Scarica storia di roma tra diritto e potere e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! PARTE PRIMA : IL LUNGO INIZIO DI UNA STORIA MILLENARIA. CAPITOLO PRIMO : LA GENESI DELLA NUOVA COMUNITA’ POLITICA. 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico. Il paesaggio fisico in cui si situavano gli insediamenti umani che, agli inizi dell’ultimo millennio a.C., avrebbero dato origine a Roma e alle altre città del Latium vetus, non doveva essere molto diverso da quello odierno. Soprattutto la presenza di aree boschive e di vasti acquitrini, negli avvallamenti, contribuiva all’isolamento delle comunità umane ivi stanziate. Le dimensioni complessive del territorio erano relativamente modeste. Esso era limitato a nord dal Tevere, a ovest dal mare, a est dai primi altipiani che segnano il confine fra i latini e le popolazioni sabelliche e a sud dagli ultimi contrafforti dei colli Albani che si sporgono sulla grande pianura che apre verso Cisterna, Circeo e Terracina. Nella primitiva economia delle popolazioni laziali un ruolo importante era rappresentato dall’allevamento, dove, accanto alla pecora, per molto tempo ebbe fondamentale importanza il maiale. Era però già praticata anche una forma primitiva di agricoltura, legata anzitutto alla coltivazione del farro; ma abbastanza antico pare anche lo sfruttamento di certi alberi da frutto, come il fico e probabilmente l’ulivo, mentre la vite avrebbe assunto maggiore rilevanza in età successiva. Sin dagli inizi dell’ultimo millennio a.C. vennero sviluppandosi forme di circolazione di uomini e cose: le principali rotte commerciali univano l’Etruria alla Campania, due aree di più precoce sviluppo economico. Uno dei punti di passaggio è costituito proprio dall’area su cui sorgerà Roma. Ma non meno importanti erano anche le vie di comunicazione dal mare verso l’interno. Quest’area, sin dagli inizi dell’ultimo millennio a.C., era caratterizzata dalla presenza di numerosi villaggi vicini gli uni agli altri e costituiti da poche capanne, la cui struttura è rappresentata in alcune urne cinerarie trovate nei sepolcreti arcaici della zona. La loro aggregazione interna si fondava sulla presenza di forme familiari o pseudo parentali, legate alla memoria di una o più meno leggendaria discendenza comune. Queste numerose comunità non sempre e non tutte erano destinate a evolvere verso forme cittadine. Contro ogni accelerazione dello loro crescita materiale giocava la persistente difficoltà di assicurarsi lo sfruttamento di zone adeguate di territorio. Ciò infatti non implicava solo la capacità di difesa contro l’esterno, ma anche e soprattutto un adeguato controllo dell’uomo sulla natura, né facile né rapido. L’elevata quantità di insediamenti in un’area territoriale relativamente circoscritta non solo è confermata dalle continue e importanti scoperte archeologiche degli ultimi decenni, ma anche dalla memoria storia degli antichi. 2. Villaggi, distretti rurali e leghe religiose. Non facile e non univoca è l’individuazione delle forme culturali e delle strutture che regolavano questi primi arcaici insediamenti, la cui conoscenza è possibile solo attraverso lo studio delle tracce archeologiche che ne sono restate. Nelle tombe di epoca arcaica si vede la presenza di antiche forme culturali, attestate dal trattamento del cadavere, dalle suppellettili che lo attorniano, legate alla vita quotidiana. Ciò fa pensare che fosse già diffusa la credenza di un vita ultraterrena. Un altro aspetto importante è costituito dalla grande omogeneità di questi ritrovamenti, a testimoniare una notevole uniformità di condizioni economiche. I vincoli parentali o pseudo parentali, fattore di coagulo di queste varie comunità, non dovevano necessariamente coincidere con singole unità familiari, mentre invece erano rafforzati dal culto degli antenati e dalla presenza di più o meno circoscritte unità sepolcrali. Le elementari funzioni guida del gruppo dovevano poi associarsi all’età e al ruolo militare. Accanto agli anziani, ai patres, detentori della saggezza e della capacità di ben guidare la comunità, è verosimile che, nei momenti di pericolo e di crisi, i poteri di decisione e comando venissero deferiti ad alcuni guerrieri di particolare valore e capacità. Si deve comunque immaginare che l’assemblea degli uomini in arme restasse competente insieme ai patres per le decisioni relative alla vita della comunità anche nei periodi di pace. È probabile che gli stessi patres, o alcuni di essi, assolvessero anche a particolari funzioni religiose, non solo all’interno della singola famiglia, ma anche in un ambito più ampio. La grande quantità di questi villaggi contribuiva ad accentuare un ininterrotto e fitto sistema di relazioni tra di essi. Alla vitalità di questo tessuto unitario dovette contribuire anche notevolmente un insieme di interessi più direttamente economici. La gestione comune o la spartizione dei pascoli, il controllo dei sistemi di comunicazione e dei traffici commerciali, la circolazione e lo sviluppo delle pur rudimentali tecniche agricole, la ripartizione o l’uso in comune delle terre, nonché le possibili forme di circolazione del bestiame nel corso dell’anno dai pascoli alla pianura e la diffusione dei prodotti metallurgici sono fattori di coagulo tra più comunità. La celebrazione dei sacrifici in comune costituisce poi un momento importante nel sistema di comunicazioni e scambio tra le varie comunità, assumendo un ruolo anche più propriamente politico. Come anche politica appare la figura arcaica del rex Nemorensis, il grande e solitario sacerdote del bosco sacro presso Nemi: esso era il luogo di un culto collettivo e di aggregazione, non meno di altri centri religiosi, quali l’aqua e il lucus Ferentinae presso Ferentino, il grande culto arcaico a Lavinio, il culto di Diana nel santuario sito nei boschi tra Ariccia e Nemi. Non si deve tuttavia concludere che tali leghe sfociassero immediatamente e necessariamente in sistemi federativi e che quindi la formazione della città di Roma vada meccanicamente identificata nel processo di rafforzamento di tali vincoli, e nella trasformazione dei centri federali in città stato, con il graduale assorbimento dei villaggi circostanti. Sotto questo profilo la nascita di Roma può effettivamente essere abbassata in modo relativamente ragionevole: sino al 367 a.C. il compiuto disegno di una costituzione romana non fu completato. Ma questo legittima l’idea che la città non esistesse ben prima. Giacché essa era un organismo vivo, in continua costruzione e in continua modificazione. Sotto il profilo di una storia istituzionale diventa rilevante l’esistenza di qualcosa non riconducibile agli antichi villaggi e sistemi parentali o tribali, e che non è mera somma confederale di questi perché in grado di procedere autonomamente verso la sua ulteriore costruzione. Le indicazioni unanimi degli antichi e quanto si sa sulla stratificazione istituzionale che corrispose all’età dei re di Roma, dal sistema delle curie all’ordinamento centuriato, dai montes e dai pagi alle tribù territoriali, postula la presenza di un quadro temporale atto a permettere tale sequenza storica, nonché lo sviluppo dei corrispondenti processi sociali e economici. Tenendo fermo che il sistema delle curie e delle tre tribù genetiche corrispondeva già alla prima forma della città, non sembra pertanto verosimile l’ipotesi di una datazione più recente della sua genesi. Per questo ha un valore fortemente simbolico, proprio per il suo aspetto leggendario, il ruolo di Romolo: è a lui infatti che risale l’incisiva novità organizzativa della città e nella sua figura si concentra la dimensione propria del mito di fondazione. Una volta confermato re dal consenso degli dei e dei concittadini, il fondatore definisce la forma sociale e istituzionale della città. Anzitutto distinguendo i suoi seguaci in patrizi e plebei. Quanto alla forma politica, egli avrebbe distribuito il popolo nelle tre tribù dei Ramnes, Tities e Luceres, ciascuna suddivisa in dieci curie, suddivise a loro volta ognuna in dieci decurie. Ci si trova dunque di fronte a un sistema piramidale di distribuzione della popolazione costituito da trecento decurie, trenta curie e tre tribù. Una distribuzione prioritariamente finalizzata alla guerra, giacché ciascuna curia avrebbe dovuto fornire alla città cento uomini armati e dieci cavalieri, dando luogo alla primitiva legione di tremila fanti e assicurando il complessivo organico di trecento cavalieri. Il coerente sistema ternario a base di tale architettura testimonia il carattere artificiale della costituzione così realizzata. Questa nascita tuttavia si presenta in termini ambivalenti: da una parte come rottura, come novità rispetto alla fase precedente, ma essa raccoglie e organizza, fondendole, realtà preesistenti. Ed è proprio questo carattere che spiega la presenza di molteplici frammenti della tradizione antica, di piccoli elementi che stentano a inserirsi in un processo di armonizzazione, facendo intuire una storia tortuosa, fatta di tensioni e conflitti, di svolte violente e improvvise. Tra questi è di notevole importanza la contrapposizione dei montes, di carattere urbano, ai pagi, le strutture periferiche. Tuttavia il risultato di tali processi poneva problemi di identità nuovi. 4. Le strutture familiari e le più ampie aggregazioni sociali. Nella riflessione sulla storia del mondo antico è dato cogliere l’idea già presente nei filosofi greci secondo cui la città sarebbe stata il punto di arrivo di un processo di crescita della società umana, che avrebbe avuto nella famiglia naturale il nucleo originario. Di qui la possibilità di cogliere un elemento comune sia alla più piccola cellula della società umana, la famiglia, sia alla forma politicamente più compiuta dell’antichità classica, che è la città. Famiglia e gens sono due strutture centrali nel corso di tutta la storia di Roma. La prima in genere si identifica con quella che i romani indicavano come la familia proprio iure, nucleo centrale della loro intera organizzazione giuridica e sociale. Essa costituisce l’unità elementare di un sistema matrimoniale rigidamente monogamico, consistente nella coppia di sposi con i diretti discendenti, il nucleo di persone che, almeno tendenzialmente, vive nella medesima casa. La rigorosa logica patriarcale delle origini si esprime nel principio secondo cui il vincolo di parentela è stabilito solo attraverso la linea maschile: si tratta della cd. parentela agnatizia, dal termine adgnatus, che indica appunto il vincolo di sangue secondo tale linea. Secondo tale criterio i figli di un fratello e di una sorella non sono agnati tra loro. Questo sistema si ritrova anche nella nozione di famiglia allargata, che comprendeva tutti i parenti per linea maschile, fino al sesto o settimo grado, calcolato dai romani risalendo per generazioni sino al comune antenato. Nella familia proprio iure convivevano, sottoposti all’ampia e forte potestas del padre, la moglie, i figli e le figlie non sposate, i successivi discendenti per linea maschile, nonché le loro mogli. E a tale potere essi restavano sottoposti fino alla morte del loro titolare. Le figlie e le nipoti ne uscivano invece nel momento in cui, sposandosi, entravano a far parte della famiglia del marito. In effetti il sistema familiare più antico era fondato sul matrimonium cum manu, che comportava la totale integrazione della moglie nella famiglia del marito attraverso la finzione che la poneva in condizione di figlia del proprio marito. La gens in epoca storica non è un gruppo parentale. Essa costituisce un’aggregazione, talora assai ampia, di famiglie che portano lo stesso nomen. L’appartenenza al gruppo gentilizio era pertanto immediatamente indicata dal nomen, che insieme al prenome individuale, anch’esso scelto per il nuovo nato all’interno di un gruppo di nomi tipici di quella particolare gens, era l’attributo di ciascun cittadino, almeno in origine, appartenente agli strati più elevati. Solo in seguito al nomen si venne aggiungendo un cognomen a distinguere singoli individui e lignaggi, realizzandosi allora l’onomastica tipica dei romani costituita da tria nomina: prenome personale, nome gentilizio e cognome del lignaggio. Tuttavia la presenza di una generalizzata forma onomastica come i tria nomina, nella società romana, non postula necessariamente che tutta la cittadinanza fosse organizzata nella forma delle gentes. La formazione di una nuova comunità aveva assorbito i villaggi minori, fondendo insieme i loro territori e i loro abitanti. Le strutture sociali che li avevano precedentemente organizzati non vennero meno con la costituzione della città, ma si dovettero ridefinire. Di qui la duplice loro esigenza, da un lato di conservare per quanto possibile i loro propri elementi identitari e dall’altro tali gruppi dovevano anche riaffermare la loro fisionomia individuale all’interno del quadro unitario introdotto dalla città. Ciò avvenne uniformando i sistemi di auto definizione con l’uso uniforme del nomen, secondo lo schema che sarà proprio quello delle gentes in epoca storica. A questa trasformazione sembra ci si possa riferire per ricercare le origini di quell’organizzazione gentilizia, così caratteristica della società romana nel corso della sua storia. I gruppi che si erano fusi, i villaggi, i lignaggi, lungi dal dissolversi, dovettero infatti conservare la loro autonoma struttura all’interno dei nuovi e omogenei contenitori costituiti dalle curie. Egualmente dovettero persistere le gerarchie antiche secondo una logica numerica già presente nei preistorici triginta populi Albenses, che intaccava poco la loro interna struttura organizzativa, restata autosufficiente. Tali fenomeni contribuirono a fissare la struttura piramidale della società primitiva, rendendo più evidente il dualismo interno che era già affiorato nei villaggi preistorici. Il vertice aristocratico fu indicato con il termine patrizi o con lo stesso nome che connota il capofamiglia, patres, e attribuito dagli antichi all’atto fondativo di Romolo. È invece abbastanza incerta l’ipotesi che le gentes patrizie fondassero la loro supremazia economica sullo sfruttamento di terre lavorate esclusivamente dai loro clienti. In effetti su questa stratificazione sociale, sui rapporti tra i patrizi e i clienti, sulle terre gentilizie e sul primitivo lotto di terra assegnato da Romolo a ciascun cittadino, l’heredium, gli storici moderni hanno lavorato molto, sino a fare di Roma arcaica o una specie di villaggio di tipo medievale o, al contrario, una specie di società feudale con grandi signori fruenti per le loro terre del lavoro dipendente di questi clienti. Si tende inoltre ad escludere che siffatta polarità esaurisse l’organico cittadino. Sin dai primi tempi dovette in esso confluire anche una realtà più eterogenea, svincolata da ogni legame di clientela. La preminenza delle forma di allevamento rende quanto meno legittima l’ipotesi che a esse si debba associare la supremazia della primitiva aristocrazia. Di qui anche l’ipotesi di un diverso tipo di signoria sulla terra: giacché diversa era la forma di relazione con le terre a pascolo, di dimensioni assai più estese di quelle conquistate all’agricoltura. A differenziare i vari gruppi sociali dovette contribuire anche il fatto che fossero soprattutto le genti più antiche a conservare il controllo dei loro territori d’origine, in una condizione ambigua, ormai, non essendo essi parte del nuovo demanio distribuito per heredia. I due iugeri degli heredia romulei corrispondono a questo mondo di piccoli proprietari agricoltori, non alla gestione di mandrie e greggi e agli spazi legati all’allevamento. comunità destinate invece quasi tutte a persistere nel corso di tutta l’antichità e oltre ancora. Ma accanto a queste forme di cannibalizzazione dei centri più forti verso i più deboli, è da segnalare anche un altro tipo di mobilità rappresentato dalla facilità con cui gruppi minori, clan gentilizi o singole famiglie e addirittura individui, si staccarono dalle loro comunità di appartenenza emigrando in Roma. Si tratta di fenomeni importanti in quanto dovettero contribuire in modo determinante allo sviluppo degli assetti sociali e politici romani ma si trattò di fenomeni che a loro volta indebolirono la stretta relazione dell’ordinamento con le strutture gentilizie. Si tratta di un processo che avrebbe alla lunga disarticolato la natura confederale della società primitiva, rafforzando ulteriormente il ruolo di supremo mediatore del rex. Nelle fonti antiche si riporta un solo caso di migrazione di un gruppo gentilizio compatto: quello dei Claudi e in età relativamente avanzata, agli inizi del V secolo. Il capo di una grande gens sabina, Appio Claudio, avrebbe allora abbandonato la sua città di origine per dissensi politici molto gravi proprio in ordine al rapporto con Roma, trasferendosi in quest’ultima con tutta la sua gens e i clienti, in un numero sicuramente leggendario di cinque mila. A tutti sarebbe stata immediatamente concessa la cittadinanza romana insieme all’heredium di spettanza di ciascun cittadino, mentre Appio fu ammesso nel senato, dando così origine alla potente gens Claudia che attraversò tutta la storia di Roma. CAPITOLO SECONDO : LE STRUTTURE DELLA CITTA’. 1. La chiave di volta delle istituzioni cittadine: il rex. Più delle altre due componenti della città primitiva, il consesso dei patres, il futuro senato, e il popolo, dovette essere il rex a costituire il fattore propulsivo dell’ordinamento cittadino. In tale figura sono ben presenti le radici preistoriche che si colgono innanzitutto nel suo carattere carismatico e nella forte accentuazione religiosa derivata dall’arcaica immagine dei re sacerdoti. Il rex tuttavia si colloca egli stesso in un quadro nuovo, dove anzitutto è assente ogni logica dinastica che potrebbe riallacciarsi alle strutture patriarcali e parentali che ne sono state elemento costitutivo: non è il figlio che succede al padre in questa monarchia, mai. La volontà divina aveva un ruolo fondamentale nella designazione del nuovo re. Se Romolo consulta direttamente gli dei, interpretando i segni favorevoli, il successore, anch’egli forse una figura convenzionale, Numa Pompilio, ascende alla carica attraverso la solenne cerimonia dell’inauguratio. L’augure, operando in relazione a uno spazio sacro appositamente determinato, tocca con la destra il capo di Numa e chiede a Giove di manifestargli, con segni sicuri, la volontà che sia re di Roma. Rex inauguratus, dunque, perché carico di una dimensionale sacrale, supremo sacerdote e tramite della comunità con i suoi dei. L’inauguratio è effettuata nei riguardi del nuovo re, già individuato e creato ad opera del senato, attraverso un suo membro specificamente qualificato per la sua funzione di interrex. Dopo la sua creatio e la successiva inauguratio il nuovo rex si sarebbe presentato al popolo riunito nella forma dei comizi curiati, da lui stesso convocati, al fine di assumere di fronte a loro il supremo comando. L’incontro tra il rex e i suoi governati, anzitutto il suo esercito, era carico di valore, esprimendo solidarietà e consenso. Tant’è che sarebbe poi sopravissuto al regnum in quella lex curiata de imperio che continuò ad accompagnare l’elezione dei magistrati superiori ancora in età repubblicana. È solo un’astrazione dei moderni il fatto che ci si chieda se questi vari atti fossero o no essenziali all’insediamento del nuovo re. È ben comprensibile che l’assenza di un principio dinastico, insieme alle pratiche correnti in età repubblicana, facesse pensare alla partecipazione popolare come ad una forma di elezione. Ma si tratta di una probabile anticipazione delle forme più tarde. Sacerdote e capo militare, il rex è insieme il ductor dell’esercito ma anche, rispetto alla città, il garante della pax deorum, dove si esalta la sua funzione di custode e tutore del diritto. Colui che sa e dice le norme della città e le applica nella gestione e composizione dei conflitti interindividuali e nella repressione delle condotte criminali, onde assicurare l’esistenza stessa e la sicurezza della compagine cittadina. Nella memoria degli antichi vi sono precisi riferimenti all’esistenza di leges regiae e si riportano varie norme attribuite di volta in volta ai vari re succedutisi a Roma. Non è molto probabile che in origine il rex sottoponesse formalmente all’approvazione dell’assemblea del popolo una sua proposta. E si deve anche supporre che la statuizione destinata a vincolare tutti i membri della comunità cittadina non si distinguesse talora dal giudizio reso per un litigio tra cives. Erano solenni pronunce espresse unilateralmente dal rex di fronte all’assemblea cittadina, unica garanzia di pubblicità in un’epoca in cui la scrittura era pressoché inesistente e un ruolo fondamentale era ancora svolto dalla memoria individuale e collettiva. Incerto tra una dimensione magica e i primi sviluppi di un sapere tecnico-scientifico è l’altro ruolo del re, di custode del tempo, scadendo la vita cittadina. In quell’epoca i romani non conoscevano ancora un calendario fisso, corrispondente al ciclo annuale del sole. I periodi e le date del calendario era definiti secondo un sistema mobile e sempre variante di divisione dell’anno che serviva a stabilire tutte le scadenze della vita cittadina. Ciò avveniva agli inizi di ogni mese, dinanzi ai comizi convocati dal pontefice, dove il re indicava il calendario del mese, con i giorni fasti e nefasti. In ogni sfera della sua attività, il re fu progressivamente coadiuvato da una serie di collaboratori istituzionali, talché finì con non essere mai solo nella sua azione di governo: non lo fu al comando dell’esercito, dove accanto a lui vi era un comandante militare, che lo poteva anche sostituire in questo ruolo delicatissimo. Era il magister populi, a sua volta associato a un magister equitum, al comando della cavalleria. Non lo fu neppure nel governo civile della città, dove parrebbe che sin da allora fosse assistito da una praefectus urbi, il cui ruolo nel corso del tempo si sarebbe accresciuto nel settore dei giudizi civili e della repressione criminale. È un fenomeno abbastanza comune che la sfera penale, con la sanzione di un insieme di condotte lesive degli altri membri della comunità, avesse particolare importanza. In Roma arcaica il peso della repressione criminale è confermato dal rilievo dei collaboratori del re in questo particolare settore: i duoviri perduellionis e i quaestores parricidii, competenti per la repressione di alcuni reati di particolare gravità. Infine nell’altra sua fondamentale funzione di garante e custode dei mores e di tutore dell’ordine legale della città, il rex fu coadiuvato sin dall’inizio dal collegio pontificale. Talché pare ovvio e quasi necessario che lo stesso rex facesse parte di quel collegio. 