparti dell'esercito nelle strade a difesa di obiettivi sensibili. Ci voleva qualcuno che assumesse il ruolo di procuratore capo, si candidò e fu nominato Giancarlo Caselli. Egli era in buone relazioni con il colonnello Mario Mori, vice comandante dei Ros dei carabinieri, che lo informò della caccia senza quartiere ai grandi boss latitanti. Appena arrivò a Palermo apprese la grande notizia, ovvero il superboss Totò Riina era stato preso dai carabinieri in una via del centro di Palermo il 15 gennaio del 1993. Non per questo finì l'offensiva di Cosa nostra dato che nel 1993 assunse una veste clamorosamente innovativa. Attentati dinamitardi andarono a colpire illustri monumenti del continente a Firenze, a Milano e a Roma, distruggendo vite umane e valori culturali insostituibili. A quel punto l'offensiva si placò, Provenzano rimase latitante e molti altri boss furono arrestati. Si può dire a questo punto che il 15 settembre 1993 finì una fase storica, ma finì nel modo peggiore possibile quando Don Pino Puglisi, parroco del quartiere palermitano di Brancaccio, fu punito con la morte dai boss locali dato che si era schierato contro la mafia. Da allora Cosa Nostra non uccise più a Palermo in base a logiche simboliche, propagandistiche e in senso lato politiche. Aggiungiamo che i mafiosi non si sono più neanche ammazzati tra loro e ci sono stati anni in cui non c'è stato nemmeno un omicidio per cause di criminalità organizzata. Si consideri anche l'altra parte, il dato proposto dal magistrato Gioacchino Natoli: dal 1993 al 2006 nel solo distretto del palermitano si sono avute oltre 450 condanne all'ergastolo per fatti di mafia contro una decina appena, nei 100 anni antecedenti al maxiprocesso. Riina, arrestato nel 1993, morì in carcere nel 2017, come accade anche a Michele Greco e a diversi altri boss. Un gran numero di mafiosi imprigionati in quella fase si trova ancora dietro le sbarre perché la durezza della repressione è stata senza precedenti. L'aeroporto palermitano di Punta Raisi venne rinominato "Falcone e Borsellino". I turisti che da lì vanno in città attraverso l'autostrada non possono non vedere il grande monumento che si leva sulla curva in cui la strage di Capaci si è consumata. Il governo, la fondazione Falcone, l'associazione Libera organizzano ogni anno il viaggio di migliaia di studenti sulla nave della legalità, da Civitavecchia a Palermo, per l'anniversario del 23 maggio. Questi confluiscono con altri, a Palermo in una manifestazione che comprende una sosta all'aula bunker dell'Ucciardone e una davanti alla casa del magistrato assassinato, dove è stato piantato un albero detto l'albero di Falcone. Il 23 maggio rappresenta un pò il punto culminante di un rituale che si ripropone negli anniversari della morte di Borsellino, Dalla Chiesa e in tanti altri giorni dedicati, in manifestazioni, rievocazioni, commemorazioni, nelle piazze, nelle scuole, nei tribunali e in altre sedi istituzionali, sui giornali e in televisione. Impossibile sapere quanti magistrati, prefetti, sacerdoti, giornalisti, studiosi, professori, membri di associazioni, comuni cittadini siano stati coinvolti. Vengono ricordati i caduti delle istituzioni e anche quelli di un antimafia che poco o niente aveva a che vedere con quella istituzionale. Gente come Pippo Fava o Peppino Impastato, o come Pino Puglisi elevato al grado di santo solo dopo che in passato la Chiesa aveva mantenuto rapporti di tolleranza e buon vicinato con la mafia. Come Libero Grassi, proprietario di un impresa palermitana d'abbigliamento, che si rifiutò di pagare il pizzo e da vero uomo libero, tutto d'un pezzo, aveva anche giustificato la sua scelta di non pagarlo pubblicamente, anche in televisione, prima che pagasse il duro prezzo del sangue il 29 agosto 1991, dopo che era stato trattato come un appestato dalle associazioni imprenditoriali. Dal suo sacrificio è nato un mutamento epocale che ha visto il moltiplicarsi di associazioni antiracket, la Confindustria isolana promosse campagne contro il pizzo, tanti imprenditori si rifiutano/vano di pagare e denunciare gli estortori, come mai era successo nelle zone di più antica in infezione mafiosa.