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Storia di Roma, dalle origini alla tarda antichità riassunto MAZZA, Sintesi del corso di Storia Romana

Riassunto completo del libro per l'esame di storia romana

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 03/11/2019

Vanniii
Vanniii 🇮🇹

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Scarica Storia di Roma, dalle origini alla tarda antichità riassunto MAZZA e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Mazza, “Storia di Roma. Dalle origini alla tarda antichità” – Storia Romana Sezione 1. L’Italia preromana. Roma dalle origini al Decemvirato. Cap. 1 I popoli dell’Italia antica. 1. L’Italia settentrionale Prima dell’unificazione romana, l’Italia risultava abitata da diversi gruppi etnici di lingue, culture, organizzazioni sociali, diverse. L’Italia settentrionale, era occupata dai Liguri, i quali popolavano un’area più vasta dell’odierna Liguria, che si sviluppava dalla colonia greca di Marsiglia a Pisa. Presso le aree corrispondenti all’attuale Piemonte e Lombardia erano gli Orobi, attorno al lago di Como, poi i Leponzi e gli Insubri. La regione delle Alpi conobbe la fioritura di importanti culture nel periodo tra la fine dell’età del Bronzo e la prima età del Ferro, quella dei Reti nelle Alpi centrali, dei Camini, degli Euganei. Tali popoli, originariamente stabiliti nella Pianura Padana, dovettero probabilmente arretrare a causa della penetrazione dei Celti e dei Veneti. I Veneti, secondo la tradizione antica, avrebbero avuto origine orientale. Si trattava di una popolazione indoeuropea, che seppe sviluppare segnatamente la metallurgia e la lavorazione del ferro, praticando altresì l’allevamento di cavalli. Oltre il Mincio si trovavano i Celti. 2. Gli Etruschi L’origine degli Etruschi costituisce una delle problematiche più complesse della storiografia antica e moderna. Sia che la popolazione etrusca si fosse stabilita in Italia a seguito di un processo migratorio sia, al contrario, che fosse autoctona, essa sviluppò una civiltà e una cultura marcate da caratteri propri e originali. Erodoto sostenne la provenienza degli Etruschi dalla Lidia alla guida dell’eroe eponimo Tirreno, successivamente alla guerra di Troia. Dionisio di Alicarnasso asseriva, invece, che essi costituissero una delle popolazioni autoctone dell’Italia. Indizi di una possibile origine egea degli etruschi sono ravvisabili nei raffronti tra la loro lingua e l’epigrafia dell’isola di Lemnos. È tuttavia possibile che essi abbiano tratto le lettere del loro alfabeto dai greci con cui entrarono in contatto nella zona di Cuma e di Napoli. Pallottino pervenne ala conclusione che, in forza del carattere peculiare di questa civiltà, essa doveva essere interpretata come l’esito di un processo di “formazione” verificatosi in Italia dal passaggio dalla civiltà autoctona villanoviana (da Villa Nova nei pressi di Bologna) a quella compiutamente etrusca. Tale fase di formazione fu preceduta da fenomeni di progresso riconoscibili nelle ultime fasi dell’età del Bronzo con il diffondersi della cultura proto-villanoviana e, dal IX sec. a.C., con l’affermarsi della cultura villanoviana, che risulta contraddistinta da ossuari biconici sormontati da ciotole o elmi, dalla decorazione geometrica delle ceramiche, dalla plastica figurata. In questa fase il territorio si aprì a sollecitazioni commerciali e culturali con il Vicino Oriente e con la Grecia. → Tale fase orientalizzante diede avvio a un accentuato sviluppo in senso urbano e monumentale. L’espansione marittima etrusca e la conseguente esportazione di produzioni quali vasi di bucchero o ceramica dipinta, conobbero quindi un notevole impulso. Nell’VIII sec. i villaggi villanoviani furono radicalmente trasformati, assumendo la forma di città. Possono essere ricordate: Caere (Cerveteri), Tarquinia; Chiusi, Perugia, Arezzo, Fiesole e Volterra, all’interno. In Corsica, stabilirono una base presso Aleria, utile per avviare rapporti commerciali con la Liguria e la Francia. L’Etruria si articolava quindi in città-stato connesse tra loro da vincoli religiosi e politico-economici, per quanto nel rispetto delle singole autonomie. Le città etrusche, tra l’VIII e il VI sec., dovevano essere rette da re detti “lucomoni”, portatori di insegne del potere cariche di significato politico, successivamente trasmesse ai Romani, a partire dalla toga di porpora, il trono e lo scettro. L’evidenza archeologica, in particolare le necropoli e gli sfarzosi palazzi “di campagna”, suggerirebbero una società aristocratica, probabilmente a base schiavile. Le dodici città maggiori dell’Etruria si costituirono nella Lega dei Dodici Popoli, il cui centro era il santuario di Voltumna. Ogni anno i lucomoni eleggevano uno zilath o pretore incaricato dell’organizzazione di celebrazioni a carattere prevalentemente religioso. 3. Il Lazio Il Lazio era popolato da genti latine che avevano attraversato un intenso processo di urbanizzazione. Il territorio originario del Latini includeva il tratto della fascia tirrenica a sud-est del Tevere fino a Latium Vetus (Terracina). L’area latina che, come emerge dalle indagini archeologiche, conobbe un elevato numero di abitanti protostorici, subì poi l’immissione di elementi esterni, di origine osco-umbra, sabina, equa, volsca. Tra le città principali possono essere ricordate Satrico, Ardea, Preneste, Gabii e Lavinio. Dallo studio archeologico sembrerebbe evincersi un’assenza di una stratificazione sociale articolata, manifestatasi, invece, a partire dalla metà del secolo (VIII), come traspare dall’indagine presso alcune tombe “principesche”, quali quelle presso Castel di Decima o a Preneste, che presentano difatti corredi sontuosi. La tradizione vuole che il re eponimo del popolo latino fosse Latino, il quale, discendente dai re degli Aborigeni e figlio del dio Fauno, accolse Enea nel suo territorio e gli diede in sposa la figlia Lavinia. Il figlio della coppia, Silvio, fu il capostipite dei re latini che regnarono sul Lazio e Albalonga, collegando così Enea e la fondazione di Roma da parte di Romolo. La scrittura si manifestò con i primi testi in latino. L’influenza etrusca, divenuta dominante nel corso del VI sec., rafforzò e accelerò il processo di urbanizzazione e di monumentalizzazione degli spazi. Parallelamente, anche la civiltà greca esercitò diretta influenza sullo sviluppo della cultura laziale. A seguito della crisi del V sec. s’impose l’egemonia di Roma, per quanto alcuni aspetti della cultura locale continuarono a persistere (per es., le ciste di bronzo a figure incise, la ceramica dipinta falisca). 4. L’Italia centrale Fatta eccezione per gli Etruschi e i Latini, l’area centrale italica era occupata da un fondo etnico a tratti indistinto, su cui si stagliano alcune popolazioni connotate invece da caratteri specifici, a partire dai Sabini o Sabelli stanziati a cavallo dell’Appennino Abruzzese. Sebbene sia improprio parlare di un’unità etnica picena dall’Abruzzo ai confini della Romagna, è riconoscibile una cultura definita, che interessa tale area e dà luogo a manifestazioni originali e omogenee, anche in ambiente funerario, con impiego di tombe a inumazione, talvolta con ricchi corredi militari e ornamentali, connotati dalla presenza di motivi orientalizzanti a partire dal IX sec. I Piceni appaiono concentrati tra la Valle del Tronto fino a quella dell’Esino, i Praetutii nella zona di Teramo, i Vestini nella media e bassa valle dell’Aterno, i Marrucini attorno a Chieti, i Paeligni nei pressi di Corfinium. A seguito degli spostamenti avvenuti in età tardo-arcaica, è possibile identificare gli Equi e i Marsi. Gli Umbri sono stanziati al di là dell’Appennino, fino al litorale adriatico e alla Romagna, fino a Ravenna. 5. L’Italia meridionale e le isole Nel VII e nel VI sec. i patrimoni di alcuni principi laziali risultano essere enormi. A Roma c’era il Foro, il tempio di Vesta e la Regia e si era cessato di seppellire nella valle del Foro. Le regole del patto dei fondatori non prevedevano evidentemente molti correttivi che evitassero lo sfruttamento dei ceti economicamente più deboli e degli schiavi. La società dell’età del bronzo non conosceva grandi divari economici tra le persone, mentre nella cd. fase “orientalizzante”, nel VII e VI sec., le differenze si sono fatte enormi. I ricchi importavano merci greche e orientali e iniziavano produzioni secondo metodi e tecniche importate soprattutto dai Greci. Le produzioni si trasformavano anche in merci, che garantivano ulteriormente l’ascesa economica e sociale dei ricchi. I primi correttivi sembra siano stati introdotti dagli ultimi re di Roma e sembrano essere in linea con analoghe misure adottate nel mondo greco, nelle città latine e dell’Etruria meridionale. Quello che hanno notato gli archeologi è un rapido impoverimento dei corredi e delle architetture funerarie a partire dal VI sec., fino a vedere la scomparsa dei corredi funebri nel V sec., in modo da evitare l’esibizione dello strapotere dei ricchi. La monumentalizzazione di Roma, ha luogo sotto gli ultimi re di Roma, nel VI sec., quando si edifica il Campidoglio, la cloaca massima, si bonifica la valle del Foro. La ricchezza che prima era nelle mani di una oligarchia dominante, ora viene in parte drenata da alcuni re particolarmente potenti. A Roma il processo di urbanizzazione portò alla creazione di una prima Roma sul colle Palatino, di cui conosciamo i resti di alcune capanne e di un muro che, nell’VIII sec., cingeva in basso l’altura, per lo meno lungo la parte attigua al Foro. 3. Romolo e i riti di fondazione La storiografia antica ci presenta un’altra storia, che però va a completare la storia ricostruita dall’archeologia. Prima di tutto la storiografia ci parla di Roma e pochissimo di Etruria e di città latine, e ci riferisce quanto i Romani stessi pensavano delle origini della loro città e delle istituzioni. Un aspetto fondamentale che ci viene messo in evidenza è il patto fra i Romani e i loro dei. I Romani erano convinti che la benedizione divina sarebbe scesa su di loro fin dall’inizio, se avessero rispettato i luoghi sacri e le feste religiose. I Greci si erano inventati una donna chiamata Rome, che aveva dato il nome a Roma, mentre i Romani preferivano un fondatore dal nome simile a quello della città, Romolo, che aveva un fratello, Remo. Romolo è un personaggio fittizio, la cui mitologia deriva in gran parte da quella di Ercole e del re Servio Tullio, che sono più antiche. Tale mitologia fu arricchita di tutti gli elementi narrativi volti a collocare cronologicamente alle origini certe istituzioni fondamentali dei Romani. Romolo, fondatore di Roma, ebbe la benedizione degli dei del cielo quando prese gli auspici guardando quali uccelli gli apparivano, mandati dagli dei. Egli delimitò lo spazio di un asilo. Questo era un recinto sacro, perché imponeva norme diverse dentro e fuori dei suoi limiti. In particolare, i padroni non potevano impossessarsi degli schiavi fuggitivi che vi entravano dentro. Fu così che tutti coloro che vennero al seguito del fondatore, compresi questi ultimi, divennero i primi cittadini romani. F 0E 0 E così sarebbe stato anche in futuro, nell’unica città del mondo antico in cui gli schiavi liberati, detti liberti, ottenevano la cittadinanza. Poi Romolo tracciò il solco del Pomerio, che in modo simile divideva lo spazio urbano da quello esterno, sui quali vigevano norme differenti: all’interno il potere coercitivo (imperium) dei re e, più tardi, dei magistrati era molto mitigato, nessuno poteva andare in giro armato, non si poteva seppellire, non erano ammessi templi di divinità straniere. F 0E 0 Veniva così fondata ritualmente l’urbanitas, consistente in un comportamento non violento. Romolo si propiziò anche gli dei del sottosuolo scavando una fossa sacra e deponendovi un’offerta. Fra i cittadini egli scelse i primi 100 senatori, ai quali si rifacevano gli esponenti dell’aristocrazia romana arcaica, cioè il patriziato. F 0 E 0 F 0 E 0 Questi racconti non sono storia reale, ma sono quello che i Romani pensavano fosse avvenuto. Per sua natura il popolo romano aveva due espressioni, il populus, che poteva riunirsi in assemblea (comitia), e il Senato, un Consiglio di cittadini particolarmente illustri che, in età repubblicana sarà composto, prima di tutto, da ex magistrati (ex consoli in particolare). F 0E 0 I cittadini erano suddivisi in tre tribù, Tizi, Ramni e Luceri, e raggruppati per curie. Da curia viene il termine Quirites, che designava in modo solenne e arcaizzante i cittadini romani. La presenza del fratello Remo serviva per descrivere i tratti primitivi e non urbani di un primordiale abitatore del suolo romano, tratti che il fondatore aveva abolito. Remo era forte ma non civile; disprezzò il limite sacro del Pomerio e lo valicò come avrebbe fatto uno straniero o un nemico, per questo venne ucciso da Romolo. Remo inoltre descriveva un personaggio incapace di ottenere auspici favorevoli dagli dei, prefigurando così l’incapacità dei plebei, di fronte alla pretesa fortuna dei patrizi e del loro primo capo: Romolo. 4. I re di Roma Tito Livio riferisce che dopo la morte di Romolo il Senato riprese nelle sue mani tutti i poteri e istituì il primo interregno, una prassi politica che è, in realtà, tipica soprattutto della repubblica. F 0 E 0 Un gruppo di 10 senatori sceglieva al proprio interno un senatore per convocare i comizi elettorali e scegliere il successore del defunto re. Si tratta dell’idea romana secondo cui chi esercitava il potere lo fa perché scelto dal popolo per eseguire quanto il popolo aveva deciso, ma alla fine doveva rimettere i suoi poteri al popolo e al Senato. Il secondo re di Roma fu Numa Pompilio, cui la tradizione attribuisce l’origine dei più antichi sacerdozi di Roma. Essi furono quelli dei flamines, cui era affidato il culto delle divinità maggiori; delle vergini Vestali, che si curavano del sacro focolare della Regia, la residenza del re, e del fuoco nel tempio di Vesta; dei Pontefici, che avevano la supervisione generale del culto ed erano chiamati ad interpretare il diritto. Numa avrebbe stabilito che pure il tempio di Giano rimanesse aperto in tempo di guerra e chiuso in tempo di pace. Tullo Ostilio fu il terzo re, un re guerriero; a lui è attribuita la conquista di Alba Longa. Anco Marcio fu quarto, e stabilì i compiti dei Feziali, collegio di sacerdoti che celebravano i riti preparatori della guerra, in modo che di fronte agli dèi essa si configurasse come guerra giusta. La tradizione degli ultimi tre re di Roma è storicamente più attendibile, perché alcune cronache greche avevano registrato gli avvenimenti dei Tarquinii, che erano di origine corinzia, ed ebbero rapporti con la città greca di Cuma, in Campania. Gli ultimi re regnarono nel VI sec. e furono Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Sotto di loro Roma si dotò di importanti strutture monumentali. Roma stava subendo un profondo processo di ellenizzazione, ad es., l’adozione della tattica militare oplitica, la produzione di vini di qualità e la celebrazione del simposio, la realizzazione di templi con colonne, di statue di culto antropomorfe, l’introduzione di divinità greche come Ercole o Mercurio. Sotto Tarquinio Prisco fu costruito il Campidoglio, tempio di Giove Ottimo Massimo, Giunone e Minerva, furono organizzati i ludi Romani, cerimonia circense che imitava i concorsi greci di Olimpia o di Delfi. Il Comizio, nel Foro romano, fu pavimentato e vi fu posta un’iscrizione latina che esplicitava alcuni dei compiti del re. Questo era il luogo delle assemblee politiche del popolo romano. Servio Tullio è passato alla storia per aver stabilito a Roma il censo, il quale attribuiva ai cittadini diritti e doveri in base alla ricchezza; creò pure le tribù territoriali, in modo da registrare i cittadini in base ai dati anagrafici. Egli inoltre ampliò il Pomerio e circondò di nuove mura la città, che veniva ora ad essere una delle più estese del Mediterraneo. Il suo regno fu molto più breve di quanto affermi la tradizione, egli fu ucciso da Tarquinio il Superbo (figlio di Tarquinio Prisco). A costui la tradizione attribuisce un comportamento tirannico, ostile sia al Senato che alla plebe. Egli ebbe il potere per via ereditaria, diede licenza ai suoi figli di commettere misfatti, e perciò attirò su di sé l’odio degli dèi e dei cittadini. 5. Le origini della repubblica L’inizio dell’era repubblicana si colloca nel 509: è la prima data approssimativamente sicura della storia romana. L’artefice della nuova costituzione fu Lucio Giunio Bruto che, aiutato da Publio Valerio Publicola, cacciò il tiranno. La leggenda vuole che il figlio del re Lucio Tarquinio, Sesto, avesse violentato la moglie di Collatino, un suo lontano parente povero, e che la donna si fosse suicidata per la vergogna, incitando il padre, il marito, Bruto e Publicola alla vendetta. Essi ordirono una congiura, sollevarono il popolo e chiusero le porte di Roma al tiranno che stava tornando dalla guerra. Il nuovo patto sociale repubblicano fu sancito da un giuramento di libertà, che escludeva la monarchia, che schiavizzava i Romani. Il patto fu sancito fra la società repubblicana e gli dèi, e prevedeva che i Romani fossero guidati da coloro che acquisivano dignitas, e che la dignitas derivasse dalla ricchezza, dal valore militare e dal prestigio familiare. I patrizi aggiunsero che la loro dignitas era un diritto ereditario a ricoprire la somma carica pubblica: il consolato. Il regmun, ereditario e personale, fu sostituito dalla respubblica, cioè la res populi, parola con cui erano designati tutti i fattori pubblici dell’aggregazione sociale: magistrati, sacerdoti, comizi, auspici, templi, gli spazi per l’attività politica (il Foro) e per le esercitazioni militari (il Campo Marzio), l’ager publicus, cioè le terre pubbliche che potevano essere assegnate in usufrutto ai privati. La magistratura romana differiva radicalmente dalla regalità, prima di tutto perché era annuale e collegiale. Fra le magistrature la più importante era il consolato. I consoli esercitavano le funzioni di giudici, comandanti dell’esercito e presidenti delle assemblee. Ciascuno di loro era scortato da 12 littori, che portavano un fascio di verghe e una scure, con cui erano impartite le pene sentenziate dal console stesso. Anticamente essi erano detti praetores, cioè “coloro che marciano alla testa dell’esercito”. Essi comunicavano con gli dèi a nome del popolo attraverso il rito degli auspici, che avveniva necessariamente durante le elezioni e prima di intraprendere iniziative importanti. F 0 E 0 I due consoli potevano mobilitare due legioni, composte di 3000 fanti e 300 cavalieri ciascuna. I soldati erano obbligati a ubbidire loro, prestando il giuramento militare. Due questori coadiuvavano i consoli nell’esercizio della giustizia ed erano incaricati anche di gestire la cassa di denaro pubblico, detta aerarium. Entro il Pomerio il potere dei consoli era limitato dalla possibilità di appellarsi al giudizio dei comizi popolari con un processo di secondo grado; fuori dal Pomerio il potere consolare era di tipo militare e pressoché assoluto. Alla fine del mandato i magistrati potevano essere chiamati a rendere conto davanti al Senato o al popolo. F 0 E 0 F 0 E 0 Sembra che già pochi anni dopo la creazione della repubblica fosse stata concepita una magistratura straordinaria, quella del dittatore, che veniva creato per un periodo massimo di 6 mesi, qualora non fosse possibile eleggere i consoli o ci fosse bisogno di un potere forte in situazioni di emergenza. Era detto anche magister populi, veniva nominato da uno dei due consoli, e aveva sotto di sé un collaboratore, per il comando della cavalleria, detto magister equitium. Il Senato repubblicano era composto da 300 membri, fra i quali si distinguevano i Patres e i Conscripti. Fino alla metà del V sec. furono i consoli a stabilire la composizione del Senato. I consoli avevano automaticamente e per tutta la vita il diritto a far parte dei Patres. Col passare del tempo e con l’aumento del numero delle magistrature, vi ebbero accesso tutti coloro che avevano ricoperto una carica pubblica importante. Nei primi decenni della repubblica venne definendosi nel Senato il gruppo dei consolari, cioè degli ex consoli, i Patres per l’appunto, che erano spesso ricchi e aristocratici, i quali crearono una casta, conferendo ai loro discendenti il titolo di patricii. La pace fu raggiunta nel 493, grazie al console plebeo Spurio Cassio e al foedus Cassianum, il trattato di Cassio. F 0E 0 Romani e Latini crearono così la lega Latina, che poteva radunare eserciti federali e fondare colonie latine. Fra Romani e Latini vigeva lo ius Latinum, che prevedeva il diritto di contrarre matrimoni, commerciare e stabilirsi in una città della lega diversa dalle madrepatria. Nel 486 gli Ernici, si legarono ai Romani con un trattato analogo a quello coi Latini. Questo sistema di alleanze diverrà strategico per fronteggiare le popolazioni sabelliche dei Sabini, Equi e dei Volsci. 10. La questione sociale e i comizi Stando alla cronologia tradizionale, nello spazio di mezza generazione dalla fondazione della repubblica i ricchi acquisirono uno strapotere intollerabile nei confronti dei poveri e un movimento democratico guidò le masse alla prima secessione. Livio dice che nel 495 morì in esilio Tarquinio il Superbo e allora “la plebe cominciò a subire ingiustizie da parte del patriziato”. Evidentemente il divario economico aumentò, e il potere dei ricchi si rafforzò politicamente grazie ai clientes, cioè le persone economicamente deboli oppure gli immigrati che si affidavano al patronato di qualche cittadino ragguardevole. In questa fase si colloca la secessione della plebe sul Monte Sacro e la costituzione della plebe come blocco politico, forte di idee democratiche ispirate all’ideale di uguaglianza. La secessione finì con una riconciliazione, che prevedeva la creazione del tribunato della plebe (493 a.C.). Questa era volta a difendere i diritti politici e civili dei plebei. I cinque tribuni della plebe ebbero il compito e la facoltà di interdire le decisioni dei consoli che si rivelassero ingiuste nei confronti dei plebei e di portare aiuto ai singoli plebei. I loro poteri erano circoscritti all’area del Pomerio. La plebe eleggeva anche gli edili, che controllavano le attività del mercato e sorvegliavano la correttezza dell’uso di suolo pubblico e avevano una supervisione sui templi. Con il ricavato delle multe che infliggevano essi organizzavano i ludi Romani. I tribuni venivano eletti da una nuova assemblea: i comizi tributi, in cui il voto era portato tribù per tribù, e dunque comprendeva tutti i cittadini residenti nel territorio romano ed avevano un carattere democratico. Questi comizi eleggevano anche gli edili e, dal 447, anche i questori. L’assemblea tributa, inoltre, giudicava i processi capitali in appello (quando il condannato ricorreva alla provocatio, chiedendo di essere giudicato dal popolo). Sappiamo che in epoca arcaica a Roma il popolo si riuniva nei comizi curiati e votava curia per curia. Le curie erano probabilmente i gruppi di cittadini che provenivano da una zona del territorio nel quale era nata Roma. Ciascuna curia aveva a disposizione delle terre pubbliche, ma nei primi decenni della repubblica molte persone non avevano parte di queste terre e on facevano parte delle curie. → Questi cittadini senza curia celebravano una festa detta Stultorum Feriae, che faceva parte dei Quirinalia, festa durante la quale il grano veniva tostato curia per curia. Con la fine della prima secessione fu messo in atto un nuovo, particolarissimo, patto sociale, il quale si basava sul giuramento della plebe di proteggere i propri tribuni e garantirne, anche con azioni violente, la libertà di azione. Una tale situazione introdusse valide garanzie per i cittadini economicamente e politicamente deboli, ma determinò una conflittualità di lunga durata. Uno dei motivi di conflitto erano le forme politiche che corrispondevano a due diversi sistemi di utilizzo delle terre, il sistema curiato, cui corrispondevano i comizi curiati, e quello tributo, cui corrispondeva l’assemblea tributa presieduta dal tribuno. F 0 E 0 F 0 E 0 Nel corso del V sec., ad una data imprecisata, probabilmente nella prima metà del sec., furono concepiti i comizi centuriati, che sostituivano quasi totalmente i comizi curiati, comprendendo tutti i cittadini, ma garantendo ai ricchi un ruolo preminente nelle decisioni. I comizi centuriati furono concepiti “perché non prevalesse la maggioranza numerica” (Cicerone). Infatti fu escogitato un sistema perché il voto dei ricchi e degli anziani contasse di più di quello dei poveri e dei giovani. F 0E 0 Ogni centuria non conteneva 100 uomini, ma un numero variabile di coloro che avevano diritto ad esservi inquadrati, e quelle per i ricchi erano numerose, anche se composte da pochi votanti, mentre quelle dei poveri erano meno e molto affollate. Il censo era calcolato in assi, l’unità di conto monetaria. Il popolo era dunque ripartito come se fosse stato un esercito, presieduto da uno dei due consoli nel Campo Marzio, fuori dal Pomerio. Vedi tabella 1 I comizi curiati non furono aboliti. Le decisioni più importanti, e in particolare il conferimento del potere ai neo-eletti consoli, erano infatti convalidate anche da leggi emesse dalle curie. Nel 443 a.C. fu introdotta la censura. I censori, in numero di due, ogni cinque anni facevano il censimento e celebravano il lustrum, cioè la purificazione del popolo, ripartito in 5 classi censita rie. Essi risiedevano nella “villa pubblica”, in Campo Marzio, dove ricevevano, uno alla volta, tutti i Romani, e ne verificavano il diritto di cittadinanza, il censo, la residenza e il rango sociale. F 0 E 0 Essi creavano anche il Senato per il lustro seguente e avevano anche la facoltà di deporre i senatori indegni, attraverso la nota censoria. Le proposte di legge potevano essere avanzate solo dal console che presiedeva i comizi. Nei comizi tributi le proposte erano avanzate dal tribuno della plebe e, se approvate, prendevano il nome di plebiscita. Soltanto i consoli avevano il diritto di convocare i comizi centuriati, e i tribuni o gli edili della plebe quelli tributi, e di parlare al popolo, o alla plebe. I votanti erano incolonnati nella loro unità di voto entro lunghe transenne, dette saepta. I cittadini deponevano in un’urna una tavoletta con scritto V (uti rogas, “come tu proponi”), oppure A (antiquo, “tutto resti invariato”). Le leggi dovevano però ottenere l’approvazione del Senato prima di essere varate. Essa era detta auctoritas Senatus, o aucoritas Patrum, perché era sentita come un completamento da parte di un organo depositario di saggezza e di maggiore capacità di ottenere il favore divino. In epoca antica, i Patres erano propriamente gli ex consoli. Nel corso della prima metà del V sec. i consoli vennero eletti sempre più frequentemente fra i patrizi; conseguentemente il Senato spesso si rifiutò di concedere la sua auctoritas alle deliberazioni della plebe, cioè ai plebiscita. F 0E 0 Il Senato infatti si rivelò l’organo costituzionale cui faceva riferimento l’aristocrazia. 11. Il patriziato La tradizione sostiene che il patriziato fu creato da Romolo e che i primi patrizi furono 100 senatori che costituivano il primissimo Senato, da questi sarebbero discesi i patrizi. In realtà, le funzioni di questa aristocrazia non emergono affatto in epoca regia, mentre si rivelano essere tipiche della repubblica, visto che essa si arrogava il diritto esclusivo a ricoprire il consolato. La natura repubblicana del patriziato è ribadita dalla natura del rito dell’interregno. Quando entrambi i consoli erano morti si doveva trovare qualcuno che avesse il diritto di presiedere le elezioni consolari, che necessitavano di un magistrato che aveva diritto a prendere gli auspici. F 0 E 0 In tal caso eccezionale si individuavano 10 senatori patrizi ex-consoli, fra i quali uno a turno provava a convocare i comizi e a far nominare la nuova coppia di consoli. → Pater in senso stretto era un ex- console patrizio, al quale gli auspici ritornavano, proprio perché era stato console. I Patres erano dunque ex-consoli e pertanto i patricii, discendenti da un Pater erano gli aristocratici di epoca repubblicana. La teoria accettata dagli storici antichi è contraddetta da molti altri fattori. I nomi dei re di Roma sono tipicamente plebei oppure non risultano far parte della nomenclatura patrizia. Inoltre, nel primo trentennio dell’epoca repubblicana si incontrano parecchi nomi di consoli plebei. F 0E 0 L’appartenenza delle loro gentes alla plebe è indicata dall’esistenza di tribuni della plebe omonimi, considerato che nessun patrizio poteva accedere al tribunato della plebe. Dal 485 i nomi plebei diventano molto più rari. Il patriziato si sarebbe definito nel giro di circa mezzo secolo, per poi chiudersi come casta, al fine di monopolizzare la somma magistratura. Gli autori antichi narrano che nel 486 era stato console Spurio Cassio, già autore del foedus Cassianum, il quale avrebbe introdotto una legge agraria in favore dei plebei, che assomiglia in modo evidente e sospetto alle leggi dei Gracchi, varate nel II sec. Spurio Cassio fu condannato e messo a morte. La plebea gens Cassia non ricoprì la somma magistratura fino al II sec. a.C., mentre a Spurio Cassio sono attribuiti ben tre consolati, e pertanto egli dev’essere stato un notevole, anche se controverso personaggio delle prime fasi della repubblica. Queste prime fasi furono contraddistinte da una progressiva definizione del patriziato come oligarchia e della plebe come movimento democratico. 