2. I patres. Secondo l’indicazione degli antichi, con la morte del rex, auspicia ad patres redeunt. Con il potere di interrogare gli dei, tornava al senato il supremo ruolo di governo che vi era connesso, di fatto esercitato a turno da alcuni suoi membri designati come interreges, tra i re. Tale interregnum non trova paralleli con la Grecia antica e appare esclusivamente latino: esso veniva esercitato da dieci membri del senato per cinque giorni ciascuno. Dopo i primi cinquanta giorni si deve supporre che il comando passasse ad un altro collegio di dieci patres, ove non fosse ancora maturato quel consenso politico sicuramente preliminare alla creatio del nuovo rex. Il cuore del problema è costituito da quel redeunt: perché questa facoltà costitutiva del potere sovrano torna al collegio senatorio? È qui che si sfiora la logica profonda che è alla base della struttura cittadina, destinata a influenzare permanentemente la concezione romana del potere politico. L’antico potere di governo dei patres, ridotto a un ruolo pressoché residuale di fronte al rex, alla sua scomparsa riprenderebbe dunque l’originaria pienezza. Solo comprendendo questo aspetto del senato e la sua legittimazione originaria e la conseguente potenziale capacità espansiva del suo potere, se ne coglierà sino in fondo il ruolo, non solo per l’età monarchica, ma almeno per tutto il periodo repubblicano. Tanto il più arcaico termine patres quanto il più recente senatus, impiegati dai romani ad indicare tale consesso, sembrano richiamare l’idea dell’età e dei ruoli a essa collegati, in coerenza al carattere accentuatamente patriarcale della società romana. È dunque l’assemblea degli anziani che, oltre a ritrovarsi investita del particolare potere dell’interregnum, si riunisce e collabora con il rex. L’appartenenza al collegio dei patres sancisce e convalida una superiorità sociale dei gruppi che li esprimono. Anche se nulla legittima ad immaginare che l’organizzazione gentilizia fosse sottoposta formalmente al potere di un pater o princeps gentis, era però evidente la preminenza in essa, nel corso delle varie generazioni, di alcuni personaggi particolari. Tra coloro che fossero emersi all’interno delle varie gentes, per lignaggio, ricchezza e per le proprie azioni in guerra e in pace, il rex sceglieva o era obbligato a scegliere i membri del senato: i patres. Certo con dei forti limiti, giacché tali assemblee non dovevano avere il potere di esprimere esse stesse la volontà della città e neppure quello di modificare o di paralizzare decisioni prese dagli organi del governo cittadino: rex e patres. Anche se proprio nelle delibere di interesse generale il peso dell’assemblea dovette accentuarsi. Era la sede d’espressione e di verifica di quel consenso su cui si fondava, in ultima istanza, la persistente legittimità e la forza del rex. La partecipazione dei comizi all’insieme degli atti che investivano la vita della città e il suo governo attesta comunque la presenza, sin dall’inizio, di una comunità politica, mai semplice accozzaglia di sudditi soggetti a un volere superiore ed estraneo. Il punto centrale è che i vari rituali non rappresentano mere sovrastrutture rituali di processi sovrimposti alla comunità. Tutto ciò costituisce infatti la base fondamentale di una data struttura sociale, il veicolo indispensabile per la costruzione di una comunità e con essa della nuova legalità cittadina. 4. I collegi sacerdotali. Tutti e tre gli organi costitutivi della città, rex, patres e populus, hanno sicuramente radici preciviche. Eppure il segno della nuova realtà cittadina è dato proprio dal loro ridefinirsi in termini nuovi. In parte diversa è invece l’altra componente essenziale della città, il suo patrimonio culturale. Qui infatti il carattere di continuità con il mondo precivico appare più evidente. E questo vale anzitutto per la sfera religiosa dove si può cogliere in modo affatto peculiare un’accentuata mistura di conservatorismo e di innovazione. Ma vale egualmente per ciò che concerne la varia e ricca presenza di collegi sacerdotali, sin dalla prima età monarchica. Essi costituiscono uno degli aspetti che meglio fa capire la natura complessa e stratificata dell’organizzazione e dell’identità cittadina. Da un lato perché lo stesso governo della comunità non si esaurisce nelle istituzioni politiche, essendo per molti aspetti determinante, con il fattore religioso, l’opera di questi stessi collegi. Dall’altro perché molti di essi si saldano alle radici preciviche, seppure nel quadro di un non facile processo di adattamento che ne ha permesso una configurazione relativamente unitaria. È in questo contesto che le forme e tradizioni più arcaiche sopravvissero a lungo, nella tradizione repubblicana, quando non rinverdite addirittura dalla grande scenografia arcaicizzante di Augusto. Onde comprendere il ruolo della sfera religiosa nella società romana arcaica, si deve ricordare la presenza di una molteplicità di filoni in essa confluenti. Anzitutto, importantissimi, i culti dei Penati e dei Lari, propri di ciascuna famiglia, di competenza di ciascun pater familias, poi i culti e i riti delle gentes, delle curiae o di aggregazioni più ampie e infine i culti della città. In essi confluisce una molteplicità di elementi che ci riporta a epoca preistorica, con l’innumerevole serie di divinità che accompagnano i romani in ogni aspetto della vita e in ogni periodo. A ciò si collega la vasta stratigrafia di collegi e consorterie religiose, di pertinenza sia di singoli gruppi, che dell’intera comunità. Spiccano tra i molti i Luperci Quinctiani e i Luperci Fabiani, che presiedevano l’importante rito dei lupercali, quel percorso rituale evocativo degli arcaici legami territoriali di alcune comunità preciviche. Ma non meno antico appare il collegio dei Salii, una specie di sacerdoti guerrieri impegnati in singolari rituali di tipo magico animistico e dei Fratres Arvales che sovraintendevano al culto dell’antichissima dea Dia. Nella fase successiva della piena espansione della vita cittadina appare conservare una rilevanza maggiore il collegio dei Flamines, anch’esso tuttavia appartenente al più antico patrimonio religioso romano e con una fisionomia del tutto particolare. Ciò è evidente nei tre flamines maiores: Dialis, Martialis e Quirinalis. Ma tali caratteri arcaici appaiono anche nella serie di limitazioni rituali, stabilite in particolare nei riguardi del flamen Dialis che sembrano risalire all’età del bronzo. Vi è un punto chiave che evidenzia il carattere precivico di tali figure: la loro sostanziale estraneità al rex. Si tratta di una realtà che la città stenta a fare propria e che quindi conserva un suo spazio arcano ai margini del nuovo sistema. Il nucleo centrale della religione cittadina fu infatti rapidamente occupato da una originale fusione di elementi arcaici con forme decisamente innovatrici. Un processo che ha un momento di particolare evidenza nella sostituzione delle tre supreme divinità arcaiche, Giove, Marte e Quirino con quelle della religione olimpica che ruota attorno alla cd. triade capitolina: Giove, Giunone e Minerva, il cui culto si svolge nella roccaforte, arx, della città: il Campidoglio, in un grande tempio appositamente edificato. Rientra in questa nuova sfera il culto di Vesta affidato ad apposite sacerdotesse che godevano ancora in età tardo repubblicana e imperiale di una condizione sociale elevatissima. Il compito delle vestali, oltre alla partecipazione ad alcune importanti festività, è la custodia del fuoco sacro, che deve restare acceso permanentemente e accanto a questo dell’acqua. L’integrazione nella città di questo culto è però attestata dalla dipendenza delle vestali dal rex: in un rapporto di dipendenza di tipo familiare sostituito poi in epoca repubblicana dal rapporto della vestale maggiore con il pontefice massimo. Non minore ambivalenza tra le radici preistoriche e la nuova funzionalità cittadina si può cogliere in altri collegi religiosi che assolsero un ruolo di grande rilievo anche oltre l’età regia. Anzitutto il collegio dei feziali, i cui compiti erano essenzialmente circoscritti alle relazioni internazionali: si tratta di un sacerdozio che non era esclusivo dei romani, ma presente anche in altre popolazioni italiche, anzitutto tra i latini. Il che lo rendeva atto a costituire il sistema di comunicazione formale tra Roma e le altre comunità. Il collegio di venti membri nominati a vita non sembra presieduto da un supremo sacerdote, anche se al suo interno si distingue per la preminenza di funzioni il pater patratus. Ogni richiesta rivolta a popoli stranieri o da questi a Roma doveva avvenire mediante questo canale, che puntualmente veniva indicato come garante del rispetto della fides publica inter populos, della lealtà internazionale. È solo attraverso i feziali che poteva dichiararsi una guerra giusta e stringersi la pace legittima. I feziali e il pater patratus semplicemente dovevano tradurre le decisioni politiche nella forma richiesta dall’ordinamento romano per la validità degli atti internazionali. Non deve però sfuggire il significato del rigido formalismo di cui i feziali erano custodi. Esso infatti comportava la possibilità di rendere giusta ogni guerra dichiarata nel rispetto di certe regole, prescindendo dalla validità sostanziale delle pretese originarie, la cui affermazione fosse stata anch’essa affidata ai feziali secondo regole rituali. Lo sviluppo delle regole formali con tutelate dette luogo alla formazione di una procedura che è alla base di quel primo nucleo di un diritto internazionale costituito dal ius fetiale. Estendendosi anche ai rapporti di diritto privato tra romani e stranieri, il ius fetiale era destinato a contribuire al complesso processo di arricchimento dell’esperienza giuridica romana arcaica. Quanto poi al collegio degli auguri, è da sottolineare il ruolo fondamentale in alcuni momenti centrali della più antica vicenda romana. Tutto fa pensare a una loro origine antichissima e diffusa al di là dei confini di Roma. Più difficile invece da comprendere è il motivo per cui quest’interpretazione dei segni della volontà divina finisse, nell’esperienza romana, con il dare luogo a due sistemi diversi. In effetti i romani distinguevano gli auguria dagli auspicia, secondo un criterio che non doveva concernere tanto il tipo di manifestazioni divine da interpretare, derivando piuttosto dalla categoria di persone legittimate a interrogare la volontà degli dei: il rex e poi i magistrati per gli auspicia, gli auguri per gli auguria. Un’altra differenza tra auguria e auspicia sembra associarsi al riferimento di questi ultimi essenzialmente a situazioni immediate nel tempo e di per sé bene individuate. La constatazione di infausti auspici da parte del magistrato riguardava l’atto da compiersi nel giorno in cui tali auspici erano stati presi. E questo atto poteva essere però ripreso e portato a termine nel giorno o nei giorni immediatamente successivi. L’augurium invece può riguardare una situazione lontana nel tempo e può investire anche un oggetto più ampio che non singole iniziative, sino a riferirsi al destino stesso di Roma. Dal verbo augere, aumentare, deriva l’idea che augurium evochi non la semplice manifestazione di una volontà divina, ma una crescita di potenza, un arricchimento della condizione e dell’azione umana a seguito di un richiesto intervento degli dei. Per questo sia un luogo che una persona possono essere oggetto di inauguratio. Una prima risposta è quella secondo cui tali mores risalirebbero in buona parte alle stesse origini laziali, consistendo pertanto in regole già vigenti nelle strutture dell’organizzazione precivica. Partendo da tale concezione si pongo tuttavia alcuni problemi di difficile soluzione. 6. Le radici arcaiche del diritto cittadino. Dell’originario patrimonio culturale delle gentes ancora presenti in età storica restano essenzialmente varie forme di culti e riti religiosi di specifica pertinenza di alcune o di una sola gens. L’indubbio carattere arcaico di essi collega il mondo cittadino alle antichissime tradizioni laziali dell’età precedente. Non ci si deve meravigliare che le notizie riguardino soprattutto forme culturali e rituali proprie delle gentes. È abbastanza naturale infatti la più accentuata dispersione dell’originario patrimonio gentilizio relativo alla sfera più propriamente sociale e giuridica. Privi infatti della maggiore forza di conservazione delle forme religiose, questi altri mores gentilizi furono esposti a una maggiore erosione, anche per la pressione cittadina volta a ridurre al mero livello sociale le regole gentilizie restate fuori dal proprio ordinamento. Altre informazioni consentano l’idea che questi stessi sacra gentilicia siano le sopravvivenze di un fenomeno più ampio e organico, solo limitatamente salvatosi dall’erosione del tempo e soprattutto dalla progressiva affermazione della antinomica struttura politica cittadina. In effetti gli antichi ricordano un insieme di tradizioni e particolarità rituali legate al nome di singole gentes, che appaiono tuttavia più frammentarie, se non più marginali rispetto alla sfera religiosa. È indubbio che anch’esse traggano origine da antichissime prescrizioni. In ciò si distinguono dalle peculiarità di singole gentes derivanti da specifiche e più tardive deliberazioni assunte dal gruppo: questo è il caso della decisione della gens Manlia di non usare il prenome di Marcus dopo l’uccisione di M. Manlio Capitolino e identificata dagli antichi in un decretum gentis. Ma ancor più interessante è l’eco di pratiche peculiari a una gens: ad esempio l’assoluta assenza di forme di adozione all’interno dei Claudi, sino a Nerone, mentre ai Fabi era vietato sia il celibato che l’esposizione degli infanti. È dunque probabile che lo stesso riflusso nelle nuove istituzioni cittadine di parte del contenuto culturale dei vari gruppi minori avesse riguardato anche altre sfere, oltre quella religiosa. Come per gli aspetti religiosi, queste stesse regole spesso non erano esclusive di una sola gente, o di un solo villaggio, ma costituivano un comune tessuto che era venuto saldando insieme, in una struttura culturale omogenea, più villaggi e più gruppi originariamente distinti. Credenze, pratiche sepolcrali, riti, sistemi matrimoniali e forme familiari erano d’altra parte circolate già nel mondo precivico. Ed è proprio questo antico patrimonio, divenuto il cemento istituzionale della civitas a definirne l’identità politico-culturale: la sua lingua, le sue rappresentazioni ideali, i suoi sistemi di organizzazione sociale e le sue stesse gerarchie sociali, oltre che la sua religione e il suo diritto. Di contro le tradizioni rimaste di pertinenza di ciascun gruppo interno alla nuova comunità sopravvissero solo e nella misura in cui esse non contraddicessero e minacciassero il sistema unificato di valori condivisi. Già prima che Roma nascesse, gli uomini che la costituirono sapevano come si nasceva, ci si accoppiava, si allevavano i figli, si viveva insieme, si godeva dei frutti del proprio lavoro e infine si moriva. Nessuno di quei fatti era solo un accadimento materiale: ciascuno di essi e molti altri ancora comportavano un insieme di conseguenze entro un sistema che era anche culturale ed erano essi stessi disciplinati da pratiche e da riti. I fatti materiali che concernevano ciascuno e tutta la comunità erano ormai da tempo sottratti al mero stato di natura, divenuti elementi di carattere culturale. Anche nella Roma di Romolo, le regole matrimoniali potevano essere complesse: tabù, divieti, obblighi e forme stereotipe attraverso cui il vincolo veniva costituito ingenerando conseguenze e obblighi. Il matrimonio poneva in essere una nuova famiglia, nascevano figli e discendenti. L’insieme delle risposte che a questi, come a molti altri quesiti, era in grado di dare sin dall’inizio la società romulea è appunto il contenuto del primitivo ordinamento. In Roma il diritto è concepito come preesistente al legislatore, che interviene solo a modificare e innovare singoli punti. Il suo fondamento sono i mores: il punto di partenza di tutta la storia del diritto romano. La comunità politica si forma in parallelo, se non successivamente, a essi. Il re può intervenire a regolare o a limitare e modificare il ruolo del pater familias nell’ambito della repressione domestica, può circoscriverne alcuni eccessi, può controllare, attraverso le curie, le modifiche artificiali nella composizione dei gruppi familiari o lo spostamento di patrimoni ereditari. E ancor più il suo giudizio può innovare in uno o altro specifico aspetto di pratiche tradizionali. Ma le strutture fondanti dell’ordinamento da cui discendevano tutti i vincoli che gravavano sui consociati, appaiono saldamente fondate sui mores solo marginalmente ed episodicamente modificati da singole leges. L’importanza dei pontefici e il ruolo rivoluzionario del rex stanno appunto qui: nell’essere stati i registri del passaggio dalla pluralità di istituzioni locali a un corpo unitario. CAPITOLO TERZO : I RE ETRUSCHI. 1. Le basi sociali delle riforme del VI secolo. Nell’incerto crepuscolo tra leggenda e ricordo che avvolge la narrazione degli antichi intorno ai primi secoli di Roma è abbastanza netta l’eco di una profonda frattura intervenuta con l’avvento al potere di una serie di re di origine etrusca. Certamente si trattò di un momento di forte modernizzazione dell’apparato politico- istituzionale, tale da anticipare alcuni caratteri di quello che sarà l’impianto di fondo del successivo sistema repubblicano. Tali trasformazioni furono a loro volta rese possibili dalla crescita politica e sociale di Roma, nel corso del primo secolo e mezzo di vita. Non solo essa, alla fine del VII secolo era divenuta una delle principali città del Lazio sia per dimensioni territoriali che per popolazione. Essa, aveva cessato ormai di essere la sede già creata di una popolazione di pastori e agricoltori, accingendosi a un nuovo salto in aventi nel suo sviluppo economico- sociale. L’accresciuto rilievo della città aveva poi reso possibile, sotto i nuovi e più dinamici re di stirpe etrusca, un notevole incremento delle grandi opere pubbliche facendo di essa quella che fu chiamata la grande Roma dei Tarquini. Ne restano tuttora importanti tracce archeologiche. Lo sviluppo di tutte le attività indotte da tali opere a sua volta postulava un accresciuto fabbisogno di manodopera urbana, a seguito di cui una massa crescente di popolazione, composta anche da stranieri, si dovette concentrare nella città. Queste molteplici attività urbane si dovettero inserire sempre più malamente nella logica chiusa del sistema delle curie. Nuovi gruppi sociali e nuovi ceti erano infatti i protagonisti di questa stagione, la cui organizzazione interna tendeva in generale a fondarsi sulla centralità delle minori unità familiari, se non dei singoli individui. La prorompente economia urbana era più congrua a mestieri e attività individuali che permettevano a singoli individui o unità familiari anche piccole, d’aspirare a uno status economico-sociale autonomo. Da un lato dovette verificarsi così una crescita complessiva degli strati sociali estranei al sistema gentilizio, costituiti sia da un popolo minuto, ai margini o quasi dell’economia cittadina, sia da strutture familiari abbastanza importanti per consistenza economica in grado di pretendere uno spazio autonomo nella città. Dall’altro si verificò anche un processo di erosione della stessa compattezza delle gentes, a seguito delle tendenze centrifughe di singole famiglie o lignaggi. Le attività rurali potevano essere organizzate ancora in forme limitatamente comunitarie nell’ambito delle gentes e delle curie. Ma le sempre più importanti attività artigianali e lo stesso commercio presupponevano una specializzazione del lavoro e un’articolazione delle forze produttive poco adatte a organizzazioni così ampie come le gentes. Sin dai tempi della monarchia latino-sabina la società romana disponeva di un’organizzazione familiare straordinariamente funzionale a questo tipo di attività. Si tratta della familia proprio iure, dove, al limitato numero dei partecipanti, corrispondeva una reale compattezza, e dove soprattutto l’unità, più che su un piano orizzontale di tanti collaterali, si realizzava in senso verticale. In essa dunque più generazioni potevano essere saldate insieme, sotto la potestas dell’avus, dando luogo a un sistema particolarmente adatto alla trasmissione di un sapere tecnico. Di contro, il carattere temporaneo della potestas del capofamiglia assicurava una progressiva e limitata proliferazione di questo sapere e delle conseguenti attività, al momento della sua morte. Tant’è che esso non si fuse con i patres preesistenti, dando origine invece a un nuovo gruppo sociale, probabilmente anch’esso annoverato tra i patrizi, ma di minor rango: indicato nelle fonti come minores gentes, genti minori. Che la politica dei re etruschi mirasse deliberatamente a trarre tutte le conseguenze organizzative dalle migliorate condizioni economiche della città lo mostra l’altra riforma tentata da Tarquinio, volta ad allargare l’organico della cavalleria. L’opposizione a tale tentativo indusse il re ad aggirare l’ostacolo, raddoppiando le tra antiche centurie dei celeres. D’altra parte l’intervento sull’organico dei cavalieri, se da una parte rispondeva a esigenze tattiche, dall’altra doveva avere una portata più ampia, mirando al superamento delle stesse tribù romulee con l’inserimento al vertice dell’esercito di gruppi non appartenenti alla vecchia aristocrazia. Le prime riforme in effetti aiutano a capire che la crescita economico-sociale aveva ingenerato una situazione nuova, ponendo problemi e aprendo possibilità prima inesistenti, o almeno non percepite in misura adeguata. Con tali sviluppi erano anche aumentati i gruppi detentori di una notevole percentuale della ricchezza cittadina, in misura non inferiore a quella già di pertinenza delle genti patrizie. Di lì l’aspirazione a un’integrazione nel vertice cittadino, soddisfatta da Tarquinio Prisco con l’incremento dei senatori, ma anche con l’utilizzazione di questo nuovo organico di ricchi nelle file della cavalleria cittadina. Il che, a sua volta, non poteva dissociarsi da un più generale potenziamento della struttura di base dell’esercito: la fanteria. Ciò si rivelò possibile utilizzando le ricchezze individuali, antiche e nuove, in funzione di un armamento uniforme e fortemente potenziato in tutto l’organico della legione. Un risultato a cui non poteva sopperire l’antico sistema curiato, in cui i cittadini erano inseriti solo in base alla loro discendenza: è questo il problema che verrà risolto in modo affatto rivoluzionario dal successore di Tarquinio, il grande Servio Tullio. La modernità critica ha sovente dubitato della verità storica di questo personaggio, o comunque del suo ruolo nel mutamento istituzionale di Roma. Tuttavia, molto spesso le profonde trasformazioni intervenute nei vari sistemi sociali, con l’emergere delle forze nuove e di nuove necessità sono state tradotte in mutati assetti da singole personalità in grado di interpretare il senso del cambiamento e di canalizzarne le forze portanti, soventi contraddittorie e incerte, nella direzione progettata. Per questo la figura di un grande riformatore come Servio era forse più difficile da inventare che da ricordare. 