12. La difesa dei confini All’inizio della repubblica fu inaugurato il tempio capitolino. Al primo o al secondo anno della repubblica viene datato il primo trattato fra Roma e Cartagine, potente città marinara africana. Il contenuto dell’accordo è riferito da Polibio: non si trattava solo di garantire e regolare gli scambi commerciali, ma anche di garantire a Roma il controllo della costa laziale a sud del Tevere. Verso la fine del VI sec. Roma cominciava a subire ai confini la pressione di genti sabelliche calate dal centro-Italia verso la costa. Per questo accolse nel proprio corpo civico due importanti gentes sabine come i Claudii e i Valerii. Le coste laziali videro lo stanziamento dei Volsci; contro questi avversari combatté il valorosissimo Marcio Coriolano, strappando loro la città di Corioli. L’eroe venne però a contrasto con i tribuni della plebe e prese la strada dell’esilio. Con i confinanti Equi e Volsci i Romani e i Latini si confrontarono molte volte nel V sec., ma non si arrivò a nessun sostanziale successo da nessuna delle parti contendenti. A nord del Tevere c’erano città etrusche, e in particolare Caere e Veio. Nel 477 un piccolo esercito gentilizio dalla gens Fabia affrontò i Veienti, ma fu massacrato. Il V sec. è scarsamente conosciuto, sia attraverso gli autori antichi che attraverso l’archeologia, e l’impressione generale che si ricava è quella di una Roma in difficoltà, sia al suo interno che nei confronti dei nemici esterni. Sezione II. Dal Decemvirato alla Seconda Guerra Punica Cap. 1. Dal decemvirato legislativo alla censura di Appio Claudio 1. Fons omnis publici privatique iuris L’autentico momento “rivoluzionario” nella lotta socio-politica tra gli ordini durante il V sec. è da più parti individuato nell’azione del decemvirato legislativo, svolta risolutiva a uno stato di tensione tra patriziato e plebe di chi si vorrebbero già individuare motivazioni economiche. La contrazione economica, vistosamente evidenziata dal dato archeologico e successiva alla fine del periodo monarchico, dovette colpire in modo drammatico i piccoli proprietari, gli artigiani, i commercianti, le cui attività in special modo risultavano danneggiate dal declino degli scambi, testimoniato per la metà del V sec. dalla pressoché totale scomparsa di ceramica attica a Roma. Da questo punto di vista, la codificazione delle leggi delle XII Tavole è giustamente ascritta dalla stessa tradizione storiografica alla vicenda della lotta tra patriziato e plebe, che non per nulla si dice iniziata proprio al principio del V sec., con la prima e più famosa tra le cinque secessioni operate dalla plebe tra 494 e 287 a.C. F 0 E 0 F 0 E 0 F 0 E 0 La tradizione confluita in Livio e Dionigi pone a premessa l’iniziativa del tribuno della plebe Gaio Terentilio Arsa, che nel 492 avanzò la proposta della creazione di una commissione di cinque magistrati La lex Icilia de Aventino publicando ricordata dalla fonti per il 456, che stabiliva la vendita di terreni su quel colle, destinati alla costruzione di case per i plebei, sembrerebbe rimandare ad una vittoria della plebe, che reclamava il diritto di fruire di apprezzamenti dell’agro pubblico contro i patrizi allevatori desiderosi di sfruttarlo per il pascolo; proprio queste prime conquiste hanno fatto pensare che alla base delle dinamiche di graduale integrazione della plebità col patriziato che fa individuare le istanze di carattere economico della massa dei diseredati da parte dei plebei economicamente più forti. Si pensi alla fascia più intraprendente della nuova plebe di artigiani, tecnici, mercanti, che la monarchia etrusca aveva introdotto a Roma, e che risultò maggiormente danneggiata dal ripiegamento economico seguito alla cacciata dei Tarquinii, quando la reazione del patriziato tese più che mai alla loro marginalizzazione, per cui essi contrattaccarono con intelligenza, contando in primis sull’aggregazione dei ceti economicamente più deboli e facendo proprie le rivendicazioni di questi. Sotto la specie economica, la contesa tra patrizi e plebei sarebbe simboleggiata dalle differenze nei modi di sfruttamento dell’ager publicus, con i patrizi che avrebbero lottato per l’accaparramento di porzioni sempre più ampie di terra da sfruttare mediante forme di lavoro dipendente, basato sulla manodopera di liberi senza terra, confluiti poi nella clientela del patriziato, e i plebei, che aspiravano alla distribuzione dell’agro pubblico in lotti di proprietà privata. Il dato di fatto è che abbastanza presto le stesse norme per la difesa dei privilegi del patriziato e del suo patrimonio non furono giustificate da una reale supremazia economica nei confronti della plebità. Ma lo scoglio più difficile da superare per i non patrizi risiedeva nei privilegi dell’ordo avversario, che si riconosceva nel possesso dei sacra, nel culto degli antenati e nel possesso degli auspici. Il possesso pieno e formale dell’ager publicus da parte della plebe e il problema dei debiti, molto sentito nel IV sec. a.C., sono senz’altro aspetti importanti del conflitto tra gli ordini. Il 449 è l’anno di svolta durante il quale la costituzione romana sarebbe diventata “patrizio- plebea”. Ristabilite le garanzie costituzionali con la cacciata dei decemviri e il suicidio di Appio Claudio, i consoli di quell’anno, L. Valerio e M. Orazio, promossero tre leggi, note come leges Valeriae Horatiae, con le quali si reintroduceva l’istituto della provocatio, si minacciava la sacertas a chi avesse osato oltraggiare in qualche modo i magistrati plebei, si sanciva la validità per tutto il populus dei plebiscita, che avrebbero così acquisito forza di legge; infine i senatusconsulta dovevano essere depositati, a cura degli edili plebei, in un archivio speciale nel tempio di Cerere. La tradizione liviana risulta oltremodo sospetta per quanto riguarda la provocatio, ratificata in forma definitiva solo nel 300 a.C. con la lex Valeria, così come la sanzione di validità per tutto il populus dei plebiscita, in realtà ultima conquista della plebe con la lex Hortensia del 287. È stato suggerito che con plebiscita andrebbero intese qui le decisioni approvate con voto per tribù, soggetti tuttavia alla ratifica dell’auctoritas patruum. Secondo Mazzarino un’ulteriore “garanzia costituzionale” venne fornita alla plebe con l’istituzione, sempre nel 449, dopo la cacciata dalla seconda commissione decemvirale, dei tribuni della plebe. La tendenza a nominare ai vertici del potere una commissione di magistrati supremi in luogo della tradizionale coppia consolare (o pretoria) sembra essere riemersa nel 444 allorché al posto dei consoli figurano tre tribuni militum consulari potestate, portati a quattro e infine a sei nel 406, i quali, pur avendo “potestà consolare”, avevano prerogative inferiori a quelle dei consoli (auspici inferiori, niente posti d’onore in senato, né il ius imaginum o il diritto di portare il laticlavium, non potendo nemmeno nominare un dittatore, né celebrare il trionfo). Dionigi relazione la creazione della carica al tentativo dei patrizi di ritardare la resa sulla parificazione con i plebei circa l’accesso al consolato, laddove Livio li dice istituiti in previsione delle operazioni militari che si aprivano su più fronti. Alcuni sostengono inoltre che la creazione di tali tribuni consolari avrebbe aperto ai plebei l’accesso al senato: per tale via andrebbe spiegata l’origine della categoria dei conscripti, apparsa tra il 409 e il 400, o piuttosto con l’accesso dei plebei alla questura. Nel 443 venne istituita la censura, che in origine nacque per alleviare i consoli di alcuni compiti amministrativi, come il censimento dei cittadini e la relativa registrazione dei beni patrimoniali di ciascuno. Nel 339 il dittatore Q. Publilio Filone promulgò tra leggi secundissimae plebi: una che stabiliva che uno dei censori dovesse essere plebeo, lex Publilia de censore plebeio creando. Livio, a proposito del periodo di intense agitazioni politiche e sociali, inziatosi col 377, dice che a quel tempo sulla lama della spada si posero tutte le cose a cui ambiscono con indomabile avidità gli esseri umani: le proprietà fondiarie, il denaro, le alte cariche. Nel 376 due tribuni della plebe, G. Licinio Stolone e L. Sestio Laterano, avanzarono tre proposte di legge, con le quali affrontavano il problema dei debiti, quello dei limiti all’occupazione di agro pubblico e infine quello dell’accesso dei plebei al consolato. Della terza la tradizione ci dice che dinanzi all’ennesima “serrata patrizia” i due tribuni furono eletti ininterrottamente per dieci anni e per ben cinque anni impedirono la regolare elezione dei magistrati. Né Cassio Dione né Diodoro danno notizia di un periodo così prolungato di anarchia. Nel 367 finalmente furono approvate le leggi Liciniae Sestiae in base alle quali uno dei due consoli poteva essere un plebeo; L. Sestio, uno dei promotori della riforma, venne eletto primo console plebeo. Tuttavia, scorrendo la lista dei Fasti consolari, risulta chiaro come i patrizi siano riusciti per un certo periodo di tempo ad ammortizzare i risultati della legge: sono all’incirca sette gli anni durante i quali entrambi i consoli furono patrizi. Nel 366 si decise che gli edili curuli, da poco istituiti, ad anni alterni fossero eletti tra le file dei due ordini. Per quanto riguarda i collegi sacerdotali, già nel 368 il numero dei duoviri sacris faciundis, interpreti dei Libri sibillini, fu portato a dieci, metà dei quali plebei, mentre il pontificato venne reso accessibile ai plebei con la lex Ogulnia del 300. Nel 342 un plebiscito – una delle leges Genuciae – sancì che ambedue i consoli potessero essere plebei, cosa che si sarebbe verificata però solo nel 172 a.C. Nel 337 si ebbe l’ammissione dei plebei alla pretura. → l’unica carica rimasta esclusivo privilegio dei patrizi fu quella di interrex. La conclusione del conflitto si ebbe nel 287 allorché si verificò la quinta e ultima secessione della plebe, le cui condizioni economiche si erano drammaticamente aggravate a seguito delle lunghe guerre sannitiche. Con la lex Hortensia si diede definitiva sanzione a ciò che le fonti già attribuivano alle leggi Valerie- Orazie del 449 e alle leges Publiliae Philonis del 339: i plebiscita vennero equiparati alle leges, finché col tempo si perse il senso della differenza tra le due forme. La legge Ortensia era stata preceduta, nel 293 a.C., dalla lex Maenia con la quale l’aucoritas patruum era ridotta ad una mera formalità preliminare alle elezioni. La concordia ordinum era stata raggiunta. La tradizione ci ricorda che l’anziano Camillo, all’indomani della lex Genucia del 342, elevò un tempio alla Concordia, a perenne memoria dell’avvenuta pacificazione tra le due classi del corpo civico. Si venne così a creare una nuova oligarchia patrizio-plebea, che si riconosceva in comuni interessi politici e aveva alla propria base un uguale potere economico: si tratta di quella classe di governo definita nobilitas (da nobilis, “conosciuto”), che dai primi del III sec. a.C. fornirà i rappresentanti del ceto a guida della res publica, una classe non meno esclusivista di quella che l’aveva preceduta. F 0E 0 Si pongono le premesse per la creazione di frange estremiste nel proletariato urbano, che non si sentiva più rappresentato da questa nuova nobiltà. 3. Magistrature e assemblee Le peculiarità istituzionali da cui è caratterizzato il consolato per tutta l’età repubblicana, quale magistratura più altamente rappresentativa della res publica – collegialità, annualità, eponimia, elezione per voto dei comizi centuriati -, figurano nella tradizione perfette già all’indomani della caduta della monarchia. Secondo De Sanctis e Mazzarino, il momento d’esordio nella vicenda di Roma repubblicana andrebbe postdatato al periodo decemvirale, laddove la duplice magistratura consolare nascerebbe, nella sua forma compiuta e definitiva, solo nel 367, al tempo delle rogationes Liciniae Sestiae. Molte di queste proficue discussioni sono nate, giusto in rapporto alla carica consolare, dalla notizia delle fonti secondo cui il nome dei consoli sarebbe stato, almeno fino al 449 a.C., praetores: Livio parla per il 509 di M. Orazio, praetor maximus che affisse il primo clavus annalis nel tempio di Giove Capitolino, detentore di una carica in cui l’aggiunta al titolo dell’aggettivo maximus suggerirebbe l’esistenza di altri magistrati ugualmente denominati pretori. La tendenza prevalente attualmente prevalente è quella di considerare il praetor maximus quale figura di passaggio dalla monarchia allo stato repubblicano, anzi, secondo alcuni, il titolo di con sul si sarebbe imposto nella consuetudine magistrale solo dopo il 367, soppiantando quello più arcaico di praetor. Fra i tre magistrati che originariamente portavano tutti questo stesso titolo, ci sarebbe stata una ripartizione tra due, divenuti consules e un terzo che, pur restando un magistrato cum imperio, autorizzato a guidare l’esercito, non aveva un potere pari a quello collegiale dei due consoli, finì per specializzarsi in compiti giudiziari. I consoli detenevano un potere sovrano: giudiziario e politico in senso lato entro l’estensione del pomerium, militare e giurisdizionale fuori dal recinto sacro di Roma. Le lunghe e difficili operazioni militari al tempo della seconda guerra sannitica imposero delle proroghe al potere sovrano di consoli e pretori: i beneficiari di questa proroga vennero chiamati rispettivamente proconsoli e propretori e il loro ambito di competenza provincia, termine che successivamente passò a indicare il territorio extraurbano su cui si espletava il potere del magistrato romano. La dittatura era una carica eccezionale, di origine secondo alcuni molto antica (età regia), cui si ricorreva in momenti di particolare difficoltà in campo bellico. Il dittatore era nominato dai consoli a seguito di una decisione del senato e durava in carica per il tempo necessario all’espletamento del suo compito, in ogni caso mai più di sei mesi; aveva poteri assoluti e sfuggiva all’intercessio dei tribuni della plebe. Tale potere superiore non annullava le altre cariche, solo le subordinava per il tempo limitato della carica. Nei suoi compiti militari era coadiuvato da un magister equitum (comandante di cavalleria). Molto frequente nel V e nel IV sec a.C., dopo il 202 di fatto la dittatura scomparve per risorgere, profondamente mutata nelle sue funzioni originarie, nel I sec. a.C. La censura vene istituita nel 443 a.C. per sollevare i consoli dal compito del censimento dei cittadini, al fine di determinarne il ruolo militare e i diritti politici all’interno delle cinque classi di censo in cui il populus era suddiviso. Magistratura superiore aperta alla plebe solo nel 339 e tuttavia sine imperio, le sue competenze erano state ampliate con una lex Ovinia di data non ben definita (ma certamente anteriore al 312 a.C., anno della censura di Appio Claudio), che le aveva conferito il diritto di redigere l’album senatorium, ovvero la lista di coloro che erano ammessi al supremo consesso della Roma repubblicana, con l’autorità di escluderne coloro che si fossero macchiati di indegnità. La censura divenne così la più alta autorità morale della res publica, spettandole il controllo del regimen morum all’interno dell’ordo senatorius. Si ritiene che dopo l’epocale censura di Appio Claudio, la magistratura ebbe anche il compito di passare in rassegna i prerequisiti patrimoniali dei detentori del censo equestre. Altre importanti mansioni erano legate alla locazione dell’ager publicus e, in età successiva alle grandi conquiste transmarine, all’appalto delle entrate pubbliche. Tra le incombenze dei censori rientrava anche la tradizionale purificazione dei campi, delle città e del popolo tutti (lustrum), che avveniva ogni cinque anni (da cui il termine “lustro” è passato ad indicare un periodo quinquennale). Infatti i due censori venivano eletti ogni cinque anni. Una legge del 434-433 ca., lex Aemilia de censura minuenda la fissò, però, a diciotto mesi. Anche il censore, come il dittatore, non era obbligato dal potere superiore dei tribuni plebis e molto spesso la carica era rivestita da ex consoli o ex pretori, quasi a coronamento e suggello di un cursus honorum particolarmente prestigioso. Un’altra carica di durata assai limitata, l’unica che peraltro i senatori patrizi riuscirono a mantenere come esclusivo privilegio dinanzi alle rivendicazioni della plebe, era quella di interrex, nominato per soli cinque giorni in caso di scomparsa violenta dei due consoli col solo compito di fare eleggere i nuovi e trasmettere loro gli auspici. Tra le magistrature minori più antiche, con competenze esclusivamente civili (dunque sine imperio) vi erano gli edili, istituiti secondo la tradizione nel 493 a.C. in connessione alle prime secessioni della plebe. il primo di Roma sulla Sabina, il secondo in senso inverso, interpretando la migrazione di personaggi sabini come Attius Clausus quali segnali di un’egemonia sabina sui romani. È molto più probabile che tra i territori contermini si fossero stabiliti accordi di buon vicinato. Il passaggio dal V al IV sec. vede i romani impegnati in un lungo conflitto con la vicina Veio, distante solo 17 km dall’Urbe. La battaglia, che il potentissimo clan dei Fabii aveva combattuto sul fiume Cremera nel 477 testimonia del vivo interesse economico che questa gens nutriva per il circondario. Tra Roma e Veio c’era un’antica rivalità per il controllo delle saline alla foce del Tevere. Nel 406 cominciò l’assedio della città etrusca, durato per dieci anni, e si concluse nel 396 grazie al dittatore M. Furio Camillo, che diede il via alla triste pratica di fare terra bruciata dei territori conquistati. Durante questa prolungata ostilità, fu fatale a Veio la tradizionale assenza di coesione e affinità di intenti tra le città etrusche: Chiusi e Cere si schierarono addirittura dalla parte dei romani (nel caso di Chiusi un’alleanza dettata da motivi economici legati all’esigenza di difendere il libero traffico lungo il Tevere). Da questa guerra uscì notevolmente indebolita la Lega latina, che agli inizi del IV sec. abbandonò l’alleanza con Roma e le rimase ostile fino al suo definitivo scioglimento nel 338, anzi, si riconosce che proprio il trionfo su Veio avrebbe alterato gli equilibri di forza tra Roma e i Latini, che da quel momento intrapresero una dura lotta per conservare la propria individualità. La guerra decennale rese necessaria l’istituzione di un soldo militare per permettere ai soldati di sopravvivere senza lavorare la terra, finanziato dai proventi di una tassa pagata da chi, ad es., era troppo anziano per servire in guerra. Il conflitto comportò un autentico salasso economico, poiché la città rivale era grande, potente e pressoché imprendibile, per cui durante l’assedio i cittadini appartenenti al censo equestre furono autorizzati a servirsi di cavalli propri. Più profondi e duraturi furono i riflessi economici della conquista. L’ager Veientanus et Capenas incamerato venne parcellizzato in lotti di sette iugeri ciascuno e distribuito ai plebei. L’occupazione effettiva si ebbe solo nel 388 e l’anno seguente furono create quattro nuove tribù rustiche per un totale di venticinque tribù. Con le distribuzioni viritane dell’ager Veientanus Lo Cascio fa iniziare la storia della proprietà agraria a Roma, nel senso della piccola proprietà individuale. A livello socioeconomico, si individua la scomparsa della clientela arcaica. Con la creazione su scala senza precedenti di una classe di piccoli proprietari, i landlords patrizi si trovarono privati della manodopera tradizionale, poiché i loro antichi clienti ebbero dopo il 393 terra propria da coltivare. La crisi di manodopera solo parzialmente poté essere fronteggiata col ricorso al lavoro schiavile, poiché, com’è immaginabile, in questa fase gli schiavi non dovevano essere ancora numerosi, per cui si ricorreva agli addicti, i debitori morosi caduti in schiavitù. E proprio la schiavitù per debiti fu uno dei problemi sociali più dolenti e dibattuti nel corso del IV sec. a.C. I plebei benestanti invece, probabilmente avvezzi a servirsi di manodopera servile da più tempo, risultarono forse meno colpiti dalla crisi seguita a questa prima importante conquista dei romani. A peggiorare determinate situazioni intervennero le migrazioni dei popoli celti agli inizi del IV sec.. Queste bande di Celti, noti col nome generico di Galli, provenienti dalle vaste plaghe dell’Europa centrale, all’alba del IV sec. a.C. si diressero verso l’Europa meridionale. Erano divisi in vari gruppi. La fertile pianura padana, abitata da genti poco numerose e non organizzate per approntare qualunque forma di resistenza e che pertanto furono assimilate o spinte verso le montagne, fu terreno privilegiato di conquista per Cenomani, Boi, Lingoni, SEnoni. Una parte di questi, insediandosi stabilmente nella Padania, si convertì a uno stile di vita sedentario e alle attività agricole, altri invece continuarono le attività di razzia. Tra questa seconda categoria si annovera un gruppo di Senoni, che nel 390, si diresse su Chiusi. La presenza di forze romane nella città etrusca venne interpretata come una provocazione dai Galli, che marciarono contro i romani, sconfiggendoli presso il fiume Allia, preludio alla ben più grave presa di Roma, messa a sacco fuorché il Campidoglio, dove i Romani superstiti non sarebbero stati salvati tanto da Furio Camillo quanto dal pagamento di un riscatto, che la tradizione annalistica nega per riabilitare Camillo, reduce dall’esilio di Ardea, creando così il suo mito di “secondo fondatore di Roma”. Al tempo del disastro gallico importante fu il ruolo giocato da Cere, dove trovarono rifugio i sacerdoti e le vergini vestali. Sul momento i Senoni tornarono sui loro passi, a causa di una pestilenza che si era diffusa tra le loro file e della notizia che i Veneti stavano minacciando i loro territori in Cisalpina. Successivamente li troviamo stanziati nelle attuali Marche, ma non è impossibile che prima di stanziarsi nelle loro sedi definitive, abbiano fatto le prime mosse su istigazione di Dionisio I di Siracusa, il quale aveva concepito un vasto piano d’azione per formare uno stato unitario, comprendente le due sponde del Fretum Siculum; ad essa dobbiamo attribuire, in quest’ottica, l’attacco combinato, a metà del IV sec., di Galli dal Lazio e Siracusani lungo la costa. Si ricordi inoltre che il secondo trattato romano-punico del 348 sarebbe stato siglato prevalentemente in funzione antisiracusana, laddove il terzo trattato del 306, che definiva le aree d’influenza delle due città, sottintendeva l’esistenza di un nemico comune nella persona di Agatocle. I Galli minacciarono l’Italia centrale in tre altre ondate successive, 358/54 – 347/43 – 332/29, ma in occasione dell’ultima di queste invasioni Roma fu in grado di imporre loro una pace trentennale. La presenza barbarica nella penisola italiana aveva portato Roma all’attenzione della storiografia greca contemporanea. Timeo di Tauromenio, lo storico greco che per primo intuì la portata dell’ascesa di Roma in Italia, riunì le notizie rinvenute in storici disparati. Ne viene fuori un quadro variegato e di difficile interpretazione. Il periodo seguito alla presa di Roma del 390 fu piuttosto critico sotto molte specie. Dal punto di vista politico-militare, sebbene la storiografia moderna rigetti come inventato il racconto delle guerre condotte da Roma contro Etruschi, Ernici, Equi, Volsci e Galli nei trent’anni che seguirono all’incendio gallico, non c’è dubbio che il prestigio dell’Urbe subì un grave colpo tra i popoli vicini: crollò l’alleanza con i Latini e con gli Ernici. Al periodo immediatamente successivo risale la costruzione delle cd. “mura serviane” (378 a.C.) e in tale periodo si riacutizzarono problemi mai risolti, tra cui le lotte per lo sfruttamento dell’agro pubblico e la piaga dei debiti. Le leggi Licinie Sestie del 367 contenevano una normativa de modo agrorum, che fissava a 500 iugeri l’estensione massima di ager publicus occupabile, e un’altra che cercava di porre rimedio al problema dei debiti, stabilendo che l’interesse già pagato doveva essere detratto dal saldo complessivo, la cui corresponsione poteva completarsi in tre anni. Gabba si mostra piuttosto scettico sulla possibilità che la limitazione di possesso dell’ager publicus possa effettivamente riferirsi alla prima metà del IV sec., per cui la legge agraria, se autentica, si sarebbe limitata ad ammettere i plebei all’utilizzo dell’agro pubblico. Secondo altri studiosi invece, apparirebbe ingiustificata una diffidenza così radicale nei confronti della tradizione, la quale potrebbe sì risentire di influenze di età graccana, ma non al punto da essere rigettata in toto. Non è escluso, come ha pensato Scullard, che la legge contenesse norme per limitare il numero di capi di bestiame pascolanti sull’ager publicus, anche questo riflesso del conflitto d’interessi economici tra i patrizi allevatori e i plebei interessati allo sfruttamento agricolo dei terreni pubblici. Quale che sia lo spirito della legge, le condizioni economiche dei plebei potevano risollevarsi in effetti solo con l’assegnazione viritana di terre, con la deduzione di colonie, con l’ampliarsi dei traffici commerciali e, conseguente a quest’ultimo, con lo sviluppo della attività artigianali. F 0E 0 Quale che sia stato il risultato effettivo di queste leggi, hanno il merito di aver sottolineato ancora una volta quali erano i problemi socio-economici della plebe: la richiesta di terre e i debiti. In considerazione del moltiplicarsi di leggi promulgate nel IV sec. per risanare questa situazione, si può ben concludere che essa in questo tempo fosse davvero al centro delle preoccupazioni della res pulica. Nel 342 si verificò una grave crisi politica, quando dei soldati romani di stanza in Campania si ribellarono perché, oberati dai debiti, avvertirono il contrasto tra la loro povertà e l’opulenza delle terre campane che erano stati chiamati a difendere. In questo clima di profondo disagio la tradizione colloca l’approvazione della lex Genucia, con cui si giunse a proibire il prestito ad usura, ma provvedimento poco realista, era destinato ad essere evaso e presto revocato. Nel 352 venne istituita la commisione dei quinqueviri mensarii col compito di soccorrere i debitori in difficoltà mediante funzioni quasi da banca di Stato: essi concedevano anticipi, rilevavano le ipoteche dietro adeguate garanzie o le saldavano permettendo le azioni legali di fallimento. Anche la cd. lex Silia è stata datata all’inoltrata seconda metà del IV sec. Ma un autentico passo in avanti si ebbe solo con la lex Poetelia Papiria del 326 (secondo Livio) o del 313 (secondo Varr.), grazie alla quale, per usare le parole di Cicerone, “le catene dei cittadini vennero sciolte”. Essa non aboliva il nexum, ma lo mitigava, imponendo che il giudizio dei magistrati sul caso in oggetto dovesse sempre precedere l’esecuzione, sottraendo così il debitore alla cruda logica del “fai da te”. La guerra contro la potente Veio era stata vinta grazie anche all’alleanza di Tuscolo, con il supporto della quale era stato effettuato lo scavo dell’emissario del lago di Albano al fine di irrigare i pascoli della campagna romana. Dalla metà del IV sec. Roma dovette affrontare l’insorgente ostilità della Lega latina. Il terrore provocato dalla seconda incursione gallica nel 358 portò i contendenti a un accordo che sarebbe durato fino allo scoppio della guerra latina, anzi, secondo alcuni, il famoso foedus Cassianum, che la tradizione situa agli inizi del V sec., andrebbe identificato con questo foedus stipulato su base di parità, per cui gli alleati erano tenuti a fornire lo stesso numero di contingenti in caso di guerra, si spartivano equamente il bottino e a turno nominavano il dittatore. Nel 357 vennero create due tribù rustiche in territorio volsco, la Pomptina e la Poblilia. Le vicende della guerra latina del 341-338 a.C. si intrecciano in dinamiche piuttosto complesse con il racconto che le fonti tramandano dei primi due conflitti tra Roma e i Sanniti. Stando all’intricato racconto delle fonti, al tempo del conflitto tra Sanniti e Sidicini (343), i romani erano alleati dei Sanniti, entrati a loro volta in contesa con i Latini per l’aiuto prestato da questi ai Sidicini. I termini dell’alleanza conclusa appena l’anno successivo dai Romani con i Sanniti aveva scontentato i Latini, poiché essa riconosceva la supremazia sannita sul territorio sidicino; inoltre al rifiuto opposto da Roma alla proposta latina di formare uno stato unitario sarebbe scoppiata la guerra, conclusasi nel 338 con lo scioglimento definitivo della Lega latina, l’annessione dell’ager Falernus, l’avio di una nuova ondata di colonizzazione agraria, con la creazione, ai piedi dei colli Albani, di due nuove tribù rustiche, la Scaptia e la Maesia, nonché la fondazione della colonia militare di Anzio. Uguale funzione strategica ebbe la colonia romana di Terracina. La coalizione antiromana formatasi di Latini, Volsci, Sidicini, Campani e Aurunci contro Romani e Sanniti, attestata dai Fasti triumph. ad a. 341, dove si legge che T. Manlio Torquato trionfò su Latini, Campani, Sidicini e Cumani, ebbe come conseguenza la formazione di uno stato romano-campano. Nel 318, gli equites Campani di Capua, che avevano abbandonato l’alleanza con i Latini, furono premiati con la cittadinanza romana nel 340, riconoscimento che toccò ai Campani tutti e agli abitanti di Cuma e Suessula nel 338, poiché nelle ultime fasi della guerra erano stati a fianco dei Romani. Da notare tuttavia la dicotomia nel trattamento riservato agli equites da un lato e al populus campano dall’altro, condannato a pagare un’ammenda di 1450 denari annui. I membri della disciolta Lega latina furono legati a Roma con soluzioni politiche diverse: Tuscolo e Lanuvio divennero municipia, Aricia municipium foederatum, Ardea, Sutrium, Nepete, Signia, Norba, Circei conservarono il nomen Latinum, ma subirono restrizioni nel diritto di commercio e di connubio. Roma, anche dopo questo importante risultato politico-militare che l’aveva resa padrona del Lazio e di parte della Campania, attuò nei confronti dei suoi “alleati” latini dei metodi di controllo illuminati, volti a creare interessi collettivi in comunità cittadine che divennero membri effettivi della confederazione romana, ai quali non erano richiesti imposte e tributi, ma solo contingenti che combattessero a fianco della città egemone. 5. I Sanniti e le altre nationes: Roma e l’Italia tra IV e III sec. a.C. La conquista dell’etrusca Capua nel 423 varr. E della greca Cuma nel 421/420 ad opera di genti di stirpe sabellica segnò una svolta epocale nella storia delle antiche genti d’Italia. Maleventum e di Isernia: si era così creata una barriera che non solo impediva ai Sanniti ogni contatto con i loro antichi alleati a settentrione, ma tagliava loro anche i vettori della transumanza. Venne imposta l’alleanza ai Lucani, agli Apuli, agli Italioti e ai Bruttii, che in questa occasione persero parte della Sila. Nel territorio dei Salentini, pesantemente agro multati, i Romani dedussero la colonia latina di Brindisi. Importanti risvolti economici ebbe in particolare l’annessione della Sabina nel 290 a.C., ai cui abitanti venne riconosciuta la civica sine suffragio, mutata in cittadinanza di pieno diritto nel 268. Si dice che solo dopo una simile conquista ir omani conobbero davvero la ricchezza: una tale abbondanza di terre permise non solo un’intensa colonizzazione e distribuzioni ai cittadini romani, ma anche la riserva di parte di queste terre per la vendita privata in lotti di 50 iugeri a cura dei questori. I problemi posti dalla grande proprietà fondiaria così costituita cominciarono in questo torno di tempo ad essere risolti col ricorso alla manodopera servile, che già nella metà del IV sec a.C.doveva essere presente in quantità piuttosto rilevanti nell’Italia romana, se nel 357 la res publica pensò bene di guadagnarci introducendo un’imposta del 5% sulle manomissioni. Il III sec. vide anche la fine dell’Etruria. La rigida divisione in proprietari, servi e proletariato urbano della società etrusca era foriera di gravi tensioni sociali, accentuati dal clima di declino politico delle città etrusche. Nel 265 l’intervento romano a Volsinii per soffocare movimenti rivoluzionari tesi a rovesciare il governo aristocratico sancì la caduta in mano romana della città. L’Etruria sparì per sempre dal novero delle potenze peninsulari. La civiltà etrusca aveva dato moltissimo alla Roma arcaica in termini culturali e politico-istituzionali. Molte pratiche della sfera religiosa venivano dall’Etruria: per tutta l’età repubblicana i giovani di buona famiglia venivano inviati a Cere per apprendervi la cd. “disciplina etrusca”. In età augustea, Dionigi di Alicarnasso ricorda l’apporto dell’Etruria ai simboli esteriori dell’imperium: lo scettro sormontato dall’aquila, la tunica di porpora ornata d’oro, i littori che portano l’ascia e il fascio di verghe. Le popolazioni italiche dopo la conquista romana si ritrovarono divise in due categorie: inglobate nella res publica o ad essa legate con un trattato su base quasi mai paritaria. All’interno di questo quadro generale, vi erano notevoli differenziazioni: ad es., con le nationes piuttosto arretrate dell’Appennino centrale e meridionale, poco toccate dallo sviluppo urbano, Roma procedette alla stipula di foedera comprendenti tutto l’ethnos, laddove nelle aree più urbanizzate si preferì concludere trattati con le singole città. Campani, Etruschi e Sabini ebbero la civitas sine suffragio, comportante i diritti della sfera privatistica di commercium, connubium e provocatio, una categoria di cittadinanza che veniva considerata di poco inferiore alla civitas optimo iure. Tra i socii una categoria particolare era quella dei Latini, che per questa affinità di lingua, costumi e tradizioni religiose con i romani erano destinati a formare con questi un gruppo omogeneo. Dopo lo scioglimento della Lega nel 338 a.C., a conclusione della guerra latina, Roma continuò a dedurre colonie latine, i cui abitanti provenivano da Roma e da altre città latine minori ed escogitò lo status giuridico noto come nomen Latinum, i cui beneficiari godevano non solo dei ius commercii, del ius connubii e del ius provocationis, ma, se si fossero trovati a Roma di passaggio, avevano anche il diritto di votare nei comizi tributi in una tribù estratta a sorte. Ottenere la civitas optimo iure per i socii nominis Latini era molto semplice: bastava farsi registrare in occasione del censimento quinquennale. Per tutti i popoli legati politicamente a Roma, fossero essi socii o cives, vi era l’obbligo del servizio militare sotto le insegne romane, nonché quello di condividere con Roma amici e nemici, il che implicava il divieto di condurre una politica estera autonoma. Tutti i cives iscritti negli elenchi del census erano tenuti al pagamento del tributo, imposta diretta calcolata sulla base delle capacità economiche individuali, da cui invece erano esenti gli alleati, tenuti solo alla corresponsione delle imposte indirette, del vectigal – il canone sull’usufrutto dell’ager publicus – e dei portoria, il pedaggio sulle merci in transito attraverso i territorio della confederazione romana. Dei quaestores italici o classici erano stati creati per far fronte alle accresciute esigenze in uomini e contributi fiscali, mentre per la giurisdizione civile e penale venivano inviati dei praefecti nelle città e nei territori incorporati. Per il resto, Roma riconobbe piena autonomia alle amministrazioni locali, solo limitandosi ad appoggiare le aristocrazie agrarie che con la sua classe dirigente condividevano interessi economici e ben presto politici, a seguito della cooptazione di famiglie italiche nel senato. Le colonie romane, create sull’ager publicus, per lo più come presidio lungo le coste, come Ostia, Anzio, Terracina, Sena Gallica, e costituite in origine da trecento cittadini con le loro famiglie. Antiche città latine incorporate dopo il 338 divennero oppida vicium romano rum, i cui abitanti, iscritti nelle tribù, godevano dei pieni diritti politici a Roma. Gruppi di cittadini erano insediati anche in distretti rurali, detti municipi. Il municipium era una città conquistata da Roma alla quale si riconosceva di solito la civitas sine suffragio; l’etimolotia da munia indicherebbe appunto i doveri cui il centro era tenuto nei confronti della città egemone. 