4. L’ordinamento centuriato. Al centro della sua riforma si impone dunque una nuova organizzazione militare, in funzione di un tipo di combattimento più moderno. La primitiva legione fornita dalle curie e costituita secondo i genera hominum, fu così soppiantata da quello schieramento oplitico che costituì, in Italia come in Grecia, la grande novità delle forme di combattimento proprie della città giunta a un adeguato livello di crescita. La sua denominazione deriva dalla parola greca oplites, che significa armato. Tali trasformazioni ebbero un evidente fondamento di carattere economico che si espresse nella disponibilità di una maggior quantità di armamenti individuali. Il che fu infatti reso possibile dagli sviluppi tecnologici, con l’aumentata produzione del metallo lavorato, nonché dalla presenza di un maggior numero di individui abbastanza ricchi da procacciarsi gli armamenti così prodotti. Anche per Roma, l’affermazione di questo sistema bellico coincise con un profondo mutamento dei rapporti sociali e politici: entrò in crisi infatti il fondamento guerriero del predominio gentilizio. Con l’armamento oplitico le differenze di classe non si attenuarono, ma si spostarono. Si accentuava anzitutto il rilievo della ricchezza individuale. Lo schieramento oplitico presupponeva un numero maggiore di cittadini abbienti, in grado di procacciarsi un armamento abbastanza costoso. Di qui la netta distinzione intervenuta tra costoro e una schiera ancora più numerosa di individui privi di mezzi destinati ad avere funzioni meramente subalterne di ausilio e assistenza agli opliti. La massa più elevata di armati presupposti dalla riforma serviana non postulava solo una crescita complessiva di ricchezza dei romani, ma richiedeva anche una più precisa stratigrafia, fondata su un sistema di inquadramento della popolazione diverso da quello basato sulle curie. Di qui una nuova forma di distribuzione dei cittadini, fondata sulla ricchezza individuale. Con un effetto indiretto ma gravido di conseguenze per il futuro: che ormai l’individuo si trova in diretto rapporto con la città per quel che vale, anzitutto economicamente e per quel che è. La creazione del cittadino è ora perfezionata. Ciò avrebbe comportato la sostituzione del comizio curiato con un nuovo sistema di carattere timocratico: tutti i cittadini sarebbero stati distribuiti in cinque classi corrispondenti ai diversi livelli di ricchezza, suddivise a loro volta in centurie. Il disegno compiuto dei nuovi comizi centuriati consisteva in un totale di 193 centurie di cittadini, ripartite in cinque classi: la prima era composta da coloro che avevano un capitale di 100mila assi, la seconda di 75mila, la terza di 50mila, la quarte di 25mila e la quinta di 12.500 assi. La prima classe forniva all’esercito, oltre alle centurie dei cavalieri, che ammontavano a 18, comprensive però anche quelle i cui cavalli erano forniti dalla città, equo publico, ben quaranta centurie di juniores, cittadini tra i 18 e i 46 anni che costituivano il vero corpo combattente della città e 40 centurie di seniores, soldati più anziani che servivano da riserve. La seconda, la terza e la quarta classe fornivano invece ciascuna dieci centurie di juniores e dieci di seniores. A queste 188 centurie si devono aggiungere ancora 5 centurie: due di soldati del genio, di tecnici che collocavano accanto alle centurie della prima classe, due centurie di musici, posti accanto alla quarta classe e infine un’unica centuria di capite censi, in cui erano inclusi tutti i cittadini privi di qualsiasi capitale e estranei alle specializzazioni. L’antico patriziato dovette in origine essere ben presente anche nelle classi più elevate delle centurie di fanteria. E tuttavia delle prime classi di centurie dovevano far parte anche molti esponenti di famiglie non patrizie, anch’esse adeguatamente qualificate dalla loro ricchezza. L’egemonia patrizia restava sempre forte, non era però assoluta, aprendosi così per più ampi gruppi sociali un ruolo significativo proprio in quell’aspetto così essenziale alla posizione del cittadino nelle società antiche costituito dal servizio militare. Il maggior peso finiva con il gravare sui cittadini più ricchi, quelli appartenenti alle prime classi. Essi infatti erano tenuti a fornire il numero maggiore di soldati. La città serviana non esprimeva una società più democratica o paritaria, ma un nuovo tipo di gerarchia. Quando l’ordinamento centuriato si estese dall’originaria sfera militare alla dimensione politica, il voto dei membri delle prime classi di centurie fu ben più pesante e importante di quello degli altri. Il rapporto tra la sfera politica e quella militare sarebbe stato sempre strettissimo; non a caso la convocazione del popolo nei comizi, era indicata con l’espressione significativa di exercitus imperare: convocare l’esercito e la stessa assemblea centuriata era designata come esercito urbano. Ma soprattutto i comizi continuarono a essere convocati fuori del pomerium, la cinta sacra di Roma all’interno della quale non poteva esplicarsi il comando militare. La fisionomia dell’ordinamento centuriato rappresenta il punto di arrivo di un processo complesso. Restando all’età di Servio è da presumersi che la svolta si esaurisse negli aspetti propriamente militari. È quindi possibile che l’innovazione fosse allora rappresentata dall’introduzione delle sole centurie di juniores: l’organico dell’esercito. Concentrandoci infatti su queste sole centurie, direttamente riferite all’esercito oplitico, ci si può rendere conto che la somma delle prime tre classi corrisponde al numero di sessanta centurie. Ciò che a sua volta deve essere messo in relazione con quanto dicono Livio e Dionigi circa il fatto che solo gli appartenenti alle prime tre classi erano forniti di un armamento pesante, adeguato alla fanteria oplitica. Gli armati delle centurie inferiori si presentano semplicemente come ausiliari dei primi. Queste sessanta centurie corrispondono ai seimila armati cui era pervenuta quell’unica legione romana che, ai tempi della monarchia etrusca, costituiva tutto l’esercito della città. Appare dunque verosimile che l’originaria riforma militare di Servio sia consistita nella semplice duplicazione dell’antico organico della legione. L’accrescimento è evocato dalla distinzione di quella parte di popolazione destinata a costituire la classis, come l’esercito era allora chiamato, da quella restata, infra classem, ai margini dell’esercito, con funzioni ausiliarie. Solo in seguito, questa legione originaria verrà sdoppiata, senza però che ciò comportasse l’ulteriore raddoppio dell’organico militare. ricchezza che avrebbero potuto indebolire la stessa forza economica dei ceti aristocratici. Un altro e importante settore della vita sociale in cui dovette aversi un incisivo intervento del rex, già prima dell’epoca etrusca, fu quello costituito dalla repressione dei comportamenti individuali pericolosi per l’ordinamento cittadino. La sua azione dovette essere più diretta e innovatrice che nel più vasto campo dei mores. La stessa esistenza della comunità moltiplicava, con la vicinanza, le occasioni di conflitto e quindi postulava l’introduzione di forme regolate di litigio atte a evitare il confronto violento e governate da procedimenti razionali. Seppure ereditando anche qui criteri e valori più antichi, la città intervenne precocemente anche a reprimere le condotte criminali dei singoli individui. Sino ancora nella legislazione delle XII tavole quella che si chiamerà repressione criminale in senso proprio era circoscritta solo ad alcune condotte particolarmente gravi. Il resto era lasciato all’ancor forte autonomia dei singoli gruppi familiari e gentilizi e alla loro capacità di autodifesa. L’autonoma presenza della città concerneva pertanto due tipi di comportamenti: l’uccisione violenta di un membro della comunità da un lato e forme di tradimento o azioni dirette contro l’esistenza stessa comunità politica dall’altro. Questi ultimi tipi di condotta sono richiamati sotto i due termini di perduellio, crimine contro l’ordine politico della civica, e di proditio, il tradimento con il nemico e comportano la morte del colpevole. È assai verosimile che la condanna a morte del parricidas, sancita dalle XII tavole, non riguardasse solo l’uccisore del proprio padre, ma anche chi avesse ucciso qualsiasi altro cittadino avente autonoma rilevanza rispetto alla comunità. In questi casi il rex interveniva direttamente attraverso i suoi magistrati, i quaestores parricidii e i duoviri perduellionis. La loro esistenza conferma la novità di questi reati rispetto al mondo precivico. Accanto a questi casi va ricordata una molteplicità di procedimenti repressivi di condotte asociali e dannose, alcuni dei quali d’efficacia immediata, che si potrebbero chiamare di polizia e altri invece in cui la punizione interveniva soprattutto sul piano della sfera religiosa. Tali condotte erano colpite anzitutto perché, violando precetti e regole, attiravano l’ira degli dei sull’autore del misfatto e con esso sulla comunità intera. Il caso più importante e con chiare radici preciviche è costituito dalla particolare sanzione consistente nella consacrazione del colpevole agli dei (sacratio). Tale condizione comportava il suo distacco dalla comunità e la perdita di ogni tutela giuridica, esponendolo a qualsiasi aggressione cui non avrebbe reagito l’intervento sanzionatorio della città. Vi sono poi altre azioni delittuose punite molto gravemente nella legislazione decemvirale, ma che non sembrano comportare questa sacratio dell’autore del reato, né il diretto risarcimento della vittima. Ad esempio la repressione degli atti di magia contro il vicino o l’incendio doloso del raccolto. In tal caso la sanzione prevista avveniva attraverso i canali delle forme religiose arcaiche che riportano a situazioni più antiche della repressione della perduellio o dello stesso parricidium. Non meno numerosi tuttavia sussistevano comportamenti lesivi dei singoli cittadini ed effettuati ingiustamente. In questi casi la comunità primitiva interveniva a proteggere il danneggiato contro l’autore della condotta illegittima. Ma lo faceva solo se la stessa vittima si faceva parte attiva per difendersi, mentre l’eventuale condanna mirava a conseguire insieme l’obiettivo di risarcire il danno e di punire l’autore della condotta illegittima. La proprietà e gli altri diritti individuali erano esclusivamente riferiti alla figura del pater della familia proprio iure. Un criterio molto rigido che corrisponde a quello che si tende definire come sistema patriarcale, dove l’unità familiare in qualche modo imprigiona i singoli individui in vincoli di sangue e di status che li accompagnano per tutta la vita. Solo che il diritto romano presenta una fisionomia particolare: al contrario di altre società in cui il sistema familiare tende a sopravvivere al titolare provvisorio dei poteri di governo su di esso, in Roma questo non è mai avvenuto. L’unità familiare si dissolveva con il passaggio di ogni generazione, alla morte del pater, suddividendosi per quanti sono gli immediati suoi discendenti. Questo è il motivo istituzionale per cui l’ordinamento cittadino ha valorizzato questo sistema. Perché esso è lo strumento più devastante nei confronti della tendenza dei gruppi intermedi. La famiglia romana era fortemente coesa nella sua struttura giuridica, ma transeunte: non superava una generazione e per questo non poteva assumere una valenza latamente politica, contribuendo al contrario a indebolire la stessa logica gentilizia. CAPITOLO QUARTO : DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA. 1. La cacciata dei Tarquini e la genesi della costituzione repubblicana. Nella vicenda romana si innesta un fattore internazionale di cui occorre tener conto: il collegamento di Roma con il mondo etrusco, proteso verso la Campania, in diretto conflitto con gli insediamenti greci ivi situati. Negli ultimi decenni del VI secolo la spinta etrusca verso la Campania aveva conosciuto una seria battuta d’arresto a seguito di alcune gravi sconfitte militari ad opera dei greci e dei loro alleati latini. Tutto ciò ebbe a riflettersi anche sugli equilibri interni a Roma, giacché divenne allora possibile un vero e proprio colpo di stato da parte dell’aristocrazia romana, che non solo estromise dal trono Tarquinio il superbo, ma cancellò lo stesso istituto della monarchia. La data tradizionale in cui si colloca questa svolta è il 509 a.C. I primi anni della repubblica furono caratterizzati da una fisionomia incerta e da gravi difficoltà internazionali. Da un lato Roma ebbe a fronteggiare la reazione etrusca, in appoggio ai Tarquini. È abbastanza certo che il capo etrusco di Chiusi, Porsenna, abbia conquistato militarmente Roma, ma è ancora più importante il fatto che il suo successo non influì sulla successiva vicenda costituzionale romana e non comportasse quindi la restaurazione di Tarquinio. È indubbio che Roma, dopo la caduta dei Tarquini, per qualche tempo restasse ancora legata alla sfera di influenza etrusca. La conservazione delle antiche alleanze dovette infatti risultare indispensabile per difendere la sua precedente preminenza, ora contestata dai latini. Ma che la solidità di Roma fosse ormai un fatto acquisito lo prova la relativa rapidità con cui essa seppe reagire anche militarmente all’ostilità latina pervenendo a un esito sostanzialmente positivo e al rinnovo dell’antica alleanza con il Foedus Cassianum. Esso prende il nome da Spurio Cassio, una figura di grande rilievo nei primi anni della repubblica che, nel 493, dopo aver guidato gli eserciti romani nella guerra contro i latini, riuscì a concludere con essi una pace duratura. La brusca scomparsa del rex aveva ridato all’antico patriziato una rinnovata preminenza di cui resta traccia evidente: dopo i primi anni di vita della repubblica, le gentes patrizie si spinsero a bloccare a proprio vantaggio l’insieme dei canali di circolazione sociale e ascesa politica che avevano funzionato nell’età precedente. Questa chiusura segnò tuttavia, nei tempi lunghi, l’inizio di una crisi lenta, ma non per questo meno inesorabile, a danno dei momentanei vincitori. Vi era infatti un aspetto irreversibile delle riforme serviane: il nuovo ordinamento centuriato, con il superamento dei comizi curiati. Un ritorno alla situazione originaria avrebbe comportato un vero e proprio collasso dell’apparato militare in un momento di massima necessità di difesa. Egualmente difficile sarebbe stato il ripristino dell’originaria figura del re-sacerdote vanificando il rafforzato imperium dei re etruschi. L’aristocrazia gentilizia puntò piuttosto sull’ulteriore modifica delle riforme serviane. Fu un meccanismo abbastanza semplice, anche se non privo di difficoltà, quello da essa messo in atto e che consisteva del circoscrivere il vertice del governo cittadino. La soppressione del carattere vitalizio della carica suprema di governo e il suo sdoppiamento, con i due consoli eletti annualmente, realizzarono perfettamente tale riequilibrio, salvaguardando nondimeno il forte carattere militare assunto dal comando supremo in età etrusca. In tal modo si realizzavano le premesse per un permanente spostamento del baricentro politico a favore dell’altro organo del governo cittadino: il senato. I primi cinquant’anni del nuovo assetto repubblicano sono forse il periodo più oscuro e ricco di interrogativi di tutta la storia romana. Fonte di incertezza sono quei pur così importanti elenchi di magistrati eponimi che hanno inizio con la repubblica. In questi fasti compaiono, sino al 486, accanto a nomi di consoli patrizi, anche quelli di magistrati plebei; poi questi nomi cessano, a conferma delle unanimi indicazioni degli storici antichi relative all’esclusione dei plebei dal consolato e dalle altre magistrature, così come dagli stessi ranghi del senato. Una svolta che un tempo si tendeva semplicemente ad annullare, negando l’autenticità alle liste con i nomi dei plebei: esse infatti smentivano una rappresentazione storica in termini di flussi lineari di eventi tutti concordanti in Contro questo monopolio gentilizio e soprattutto a bloccare un suo ulteriore incremento a seguito di nuove conquiste, si mosse dunque la richiesta plebea di distribuire tutte le terre in proprietà privata, rispetto a cui le famiglie plebee si sarebbero trovata sullo stesso piano di quelle patrizie. Per quanto concerne l’aspetto sociale della contrapposizione tra plebei e patrizi, il punto centrale è in genere indicato dall’assenza del conubium. Questo avrebbe comportato la degradazione sociali dei figli nati da tali matrimoni, esclusi comunque dai ranghi del patriziato, oltre alla perdita di rango della sposa, se essa era di origine patrizia. Una sanzione che ribadiva formalmente l’inferiorità sociale dei plebei, i quali infatti contro di essa si batterono sino a ottenerne il superamento con la lex Canuleia del 445. Il compattamento della plebe contro questo sistema fu talmente violento e consistente da minacciare la sopravvivenza stessa della comunità politica. È quanto traspare dalla famosa sua secessione sul Monte Sacro o sull’Aventino del 494, in cui si adombra la possibile formazione di una comunità politica alternativa alla città, con una sua diversa sede territoriale. La crisi fu superata solo con il riconoscimento alla plebe di un insieme di strumenti protettivi rispetto alle prevaricazioni delle magistrature patrizie. A guidare la secessione plebea si erano posti dei magistrati, ispirati alla figura dei tribuni militum, o addirittura alcuni tribuni militum dell’esercito centuriato schieratisi con la plebe, che avevano assunto il nome di tribuni della plebe. Il compromesso politico che ne seguì comportò il loro riconoscimento come organi della città: sancendo dunque il loro diritto di aiuto a favore delle plebe. Ma proprio questo carattere escluse per molto tempo la loro partecipazione all’effettivo governo della città. Il loro potere di intervento negativo si estese all’intera vita politica cittadina, sostanziandosi nella possibilità loro riconosciuta di interporre l’intercessio: un vero e proprio veto contro qualsiasi atto o delibera dei magistrati o dello stesso senato. In tal modo l’autorità dei tribuni era lungi dall’essere subalterna alle strutture cittadine, potendo in teoria giungere a paralizzare nel suo complesso la vita stessa della comunità. Era lo stesso meccanismo della secessione a trasferirsi così all’interno delle strutture istituzionali. La posizione di questi magistrati era poi rafforzata dal carattere sacrosanto della loro persona, originariamente affermato con una lex sacrata e sempre poi confermato. Questa consisteva in un giuramento assunto collettivamente dalla plebe ma vincolante, per il suo fondamento religioso, l’intera comunità. Con tali leges la componente plebea si poneva come forza autonoma, in grado di ridisegnare l’intero impianto cittadino. Il suo punto di forza era l’assemblea, il concilium plebis, organizzata sulla base della distribuzione per tribù territoriali, che votava proprie delibere: i plebisciti e eleggeva propri magistrati, i tribuni e in seguito gli edili. Si trattava solo dei primi, sebbene fondamentali, passi verso un più vasto processo di equiparazione. Per il momento il mondo plebeo costituiva ancora una realtà sociale autonoma e antagonista. Per questo mantenne un tessuto identitario separato, con tradizioni religiose, divinità e templi propri. Sino addirittura a identificarsi con una sua sfera territoriale al di fuori del recinto sacrale della città: l’Aventino. La sua posizione conobbe un progressivo consolidamento che permise di superare ben presto una strategia meramente difensiva. Già verso la metà del V secolo si ebbero i primi sostanziali passi in avanti nella lotta per la parificazione politica e sociale dei due ordini e con essa di un mutamento complessivo dell’assetto cittadino. 3. La XII tavole. Nella memoria degli antichi, un punto di svolta nelle vicende del V secolo è costituito dal successo plebeo nell’ottenere la redazione scritta del corpo di regole che presiedeva alla vita della città. Questa grande innovazione fu resa possibile dalla defezione di una componente importante dello stesso patriziato: ciò avvenne quando il capo dell’autorevole gens Claudia, Appio, si schierò a favore di tale richiesta, assumendo una funzione centrale nel nuovo processo legislativo. Per l’anno 451-450 al posto della normale coppia di consoli si provvide così a istituire un collegio di dieci membri, con il compito, oltre all’ordinario governo della città, di leges scribere, di redigere per iscritto le leggi della comunità cittadina. Appio Claudio fu chiamato a presiederlo. In questa svolta giocava anzitutto una più matura aspirazione a quella certezza che solo la norma scritta può dare rispetto a formule di carattere consuetudinario e che appare costantemente riproporsi nel corso della storia. Alla preminenza originaria dei mores ancestrali si sostituiva l’idea della centralità della legge scritta, formalmente approvata dalla comunità politica. Ai dieci membri del collegio erano attribuiti, secondo le fonti antiche, poteri assoluti e sottratti alla provocatio che limitava invece l’imperium dei magistrati ordinari. Il che permette di immaginare che il decemvirato, pur all’origine finalizzato alla redazione delle leggi, tendesse ad assumere un significato più ampio, di organo generale di governo della città e delle sue leggi. Non solo esso sostituiva la coppia consolare, ma comportava anche la sospensione di ogni altra magistratura, compresi i tribuni della plebe. La tradizione, se è univoca intorno alla redazione delle XII tavole, meno lo è nella rappresentazione delle vicende successive. Il collegio, rieletto per il secondo anno, onde completare la redazione delle tavole della legge, sempre presieduto da Appio Claudio, era stato integrato da elementi plebei. Come era avvenuto nel caso dell’espulsione dei Tarquini da Roma, associata all’aggressione sessuale di Lucrezia, moglie di Collatino, da parte del figlio di Tarquinio il superbo e il conseguente suicidio dell’oltraggiata, anche la crisi del decemvirato con la correlata espulsione del decemviro Appio Claudio da Roma è legata alla violenza arrecata ad una fanciulla plebea, Virginia. Ma anche in tal caso, la vicenda romanzesca copre una crisi politica. Un nucleo di verità si può cercare in uno degli elementi caratteristici della rappresentazione che la parte aristocratica ha sempre dato della libertas repubblicana. Questa libertas, infatti, non assume connotazioni di carattere democratico, non è una libertas di tutti, ma di una consorteria aristocratica: è fondata sull’eguaglianza di pochi. Le personalità che in qualche modo tendono a sottrarsi alla compattezza del sistema aristocratico, sin dall’inizio della storia repubblicana, sono sempre indicate con caratteri di tiranni. L’oligarchia al potere imputa loro la massima colpa vero la libertas repubblicana: l’aspirazione a un potere assoluto, l’adfectatio regni. Sarà questo lo strumento per colpire ogni personalità che devii eccessivamente dalla lealtà verso il gruppo dirigente. Forse l’ulteriore e per certi versi definitiva crescita plebea sarebbe stata allora tollerata se il disegno riformatore con la regia di Appio Claudio non fosse andato oltre. Affiorava così la possibilità di una totale rifondazione della comunità, con un’integrazione sociale più radicale di quella possibile per la città patrizia delle origini. Dove emerge infatti una tendenza non solo ad assicurare una conoscenza pubblica delle norme, ma a realizzare anche un loro nuovo modo di formazione. All’antico sapere pontificale pare contrapporsi un’opposta concezione. Con la tendenziale concentrazione delle funzioni di governo e legislative nel binomio costituito dai decemviri e dall’assemblea popolare, per un momento e un momento solo, parrebbe che tutto il diritto fosse riportato all’interno della politica. Ma fu solo una tendenza che traspare rapidamente, senza riuscire a ingenerare un sostanziale o tanto meno definitivo mutamento della natura globale dell’esperienza giuridica romana. Perché questa potenziale eversione segnò invece la catastrofe politica di Claudio, facendo rapidamente rientrare il sistema giuridico nel suo alveo tradizionale. Si salvò solo il programma originario volto a dare certezza all’intero ordinamento romano. Dal 449 una volta approvate anche le due ultime tavole, le XII tavole rappresentarono la nuova realtà istituzionale alla quale i romani si sarebbero rivolti per secoli come il punto iniziale della loro storia giuridica. Il nuovo grande corpo legislativo costituì da allora il fondamento dello ius civile: il diritto della città, identificandosi in pratica con esso. Malgrado il loro valore pressoché fondativo era infatti chiaro che non tutti il diritto vigente in Roma era stato in esse riportato. È questo del resto che sconsiglia di applicare il termine codice a tale raccolta. La maggior parte delle norme contenute nelle XII tavole presuppone altri segmenti del diritto che ad esse preesistono e su cui esse si innestano, modificandoli eventualmente. Il secolo di chiudeva con sostanziali progressi verso l’equiparazione politica dei due ordini, mentre restava immutato il monopolio patrizio sulle terre pubbliche e aggravato il problema dell’indebitamento degli strati più poveri della plebe. È qui però che negli ultimi anni immediatamente successivi intervenne la svolta destinata a far superare questi nodi: nel 396 si concluse infatti vittoriosamente l’annoso tentativo di Roma di conquistare militarmente la potente città etrusca di Veio, che bloccava la sua espansione verso nord. Questa vittoria fece cadere in mano romana un enorme e ricco patrimonio fondiario, che portò in pratica a raddoppiare il precedente ager romanus. Tutto ciò ebbe a riflettersi positivamente anche sul lungo stallo che aveva caratterizzato la lotta patrizio-plebea in ambito sociale e economico. La distribuzione a tutti i cittadini romani di un appezzamento di sette iugeri ricavati dalle terre strappate a Veio attenuò l’interesse plebeo per la redistribuzione dell’antico ager publicus. Ma questa stessa distribuzione di ricchezza alleggerì anche la pressione esercitata sugli strati più deboli dai processi di indebitamento. Questa modalità di distribuzione della terra veiente comportò l’acquisizione per le varie famiglie di un multiplo dei sette iugeri assegnati a ciascun cittadino. In base al regime della proprietà vigente i vari lotti assegnati ai cittadini in età adulta, ma ancora sotto la potestas del padre tuttora vivente, venivano a sommarsi nelle mani di quest’ultimo dando origine a unità fondiarie di notevoli dimensioni. Il riassetto interno avviato con le distribuzioni di terra veiente aprì un processo destinato a concludersi circa trent’anni dopo nel 367 con il compromesso patrizio- plebeo. È in quell’epoca che le basi economiche della società romana si allargarono in misura consistente. Sotto questo profilo non sembra avere avuto grandi effetti l’infortunio intervenuto con l’aggressione vittoriosa dei Galli e la conquista e l’incendio della città da parte loro. Con il loro però subitaneo ritiro, rapidissima fu la ripresa di Roma, su cui pesava tuttavia l’esigenza sempre più acuta di assicurare un ulteriore ricompattamento interno. Nel 367 furono così approvata tre distinte proposte di legge che, dai magistrati proponenti, sono ricordate come le leggi Licinie Seste. Nella memoria storica dei romani esse appaiono come un fondamentale punto di svolta nella lunga vicenda della lotta patrizio-plebea con il quale la plebe appare conseguire gran parte degli obiettivi principali che si erano prefissi. Con la legislazione del 367 si accelerò un processo di trasformazione delle strutture politico-istituzionali e sociali di Roma che rese possibile un’intima saldatura tra i due ordini sociali. I patrizi e i plebei restarono distinti per tutta l’età repubblicana e oltre ancora, ma a livello politico essi vennero rapidamente fondendosi in un nuovo ceto di governo patrizio-plebeo, mentre la centralità della proprietà individuale della terra e lo stesso carattere individualistico delle terre pubbliche sfruttate dai privati completò l’avviata dissoluzione delle arcaiche strutture gentilizie. La nuova legislazione introdotta nel 367 avviò quasi immediatamente l’unificazione politica della città, destinata a tradursi in una formidabile e durevole spinta espansionistica. La prima delle tre leggi Licinie Seste prevedeva che uno dei due consoli potesse essere plebeo. Con la seconda legge si introduceva un limite al possesso di terre pubbliche da parte di ciascun cittadino, così che, con la definitiva frantumazione delle terre dei patrizi, i possessi di minori lotti di terre pubbliche divennero effettivamente accessibili a un maggior numero di cittadini, ivi compresi i plebei. Per i debiti, l’ultima legge prevedeva infine una serie di provvedimenti volti a limitare il peso di questi, prevedendo che gli interessi già pagati dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Un insieme di norma di grandissima rilevanza sociale limitava e poi sopprimeva definitivamente l’asservimento personale del debitore, rompendo le forme di dipendenza arcaiche: tra esse particolarmente rilevante la Poetelia Papiria del 326. È in quell’epoca che ormai l’unica vera forma di lavoro dipendente divenne la moderna schiavitù, destinata a rappresentare un elemento fondante dell’economia romana. Del resto la sua precedente consistenza è attestata dalla lex Manlia del 357 con cui si imponeva una tassa del 5% alle manomissioni. La sequenza politico-sociale che si innesta a partire dal 396 è di impressionante evidenza. Da un lato infatti, dopo un ristagno durato tutto il V secolo, in rapida successione ben otto nuove tribù si aggiunsero al precedente nucleo di 17 tribù rustiche, completandosi nel 495. Nel successivo periodo conclusosi nel 241 si completò il numero complessivo delle tribù giungendo al totale di 31 tribù rustiche non più destinato a mutare. Con la svolta del 367 si era ormai pervenuti al completamento dell’architettura costituzionale della città. Con essa i censori assumevano una fisionomia più netta, precisandosi le loro competenze per quanto concerne l’arruolamento da loro effettuato, nei ranghi del senato, degli ex magistrati, sia patrizi che plebei. Essi diventavano così garanti della costruzione di una nuova aristocrazia politica che si sostituì nel governo della repubblica all’antica nobiltà di nascita costituita dai patrizi. In quello stesso anno un nuovo magistrato veniva introdotto, destinato a amministrare la giustizia e a regolare le controversie tra i privati: il pretore. PARTE SECONDA : L’APOGEO REPUBBLICANO. CAPITOLO QUINTO : IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE. 1. Il consolato e il governo della città. Nel considerare il quadro istituzionale della città repubblicana si deve tener conto di una logica di fondo che sembra ispirarlo. A qualificarne infatti in modo affatto particolare la fisionomia, non era solo l’assenza di una costituzione scritta, con quel tanto di sistematico e di coerente in termini di disegno organizzativo, da ciò necessariamente generato. Giocava in tal senso anche la natura delle singole leggi che avevano introdotto nuove figure di governo o nuovi compiti e regole per le magistrature già esistenti. Il carattere ellittico delle leggi arcaiche e alto-repubblicane ne rendeva imprecisa la portata specifica e lo stesso contenuto, non indicando quasi mai le modalità e i criteri concreti per la loro applicazione. I qui l’importanza della successiva interpretazione e della prassi che erano venute regolando settori interi dell’apparato politico, senza o oltre la norma. Questa stessa articolazione dei criteri organizzativi rendeva poi possibile una successiva loro rimessa in questione. Di qui il paradosso affatto romano di un insieme di regole, in genere seguite, ma all’improvviso e in certe condizioni disattese. Il nucleo centrale del potere e delle funzioni riconosciute a ciascun organo della repubblica si è conservato e perfezionato nel tempo. Partendo dalla figura dei consoli, introdotti probabilmente all’inizio della repubblica, ma riaffermati a regime e definitivamente solo nel 367. A questa coppia di magistrati, al vertice dell’intero assetto di governo della città, è dunque conferito il supremo potere di comando. Esso è indicato come imperium maius, in quanto superiore a quello di ogni altro magistrato. Insieme alla collegialità, questa carica è caratterizzata dall’annualità. L’antica figura del rex presentava intimamente fusi in sé due fondamentali aspetti: un ruolo politico-militare e uno religioso, che si esprimeva nella sua inauguratio, e nella legittimazione a interrogare la volontà degli dei, mediante gli auspicia. Con la sua scomparsa i romani ne preservarono alcuni aspetti meramente religiosi in capo a quello che si potrebbe indicare come un fossile istituzionale: il rex sacrorum. La sopravvivenza era necessitata dall’esigenza di scindere la figura inaugurata del rex dal potere politico di cui egli, sino ad allora, era stato il titolare supremo. Un’ulteriore conseguenza di tale processo era la rafforzata autonomia del governo cittadino dall’influenza delle forme religiose, così importanti invece nelle società orientali. Vi era tuttavia un aspetto della sfera religiosa che non poteva invece disgiungersi dalla vita politica e militare: il potere-dovere di interrogare la volontà degli dei prima di intraprendere ogni azione pubblica. Di prendere cioè gli auspicia per cogliere il segno di questa volontà e interpretarlo. L’imperium consolare era poi distinto a seconda che fosse esercitato all’interno del confine della città, orientato essenzialmente a governare la comunità politica e la vita dei suoi membri, cd. imperium domi, o che si sostanziasse in un comando militare fuori dalla città, cd. imperium militiae. Una serie di limitazioni introdotte gradualmente a circoscrivere l’efficacia dell’imperium domi nei riguardi dei cittadini non poteva applicarsi o si sarebbe applicata in dimensioni minori in relazione all’imperium militiae, al comando dell’esercito romano. La funzione primaria del pretore è tuttavia riferita essenzialmente alla sfera processuale e per questo è indicata con un termine specifico: iurisdictio, da ius dicere. L’autonoma definizione dei compiti giurisdizionali attribuiti al pretore sottolinea uno sviluppo che va oltre la mera dialettica della legge, esaltata dal valore di riferimento delle XII tavole, la persistenza dei mores e l’interpretatio pontificale. La sua iurisdictio si sostanziò essenzialmente nel controllo delle procedure e nella verifica della legittimità delle pretese in conformità a quello che era il diritto vigente. Nell’esercizio di questa sua competenza si dovette precocemente verificare un fenomeno gravido di conseguenze: la separazione tra il ruolo del magistrato e la valutazione delle specifiche circostanze oggetto della controversia a lui sottoposta dai privati. Nel sistema processuale, diviso in due fasi, la sentenza che decideva della causa era lasciata ad un giudice privato, in base all’accertamento dei fatti materiali addotto dalle parti, il cui inquadramento nell’ambito degli schemi giuridici, tuttavia, non era di sua competenza. La scissione in due fasi del processo romano evidenziava infatti la presenza di due convergenti meccanismi: l’accertamento dei fatti materiali cui si riferiva il litigio processuale e il loro inquadramento all’interno del sistema di regole proprie del diritto romano. Questo secondo e primario aspetto era di stretta competenza del pretore e dalla sua definizione prendevano significato i fatti stessi lasciati all’accertamento del giudice privato. Tale scissione era destinata a facilitare una sempre più autonoma definizione delle categorie giuridiche di riferimento da parte del magistrato giusdicente. Ad una condizione tuttavia, che si superasse la rigidità delle più arcaiche forme processuali per legis actiones. È qui dunque che intervenne, a partire dalla seconda metà del III secolo, un’innovazione di grande rilievo, quando il pretore estese la forza del suo imperium all’interno del processo. Nel compiuto disegno istituzionale del 367 il sistema di governo della città è costituito da un gruppo di magistrati superiori, rappresentato dai censori, e dalle altre magistrature cum imperio: i consoli, il pretore e da una magistratura straordinaria costituita dal dittatore. Al di sotto di queste figure si collocano le magistrature minori, con funzioni più circoscritte e munite di una semplice potestas che ne legittimava l’azione. Ogni magistrato poteva e doveva interrogare gli dei per potere esperire le proprie funzioni in piena legittimità: anche qui scattava infatti la rigida gerarchia che separava i magistrati cum imperio da quelli cum potestate. I primi erano titolari degli auspicia maiora, i secondi degli auspicia minora. I magistrati cum imperio si avvalevano poi, nell’espletamento delle loro funzioni, di un consilium di carattere privato, composto da amici e cittadini autorevoli, che contribuiva comunque a rafforzare l’autorità e l’efficacia della loro azione. I quaestores furono introdotti in numero di due, elevati a quattro alla fine del IV secolo e infine nel 267, durante la prima guerra punica, raddoppiati a otto. La loro competenza principale riguardava gli affari civili, e anzitutto l’amministrazione delle finanze statali, in collaborazione con i censori, e sotto le direttive del senato. Ma questa figura fu utilizzata per una molteplicità di ulteriori incombenze, in seguito anche per collaborare con i governatori provinciali. Per il governo dell’esercito si ripropone la figura dei tribuni militum: alcuni di diretta nomina dei consoli, altri eletti ancora dai comizi. Questi magistrati, nominati annualmente, costituiscono il gruppo definibile di ufficiali superiori al comando dell’intero esercito. Questo, a sua volta, è organizzato per legioni che continuano a essere la struttura fondamentale dello schieramento militare romano. L’elevato numero di questi tribuni militum, 24, comportò il fatto che non tutti, tutti gli anni, prestassero effettivamente servizio nelle legioni. Le nuove esigenze intervenute con il primo scontro con Cartagine sono inoltre all’origine dei duoviri navales, preposti al comando della flotta allora creata. Si tratta però di una magistratura che non divenne permanente. Una delle prime e più importanti acquisizioni dei plebei fu l’integrazione nell’assetto repubblicano di una loro magistratura: i tribuni della plebe. Essi rappresentano il contropotere nei riguardi dello stesso sistema istituzionale costituito dai supremi magistrati e dal senato, in funzione della difesa degli interessi della plebe (cd. auxilium praestare). Vari erano gli strumenti pratici di cui disponevano: oltre al potere di intervento e sanzione contro gli autori di condotte dannose a carico dei plebei, cd. multae irrogatio, potevano interporre l’intercessio contro qualsiasi iniziativa magistratuale. Senza considerare una ancora più pericolosa facoltà, consistente nella summa coercendi potestas, con cui il tribuno, pur privo di imperium, poteva giungere a uccidere il trasgressore delle leggi sacrate, compreso qualsiasi magistrato repubblicano o comminargli la consacrazione dei beni senza l’ostacolo della provocatio. Essi potevano convocare la plebe in assemblea, organizzata per tribù territoriali, proponendo l’approvazione di delibere comuni (cd. plebei scita). Va infine ricordata l’introduzione degli edili della plebe con compiti organizzativi all’interno della città. Accanto ad essi in seguito saranno introdotti gli edili curuli, appartenenti invece alle magistrature cittadine. Questa figura avrà la funzione di sovraintendere alla vita materiale ed economica della città, dai mercati alla viabilità, dalla polizia all’igiene, alle cerimonie pubbliche e ai giochi pubblici. Il controllo dei mercati ebbe rilevanza particolare perché era finalizzato anzitutto a garantire un adeguato approvvigionamento dei beni di prima necessità, comportando anche una costante sorveglianza sull’andamento dei prezzi. Gli edili furono titolari di una limitata giurisdizione sui mercati e le transazioni cittadine, emanando loro editti cui si rivolse anche l’attenzione dei giuristi. Un’innovazione ancora più importante era stata, nel 442 a.C., l’introduzione dei censori che riprendeva così una funzione già dei re etruschi e dei primi consoli. La redazione del censimento della popolazione era un compito quanto mai delicato giacché in base alle liste del censo, tutta la cittadinanza romana veniva a essere fotografata. In tal modo si distinguevano innanzitutto i cittadini dagli stranieri e dagli schiavi, e tra i cittadini i nati liberi, gli ingenui, dagli schiavi manomessi: i liberti. Ciascun cittadino era così collocato nella sua famiglia, associata alla proprietà fondiaria di cui era titolare, radicato nelle varie tribù territoriali e infine inserito nelle classi di censo cui lo legittimava la sua ricchezza familiare. Questi magistrati enumeravano i membri del senato. Con la lectio senatus si inserivano nuovi nomi, tra i membri del senato, a riempire i vuoti verificatisi nel quinquennio precedente a seguito delle morti o di altri eventi. Probabilmente dalla fine del IV secolo, in coincidenza con il plebiscito di Ovinio, la selezione venne definitivamente attribuita a censori ed agganciata a criteri obiettivi. Venivano anzitutto prescelti gli ex magistrati, partendo dall’alto: prima gli ex censori ed ex consoli, poi gli ex pretori e infine gli ex questori. Era nei poteri dei censori anche quello di escludere dai ranghi del senato, con un apposito provvedimento, un suo membro che si fosse macchiato di comportamenti seriamente lesivi del prestigio di tale consesso. Si trattava di una grave decisione che derivava dal loro generale potere di controllo dei costumi dei cittadini: la cura morum. In base ad essa, nei casi più gravi, tali magistrati potevano irrogare una specifica sanzione consistente nella nota censoria. Essa comportava una generica condizione di ignominia all’interno della comunità cittadina, ma poteva anche determinare una retrocessione nel ruolo politico sociale, con l’iscrizione del cittadino indegno in una classe di centurie inferiore a quella a cui aveva diritto in base al suo patrimonio, o con il suo allontanamento dalla classe dei cavalieri, o dai ranghi senatori. Un altro importantissimo ambito di competenze dei censori concerne l’amministrazione delle proprietà e dei beni pubblici, da loro registrati nel censimento insieme ai patrimoni privati. Essi inoltre sovraintendevano alle attività economiche della città, anzitutto controllando le entrate e le spese pubbliche, e provvedendo allo svolgimento di tutte quelle attività fondate sul sistema degli appalti da parte dei privati. I censori venivano eletti ogni cinque anni e duravano in carica fino al completamento del censimento, ma non oltre i diciotto i mesi. Essi non erano muniti di imperium, estranei ai compiti militari e anche alle diverse delibere politiche: il che spiega perché non avessero il diritto di convocare il senato e i comizi popolari. Anche la severa repressione di coloro che dolosamente si fossero sottratti al censimento, poteva essere da loro attuata solo mediamente, attraverso la coercizione materiale esercitata dai consoli o da altri magistrati cum imperio. È una tendenza in atto in tutta l’età repubblicana quella di integrare la struttura di base dell’organizzazione di governo della res publica, con una serie di elementi ulteriori volti a far fronte alle più differenziate e molto particolari esigenze suscitate Il sistema di governo della repubblica, malgrado questo singolare carattere, ha funzionato a lungo e nel complesso in modo molto efficace. Non solo, esso ha mostrato sovente notevoli capacità in senso decisionista come tempestività di scelte e di interventi, tali da non risentire, in apparenza, delle potenzialità negative richiamate. Il che si spiega con la forte compattezza e disciplina dell’intera comunità politica, che dovette orientare la complessiva condotta dei ceti dirigenti e delle supreme magistrature. Il rapporto tra tale organo e i consoli va interpretato anche considerando la configurazione sociale dei magistrati romani e il loro destino politico istituzionale. Non si deve dimenticare che essi, scaduto il loro anno di carica, venivano a far parte, per tutto il resto dei loro anni di vita attiva, dei suoi ranghi. Il loro comportamento, nel corso della loro carica, restava quindi profondamente condizionato dal loro collegamento con il consesso senatorio di cui non di rado facevano già parte e in cui sarebbero comunque rientrati. Quanto agli aspetti concreti del suo funzionamento, tale potente consesso non si poteva autoconvocare, essendo questo compito affidato ai titolari del ius agendi cum patribus. La sua organizzazione interna funzionava secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex magistrati. La sua presidenza conseguentemente era affidata all’ex censore più anziano. Con il consolidarsi delle sue competenza nella politica estera, il senato si arrogò il diritto di inviare ambascerie presso i popoli e le nazioni straniere onde trattare accordi e ogni questione di rilevanza internazionale. I personaggi prescelti per compiere tali missioni furono indicati come legati, i cui compiti erano predeterminati da un apposito senato consulto. Nella tarda repubblica essi erano scelti esclusivamente tra i membri di questo consesso. 