6. La censura di Appio Claudio (312 a.C.) Appio Claudio è l’unico uomo politico romano che per l’età medio-repubblicana possa essere confrontato ai grandi del II-I sec. a.C. La censura di Appio Claudio fu un momento rivoluzionario degli assetti sociali a Roma nel tardo IV sec. e di essa abbiamo un resoconto completo e nel libro IX di Livio e in Diodoro Siculo, fonti che spesso riflettono correnti della tradizione ostili alla gens cui in censore apparteneva. il suo elogium si leggeva ancora in età augustea ad Arezzo. Diodoro dice che Appio Claudio, nel tentativo di accattivarsi il favore popolare, non si curò del senato, anzi, gli recò apertamente offesa con l’ammettere nel prestigioso consesso i figli dei liberti. Permise poi ai cittadini di iscriversi in quale tribù volessero, ma, per non inasprire ulteriormente l’oligarchia senatoria, non escluse nessuno dall’albo per indegnità, né privò alcuno del cavallo pubblico. I consoli, che l’avevano in odio, convocarono il senato non secondo l’albo da lui redatto, ma sulla base della redazione dei precedenti censori. Il popolo, invece, era favorevole a queste innovazioni perché sperava in un miglioramento delle proprie condizioni. Diodoro aggiunge che Appio, dopo aver deposto la carica di censore, che aveva detenuto oltre i diciotto mesi prescritti dalla lex Aemilia, si rintanò a casa propria fingendosi cieco allo scopo di sfuggire all’odio implacabile del senato. Le nostre fonti lo ricordano per la costruzione della grande via da Roma a Capua che da lui prese il nome (la via Appia), e ancora per l’aqua Appia, che portava l’acqua dell’Aniene a Roma. Egli fece costruire anche un tempio a Bellona, omaggio alla dea della guerra e insieme segno consapevole della potenza romana, nonché forse simbolo della penetrazione a Roma dell’ideologia ellenistica della vittoria. La tradizione confluita in Livio, ostile ai Claudii, dice che egli come censore fu funesto all’integer populus, e si appoggiò piuttosto alla turba forensis, il ceto mercantile e affaristico, infoltito dall’apporto di immigrati latini, di liberti e figli di liberti e i cui esponenti erano comunque costretti ad intrupparsi nelle quattro tribù urbane. Per la precisione, Livio dice che Appio, avendo diviso gli umile in tutte le tribù, forum et campanum corrupit, con allusione al Foro, dove si riunivano i comizi tributi, e al Campo Marzio, sede dell’assemblea centuriata. Con la sua riforma, che permetteva ai membri della popolazione urbana di registrare se stessi e i propri beni anche nelle tribù rustiche, Appio Claudio consentiva a costoro di infiltrarsi tra i proprietari terrieri che non sempre avevano la possibilità di venire a Roma a far valere il proprio voto, e ciò tanto più dopo che il criterio maggioritario dei comizi tributi si era andato definendo meglio, facendo emergere il cittadino individualmente, rispetto ai comizi centuriati dov’era prevalente il voto timocratico. Non meno scandalo suscitò l’ammissione dei libertini nel senato. Per gli storici moderni Appio Claudio non sarebbe stato altro che un demagogo antesignano di Cesare e, ancora prima, un reazionario ostile alla nuova nobilitas patrizio-plebea. Maggiore credibilità sembra avere la posizione di Staveley, per cui Appio avrebbe caldeggiato una ristrutturazione degli assetti socio-economici con l’appoggiare i ceti mercantili, favorendo così l’evoluzione della Roma del IV sec. da centro eminentemente agricolo a potenza in cui agricoltura e interessi commerciali avessero importanza uguale e complementare. Una corrente di pensiero moderna vede i Claudii legati alla plebe urbana, e i Fabii ai ceti contadini: il contrasto avrebbe raggiunto la sua acmè al tempo della censura di Appio Claudio e poi di quella di Fabio Rulliano, il quale si affrettò a cancellare la riforma relativa alle tribù varata dal suo predecessore, consentendo al “popolo senza terra” di iscriversi solo nelle tribù urbane. Alcuni storici attribuiscono ad Appio il provvedimento che ammetteva come base del calcolo patrimoniale non solo le proprietà terriera ma anche i beni mobili, per cui un ricco mercante poteva essere iscritto nella prima classe di censo il cui voto all’interno dei comizi centuriati era determinante. Un’ennesima vittoria riportata dalla plebe fu dovuta indirettamente ad Appio Claudio. Lo scriba plebeo Gneo Flavio, durante la sua edilità curule del 304, ottenuta, sempre a detta di Livio, con l’appoggio della forensis factio, rese pubblico il diritto civile custodito fino a quel momento negli archivi dei pontefici ed espose nel foro il calendario dei giorni fasti, in modo che tutti i cittadini sapessero in quali giorni potevano svolgersi le azioni legali. Era stato Appio Claudio a redigere in forma chiara le legis actiones: il suo scrivano Flavio rubò il libro e lo presentò al popolo, che fu così felice da nominarlo, lui semplice scriba, tribuno della plebe, senatore ed edile curule. Nacque così quello che i giuristi chiamano ius civile Flavianum, fondamento del diritto civile in età repubblicana. Cap. II Da Pirro alla Seconda guerra Punica 1. Roma, l’ellenismo e Pirro Un effetto del lungo e aspro conflitto per il controllo delle aree sannitiche fu quello dell’intensificarsi delle relazioni, culturali, economiche e politiche, tra Roma e le città della Magna Grecia. La creazione di uno stato romano-campano aveva aperto la strada a più intensi influssi ellenistici, destinati a farsi sentire parecchio nella storia di Roma repubblicana. I processi acculturativi si muovono solitamente su un doppio binario, come apprendiamo da una preziosa testimonianza di Aristosseno di Taranto che dice che gli abitanti di Posidonia, in origine greci, “furono completamente barbarizzati e divennero Tusci”. Tali processi imboccano vie non sempre facilmente spiegabili, nel caso di Posidonia, sub-colonia di Sibari fondata nel 400, che venne conquistata dai Lucani, fase che on ha lasciato tracce a livello archeologico, e poi dai romani, che vi crearono la colonia latina di Paestum, evento dopo il quale andò distrutto l’edificio di tipo greco che accoglieva l’assemblea cittadina. Roma rappresenterebbe un paradosso della cultura antica: una città fondata nel Lazio da un popolo di pastori, le cui radici leggendarie traevano linfa dal sangue di un fratricidio e che solo successivamente si tentò di nobilitare facendole risalire alla fuga del troiano Enea, questa città che, agli occhi di qualunque greco di buona cultura sarebbe apparsa barbara e povera culturalmente, era destinata a quegli stessi occhi ad assumere i rassicuranti contorni della protettrice dell’ellenismo. Roma doveva assurgere a questo ruolo proprio al tempo in cui l’ellenismo la sfidò militarmente sul suolo italico a seguito dell’avventura occidentale di Pirro, e il fallimento dell’intervento a favore di Taranto dei duci greci che l’avevano preceduto nel corso del cinquantennio finale del secolo precedente avrebbe dovuto suggerirgli. È in questo momento fatidico che la storiografia greca si accorge davvero dell’emergente egemonia romana, con Timeo di Tauromenio, il primo storico greco che “scoprì” Roma. In ambiente italico le colonie greche non ebbero esitazioni nella scelta che si poneva loro tra le nationes barbare e Roma, che già agli inizi del IV sec. era considerata greca, poiché l’Urbe non ebbe difficoltà a riconoscere la propria inferiorità culturale dinanzi al mondo greco e, piuttosto che chiudersi in una risentita ostilità, si aprì ricettivamente a quel mondo fino a diventarne parte inscindibile. Non è un caso che la primissima storiografia romana nasca solo alla fine del III sec. a.C. e in lingua greca. La stessa costituzione repubblicana doveva mostrare significative analogie agli occhi dei greci democratici, che avevano cacciato i tiranni dalle loro città, eleggevano i propri magistrati votandoli in assemblee popolari e avevano consigli di anziani che ricordavano loro il Senato romano. Sulla base delle testimonianza pliniana, il 269 a.C. data l’inizio della coniazione del denarius, del valore di dieci assi e il cui sottomultiplo più diffuso, il sesterzio, valeva due assi e mezzo. Studi numismatici più recenti e approfonditi hanno però suggerito di abbassare la cronologia della prima monetazione argentea romana alla fine del secolo, collegandola con le necessità belliche della Seconda guerra punica, laddove la data desumibile dalla Storia naturale di Plinio andrebbe riferita piuttosto all’emissione delle serie romano-campone. L’ingresso di Roma nell’ambito dell’economia monetaria può essere considerato il sintomo di un più generale cambiamento negli assetti socio-economici dell’Italia antica. Sebbene continuasse ad esistere il contadino proprietario che curava da sé la coltivazione, ai fini della sussistenza, del proprio praedium, e la piccola e media proprietà contadina costituisse ancora il nerbo dell’economia romana, lo sfruttamento in mano a pochi privilegiati di ampie porzioni di ager publicus, unitamente all’estensione delle basi territoriali dell’economia agro-pastorale, furono circostanze che mutarono profondamente gli assetti agrari. È negli anni che precedono il primo conflitto romano-punico che nascono fortune private non legate alla proprietà terriera connotante la nobilitas tradizionale, ma alla ricchezza mobile, contingenza che possiamo considerare come l’atto di nascita di un ceto mercantile e affaristico, preludio al sorgere dell’ordine equestre nel II sec. a.C. I primi tratti romano-punici rivelano giusto la salvaguardia di interessi prettamente commerciali, in una prima fase in verità tutti sbilanciati dalla parte dei Puni, poiché alle limitazioni di commercio e di navigazione dei romani fa riscontro l’assoluta libertà, da parte cartaginese, di navigare per il Mediterraneo, col solo vincolo di non attaccare le città latine poste sotto l’egemonia romana. Lo storico Polibio parla di un secondo trattato, databile al 348, col quale si riconobbe a Cartagine un monopolio commerciale ancora più ampio, forse perché Roma, impegnata nelle tensioni con le città latine, non mostrava ancora particolare interesse per i traffici marittimi. Dopo un terzo accordo, nel 306, il quarto trattato del 278 a.C. è anche il primo che prevedeva una societas, una alleanza militare, cioè, indotta dalle esigenze e dalle preoccupazioni dei due contraenti per la campagna di Pirro in Italia e poi in Sicilia. Cartagine manteneva il pieno controllo delle rotte mediterranee e non sembra temesse eventuali mire della sua alleata sulla Sicilia, visto che ne avrebbe tollerato la presenza militare sull’isola a scopi difensivi. Invece proprio la grande isola del Mediterraneo sarebbe diventata il dominio conteso tra Cartagine e Roma, tanto che la Prima guerra punica è nota nelle fonti come bellum Siculum. Lo storico agrigentino Filino insisteva sull’esistenza di un trattato (identificato dagli studiosi con quello del 306) in base al quale i romani avrebbero dovuto star lontani dalla Sicilia e i Cartaginesi dall’Italia, condizione che, letta in prospettiva filo punica, qualificherebbe come grave violazione di un foedus internazionale l’ingerenza romana nelle cose di Sicilia. Cartagine era stata fondata alla fine del IX sec. da coloni fenici provenienti da Tiro. La vocazione mercantile delle genti fenice rese la città punica il centro egemone di un impero commerciale e politico che si estendeva dal Magreb alle coste meridionali della Spagna, dalla Sardegna alla Sicilia occidentale, ed era in perenne conflitto con la grecità della Sicilia orientale, in primis con Siracusa, che si era fatta carico delle istanze siceliote contro l’espansionismo cartaginese. Cartagine dotata di una temibile flotta, che in guerra usava gli elefanti e faceva affidamento per lo più sul mercenariato. Roma fino a quel momento era stato essenzialmente una potenza di terra, sebbene voci autorevoli abbiano non senza ragione sostenuto l’esistenza di una marina militare romana anche prima del 264 a.C. Le relazioni tra Roma e Cartagine fino al 264 non erano state ostili. La comparsa di una flotta cartaginese nel golfo di Taranto, proprio mentre i romani ponevano l’assedio alla città (272), non sembra potersi interpretare come il segnale di un atteggiamento ostile, anche se come tale venne intese dalle fonti annalistiche, desiderose di presentare ai posteri un pregnante esempio della malafede punica, particolarmente notevole perché l’atto si poteva prefigurare come una violazione cartaginese del trattato di Filino anteriore a quella romana del 264. Il casus belli fu la richiesta d’aiuto dei Mamertini, che, assediati a Messina dai Siracusani di Ierone II, chiesero contemporaneamente aiuto ai cartaginesi e ai romani. I cartaginesi sarebbero stati più pronti ad inviare un presidio, mentre i romani tentennarono, alle prese con le discussioni in senato. I Mamertini si appellarono all’homophylia, ovvero all’affinità etnica, che li avrebbe uniti ai romani. Questi mercenari, che avevano militato al soldo di Agatocle, dopo la morte di quest’ultimo (289) si erano impadroniti di Messina, in un momento per il quale si riconosce l’esistenza di una koinè culturale osco- italica tra le due sponde dello Stretto, avente i suoi centri di irradiazione nella Messana mamertina e nella Reggio conquistata dalla Legio campana di Decio Vibellio. I mercenari sarebbero stati di origine osco-campana, e Capua, considerata capitale dell’ethnos campano, aveva origini troiane a mezzo del suo mitico fondatore Rhomos, figlio di Enea. Quanto ala factio dei suadentes, si ritiene che essa facesse capo alle stesse famiglie di origine campana che avevano premuto per l’intervento contro Taranto, nonché ai Claudii, ai quali sarebbe rimasto, quale retaggio politico della Prima punica, il patronato sulla città di Messina (fu il console Appio Claudio che nel 264 liberò la città dal duplice assedio di Cartaginesi e Siracusani, alleatisi tra loro all’arrivo dei romani con un clamoroso rovesciamento delle tradizionali alleanze). Le preoccupazioni da parte romana per un’eventuale violazione de trattati e l’apprensione per un potenziale passaggio dei Cartaginesi in Italia, ove fossero diventati padroni nel Tirreno dello Stretto di Messina oltre che della Sardegna. La versione polibiana del nervosismo romano, intesa a giustificare l’ingerenza nelle cose di Sicilia, è stata interpretata da taluni come frutto di un anacronismo, indotto dalla suggestione delle vicende della guerra annibalica. Polibio infatti pone l’invio del presidio cartaginese sulla rocca di Messina immediatamente dopo la richiesta dei Mamertini, di contro ai temporeggiamenti di parte romana di cui si è detto, laddove Diodoro lo colloca nel 269 a.C., ma è difficile pensare a una contestuale richiesta di soccorso da parte mamertina ai romani appena l’anno dopo la durissima punizione inflitta a Roma alla legio Campana ribelle, in un momento, cioè, in cui i sentimenti romani nei confronti di questi gruppi oschi non dovevano essere molto concilianti. La richiesta mamertina d’aiuto rivolta contemporaneamente a romani e cartaginesi è giustificata dal fatto che i due popoli erano alleati di antica data, e dunque i migliori candidati ad opporsi all’ellenismo in Sicilia. Dopo il fallimento dei tentativi di mediazione, Appio Claudio, console nel 264, sconfisse separatamente Ierone II e i Cartaginesi e si apprestò ad assediare Siracusa. L’anno successivo M. Valerio tentò l’assedio alle poderose fortificazioni di Siracusa, ma dove fallì la poliorcetica ebbe successo la diplomazia, in quanto Valerio riuscì a staccare Ierone II dall’innaturale alleanza punica, facendone per il futuro un indefettibile socius. Questa alleanza comportò per Roma il controllo sulla Sicilia orientale, con le operazioni intorno ad Agrigento, amica di Cartagine secondo Diodoro. La città cadde nel 261, lo stesso anno in cui il console Valerio propose un rafforzamento senza precedenti della flotta romana, ciò che permise la prima vittoria navale nella battaglia presso Mylae, dove il console C. Duilio, con l’impiego dei “corvi” che agganciavano le navi nemiche, rese la battaglia navale assimilabile a uno scontro di terra, cui i legionari romani erano sicuramente più adusi. Solo una vittoria sul mare poteva assumere valore risolutivo per il conflitto, specie dopo la disastrosa spedizione africana di Attilio Regolo, che, prefigurando quello che Scipione avrebbe fatto cinquant’anni dopo con maggior successo, nel 255 tentò di spostare le operazioni belliche sul suolo nemico, ma venne vinto e fatto prigioniero. Lo sforzo economico per armare la flotta si stava facendo enorme a Roma, specie dopo l’affondamento di ben due flotte al largo di Camarina, a causa di tempeste, una dopo lo scacco subito da Regolo, un’latra dopo la battaglia navale di Drepanum, da cui il console P. Claudio uscì pesantemente sconfitto. Nel 247 l’invio in Sicilia di Amilcare Barca, che usò l’isola come base per scorrerie lungo le coste italiche, avrebbe avvicinato pericolosamente la minaccia punica al cuore del Tirreno e dell’egemonia territoriale romana, per cui con un ultimo, grandissimo, sforzo si armò un’altra flotta di 200 quinqueremi al comando del console Gaio Lutazio Catulo, che nel 241 alle isole Egadi riportò la vittoria definitiva. Amilcare, con i pieni poteri che gli erano stati conferiti dal senato cartaginese, avviò le trattative di pace dopo ventitré anni di guerra logorante. Ai cartaginesi fu imposto l’abbandono di tutta la Sicilia e delle isole poste tra questa e l’Italia, nonché il pagamento, dilazionati in dieci anni, di un’indennità di guerra di 3220 talenti euboici. L’effetto immediato della vittoria romana fu l’acquisizione del primo tassello dell’impero mediterraneo. Sopravvisse il regno del fedele Ierone II, protetto dall’alleanza con Roma; Messina entrò nel novero delle civitates foederatae, Panormo, Segesta, Alesa, Alicia e Centuripe furono dichiarate libere. Quanto al resto del territorio siciliano, è ancora opinione diffusa che abbia ricevuto una prima sistemazione “provinciale” già dall’autorità dei dieci legati senatorii. Nel 277 a.C. – anno al quale va dunque datata l’istituzione della provincia Sicilia – fu inviato a governare l’isola il primo pretore nella persona di Gaio Flaminio. A partire da questi anni l’abbondantissima produzione della Sicilia contribuì in maniera costante e spesso decisiva al rifornimento granario della città di Roma, dell’Italia e delle legioni impegnate sui fronti di battaglia oltremarini. Appendice della Prima punica si può considerare la conquista romana dell’altra grande isola del Mediterraneo, la Sardegna, perché Cartagine, ridotta allo stremo dalla recente sconfitta, non riuscì a domare la ribellione dei suoi mercenari, cui non aveva potuto corrispondere il soldo pattuito. Ne trasse profitto Roma per occupare la Sardegna, impresa che Polibio condanna come priva di reali giustificazioni politiche. Nonostante le prime ostilità contro Roma da parte della popolazione sardo- punica, la Sardegna era ormai divenuta, con la Corsica, saldo possesso romano e nel 227 a.C. ricevette anch’essa come la Sicilia il suo primo governatore provinciale. Durante la guerra annibalica, i moti ribellistici indigeni scoppiati dopo Canne furono facilmente domati nel 215 e poi tra 209 e 207, tanto che la Sardegna di lì a poco avrebbe fornito valido appoggio alla spedizione africana di Scipione. Fino alla prima metà del IV sec. a.C. l’esercito romano adotto la tattica oplitica – così chiamata da hoplon, grande scudi di tipo argivo, equivalente al clipeus romano, lo scudo rotondo – ereditata dagli etruschi, che a loro volta, l’avevano appresa dai greci. L’arma di offesa dell’oplita era la lancia e lo schieramento era la falange, con i soldati disposti su più file che sostenevano l’urto del nemico a ranghi serrati e su un campo necessariamente aperto. La guerra con i Sanniti, popolo appenninico abilissimo nella guerriglia in luoghi impervi e disagevoli, costrinse i romani a rivedere la propria tattica bellica e a convertirsi allo schieramento in manipoli, di cui parta dettagliatamente Livio. L’esercito era organizzato in legioni, che in origine erano due, prima della Seconda punica furono sei o otto, finché, dopo l’invasione annibalica dell’Italia furono 28. La legione era composta da trecento cavalieri e circa 5000 fanti, divisi in centurie (unità di cento uomini), che in numero di due formavano un manipolo. Livio ci parla di tre ordini di fanteria: il primo era quello degli hastati, giovani nel fiore dell’età riuniti in quindici manipoli. Seguivano i quindici manipoli dei principes, legionari in età più matura e dunque più esperti, provvisti di armi migliori. Il terzo scaglione era quello dei triarii, soldati di provata esperienza, seguiti da scaglioni di rorarii, legionari meno validi a causa dell’età, e di accensi, il corpo più debole, lasciato pertanto in ultima fila. I manipoli si disponevano a scacchiera, per cui se la prima fila cedeva sotto l’urto del nemico indietreggiava tra le file dei principes, i quali a loro volta, se messi in difficoltà andavano a riempire gli intervalli dei triarii. A questo punto i manipoli del terzo scaglione serravano i ranghi formando un impressionante schieramento infoltito da astati e principi, così che il nemico, fiducioso di avere messo in rotta l’esercito romano, vedeva insorgere una formazione ancor più numerosa e temibile, perché ormai priva di sostegno alle proprie spalle e dunque bramosa di caricare il nemico in forze. Si trattava sostanzialmente di un perfezionamento della falange, che soffriva di un’eccessiva rigidità, poiché non consentiva grande possibilità di manovra, costringendo la prima fila di soldati a subire sempre e comunque l’urto del nemico senza opportunità di cambio con i compagni retrostanti. Lo scudo rotondo viene sostituito con lo scutum rettangolare e la lunga asta da urto con il pilum, il giavellotto da lancio, mentre la spada diventa l’arma di offesa e difesa per eccellenza. guerra dei mercenari, in base alla quale i mercanti italici avrebbero rifornito sia i mercenari ribelli che i cartaginesi, tanto che Roma si vide costretta a riscattarne 500 caduti in mano punica durante incauti maneggi. Abbiamo visto la loro importanza nelle cause della prima guerra contro i pirati illirici. Considerando l’avversione senatoria al provvedimento nei termini riferiti da Livio un’esagerazione condizionata dalle polemiche successive sul luxus senatorio, si può interpretare la legge non tanto come finalizzata alla preservazione del mos, quanto piuttosto ala salvaguardia di quella fisionomia propriamente politica da cui l’ordo senatorius stesso traeva ragione di esistere: il commercio trans marino, con tutti i rischi che comportava, avrebbe interferito pesantemente con i compiti di governo senatori. La lex venne aggirata ricorrendo a dei prestanome, poiché difficilmente i senatori avrebbero trascurato favorevoli opportunità di arricchimento, senza contare che le loro aziende agricole producevano in sempre maggior quantità per un commercio ad ampio raggio. 4. La guerra annibalica Cartagine si riebbe molto presto dal disastro subito in occasione del primo conflitto con Roma. Quando Amilcare Barca si trasferì in Spagna col genero Asdrubale, e il figlio Annibale di nove anni, le intenzioni furono chiare: estendere il territorio sotto l’egemonia cartaginese dopo le gravi defalcazioni subite tra 241 e 237 e porre le base per una sorta di regno personale. Asdrubale fondò in Iberia Nuova Cartagine, dandole il nome della madrepatria, grande esponente della fazione progressista, aveva tentato di promuovere lo svecchiamento in senso democratico di alcune istituzioni cartaginesi, facendosi al contempo promotore di una politica fieramente nazionalistica e anti- romana. Asdrubale morì nel 221, lasciando a guida di quel piccolo impero cartaginese il cognato Annibale, il cui obiettivo era riprendere il conflitto con Roma. Approfittando della contesa sorta tra i Sagunti e una delle tribù soggette ai cartaginesi, nel 218 diede inizio all’assedio di Sagunto. Nel 226 era stato stipulato un accordo con Roma che fissava all’Ebro il limite alla sfera d’azione cartaginese nella penisola iberica, clausola che non chiudeva certo l’area a nord dell’Ebro alle attività economiche dei cartaginesi. È dubbio se prima o durante l’assedio la città iberica si fosse posta sotto la protezione romana. Di sicuro la dichiarazione di guerra da parte di Roma venne giustificata dalla presa e distruzione di Sagunto ad opera di Annibale dopo un assedio di otto mesi. La tradizione antica ribadì sempre la sostanziale responsabilità dei punici nello scoppio della guerra. Annibale, che dovette interpretare l’ingerenza romana negli affari punici di Spagna non meno grave e inopportuna di quella nelle cose di Sicilia, tosto comprese l’importanza di spostare il terreno del conflitto dalla penisola iberica all’Italia, dove avrebbe puntato allo smembramento della confederazione romano- italica. Nel 218 riuscì a sfuggire ai Romani che volevano intercettarlo, e, coi suoi soldati e i suoi elefanti, attraversò prima i Pirenei e poi, in un’epica impresa, le Alpi, giungendo in Italia. Qui ottenne, grazie all’appoggio delle popolazioni celtiche e delle tribù dell’Italia settentrionale una serie di vittorie, dal Ticino alla Trebbia al Trasimeno. Dopo le tre inaspettate sconfitte, i romani si risolsero alla nomina di un dittatore, nella persona di Quinto Fabio Massimo. Annibale intanto, giunto sull’Adriatico scese verso la Daunia, lasciandosi dietro rovine e saccheggi. Fabio si era attestato in Apulia, ai confini col Sannio, evitando sempre lo scontro frontale per la nota strategia della guerra di logoramento, che gli valse il soprannome di Cunctator (“Temporeggiatore”) e che stava però suscitando sempre più malcontento, specie tra le comunità vittime delle devastazioni cartaginesi. La situazione non migliorò sotto i consoli dell’anno successivo, L. Emilio Paolo e G. Terenzio Varrone. L’anno 216 a.C. fu quello del disastro di Canne. Quando si venne a battaglia, il risultato fu una disfatta senza precedenti: rimasero sul campo 60.000 romani tra cui 80 senatori, 12.000 furono i prigionieri. Il territorio italico era stato violato e devastato dagli eserciti nemici, l’esercito quasi annientato, la classe dirigente romana falcidiata: la res publica era in ginocchio e tuttavia Annibale, commettendo un imperdonabile errore, si rifiutò di marciare su Roma, preferendo ripiegare su Capua. Abbandonando l’antica alleanza con Roma, la città gli si arrese. La battagli di Canne sembrò dare il via ad una sollevazione generale dell’Italia contro l’Urbe: con un rovinoso effetto-domino, defezionarono Apuli, Brettii, Sanniti, le città di Taranto, Eraclea, Thurii e Metamponto; in Sicilia pure Siracusa, dopo la morte di Ierone e l’ascesa di Ieronimo, abbandonò l’alleanza romana. Nel 215 Annibale siglò un trattato con Filippo V di Macedonia, coinvolgendo così l’area balcanica nella sua guerra contro Roma, un atto al quale quest’ultima rispose con un’alleanza con gli Etoli, nemici in Grecia del sovrano macedone. Fortunatamente la cd. “prima guerra macedonica” si concluse in modo incruento nel 205 con la pace di Fenice, che confermava il protettorato romani in Illiria, sancendo di fatto lo status quo. Nel 215 Roma fu in grado, nonostante le gravi disfatte subite, di arruolare quattordici legioni, numero destinato a crescere in modo esponenziale fino al 207, quando si giunse a ben ventitré legioni, dati questi che confermano il grande potenziale demografico su cui Roma poteva contare. Dal 214 in poi, tutti gli sforzi dei generali romani furono volti alla riconquista dell’Italia che aveva defezionato a favore di Annibale: nel 211 fu espugnata Capua e nel 209 Taranto. È risaputo che tra le “eredità” lasciate da Annibale in Italia, va annoverato anche l’enorme ampliamento dell’ager publicus, in quanto i popoli e le città che avevano defezionato ebbero confiscati i propri territori: è quanto accade a Brettii e Lucani, esclusi dal reclutamento legionario se non per servire alle mansioni più umili. In Campania si formò in questo torno di tempo il ricchissimo ager campanus, l’agro pubblico più ambito da senatori e cavalieri, l’area peninsulare dove meglio si sviluppò il sistema della villa schiavistica votata alle colture di piantagione. Nel 209 dodici fra le trenta colonie latine si dichiararono a corto di mezzi e di uomini per far fronte alle richieste dei consoli, le colonie “infedeli” furono in seguito severamente punite con un appesantimento dei loro obblighi. Gli stessi anni videro pure la fine dell’indipendenza, anche formale, della Sicilia greca, dopo che Claudio Marcello, a conclusione di un assedio durato tre anni, riuscì ad espugnare Siracusa, che, morto Ierone II, aveva finito col ribellarsi. Il console abbandonò la città a un pesante saccheggio, durante il quale perse la vita lo scienziato Archimede. Anche Agrigento cadde per mano di M. Valerio Levino. La guerra sul fronte iberico, condotta abilmente dagli Scipioni – dal 209 dal giovanissimo futuro Africano – diede i suoi frutti con la presa di Nuova Cartagine e la battaglia di Ilipa, due eventi che valsero a consegnare questi territori ai romani. L’arrivo in Italia di Asdrubale, sfuggito al controllo di Scipione, non servì a mutare le sorti della guerra a favore dei cartaginesi, poiché il fratello di Annibale venne vinto e ucciso sul Metauro. L’ultima fase della guerra è senz’altro dominata dalla grande figura di P. Cornelio Scipione, che dal 210 si era distinto nelle operazioni in Spagna in qualità di proconsole, mettendo fine all’impero personale dei Barcidi e fondando Italica, prima colonia romana in Spagna. Scipione che già in Spagna progettava il trasferimento della guerra in suolo africano, a tal proposito dovette scontrarsi duramente con il senato, restio a chiedere nuovi sacrifici ai socii italici e ad allontanare uomini e mezzi dall’Italia finché Annibale fosse rimasto nella Penisola. L’appello ai comizi servì a Scipione a strappare l’assenso al senato, che gli conferì il comando di due legioni di stanza in Sicilia. Sbarcato a Utica e forte dell’alleanza di Massinissa, Scipione ottiene una prima vittoria, cosa che induce i cartaginesi a richiamare in tutta fretta Annibale dall’Italia. L’arrivo in Africa del condottiero punico manda a monte i negoziati di pace che intanto erano stati avviati tra il senato e la città di Cartagine. Lo scontro risolutivo si svolse nel 202 a Zama, dove un ruolo di primo piano venne svolto dalla cavalleria che accerchiò le forze nemiche, quasi annientandole. Decisive furono le intuizioni di Scipione, che abilmente aveva saputo adeguare l’esercito romano alle novità tattiche e strategiche su cui Annibale aveva costruito le sue vittorie. Dopo una sconfitta di tali proporzioni, lo stesso generale cartaginese esortò il senato cartaginese a chiedere la pace. Fu imposta a Cartagine la consegna di tutte le navi da guerra fuorché dieci, e di tutti gli elefanti, il pagamento di un’indennità di 10.000 talenti in cinquant’anni e il divieto di condurre una politica estera autonoma, poiché ogni guerra dichiarata da Cartagine non poteva farsi se non con il preventivo consenso di Roma. Catturato Siface, il regno di Numidia venne consegnato nella sua interessa al prezioso alleato Massinissa, che da quel momento avrebbe assunto il compito di controllare in Africa eventuali spinte espansionistiche di Cartagine. Emerge in quest’occasione la tendenza di Roma ad appoggiarsi a “re clienti” per controllare aree lontane e poco conosciute sotto varie specie, dove i vuoti di potere avrebbero più danneggiato ce avvantaggiato la res publica, caricandola di pesi amministrativi che in questa fase non sarebbe stata in grado di sostenere con adeguata efficienza. Dall’età di Polibio fino ai pensatori del XVIII sec. e agli storici contemporanei non si è mai smesso di discutere sulle forme e le ragioni della presunta ideologia imperialistica di Roma, se alla base di ogni sforzo bellico dell’Urbe o se, al contrario, i romani si siano mobilitati ad intraprendere, quasi controvoglia, guerre difensive, limitandosi a basare le proprie relazioni internazionali su rapporti di “clientela”. Di “imperialismo premeditato” hanno parlato quegli storici che hanno considerato il Mediterraneo antico una sorta di scacchiera su cui Roma giocò una partita vincente, conquistando prima l’Italia, poi le grandi isole del Mediterraneo, il bacino occidentale di questo mare e poi quello orientale. Non è possibile negare la marcata propensione alla guerra dimostrata da Roma pressoché in ogni occasione, congiunta ad una abilità diplomatica notevole. La figura di Annibale giganteggiò per più di quindici anni sul suolo peninsulare, suscitando ammirazione e panico e imprimendo un’impronta indelebile al lungo conflitto, che non a caso è altrimenti noto come “guerra annibalica”. Nell’ultima tranche di guerra, emerge e s’impone Publio Cornelio Scipione che finì per diventare nell’immaginario l’unico vincitore della Seconda punica. Con Scipione, il primo a portare un cognomen ex virtute – Africanus – legato alla vittoria su una natio esterna all’Italia (il primo di tali cognomina di cui si è a conoscenza, Messalla, scaturì dalla conquista di una singola città), si profila e prende corpo il carismatico potere personalistico gravido di funeste conseguenze per il futuro della repubblica, del grande generale, del personaggio risolutivo cui affidarsi quando tutto sembra perduto. Il senato si rivelò degno di essere stabile organo di governo per la res publica, in grado di coordinare con decisioni sagge e accorte le operazioni su diversi teatri di guerra, acquisendo così un immenso prestigio e diventando un’assemblea di ex magistrati, poiché la nuova lectio senatus dopo Canne avvenne prima tra gli ex magistrati curuli e poi tra gli ex edili, ex tribuni ed ex questori. Nel periodo post-annibalico vi fu l’autentico momento di svolta delle strutture socio-economiche. A seguito di queste vicende si sarebbe profilata la rovina del ceto rurale italico, le cui attività produttive si basavano sulla piccola proprietà, disagi e situazioni che, annunciatisi alla fine del III sec., sarebbero riemersi con drammatica urgenza al tempo della crisi graccana. In età post-annibalica infatti si situa tradizionalmente il processo di concentrazione fondiaria in mano a pochi ricchi e che riguardò soprattutto le fertili terre dell’Italia centro-meridionale, specie la Campania, con i suoi 60.000 ettari di agro pubblico, teoricamente disponibile allo sfruttamento di tutti i cittadini romani, di fatto oggetto di possesso (spesso abusivo) da parte di potenti senatori. Di contro, il piccolo contadino proprietario, sradicato per lunghi anni dal lavoro sulla propria terra, ritornato, dopo un diuturno servizio militare, al suo campo devastato o incamerato da un vicino più ricco e potente, era il perdente predestinato di questa guerra. L’inurbamento e la conseguente proletarizzazione di moltissimi rappresentanti di questo ceto contadino rovinato, avrebbero affollato Roma di una massa di diseredati, un’infima plebs pronta ad essere faziosamente manovrata. alleati greci, tranne gli Etoli. Il re spartano rappresentava una spina nel fianco per il dominio acheo del Peloponneso; durante la seconda guerra macedonica, Filippo V gli aveva ceduto Argo, che non aveva voluto seguire la decisione della Lega achea di passare dalla parte dei Romani, e lui si era affrettato a farsene riconoscere il possesso da Flaminino, tradendo Filippo e siglando una tregua con gli Achei. Alla fine della guerra, nel 195/194, a Nabile s’impose di abbandonare Argo e le città costiere della Laconia; ma la soluzione negoziata del conflitto, che lasciava Sparta nelle mani del “tiranno”, non soddisfaceva gli Achei. Nell’inverno 195/194, Flaminino intervenne negli affari interni delle città greche, sforzandosi di sottrarne il controllo ai gruppi dirigenti filo-macedoni anche attraverso l’imposizione di misure timocratiche. Nella primavera del 194, poi, ritirate le guarnigioni che ancora occupavano l’Acrocorinto, Demetriade e Calcide, ricondusse l’esercito in Italia. Verso la guerra contro Antioco III e gli Etoli Con lo spettacolare abbandono della Grecia, Flaminino proclamava il generoso disinteresse dell’intervento contro Filippo V. Gli Etoli individuarono in Antioco III il possibile vero liberatore dei Greci. Nella primavera del 197 Antioco III muoveva alla riconquista dell’Asia Minore. I Rodii, temendo che intendesse prestare soccorso al suo antico alleato Filippo V, gli avrebbero imposto di non superare capo Chelidonio; all’arrivo della notizia della vittoria romana nella battaglia di Cinoscefale, trovarono un accordo con Antioco. Antioco perseguiva il programma della riconquista: rivendicava la legittimità della sua aspirazione a riportare i confini del regno ai limiti toccati con la vittoria di Seleuco su Lisimaco, nel 281 a.C., e negava ai romani il diritto di intromettersi negli affari dell’Asia. Alle rivendicazioni di Antioco, i Romani contrapponevano una loro geografia che considerava il passaggio del re in Europa una diretta minaccia nei loro confronti; e si ritenevano legittimati ad assumere il patrocinio delle città che non volevano sottomettersi al re. Non sarebbe stato quindi facile raggiungere un compromesso. Al precipitare degli eventi avrebbe contribuito anche l’esilio di Annibale, rifugiatosi presso Antioco dopo essere stato costretto ad abbandonare Cartagine per il timore che i suoi avversari interni lo consegnassero ai Romani. Ad Annibale, la tradizione attribuisce piani grandiosi. Se Antioco gli avesse fornito una flotta, lui avrebbe provveduto dapprima a procurargli l’alleanza di Cartagine, e poi a portare di nuovo la guerra in Italia, sollevando le popolazioni della penisola contro i Romani. Inoltre, Annibale avrebbe esortato Antioco a fare ogni possibile sforzo per attirare dalla sua parte Filippo V. Almeno in una prima fase, anche gli Etoli avevano vagheggiato una vasta coalizione antiromana, con Antioco, Filippo V e Nabide di Sparta. Il progetto, tuttavia, si rivelò irrealizzabile: troppo accesi, e troppo recenti, erano gli odi e i risentimenti che contrapponevano i potenziali alleati; e i loro obiettivi risultavano inconciliabili, in quanto nessuno era disposto a rinunciare alle proprie ambizioni egemoniche a favore degli alleati. A Filippo, Antioco III avrebbe offerto tremila talenti e cinquanta navi da guerra, oltre alla restituzione di tutte le città greche che aveva occupato in precedenza; ma il re macedone non se ne fidò. A spingere Filippo V tra le braccia dei Romani contribuì anche l’adesione di Aminandro d’Atamania alla coalizione a guida seleucide, e la promessa del regno di Macedonia a suo cognato, che si proclamava discendente da Alessandro. La guerra contro Antioco e gli Etoli Nell’autunno del 192, Antioco sbarcò a Demetriade, che gli Etoli avevano tratto dalla loro parte approfittando del fondato timore di parte della popolazione che i Romani avessero intenzione di riconsegnare la città a Filippo. A Sparta, ad approfittare dell’omicidio di Nabide da parte dell’etolo Alessameno era stato l’acheo Filopemene, che aveva ottenuto l’adesione della città alla Lega achea. La scarsità delle truppe seleucidi non favorì l’adesione dei Greci, che in generale accolsero con prudenza e freddezza gli appelli del re e degli Etoli. Antioco, conquistata finalmente Calcide, vi passò l’inverno; nella primavera del 191, occupato il passo delle Termopile, fu messo in fuga dalle truppe del console Manio Acilio Glabrione, e il re tornò precipitosamente in Asia. La guerra si sdoppiò; ma ai Romani interessava portare il colpo decisivo contro Antioco. Così nel 190, il console Lucio Cornelio Scipione, accompagnato da suo fratello Publio (l’Africano, il vincitore di Annibale) in qualità di legato, concesse una tregua agli Etoli e mosse verso l’Asia. Poté attraversare la Macedonia e la Tracia grazie alla collaborazione di Filippo V, che comportandosi da buon alleato sperava di vedersi riconosciute dal senato le conquiste realizzate in Grecia ai danni degli Etoli. Nel frattempo, le vittorie navali riportate a Corico, quindi a Mionneso, avevano consegnato il dominio del mare alla flotta romana, con gli alleati rodii e pergameni. Ai romani, sbarcati in Asia senza incontrare resistenza, il re presentò un’offerta di pace che fu considerata però tardiva e insufficiente. La battaglia decisiva si svolse presso Magnesia del Sipilo, e vide la disfatta delle truppe seleucidi. La pace con Antioco e la guerra contro i Galati Ad Antioco si impose di abbandonare l’Europa e tutta l’Asia a nord del Tauro, di farsi carico interamente delle spese di guerra, e di consegnare ai Romani l’odiato Annibale e alcuni leader greci che avevano seguito Antioco stesso in Asia. A Lucio Cornelio Scipione era subentrato il console del 189, Gneo Manlio Vulsone. Giunto in Asia, Vulsone cercò la gloria militare e il bottino cui aspirava ogni generale romano in una spedizione contro i Galati. Nella primavera del 188, ad Apamea, assieme a dieci legati inviati dal senato, concluse la pace con Antioco. L’Asia minore nord-occidentale (a nord del Tauro), sgombrata dal re seleucide, fu concessa ad Eumene di Pergamo; solo la Licia e la Caria andarono ai Rodii. Antioco dovette consegnare gli elefanti che avevano combattuto a Magnesia, che furono donati ad Eumene; inoltre, furono imposti limiti all’entità della flotta da guerra seleucide. Il ritorno in Europa di Vulsone fu funestato dagli attacchi dei Traci, che gli sottrassero parte dell’ingente bottino accumulato in Asia. Rientrato a Roma, fu accusato di aver tentato di costringere Antioco a riprendere le ostilità, e di aver mosso guerra ai Galati di propria iniziativa, senza la necessaria autorizzazione del senato e del popolo; si difese affermando che i Galati avevano combattuto con Antioco nella battaglia di Magnesia, e costituivano per le città greche d’Asia Minore una minaccia assai più grave del re seleucide, e ottenne l’onore del trionfo. La pace gli Etoli In Grecia, intanto, le trattative di pace con gli Etoli procedevano fra mille difficoltà. La pace fu raggiunta solo nel 189, con la resa di Ambracia, assediata dal console Marco Fulvio Nobiliore, e la mediazione di Ateniesi e Rodii, in senato, a favore degli Etoli stremati. Il trattato obbligava gli Etoli a riconoscere il dominio romano; inoltre, dovettero rinunciare a città e territori passati ai romani dopo il 192, consegnare disertori, schiavi fuggitivi e prigionieri, e pagare immediatamente duecento talenti. A garanzia degli impegni presi, fornirono quaranta ostaggi. Anche l’azione di Fulvio Nobiliore fu contestata in senato. D’intesa con gli ambasciatori d’Ambracia, il suo rivale Marco Emilio Lepido, console del 187 a.C., riuscì a far approvare un senatus consultum che ordinava la restituzione alla città di tutti i suoi beni. Alla fine, tuttavia, anch’egli ottenne il trionfo. Gli ultimi anni di Filippo V A Filippo V, l’alleanza con i Romani contro Antioco e gli Etoli era valsa la restituzione del figlio Demetrio, trattenuto in ostaggio a Roma a garanzia degli impegni presi con la pace. Inoltre, aveva recuperato Demetriade, aveva potuto strappare agli Etoli alcune città della Tessaglia. Tuttavia gli era stato impedito di impadronirsi di Lamia, e soprattutto lamentava ancora di non aver potuto punire la defezione dell’Orestide. Si era anche impadronito di Eno e Maronea, in Tracia, e aveva intrapreso una vigorosa politica volta ad aumentare le risorse economiche e demografiche del regno, che Polibio e Livio interpretavano come preparativi in vista della ripresa della guerra. A partire dal 185, il senato prestò ascolto benevolmente alle ambascerie di Tessali, Perrebi ed Atamani, venuti a lamentarsi del dominio di Filippo. Al re fu imposto di liberare le città rivendicate dai suoi rivali, e di ritirare i presidii dalle città di Tracia. I rapporti si deteriorarono ulteriormente quando a Filippo venne imputato il massacro dei capi della fazione filo pergamena di Maronea; in sua difesa, il re inviò a Roma il figlio Demetrio, sperando che i legami che aveva allacciato durante il periodo in cui vi era stato ostaggio potessero tornare utili al regno. Nel 183, in senato, il principe dovette affrontare una pioggia di accuse: tutti i vicini della Macedonia intendevano sfruttare a proprio vantaggio l’ostilità romana nei confronti di Filippo. Solo grazie a Demetrio, e alla sua amicizia verso il popolo romano, Filippo aveva ottenuto l’indulgenza. Al ritorno di Demetrio, il favore dei Romani nei suoi confronti ne face il punto di riferimento per quanto caldeggiavano una politica d’intesa con Roma, e gli attirò l’ostilità del fratello Perseo, erede delle tradizionali aspirazioni della dinastia a un’autonomia politica. Le classi dirigenti si dividevano ormai fra i difensori dell’indipendenza e i più realistici sostenitori della necessità dell’obbedienza al senato. Nel 180, il re dovette decidersi, e mise a morte Demetrio. Un anno più tardi, alla sua morte, fu Perseo a succedergli. Perseo e la terza guerra di Macedonia Il nuovo re macedone ottenne il riconoscimento del senato, ma vi era un’ostilità destinata presto ad emergere. L’acheo Callicrate, leader del gruppo dirigente filo romano, nel 174 indusse prudentemente i suoi connazionali a respingere la proposta di Perseo di riallacciare le relazioni diplomatiche con la Macedonia. Perseo aveva adottato misure improntate alla riconciliazione sia all’interno della Macedonia, sia nei rapporti internazionali, ottenendo fra l’altro la riammissione dei Macedoni nell’Anfizionia delfica e sforzandosi di instaurare rapporti amichevoli con i Greci. In senato, nel 172 a.C., Eumene rimproverò a Filippo V l’omicidio del figlio Demetrio, contrario alla ripresa della guerra contro i romani, e l’alleanza con i Bastarni, con l’aiuto dei quali avrebbe inteso perfino invadere l’Italia; e Perseo, affermò, aveva ereditato la guerra preparata dal padre. Il regno aveva accumulato risorse finanziarie e demografiche; il nuovo re era temuto e rispettato, e nel mondo greco godeva di una popolarità alimentata dall’ostilità ai Romani. In Tessaglia e Perrebia aveva tratto dalla sua i debitori, per assumere grazie a loro il controllo delle due regioni; l’inerzia del senato gli avrebbe permesso di preparare indisturbato lo sbarco in Italia. L’ambasceria di Eumene, il cui contenuto sarebbe stato mantenuto segreto, suscitò i sospetti non solo di Perseo, ma anche dei Rodii, che temevano di essere stati accomunati ai Macedoni nelle accuse del re di Pergamo. Anch’essi, infatti, avevano riannodato le relazioni con Perseo, scortandone in Macedonia con la flotta la promessa sposa Laodice, figlia di Seleuco IV. Sulla via del ritorno, a Delfi, Eumene rimase ferito in un attentato, la cui responsabilità fu naturalmente attribuita a Perseo. Ormai deciso alla guerra, il senato inviò una legazione ad assicurarsi il favore dei Greci. Con un’astuzia disapprovata dai senatori più all’antica, per prendere tempo e completare i preparativi di guerra Marcio Filippo concesse a Perseo di inviare una vana ambasceria a Roma. Il timore delle armi romane facilità l’azione diplomatica di Marcio Filippo, che indusse le città di Boezia a rinnegare il trattato con Perseo. L’inattesa vittoria della cavalleria macedone nel primo scontro, presso Larissa, in Tesaglia, suscitò tra i Greci spontanee manifestazioni di entusiasmo; tuttavia, nessuno passò dalla parte di Perseo. Dalla sconfitta di Annibale alla terza guerra punica e alla distruzione di Cartagine In Africa, il trattato di pace che concluse la guerra annibalica concedeva ai Cartaginesi di mantenere il controllo sulle città e i territori posseduti prima della guerra; imponeva loro di restituire a Massinisa, re di Numidia, tutte le città e i territori già appartenuti ai suoi antenati. A Cartagine, inoltre, era stato fatto divieto di muovere guerra in Africa senza preventiva autorizzazione romana. Massinissa tentò di approfittare dell’ambigua definizione dei confini, della paralisi militare imposta ai suoi rivali e del favore del senato. Annibale, eletto nel 196 alla più alta magistratura della città, intraprese un programma di democratizzazione delle istituzioni; combatté con vigore il peculato e gli arricchimenti illeciti dei magistrati e dei membri della classe dirigente, attirandosene l’ostilità. Per liberarsene, i suoi nemici fecero appello a quei senatori romani con i quali intrattenevano rapporti, accusando Annibale di aver stabilito segreti contatti con Antioco III, in funzione antiromana. In questo modo, ottennero l’invio di una legazione senatoria, che giunta a Cartagine avrebbe dovuto imporre la condanna o la consegna di Annibale; tuttavia, per non suscitare sospetti, come scopo ufficiale della missione i legati avrebbero dichiarato la volontà di fare da mediatori fra Cartagine e Massinissa. Nel 193, l’ambasceria cartaginese inviata in senato per denunciare i progetti di Annibale, che d’intesa con Antioco aveva inviato a Cartagine un certo Aristone di Tiro, con il compito di preparare l’adesione della città alla guerra antiromana, doveva anche lamentare le provocazioni di Massinissa. Ottenne l’invio di una legazione romana in Africa, di cui faceva parte lo stesso Scipione Africano; i legati però non presero alcuna decisione, aderendo di fatto alla richiesta di non ingerenza presentata in senato dai rappresentanti del re. I Cartaginesi cercarono di contendere a Massinisa il favore del senato. Al tempo della guerra contro Antioco III, offrirono in dono il grano che i Romani avevano chiesto di poter acquistare per l’esercito; proposero di armare a proprie spese una flotta, e di pagare immediatamente tutte le rate residue della pesante indennità di guerra. Tutte le loro offerte furono pesantemente respinte dal senato, che mostrò di non essere disposto a contrarre obblighi di riconoscenza a Cartagine, mentre sembrerebbe aver accettato i contingenti militari offerti da Massinissa. Massinissa, prima del conflitto, ovvero la terza guerra di Macedonia, non si era lasciato sfuggire di accusare i Cartaginesi di intrattenere segrete relazioni con Perseo. Parallelamente all’azione diplomatica, continuava l’avanzata militare sul territorio conteso; nel 172, un’ambasceria cartaginese supplicò il senato di volervi porre fine, in risposta ottenne solenni dichiarazioni di imparzialità. Nel 151, a Cartagine presero il sopravvento i fautori di una linea politica più decisa nella difesa dell’autonomia. Nell’inverno 151-150 un esercito cartaginese, agli ordini di Asdrubale, mosse contro Massinissa. Si trattava di un’aperta violazione delle clausole militari del trattato di pace con Roma. La sconfitta di Asdrubale, che perse la maggior parte dei suoi uomini prima di arrendersi, risvegliò il timore della reazione romana. Asdrubale e gli altri responsabili della sciagurata campagna militare furono rapidamente condannati a morte. Un’ambasceria inviata in senato per giustificarsi ricevette risposte oscure e minacciose. Nel 149, a Cartagine giunse la notizia della deditio in fidem di Utica; rimessasi alla sovranità romana, la città avrebbe potuto fornire una base da cui condurre le operazioni di guerra. La guerra era già stata decisa, e le legioni erano in viaggio per l’Africa; per evitare il peggio, gli ambasciatori si videro costretti anch’essi alla deditio in fidem. Il senato li lodò per la loro saggia decisione e concesse loro libertà ed autonomia. Contemporaneamente, tuttavia, si impose loro di inviare a Lilibeo in ostaggio trecento giovani, scelti naturalmente tra i figli dei cittadini più eminenti, e di obbedire agli ordini dei consoli. Quindi si procedette alla scelta degli ostaggi, che partirono per la Sicilia. All’approdo dei consoli a Utica, gli ambasciatori inviati da Cartagine ricevettero nuovi elogi per la decisione presa e l’ordine di consegnare tutte le armi. I cartaginesi si piegarono anche a questa nuova imposizione. Solo a questo punto, i consoli svelarono l’ordine del senato di distruggere la città di Cartagine, per ricostruirla nell’interno, a dieci miglia dal mare. Al ritorno in città gli ambasciatori cartaginesi dovettero affrontare l’ira dei loro concittadini, che sfogarono la propria rabbia sugli Italici presenti in città. Disperati ma decisi a resistere, i Cartaginesi adottarono le misure estreme cui le città erano solite ricorrere nelle circostanze più drammatiche, a partire dalla liberazione degli schiavi; si affrettarono ad annullare la condanna a morte di Asdrubale, e gli conferirono ufficialmente il comando di 20.000 uomini; la città fu trasformata in un’officina, tutte le energie della popolazione furono indirizzate alla fabbricazione delle armi. L’accanita resistenza dei Cartaginesi si protrasse fino al 146. fu Scipione Emiliano a conquistare Cartagine. La popolazione fu ridotta in schiavitù, la città saccheggiata e distrutta, secondo la volontà del senato. Il territorio di Cartagine fu trasformato nella provincia d’Africa. Le guerre nella penisola iberica fino alla distruzione di Numanzia La riduzione a provincia della penisola iberica è attribuita a Scipione Africano, che abbandonò la regione nel 206 aC., dopo averne scacciato i Cartaginesi; a partire dal 197, poi, il numero dei pretori fu elevato a sei, per destinarne due alle province spagnole, Hispania citerior ed Hispania ulterior. L’affermazione del dominio romano sulle popolazioni indigene richiese un impegno militare tenace, protrattosi per decenni. Una prima rivolta dovette essere repressa già poco dopo la partenza di Scipione. Altre ne seguirono, e mentre le ostilità si riaccendevano di continuo, i generali romani, avidi di gloria e di bottino, estendevano il conflitto a gruppi etnici sempre nuovi. La ricostruzione delle campagne militari condotte in Spagna nel corso del II sec. è ostacolata dalla difficoltà di identificare e riportare sulla carta geografica i nomi di luoghi e popoli antichi. Nel primo terzo del sec., una particolare importanza sembra aver rivestito la campagna di Catone, nel 195 a.C., ma è sintomatico anche che non sia possibile né determinare con certezza l’area di azione del console, né cogliere con precisione la natura delle misure prese intorno allo sfruttamento delle risorse della provincia. Fra 180 e 178 a.C., il comando di Tiberio Sempronio Gracco sembra aver portato a una più precisa definizione delle condizioni imposte ai Celtiberi vinti. I conflitti militari si riducono significativamente, iniziano a incanalarsi le vie della diplomazia. Nel 171 si ha notizia dell’invio di ambasciatori in senato da parte di più popoli di entrambe le province spagnole, che lamentavano l’arroganza e l’avidità dei magistrati. Ai provinciali fu consentito di procedere contro solo tre governatori, di cui uno fu assolto, e gli altri si recarono volontariamente in esilio. Per il futuro il senato avrebbe preso misure concrete per limitare gli abusi. Le ostilità ripresero su vasta a partire dal 154, contro i Lusitani e i Celtiberi. Marco Aurelio Marcello riuscì a sedare una pericolosa rivolta dei Celtiberi, ne ottenne la deditio in fidem e li lasciò liberi. Lucio Licinio Lucullo attaccò i Vaccei, senza autorizzazione del senato. L’anno successivo raggiunse il non meno avido Servio Sulpicio Galba e si macchiarono di un altro massacro contro i Lusitani. A Roma, Galba si sottrasse scandalosamente alla punizione per questo atto di perfidia. Scampato al massacro di Galba, Viriato riportò le sue prime vittorie sugli eserciti romani nel 147. Nel 140, venne stipulato un trattato di pace che i Romani non rispettarono. A concludere la guerra fu Scipione Emiliano, al quale nel 133, al termine di un assedio durissimo, i Numantini si arresero. Molti di loro si uccisero per sfuggire alla schiavitù. La città fu distrutta su iniziativa di Scipione. Le guerre contro i Galli e i Liguri Nell’Italia settentrionale, le popolazioni celtiche avevano accolto con entusiasmo l’opportunità offerta da Annibale di tentare di scrollarsi di dosso il dominio romano. La seconda guerra punica era arrivata proprio nel momento in cui la fondazione delle colonie latine di Piacenza e Cremona, nel 218 a.C., non solo contribuiva al consolidamento dei risultati della poderosa espansione romana ma minacciava anche di poter fornire le basi per una sua ulteriore estensione. Nel 200, Piacenza e Cremona vengono attaccate da una coalizione di Insubri, Cenomani, Boi e Liguri, guidati da Amilcare. Piacenza fu data alle fiamme; a Cremona, però, il pretore accorso in difesa della città assediata, avrebbe riportato una splendida vittoria. Negli anni successivi, i Romani ripresero la pressione contro i Cenomani, Insubri e Boi, e iniziarono a punteggiare di colonie la pianura padana. A nord del Po, Insubri e Cenomani sembrano aver ottenuto dei trattati, in forza dei quali poterono mantenere la loro identità etnica e il controllo dei territori; a sud del fiume, di Boi e Senoni spariscono le tracce, tanto che sembra legittimo pensare a una completa espulsione, una sorta di atroce pulizia etnica. Altrimenti si dovrebbe ipotizzare una rapida e completa integrazione, quasi un annullamento, delle comunità indigene nel nuovo quadro creato dalla conquista romana. Spesso le guerre liguri si erano fuse con quelle galliche. I Liguri seppero resistere più a lungo, anche grazie alla natura prevalentemente montuosa del territorio. Più di una volta, si ritenne necessario deportare i Liguri vinti: ricevuta la resa degli Apuani, nel 180, i consoli non videro altro mezzo per porre fine alle ostilità che trasferirli dai loro monti in terre pianeggianti tanto lontane da privarli di ogni speranza di ritorno: la scelta cadde su una zona del Sannio. Anche le guerre contro i Liguri, come quelle della penisola iberica, conobbero episodi di spietata crudeltà, che il senato finì per condannare: è il caso della riduzione in schiavitù degli Statellati, arresisi dopo una sconfitta riportata dal console del 173 Marco Popilio, che poi li attaccò ancora e ne uccise seimila, molte migliaia di Liguri ingiustamente venduti in schiavitù sarebbero stati liberati, ottenendo terre al di là del Po. Anche fra i Liguri la conquista fu consolidata con la deduzione di colonie. Al nuovo assetto del territorio contribuì anche la via Postumia, tracciata dal console del 148, che le diede il suo nome; andava da Genova ad Aquileia, attraversando tutta la pianura Padana, e favoriva le comunicazioni fra Piacenza, Cremona ed Aquileia, la si è definita “una strada per la romanizzazione”. Capitolo II: Economia e Società A) Trasformazioni economiche e sociali in Italia e nel mondo mediterraneo Il primo libro delle Guerre civili di Appiano e la biografia plutarchea di Tiberio e Gaio Gracchi narrano i tribunati di Tiberio (133 a.C.) e di suo fratello Gaio Sempronio Gracco (123 e 122 a.C.), questi ci permettono di dar conto di un problema: il tema delle trasformazioni demografiche, economiche e sociali verificatesi in Italia e nel mondo mediterraneo a seguito dell’impatto della conquista romana. La legge agraria di Tiberio Gracco Tiberio Sempronio Gracco, figlio dell’omonimo console, e di Cornelia, una figlia di Scipione Africano, fu eletto tribuno della plebe per il 133 ed entrò in carica il 10 dicembre del 134. all’approvvigionamento di grano avrebbero provveduto ormai le province, con le varie forme di prelievo alle quali erano soggette. Le esigenze del servizio militare (che poteva protrarsi per anni), avrebbero strappato i contadini soldati ai loro poderi; le famiglie, rimaste sulla terra, non sarebbero più state in grado di mantenerne il possesso; ne avrebbero approfittato i ceti proprietari. I profitti delle guerre di conquista e l’enorme disponibilità di manodopera a buon mercato che ne derivava avrebbero messo i più ricchi in condizione di impiantare grandi proprietà coltivate dagli schiavi. La villa produceva per la commercializzazione; era importante così una posizione che le consentisse il facile accesso ai mercati, grazie alla vicinanza a una città, a una strada o meglio ancora al mare o a un fiume navigabile. Nei pressi di Roma, poi, enormi profitti sarebbero derivati anche dall’allevamento di uccelli, pesci pregiati e selvaggina. Secondo le fonti archeologiche, si può trarre indicazione della persistenza, persino nelle immediate vicinanze di Roma, di una densa popolazione rurale insediata in unità produttive che disponevano di appezzamenti assai ridotti. Da ciò si è arrivato ad affermare un rapporto di necessaria integrazione tra le villae e della piccola proprietà. Da Plutarco e