4. Il popolo e le leggi della città. Con l’avvento della repubblica si dovettero immediatamente definire le forme di designazione dei nuovi governanti. L’introduzione di magistrati annuali, non inaugurati, postulava la loro elezione da parte della comunità cittadina, con un voto del popolo riunito in assemblea. La versione civile dell’antica organizzazione militare, costituita dai consorzi centuriati, assolse tale funzione. In questa assemblea il peso dei cittadini era diseguale, sia in relazione al censo che all’età. Nel comizio centuriato le delibere infatti erano assunte dalla maggioranza delle centurie che costituivano ciascuna unità di voto. Le centurie delle prime classi, e all’interno di ciascuna di classe, quelle dei seniores, erano meno affollate rispetto a quelle delle classi inferiori e a quelle degli juniores, e pertanto i loro membri avevano un peso politico maggiore. Per ciascuna di esse sussisteva infatti un eguale numero di centurie comprensive di cittadini più giovani e di seniores. Data la durata media della vita e dato il numero inferiore di annate in essi ricomprese, il numero dei seniores all’interno della stessa classe di centurie è ovvio che fosse minore che quello di corrispondenti juniores. Di qui il peso ponderato maggiore dell’anziano rispetto al giovane, oltre che del ricco rispetto al povero. Le 193 centurie non votavano contemporaneamente, ma secondo un ordine progressivo. In un primo momento il voto era orale, e raccolto da appositi funzionari, poi si passò alla votazione scritta. Sovente le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della prima classe, votando in modo uniforme, realizzavano da sole la maggioranza, tagliando fuori dalla decisione tutto il resto della popolazione. Poiché poi, una volta raggiunta la maggioranza, la votazione delle ultime centurie del comizio raramente riuscivano ad esprimere il loro voto. Sin dall’inizio della repubblica anche le delibere che riguardavano la vita della comunità dovettero essere assunte da tali comizi. Naturalmente uno strumento così ingombrante e complesso e la stessa logica di democrazia diretta che ne è alla base resero impossibile fare di codesta assemblea un sofisticato meccanismo atto a temperare il dispositivo delle singole leggi in funzione delle diverse esigenze e opinioni. Il magistrato legittimato a convocare i comizi, avendo individuato una data consentita dal calendario religioso e politico della città, con un certo anticipo doveva annunciarne la convocazione, rendendo pubblica la sua proposta di legge. Davanti al comizio convocato si svolgeva un dibattito su di essa per poi passare alla votazione, che riguardava la proposta nella sua interezza. L’assemblea poteva accettarla o respingerla, non essendo possibile introdurre emendamenti e modifiche, al testo originario. Egualmente questa forma di democrazia limitata operava nella elezione dei magistrati. L’autorganizzazione delle plebe nella sua lotta politica e le sue secessioni erano avvenute nella forma di assemblee, convocate secondo il criterio territoriale delle tribù. Esse pertanto costituirono, sin dall’inizio, i distretti elettorali dei magistrati plebei: dei tribuni e degli edili. Quando poi la fase di più acuto conflitto tra patrizi e plebei fu superata, soprattutto dopo la piena parificazione dei due ordini, quest’ultimo strumento, più agevole di quello dei comizi centuriati, fu utilizzato, per quanto possibile, al posto di quelli. I nuovi comizi tributi furono così integrati con la presenza anche dei patrizi e chiamati ad eleggere i magistrati minori, sine imperio, nonché ad assumere un ruolo sempre più importante nel processo legislativo romano. Il superamento del conflitto patrizio-plebeo rese infatti possibile il riconoscimento del valore generale dei plebisciti. La tradizione fa risalire addirittura alle leggi Valerie Orazie del 449 a.C. la parificazione dei plebisciti alle leggi comiziali. È più verosimile invece che questo processo sia stato realizzato in un momento successivo, attraverso due delibere comiziali: una delle leggi Publite del 339 e la legge Ortensia del 286. Così tra la fine del IV secolo e gli inizi di quello successivo, il più pesante apparato dei comizi centuriati limitò le sue delibere agli aspetti più importanti della vita cittadina. Il mezzo secolo che intercorre tra queste due leggi coincide con la piena integrazione dei due ordini e conseguentemente con il parziale mutamento di significato dello stesso tribunato della plebe, che da organo di parte e tendenzialmente antagonistico al sistema delle magistrature ordinarie e del senato, divenne elemento di un sistema politico unitario. La composizione dei comizi tributi contribuì a dare all’elettorato romano una fisionomia abbastanza conservatrice. Fu quella la sede atta a esaltare gli interessi del ceto dei proprietari rurali, che furono una delle basi essenziali della politica di espansionismo territoriale, essenzialmente orientata ad acquisire nuove terre agrarie. Solo abbastanza lentamente gli interessi mercantilistici, legati alla ricchezza mobiliare, acquistarono peso in codesto consesso. In ciò fu importante il precoce ruolo di Appio Claudio Cieco, con la conseguente apertura ad una più accentuata innovazione politica. Si impone nelle XII tavole, l’autonomia del processo legislativo il cui fondamento è direttamente riferito al popolo: conseguentemente ai comizi. Questa sovranità aveva le potenzialità per erodere l’altro aspetto fondante della comunità costituito dal carattere consuetudinario del sistema normativo romano e dal ruolo dell’interpretazione pontificale e dei giuristi. Di fatto però questa stessa legislazione intervenne, nei secoli della repubblica, solo molto limitatamente per modificare il diritto civile dei romani e quando cioè avvenne, fu quasi sempre per una particolare rilevanza sociale o politica dell’argomento trattato o qualche specifica esigenza e difficoltà della pratica legale, superabile efficacemente solo in via legislativa. Il settore privilegiato dall’azione legislativa dei comizi appare piuttosto il diritto pubblico. Se consideriamo l’insieme delle leggi di cui si ha ricorso, si possono individuare alcune tendenze di fondo della legislazione comiziale. Anzitutto, la larga prevalenza di leggi relative all’organizzazione cittadina: in particolare il vasto gruppo di provvedimenti relativi alle singole magistrature che ne ampliavano o modificavano le competenze e il funzionamento e quelli volti a stabilire limiti ulteriori all’originaria configurazione dei poteri magistratuali. Poi numerose leggi relative alla disciplina dei comizi testimoniano la progressiva trasformazione dell’originario dominio patrizio della prima età repubblicana. Ad esse si aggiunge, insieme a diverse leggi riferite all’organizzazione delle varie figure sacerdotali, un elevato numero di delibere relative alla dichiarazione di guerra e agli accordi internazionali, dove il popolo interveniva accanto al senato. È in questa stessa prospettiva che si colloca l’altro assunto posto a salvaguardia della repubblica e tuttavia mai formulato esplicitamente da una norma positiva: il divieto di attentare all’esistenza della res publica. Molti cittadini verranno accusati di aspirare a divenire re: adfectatio regni, e per questo messi a morte; ma non sembra mai stata votata una norma che vietasse questo comportamento eversivo. Essa è implicita nell’esistenza stessa della repubblica, nel mito della cacciata dei Tarquini ed è presente nella coscienza collettiva. Ora questi stessi principi, non necessariamente scritti e formulati in regole, non sono neppure chiaramente predeterminati e conoscibili ex ante. Sono incorporati all’interno della storia stesa della costruzione repubblicana: anzitutto il riconoscimento del valore fondante del processo di integrazione che ne è alla base. Per questo né l’autonomia né la sfera dei poteri del senato, da una parte, né il ruolo e la sacertà dei tribuni della plebe dall’altra, potrebbero essere messi in discussione da qualche legge positiva. Essi, non diversamente dall’esistenza della coppia consolare, dal diritto provocatio, sono incorporati nella storia comune della civica e ne costituiscono il fondamento da tutti condiviso. Si tratta di pochi e fondamentali meccanismi che si possono effettivamente considerare come il nucleo della costituzione reale della repubblica. Esso è necessariamente integrato da un sistema ben più fluido e abbastanza poco determinato di regole che ne integrano il contenuto rendendone possibile il funzionamento concreto. La loro efficacia e le relazioni tra di esse potrà però variare nel tempo, sia a seguito di leggi positive, come sarà per la funzione dell’autorictas senatoria, sia anche per gli equilibri concreti tra gli organi. Sovente si tratta di principi incorporati nel complesso edificio istituzionale, addirittura privi di una loro formale evidenza, finché un comportamento o una norma di diritto positivo sembri intaccarne l’esistenza: solo allora se ne coglie l’esistenza. È la violazione che evidenzia e conseguentemente parrebbe creare la norma stessa. Questa non conoscibilità a priori, a sua volta, è il risultato di un certo modo di essere di un determinato sistema, quello romano. Per questo non era neppure concepibile l’esistenza di un organo specificamente competente a valutarne la possibile violazione. In effetti, a ben vedere, questo aspetto indeterminato è un carattere di fondo dell’esperienza giuridica romana. La stessa costruzione del sistema dei diritti privati, il lascito più importante del sapere giuridico romano, presenta una caratteristica tendenza al non compiuto, al mai definitivamente stabilito, una volta per tutte. La portata effettiva delle norme e delle regole consuetudinarie, il funzionamento dei singoli istituti e il sistema di relazioni tra di essi non trovano mai una rigida definizione. Essi costituiscono il risultato di un processo dialettico in continuo divenire, caratterizzato da quel margine di variabilità e di incertezza che esprime anche la creatività e l’elasticità del sistema. La stessa indeterminatezza dell’ordinamento romano si presta quindi a varie interpretazioni e a varie sollecitazioni in senso diverso e talora opposto. Trasformazioni che permisero a Roma di far fronte a situazioni assolutamente nuove. CAPITOLO SESTO : LA STRADA PER L’EGEMONIA REPUBBLICANA. 1. Cittadini e stranieri. Indipendentemente dalla discussione circa la verità storica di alcune delle conquiste attribuite in quel periodo a Roma, va comunque ricordato come il suo territorio, in origine non superiore al centinaio di chilometri quadrati, verso la fine del VI secolo a.C. fosse aumentato di circa otto e nove volte. Né meno formidabile e rapido era stato l’incremento della popolazione cittadina, accelerato dall’assorbimento delle minori comunità investite dalla sua espansione. Vi è anche un’altra conseguenza però derivante da tale consolidamento e dalla conseguente politica di potenza così ingenerata: l’accentuarsi dei caratteri di separatezza tra la comunità cittadina e ciò che ne è fuori, cioè tra romani e stranieri. Qui però occorre chiarire in via preliminare un aspetto che parrebbe caratterizzare la fisionomia delle antiche città, sia in Grecia che in ambito italico. In esse infatti era presente una concezione del diritto abbastanza diversa da quella che caratterizza gli ordinamenti statali moderni. A eccezione dei diritti politici, riservati ovviamente ai propri cittadini, vige infatti in questi ultimi il cd. principio della territorialità del diritto. Il diritto dello stato si applica cioè a tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Costoro dovranno rispettare le leggi civili e penali dello stato ospitante e automaticamente riceveranno una tutela analoga a quella dei suoi cittadini, in una condizione di sostanziale eguaglianza. Nel mondo antico e particolarmente nel complesso passaggio delle poleis greco italiche, tendeva a prevalere un criterio opposto, fondato sulla personalità del diritto. Allorché si fosse trovato nell’ambito di un’altra comunità politica, ogni individuo sarebbe stato estraneo al diritto proprio di essa, non avendo quindi la facoltà di utilizzarlo, e chiedere la protezione legale di cui fruivano i cittadini di quest’ultima. Già in età molto risalente, si sperimentarono nuovi e più giuridici meccanismi per assicurare tutela adeguata ai membri delle varie comunità interessate. Uno dei primi strumenti fu la concessione a un singolo o a un gruppo di stranieri dell’hospitium da parte di privati o della città, senza che ciò postulasse un accordo con la città di questi stranieri. Le radici di tale istituto, l’ospitalità, risalgono alle forme di circolazione gentilizia. In origine era il modo in cui si formalizzava la protezione che potenti clan privati assicuravano ai loro amici di altre comunità, una forma di protezione dentro il proprio ordinamento. Tra chi aveva concesso l’hospitium e il beneficiario di quest’ultimo intercorreva un vero e proprio vincolo volto ad assicurare la tutela dello straniero. Accanto a questo hospitium privato, intervenne anche un hospitium pubblico concesso dalla città stessa ad alcuni stranieri che permetteva a essi di rivolgersi ai tribunali locali per pretendere protezione legale. Questi casi di hospitium pubblico, senza l’intermediazione di privati cittadini, divennero sempre più numerosi con il rafforzarsi delle strutture cittadine. Lo strumento generalizzato nel mondo delle poleis per sopperire alle esigenze di tutela dei propri cittadini all’estero fu però quello dei trattati internazionali. Essi furono utilizzati dai romani sin da epoca molto risalente, come attestano i numerosi riferimenti agli accordi intercorsi tra Roma e i suoi vicini già durante i re e confermato dalla precoce presenza dei feziali, espressamente preposti alla loro stipula. Tali accordi costituirono il fondamentale meccanismo per la costruzione di un tessuto entro cui la città stessa poteva sviluppare la sua azione. Solo in prosieguo di tempo e a seguito di nuova e più vasta articolazione del loro sistema giuridico, sia sotto il profilo giudiziario che dei connessi processi di concettualizzazione, i romani avrebbero realizzato un sistema generalizzato e sicuro di tutela degli stranieri, indipendentemente dall’esistenza di un trattato internazionale che li vincolasse a proteggere legalmente i cittadini della controparte. Ma allora, non a caso, il loro sguardo era ormai proiettato su tutto il bacino mediterraneo. È indubbio infatti che il campo privilegiato della primitiva esperienza romana di carattere internazionale, fosse l’area caratterizzata, sin dall’origine, da una comunanza etnico culturale e linguistica: l’antica Lazio. Si è dunque indotti a inserire gli echi delle complesse vicende cui si è fatto cenno in un quadro sostanzialmente unitario, che non è l’originario stato stirpe, ma la presenza di un persistenze sentimento di comunanza, il rafforzarsi di una consapevolezza etnica, il nomen latinum, che sin dall’inizio hanno agevolato i rapporti fra le varie comunità e le comunicazioni commerciali ed economiche tra di esse. Qui, soprattutto nell’ultima fase del re, Roma affermò la sua superiorità. La politica romana di incorporazione delle comunità minori era restata circoscritta essenzialmente alle popolazioni più omogenee, concludendosi comunque con la fine del periodo monarchico. Ma anche in quella fase le relazioni di Roma con il mondo latino si erano venute articolando anche attraverso la conclusione di molteplici foedera: veri e propri accordi internazionali. D’altra parte si è anche richiamato la duplice valenza delle leghe religiose e dei santuari comuni. Il significato politico di alcune di queste leghe religiose spiega la tendenza romana ad assorbire o comunque ad affermare un certo controllo su questi stessi culti. Così un momento assai importante dell’assunzione di un ruolo egemonico di Roma nel Lazio appare, nella prospettiva degli storici antichi, l’istituzione di un culto federale di Diana con la costruzione sull’Aventino di un apposito tempio da parte di Servio, in alternativa ad altri centri di culto su cui Roma non aveva una posizione di superiorità. Soprattutto nel caso delle colonie romane si trattò di insediamento relativamente ristretti, sovente con un organico non superiore a trecento coloni, che rispondevano a esigenze di carattere strategico. Sovente fondate in prossimità della costa marina, esse costituivano anzitutto dei presidi militari, come controllo delle comunicazioni, centri di difesa contro aggressioni esterne in aree pericolose o ostili. Tali funzioni spiegano perché i cittadini fossero esentati dal servizio nelle legioni romane, assolvendo già in loco a una funzione militare. La facoltà della lega latina di fondare sue colonie fu effettivamente esercitata nel corso del primo secolo dell’alleanza. Tuttavia, a partire dagli inizi del IV secolo con il crescente predominio di Roma, essa di fatto si appropriò di tale potere, fondando autonomamente nuove colonie latine: ciò divenne anche formalmente sua esclusiva facoltà con lo scioglimento della lega nel 338 a.C. Nel corso del tempo la fondazione di colonie latine, da parte di Roma, oltre ad assicurare il controllo dei nuovi territori, servì a realizzare una politica demografica e indirettamente economica. Esse infatti assicurarono l’alleggerimento demografico della popolazione sovrabbondante, rendendo possibile il conseguimento di una sempre rinnovata redistribuzione di terre, a vantaggio soprattutto dei ceti meno abbienti di Roma e delle città a questa più strettamente collegate. Nuclei consistenti di popolazione si trasferirono in aree relativamente poco sfruttate, spesso solo di recente acquisite al dominio romano, favorendone le progressiva urbanizzazione. Fu una politica che divenne uno strumento formidabile per rafforzare e accelerare la romanizzazione di tutta l’Italia e in particolare di quelle aree di recente conquista che si prestavano a grandi investimenti agrari. Tra le colonie romane e le colonie latine sussistevano tuttavia fondamentali differenze: la prima e più evidente è costituita dalla loro diversa condizione giuridica. La colonia romana era un suo segmento organizzativo, comprendente un certo numero dei suoi cittadini che mantenevano lo statuto personale preesistente. La colonia latina era formalmente una comunità separata ed estranea a Roma, tanto che quei cittadini romani che avessero partecipato, come non era infrequente, alla sua fondazione, divenendone membri, perdevano la loro cittadinanza di origine, acquistando la condizione giuridica di latini. La fondazione di nuova colonia avveniva in genere sulla base di una delibera del senato e dell’approvazione dei comizi che stabilivano anche i magistrati incaricati delle procedure necessarie per la sua istituzione, dando istruzioni per l’emanazione dello statuto che avrebbe regolato, con una lex data, la vita e l’organizzazione interna. Un importante elemento connesso alla fondazione della colonia è costituito dal particolare assetto del territorio a essa assegnato. Sin dal IV secolo, infatti, venne adottato dai romani un sistema di divisione dell’area della colonia in parcelle regolari e tutte della stessa misura. Sotto la guida dei magistrati incaricati delle operazioni di fondazione della colonia, appositi tecnici, gli agrimensori, avendo identificato un punto centrale, tracciavano due linee perpendicolari che venivano a costituire gli assi centrali, chiamati cardo e decumano maggiore. In parallelo a distanza regolare venivano tracciare altre linee rette che si incrociavano pertanto ad angolo retto, costituendo al loro interno tanti quadrangoli regolari: le centurie. Secondo lo schema tipico la centuria consisterebbe in un’area di duecento iugeri equivalente appunto ai cento heredia romulei. Da questo numero ideale parrebbe derivare quindi il suo nome. In Italia queste linee di divisione, cardi e decumani, chiamati dagli agrimensori anche limites, confini, avevano una certa larghezza in modo da costituire vere e proprie strade rurali. Questa pratica ha un fondamento nelle più antiche tradizioni religiose del mondo romano italico, collegandosi alle autoctone concezioni dello spazio come elemento di un universo religioso. Il documento più importante è data dalla persistenza in tutto l’ambito dell’impero delle tracce di questa colossale manipolazione territoriale. E ancora oggi, in molte città, soprattutto nelle aree pianeggianti dell’Italia del Nord, il reticolo urbano che si incrocia ad angolo retto perpetua le antiche divisioni coloniarie. Attualmente in vari territori europei e nordafricani gli archeologi rintracciano sempre più numerose sopravvenienze delle antiche forme di divisione del territorio agrario. 3. La svolta del 338 a.C. e i nuovi statuti giuridici di Roma. L’espansionismo romano solo in parte è stato il frutto di fattori meramente militari, fondandosi piuttosto su una non sempre più articolata politica di cui la regia restò essenzialmente nelle mani del senato. Qui però interessa sottolineare un aspetto più tecnico che ne costituì un fondamentale supporto. Giacché è indubbio che il nuovo quadro istituzionale che si delineò sin da allora fu reso possibile proprio dall’accorta e innovativa utilizzazione delle logiche giuridiche elaborate dal collegio pontificale che ne era il depositario e messe a disposizione del ceto di governo romano. Sino alla metà del IV secolo Roma in effetti applicava in genere il criterio di multare le popolazioni sconfitte e sottomesse sottraendo a esse una parte del loro antico territorio. I nuovi territori così acquisiti, da una parte, restavano nella disponibilità dello stato cittadino e costituivano il demanio di ager publicus, lasciato in varie forme allo sfruttamento dei privati solitamente dietro pagamento di un canone, dall’altra, furono ridistribuiti in proprietà privata ai cittadini romani, sia nelle forme di terre assegnate individualmente, sia mediante la fondazione di colonie. Ne era conseguito l’incremento numerico delle tribù territoriali e indirettamente una naturale espansione demografica, ma nulla più. Diversamente che alle origini, le popolazioni delle città vinte non erano state assorbite all’interno della civitas romana: erano rimaste piuttosto come entità più o meno subalterne, sovente vincolate formalmente da trattati di alleanza diseguali imposti da Roma. Si trattava in fondo di una politica abbastanza generalizzata, nel mondo delle poleis greco italiche ma che ne aveva segnato un forte limite, che si può cogliere in modo particolarmente evidente proprio nelle vicende dello città greche, il cui espansionismo non riuscì quasi mai a superare la radicale separatezza tra la città egemone e le comunità subalterne. La drastica soluzione adottata da Roma per Veio, se pur giustificata dalla durate e dalla violenza dello scontro, appare abbastanza rozza. Ma fu un’impreparazione presto colmata: pochi anni dopo essa avrebbe mostrato una ben superiore capacità di governo delle molteplici comunità su cui, anche fuori del Lazio, si sarebbe estesa la sua egemonia, comprese le ricche città campane. Una capacità di cui colpisce la ricchezza e la varietà delle soluzioni di volta in volta adottate, secondo una logica singolare, che da un lato esaltava, dall’altro in qualche modo trascendeva la dimensione propria della città stato che la costituzione del 367 aveva appena completato. Il Foedus Cassianum, durato per circa un secolo e mezzo, era venuto definitivamente meno nel 338. Allora infatti un’ultima e più pericolosa defezione dei latini dall’alleanza si era conclusa con la definitiva vittoria militare dei romani. Il senato di Roma ridefinì allora, in modo affatto unilaterale, la situazione giuridica di ciascuna delle città vinte. Il carattere di questa delibera, anche se per diverse di esse lasciava sostanzialmente immutata la loro preesistente condizione, esprimeva la piena e definitiva assunzione, da parte di Roma, di un potere sovrano su tutte le antiche città della lega. Tuttavia esse continuarono a godere, sino alle radicali trasformazioni intervenute con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli italici, nel corso del I secolo, di un’autonomia organizzativa interna non diversa da quella che avevano come stati sovrani prima del 338. Lo dimostra bene un altro particolare provvedimento assunto in quel contesto dal senato: l’interruzione di ogni vincolo giuridico e istituzionale intercorrente tra le varie città laziali che proprio il Foedus Cassianum invece presupponeva. Per tutte costoro infatti i romani concilia commerciaque inter se ademerent: unilateralmente bloccarono tutti i rapporti giuridici e istituzionali tra queste città, evidentemente onde ostacolare qualsiasi ulteriore solidarietà che potesse nuovamente sfociare in un’alleanza antiromana. Almeno a partire da quel momento, la vecchia nozione della città sovrana, in cui il diritto della comunità e lo statuto politico si identificavano, era venuta meno. Roma si stava avviando a divenire un’entità politica nuova a cui facevano capo, in forma politicamente affatto subalterna, sia le città incorporate, pur gratificate di una vasta autonomia interna semisovrane, che i vari tipi di colonie. L’ordinamento romano fondato tuttora su una struttura politica affatto cittadina disponeva di una pluralità di statuti giuridici personali la cui convergenza unitaria appariva in sostanziale contrasto con il carattere proprio di ciò che, molto approssimativamente, si intende per città stato. Il che contribuì a dare a Roma una fisionomia affatto particolare e inedita. L’organizzazione di governo e l’assetto istituzionale di questi nuovi municipi è stato reso gradualmente omogeneo con la presenza di magistrature uniformi e di senati locali (l’ordine dei decurioni). Chiara l’azione di orientamento in tal senso di Roma, che appare ancora più evidente nell’imposizione da essa effettuata di una superiore autorità comune preposta ad amministrare la giustizia. Si tratta dei prefetti, magistrati delegati dal pretore, aventi competenze per aree territoriali e gruppi di popolazioni più o meni ampi. Questo meccanismo fu sperimentato con i praefecti Capuam Cumas. La loro giurisdizione concerneva le questioni di maggiore rilevanza economica, che, in genere riguardavano le elites locali, più accentuatamente romanizzate, mentre è probabile che i magistrati originari delle singole città avessero conservato una competenza per le questioni di minor momento. Anche se ci si trova di fronte ad una realtà quanto mai fluttuante. Nella progressiva penetrazione politico istituzionale di Roma in tutto il territorio della penisola e nelle forme organizzative adottate per le popolazioni sottoposte, costante fu il riferimento al modello cittadino. Anche quando la vera e propria sovranità fu avocata da quella che si può definire la città superiore rappresentata da Roma, si favorì la persistenza di una circoscritta individualità politica nei vari municipi e colonie. E questo lo si vede molto bene proprio nel caso in cui particolari motivi ispirarono una opposta politica, dove la massima sanzione irrogata a una comunità appare appunto la sua cancellazione come città, quasi la soppressione di un organismo vivente. Un vincolo che contribuì a limitare un’espansione accelerata del diritto romano era la sua insuperabile connessione con l’uso della lingua latina. Il carattere formalistico e orale del diritto romano, l’uso di parole e frasi predeterminate per porre in essere una serie di atti giuridicamente rilevanti, dalla trasmissione della proprietà alle forme primitive di contratto sino ai litigi processuali, escludeva che chi non sapesse parlare latino potesse accedere al diritto romano. Ora, i romani non solo non imponevano la loro lingua ai popoli sottoposti, ma escludevano addirittura che essi potessero usarla negli atti ufficiali, senza loro autorizzazione. Così i municipi sine suffragio continuarono per secoli a usare dei vari loro diritti come delle lingue autoctone solo molto lentamente subendo un processo di romanizzazione peraltro inarrestabile. Dovettero essere soprattutto le elites locali a intessere rapporti esterni, fruendo costantemente del diritto romano e portando avanti così, in forma semispontanea, il processo di romanizzazione delle loro istituzioni. Nel Lazio e nei territori immediatamente confinanti, questo statuto fu rapidamente trasformato nella piena cittadinanza romana comprensiva dei diritti politici. Laddove, insomma, sin dall’inizio sussisteva una forte omogeneità culturale, linguistica e, verosimilmente, giuridica che permise l’acquisizione rapida della piena cittadinanza romana senza gravi scosse. La misura del successo di tali processi è data dal fatto che, alla fine della repubblica, le tradizioni, le culture e i linguaggi italici erano ormai affatto tramontati, di fronte all’espansione dei modelli romano latini. Di qui la relativa facilità con cui si ebbe la definitiva espansione del diritto romano in tutta la penisola, almeno a partire dalla fine della guerra sociale, dopo la concessione della piena cittadinanza romana a tutti gli italici. Uno dei principali vantaggi conseguiti dai romani con tale organizzazione fu una rapidissima crescita degli organici cittadini. Già intorno al 330 a.C., dopo la grande sistemazione del Lazio e della Campania settentrionale, il blocco politico rappresentato da Roma, con le comunità incorporate e i suoi alleati dipendenti latino campani, raggiungeva gli 800mila abitanti in un territorio di circa 6000 kmq. Contemporaneamente nel 332 a.C. le tribù territoriali romane avevano raggiunto il numero di 29 sul totale di 35 che verrà raggiunto nel secolo successivo. Giacché, sia la grande villa schiavistica tardo repubblicana e imperiale sia la piccola proprietà contadina in organico rapporto con il sistema della centuriatio ripetono, sul territorio, gli schemi urbani e, attraverso la fitta viabilità rurale, appaiono direttamente connessi alla città e a essa funzionali. Questo panorama, da solo, non dà conto interamente della complessità del disegno strategico romano, rispetto alla penisola italica, a partire dagli ultimi decenni del IV secolo a.C. L’ampia estensione territoriale pienamente romanizzata di cui il sistema coloniario e quello municipale appaiono le strutture portanti presupponesse, sotto il profilo territoriale e degli assetti organizzativi, anche nuclei minori. E questo soprattutto nelle aree dove i processi di urbanizzazione erano più lenti o addirittura inconsistenti. Lì si ricordano dunque altre figure quali i fora, i conciliabula, i pagi e gli stessi villaggi (vici), quali località in cui popolazioni rurali venivano a incontrarsi in mercati stagionali, si saldavano in comuni luoghi di culti e distretti rurali aventi una loro identità amministrativa. Nel mentre che i suoi antichi alleati venivano assorbiti all’interno dell’ordinamento politico romano e regolati dal suo potere sovrano, una miriade di nuovi rapporti di alleanza venivano stretti dai romani con le varie popolazioni e comunità italiche, nel corso della loro rapida espansione. Il foedus, il trattato di alleanza, era stipulato tra soggetti sovrani, talora sancendo una loro formale subalternità politica, a favore di Roma (foedus iniquum), altre volte conservando invece il carattere formale, ma solo formale, di un’alleanza tra pari (foedus aequum). Il fatto che tra gli impegni reciproci assunti tra le parti vi fosse l’obbligo di aiutare l’alleato in caso di guerra era ed è la vera chiave di lettura di questi trattati. A Roma gli innumerevoli alleati italici dovevano quindi fornire supporto in termini di risorse materiali e di uomini. Così si moltiplicava la forza militare di Roma, per nuove conquiste, per nuove vittorie sancite da nuove alleanze subalterne. Anche il senato romano, nel definire la politica estera di Roma, si è costantemente impegnato a favorire e sostenere i gruppi aristocratici all’interno di ciascuna città alleata, a danno delle forze popolari e contro ogni spinta in senso democratico. In ciò si rifletteva anzitutto la tendenza intimamente conservatrice delle classi dirigenti romane. Ma dovevano giocare anche altri fattori: anzitutto la maggior facilità di controllare un ceto ristretto e interessato alla conservazione della legge e ordine e condizionato dai suoi stessi interessi economici, rispetto alle spinte meno calcolabili e tendenzialmente eversive di gruppi più estesi e più fortemente radicati alle loro radici autoctone. CAPITOLO SETTIMO : UN’ARISTOCRAZIA DI GOVERNO. 1. La nuova direzione politica patrizio plebea. Il compromesso patrizio plebeo del 367 a.C. aveva sanato un punto debole del precedente assetto aristocratico costituito dal suo esclusivismo. Il ruolo dell’antica aristocrazia gentilizia e la sua fisionomia guerriera sono ripresi appieno dalla nuova classe di governo della repubblica, la nobilitas patrizio plebea, formatasi a seguito dell’accesso plebeo alle magistrature superiori. Questo blocco sociale, capace di un costante anche se molto circoscritto rinnovamento, costruì e gestì, nel tempo, una sempre più complessa macchina istituzionale. Fu esso a guidare la più straordinaria e duratura storia di successo del mondo antico, realizzata con un esemplare impasto di abilità politica e diplomatica, di brutalità e competenza militare, di sapienza istituzionale e di governo. Una storia dove vecchio e nuovo si saldano felicemente. In teoria, ciascun cittadino che fosse nato da padre libero, ingenuus, poteva aspirare ad una carica magistratuale. Ma nei fatti questa carriera era aperta a pochi e in genere predeterminati individui appartenenti a un ristretto gruppo sociale. Era aperta a chi appartenesse alla non molto numerosa aristocrazia di sangue: ai patrizi. Era aperta anche ad altri, ma in che modo? Nell’antichità classica, ma soprattutto in Roma, il buon cittadino, l’individuo che dà il suo contributo alla vita della città è anzitutto un potenziale soldato. È altresì una persona che partecipa attivamente alla vita politica cittadina: il sostenimento suo e della famiglia è ricavato in genere da una proprietà fondiaria lavorata da altri soggetti. Per questo solo il giovane appartenente ad una famiglia di buoni proprietari fondiari poteva pensare ad una sua ascesa politica, condizione per il suo inserimento nella nobilitas patrizio plebea. Ma occorreva anche che egli godesse di amicizie e protezioni altolocate: la prima condizione per il suo successo era infatti distinguersi nel corso degli anni di servizio militare. Un servizio militare prolungato: non meno di dieci anni dovevano passare in tale condizione, prima che il cittadino, lasciate le armi, potesse presentarsi ad una candidatura. Ovviamente una condizione del genere tagliava fuori da ogni possibile aspirazione tutti coloro che dovevano vivere del loro lavoro, la gente minuta. Di qui le tradizioni politiche note, come l’orientamento conservatore dei Fabi, sin dai tempi più antichi, legato ai valori agrari e cauto verso le nuove politiche imperialistiche, di contro il carattere avventuroso e capace di grandi aperture innovative dei Claudi. La storia di queste famiglie serve a educare le nuove generazioni e a orientarle, non meno di quanto gli interessi del presente inducessero poi queste ultime a riscrivere la loro stessa storia familiare. Uno strumento fondamentale di questa persistente forma gerarchica e dei ruoli delineati è rappresentato dalla clientela che costituisce un tipo di relazione straordinariamente diffuso nell’antichità anche fuori di Roma. Non si tratta più di clientela arcaica, dipendente dalle grandi signorie patrizie ormai scomparsa, ma di un reticolo di alleanze e di rapporti di dipendenza di natura più complessa. Che corrisponde anzitutto ad un sistema di ruoli. Intorno alle grandi famiglie e con riferimento alle personalità più eminenti tra i vari patres, si venne costruendo così un reticolo di forme di lealtà subalterna destinate a riflettersi anche nel momento elettorale, a sostegno delle ambizioni e dei disegni dei grandi. È in questo quadro di relazioni reciproche di scambio che si inseriscono anche le carriere degli uomini nuovi. Molti di essi infatti, lungi dal farsi da soli, fruirono di legami di protezione forniti loro dai vari gruppi nobiliari per muovere i primi passi della loro carriera. Quanto fosse importante lo schema clientelare a Roma, lo prova il fatto che questo sistema di relazioni squilibrate non restò circoscritto solo ai rapporti sociali e politici cittadini. Su una logica non dissimile, infatti, si fondò il tipo di relazioni funzionali alla costruzione dell’egemonia di Roma. Quando un magistrato romano, con la sua vittoria militare, aveva ottenuto la resa di una città o di una popolazione, con il conseguente assoggettamento politico, egli ne assumeva la protezione. Anzitutto facendosi intermediario tra gli interessi di questa comunità e il supremo volere del senato, cercando di ottenere da questo la sanzione definitiva dei provvedimenti da lui assunti nell’affermare la signoria romana e divenendo poi il referente costante per ogni richiesta che tale popolazione dovesse fare ai Romani. Protezione politica dunque a fronte di un continuo supporto materiale, di ogni tipo, a favore del patrono. E in seguito ciò varrà per intere province. Si creò così un singolare sistema di legami di dipendenza semi privati, tuttavia con una forte rilevanza politico sociale, che integravano e, in qualche modo, ammortizzavano l’impersonalità dei meri assetti giuridici dati da Roma al mondo provinciale. 2. Gli sviluppi sociali tra IV e III secolo a.C. Negli anni della spinta espansionistica che prese consistenza nella politica romana a partire dalla seconda metà del IV secolo, rivestono un ruolo importante le leggi Licinie Sestie. In quegli anni l’espansione territoriale romana si era consolidata in una vasta unità regionale che rappresentava uno dei territori più ricchi e più adatti allo sfruttamento agrario dell’intera Italia centrale. Immediatamente di seguito avrebbe avuto inizio l’espansione verso le ricche pianure campane. In questa fase, i latini avevano cercato di sottrarvisi mediante una vera e propria insurrezione militare. La loro sconfitta portò al definitivo assorbimento delle città dell’antica lega latina nell’ordinamento politico di questa città. Lo scorcio del secolo fu soprattutto dominato dal conflitto con la popolazione militarmente più forte esistente allora in Italia, situata sugli altipiani appenninici tra l’attuale Abruzzo, Molise, sino a lambire la Campania e la Lucania: i sanniti. Contro costoro la potente organizzazione militare romana subì un ulteriore formidabile collaudo i cui risultati si poterono apprezzare immediatamente dopo, quando Roma fu in grado di resistere all’esercito di Pirro, chiamato a soccorso dall’ultima città della penisola italica ancora indipendente, Taranto. La tradizione militare macedone, e di cui lo stesso Pirro era un importante rappresentante, non riuscì a prevalere sulle legioni romane. Fu l’ultimo ostacolo che si frapponeva ancora alla completa acquisizione dell’intero mezzogiorno. Questa ininterrotta e felice politica espansionistica comportò un parallelo processo di crescita economica, incrementato dai bottini ricavati dalle ricche città della magna Grecia e dalle ulteriori acquisizioni territoriali. Forse i romani del IV secolo non avevano ancora pienamente conosciuto la ricchezza, ma già allora la precedente stratificazione sociale aveva dovuto subire significativi mutamenti. Anzitutto per la saldatura degli strati superiori della plebe con le famiglie patrizie che non fu solo politica. Da sempre l’organizzazione statale romana si è venuta strutturando in un insieme di attività tutte o quasi di carattere gratuito: il vir bonus, il cittadino virtuoso dell’ideologia romana è colui che dedica i suoi sforzi a servire la patria, prima come guerriero, poi nella vita politica della città. La gratuità di tale impegno e delle cariche politiche presupponeva una selezione tra aspiranti in possesso di adeguati mezzi economici. Tale meccanismo favoriva il sostanziale monopolio delle cariche magistratuali da parte di una nobilitas relativamente ristretta, con il conseguente accumularsi di tradizioni e di competenze funzionali a tali ruoli. Un effetto collaterale di questa connotazione aristocratica è costituito dal mancato sviluppo di un ceto qualificato di amministratori e burocrati, pur essendo l’apparato statale chiamato a far fronte a esigenze sempre più complesse. Non è un caso infatti che tutta la sempre più complessa organizzazione dell’apparato statale si fondasse su una struttura molto leggera. Tuttavia nuove e molteplici esigenze e funzioni si imponevano a una macchina politico amministrativa che iniziava ad avere un’importanza almeno regionale. Non sempre si è tenuto conto in modo adeguato del risvolto organizzativo ed economico finanziario che il sempre maggiore impegno militare romano comportava. L’armamento degli eserciti, il loro approvvigionamento, in un ambito territoriale oramai a vasto raggio, postulavano anch’essi quadri organizzativi e operativi dotati di competenze sempre più sofisticate e con crescenti risorse economiche. La risposta fu allora quella di scaricare tali funzioni all’esterno delle stesse strutture istituzionali della città. Gran parte degli aspetti significativi della vita finanziaria e della gestione delle ricchezze e delle attività di interesse statale si realizzarono appaltando a privati imprenditori le attività a ciò necessarie e lasciando a questi tutti i vantaggi economici delle intermediazioni così richieste. Così lo sfruttamento delle terre pubbliche fu affidato ai privati, secondo modalità e con regimi abbastanza differenziati, ma in genere a fronte del pagamento di un canone periodico. Gran parte di tali terre non veniva però direttamente assegnata alla miriade di coltivatori e di allevatori interessati al loro sfruttamento, ma concessa a grandi mediatori, in grado di pagare le elevate somme richieste dai magistrati romani per aree assai ampie. Questi poi suddividevano tali estensioni di ager publicus tra tutti i piccoli agricoltori interessati, lucrando la differenza, sovente assai elevata, tra la cifra globale da loro versata alle casse di Roma e i canoni percepiti dai sub conduttori. Il guadagno di Roma era minore, ma si evitava tutto il lavoro e le funzioni di controllo che la ripartizione delle terre pubbliche tra una molteplicità di coltivatori e allevatori avrebbe comportato e i costi a ciò connessi. Un meccanismo non diverso riguardava anche le riscossioni tributarie, nelle province, gestite anch’esse attraverso appalti ai privati che si facevano carico di tale incombenza per conto di Roma, lucrando anche qui la differenza tra il percepito e quanto dovuto a essa. Ma non meno importante appare lo sviluppo delle opere pubbliche. La grande rete stradale che ebbe inizio con la via Appia, alla fine del IV secolo, la costruzione dei primi acquedotti pubblici destinati a trasformare le condizioni materiali della città e la crescita degli edifici pubblici e dei templi, più tardi lo sviluppo delle grandi terme pubbliche, comportarono un crescente livello di investimenti e di opere. Anche questo settore si fondò su una delega alla gestione privata attraverso il consueto sistema degli appalti. Lo stesso sistema si applicò per l’organizzazione del vettovagliamento e delle strutture logistiche a sostegno di eserciti impegnati sempre più a lungo e in territori sempre più lontani da Roma. Tutto ciò fu possibile grazie alla precoce affermazione di un gruppo sociale relativamente articolato, distinto dalla nobiltà delle cariche, tutta orientata al governo della politica e agli impegni militari. Si trattava di individui provenienti dagli strati più ricchi della popolazione: quelli che fornivano all’esercito i cavalieri, gli equites, in grado di provvedere a loro spese alla costosa cavalcatura. Questo è punto abbastanza trascurato dagli studiosi moderni: come se fosse ovvio e naturale quell’improvviso capovolgimento logico che dall’esclusivismo proprio della città antica fece scaturire il suo opposto, la moltiplicazione della città stessa in tanti micro doppioni, i municipi. E che poi svuotò l’essenza stessa della civitas introducendo la cittadinanza dimezzata: la civitas sine suffragio. Chi fu il magistrato o il senatore a imporre questi marchingegni, o il pontefice che lo consigliò non si sa: si conosce solo il singolare seguito di questa storia. Si trattava anche di far fronte al rapido accrescersi di nuove esigenze nel campo dei rapporti privatistici. Qui infatti al diritto delle persone e alla disciplina dei rapporti familiari e successori, si era venuto sostituendo l’insieme dei rapporti negoziali, funzionali a un’accresciuta circolazione di beni. Chiamato a mediare e orientare questi processi, il vecchio consesso pontificale rischiava di non essere più adeguato rispetto alla loro dimensione quantitativa e alla complessità ingenerate dall’accentuato processo evolutivo della società romana. È possibile che in effetti, di fronte a una posizione che poteva divenire di freno di costoro, il pretore da solo non fosse in grado di gestire e governare la trasformazione. Ed è egualmente ipotizzabile che tutto ciò, insieme alle ancora latenti tensioni tra gli ordini, potesse ingenerare un malessere proprio tra coloro che alla crescita erano più interessati e avevano necessità di forme giuridiche adeguate, soprattutto di un accesso a esse facilitato e semplificato. Certo è solo un’ipotesi ma permette di inquadrare la spinta innovatrice di Appio e del suo scriba all’interno di una logica coerente. Si potrebbe dunque interpretare l’opera riformatrice di Claudio come destinata a ridisegnare ruoli e funzioni di governo all’interno del preesistente blocco sociale. In modo più o meno consapevole, le sue aperture avviavano il superamento dei tempi morti e del lento filtraggio tipici dei un collegio chiuso, con le sue logiche di corporazione, indipendentemente dalla sua stessa composizione sociale, come erano i pontefici. Esse tendevano piuttosto ad avviare e ampliare un mercato di giuristi. Era un mercato controllato da una logica generale di tipo gerarchico, tale da escludere in partenza qualsiasi forma generalizzata di eguaglianza, secondo gli schemi delle democrazie antiche o moderne. Lo stesso censore era competente nel campo del diritto sino a essere autore di opere giuridiche. La notizia esprime una verità nascosta: che è appunto il fatto che il ceto di governo romano, agli inizi della sua grande avventura imperiale, si impadronisse del diretto controllo del diritto, più o meno consapevole dell’enorme valore di esso. Semmai colpisce la precoce comprensione di come la politica e le forme dell’organizzazione fossero altrettanto essenziali di quanto non fosse la forza delle armi. Il ruolo di un aristocratico innovatore come Appio e sessant’anni dopo di un esponente plebeo come Tiberio Coruncanio devono inoltre far riflettere sulla coerenza della spinta modernizzatrice del nuovo blocco patrizio plebeo. La fine del monopolio pontificale infatti segna anche l’essicarsi definitivo di ogni potenziale alternativa consistente in una gestione di tali saperi da parte di un corpo separato di sacerdoti, ciò che in effetti era invece avvenuto in molte altre società antiche. Il processo avviato da Claudio non modificava i rapporti sociali esistenti. La conoscenza e quindi la gestione del diritto restò saldamente nelle mani di quella nobilitas chiamata a regolare e dirigere la vita sociale e politica della città. E qui si realizzò una singolare selezione per cui il comune accesso alla conoscenza contribuì a ridefinire una gerarchia fondata da un lato sull’autorità sociale e dall’altro sul personale prestigio e competenza, acquisito in concorrenza con i propri pari. La forza dell’oligarchia romana, ciò che ne ha legittimato il ruolo di governo nel tempo, sta nella sua capacità di raccogliere tutta la forza innovatrice e ammodernatrice dell’operazione di Claudio e dei suoi epigoni. Questo è il senso del passaggio dalla giurisprudenza pontificale a quella cd. laica, allorché la nobilitas repubblicana cessò ogni delega a un corpo selezionato quali i pontefici, assumendo la diretta gestione di questo delicato settore del sapere. 