Appiano, con tutti i loro limiti, potevano attingere alle fonti contemporanee, e leggervi gli argomenti dei gracchi e dei loro oppositori. È legittimo affermare che almeno la percezione di una crisi della piccola proprietà era largamente diffusa. La manodopera schiavile Innegabile è la rilevanza dell’afflusso di manodopera schiavile. Accanto alle guerra di conquista, ad alimentare il mercato della manodopera contribuivano anche altre fonti di approvvigionamento: la più rilevante sembrano essere state le razzie di uomini che colpivano i villaggi rurali della Siria o delle regioni interne dell’Asia Minore. A rifornire di merce umana il mercato di Delo dovevano essere in primo luogo i pirati cilici, che traevano enormi profitti dalla vendita delle vittime delle loro scorrerie, le popolazioni libere dei villaggi agricoli dell’interno, Frigia, Lidia e Caria. Minore, almeno in quest’epoca, sembra essere stato il ruolo della riproduzione degli schiavi, dell’abbandono dei neonati e della schiavitù per debiti. Il destino degli schiavi era tutt’altro che uniforme. La sorte peggiore sembra essere quella di quanti venivano sfruttati fino alla morte nella miniere; assai dure potevano essere anche le condizioni di vita degli schiavi impiegati nell’agricoltura; ma a più stretto contatto con il padrone, alcuni schiavi potevano guadagnarsene la fiducia, vedersi affidare mansioni redditizie, ed ottenere la libertà. I commerci Il commercio marittimo, che sembra aver vissuto intorno alla metà del II sec. a.C. una fase di straordinaria intensificazione, contribuì alla diffusione dei prodotti dell’agricoltura italiana, vino e olio d’oliva in primis. Le anfore consentono di seguire l’espansione del vino prodotto nell’Italia tirrenica: a partire dal II sec. a.C., il vino italiano invade i mercati occidentali, penetrando in Gallia e nell’Occidente mediterraneo. Altri contenitori e altri mercati, caratterizzano il vino delle regioni adriatiche, che raggiungeva la Gallia cisalpina, fino ad Aquileia, e le regioni dell’Oriente mediterraneo. Accanto al vino, un ruolo importante nel commercio dell’epoca lo svolge anche la ceramica campana. B) La società e la politica I punti caldi della ricerca sulla vita politica romana sono soprattutto due: l’indagine sui fattori che determinarono la spinta espansionistica che portò Roma ad affermare la propria egemonia su tutto il bacino mediterraneo e l’analisi del funzionamento del sistema politico repubblicano. a) Il dibattito sull’imperialismo romano la tesi tradizionale del carattere difensivo dell’imperialismo romano, secondo cui un senato riluttante e non interessato all’espansione sarebbe stato costretto ad intraprendere le guerre in Oriente dalla necessità di difendere il proprio dominio in Italia sembrò vacillare. Harris individuò una spinta fondamentale all’espansione militare nella competitività interna alla nobilitas. Il successo militare, e la gloria che ne derivava, conferivano un prestigio tale da favorire la carriera non solo del magistrato che se li era procurati, ma anche dei suoi figli e discendenti; così, per i consoli, che intendevano sfruttare a fondo il loro anno di carica, era essenziale condurre una campagna militare, riportare una vittoria e se possibile vedersene riconosciuto il significato attraverso la celebrazione del trionfo. Harris, insomma, riconduceva a fattori interni alla società romana l’aggressività della politica del senato. Harris denunciava anche il carattere ultimativo della diplomazia romana: le condizioni poste dal senato per evitare la guerra erano sempre così pesanti che regolarmente gli interlocutori avrebbero preferito tentare la sorte delle armi, convinti che neppure dopo la sconfitta militare avrebbero potuto subire imposizioni più gravi. Questa lettura dell’imperialismo romano era in sintonia con il clima culturale e politico degli anni della decolonizzazione. Solo nell’ultimo decennio si è tentato di riportare in auge la dimensione difensiva dell’imperialismo romano. Ad Harris si sono rimproverati i limiti di una prospettiva esclusivamente “metrocentrica”, che tentava cioè di spiegare il processo della conquista romana solo attraverso le caratteristiche patologiche della società che acquisì l’impero. Eckstein ammette il carattere aggressivo e militaristico della politica romana, ma ne contesta radicalmente l’eccezionalità: a suo parere, la Macedonia di Filippo V e il regno di Antioco III non sarebbero diversi dalla repubblica romana, e lo stesso varrebbe per Cartagine. Il carattere aggressivo e militaristico comune agli stati del bacino mediterraneo sarebbe il risultato delle pressioni esercitate dalle caratteristiche di un sistema interstatale anarchico e multipolare, privo di un diritto internazionale. La feroce competizione per la sicurezza avrebbe di fatto costretto gli stati membri ad assumere caratteristiche funzionali analoghe; anche il carattere ultimativo della diplomazia romana denunciato da Harris sarebbe in realtà una caratteristica diffusa in tutto il sistema interstatale, in cui la guerra sarebbe l’unico strumento di risoluzione del conflitti. Sarebbe stato infatti praticamente impossibile arrivare a soluzioni di compromesso, in quanto ogni concessione sarebbe stata letta come un segnale di debolezza. Il punto su cui ci si dovrebbe interrogare non sarebbero i fattori che determinarono l’aggressività della politica romana, ma quelli che resero possibile il successo della repubblica fra rivali non meno aggressivi: la particolare abilità nella gestione delle alleanze, che poteva culminare nella piena assimilazione dei nemici vinti, fino alla concessione della cittadinanza; l’eccezionalità della società romana risiederebbe dunque non nel militarismo, ma nella sua apertura all’integrazione. b) Il dibattito sul sistema politico repubblicano ancora più vivace è il dibattito sulla natura del sistema istituzionale della repubblica. Polibio, che nella sua lettura delle istituzioni romane in termini di costituzione mista aveva posto, accanto al potere di stampo monarchico dei consoli e a quello aristocratico del senato, anche all’elemento democratico rappresentato dai comizi, avrebbe visto giusto: il senato non avrebbe rappresentato il “governo” della repubblica., ma legava in un rapporto di patronato il ceto dirigente alle masse, non determinando, come si era creduto, tutta la vita politica repubblicana; il dibattito politico non si esaurirebbe nello scontro fra fazioni nobiliari, ognuna con il suo esercito di clienti. L’importanza del carattere timocratico dei comizi centuriati, tanto apprezzato da Cicerone e Livio, in quanto conferiva un peso maggiore al voto dei cittadini più ricchi, sarebbe stata enormemente sopravvalutata nella ricerca del XX sec. Maggiore attenzione si sarebbe dovuta prestare invece ai comizi tributi e al concilio della plebe, in cui il voto di ogni cittadino aveva lo stesso valore; la politica della repubblica veniva decisa qui, attraverso l’approvazione delle proposte di legge, assai più che nelle elezioni di consoli e pretori. Millar sostiene che l’attenzione andrebbe spostata al comizio, la sede delle assemblee popolari: non le alleanze o le rivalità fra nobili avrebbero determinato la politica repubblicana, ma il rapporto fra i politici e le masse. Prima della rottura del consenso all’interno della classe dirigente, che si apre con l’età graccana, i comizi di fatto si sarebbero limitati a ratificare le proposte presentate dai magistrati con l’approvazione del senato, organo di espressione rituale del consenso. Prima del tribunato di Tiberio Gracco, solo due volte si sarebbe profilata la possibilità di un voto popolare contrario alla volontà del senato: quando il console del 200, Sulpicio Galba, propose ai comizi centuriati la riapertura della guerra contro Filippo V, e al ritorno di Emilio Paolo, al termine della terza guerra di Macedonia, quando il risentimento dei suoi soldati per la severità e la scarsa generosità del generale rischiò di portare a un voto che gli avrebbe negato l’onore del trionfo. Nel 200, almeno a stare al racconto di Livio, il voto contrario dei comizi alla proposta di guerra avrebbe suscitato l’unanime indignazione del senato contro il tribuno che l’aveva suggerito. Nel 167, poi, i soldati ostili al loro comandante non avrebbero neppure immaginato di poter esprimere un voto negativo; a suggerire questa possibilità sarebbe stato solo un rivale di Emilio Paolo. Sezione IV Verso i poteri Personali Cap. I: Dalla guerra numidica alla prima guerra civile (112-78 a.C.) Una rapida sintesi del quadro politico romano dopo il 146 a.C. si trova in Diodoro Siculo che elenca “pericolose avventure demagogiche, redistribuzione di terre, ribellione degli alleati italici, guerre civili lunghe e terribili”. 1. La guerra giugurtina (112-105 a.C.) L’elogio sallustiano della storia nel Bellum Iugurthinum introduce il lettore negli scenari cupi e turbolenti della guerra contro il re della Numidia dopo una lunga e sconfortata riflessione sul rovesciamento dei valori di una società incapace di stabilire un equilibrato rapporto tra natura umana e l’animus. Sallustio vuole con la sua opera rendere nota la prima, vera opposizione allo strapotere della vecchia classe dirigente romana, e spiega la definizione di “guerre civili” per gli sconvolgimenti che travolsero il quadro politico interno e che avrebbero trovato una loro composizione nel momento drammatico della guerra sociale. Le ragioni del conflitto (110-105 a.C.) si fanno risalire alla morte di Massinissa, quando il potere era passato al figlio Micipsa che regnò da solo dopo la morte per malattia dei fratelli. Il nuovo sovrano aveva due figli, Aderbale e Iempsale, e allevò come figlio il nipote Giugurta. Le molteplici doti del giovane, coniugate con una evidente ambizione, spinsero il vecchio Micipsa ad affidargli imprese rischiose al fine di sbarazzarsene senza suscitare contrasti. Questa fu la ragione dell’invio di truppe numidiche al comando di Giugurta durante la seconda guerra celtiberica. I contatti con gli eserciti romani crearono un forte consenso attorno al giovane africano ricco e prodigo al quale i novi nobiles promettevano appoggi per la successione al trono. Ma Scipione Emiliano, dopo aver colmato di doni in una sede pubblica il valoroso condottiero, in privato gli suggerì di non assumere l’abitudine di elargire doni ai Romani essendo pericoloso comprare da pochi ciò che appartiene a tutti. In una lettera a Micipsa, Scipione indusse lo zio ad adottare il giovane e a designarlo coerede al regno per neutralizzare prevedibili colpi di mano. Dopo la morte del re il “partito” di Giugurta, alla vigilia della divisione dei beni, eliminò Iempsale provocando l’invio di una delegazione da parte del Senato romano sollecitato da Aderbale che, a seguito dalla sconfitta, si rifugiò prima nella provincia d’Africa, poi a Roma. Giugurta ormai padrone di tutta la Numidia, a fronte dello sdegno dei Romani, ripose le speranze nell’avidità della classe dirigente romana e nel proprio denaro. Pertanto inviò nell’Urbe i propri delegati carichi d’oro e d’argento. La guerra dichiarata allo Stato romano (90 a.C.) fu considerata civile da alcuni storici che evidenziarono i legami di sangue e quelli morali tra dominatori e dominati, mentre tutti concordano nell’attribuire la responsabilità morale alla classe dirigente romana che aveva imposto oneri sempre più pesanti senza voler condividere con gli Italici un diritto che avevano elevato i Romani a tanta altezza da indurli a guardare con disprezzo, come stranieri, uomini della stessa gente e dello stesso sangue. Druso fu ritenuto responsabile dei disastri che la guerra provocò in tutta la penisola. Per la verità il giovane tribuno aveva preso atto di una situazione che minacciava di esplodere. La guerra di breve durata (90-89 a.C.), apparve da subito di esito incerto per l’equilibrata abilità e per le prevedibili capacità organizzative degli Italici che crearono uno Stato federale ispirandosi, per le strutture, al modello romano. Essi scelsero come capitale Corfinium, e coniarono una propria moneta con la legenda Italia e usarono l’immagine del toro che schiaccia la lupa. La scintilla della guerra si accese ad Ausculum dove vennero uccisi il propretore Servilio e il suo luogotenente. La stessa sorte subirono tutti gli altri Romani residenti nel luogo. Le loro proprietà furono devastate. Nella direzione di un compromesso andarono le due leggi di apertura alle istanze degli Italici: la lex Iulia de civitate latinis et sociis danda, che concedeva il diritto a quanti ne facessero richiesta (di cittadinanza) entro 60 giorni (dalla legge). Le due leggi estendevano la civitas agli Italici sino all’Arno e all’Esino, escludendo la Gallia Transpadana. La drammaticità dei racconti sulle devastazioni e sulle perdite umane, più gravi di quelle inflitte da Pirro e da Annibale, spiegano queste misure adottate dai Romani per arginare i danni di una guerra difficile. Sul piano istituzionale, però, non vennero recepiti i cambiamenti provocati dall’esito della guerra, che esigevano interventi strutturali rispondenti ad una nuova idea di Stato nazionale: nei fatti, il risultato politico del conflitto fu vanificato. Inoltre, la possibilità di ampliamento della classe dirigente, venne ostacolata dal perdurare del sistema dei rapporti politici tradizionali, mentre l’esigenza di riorganizzare il territorio italico incorporato nello Stato romano suggerì di applicare l’istituto del municipium (optimum iure) che avrebbe concorso ad accelerare il processo di romanizzazione spingendo la comunità della penisola alla normativizzazione in ambito politico e giuridico che si tradusse nel decentramento di funzioni pubbliche, amministrative, cioè, e giurisdizionali. 6. Crisi politica a Roma: Publio Suplicio Rufo, la marcia di Silla su Roma e i provvedimenti d’urgenza (88 a.C.) Nell’88 a.C. si aprì un nuovo fronte di guerra contro Mitridate re del Ponto. Assegnato per sorteggio il comando della guerra a Silla, console per quell’anno, la classe equestre, per timore che i propri interessi in quell’area fossero minacciati dall’esponente del partito aristocratico, si accordò con i popolari che volevano attribuire tale comando all’ormai settantenne Mario. Costoro vennero appoggiati dal tribuno Publio Sulpicio Rufo il quale propose un gruppo di leggi che provocò l’immediata reazione dei consoli. Una prima proposta di legge prevedeva che gli Italici fossero distribuiti in tutte le tribù insieme con i libertini, un’altra che fossero esclusi dal senato quanti avessero debiti superiori a duemila denari, una terza che fossero richiamati gli esuli del partito democratico, l’ultima che fosse affidato a Mario il comando della guerra in Oriente. L’opposizione dei consoli suscitò la reazione di Sulpicio e dei suoi sostenitori che provocarono il tumultus nel corso del quale uccisero Pompeo, figlio del console Quinto Pompeo e genero di Silla. Dei due consoli, Pompeo trovò la salvezza nella fuga, Silla si rifugiò nella casa di Mario, con il quale fece un accordo. Con un plebiscito sulla abrogratio imperii di Silla il comando contro Mitridate fu attribuito a Mario, provocando il ritorno di Silla. Il console cui illegalmente era stato tolto l’imperium ebbe gioco facile con l’esercito riunito in assemblea che temeva una sua esclusione della guerra. Silla, infatti, partì verso Roma con sei legioni di soldati, senza gli ufficiali contrari a guidare gli eserciti contro la patria, un valore che poteva trovare riscontro solo nei ceti elevati. La risposta di Silla ai messi mandati da Roma che gli chiedevano perché marciasse contro la patria era “per liberarla da chi la tiranneggia”. L’andamento della guerra civile fu favorevole al console che, prima di partire per il Ponto, emanò una serie di provvedimenti per indebolire politicamente i democratici a vantaggio del senato mentre Mario, Sulpicio e altri dieci esponenti del partito democratico venivano dichiarati hostes rei publicae. Mentre Sulpicio venne ucciso subito, Mario riuscì a sfuggire agli inseguitori e riuscì ad arivare fortunosamente nella provincia d’Africa. Quanto alle leggi di Silla approvate nell’assemblea popolare convocata il giorno dopo la vittoria, esse stabilivano: che nessuna proposta di legge potesse essere approvata senza la preventiva auctoritas patrum; che le votazioni avvenissero per centurie secondo lo schema serviano per evitare il pericolo di rivoluzioni ma, nei fatti, sottraendo il diritto di voto alle classi povere; che il senato fosse integrato con 300 nuovi membri e che il potere dei tribuni fosse ridotto. A questo punto appare chiaro che questa legislazione “d’urgenza”, più che a restaurare la costituzione, mirasse a sovvertirla, dal momento che l’equilibrio dei poteri aveva rappresentato il fondamento dello sviluppo della res publica. 7. Intervallo democratico (87-82 a.C.) Il ritorno al potere del partito democratico capeggiato da Cinna, eletto console per l’87, oltre a rivelarne la forza spiega il clima di ritorsione contro l’aristocrazia creato dalla riproposizione delle leggi sulpicie e, in particolare di quelle relative all’iscrizione degli Italici in tutte le tribù nonostante il giuramento di non modificare i suoi provvedimenti imposto da Silla a Lucio Cornelio Cinna. L’aristocrazia e una parte della plebe contestarono la proposta provocando la reazione violenta dei cinnani che offrì al console Ottavio il pretesto di intervenire con le armi per porre fine alla sedizione. Molti dei seguaci di Cinna furono uccisi ed egli, scacciato dalla città e sostenuto dagli Italici, tentò di sollevare gli schiavi e per questo fu privato della cittadinanza. Combatté contro Ottavio e contro il senato che cedettero consentendo a lui e a Mariodi tornare a Roma per esercitarvi la carica. Il regime eccezionale instaurato si realizzò nel terrore. Dopo la morte di Mario, Cinna governò da solo e senza intervalli e per questo il suo potere fu definito regnum o dominatio, non per i metodi applicati nell’esercizio della carica come vorrebbe una certa storiografia. 8. La guerra mitridatica tra ideologia e politica Mentre Cinna e Carbone (succeduto a Mario) spadroneggiavano a Roma, molti aristocratici avevano raggiunto Silla in Asia dove Mitridate VI Eupatore aveva occupato la provincia d’Asia e spodestato dal trono i re di Bitinia e Cappadocia. Insediatosi a Pergamo, distribuiva agli amici territori a sua discrezione, collaborato dai suoi figli e dai suoi generali, fra i quali il più valente, Archelao, partendo da Atene, sollevò contro i Romani i popoli dell’Ellade sino alla Tessaglia. L’andamento della guerra fu contrassegnato da collaborazioni organizzate dal governo democratico che sembravano voler minacciare il ruolo di Silla, come sottolineano le fonti filosillane per diradare le ombre addensatesi sul console, disponibile a venire a patti con Mitridate, nonostante i tragici eccidi di tutti i cittadini italici residenti nel territorio asiatico. Analoga condotta, del resto, avevano tenuti i Romani nei confronti di Atene colpevole, nel racconto di Plutarco. Nel racconto degli storici la distanza di prospettiva modificò i ruoli e le responsabilità per cui, mentre in Appiano, nel cui Mitridatico si respira l’eco delle memorie del futuro dittatore, a provocare l’iniziativa di Mitridate sarebbero stati Manio Aquilio e altri ufficiali romani presenti in Asia Minore, Livio giudica positivamente Aquilio e colpevolizza il senato. Altri segnali orientano in tal senso, come la deminutio dei risultati ottenuti da Fimbria, costretto da Silla a cedere il comando proprio mentre stava sconfiggendo il nemico in termini definitivi, e come il ridimensionamento dei successi di Bruttio Sura che, secondo Plutarco, venne congedato da Silla nel momento in cui stava riportando la vittoria sugli eserciti mitridatici in Grecia, per non parlare dell’assoluzione per le depredazioni dei templi proprio in questo territorio, operate per necessità di guerra. 9. Il mondo di Silla e la dittatura costituente (82-79 a.C.) Siglata la pace in Oriente, Silla passò con l’esercito in Italia dove i consoli Gaio Norbano e Lucio Scipione preparavano la guerra contro di lui. Silla vinse in battaglia lo stesso Norbano mentre l’esercito del console Scipione passò con tutte le insegne a Silla. Presso Silla si recò Gneo Pompeo con un esercito di volontari da cui si rifugiò la nobilitas. Sconfitti gli Italici, Silla inaugurò una forma inedita di “disciplina stragista” – le proscrizioni – che si tradusse in molti casi in vendette personali di delatori interessati all’aspetto premiale del provvedimento, tanto più che esso giovava all’Erario per l’incameramento dei beni dei proscritti. L’affidamento a Silla della dittatura denota la discontinuità con le prerogative tradizionali della dittatura, la durata, indefinita, e i compiti estranei ala carica. Al di là del fondamento più o meno legale del potere di Silla che l’interrex Valerio Flacco propose ai comizi attraverso la lettura di un messaggio dello stesso aspirante che, senza nominarsi, definiva il tipo di prerogative idonee a superare la gravità della crisi, analizziamo gli aspetti più significativi della riforma che rivoluzionò il sistema politico-istituzionale proprio a partire dalla configurazione della carica che gli venne affidata, ma che fu considerata straordinaria e temporanea. L’intervento più appariscente riguardò il tribunato della plebe che subì una grave amputazione riducendosi ad una “imago sine re” (un’ombra inconsistente). Soppressa l’intercessio e ridotta all’auxilii latio, cioè alla difesa di un singolo cittadino per caso singolo, i plebisciti furono sottoposti all’auctoritas patrum preventiva e il tribunato chiudeva l’accesso agli altri gradini del cursus in modo che potessero aspirarvi soltanto personalità di secondo piano. La carriera degli onori doveva seguire percorsi obbligati da intervalli rigidi e con il divieto per i consoli di iterare la carica prima di dieci anni. L’anticipazione delle elezioni consolari da novembre a luglio consentì che a metà anno, accanto ai consoli in carica, vi fossero quelli designati per l’anno successivo. L’intervento politicamente più significativo riguardò la separazione dell’imperium militare da quello civile che permetteva al console di governare una provincia solo dopo l’anno di carica per evitare il rischio di repliche di nuove marce su Roma. L’ampio panorama di riforme nel quale si colloca l’attività politica di Silla che, nel 78 a.C., abdicò dalla dittatura, rivela lo sforzo di ampliare la base del consenso attraverso il consolidamento di poter forti, concentrati nella mani di un’oligarchia rinnovata, capace di arginare la deriva repubblicana. Cap. II: Il decennio postsillano. Protagonismi militari tra alleanze e conflitti (7-60 a.C.) 1. Tentativi rivoluzionari di Lepido e di Sertorio (78-72 a.C.) Dopo la morte di Silla registra la sconfitta dello Stato dalla quale vengono ritenuti responsabili i colpi di coda del partito democratico, guidato da eversori che puntavano sul disagio delle vittime delle riforma sillana. Un modo, questo, semplificato di rappresentare una realtà assai complessa. Nel complotto organizzato per neutralizzare la vittoria popolare alle elezioni consolari che produsse la deposizione, da parte del senato, dei consoli designati e la nomina di due optimates, Catilina ricoprì un ruolo marginale. Il processo de repetundis lo obbligò a rinviare di un anno la candidatura, al 64, cioè per il 63 a.C., lo stesso anno in cui si candidò Cicerone. Il punto di criticità che conferma la distanza del progetto di Catilina dalle tradizioni del tribunato postsillano riguardò la proposta di concessioni agrarie al proletariato rurale che appoggiava Catilina. Il nuovo insuccesso di Catilina come terzo eletto per il 62 a.C. allargò l’area della protesta. Alle dicerie, delazioni e contestazioni in senato, si aggiunsero la fuga di Catilina, la denuncia da parte di ambasciatori degli Allobrogi, nei quali Catilina aveva cercato una sponda, di manovre organizzate da suoi seguaci rimasti a Roma, la dichiarazione di quello quale hostis rei publicae, la guerra contro i ribelli in armi, la condanna a morte dei prigionieri senza il ricorso alla provocatio. L’esperienza dell’aspirante console Catilina si concluse sul campo di battaglia di Pistoia nella dignità del combattimento. 5. Verso il “primo triumvirato”. L’itinerario politico di Pompeo e Cesare (79-61 a.C.) La trama degli avvenimenti che dal decennio postsillano condussero sino alla fine del primo triumvirato, risente di espedienti narrativi nella rappresentazione dei fatti. Dopo il consolato del 70 a.C., Pompeo non assunse alcun proconsolato per il 69 a.C., come prevedeva la lex Cornelia, rimanendo in attesa di un’occasione prestigiosa che si presentò tre anni dopo, quando si rese necessario cacciare i pirati da tutto il Mediterraneo. La lunga teoria di successi militari conseguiti da Pompeo negli anni 67-63 a.C., va collocata in un momento di sostanziale ripresa della pars popularis che rivestì un ruolo di primo piano nella costruzione, per l’ex console, di un potere la cui sostanza fu sicuramente nuova. Ne sono una prova i contenuti e le modalità seguite dalla lex Gabinia, proposta dal tribuno Aulo Gabinio, per il conferimento di un comando con poteri straordinari a Pompeo per la guerra contro i pirati. L’attribuzione dell’imperium infinitum della durata di tre anni su tutto il Mediterraneo, con competenze ampissime per la leva di venti legioni, l’allestimento della flotta, la creazione di un fondo per le spese di guerra, la richiesta di aiuti a re e popoli alleati, provocò il contrasto tra il senato e i comizi tributi, i quali acclamarono Pompeo. Il potere veniva, così, staccato dalla potestas magistratuale e conferito ad un privato cittadino, anche se di rango consolare. Tali aspetti dell’imperium straordinario vennero ampliati con la lex Manilia che affidava a Pompeo il comando della guerra mitridatica, estendendone i poteri a tutte le province dell’Asia minore. Ciò che emerge è il contrasto fra le rivendicazioni di un’appartenenza senatoria e il palese appoggio datogli dal partito popolare. L’ostilità di Crasso, un popularis legato a diversi senatori che avevano ricevuto da lui aiuti economici, mentre il giovane Cesare aveva sostenuto le proposte di legge sui comandi straordinari a Pompeo, divenuto l’unus abilitato a concedere o a strappare i diritti alla comunità di cui controllava i praesidia. E proprio l’imperium sarebbe divenuto il problema della comunità imperiale nel suo complesso e di quella politica. Marco Porcio Catone, l’esponente della giovane generazione ottimate, fiero oppositore di Pompeo fino alla coalizione del 49 a.C. contro Cesare. Nel caso di Pompeo, che il suo imperium contro i pirati fosse aequum rispetto a quello dei proconsoli non esclude, com’è evidente, la violazione dei principi repubblicani essendo il potere separato dalla magistratura e conferito ad un privato per un periodo che superava l’annualità e che prevedeva inoltre la nomina di magistrati subordinati. L’impegno di Cicerone e di Cesare per l’approvazione delle due leggi, neutralizzò l’opposizione senatoria, la cui debolezza, denunciata da Cicerone, rivela come il consenso attorno ai poteri straordinari a Pompeo fosse largo e non si fondasse sui ceti deboli. D’altronde la convergenza con la pars populi era stata provvisoria e avrebbe fatto spazio di lì a poco al legame con gli ottimati. L’aristocrazia, intanto, spendeva il proprio impegno per salvaguardare posizioni di privilegio tradizionali. Le imprese di Pompeo in Oriente venero svolte nel solco di un lungo itinerario tattico e strategico compiuto da Luculo, luogotenente di Silla, proconsole dal 73 a.C. prima in Asia e in cilicia, poi in Bitinia e nel Ponto. Le fonti di ispirazione antipompeiana confluite in Appiano segnalano, nella condizione della guerra contro Mitridate e Tigrane, le ambizioni personali che Pompeo cercava di legittimare attraverso la demonizzazione del nemico. Dopo la riduzione a provincia della Siria, Pompeo potenziò il numero delle città libere, affrancate dalla dipendenza di tiranni locali, mentre diversi territori vennero affidati da amministrare a re-clienti. Il timore che la potenza derivatagli dai legami con nuove, ulteriori clientele e dalle cospicue ricchezze potessero assicurare a Pompeo il controllo dell’Italia e il potere sui romani, indusse la classe senatoria a consolidare le proprie posizioni in un clima di sospetto generale. Il gesto di Pompeo, al ritorno dalle guerre mitridatiche, di congedare l’esercito con la promessa di farlo partecipe del trionfo che il senato ritardava per evitare che la sua presenza a Roma influenzasse le elezioni a favore dei suoi protetti, destò l’attenzione di Cesare per future alleanze. Il senato aveva concesso l’onore del trionfo ai rivali di Pompeo, Lucullo e Metello cretico, limitandosi, sin dal 63 a.C., a celebrare semplici supplicationes in suo onore. 6. L’accordo del 60 a.C. tra Cesare, Pompeo e Crasso e la costruzione di un fronte antisenatorio Di un nuovo asse si avvertiva l’esigenza dopo il senatoconsulto sulla corruzione delle giurie equestri e il contenzioso sorto intorno alla proposta di ridurre, a favore dei cavalieri, il capitolato di appalto delle imposte dei pubblicani d’Asia. Catone, attacando duramente tale proposta, suggellò la separazione dei due ordini, e continuando ad esercitare un’opposizione sterile, finì per accelerare l’elezione di Cesare al consolato per il 59 a.C. nel momento in cui giudicò inaccettabile la candidatura in absentia: Cesare, infatti, decise di rinunciare ai trionfi per i successi da pretore in Spagna dopo il famoso accordo del 60 a.C. con Pompeo e Crasso e venne eletto con un buon risultato insieme all’aristocratico Marco Bibulo. La vera svolta segnata dal suddetto accordo che, attraverso il sostegno al futuro console, prevedeva l’approvazione degli ordinamenti assunti da Pompeo in Oriente e per Crasso la possibilità di dispiegare un nobilitante impegno diplomatico e militare, fu rappresentata dalla centralità di un’esperienza politica sganciata dalla dipendenza dell’organo esecutivo dall’auctoritas senatoria. Il “mostro a tre teste”, come venne definito l’accordo del 60 da Varrone, può ben considerarsi l’esito scontato della resistenza degli irriducibili antagonisti dei poteri personali presenti in senato. Il progetto e le modalità per realizzarlo furono opera esclusiva, come sostiene Cassio Dione, dell’intuizione strategica di Cesare il quale, sfruttando la delusione di Pompeo per il rifiuto del senato di notificare gli atti da lui assunti in Asia, malgrado il congedo degli eserciti, lo attrasse nella propria orbita, consolidando l’alleanza politica con un intreccio matrimoniale: gli diede in moglie la propria figlia Giulia. Per ampliare la base del consenso da contrapporre al senato, coinvolse Crasso dopo averlo fatto conciliare con Pompeo, il quale, nonostante la marginalità politica, aveva esteso la sua rete clientelare grazie alla favorevole congiuntura della politica espansionistica di Roma, accrescendo le sue già enormi ricchezze. Di Cicerone veniva condivisa la speranza dell’aristocrazia che dissidi interni travolgessero il triumvirato e ciò giustificava la teorizzazione di un ormai possibile summorum civium principatus. Il progetto-compromesso si rivelò nei fatti minato in partenza da ambizioni di potere personale, come rivela la storia torbida che approdò alla guerra civile. Il rapporto tra Cesare e Clodio, un patrizio passato alla plebe e divenuto sostenitore del partito popolare, di cui il console non disdegnò l’appoggio per l’approvazione delle sue leggi dopo avergli a sua volta fatto passare la lex curiata de adrogatione per l’adozione da parte del plebeo Fonteio, che gli consentiva di candidarsi al tribunato. Tutto ciò nonostante lo scandalo che coinvolse la moglie di Cesare, Pompeia, nella cui casa quegli si era introdotto durante la festa della dea Bona riservata alle donne. Di grande spessore sociale e politico la lex agraria, la lex Iulia de publicanis, la lex Iulia de actis Cn. Pompei confirmandis e la lex Iulia de pecuniis repetundis. Con la prima si voleva rispondere alle richieste di Pompeo per i suoi veterani senza perdere di vista le esigenze dei ceti disagiati. Tutto l’ager publicus, compreso quello campano, doveva essere diviso rispettando gli attuali possessori, mentre bisognava acquistare terra dai privati con i proventi del bottino di guerra e con i tributi delle province d’Asia per l’assegnazione delle singole quote ai cittadini poveri con almeno tre figli. Una commissione di venti eletti dalle tribù doveva farsene strumento esecutivo e ai senatori si faceva obbligo di giurarne il rispetto, pena gravi sanzioni. Sebbene la legge non intaccasse la possessio, l’opposizione senatoria fu durissima, mentre il console Bibulo ricorse all’obnuntiatio per bloccare l’attività dei comizi. La violenza risolse il problema con il ferimento del console e di due tribuni che lo sostenevano e l’allontanamento forzato di Catone. Approvata la legge, Bibulo si rinchiuse in casa e impedì per tutta la durata della carica il funzionamento dei comizi attraverso il potere di servare de caelo. Per garantire i poteri dei triumviri fu ampliata la sfera di controllo di Cesare affidandogli con la lex del tribuno Vatinio la provincia della Cisalpina e dell’Illirico per cinque anni con tre legioni, su iniziativa di Pompeo, il senato gli affidò la Gallia Narbonense e una quarta legione con la stessa durata. 