4. Le regole di un’oligarchia. La maggior parte delle leggi votate nei comizi servirono dunque a perfezionare e a contemplare l’edificio già esistente. Ma ancora più laboriosa e mai compiuta in un disegno definitivo fu la disciplina dei vari organi costitutivi della repubblica. Lungi dal consistere in un blocco uniforme in cui un insieme di meccanismi istituzionali ha continuato a funzionare secondo le logiche e nella forma predeterminata una volta per tutte, il disegno si è venuto continuamente modificando nel corso di tutta l’età repubblicana, anche con riforme di notevole importanza. Per il senato si definirono in modo più rigido i criteri di selezione dei nuovi membri, sottraendoli all’arbitrio e all’incertezza delle scelte autoritative dei magistrati. Particolarmente rilevante fu l’intervento legislativo nei riguardi dei comizi. Qui si provvide a modificare la stessa composizione delle unità di voto, intervenendo sul numero delle centurie, nonché sull’ordine che presiedeva alla loro consultazione nei comizi. Le votazioni non furono contemporanee per tutti i distretti di voto. Infine nuove norme intervennero più volte, non solo a modificare quest’ordine di voto, ma anche a ridefinire il rapporto tra le centurie stesse e il fondamentale sistema di distribuzione della popolazione per tribù territoriali. Non sempre di queste modifiche e dei criteri adottati si riesce a farsi un’idea chiara in base alle notizie degli antichi. Più sicuri si è sul tipo di innovazioni relative al contenuto delle varie magistrature e al modificarsi delle loro originarie competenze e poteri e allo stesso percorso stabilito per il cursus honorum del cittadino. Esse appaiono costantemente ispirate alla salvaguardia delle natura oligarchica della repubblica. Si trattava pertanto di evitare che la compattezza dell’aristocrazia di governo, fondata su una logica essenzialmente paritaria, fosse intaccata dal prevalere di singole personalità politiche troppo forti, che avrebbero potuto squilibrare il sistema affermando un potere personale. Se dunque il relativo ritardo con cui il giovane romano poteva entrare nell’agone politico evidenzia un generico favore per la maturità, se non l’anzianità, diverse sono poi le regole che governavano il successivo percorso. I due principi della non duplicabilità delle cariche e gli intervalli di tempo stabiliti tra la scadenza da una data magistratura e la possibilità di presentarsi alle elezioni per una magistratura superiore erano entrambi finalizzati a evitare il concentrarsi di troppo potere, e in un periodo troppo ristretto, nella stessa persona. E proprio nel momento in cui il massimo sforzo militare romano nella seconda metà del III secolo aveva impedito il rispetto di queste regole, maturò la preoccupazione di riaffermarle: le lex Villia annalis del 180 a.C. ribadì, con l’età minima per l’accesso alle cariche pubbliche, derivata dall’obbligo dei preliminari dieci anni di servizio militare, l’intervallo di due anni tra l’una carica e la successiva. In età ciceroniana l’età per accedere all’edilità curule era di 37 anni, 40 per la pretura, 43 per il consolato, mentre derivava verosimilmente dall’intervento di Silla il criterio dei 31 anni per la nomina a questore. Tutta la storia della repubblica è stata caratterizzata dalla presenza di fortissime personalità politiche che sembrano dare una fisionomia particolare a certi periodi di tempo, a certe fasi storiche, ma essi non giunsero mai a creare squilibri permanenti tra i poteri e gli organi della repubblica. CAPITOLO OTTAVO : L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO ROMANO E GLI SVILUPPI DELLA SCIENZA GIURIDICA. 1. I giuristi e il diritto privato. Il fondamento del ius civile romano è da identificarsi nei mores e nella legge delle XII tavole. Ma nella concreta applicazione di questo corpo vetusto di regole è stato a lungo determinante il ruolo assolto dal collegio pontificale. Assai più tardi, in età imperiale, i giuristi teorizzeranno la complessa fisionomia di quel diritto da essi studiato e straordinariamente sviluppato. Gaio affermò che il diritto del popolo romano consiste nelle leggi, nei plebisciti, nei senatoconsulti, nelle costituzioni imperiali, negli editti di coloro che hanno il ius edicendi e infine nei pareti degli esperti, i cd. responsa prudentium. Alla sua epoca, in effetti, il substrato consuetudinario del diritto romano era ormai da secoli totalmente assorbito all’interno del valore fondante delle XII tavole, per eccellenza le leggi della città, e dell’interpretatio dei giuristi. È attraverso il lavoro di riflessione e delle opere della giurisprudenza che si trasmetterà la conoscenza del diritto cittadino, il ius civile. Enorme rilievo in questa vicenda fu costituito dal passaggio da un sapere monopolizzato da un gruppo chiuso di specialisti, i pontefici, a una elaborazione svolta in un contesto diverso e più moderno. Ciò avvenne tra la fine del III e i primi decenni del II secolo, con le prime generazioni dei giuristi laici. All’antico carattere sapienziale e autoritativo della tradizione pontificale si sostituì un più avanzato livello di razionalità, con il costante controllo dei procedimenti Autorevolezza determinata essenzialmente dal consenso degli altri giuristi e dall’opinione pubblica, secondo una logica destinata a persistere per tutta la restante età repubblicana e durante il principato. In tal modo sussistevano margini relativamente ampi di incertezza circa le soluzioni di ciascun caso pratico e conseguentemente circa i criteri di comportamento che doveva assumere il cittadino sia in ordine a possibili accordi e nuovi affari giuridici, sia intorno alla legittimità di una pretesa avanzata da lui o contro di lui, sia intorno alla sfera di poteri che i vari diritti di sua pertinenza gli potevano assicurare. In verità ciascuno doveva orientarsi rispetto ad un insieme di opinioni, talora piuttosto contraddittorie e quasi mai uniformi, sostenute dai giuristi in relazione alle varie questioni loro sottoposte. Ma questo è appunto il carattere controverso del diritto romano identificabile in un corpo di soluzioni adottate dai vari giuristi, in relazione ad un’infinità di casi, e nel corso di più generazioni. Un’idea semplificata di certezza veniva così sacrificata a favore di una dialettica in incessante sviluppo. Questo accentuò il prestigio dei giureconsulti, fondato sulla loro continua attenzione alla coerenza logica delle soluzioni adottate rispetto alle premesse, sul rigoroso rapporto tra la regola astratta e la portata precisa del caso da risolvere e soprattutto sull’ininterrotta verifica dei risultati di volta in volta conseguiti. Un meccanismo del genere si sviluppò essenzialmente sotto lo stimolo di nuovi casi continuamente sottoposti all’attenzione e alla valutazione dei giuristi. Questi, a loro volta, furono poi da essi utilizzati in via autonoma come palestra per le nuove elaborazioni. Questo modo di lavorare riguardava essenzialmente problemi specifici, impegnandosi raramente in enunciazioni di carattere generale sulla base di presupposti teorici esplicitamente individuati. Sin dalla prima metà di questa nuova fioritura scientifica si possono cogliere gli indizi di una forza creativa che, probabilmente, non era stata così evidente, forse neppure così presente, nella fase precedente. Le prime generazioni di giuristi laici vennero a creare, con la loro riflessione, nuovi istituti del diritto civile, nuove categorie di diritti e nuove relazioni, completamente al di fuori di ogni normativa legale e assolutamente estranei all’insieme di regole introdotte dalle XII tavole. Ancora più innovativo appare il riconoscimento intervenuto, sulla base di un formidabile sforzo teorico, con la netta distinzione della nozione del possesso da quella del diritto corrispondente, la proprietà. Un’operazione che molte altre esperienze giuridiche non hanno mai realizzato appieno e che nel III secolo era già acquisita dai giuristi romani. Ma non meno importante fu l’attività interpretativa dispiegata nel campo degli illeciti extracontrattuali e successivamente il ruolo dei giuristi nella creazione dei contratti consensuali. Praticamente non vi è un campo in cui l’intervento dell’interpretazione della giurisprudenza laica non abbia innovato radicalmente, introducendo nuove regole e istituti fondati appunto su null’altra autorità che il proprio prestigio. Quando si parla di interpretazione dei giuristi romani, si usa un termine che, nel suo significato corrente, è ampiamente inadeguato a far cogliere appieno la forza creatrice di questo lavoro. Non tutti i pareri e le soluzioni già date e ricordate dalla ristretta cerchia di giuristi erano di egual valore e avevano un analogo peso nell’orientare privati, magistrati e giudici nella pratica legale. Giacché il parere dell’uno pesava più che quello dell’altro giurista, la soluzione proposta da quello si imponeva non solo per la sua intrinseca validità, ma anche per l’indefinibile e impalpabile, ma efficace, autorità del suo autore. Come in tutte le aristocrazie era un mondo di pari quello dei giuristi, ma proprio per questo, quanto più indefinita era la dimensione dell’autorità intellettuale che disegnava e ridisegnava in continuazione gerarchie e spazi di influenza, tanto più incisivo era l’effetto di questa autorità. Si primeggiava perché si era legittimati solo e esclusivamente dai membri di questo gruppo ristretto, auto selezionato e volontariamente coeso. E più il procedimento seguito dall’uno dava luogo a risultati utili e convincenti, più le sue successive soluzioni finivano con l’essere recepite per la mera autorità già conseguita, non di rado senza che di esse si rendessero esplicite neppure le giustificazioni razionali che pur le avevano ispirate. 2. Il pretore e l’innovazione del processo civile romano. Sin dalla sua istituzione, il pretore era caratterizzato da una forte autonomia rispetto all’ordinamento esistente. Per diverso tempo si era posto un serie limite a questo processo innovativo: esso era rappresentato dalla rigidità e dal formalismo dell’antico processo romano per legis actiones. L’esistenza di circoscritti e predeterminati schemi verbali con cui si dovevano esprimere le pretese processuali bloccava l’ampliamento delle possibili pretese dei litiganti a situazioni non previste dalle forme arcaiche. Non si deve dimenticare che, almeno fino alla seconda metà del III secolo, egli aveva continuato ad avvalersi della consulenza dei pontefici. Per questo, la perdita dell’antico monopolio pontificale nella conoscenza e nella elaborazione del diritto, affermando un sapere giuridico più aperto dovette favorire il ruolo innovatore del pretore. Gli furono infatti forniti allora gli strumenti concettuali per costruire nuovi meccanismi processuali in grado di adeguare le antiche forme legali alle nuove esigenze economico sociali e a più progrediti valori di equità. I limiti e le rigidità dell’antico processo civile vennero così progressivamente aggirati, sino alla definitiva obliterazione dell’antico sistema delle legis actiones. Era un rapporto stretto, questo, tra i pretori e il nuovo ceto dei giuristi, giacché anche nel caso non infrequente in cui codesti magistrati fossero privi di specifiche competenze nel campo del diritto, essi si avvalsero del loro consiglio ed assistenza. Del resto alcuni di questi giuristi dovettero assai di frequente far parte di quel consilium di cui il pretore si avvaleva. Era infatti essenzialmente il consenso dei principali giuristi intorno alla esistenza di un dato istituto e alla sua disciplina, a sancirne la legittimità. Così sono avvenute le grandi innovazioni e l’arricchimento di interi settori del diritto. Dal II secolo si imposero alcuni dei presupposti che contribuirono in modo determinante al superamento di tale situazione. Fu infatti in quella fase di straordinaria crescita politico militare, ma anche economica e culturale, di Roma che un numero sempre maggiore di stranieri, per i più diversi motivi, fu attratto in quella che ormai era divenuta una delle principali città del mediterraneo. La maggior parte di essi non era titolare del ius commercii con i romani, ma egualmente, nella sua vita quotidiana e nei suoi rapporti commerciali, necessitava di una protezione giuridica, che doveva comunque essere fornita al di fuori delle regole e delle forme del ius civile dal quale costoro erano esclusi e conseguentemente anche al di fuori degli schemi delle corrispondenti legis actiones. Ciò avvenne a opera del pretore, con procedimenti nuovi, fondati sul suo potere di iurisdictio, e investendo una serie sempre più ampia di questioni e litigi secondo criteri che potevano prescindere dagli schemi propri dello ius civile, ispirati a una logica più immediatamente equitativa, più semplici e accessibili a soggetti appartenenti a culture giuridiche diverse. L’importanza di tale nuovo settore della vita giuridica fu tale da rendere necessario, nel 242, la creazione accanto al vecchio pretore di un nuovo pretore che avesse competenza specifica sui litigi tra stranieri o tra stranieri e romani: il praetor peregrinus. Ciò a sua volta accentuò ulteriormente lo sviluppo di quelle forme di litigio sottratte alla logica delle legis actiones, a tutela di situazioni giuridiche nate dalla pratica commerciale e fondate sulla buona fede delle parti. Si trattava di un insieme di rapporti nuovi, estranei al formalismo dei negozi del diritto civile e a quelle strutture patriarcali che dominavano tuttora l’antico ius civile. Proprio in questo campo più rapidamente lo stesso pretore si è potuto svincolare dall’ipoteca dei pontefici, saldandosi invece alle prime esperienze della giurisprudenza laica. Questa procedura più semplice e priva di formalismi, dall’ambito originario di applicazione nei litigi con o tra peregrini, si estese ben presto anche ai rapporti tra romani, sempre più insofferenti degli arcaici e ormai inutili rituali. Verso la fine del III secolo erano maturi i tempi per una svolta ulteriore: ebbe allora inizio il generalizzato tramonto delle legis actiones. Tra la fine del terzo e la prima metà del II secolo fu gradualmente introdotto un nuovo tipo di processo. Esso è designato come il processo formulare perché fondato su formule, predeterminate in modo circostanziato, che il pretore rilasciava alla fine delle discussioni preliminari tra le parti, svoltesi davanti a lui, che riassumevano e chiarivano il contenuto preciso delle opposte pretese legali e fornivano al giudice i criteri da seguire nel decidere della controversia, accertando la verità materiale dei fatti addotti dalle parti. La struttura di queste formule e il loro contenuto prescrittivo potevano variare all’infinito. Fu questa singolare articolazione dei processi normativi a rendere possibile l’enorme e relativamente rapido sviluppo del sistema del diritto romano in funzione delle grandi trasformazioni economico sociali iniziate all’epoca delle guerre puniche. Oltre al pretore, anche altri magistrati aventi competenze giurisdizionali hanno emanato editti di un certo rilievo, anche se minore rispetto a quello pretorio, nell’evoluzione giuridica romana. Si tratta anzitutto degli edili curuli che erano preposti al controllo dei mercati cittadini e in quell’ambito titolari di una limitata giurisdizione. In secondo luogo, dei governatori provinciali chiamati ad amministrare la giustizia nelle loro province, e che nel loro editto fissavano i criteri cui si sarebbero attenuti nel corso della loro carica. A partire dal II secolo sono ormai evidenti due logiche parallele su cui si struttura l’intero ordinamento giuridico romano. Da una parte il diritto in senso stretto: le norme del diritto civile, esclusive dei cittadini romani. Dall’altra il diritto onorario, non meno efficace, ai fini pratici, delle regole del diritto civile, ma fondato esclusivamente sul potere magistratuale e illustrato dall’editto pretorio. Questa dicotomia resterà per tutto il corso della vita del diritto romano. È indubbio che essa avrebbe potuto ingenerare più di una difficoltà se, in concreto, tali processi non fossero stati governati in modo profondamente unitario dalla cooperazione tra magistratura giusdicente e scienza giuridica laica. In questa fase nuova infatti, se è ormai del tutto obliterato l’antico rapporto di dipendenza del pretore dal sapere autoritario ed esclusivo dei pontefici, il suo ruolo è nondimeno profondamente intrecciato al lavoro dei giuristi. È in questa oggettiva convergenza di funzioni che si è realizzato il punto di sutura tra i due sistemi del ius civile e del ius honorarium. Senza la sanzione processuale assicurata dal pretore l’interpretazione giurisprudenziale delle regole dello ius civile, elaborata dai giuristi difficilmente avrebbe portato alle profonde innovazioni effettivamente verificatesi. A lui infatti incombeva l’onere di concedere una formula processuale atta a recepire o a non escludere la soluzione del problema giuridico proposta dai giuristi. Costoro vennero anche operando nei riguardi del corpo normativo costituito dalle previsioni edittali, relative alle fattispecie variamente tutelate, lo stesso insieme di interpretazioni che in relazione al ius civile era divenuto il medium tra la domanda di giustizia della società e il diritto romano. 4. La scienza giuridica romana come sapere aristocratico. La maggior parte delle regole che disciplinavano la vita dei cittadini nella sfera giuridica privata non derivava da una delibera dell’assemblea cittadina. È questo uno degli aspetti dove si può cogliere con la massima evidenza la singolare natura della società romana. In essa infatti si vede operare nel corso dei secoli e malgrado tutti i rivolgimenti politici e le lotte di ceto, una delega mai discussa, prima ad un collegio religioso, e poi a una comunità di sapienti, di un grandissimo potere: quello di enunciare ciò che è il diritto della città nella sua applicazione concreta. La legge, sia quella generale e fondante identificata nelle XII tavole, sia la singola norma particolare, era senz’altro fonte del diritto, concepita come vincolante per l’intera comunità. Ma accanto, quasi sopra di essa, si poneva l’interpretatio dei giuristi: senza di essa la norma, sovente nel suo arcaismo anche linguistico, nella sua povertà strutturale e definitoria, sarebbe restata inoperante, o avrebbe avuto ben altre e più circoscritte applicazioni. Il cittadino di fronte all’oscurità e genericità delle norme delle XII tavole che lo interessava, di fronte allo schematismo di una legge successivamente votata dai comizi, dipendeva subito dalla mediazione autoritativa di un sapere specialistico: quello dei pontefici prima e quello dei giuristi laici in seguito. In effetti, la iurisdictio magistratuale e la legge comiziale intervenivano più in parallelo che con una funzione esplicitamente abrogativa del vecchio ordinamento. Ne conseguiva che l’unico fattore che poteva incidere direttamente sulla portata delle regole del ius civile era l’interpretatio dei giuristi. Interpretatio che veniva indicata appunto come fonte autonoma di diritto. Essa era pertanto l’unico strumento capace di penetrare più a fondo nel corpo duro dell’antica tradizione consolidatasi nella sacralità del ius civile. Un potere dunque assai grande, che non era nelle mani del popolo adunato in comizio né affidato al potere sovrano del magistrato elettivo, ma delegato a un corpo di sapienti. I saperi e i poteri istituzionali che servivano a gestire e controllare questi fondamentali aspetti della vita sociale e politica restarono per secoli esclusivamente nelle mani dell’aristocrazia romana. Sino alla prima età del principato, la scienza giuridica si è anch’essa identificata integralmente con questa stessa nobilitas. L’attività da essa svolta al servizio dei cittadini era effettuata gratuitamente. Per allargare la cerchia di amici, alleati e clienti chiamata poi in ausilio, al momento del voto elettorale, a supporto dei propri ruoli nella politica cittadina. Era questo un lavoro che non disonorava il cittadino di rango, anzi gli permetteva di eccellere tra i suoi pari, contribuendo a ridefinire gerarchie sociali e supremazie anche politiche. Una caratteristica di fondo della società romana era il carattere schiavistico da essa già precocemente assunto e adesso, alle soglie delle guerre puniche, ormai dominante. Esso divenne a sua volta un fattore di selezione sociale e di rafforzamento di quelle logiche gerarchiche coessenziali alle forme politico sociali romane. Chi deve lavorare, come piccolo mercante, come artigiano o quant’altro, per assicurare il proprio sostentamento è in partenza escluso dagli happy few chiamati a reggere la città, a guidare gli eserciti e a far parte della nobilitas. Si preparava, nel corso del III secolo a.C., a contatto con la magna Grecia e poi direttamente con il mondo ellenistico, una rivoluzione negli orizzonti intellettuali: nuovi spazi si aprivano alla classe dirigente romana e nuove occupazioni, purché gratuite. E in ciò occupazioni intellettuali e morale aristocratica si vennero a saldare perfettamente. Lo studio della retorica greca fu essenziale per divenire un buon oratore, ma fu un sapere che fecondò in profondità anche lo studio del diritto, permettendo di chiarire e raffinare le tecniche argomentative che ne costituivano il corpo centrale. Le grandi correnti filosofiche greche, anzitutto lo stoicismo, contribuiranno infatti a dare una maggiore profondità di campo alla scienza giuridica, con una maggiore consapevolezza del suo significato nella costruzione della società umana. E questo studio rientrava tra le attività che potevano essere esercitate senza disdoro dall’aristocrazia romana, divenendo uno strumento importante per la vera vocazione di un aristocratico, oltre alla guerra, che il governo della città. La connotazione aristocratica della giurisprudenza repubblicana è una chiave di lettura importante per farci comprendere il modo in cui i vari aspetti dell’esperienza giuridica romana si sono venuti svolgendo e tra loro intrecciando. E che ha sicuramente contribuito al carattere autoritativo dei responsa dei giuristi repubblicani. Raramente, prima della vicenda romana, il diritto si era saldato in modo così esplicito alla politica come arte di governo e della disciplina sociale. Sempre più, con l’accrescersi della potenza romana, la fondamentale questione del controllo e dell’organizzazione di un numero crescente di individui e realtà territoriali differenziate si impose al centro dell’attenzione della classe di governo, plasmandone gli orientamenti. La forma del diritto divenne il sistema di coordinate che organizzò l’universo di riferimento e lo strumentario intellettuale di cui essa si avvalse in questa storia di successo. Talché fu il diritto lo strumento attraverso cui si definì il complessivo funzionamento della società. Esso fu lo strumento per determinare i confini entro cui ciascun potere pubblico e privato poteva e talora doveva esercitarsi e per individuare quell’insieme di comportamenti che garantivano il godimento dei beni materiali, la loro circolazione e il loro accrescimento. Il linguaggio e le logiche che legavano la comunità dei cittadini e la stessa struttura della città erano così dominati in misura crescente dalla forma giuridica. Si determinava così un carattere centrale della società romana destinato, per molteplici vie, a influenzare in profondità la storia futura. Il modo particolare in si sono prodotti sempre nuovi spazi del diritto, sempre nuove soluzioni vincolative per i consociati era possibile, a sua volta, solo a due condizioni: che esistesse un fortissimo controllo sociale e una ancora maggiore compattezza di ceto. Una soluzione adottata per la sola autorità intellettuale e per il prestigio personale del suo autore, uno strumento processuale imposto o rifiutato dal pretore in virtù del suo imperium, la sostanziale assenza della legge come generale e preordinata decisione della comunità politica, poterono funzionare non per decenni, ma per secoli, solo sulla base di un generale anche se non esplicito insieme di deleghe a soggetti portatori di autorità. PARTE PRIMA : IL LUNGO INIZIO DI UNA STORIA MILLENARIA. CAPITOLO PRIMO : LA GENESI DELLA NUOVA COMUNITA’ POLITICA. 