7. Clodio (57-52 a.C.) La mancanza di una forza militare aveva indebolito la posizione di Pompeo anche per l’offensiva di un nuovo protagonista sulla scena della politica interna, Clodio. Sostenitore degli strati sociali più bassi dei quali cercò il consenso, utilizzò persino gli schiavi, per i quali on previde, però, l’abolizione della schiavitù. Una nuova alleanza tra nobiltà, equestri e plebe si coagulò attorno ad una opposizione dura che ebbe come risultato immediato il richiamo dall’esilio di Cicerone, il quale continuò a rivolgersi a Pompeo, nonostante un atteggiamento ancora sospettoso dell’aristocrazia che gli fece conferire la cura annonae quinquennale per tutto l’impero, respingendo, però, la proposta di Messio che volava aggiungere l’imperium maius rispetto agli altri governatori provinciali. 8. Accordi di Lucca e ricompattamento dei triumviri (56 a.C.) La gravità del momento suggerì di consolidare i rapporti fra i triumviri e di precisarne i compiti. Nell’incontro di Lucca (56 a.C.) si decise di dividere il potere in modo che Pompeo e Crasso rivestissero il consolato nel 55 per permettere a Pompeo di governare subito dopo le province spagnole e a Crasso la Siria per condurre la guerra contro i Parti, mentre Cesare avrebbe mantenuto le quattro legioni ex lege Vatinia e altre quattro reclutate a sue spese, ma di cui ora non si sarebbe fatto carico lo stato. Eletti consoli, Pompeo e Crasso, fecero approvare una legge che prorogava di cinque anni il comando di Cesare in Gallia e vietava al senato di procedere alla successione prima dell’inizio dell’ultimo anno del governo di Cesare. Allo scadere del consolato, Pompeo rimase a Roma, ma fuori dal pomerium, Crasso venne sconfitto dai Parti e perse la vita mentre la provincia di Siria rimase per otre due anni nella mani del questore di Crasso, a dimostrazione dell’incapacità del governo, stritolato dai conflitti interni, di guidare la politica internazionale. 1. L’assassinio di Cesare e le reazioni politiche Tale politica non rispose alle aspettative dei militari del momento; non era più vincolante il legame truppe-comandante e lasciò indifferente il proletariato. L’allineamento degli equestri – i nuovi delusi – con il senato produsse il tragico evento delle idi di marzo del 44 a.C.: la soppressione del simbolo della tirannide nel nome dell’oltranzismo restauratore che traghetto la res publica verso l’istituzionalizzazione del Principiato. Lo smarrimento delle coscienze per l’efferato delitto attraversò società ed istituzioni alternando drammaticamente il quadro politico e riportando in superficie tutte le contraddizioni implose durante la dittatura di Cesare. Responsabile l’assenza di un progetto che tenesse conto dei cambiamenti profondi di appartenenza politica, più che negare l’intenzione dei cesaricidi di appropriarsi del potere o di favorire una fazione politica o di promuovere interessi economici, la responsabilità del gesto va ricercata nella deficienza di intuizione politica in grado di misurare il livello di consenso. Il ritmo incalzante del racconto degli storici rende conto dalla diffusa atmosfera di paura. Mentre i cesaricidi, delusi dal mancato entusiasmo del popolo impaurito, si rifugiarono nel Campidoglio all’ombra della protezione degli dei, i cesariani, dopo un iniziale sbandamento accettarono di trattare con il Senato che, in cambio di un’amnistia decretò onoranze divine per Cesare e l’approvazione di tutti i provvedimenti emanati sino alla vigilia della morte, ciò che fece dire a Cicerone che “nonostante la morte del tiranno, la tirannia sopravviveva”. Scomparso il dittatore, le magistrature repubblicane ripresero il loro ruolo senza che si sollevassero obiezioni al potere del console Antonio, al quale non si chiese di abdicare, né si pensò di annullarne la nomina. Questi fu il protagonista indiscusso della politica di quei giorni tumultuosi che esigevano compromessi continui con il Senato dal quale, dopo l’approvazione dell’abolizione della dittatura, si fece assegnare la provincia di Macedonia per l’anno successivo e per Dolabella, consul suffectus, quella di Siria. Antonio, durante i funerali (20 marzo), lesse il testamento di Cesare che assegnava a ciascun cittadino un legato, suscitando l’odio del popolo contro gli assassini per i quali il dittatore aveva previsto vari incarichi. La paura indusse i congiurati a lasciare Roma per Anzio, mentre il senato, sospettando che Antonio manomettesse gli Acta Caesaris, proponeva una commissione di controllo senza tener conto della repressione del moto popolare suscitato dallo schiavo Erofilo o del malcontento dei legionari e dei veterani per l’amnistia che aveva salvato gli assassini di Cesare. Lo scontro si fece più duro quando un nuovo protagonista si affacciò sulla scena, Gaio Ottavio, nipote di Cesare, da lui nominato erede delle sue sostanze, destinato ad entrare nell’agone scompaginando equilibri già fragili per una serie di provvedimenti emanati da Antonio che acuirono il contrasto con il senato, a partire dalla legge sulle assegnazioni di terre in Italia a favore dei veterani. Ottavio non si fece scrupolo di appoggiare gli uccisori del padre adottivo, pur di ostacolare il primato politico di Antonio che si fece approvare una legge per l’attribuzione a lui della Gallia Cisalpina, già assegnata da Cesare a Decimo Bruto, uno dei suoi uccisori. L’ostilità di Antonio nei confronti del giovane Ottavio, giunto a Roma dall’Oriente per ricevere l’eredità, si rivelò subito nel diniego di concedergli la tribunicia potestas. Ciò favorà l’avvicinamento al giovane del senato pilotato da Cicerone, e provocò gli arruolamenti illegali di Ottaviano, al quale passarono alcune legioni di Antonio. L’oratore si adoperò perché si legalizzasse l’arruolamento irregolare degli eserciti di Ottaviano (il cambiamento del nome è legato all’avvenuta adozione testamentaria), perché si annullassero in quanto per vim latae, le leggi di Antonio che poteva essere dichiarato, così, hostis rei publicae, e perché si approvasse la proposta di conferire la propretura ad Ottaviano in modo che potesse partecipare alle sedute del senato. L’esitazione del senato che, tuttavia, si sentì costretto a cedere, provocò l’invio di una legazione ad Antonio per trattare. Dopo il fallimento di questa, si pervenne al tumultus, una formula che impediva di condannare Antonio, mentre con un senatum consultum ultimum si incaricavano i consoli Irzio e Panza, già nominati da Cesare, di difendere la res publica con l’appoggio di Ottaviano. 2. La guerra di Modena tra i paradossi della politica (43 a.C.) Cesariani e cesaricidi mossero guerra ad Antonio che rivendicava il possesso della Cisalpina ex lege permutazione provinciae, annullata, nel frattempo, con la motivazione che non si era rispettato il trinundinum (l’intervallo di trenta giorni dall’approvazione). Dopo le prime vittorie a Modena del fronte contrapposto ad Antonio, sembrò manifestari un consenso pressoché unanime agli anticesariani. La morte dei due consoli, cesariani moderati, rovesciò la situazione introducendo nuovi attori nel panorama politico già abbastanza convulso. Non si può escludere che alla base della decisione di Ottaviano di non trarre alcuna conseguenza militare e politica dal successo di Modena, ci sia stata la delusione per una parziale esclusione dagli onori del trionfo, tributato, invece, a Decimo Bruto ed una sorta di resipiscenza rispetto ad atteggiamenti autoritari del senato; ed una presumibile considerazione della propria ricattabilità a fronte del sospetto che fosse stato lui ad eliminare Irzio e Panza per prenderne il posto. L’accresciuta forza militare di Antonio che, supportato da rinforzi, poté recarsi nella Narbonense, dove ricevette ulteriori aiuti da Lepido, il filo cesariano che Cicerone accusò di voltafaccia poiché, in precedenza, il senato gli aveva fatto dedicare una statua equestre e celebrare il trionfo per i negoziati riusciti con Sesto Pompeo, dovette determinare la decisione di Ottaviano di marciare su Roma con le sue legioni per ottenere il consolato che gli era stato rifiutato. Cicerone cercò di convincere Bruto a riportare le truppe in Italia, ottenendone un meditato e presago rifiuto. Subito dopo l’elezione, Ottaviano emanò la legge per la condanna degli assassini di Cesare ed estese il procedimento a Sesto Pompeo, anche se assente da Roma in quella circostanza. 3. Il triumvirato costituente (43 a.C.) Ottaviano si recò in Cisalpina per incontrare Antonio mentre quarantatre legioni erano già raccolte nei pressi di Bologna e, dopo tre giorni di intensi colloqui, i due decisero di creare una nuova magistratura: il triumvirato rei publicae constituendae. Una legge, la lex Titia, diede fondamento giuridico agli accordi di Bologna, finalizzati alla ripartizione delle sfere di influenza e alla distribuzione di colonie ai veterani da dedurre in diciotto città della penisola. La carica prevedeva i poteri straordinari per cinque anni da esercitare secondo la formula abusata “rei publicae constituendae” e la divisione delle sfere territoriali su cui esercitare l’imperium proconsolare: Antonio manteneva la Gallia Comata e la Cisalpina; Lepido la Gallia Narbonense e la Spagna; Ottaviano, che rinunciò al consolato, sembrò penalizzato dall’assegnazione dell’Africa, turbata da lotte tra governatori repubblicani e cesariani, della Sardegna e della Sicilia minacciata dalla flotta di Sesto Pompeo. L’Oriente sarebbe stato suddiviso dopo la conquista con le competenze discrezionali dell’imperium proconsolare, e i triumviri provvidero ad eliminare gli avversari politici che potevano minacciare la pace di Roma. Il metodo utilizzato fu quello delle proscrizioni che diedero vita a tragedia umane di inaudita violenza, giustificate, nell’Editto, dalla preoccupazione di circoscrivere i danni di vendette indiscriminate. La vittima più illustre fu Cicerone, di cui le fonti sottolineano la dignità nell’affrontare l’ultimo viaggio. La tradizione sul godimento di Antonio che volle l’esposizione del capo reciso nella tribuna dalla quale l’oratore aveva tante volte parlato contro di lui, utilizza tecniche retoriche funzionali alla propaganda augustea che voleva assolvere Ottaviano dai delitti ai quali sicuramente prese parte. Il danno di molti si tradusse nel vantaggio di pochi per l’alienazione dei beni ai proscritti e ai loro figli, e persino la generosità di Sesto Pompeo presso il quale si rifugiò un certo numero di proscritti sarà ripresa dall’interesse di ingrossare le file delle sue armate. Intanto in Oriente, Bruto e Cassio, con il sostegno del senato, avevano occupato la Macedonia e l’Illiria e da lì si spostarono, Bruto in Tracia, Cassio in Siria. 4. Guerra di Perugia e accordi di Brindisi (41-40 a.C.) Mentre in Oriente si affacciava la minaccia dei Parti e si agitavano le bandiere della riscossa orientale all’ombra di Cleopatra, in Italia il problema delle risposte sui donativi ai veterani provocò un vero e proprio terremoto sociale e politico che sfociò nella guerra di Perugia, definita seconda guerra sociale per le dimensioni del coinvolgimento della classe media italica colpita dalle misure triumvirali. Le legioni da soddisfare erano ben trentaquattro. Dei contrasti approfittarono Lucio Antonio e Fulvia, rispettivamente fratello e moglie del triumviro, che tentarono la sollevazione di tutta la penisola. Lucio fu assediato a Perugia (41 a.C.) e, per volontà dei soldati che volevano evitare la guerra civile, Antonio e Ottaviano fecero un nuovo accordo a Brindisi per spartirsi le province e per rafforzare la posizione di Ottaviano. Nel 39 a.C., su pressione della plebe affamata a causa delle scorrerie di Sesto nel Mediterraneo, venne stipulato il trattato di Miseno con il quale si riconosceva al figlio di Pompeo il governo della Sicilia, della Sardegna e dell’Acaia per cinque anni e la legittimità della candidatura al consolato per il 35 a.C. mentre Sesto accettò di non ricevere disertori, di ritirare le sue truppe dall’Italia, di garantire la sicurezza sul mare e i rifornimenti di grano a Roma. Ben presto, però, si riaprirono le ostilità con Sesto e a Taranto Antonio e Ottaviano concordarono le modalità di reciproco aiuto militare e il rinnovo del triumvirato per altri cinque anni. Nel 38 a.C., con l’espulsione di Lepido dal triumvirato e dopo la vittoria su Sesto ottenuta da Agrippa nel nome di Ottaviano, i due titani sulla scena politica si preparavano ad affrontarsi nello scontro finale. 5. Sesto Pompeo nel ridisegno di nuovi equilibri (38-35 a.C.) Nel gennaio del 42 si prepararono in Macedonia ed in Illiria gli eserciti di Bruto e Cassio, mentre la flotta repubblicana occupava l’Adriatico e Sesto Pompeo aveva investito la Sicilia. Dopo la morte di Cesare, Sesto Pompeo era ritornato nella Spagna Ulteriore strappata a Pollione e aveva avviato i negoziati per rientrare in possesso del patrimonio lasciatogli dal padre, di cui la maggior parte era stata acquistata da Antonio. Anche per questo il senato si era speso per il ritorno del giovane che era disposto a mettere le sue sette legioni al servizio della causa repubblicana e per Cicerone egli rappresentava addirittura la speranza della Repubblica, speranza ben presto delusa dalla lex Pedia che lo fece tornare in Sicilia, dove accolse i proscritti. Intanto Bruto e Cassio vennero sconfitti dai Filippi (42 a.C.) dove, per un tragico equivoco, si tolsero la vita. Con questa vittoria, i potentati si diressero verso la bipartizione dell’impero, emarginando Lepido nell’Africa cartaginese e dividendosi ulteriormente i domini in modo che Antonio si occupasse della riorganizzazione dell’Oriente e del controllo della Gallia Comata e Narbonense e Ottaviano del contenimento dell’azione di Sesto Pompeo nel Mediterraneo e della sistemazione in Italia dei veterani. Tale posizione, apparentemente di debolezza, gli garantiva il controllo degli organi vitali dello stato in Italia. 6. La guerra civile e “l’ordine nuovo” (32-30 a.C.) La diffusione degli interessi di negotiatores romani è attestata per via epigrafica, ma anche dalle cifre che le fonti ci trasmettono per gli eccidi di italici e romani perpetrati da Giugurta a Cirta nel 112 e da Mitraidate nell’88. Oltre ai prodotti agricoli dell’Italia romana, l’esportazione è legata anche all’artigianato. Le officine sono nelle mani di institores che le amministrano per conto dei ricchi proprietari, mentre gli artigiani si aggregano in collegia che consentono loro di acquisire peso sociale e politico. Fra i prodotti che occupano uno spazio di rilievo: la ceramica; il commercio del vino. È importante l’esportazione delle stoviglie da mensa: la ceramica campana diffusa in varie isole del Mediterraneo, in Gallia, in Africa, Iberia. In generale, le produzioni artigianali più cospicue, destinate all’esportazione, sono localizzate, a parte che nella stessa Roma, a Capua, Napoli, Pozzuoli, Canosa, Volterra, Pompei, Cales. Fiorente rimane il commercio degli schiavi. Essi costituivano merce di scambio nel territorio gallico fra il II e il I sec. con il vino italico. Azioni di pirateria e brigantaggio continuano a detenere un ruolo non trascurabile nell’approvvigionamento del mercato orientale, che ha il suo centro a Delo e che annovera nella colonia di Pozzuoli uno snodo nevralgico di smistamento. Ai fini dell’approvvigionamento dei mercati va tenuto presente il peso della cooperazione con i pirati sia da parte dei mercanti, sia da parte dei sovrani ellenistici, tanto a danno di altri paesi quanto a danno della popolazione locale, in quello che è stato identificato come fenomeno di “svendita della propria manodopera”. La lex piratica degli anni 101-99 a.C. vietava ai sovrani di Cipro, Alessandria ed Egitto, Cirene, Siria e alle città dell’Asia di offrire base ai pirati, nella preoccupazione non certo che i pirati riducessero in schiavitù la popolazione, ma che mettessero a rischio la sicurezza dei Romani. 2. L’economia agricola Nel settore dell’agricoltura, si assiste nel I sec. ad una evoluzione in linea con le tendenze di concentrazione fondiaria registrate nel sec. precedente, che tuttavia non escludono un quadro di persistenza della proprietà contadina. Va ricordato come l’eliminazione dei nemici politici, che ebbe carattere di sistematicità in epoca sillana (proscrizioni) e poi in quella triumvirale, sortì un effetto rivoluzionario non soltanto sul piano politico per le conseguenze sulla composizione del ceto senatorio. Sallustio, Appiano e Cassio Dione testimoniano la spoliazione di beni quale aspetto distinguere del massacro di senatori e di appartenenti ai ceti economicamente emergenti. Tali ricchezze andavano ad alimentare la base popolare del consenso dei vincitori e la distribuzione ai veterani delle terre confiscate ai proscritti contribuiva a ridisegnare la morfologia sociale, anche se non sempre i risultati erano duraturi e i nuovi proprietari tendevano a disfarsi delle assegnazioni ricevute, ritenendole un possesso poco sicuro e finendo in questo modo per alimentare la crescita della grande proprietà fondiaria. I praemia assegnati a chi collaborava alle proscrizioni fondavano le improvvise fortune di nuovi ricchi, ma la liquidità che si ricavava dalla vendita dei beni dei proscritti era fortemente limitata dalla viltà dei prezzi di vendita dei beni stessi a paragone del loro valore reale. Ad incidere inoltre sulla situazione della proprietà terriera furono inoltre le vicende dell’ager publicus successive alle riforme graccane. Dopo il 111 e fino al 44 a.C. è in discussione lo stesso ruolo ed entità dell’ager publicus dopo l’età dei Gracchi. Una fase di risistemazione dell’ager Romanus fu tra gli esiti della riorganizzazione amministrativa dell’Italia all’indomani della guerra sociale. L’ager publicus venne scomparendo, se già al tempo di Silla per i 120.000 veterani del generale destinatari di assegnazioni terriere non vi fu sufficiente terra pubblica. Inoltre, dopo il 111 probabilmente l’ager publicus residuo era destinato per lo più al pascolo, mentre l’ultima fetta ancora esistente sul suolo italico di terra demaniale per la coltivazione doveva essere l’ager Campanus. Quest’ultimo, da P. Servio Rullo nel 63 era stato previsto che accanto alla compravendita di terreni per il recupero di ager publicus su suolo italico e provinciale; fu poi oggetto di distribuzione in proprietà privata a cittadini romani nel 59, con la legislazione agraria di Cesare, che stabiliva la distribuzione di terra a 20.000 padri di famiglia con almeno tre figli e doveva attingere dalle terre personali di Cesare e dall’acquisto di terre da privati, proprio a causa della penuria di ager publicus. La situazione di grave disagio sociale nelle campagne dell’età post-sillana, con i cambiamenti di proprietà dovuti sia alle assegnazioni ai veterani sia alle proscrizioni, è denunciata dal ruolo che giocò in alcune vicende il malcontento della popolazione rurale italica, oramai proletarizzata. Si pensi agli episodi di solidarietà di nullatenenti con gli schiavi durante l’insurrezione di Spartaco ed in seguito con i seguaci di Catilina. La proposta agraria del 63, così come la legislazione del 59, traggono ispirazione da tale contesto di degrado, ma preoccupavano tanto il ceto senatorio quanto quello equestre, intaccandone i possessi fondiari. Dell’opposizione di tali ceti, che fu vincente nella bocciatura della rogatio di Servilio Rullo, è testimonianza la critica mossa da Cicerone che, console nel 63, compose quattro orazioni schierandosi contro il progetto della lex agraria. Emigrazioni dei proscritti e degli espropriati verso Roma o al di fuori dell’Italia, formazione di bande armate, ed al contempo costituzione di un nuovo ceto di piccoli proprietari terrieri costituiscono le conseguenze immediate di questo rivolgimento sociale. Stando ai calcoli di P. Brunt, le assegnazioni terriere fra l’epoca di Silla ed il 25 a.C. coinvolsero 250.000 persone, determinando quindi uno spostamento ingente della popolazione italica; inoltre, poiché in molti casi i provvedimenti agrari prevedevano distribuzioni di terre in colonie transmarine, non va trascurata l’importanza dei flussi migratori al di fuori della penisola italica. Trasformazioni del paesaggio agrario dell’Italia furono poi conseguenza delle devastazioni causate dalle guerre: Cicerone e Appiano ricordano le sofferenze dell’Italia causate dalle truppe di Silla e dalla guerra contro Spartaco; le guerre civili del 43 e del 41-40 produssero nuove devastazioni. Sebbene il quadro prevalente porti a concludere nel senso della crescita del latifondo, non va negata l’importanza della piccola proprietà. Esemplare è al riguardo la testimonianza delle Verrine ciceroniane che fotografano la presenza di un ceto produttivo di piccoli proprietari terrieri accanto a quello dei latifondisti; in un’economia agricola orientata verso il mercato permanevano gli spazi per forme di autarchia. Allevamento, cerealicoltura, coltivazione di prodotti di punta destinati alla commercializzazione, quali quelli della vite e dell’ulivo, dovevano coesistere nelle diverse aree. Anche allorquando è prevalente la destinazione della produzione per il mercato, si tratta comunque di un’economia di surplus, che non si esaurisce nella monocoltura, ma che tiene vivo il principio della produzione locale di beni agricoli e artigianali, per soddisfare le esigenze della stessa azienda, soprattutto se ciò appare più conveniente rispetto all’acquisto sul mercato dei medesimi beni. La verità dei quadri è ben documentata ed alcuni esempi possono mostrare la differenziazione dei contesti produttivi sia per quanto riguarda la tipologia dei beni, sia per gli aspetti gestionali. In Etruria la parte meridionale risulta interessata dal fenomeno della villa schiavistica, rappresentato per eccellenza dal sito di Settefinestre, nei pressi di Cosa. Al contrario, la parte settentrionale non registra l’affermazione di tale modello produttivo in questa fase, probabilmente per la maggiore distanza rispetto alla capitale che scoraggiava gli investimenti richiesti per avviare le aziende agricole e, nel caso siciliano, è ormai accettata la complementarità di allevamento ed agricoltura, non esclusivamente cerealicola, ovvero la validità dei paesaggi rappresentati rispettivamente da Diodoro Siculo e Strabone da una parte e da Cicerone dall’altra. I dati emersi dalle ricerche sul territorio hanno evidenziato per l’ultima fase della repubblica un incremento in varie aree della penisola dei siti e dello sfruttamento del suolo che difficilmente può essersi tradotto in una diminuzione radicale della produzione cerealicola a vantaggio delle colture specializzate di vite e di ulivo e dell’allevamento transumante. L’affermazione dell’organizzazione produttiva della villa in questo periodo, oltre a essere archeologicamente documentata, trova conferma nella persistenza dei ritrovamenti di anfore destinate al trasporto dei vino italico, nonché nella continuità dei siti produttivi di tali ceramiche. Cicerone ci informa sul divieto agli agricoltori transalpini di coltivare vite ed ulivo, sottolineando il timore della concorrenza, quindi con provvedimenti protezionistici. Testimonianza del funzionamento della villa alla fine del I sec. a.C. è il De re rustica varroniano. Mentre le Georgiche virgiliane riflettono la situazione di redistribuzione delle terre ai veterani, l’attenzione di Varrone è tutta concentrata sulla gestione della grande proprietà terriera, in cui trova spazio la coltivazione di prodotti agricoli, selezionati secondo la domanda del mercato e le peculiarità del terreno, l’allevamento del bestiame, ed infine la villatica pastio. Rispetto al de agri cultura catoniano la struttura della villa si è modificata in maniera significativa per le dimensioni della proprietà. La manodopera impegnata è sempre quella schiavile, affiancata da mercenari, ovvero da manodopera libera per i lavori più importanti. A capo dei mancipia è ancora uno schiavo, ma appare mutato il trattamento loro riservato. Consentire agli schiavi di avere un peculio, di sposarsi con le compagne di schiavitù ed avere figli, coinvolgerli nelle scelte sui lavori, unificarli con esenzioni dal qualche fatica, usare liberalità nei loro confronti sono considerati strumenti che possono accrescere la fedeltà e la produttività dello schiavo. Dietro queste trasformazioni c’è da vedere un mutamento maturato a seguito dall’esperienza delle rivolte servili in Sicilia e in Italia. L’evoluzione dei tempi rispetto all’epoca catoniana è riflessa inoltre nella stessa struttura della villa che è ora costruita secondo criteri non solo di funzionalità, ma anche obbedendo ai gusti ed alle esigenze del proprietario. Se il I sec. può essere considerato ancora una fase di espansione dell’agricoltura, si registra parallelamente una crescita dell’urbanizzazione. Aumenta la popolazione di Roma, che alla fine della repubblica doveva contare fra 800.000 e 1.000.000 di abitanti, anche per effetto delle frumentazioni, strumento abusato di consenso nella lotta politica, i cui costi Cesare aveva dovuto contenere diminuendo il numero dei beneficiari. Le stime della popolazione dell’Urbe sono state studiate anche in relazione ai calcoli demografici riguardanti la penisola italica, per capire se dietro tale incremento si possa vedere un depauperamento dei residenti nel territorio, che tuttavia difficilmente si concilierebbe con il quadro di prosperità ed efficienza della produzione agricola prospettato e con l’aumento del fabbisogno alimentare della popolazione cittadina. La tradizionale ipotesi di una diminuzione della popolazione libera italica a partire dall’età post- annibalica, che sarebbe stata sostituita in parte dagli schiavi, appare dunque tramontata mentre acquista credibilità l’idea di un aumento globale della popolazione, tanto nelle città quanto nelle campagne. Alcuni studiosi hanno considerato quali fattori di calcolo, per il periodo II-I sec., i dati dei censimenti, il consumo del grano, i beneficiari delle frumentazioni, il rapporto fra liberi e schiavi, il numero delle case e la capacità degli acquedotti. Lo scarto notevole fra i civium capita censiti nel 70 a.C., ammontanti a circa 900.000, e quelli del censo del 28 a.C., pari ad oltre 4 milioni, è stato spiegato ora ipotizzando che il dato del 70 a.C. tenesse conto dei soli maschi adulti mentre quello del 28 a.C. fosse riferito alla popolazione complessiva, includente donne e bambini, ora piuttosto sottolineando la diversa efficacia delle procedura, poiché a partire da Cesare non fu più necessario recarsi a Roma per la professio, che d’ora in avanti si poté fare presso le comunità di appartenenza, e dunque crebbe drasticamente il numero degli incensi. Il 16 gennaio del 27 a.C., il senato in ringraziamento votò per Ottaviano una serie di onori riecheggianti antichi riti e simbologie: ornamenti di alloro e corona civica per la sua dimora; dedica nella curia Giulia di uno scudo d’oro su cui erano incise le virtù che ne avrebbero motivato l’offerta; l’attribuzione del titolo di Augustus, da lui assunto come cognomen, espressione della dimensione sacrale del suo potere. La rilevanza ideologica e la potenzialità significante della sacralità del potere di Ottaviano insite in tale appellativo è chiarita dall’uso del termine auctoritas: «fui superiore a tutti per auctoritas, ma quanto a potestas non ne ebbi più di quella di coloro che mi furono colleghi in ciascuna magistratura». Secondo questa personale ricostruzione il potere di Ottaviano era dunque sì basato sulle magistrature “repubblicane” che egli rivestiva ma di fatto era “accresciuto”, come la comune radice di Augustus e di auctoritas con augeo suggerisce. L’auctoritas permetteva al principe di dominare ogni istituzione repubblicana in nome di un principio che non aveva una precisa caratura costituzionale. Questa “parola del potere” collocava Ottaviano su un piano sacrale e religioso in misura ben maggiore e più personale di quanto l’essere Divi (Caesaris) Filius. F 0 E 0 Il titolo Augustus gli conferiva la dimensione del fondatore di un novus status come egli stesso amava considerarsi, evitando peraltro un’esplicita identificazione con il rex Romolo. Era, come è stato definito sulla base dell’esperienza dei regimi autoritari, un potere monarchico, autoritario, a base “carismatica”. Nell’Ottocento, Mommsen aveva definito il tipo di governo di epoca augustea una “diarchia” tra il principe e un organo squisitamente repubblicano, il senato. Il titolo di Augustus di per sé non conferiva il potere assoluto, ma costituiva il riconoscimento di una caratteristica ce anche precedentemente aveva segnato un potere non sempre del tutto legittimo da un punto di vista istituzionale: il consensus universorum che, offrendo una definizione complessiva del suo potere, indica come base del “potere assoluto” che aveva restituito al senato e al popolo e che collega all’instaurazione della pace civile. Tale “consenso di tutti” non aveva un preciso rilievo “costituzionale”, ma acquistò rilevanza tale da essere sempre ricercato in seguito, con varie modalità, dagli imperatori successivi. Nel 27 a.C. venne altresì assegnata ad Augusto l’amministrazione delle province in cui non era stata ancora domata del tutto l’opposizione armata al dominio romano, mentre l’amministrazione delle altre veniva lasciata al senato. Le modalità di conferimento e la stessa natura dell’imperium che era alla base di tale competenza sono state e sono oggetto di discussione, ritenendo alcuni studiosi, sulla base di Cassio Dione, che si trattasse di un imperium proconsolare maius (dunque senza limiti territoriali), che avrebbe legittimato Augusto ad intervenire anche nelle province amministrate dal senato; altri invece ipotizzano in un primo periodo, dal 27 a.C., un imperium procos. “normale”, come in genere quello dei governatori delle province, che solo nel 23 a.C. sarebbe stato modificato in imperium proconsolare maius; altri studiosi ancora, rilevando l’incompatibilità e illegalità nel cumulo tra imperium consulare e imperium proconsolare, pensano che il principe non avrebbe mai avuto un imperium maius, bastando l’auctoritas, secondo la stessa indicazione delle RG, a potenziare gli altri poteri di cui era investito. Augusto sarebbe intervenuto in Gallia e poi in Spagna, sin dall’estate del 27 a.C. con azioni militari che durarono fino al 24 a.C. per reprimere le rivolte di Asturi e Cantabri, avvalendosi solo del comando delle truppe proprio del consolato (tenuto per l’ottava, nona e decima volta dal 26 al 24 a.C.). Nel 23 a.C., oltre al rinnovo dell’imperium, fatto attribuire anche ad Agrippa per cinque anni. Augusto, console per l’undicesima volta, dopo una grave malattia che lo aveva indotto a pensare al problema della sua successione, e dopo manifestazioni di dissenso e opposizione, depose il consolato, che riassunse in seguito solo nel 5 e 2 a.C., rifiutò la dittatura offertagli dal popolo e dal senato, accettò l’attribuzione della tribunicia potestas in perpetuum , delle cui prerogative Augusto aveva parzialmente goduto in precedenza e che da ora lo metteva nella condizione di rappresentare la plebe e di svolgere alcune funzioni civili non comprese nella capacità dell’imperium, quale la facoltà di proporre plebisciti alle assemblee popolari. Di fatto si annullava la multisecolare contrapposizione del tribunato alle magistrature curuli e si realizzava la completa integrazione del tribunato della plebe nello stato. Dopo una carestia, per provvedere alla quale assunse in prima persona, e a proprie spere, la cura annonae, dal 22 al 20 a.C., Augusto intraprese un viaggio in Sicilia, Grecia e nelle province di Asia, Bitinia, Ponto, Siria, nelle quali provvide a una sistemazione dell’amministrazione. Nel 19 a.C. gli furono offerti alcuni onori consolari, quali la sella curulis e i 12 littori, probabilmente per giustificare l’esercizio di poteri civili per i quali non era sufficiente la tribunicia potestas. Tramite la censoria potestas, nel 18 a.C., Augusto effettuò la lectio senatus, che aveva già eseguito nel 29 a.C. assieme ad Agrippa e poi ancora effettuò nell’11 a.C., mentre nel 4 d.C. affidò il compito a seviri da lui scelti. Al ritorno da Gallia e Spagna dove dal 16 al 13 a.C. aveva diretto operazioni di sottomissione di popolazioni locali, nel 12 a.C., in seguito alla morte di Lepido, Augusto assunse anche, per voto dei comizi, il pontificato massimo, il più alto sacerdozio romano, tradizionalmente tenuto dal princeps senatus, che sancì ulteriormente la sacralità del potere del principe e che fino a Graziano (IV sec. d.C.) sarà sempre rivestito dagli imperatori. Come pontefice massimo Augusto aveva il potere di controllare il calendario e i sacrifici di stato, e di scegliere i flamini. Nel 2 a.C. rivestiva il consolato per la tredicesima volta, Augusto fu acclamato pater patrie e fu realizzata l’iscrizione nel vestibolo della sua casa, nella curia Iulia e nel Foro di Augusto, conferma finale di quella assimilazione a Romolo che Augusto non aveva mai voluto fosse ricordata esplicitamente, ma a cui implicitamente alludevano diversi attributi e simboliche coincidenze, accuratamente ricercata da lui stesso. Nel 5 d.C. si colloca una modifica delle istituzioni repubblicane. Fu introdotta una “riforma” dei comizi che sin dal 28 a.C. avevano ripreso la loro attività e ai quali anzi Augusto aveva voluto assicurare una partecipazione più ampia attraverso l’allargamento del voto comiziale ai cittadini delle colonie fondate in Italia. Il metodo complicato nelle modalità di espressione del voto e nella trasmissione dei risultati dovette influire sul fallimento della riforma, unitamente alla diffusa mancanza di interesse per la partecipazione alle assemblee, alla consapevolezza sempre più chiara del peso effettivo della volontà del principe. Nel 5 d.C. furono infatti apportate modifiche alle procedure di voto in onore dei nipoti e dei figli adottivi, Gaio e Lucio Cesari, destinati alla successione ma morti in giovanissima età ed eroizzati, sulle quali siamo informati da importanti documenti epigrafici rinvenuti in Toscana e in Spagna, cioè la procedura della destinatio, per cui nell’indicazione dei magistrati diventava determinante il voto di dieci centurie formate per sorteggio da elenchi di senatori e cavalieri. Tale voto veniva considerato quasi un oracolo dei giovani principes inventutis in onore dei quali erano state istituite. La procedura per cui una o più centurie esprimevano il voto più influente richiama la procedura tradizionale della centuria praerogativa, che, estratta a sorte, votava per prima, ma risultava immediatamente chiara la dimensione extracostituzionale e sacrale che veniva a trasformare tale modello precedente, sottraendo la decisione alla volontà umana e mutando radicalmente il rapporto politica- ricchezza su cui si strutturava l’ordinamento centuriato. Del 27 a.C. risalta la continuità affidata ad un intrecciarsi e integrarsi costante di magistrature “legali”, “repubblicane” e di potere assoluto di fatto, sia prima che dopo tale data, e, soprattutto, di prestigio di natura extracostituzionale. Nel corso di lunghi anni questo “architetto” dell’impero non sembra abbia seguito un piano sistematico preordinato per dare definizione formale al potere effettivo che esercitava, ma che abbia sperimentato soluzioni diverse mantenendo però costanti innovazioni di carattere “monarchico” con istituzioni di tradizione repubblicana antica e recente, recuperate, ma volte a una nuova semantica giuridica. 3. Politica e propaganda Se appare superata l’ipotesi di condivisione del potere tra il principe e gli organismi repubblicani, quali soprattutto l’assemblea tradizionale del senato, si affiancano letture diverse: da un lato si parla di potere monarchico e di ideologico mascheramento di esso, dall’altro viene evidenziata la complessità della posizione augustea e l’opera costante di mediazione tra opposte tendenze e diverse componenti sociali. Emergono nella tradizione una linea tradizionalista, propria degli esponenti delle grandi gentes repubblicane, che con i loro patrimoni e le loro clientele erano ancora presenti e influenti, e una linea per eccellenza innovatrice, che tendeva alla instaurazione di un potere monarchico autocratico di tipo ellenistico, ispirato a modelli egizio-asiani, accettato e persino sollecitato dalle province orientali ma anche dalla plebe romana e dall’esercito. Tali opposte linee politiche, attraversavano trasversalmente la stessa famiglia del principe e la nobilitas, dividendo le famiglie, ricomponendo gli individui in gruppi ideologicamente, politicamente e non solo familiarmente caratterizzati. Alla linea di compromesso Augusto sacrificò anche affetti familiari e con esso riuscì a tenere insieme forze contrastanti un equilibrio non privo in realtà di momenti di forte attrito e di una opposizione strisciante che si esprimeva in moti di piazza e congiure di palazzo. La linea politica augustea, di prudenza e moderazione, fu sostenuta da un complesso e potente apparato ideologico per la cui elaborazione e comunicazione tramite svariati mezzi Augusto si avvalse della collaborazione di numerosi intellettuali, poeti, storici, artisti, utilizzò riti e immagini, in modo da raggiungere vari livelli sociali e culturali. La parola chiave della politica e della propaganda fu pax, che indicava la fine e il superamento delle guerre civili e la ritrovata concordia tra individui e gruppi sociali. Annunciata nel 29 a.C. con la chiusura del tempio di Giano, l’esaltazione della pax fu costantemente ribadita nel corso dei lunghi anni di potere, propagandata in una dimensione epica dai poeti contemporanei e cominciata tramite le rappresentazioni classicistiche dell’Ara Pacis, consacrata per voto del senato nel 13 a.C. al ritorno di Augusto da Gallia e Spagna per i successi ivi riportati e poi inaugurata nel 9 a.C., nel Campo Marzio. La concezione stessa di un altare rendeva eterna la promessa del principe e ne ribadiva il fondamento religioso del potere. Augusto comunicò la sua posizione di garante della pace. Con le maggiori e più nobili delle gentes Augusto intrecciò una fitta rete di relazioni parentali, saldando nel contempo anche i rapporti con i ceti inferiori. Nella ambivalenza pubblico-privato si colloca anche il ruolo della famiglia del princeps che, già compartecipe nel 36 a.C. della sacrosanctitas tribunizia di Ottaviano, assunse sempre più valenza pubblica e politica, come attestato i rilievi dell’Ara pacis, o l’istituzione delle centurie destinatrici dei magistrati in onore dei principes inventutis Gaio e Lucio, nel contesto peraltro di una legislazione morale che difendeva l’istituto familiare come nucleo fondante della società. Ottaviano propose una riforma dell’etica sessuale e del matrimonio. La restaurazione riguardò non solo gli istituti politici e il diritto, ma anche modelli etici del passato e valori collettivi identitari, i mores maiorum, l’antica religio, riti e sacerdozi arcaici, cui egli stesso partecipò in prima persona. Le sue aperture a concezioni politiche “orientali” sono specialmente evidenti nell’accettazione di un culto, sia pure in associazione con Roma, anche nelle province occidentali, ma in particolare in quelle asiatiche, dove la figura di Augusto fu presentata in una dimensione soteriologica e carismatica: nel decreto al koinon d’Asia del proconsole d’Asia del 9 a.C., Fabio Massimo, personaggio molto vicino ad Augusto, il principe è presentato come portatore di euanghelia e iniziatore di un’era nuova dell’umanità. A Roma l’associazione del princeps al divino fu più prudente e fu trasmessa tramite una serie di mediazioni culturali. L’antichissima virtù della pietas fu curata da Augusto nelle varie articolazioni della sua valenza insieme religiosa, civica e familiare, dalla rivendicazione della ultio Caesaris al fitto programma di edilizia sacra. La competenza del prefetto della città si estendeva fino a cento miglia dalla città di Roma. Anche la praefectura vigilum, affidata a uomini di estrazione equestre, aveva il compito di mantenimento dell’ordine pubblico specie di notte, tramite il corpo dei vigili, incaricati anche dello spegnimento degli incendi, di condizione schiavile nel 22 a.C., in seguito di estrazione libertina. Il praef. Vigilum acquisì funzioni giurisdizionali per il colpevoli di reati nell’ambito di competenza, poi anche in ambito civile. In ultimo, la praefectura praetorii, creata nel 2 a.C., consisteva nel comando delle coorti pretorie: 3 di stanza a Roma, in seguito riunite nei castra praetoria. La città, dal 7 a.C., fu ripartita topograficamente in quattordici regiones, a loro volta suddivise in vici, quartieri; più vici riuniti insieme elegevvano annualmente dei magistri estratti dalla plebe in essi residente, i quali dovevano provvedere al controllo dell’ordine pubblico, della sicurezza, della vita culturale in onore dei Lares Augusti e del genio dell’imperatore. b) Interventi in Italia Di scarsa entità gli interventi augustei nell’organizzazione amministrativa dell’Italia fuori Roma, che solo nel tardo impero riceverà una struttura amministrativa di tipo provinciale. Con Augusto invece la penisola venne suddivisa in undici regiones, che probabilmente non erano di carattere amministrativo, bensì, solo censitario. A capo delle regiones pertanto no nfurono preposti funzionari responsabili dell’amministrazione. Solo nel II sec. d.C. saranno istituiti magistrati per l’amministrazione della giustizia civile, consulares o iuridici, mentre della giustizia penale si occupava il praefectus praetorio. Gli abitanti dei circa quattrocento insediamenti urbani – antiche comunità alle quali, dopo la guerra dei socii, era stato esteso lo statuto municipale (municipia), per cui godevano di autonomia per gli affari interni gestiti tramite il governo locale, o nuove colonie dedotte da Augusto – erano cittadini romani, che si cercò di incrementare con una campagna demografica e di promuovere politicamente agevolandone l’esercizio di diritto di voto; i centri urbani amministravano lo spazio rurale ricadente nel proprio territorium, ripartito in distretti, pagi, funzionali alla registrazione della composita realtà agraria che si articolava in agri, fundi con villae (fattorie e/o residenze padronali), vici (villaggi di contadini). Più consistenti gli interventi del potere centrale sia nell’edilizia dei centri urbani, sia sul sistema stradale, importante per l’efficienza delle comunicazioni, cui in età neroniana venne preposto un praefectus vehiculorum, di rango equestre. c) Ordinamento delle province Anche le innovazioni augustee nell’amministrazione dei territori dell’impero si caratterizzano come compromesso tra tradizione e innovazione. Formalmente rimase in piedi il sistema repubblicano, per cui a governare i territori provinciali – di cui in linea teorica era titolare il popolo romano – continuarono ad essere inviati, come in età repubblicana, ex magistrati, dunque membri del Senato; tuttavia già nel 27 a.C. le province vennero ripartite, in due diverse sfere di competenza, da un lato quella tradizionale del Senato e del popolo, dall’altro, quella del principe. Nel primo ambito venero comprese la provincia d’Africa Proconsolare, la Betica, la Narbonese, la Sicilia, la Macedonia, Acaia, Asia, Creta, Cipro, Ponto: dieci alla fine del I sec.; nel secondo le province di recente conqusta o situate vicino alla frontiera, considerate “non pacificate”, così da richiedere la presenza dell’esercito e affidate dunque per delega al principe, pronviciae Caesaris. A governare le prime venivano inviati proconsules, ex consoli o ex pretori a seconda dell’importanza della provincia a cui erano destinati, votati nei comizi e nominati dal Senato, in carica per un anno, i quali amministravano la giustizia, coadiuvati da altri magistrati di tradizione repubblicana, quaestores, per l’amministrazione fiscale; anche al governo delle seconde erano preposti senatori, ma scelti dal principe di cui i governatori erano legati e denominati perciò legati Augusti; anche questi erano ex consoli o ex pretori. Tutti avevano un imperium, che, in quanto subordinato a quello del principe, era di rango propretorio. La durata della carica era variabile, stabilita di volta in volta dalla volontà del principe. Anche della riscossione delle tasse in queste province si occupavano emissari del principe, procuratores, estratti dall’ordo equestre. Nella realtà concreta dei fatti però la distinzione di massima era meno netta di quanto si possa pensare: in realtà anche nelle provinciae populi si trovavano unità militari, anche se in genere solo piccole unità ausiliarie; inoltre l’auctoritas del principe (o l’imperium maius, quantomento a partire da Tiberio), lo abilitava a intervenire anche nelle provinciae populi. C’erano poi forme più sottili di interferenza. Una legge di Augusto vietò che un governatore potesse essere scelto come patrono della comunità provinciale che amministrava, limitandone di fatto l’autorevolezza e la possibilità di crearsi delle clientele nelle province governate, componente strutturale fondamentale del prestigio nobiliare e senatorio. Il patronato ora tendenva invece a concentrarsi nella persona del principe. Anche le proprietà imperiali, dislocate nelle province populi, venivano amministrate dal principe tramite suoi procuratores, la cui presenza nella provincia non poteva non costituire, seppure informalmente, una forma di controllo e di pressione sugli amministratori senatorii. La distinzione tra i due tipi di province si manifestò inoltre come una realtà dinamica in quanto province inizialmente considerate non pacatae (non pacificate) con il cambiamento della situazione passarono nell’ambito della competenza del popolo, mentre altre, in relazione all’insergere di problemi militari, passarono nella sfera di competenza del principe. Alcune province, quasi sempre di limitata estensione e/o di ridotta importanza a partire da Claudio, furono rette da cavalieri (chiamati inizialmente prefetti, poi procuratori), anche se spesso soggetti al comando del governatore di rango senatorio di una provincia vicina, come nel caso della Giudea, subordinata al legato della Siria. Una provincia in particolare – molto importante sia per i rifornimenti granari di Roma, ma anche dal punto di vista strategico e politico e con una specifica tradizione culturale – fu sotratta al governo senatorio: l’Egitto, nel quale anzi i senatori non potevano neanche entrare senza l’autorizzazione del principe. Al suo governo fu mantenuta, restaurata, la gestione tolemaica, fu preposto un cavaliere, il praefecuts Alexandreae et Aegyptii, che con imperium proconsolare comandava anche le legioni ivi distaccate e dipendenva esclusivamente e direttamente dal principe che rappresentava. Questa prefettura, la più importante carica equestre assieme alla prefettura al pretorio, metteva in particolare rilievo la posizione della città di Alessandria; il resto del paese rimase infatti suddiviso in nomoi, distretti territoriali a capo dei quali erano posti “strateghi” nominati dall’alto. Il ruolo di amministratore dei beni privati del principe e insieme delle finanze pubbliche, svolto altrove dai procuratores, era qui attribuito a un funzionario di tradizione tolemaica, l’idiologos, già in età augustea. Questo sistema amministrativao era in verità una struttura a maglie molto larghe se la considera in relazione all’estensione dei territori e poté funzionare in quanto integrato con la collaborazione di cellule di base locali, le comunità urbane: le coloniae. Al tempo di Augusto realizzate ancora in numero consistente tramite l’invio di cittadini romani, in genere veterani, in antichi centri urbani del Vicino Oriente, dell’Italia e della Sicilia, o centri di nuova “fondazione” nelle province occidentali; municipia di diritto latino o romano. Questi centri urbani erano amministrati da duoviri iure dicundo (che ogni cinque anni si occupavano del censimento ed erano perciò detti quinquennales) da due aediles e da un senato locale i cui membri, decuriones, furono progressivamente incaricati della percezione del tributo. La maggior parte delle comunità provinciali – talvolta sempre più raramente liberae o foederate – non godeva della cittadinanza romana: erano peregrinae, “straniere”, la cui aspirazione ad acquisire la cittadinanza non trovò apertura in Augusto. d) Ristrutturazione delle imposizioni fiscali Per i cittadini romani residenti a Roma e nelle città italiane fu mantenuta l’esenzione dall’imposta fondiaria (tributum soli), ma fu introdotto il pagamento di alcune tasse quali la vicesima hereditatium, istituita nel 5 o 6 d.C., che colpiva le classi abienti, o la centesima rerum venalium che riguardava anche i ceti popolari. Il gettito di queste imposte fu fatto confluire in una cassa pubblica di nuova istituzione, l’aerarium militare, cui attingere per i premid i congedo dei veterani. I cittadini romani residenti nelle colonie romane in territorio provinciale che godevano dello ius Italicum, si trovavano nelle stesse condizioni fiscali dei cittadini residenti a Roma o in Italia; le comunità peregrinae, per la maggior parte stipendiariae, se liberae, talvolta erano anche immunes. Il sistema di riscossione delle tasse provinciale andò incontro anch’esso a un profondo cambiamento, sottratto al regime degli appalti pubblici adottato in epoca repubblicana e alla rapacità di pubblicani e governatori cui aveva dato luogo. L’esazione dei tributi provinciali in moneta (stipendia)consistenti in imposizioni fondiarie e imposizioni personali, venne progressivamente affidcata alle amministrazioni cittadine nei cui territori ricadevano uomini e proprietà. I proventi fiscali delle provinciae populi confluivano nella tradizionale cassa dello stato, l’aerarium Saturni, che aveva sede nel tempio di Saturno ed era gestita dal senato tramite suoi rappresentanti i cui nomi e la cui selezione cambiò frequentemente sotto i successori di Augusto: due praetores, scelti a sorte, in seguito due quaestores, poi praefecti scelti dall’imperatore tra gli ex pretori. I proventi fiscali delle provinciae Caesaris erano raccolti in casse locali, forse per far fronte sul posto alle spese militari, i cui residui probabilmente cominciarono ad essere raccolti in un unico fiscus Caesaris, una cassa nella diretta disponibilità del principe, distinta dall’aerarium, che si venne progressivamente costituendo, già nel corso del principato augusteo e sempre più con i suoi successori, come cassa composita nella quale confluivano anche i redditi privati del princeps. La gestione di questi redditi era affidata a personale della casa del principe, servi e liberti, ai quali era preposto un liberto con specifiche mansioni di “ragioneria generale”, a ragioni bus. Tasse indirette erano i vectigalia e i portoria che erano sempre state percepite tramite societates publicanorum secondo le modalità della lex portorii Asiae. e) Riforme dell’esercito Coerenti le riforme militari da un lato con l’annuncio solenne della pace interna ed esterna, dall’altra con il riconoscimento della persistenza di focolai di guerra (in alcune zone del vasto impero non del tutto assoggettate al dominio di Roma). Alla riorganizzazione dell’esercito Augusto provvide con interventi di varia natura, in primo luogo lo scioglimento della maggior parte dei corpi militari, il cui numero appariva esorbitante rispetto alle esigenze delle fasi più acute del conflitto con Antonio. Le legioni, arrivate allora al numero di sessanta, furono ridotte a ventotto e trasformate in esercito permanente, diminuite poi a venticinque dalla pesantissima sconfitta di Teutoburgoe non reintegrate. La drastica riduzione degli effettivi attuata da Augusto contribuì a ridimensionare il problema degli arruolamenti, allentato anche dalla fissazione della fermata a sedici anni e dalla incentivazione del pagamento del “soldo” (stipendio annuo di ca. 225 denari) e del premio finale di congedo. Questo, dopo l’applicazione massiccia in età triumvirale delle deduzioni colonarie e delle assegnazioni di terre – operazioni impegnative per la difficoltà di reperimento di terreno, impopolari per lo scontento dei veterani in comunità preesistenti – fu sempre più contabilizzato in denaro. La somma, equivalente all’ammontare del soldo di più di dieci anni, era sufficiente a consentire l’acquisto di un podere. Questa soluzione veniva a costituire un considerevole onere finanziario, in alcuni casi sostenuto personalmente da Augusto. I nuovi organi di giurisdizione criminale, che prima si affiancarono come “straordinari” e poi sostituirono le quaestiones, anche se alcune di queste sopravvissero, furono l’assemblea del Senato, guidata dai consoli e il tribunale del principe, coadiuvato da un consilium di senatori e cavalieri scelti tra i suoi amici e comites. Nella tarda repubblica il senato aveva svolto funzione giudiziaria con l’emanazione di senatusconsulta ultima, ma si era trattato di occasioni eccezionali, in cui il senato aveva agito al di fuori delle garanzie costituzionali, mentre Augusto istituì una vera e propria cognitio senatus emanante una regolare sentenza, specie in materia di crimini di maiestas commessi da senatori, in una data imprecisata in cui terminus ante quem è l’8 d.C., data in cui Ovidio lamenta di non essere stato giudicato da un tribunale senatorio. Con Tiberio il senato è il tribunale regolare per il crimen de maiestate e per le repetundae. Vi era sempre e comunque la realtà dell’ingerenza del principe che prendeva parte all’assemblea e implicitamente orientava nel voto con lo ius praerogativae; egli costituiva comunque un grado di appello. Il principe poi riservò a sé stesso la giurisdizione sui reati de maiestate non commessi da senatori, specie da maghi, indovini, astrologi e, in quanto dotato di imperium e di potestà consolare, sui reati di violazione della disciplina militare, sui reati contro la pubblica amministrazione. Augusto e Tiberio si dedicarono comunque poco a questa attività, di più invece Caligola e soprattutto Claudio, messo alla berlina nell’Apokolokyntosis proprio per la quasi ossessiva attività giudicante, che Claudio, come poi Nerone, teneva spesso intra cubiculum, non in luoghi pubblici. Rispetto all’età repubblicana un cambiamento fu costituito dall’impossibilità per il condannato di sfuggire alla pena con l’esilio. La giurisdizione criminale ordinaria per i delitti commessi da gente comune fu affidata ai funzionari preposti al controllo dell’ordine pubblico, i praefecti urbi, vigilum, annonae e praetorio. Nelle province i governatori, dotati di imperium e dunque di ius coercitionis, potevano procedere liberamente nei confronti dei provinciali peregrini, ma spesso usavano un procedimento simile a quello delle quaestiones; l’imputato poteva appellare al principe; i cittadini romani potevano chiedere di essere giudicati a Roma. Capitolo II: La successione 1. I progetti di Augusto Il gesto di Augusto più dirompente per il ripristino delle regole repubblicane potrebbe essere individuato nei progetti di successione precocemente coltivati e manifestati dal principe, i quali oltre che innovativamente “monarchici” potevano anche apparire come tipicamente rappresentativi dei costumi delle grandi famiglie repubblicane e della tradizionale trasmissione al loro interno per via ereditaria, assieme agli immensi patrimoni, del prestigio sociale e delle numerose clientele politiche. La preparazione alla successione fu infatti concepita e attuata da Augusto nel contesto della politica familiare e delal propaganda ideologica che, assieme alal costruzione delle sue origini divine, assegnava una posizione eminente e un ruolo pubblico ai membri della gens Iulia. Nel contempo strategie matrimoniali sapientemente organizzate con le famiglie della vecchia nobiltà repubblicana erano finalizzate a consolidare la famiglia Giulia, ad assicurarne la sopravvivenza tramite una numerosa discendenza. F 0E 0 Si formava la domus Augusta, attorno alla quale il sistema di amicizie “clientelari” dei familiares andò formando una corte di amici, ideologicamente e politicamente caratterizzata da tendenze diverse, che si evidenziano in modo particolare proprio in relazione al problema della successione. Il caso e/o le contraddizioni interne al sistema di rapporti familiari e politici che si creò frustrarono i pur accurati progetti del principe. Augusto seguì il procedimento di attribuire poteri “costituzionali” analoghi ai propri ai diversi soggetti via via individuati per continuare quella che egli amò definire una statio. Più volte infatti il principe non fu “fortunato” nei suoi progetti e dovette tornare a predisporre dei piani per la successione. Egli pensò dapprima al nipote Marco Claudio Marcello, nato dal primo matrimonio della sorella Ottavia, fatto sposare già nel 25 a.C. con Giulia, l’unica figlia avuta da Augusto (dal suo secondo matrimonio). Forse inizialmente il principe aveva solo progettato una successione dei futuri figli della coppia, ma a Marcello stesso furono attribuiti già nel 24 a.C. l’edilità, il seggio in senato tra gli ex pretori, la possibilità di presentarsi candidato al consolato dieci anni prima dell’età legale. Nel 23 a.C., però, ad appena venti anni, Marcello moriva. La giovane vedova fu data in spsa dopo due anni all’anziano, fedelissimo amico e geenerale di Augusto, Agrippa, al quale nel 18 a.C. fu attribuita la tribunicia potestas e rinnovato il proconsolato. Non era tuttavia su Agrippa, di natali “oscuri” rispetto alla nobilissima famiglia Giulia, che si potevano effettivamente fermare i progetti del principe. I primi due figli maschi della feconda coppia, Gaio e Lucio, furono adottati entrambi da Augusto, nel 17 a.C. e presto fatti emergere alla vita pubblica: Gaio indossò la toga virile, ricevette il titolo di princeps inventutis e designato console; nel 2 a.C., lo stesso anno in cui Giulia veniva bandita nell’isola di Pandataria (Ventotene) come ultima e definitiva misura per la sua condntta “immorale”, onori analoghi furono attribuiti a Lucio. Purtroppo morirono precocemente entrambi in circostanze, tempi e luoghi diversi: Lucio morà improvvisamente a Marsiglia nel 2, Gaio nel 4 d.C., in Oriente, dove era stato inviato con imperium proconsolare, per le conseguenze di una ferita riportata in battaglia. Non mancarono i sospetti su Livia, che dal matrimonio con Tiberio Claudio Nerone aveva avuto due figli, Tiberio, il futuro imperatore, e Druso, che era nato quando Livia era già in casa di Ottaviano. Per loro e soprattutto per il primogenito Livia aspirava alla successione e in questa direzione lavorò sempre con tenacia. Tiberio dopo la morte di Agrippa era stato costretto a divorziare dalla sua prima amata moglie per sposare Giulia; era stato in seguito acclamato imperator per le campagne condotte in Germania e gli era stato concesso di celebrare il trionfo; due volte console, aveva ricevuto la tribunicia potestas. Ma i cattivi rapporti con Giulia, la precedenza dei due figli adottivi nei progetti di successione avevano probabilmente motivato Tiberio ad allontanarsi da Roma per recarsi a Rodi in una sorta di volontario esilio che tese i suoi rapporti con Augusto. La morte prima di Gaio, poi di Lucio, ai quali furono votati particolari onori, rinverdivano le possibilità di Tiberio, che, richiamato a Roma nel 2 d.C. fu adottato da Augusto nel 4 d.C. Tiberio, che aveva già un figlio, Druso, dovette contestualmente adottare il nipote Germanico, parente di Augusto non solo in quanto figlio di Antonia (figlia di Ottavia, sorella di Augusto), e del secondogenito di Livia, Druso (omonimo), ma sposo inoltre di Agrippina Maggiore, una delle figlie femmine nate dal matrimonio di Giulia figlia di Augusto con Agrippa. Fino a poco tempo prima di morire Augusto cercò di mostrarsi aperto a un confronto su ipotesi diverse: circolavano idee sulla successione che sostenevano personalità di prestigio estranee alla domus. Il prevalere di queste idee politiche nell’età in cui furono scritte la maggior parte delle nostre fonti contribuì alla loro decisa ostilità ai successori di Augusto, i quali fino a Nerone appartennero tutti in qualche modo a rami della famiglia. La successione per linea di sangue era una linea politica sostenuta da elementi molto vicini al principe. In questa prospettiva potrebbe essere interpretato il riavvicinamento di Augusto al nipote Agrippa Postumo, l’ultimo dei figli maschi di Giulia ed Agrippa, precedentemente malvisto dallo stesso Augusto e da Livia per aspetti sgradevoli della sua personalità, ripudiato nel 7 a.C. e l’anno dopo allontanato nell’isola di Planasia (oggi Pianosa): nel 14 d.C. il principe andò a visitarso per una riappacificazione. L’eliminazione di Agrippa Postumo subito dopo la morte di augusto venne abilmente presentata da Tacito in modo da suggerire sospetti su Livia e Tiberio ed evidenziarne l’acquiescenza tacita di un senato che tramite influenti e acuti osservatori e consiglieri frenò le pretese tiberiane di costruirsi alibi legali peraltro non richiesti. 2. L’impero hereditas di una sola famiglia La morte di Augusto non segnò quella del tipo di governo da lui pazientemente e sagacemente costruito, anche se intervennero modifiche e adattamenti in relazione alle diverse tendenze politiche dei principi che gli succedettero e alle forze sociali su cui appoggiarono. Tiberio, sul piano privato designato nel testamento di Augusto erede principale assieme a Livia, e sul piano pubblico già dotato di imperium proconsolare e tribunicia potestas, ricevette dal Senato l’offerta dell’impero. Rifiutò sempre il titolo di imperatori e di pater patriae, come anche le acclamazioni divinizzanti, e in seguito mostrò sempre un atteggiamento di osequio per le prerogative del Senato, a cui anzi demandò in via esclusiva la procedura elettorale dei candidati al consolato e alla pretura esautorando i cavalieri, e affidà sempre più un ruolo giudiziario. Storici antichi e moderno hanno tuttavia sottolineato la natura più formale che sostanziale di tale devotus animus. Nonostante l’iniziale posizione “costituzionalista”, gli ultimi anni di Tiberio sono tratteggiati dalle fonti come quelli di un regime del terrore, in cui processi e suicidi, conguire e timori di congiure si affollano a delineare il profilo di un despota crudele e isolato. Se nella fase del conferimento dei poteri i senatori si erano mostrati unanimi e insistenti, non mancarono però reazioni negative e tentativi di opposizione. Tale l’avventura dello schiavo di Agrippa Postumo, Clemente che, appoggiato anche da ambienti della corte, spacciandosi per il padrone assassinato, cercò di fomentare una rivolta, ma fu eliminato mentre cercava di congiungersi con le legioni di Pannonia e Germania, che manifestavano aperto dissenso nei confronti della successione di Tiberio a cui preferivano il loro comandante Germanico. Egli però mantenne un comportamento lealista e continuò le operazioni belliche, dotato ora di imperium proconsolare per volontà di Tiberio. Il grande dissimulatore, come lo rappresenta Tacito, con tale gesto aveva pubblicamente riconosciuto una precedenza al nipote e figlio adottivo rispetto al proprio figlio naturale Druso, ma in realtà avrebbe covato una profonda gelosia nei confronti di Germanico e della sua Famiglia, che una recente scoperta epigrafica (il testo del santo consulto che concluse il processo ai presunti assassini di Germanico) ha riportato al centro dell’attenzione degli storici. Germanico fu richiamato a Roma e inviato in Oriente per risolvere la questione dell’Armenia; contestualmente veniva scelto come propretore di Siria Gneo Pisone con il compito esplicito di supportare militarmente la missione di Germanico e con l’occulto fine di controllarne l’operato. Il conflitto fra i due scoppiò prestissimo per il mancato aiuto militare a Germanico – che comunque riuscì a porre sul trono di Armenia un principe filo romano- Germanico, colpito da grave malattia, sospettò egli stesso di essere stato avvelenato per ordine di Gneo Pisone. Mentre Agrippinariportava in Italia le ceneri del marito tra folle osannanti, Pisone fu richiamato a Roma e processato assieme alla moglie e al figlio. La sentenza condannò il proconsole, che si suicidò prima, ma scagionò l amoglie e il figlio. Onori simili a quelli istituiti da Augusto per i principes inventutis Gaio e Lucio furono attribuiti nel 19 d.C. al morto Germanico, e poi al figlio di Tiberio, Druso II, nel 23 d.C., ma probabilmente la procedura cadde in disuso presto anche per la progressiva decadenza dei comizi, se Tacito afferma che già nei primi anni di Tiberio le elezioni avvenivano esclusivamente in senato. Nel cupo quadro della corte che Tacito ha tracciato negli Annali, gelosie e sospetti di possibili congiure si andarono accentuando sempre più, caratterizzati dalla persecuzione della famiglia di Germanico e da un moltiplicarsi di processi politici che eliminarono molti elementi della corte sospettati di aspirare al principato. Dietro le rivalità si colgono linee politiche diverse, l’una, quella di Tiberio o di Gneo Pisone, “costituzionalista”, l’altra, quella di Germanico, tendente a un principato monarchico e dinastico, capace di rispondere alle inquietudini dei ceti inferiori e di spezzare l’accordo con la vecchia nobilitas. Nel 27 d.C. Tiberio si ritirò a Capri, lasciando l’effettiva gestione dell’impero al prefetto al pretorio L. Elio Seiano, che specie dopo la morte di Livia e di Druso minore ebbe un ruolo determinante. Seiano nel 31 d.C. ricevette il consolato assieme all’imperatore, pur essendo un cavaliere. L’eccessivo potere del prefetto al pretorio, che, pur appartenendo all’ordine equestre, mostrava anche di aspirare a legarsi alla domus del principe con vincoli matrimoniali, non mancò di suscitare l’opposizione decisa all’interno della stessa domus Augusta e in particolare della vecchia Antonia, che lo denunciò presso l’imperatore. Tiberio, che aveva intanto chiamato presso di sé a Capri l’unico figlio superstite di Germanico e Agrippina, Gaio, nominò un altro prefetto al pretorio, Q. Nevio Cordio Sutorio Macrone, che svolse il compito di ufficializzare la denuncia e di potere a compimento condanna ed esecuzione di Seiano (31 d.C.). Tiberio morì presso Miseno il 16 marzo del 37 d.C., per morte naturale secondo l’isolata voce di Seneca il Vecchio riportata da Svetonio, per omicidio, realizzato per congiunta volontà di Gaio e Macrone, secondo altre fonti. rientravano in un ampio disegno di politica culturale mirante a diffondere e consolidare la cultura greca ellenistica nella prospettiva di agevolare l’affermazione ideologica del principato assoluto. L’estinzione di parenti di sangue di Augusto e la mancanza di prole di Nerone furono tra i fattori che agevolarono alla sua morte il ricambio al vertice, preparato dal crescente prestigio fra le legioni dei loro comandanti, avvantaggiati nel favore dei militari dal confronto con il principe, e da un’opposizione montante ripetutamente organizzata in congiure, represse nel sangue: nel 65 perirono Gaio Pisone, Trasea Peto, Annio Pollione, Musonio Rufo, nel 66 lo stesso grande generale Domizio Corbulone che aveva conseguito grandi successi in Oriente. Nell’opposizione a Nerone confluiva il malcontento del ceto senatorio, anche se ampiamente rappresentanto dalla nuova nobilitas, che della vecchia decimata da condanne e suicidi aveva assunto mentalità e convincimenti stoicheggianti. Si giunse infine all’aperta rivolta, al suicidio di Nerone nel 68 d.C. e alle lotte intestine tra i vari pretendenti che si prolungarono per tutto il 69 d.C., per approdare infine all’affermazione di Flavio Vespasiano. 3. il 69 d.C., longus et unus annus Scoppiò inizialmente nel 68 d.C. la rivolta del legato della Gallia Lugdunense, Gaio Giulio Vindice. Vindice, cavalcando l’insofferenza dei provinciali alla pressione fiscale e rivendicazioni nazionaliste celtiche, offrì il suo appoggio per la candidatura all’impero al governatore della Tarraconese Servio Sulpicio galba, ma fu sconfitto da L. Virginio Rufo, legato dalla Germania Superiore e si suicidò. Le legioni di Virginio Rufo offrirono il principato al loro comandante, che rifiutò, mentre le legioni della Tarraconese, soprattutto l’ufficialità, riuscirono a fare accettare l’impero a Galba. Questi a Roma fu riconosciuto dal senato e dalle coorti pretorie che avevano ricevuto promessa di un ricco donativo. Nerone, dichiarato hostis publicus, cercò di fuggire ma infine si arrese al suo destino e si suicidò aiutato da un suo liberto a 31 anni di età. Galba, giunto a Roma nell’ottobre del 68 d.C., in considerazione della sua età avanzata volle prudenzialmente predisporre la sua successione adottando un senatore più giovane, Lucio Calpurnio Pisone Liciniano, di nobilissima famiglia. Poco dopo l’adozione di Pisone, i pretoriani con un voltafaccia causato dal mancato esborso del donativo promesso, abbandonarono Galba e si schierarono con M. Salvio Otone, un senatore già marito di Poppea e già amico di Nerone, deluso nelle sua aspirazioni ad essere adottato da Galba. Galba e Pisone furono eliminati. Otone ebbe il sostegno anche delel legioni danubiane e delal flotta. Le legioni di Germania invece, che non avevano riconosciuto Galba, con l’accordo delle legioni di Gallia e Spagna proposero a loro volta come principe Aulo Vitellio, appartenente a una famiglia nuova di origine equestre, già pervenuta con i figli di Publio al consolato sotto Tiberio e all’amicitia di Germanico e di Claudio; in particolare Lucio, padre del legato Aulo Vitellio candidato all’impero, era stato potentissimo a corte presso Claudio e sostenitore di Agrippina; lo stesso Aulo era stato condiscepolo e amico di Nerone. Lo scontro tra coorti pretorie e legioni renane avvenne a Bedriaco, e vide vincere Vitellio. Otone si suicidò. Ma le legioni danubiane, al comando del legatus legionis Antonio Primo sconfissero Vitellio in una battaglia combattuta ancora una volta a Bedriaco, in ottobre, e immortalata in una celebre pagina di Tacito. Antonio Primo era alleato con il legato di Siria Licinio Muciano, il quale, d’accordo con il prefetto d’Egitto Tiberio Alessandro, appoggiava Flavio Vespasiano. Un’interpretazione riduttiva di questa che è stata definita la “crisi” del principato ne ha colto solo l’espressione militare, mentre altri hanno visto in esso lo scontro della “borghesia” contro i senatori o del proletariato (legioni) contro la “borghesia” (pretoriani). In realtà nella rivolta confluirono l’insofferenza alla pressione fiscale delle province gallice, la rivendicazione senatoria della libertas, il malcontento delle legioni e delle truppe pretoriane. La rottura dell’equilibrio tra queste forze e il principe portò alla ricerca di una base nuova per fondare lo stato. Le legioni, reclutate tra i ceti inferiori, trovarono nell’alleanza con i ceti emergenti da cui provenivano i loro generali la possibilità di un coinvolgimento politico, e in effetti riuscirono a rovesciare i rapporti di forza ma rimasero poi emarginate dalla riaggregazione nobiliare flavia. Era comunque una rottura dei meccanismi che fino ad allora avevano operato nella successione dei principi, il disvelamento dell’arcanum imperii. Il ricambio sociale al vertice dell’impero si era generato anche dalle dinamiche interne alla corte e trovò la sua giustificazione ideologica nell’opposizione alla successione dinastica, all’impero come hereditas di una sola famiglia e nel principio della scelta del migliore. Capitolo III: Le dinamiche dell’economia e della società 1. Dinamiche economiche Già con l’avvento di Galba, ma soprattutto con Vespasiano, Tacito vedeva concluso un secolare “ciclo” iniziato con la guerra aziaca, quello del luxus mensae e delal magnificentia nobiliare, sostituita da uno stile morigerato e parsimonioso connesso all’estrazione sociale dei Flavi e dal rinnovato ceto senatorio. Il dibattito storiografico moderno si è incentrato sostanzialmente sulla valenza “rivoluzionaria” anche in campo economico del governo di Augusto a partire dalla vittoria aziaca, sulla valutazione della dimensione totalizzante dell’economia senatoria in tale periodo, sullo spessore del cambiamento al vertice con i Flavi. All’instaurazione augustea della pax interna ed esterna sono state infatti ricondotte tendenze economiche di segno opposto. Soprattutto nella sconfitta di Teotoburgo interpretata come evento conclusivo dell’esansionismo romano, Weber (1896) vedeva l’inizio della decadenza del pur peculiare capitalismo tardo repubblicano frutto di rapina, di sfruttamento della conquista e della forza lavoro schiavile. Viceversa nella fine delle guerre civili e nello stabilimento della pace proclamato ed esaltato dalla propaganda augustea, studiosi come Rostovtzeff, individuano la genesi di un cambiamento positivo dell’economia romana. Avrebbe avuto allora inizio uno spontaneo, naturale sviluppo economico caratterizzato dal rifiorire della produzione agricola e artigianale e soprattutto dei commerci che avrebbe continuato a caratterizzare i primi due secoli dell’impero, fino agli Antonini, un’epoca che è stata paragonata alla moderna epoca capitalistica. L’unificazione del Mediterraneo avrebbe permesso la realizzazione di un’economia “mondiale” portando a compimento le tendenze già emerse in epoca ellenistico-tardorepubblicana, soffocate allora dalle interminabili contese dei dinasti ellenistici, dalle guerre di conquista di Roma e dalle guerre civili, che con l’instabilità e le perdite economiche ed umane avrebbero vanificato lo slancio delle attivissime e intraprendenti “borghesie” cittadine. L’analisi di sempre più numerosi ritrovamenti archeologici unitamente alla considerazione della diminuzione del rischio, dell’apertura di nuovi mercati, dell’agevolazione dei trasporti con la realizzazione di numerose infrastrutture stradali nelle quali il transito degli eserciti garantiva il controllo e la sicurezza, mentre ance le rotte marine liberate dalla pirateria erano diventate più sicure, portava alla ricostruzione di un processo di crescita economica. Questi fattori avrebbero agevolato una diminuzione dei prezzi e un aumento della domanda. Anche le forme di organizzazione commerciale si sarebbero evolute in modalità più stabili di relazioni commerciali con imprese di navigazione diverse e saperate dalle imprese commerciali. Il commercio non avrebbe riguardato solo articoli di lusso di peso leggero, ma articoli comuni e anche merce pesante destinata all’edilizia, anche questo un comparto in crescita non solo a Roma ma anche in Italia e nelle province per lo sviluppo dell’urbanizzazione. In questa prospettiva i limitati interventi di Augusto nelle province venivano giudicato positivamente, come atteggiamento favorevole al libero sviluppo, alla libera scelta dei provinciali, alla libera concorrenza. Sviluppo dei commerci nel Mediterraneo unificato e pacificato, scambio di prodotti tra province dell’impero molto lontane tra loro, creazione di un esercito stanziale avrebbero significato sviluppo dell’economia monetaria, agevolata dalla garanzia di un’unica autorità emittente. Queste entusiastiche ricostruzioni non hanno avuto molto successo nel corso del Novecento, non tanto per l’affermarsi di ricostruzioni alternative del periodo specifico quanto per l’interesse prestato ad epoche diverse sulla linea di prospettive teoriche e metodologiche antitetiche rispetto a quelle “moderniste” di stampo “liberale”. Sia su quelle “primitiviste” o arcaicistiche di risalenza bucheriana, sia le linee interpretative di tendenza marxista, hanno puntato infatti l’analisi sull’età dell’Atene classica o sull’età romana tardo repubblicana e tardo antica. Tuttavia, proprio dall’importanza attribuita a tali epoche e dalla loro interpretazione e periodizzazione è derivata una interpretazione anche del principato giulio-claudio, visto non come fase di cambiamento economico ma di fondamentale continuità con il periodo precedente, in relazione al perdurare dell’economia schiavistica, al ruolo dominante della rendita fondiaria e alla limitata dimensione dei commerci. In anni più recenti si è fatta strada un’interpretazione dell’economia antica in genere e di quella di età giulio-claudia in particolare più attenta alla possibile compresenza di elementi pur contraddittori. Si riconoscono i limiti dello sviluppo economico antico in senso “mercantilistico”, ma anche la presenza di aspetti “capitalistici” e di non modeste attività commerciali, l’influsso positivo della pace per la “crescita” economica; si evidenziano le articolazioni e le asincronie tra le varie regioni dell’impero, la variabilità nello spazio e nel tempo dei modi di produzione, il ruolo del potere politico, lo sviluppo di forme economiche e sociali diverse dal seno stesso delle strutture schiavistiche. In Italia, in età giulio-claudia, viene riconosciuta un’intensificazione della produzione sia agricola che manifatturiera; tale accresciuta produzione si basava cercametne sull’utilizzo su grande scala del lavoro schiavile, ma non solo, ed era comunque prevalentemente destinata all’esportazione in una fase in cui l’Italia ebbe una forma di predominio sulle economie provinciali, soprattutto occidentali. Se Roma e alcune altre grandi città erano certo grandi centri di consumo, non tutte le città italiche e provinciali rientrano in tale modello. La velocità ed economicità dei trasporti rimase affidata soprattutto a percorsi marittimi e fluviali, con conseguente condizionamento della distribuzione geografica di mercati e insediamenti urbani, ma la documentazione archeologica testimonia il trasferimento di merci, non sempre di agevole trasporto, anche in zone lontane dal mare e da corsi d’acqua navigabili. Se l’economia dele grandi domus senatorie, nonostante i tentativi di Augusto e di Tiberio di frenarla, fu pur sempre caratterizzato dal lusso, ostentatorio e improduttivo, causa di drenaggio di moneta soprattutto aurea fuori dai confini dell’impero e in casi estremi dell’impoverimento di alcune famiglie senatorie, i commerci non erano limitati a soddisfare queste pur sempre ridotte esigenze. Inoltre è stato ridimensionato un limite dell’economia monetaria antica cioè la mancanza di moneta cartacea e di forme di credito, che avrebbe comportato lo spostamento materiale di masse di numerario, particolarmente oneroso per i pagamenti su grande distanza, con conseguente freno delle transazioni commerciali e tendenza al consumo in loco. Tuttavia ritrovamenti papiracei ed epigrafici attestano proprio per l’epoca neroniana la sperimentazione di peculiari forme di credito per transazioni a distanza. Non viene neanche sottovalutata la funzione del potere politico, cui viene riconosciuta la funzione di organizzatore e mediatore di spinte e pressioni diverse. Sulla produzione e sui trasporti fondamentale fu l’azione stimolatrice esercitata dall’organizzazione politica unitaria, non solo per la costruzione di infrastrutture, ma anche per la loro maggiore sicurezza, il controllo dei mari e la difesa dei confini: il controllo della rete viaria che attraversava le Alpi, ad es., comportò anche una promozione degli scambi commerciali. Le distribuzioni di denaro al popolo dovettero agire a favore di un’economia monetaria stimolando i consumi di massa; anche la committenza di opere pubbliche, nonostante l’uso di manodopera schiavile e lo sfruttamento di cave di proprietà imperiale, dovette contribuire alla circolazione di denaro. In questo campo l’azione di Augusto agì da modello sollecitando in tal senso anche privati cittadini e – con la sola (e relativa) eccezione di Tiberio – fu seguito dagli altri principi giulio-claudi. Italia che nelle province. Nelle città provinciali la riforma fiscale con la progressiva sostituzione nelle attività di prelievo delle socieltà di appaltatori romani e italici aveva come premessa e comportò nel tempo come conseguenza sempre più ampia e radicata la loro assimilazione nella cultura e nella cittadinanza romana e il loro coinvolgimento nell’amministrazione dello stato. Se per i provinciali Augusto si limità a qualche caso individuale, in ricompensa di meriti militari, sia Augusto che Tiberio, come ricordava Claudio, introdussero nel Senato i migliori cives originari da colonie e municipi italici. Claudio evocava a sostegno della sua proposta di introduzione nel Senato di individui di origine provinciale questi precedenti. Egli appare un acuto osservatore e sostenitore della dinamica sociale in atto, sia delle aristocrazie cittadine provinciali, sia dei militari provinciali, ai quali con l’istituzione dei diplomi militari apriva la via alla cittadinanza, sia ifnine dei liberti che valorizzò con la creazione di una embrionale burocrazia imperiale. Anche i liberti aspiravano ad entrare nell’ordo equestre, o almeno in quello curiale. Tiberio come Augusto cercò di frenare la loro tendenza all’ascesa sociale, vigilando contro le usurpazioni di status. I liberti di Claudio, invece, che sono ricordati da Plinio come ricchissimi e potentissimi a corte, svolsero altissimi compiti nell’amministrazione dell’impero, anche se tale funzione si colloca ancora nell’ambito di un uso signorile del personale della domus e della mistione tra pubblico e privato. Più significativa l’ascesa sociale e politica dei Vitelli, che dall’avo liberto calzolaio, il cui figlio per quanto ricco aveva sposato una prostituta, erano passati all’ordo equestre, quindi all’ordo senatorio, rispettivamente col nonno e col padre dell’imperatore del 69 d.C., non senza avere esercitato forte influenza a corte sotto Claudio e con Agruppina. La figura di Trimalcione nel romanzo di Petronio appare simbolicamente rappresentativa di una realtà effettiva, sia pure deformata dal paradosso satirico. Il Satyricon ci mostra una realtà dinamica, tesa alla trasformazione, difficilmente controllabile e riducibile in maniera stabile entro gli argini elevati dal potere politico e dai ceti superiori: Trimalcione è diventato un grande proprietario terriero, aspirante a possedere un latifondo paradossalmente grande, ma è “arrivato” con attività commerciali e finanziarie. Schiavi e liberti erano gruppi sociali inferiori solo giuridicamente ai nati liberi, ma al loro interno si distribuivano economicamente e socialmente in molteplici strati che ai livelli più alti potevano superare di molto la condizione dei liberi poveri; le loro attività non dovevano nascere solo negli spazi operativi lasciati vuoti dai pregiudizi etici e sociali dei liberi benestanti, ma molto scarse dovevano essere le possibilità di riscatto e di ascesa sociale degli schiavi rurali accasermati che costituivano la forza lavoro basilare nelle “ville schiavistiche” o negli allevamenti transumanti, o anche del proletariato rurale libero che integrava la richiesta di lavoro delle ville schiavistiche. Condizioni di vita e di lavoro diverse dovevano avere gli schiavi rurali di piccoli proprietari e gli schiavi domestici delle città, condizioni che a loro volta variavano in relazione alle condizioni economiche e sociali dei padroni e comportavano opportunità diverse in occasione della manomissione. La plebe urbana si configura nella tradizione come massa parassitaria sia sul piano economico ma anche politicamente strumentalizzata dai principi “crudeli” nella loor lotta contro la nobilitas. Anche i ceti proletari italici e i soldati appaiono politicamente emarginati, ridotti a una funzione di supporto di principi o di aspiranti al principato, per plebe e soldati garanzia di protezione dell’oppressione degli ordini superiori: così nelle congiure delle due Giulie e dei collegati processi de maiestate, accompagnati da moti popolari, nella vicenda di Germanico, nella politica di Caligola e di Nerone. Questi in particolare sono caratterizzati dalla tradizione come principi amati dalla plebe per le largitiones di cibo e spettacoli. Non va escluso però che questa rappresentazione degli strati inferiori della società del tempo costituisca una generalizzazione frutto dei pregidizi delle classi alte nei confronti del lavoro. La riforma monetaria di Nerone, seppure realizzata con vantaggio delle casse dello stato, favoriva non la plebe in quanto proletariato, ma i ceti detentori di moneta d’argento in grado di operare cambi con la nometa aurea, rispondeva alla loro pressione che tendeva a spezzare l’ordinamento economico e sociale degli ordini superiori. Le contraddittorie tendenze del pricipato di Nerone, diviso tra iniziale linea filo senatoria e finale politica antisenatoria riflettono l’urto tra contraddittorie forze economiche e sociali. Se pure si riconosce l’aspirazione e la tendenza anche dei ceti inferiori a trasformarsi in proprietari terrieri rentiers, non si può sottovalutare il ruolo economico di gruppi sociali che si differenziavano sia dai grandi proprietari, dai grandi mercanti e finanzieri, sia dal proletariato urbano e rurale, erano impegnati in attività economiche varie, anche se complementari rispetto all’economia delle grandi domus senatorie e della grande mercature, erano attraversati da aspirazioni al miglioramento delle proprie condizioni economiche e sociali. Le dinamiche sviluppatesi a corte che sfociarono nel ricambio al vertice col principato dei Flavi avevano dietro di sé una dinamica sociale non limitata allo strato sottile di senatori e cavalieri, né circoscritta entro il perimetro di Roma o dell’Italia. Capitolo IV: Fermenti religiosi in età giulio-claudia In un ambito sociale definito come un “ceto medio” ebbe inizio e maturò in età giulio-claudia una novità religiosa: il cristianesimo. Anche sotto il profilo religioso l’interpretazione dell’epoca oscilla tra rappresentazioni continuistiche e ricostruzioni di un profondo cambiamento soprattutto in riferimento alle origini del cristianesimo e al suo sviluppo, ma anche alla nuova forma del potere politico e alla sua funzione in ambito religioso, nonché più ampiamente in relazione alla multiforme religiosità “pagana”. La linea seguita da Augusto in questo campo, già dal 43 d.C., si presenta caratteristicamente come restaurazione dell’antico. Nel segno della continuità col passato si inscrive il suo notevolissimo impegno, nel restauro edilizio di numerosi templi in rovina, nella costruzione di nuovi templi per divinità particolarmente care al principe, come Apollo, da tempo presenti nel pantheon romano, gli uni e gli altri orgogliosamente ricordati nelle Res Gestae, ed ancora il ripristino di riti, culti, valori tradizionali – realizzato sulle fondamenta della ricerca antiquaria innanzitutto del grande erudito di età cesariana, Varrone, ma anche di dotti ed “enciclopedisti” di età augustea – recupero di un patrimonio religioso e ampiamente culturale. In una prospettiva che si originava dal clima politico-ideologico della Germania degli anni venti del Novecento è stata sottolineata la vivacità e la forza della restaurazione augustea di culti e valori etico- religiosi. Viceversa altre ricostruzioni autorevoli hanno colto nel degrado dell’edilizia sacra e nell’oblio delle antiche consuetudini culturali l’effetto devastante del lungo periodo di guerre civili, ma anche e soprattutto l’onda lunga di una progressiva decadenza della religiosità romana antica. Caratteristiche proprie della religiosità romana, la cui freddezza rituale e aridità emotiva sarebbero state incapaci di rispondere alle domande più intime e profonde e alle esigenze spirituali degli uomini contemporanei. La riattualizzazione e rifunzionalizzazione augustea della cultura e della religiosità tradizionale non sarebbe riuscita nello scopo di arrestare la decadenza della religione romana. Sul suo progressivo “dissolversi” si sarebbe innestato il successo dei culti orientali, cd. “misterici”, il culto del sovrano e l’affermazione della predicazione cristiana. Anche nei confronti dei culti “stranieri” come quelli di Cibele o di Iside, entrambi connessi a miti di morte e di resurrezione, i principi giulio-claudi intervennero, promuovendoli o ostacolandoli in base a scelte personali: il culto dell’egiziana Iside fu prima avversato nel contesto della propaganda contro Cleopatra, poi da Tiberio, promosso in modo particolare da Caligola e poi da Claudio; il culto di Cibele, in verità anche questo ormai tradizionale a Roma, dove era presente già dal 205 a.C., appare prima in relazione a Livia, poi appoggiato da Claudio; dottrine astrologiche, “magiche” e neopitagoriche cui si erano avvicinati familiares del principe, furono avversate da Tiberio e da Claudio, ma ricercate da Nerone. Il dato certamente nuovo era la centralità del ruolo del princeps, nuovo protagonista nella promozione della religiosità pubblica. Legata anch’essa all’accentramento del potere nella persona di Augusto e dei suoi successori, fu l’introduzione del culto del socrano, usuale nelle province orientali di tradizione ellenistica che l’avevano tributato anche ai generali romani che avevano effettuato la conquista, ma di nuova introduzione in Occidente. Con cautela accettato da Augusto, formalmente combattuto da Tiberio, dignitosamente frenato da Claudio, fortemente voluto da Caligola e da Nerone, il culto imperiale era funzionale a rispondere alle esigenze di rassicurazione e protezione, alle aspettative di aiuto da parte dei “sudditi”. Si trattava di uno strumento di potere precario, di una dimensione divina del potere politico che bisognava rinnovare e ricreare ad ogni ricambio al vertice. Alla fragilità e all’insufficenza del culto imperiale è stata contrapposta l’espansione del cristianesimo. Una “rivoluzione”, “parallela” a quella sociale, veniva individuata anche nella vita spirituale dell’epoca da Santo Mazzarino, che in pagine suggestive presentava, già in questa primissima fase immediatamente successiva alla predicazione e morte di Gesù, l’incontro, importante e fondamentale, tra cristianesimo e impero romano. Il messaggio cristiano dava una risposta definitiva, esaustiva alla domanda di salvezza del mondo contemporaneo, un mondo stanco di guerre e di stragi, assetato di pace, in cerca di un approdo stabile che non riusciva a trovare né nelle esperienze religiose pagane, né nelle elaborazioni ideologico-politiche degli ambienti augustei e dei successivi principi di Roma. Protagonista di questa novità e di questo incontro “rivoluzionario” Paolo di Tarso, nel cui pensiero e nella cui missione, soprattutto nella dottrina dell’akrobystia (cioè della “non circoncisione”), Mazzarino indicava il ponte tra esperienza religiosa giudaico-cristiana e mondo dei gentili, lo strumento basilare per la diffusione dell’annuncio cristiano nell’impero romano, già oerante nell’età giulio-claudia. Nella ricchissima messe di studi sulla vita religiosa di quest’epoca ricostruzioni diverse delle dinamiche religiose in etò giulio-claudia contestano la tesi della natura freddamente rituale e civica della tradizionale religiosità romana e della sua decadenza. È stata evidenziata la vitalità dell’offerta religiosa politeistica, caratterizzata da dinamiche di continua acquisizione di nuove divinità, da apertura a nuovi culti, il nuovo slancio connesso al processo di urbanizzazione e “romanizzazione” che funzionò da moltiplicatore di templi e dei culti ad essi connessi specie nelle province occidentali. È stata altresì sottolineata la vitalità del culto imperiale e la sua funzione di composizione dei rapporti tra classi sociali diverse, la sua importanza nel processo di integrazione dei provinciali. In tali dinamiche inclusive e acquisitive si inscriverebbe il successo non solo dei culti “misterici”, dei culti di Cibele e di Iside, ma anche la pervasiva diffusione delle credenze astrologiche e magiche di origine inraniana, anche tra le classi alte romane e italiche che venivano ad aggiungersi e non a sostituirsi alla religione tradizionale. Senza sottovalutare l’importanza di fenomeni culturali complessi come l’integrazione dei provinciali nella cultura dominante, rimane il dato della natura pubblica e politica del culto imperiale, la valenza civica e politica che potevano assumere culti orientali e molti culti locali attestati nelle città dell’impero, dimensione che certo contribuiva alla loro vitalità e forza espansiva, ma non dirime i dubbi sull’efficacia della loro risposta all’irrequietudine e all’insoddisfazione religiosa. Proprio la funzione politica delle forme nascenti di culto dei principi, dei culti “orientali”, delle credenze astrologiche e magiche da essi in alcuni casi promossi, furono occasione di forme di opposizione politica, alimentarono o giustificarono esperienze di attrito con il potere: l’opposizione degli ambienti aristocratici tradizionalisti alla “divinizzazione” del principe si qualifica come opposizione politica alla forma autoritaria di potere che essa esprimeva e sosteneva; anche la ricerca di saperi astrologici e “magici” da parte di esponenti dell’aristocrazia senatoriale vecchia e nuova alimentarono sospetti di congiure; accuse de maiestate. Tragica la repressione esercitata dallo stato romano nei confronti del cristianesimo, che però né le fonti “interne”, né i pochi cenni rinvenuti nelle fonti ad esso esterne collocano sul versante dell’opposizione politica.