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico. Il paesaggio fisico in cui si situavano gli insediamenti umani che, agli inizi dell’ultimo millennio a.C., avrebbero dato origine a Roma e alle altre città del Latium vetus, non doveva essere molto diverso da quello odierno. Soprattutto la presenza di aree boschive e di vasti acquitrini, negli avvallamenti, contribuiva all’isolamento delle comunità umane ivi stanziate. Le dimensioni complessive del territorio erano relativamente modeste. Esso era limitato a nord dal Tevere, a ovest dal mare, a est dai primi altipiani che segnano il confine fra i latini e le popolazioni sabelliche e a sud dagli ultimi contrafforti dei colli Albani che si sporgono sulla grande pianura che apre verso Cisterna, Circeo e Terracina. Nella primitiva economia delle popolazioni laziali un ruolo importante era rappresentato dall’allevamento, dove, accanto alla pecora, per molto tempo ebbe fondamentale importanza il maiale. Era però già praticata anche una forma primitiva di agricoltura, legata anzitutto alla coltivazione del farro; ma abbastanza antico pare anche lo sfruttamento di certi alberi da frutto, come il fico e probabilmente l’ulivo, mentre la vite avrebbe assunto maggiore rilevanza in età successiva. Sin dagli inizi dell’ultimo millennio a.C. vennero sviluppandosi forme di circolazione di uomini e cose: le principali rotte commerciali univano l’Etruria alla Campania, due aree di più precoce sviluppo economico. Uno dei punti di passaggio è costituito proprio dall’area su cui sorgerà Roma. Ma non meno importanti erano anche le vie di comunicazione dal mare verso l’interno. Quest’area, sin dagli inizi dell’ultimo millennio a.C., era caratterizzata dalla presenza di numerosi villaggi vicini gli uni agli altri e costituiti da poche capanne, la cui struttura è rappresentata in alcune urne cinerarie trovate nei sepolcreti arcaici della zona. La loro aggregazione interna si fondava sulla presenza di forme familiari o pseudo parentali, legate alla memoria di una o più meno leggendaria discendenza comune. Queste numerose comunità non sempre e non tutte erano destinate a evolvere verso forme cittadine. Contro ogni accelerazione dello loro crescita materiale giocava la persistente difficoltà di assicurarsi lo sfruttamento di zone adeguate di territorio. Ciò infatti non implicava solo la capacità di difesa contro l’esterno, ma anche e soprattutto un adeguato controllo dell’uomo sulla natura, né facile né rapido. L’elevata quantità di insediamenti in un’area territoriale relativamente circoscritta non solo è confermata dalle continue e importanti scoperte archeologiche degli ultimi decenni, ma anche dalla memoria storia degli antichi. 2. Villaggi, distretti rurali e leghe religiose. Non facile e non univoca è l’individuazione delle forme culturali e delle strutture che regolavano questi primi arcaici insediamenti, la cui conoscenza è possibile solo attraverso lo studio delle tracce archeologiche che ne sono restate. Nelle tombe di epoca arcaica si vede la presenza di antiche forme culturali, attestate dal trattamento del cadavere, dalle suppellettili che lo attorniano, legate alla vita quotidiana. Ciò fa pensare che fosse già diffusa la credenza di un vita ultraterrena. Un altro aspetto importante è costituito dalla grande omogeneità di questi ritrovamenti, a testimoniare una notevole uniformità di condizioni economiche. I vincoli parentali o pseudo parentali, fattore di coagulo di queste varie comunità, non dovevano necessariamente coincidere con singole unità familiari, mentre invece erano rafforzati dal culto degli antenati e dalla presenza di più o meno circoscritte unità sepolcrali. Le elementari funzioni guida del gruppo dovevano poi associarsi all’età e al ruolo militare. Accanto agli anziani, ai patres, detentori della saggezza e della capacità di ben guidare la comunità, è verosimile che, nei momenti di pericolo e di crisi, i poteri di decisione e comando venissero deferiti ad alcuni guerrieri di particolare valore e capacità. Si deve comunque immaginare che l’assemblea degli uomini in arme restasse competente insieme ai patres per le decisioni relative alla vita della comunità anche nei periodi di pace. È probabile che gli stessi patres, o alcuni di essi, assolvessero anche a particolari funzioni religiose, non solo all’interno della singola famiglia, ma anche in un ambito più ampio. La grande quantità di questi villaggi contribuiva ad accentuare un ininterrotto e fitto sistema di relazioni tra di essi. Alla vitalità di questo tessuto unitario dovette contribuire anche notevolmente un insieme di interessi più direttamente economici. La gestione comune o la spartizione dei pascoli, il controllo dei sistemi di comunicazione e dei traffici commerciali, la circolazione e lo sviluppo delle pur rudimentali tecniche agricole, la ripartizione o l’uso in comune delle terre, nonché le possibili forme di circolazione del bestiame nel corso dell’anno dai pascoli alla pianura e la diffusione dei prodotti metallurgici sono fattori di coagulo tra più comunità. La celebrazione dei sacrifici in comune costituisce poi un momento importante nel sistema di comunicazioni e scambio tra le varie comunità, assumendo un ruolo anche più propriamente politico. Come anche politica appare la figura arcaica del rex Nemorensis, il grande e solitario sacerdote del bosco sacro presso Nemi: esso era il luogo di un culto collettivo e di aggregazione, non meno di altri centri religiosi, quali l’aqua e il lucus Ferentinae presso Ferentino, il grande culto arcaico a Lavinio, il culto di Diana nel santuario sito nei boschi tra Ariccia e Nemi. Non si deve tuttavia concludere che tali leghe sfociassero immediatamente e necessariamente in sistemi federativi e che quindi la formazione della città di Roma vada meccanicamente identificata nel processo di rafforzamento di tali vincoli, e nella trasformazione dei centri federali in città stato, con il graduale assorbimento dei villaggi circostanti. Sotto questo profilo la nascita di Roma può effettivamente essere abbassata in modo relativamente ragionevole: sino al 367 a.C. il compiuto disegno di una costituzione romana non fu completato. Ma questo legittima l’idea che la città non esistesse ben prima. Giacché essa era un organismo vivo, in continua costruzione e in continua modificazione. Sotto il profilo di una storia istituzionale diventa rilevante l’esistenza di qualcosa non riconducibile agli antichi villaggi e sistemi parentali o tribali, e che non è mera somma confederale di questi perché in grado di procedere autonomamente verso la sua ulteriore costruzione. Le indicazioni unanimi degli antichi e quanto si sa sulla stratificazione istituzionale che corrispose all’età dei re di Roma, dal sistema delle curie all’ordinamento centuriato, dai montes e dai pagi alle tribù territoriali, postula la presenza di un quadro temporale atto a permettere tale sequenza storica, nonché lo sviluppo dei corrispondenti processi sociali e economici. Tenendo fermo che il sistema delle curie e delle tre tribù genetiche corrispondeva già alla prima forma della città, non sembra pertanto verosimile l’ipotesi di una datazione più recente della sua genesi. Per questo ha un valore fortemente simbolico, proprio per il suo aspetto leggendario, il ruolo di Romolo: è a lui infatti che risale l’incisiva novità organizzativa della città e nella sua figura si concentra la dimensione propria del mito di fondazione. Una volta confermato re dal consenso degli dei e dei concittadini, il fondatore definisce la forma sociale e istituzionale della città. Anzitutto distinguendo i suoi seguaci in patrizi e plebei. Quanto alla forma politica, egli avrebbe distribuito il popolo nelle tre tribù dei Ramnes, Tities e Luceres, ciascuna suddivisa in dieci curie, suddivise a loro volta ognuna in dieci decurie. Ci si trova dunque di fronte a un sistema piramidale di distribuzione della popolazione costituito da trecento decurie, trenta curie e tre tribù. Una distribuzione prioritariamente finalizzata alla guerra, giacché ciascuna curia avrebbe dovuto fornire alla città cento uomini armati e dieci cavalieri, dando luogo alla primitiva legione di tremila fanti e assicurando il complessivo organico di trecento cavalieri. Il coerente sistema ternario a base di tale architettura testimonia il carattere artificiale della costituzione così realizzata. Questa nascita tuttavia si presenta in termini ambivalenti: da una parte come rottura, come novità rispetto alla fase precedente, ma essa raccoglie e organizza, fondendole, realtà preesistenti. Ed è proprio questo carattere che spiega la presenza di molteplici frammenti della tradizione antica, di piccoli elementi che stentano a inserirsi in un processo di armonizzazione, facendo intuire una storia tortuosa, fatta di tensioni e conflitti, di svolte violente e improvvise. Tra questi è di notevole importanza la contrapposizione dei montes, di carattere urbano, ai pagi, le strutture periferiche. Tuttavia il risultato di tali processi poneva problemi di identità nuovi. 4. Le strutture familiari e le più ampie aggregazioni sociali. Nella riflessione sulla storia del mondo antico è dato cogliere l’idea già presente nei filosofi greci secondo cui la città sarebbe stata il punto di arrivo di un processo di crescita della società umana, che avrebbe avuto nella famiglia naturale il nucleo originario. Di qui la possibilità di cogliere un elemento comune sia alla più piccola cellula della società umana, la famiglia, sia alla forma politicamente più compiuta dell’antichità classica, che è la città. Famiglia e gens sono due strutture centrali nel corso di tutta la storia di Roma. La prima in genere si identifica con quella che i romani indicavano come la familia proprio iure, nucleo centrale della loro intera organizzazione giuridica e sociale. Essa costituisce l’unità elementare di un sistema matrimoniale rigidamente monogamico, consistente nella coppia di sposi con i diretti discendenti, il nucleo di persone che, almeno tendenzialmente, vive nella medesima casa. La rigorosa logica patriarcale delle origini si esprime nel principio secondo cui il vincolo di parentela è stabilito solo attraverso la linea maschile: si tratta della cd. parentela agnatizia, dal termine adgnatus, che indica appunto il vincolo di sangue secondo tale linea. Secondo tale criterio i figli di un fratello e di una sorella non sono agnati tra loro. Questo sistema si ritrova anche nella nozione di famiglia allargata, che comprendeva tutti i parenti per linea maschile, fino al sesto o settimo grado, calcolato dai romani risalendo per generazioni sino al comune antenato. Nella familia proprio iure convivevano, sottoposti all’ampia e forte potestas del padre, la moglie, i figli e le figlie non sposate, i successivi discendenti per linea maschile, nonché le loro mogli. E a tale potere essi restavano sottoposti fino alla morte del loro titolare. Le figlie e le nipoti ne uscivano invece nel momento in cui, sposandosi, entravano a far parte della famiglia del marito. In effetti il sistema familiare più antico era fondato sul matrimonium cum manu, che comportava la totale integrazione della moglie nella famiglia del marito attraverso la finzione che la poneva in condizione di figlia del proprio marito. La gens in epoca storica non è un gruppo parentale. Essa costituisce un’aggregazione, talora assai ampia, di famiglie che portano lo stesso nomen. L’appartenenza al gruppo gentilizio era pertanto immediatamente indicata dal nomen, che insieme al prenome individuale, anch’esso scelto per il nuovo nato all’interno di un gruppo di nomi tipici di quella particolare gens, era l’attributo di ciascun cittadino, almeno in origine, appartenente agli strati più elevati. Solo in seguito al nomen si venne aggiungendo un cognomen a distinguere singoli individui e lignaggi, realizzandosi allora l’onomastica tipica dei romani costituita da tria nomina: prenome personale, nome gentilizio e cognome del lignaggio. Tuttavia la presenza di una generalizzata forma onomastica come i tria nomina, nella società romana, non postula necessariamente che tutta la cittadinanza fosse organizzata nella forma delle gentes. La formazione di una nuova comunità aveva assorbito i villaggi minori, fondendo insieme i loro territori e i loro abitanti. Le strutture sociali che li avevano precedentemente organizzati non vennero meno con la costituzione della città, ma si dovettero ridefinire. Di qui la duplice loro esigenza, da un lato di conservare per quanto possibile i loro propri elementi identitari e dall’altro tali gruppi dovevano anche riaffermare la loro fisionomia individuale all’interno del quadro unitario introdotto dalla città. Ciò avvenne uniformando i sistemi di auto definizione con l’uso uniforme del nomen, secondo lo schema che sarà proprio quello delle gentes in epoca storica. A questa trasformazione sembra ci si possa riferire per ricercare le origini di quell’organizzazione gentilizia, così caratteristica della società romana nel corso della sua storia. I gruppi che si erano fusi, i villaggi, i lignaggi, lungi dal dissolversi, dovettero infatti conservare la loro autonoma struttura all’interno dei nuovi e omogenei contenitori costituiti dalle curie. Egualmente dovettero persistere le gerarchie antiche secondo una logica numerica già presente nei preistorici triginta populi Albenses, che intaccava poco la loro interna struttura organizzativa, restata autosufficiente. Tali fenomeni contribuirono a fissare la struttura piramidale della società primitiva, rendendo più evidente il dualismo interno che era già affiorato nei villaggi preistorici. Il vertice aristocratico fu indicato con il termine patrizi o con lo stesso nome che connota il capofamiglia, patres, e attribuito dagli antichi all’atto fondativo di Romolo. È invece abbastanza incerta l’ipotesi che le gentes patrizie fondassero la loro supremazia economica sullo sfruttamento di terre lavorate esclusivamente dai loro clienti. In effetti su questa stratificazione sociale, sui rapporti tra i patrizi e i clienti, sulle terre gentilizie e sul primitivo lotto di terra assegnato da Romolo a ciascun cittadino, l’heredium, gli storici moderni hanno lavorato molto, sino a fare di Roma arcaica o una specie di villaggio di tipo medievale o, al contrario, una specie di società feudale con grandi signori fruenti per le loro terre del lavoro dipendente di questi clienti. Si tende inoltre ad escludere che siffatta polarità esaurisse l’organico cittadino. Sin dai primi tempi dovette in esso confluire anche una realtà più eterogenea, svincolata da ogni legame di clientela. La preminenza delle forma di allevamento rende quanto meno legittima l’ipotesi che a esse si debba associare la supremazia della primitiva aristocrazia. Di qui anche l’ipotesi di un diverso tipo di signoria sulla terra: giacché diversa era la forma di relazione con le terre a pascolo, di dimensioni assai più estese di quelle conquistate all’agricoltura. A differenziare i vari gruppi sociali dovette contribuire anche il fatto che fossero soprattutto le genti più antiche a conservare il controllo dei loro territori d’origine, in una condizione ambigua, ormai, non essendo essi parte del nuovo demanio distribuito per heredia. I due iugeri degli heredia romulei corrispondono a questo mondo di piccoli proprietari agricoltori, non alla gestione di mandrie e greggi e agli spazi legati all’allevamento. comunità destinate invece quasi tutte a persistere nel corso di tutta l’antichità e oltre ancora. Ma accanto a queste forme di cannibalizzazione dei centri più forti verso i più deboli, è da segnalare anche un altro tipo di mobilità rappresentato dalla facilità con cui gruppi minori, clan gentilizi o singole famiglie e addirittura individui, si staccarono dalle loro comunità di appartenenza emigrando in Roma. Si tratta di fenomeni importanti in quanto dovettero contribuire in modo determinante allo sviluppo degli assetti sociali e politici romani ma si trattò di fenomeni che a loro volta indebolirono la stretta relazione dell’ordinamento con le strutture gentilizie. Si tratta di un processo che avrebbe alla lunga disarticolato la natura confederale della società primitiva, rafforzando ulteriormente il ruolo di supremo mediatore del rex. Nelle fonti antiche si riporta un solo caso di migrazione di un gruppo gentilizio compatto: quello dei Claudi e in età relativamente avanzata, agli inizi del V secolo. Il capo di una grande gens sabina, Appio Claudio, avrebbe allora abbandonato la sua città di origine per dissensi politici molto gravi proprio in ordine al rapporto con Roma, trasferendosi in quest’ultima con tutta la sua gens e i clienti, in un numero sicuramente leggendario di cinque mila. A tutti sarebbe stata immediatamente concessa la cittadinanza romana insieme all’heredium di spettanza di ciascun cittadino, mentre Appio fu ammesso nel senato, dando così origine alla potente gens Claudia che attraversò tutta la storia di Roma. CAPITOLO SECONDO : LE STRUTTURE DELLA CITTA’. 1. La chiave di volta delle istituzioni cittadine: il rex. Più delle altre due componenti della città primitiva, il consesso dei patres, il futuro senato, e il popolo, dovette essere il rex a costituire il fattore propulsivo dell’ordinamento cittadino. In tale figura sono ben presenti le radici preistoriche che si colgono innanzitutto nel suo carattere carismatico e nella forte accentuazione religiosa derivata dall’arcaica immagine dei re sacerdoti. Il rex tuttavia si colloca egli stesso in un quadro nuovo, dove anzitutto è assente ogni logica dinastica che potrebbe riallacciarsi alle strutture patriarcali e parentali che ne sono state elemento costitutivo: non è il figlio che succede al padre in questa monarchia, mai. La volontà divina aveva un ruolo fondamentale nella designazione del nuovo re. Se Romolo consulta direttamente gli dei, interpretando i segni favorevoli, il successore, anch’egli forse una figura convenzionale, Numa Pompilio, ascende alla carica attraverso la solenne cerimonia dell’inauguratio. L’augure, operando in relazione a uno spazio sacro appositamente determinato, tocca con la destra il capo di Numa e chiede a Giove di manifestargli, con segni sicuri, la volontà che sia re di Roma. Rex inauguratus, dunque, perché carico di una dimensionale sacrale, supremo sacerdote e tramite della comunità con i suoi dei. L’inauguratio è effettuata nei riguardi del nuovo re, già individuato e creato ad opera del senato, attraverso un suo membro specificamente qualificato per la sua funzione di interrex. Dopo la sua creatio e la successiva inauguratio il nuovo rex si sarebbe presentato al popolo riunito nella forma dei comizi curiati, da lui stesso convocati, al fine di assumere di fronte a loro il supremo comando. L’incontro tra il rex e i suoi governati, anzitutto il suo esercito, era carico di valore, esprimendo solidarietà e consenso. Tant’è che sarebbe poi sopravissuto al regnum in quella lex curiata de imperio che continuò ad accompagnare l’elezione dei magistrati superiori ancora in età repubblicana. È solo un’astrazione dei moderni il fatto che ci si chieda se questi vari atti fossero o no essenziali all’insediamento del nuovo re. È ben comprensibile che l’assenza di un principio dinastico, insieme alle pratiche correnti in età repubblicana, facesse pensare alla partecipazione popolare come ad una forma di elezione. Ma si tratta di una probabile anticipazione delle forme più tarde. Sacerdote e capo militare, il rex è insieme il ductor dell’esercito ma anche, rispetto alla città, il garante della pax deorum, dove si esalta la sua funzione di custode e tutore del diritto. Colui che sa e dice le norme della città e le applica nella gestione e composizione dei conflitti interindividuali e nella repressione delle condotte criminali, onde assicurare l’esistenza stessa e la sicurezza della compagine cittadina. Nella memoria degli antichi vi sono precisi riferimenti all’esistenza di leges regiae e si riportano varie norme attribuite di volta in volta ai vari re succedutisi a Roma. Non è molto probabile che in origine il rex sottoponesse formalmente all’approvazione dell’assemblea del popolo una sua proposta. E si deve anche supporre che la statuizione destinata a vincolare tutti i membri della comunità cittadina non si distinguesse talora dal giudizio reso per un litigio tra cives. Erano solenni pronunce espresse unilateralmente dal rex di fronte all’assemblea cittadina, unica garanzia di pubblicità in un’epoca in cui la scrittura era pressoché inesistente e un ruolo fondamentale era ancora svolto dalla memoria individuale e collettiva. Incerto tra una dimensione magica e i primi sviluppi di un sapere tecnico-scientifico è l’altro ruolo del re, di custode del tempo, scadendo la vita cittadina. In quell’epoca i romani non conoscevano ancora un calendario fisso, corrispondente al ciclo annuale del sole. I periodi e le date del calendario era definiti secondo un sistema mobile e sempre variante di divisione dell’anno che serviva a stabilire tutte le scadenze della vita cittadina. Ciò avveniva agli inizi di ogni mese, dinanzi ai comizi convocati dal pontefice, dove il re indicava il calendario del mese, con i giorni fasti e nefasti. In ogni sfera della sua attività, il re fu progressivamente coadiuvato da una serie di collaboratori istituzionali, talché finì con non essere mai solo nella sua azione di governo: non lo fu al comando dell’esercito, dove accanto a lui vi era un comandante militare, che lo poteva anche sostituire in questo ruolo delicatissimo. Era il magister populi, a sua volta associato a un magister equitum, al comando della cavalleria. Non lo fu neppure nel governo civile della città, dove parrebbe che sin da allora fosse assistito da una praefectus urbi, il cui ruolo nel corso del tempo si sarebbe accresciuto nel settore dei giudizi civili e della repressione criminale. È un fenomeno abbastanza comune che la sfera penale, con la sanzione di un insieme di condotte lesive degli altri membri della comunità, avesse particolare importanza. In Roma arcaica il peso della repressione criminale è confermato dal rilievo dei collaboratori del re in questo particolare settore: i duoviri perduellionis e i quaestores parricidii, competenti per la repressione di alcuni reati di particolare gravità. Infine nell’altra sua fondamentale funzione di garante e custode dei mores e di tutore dell’ordine legale della città, il rex fu coadiuvato sin dall’inizio dal collegio pontificale. Talché pare ovvio e quasi necessario che lo stesso rex facesse parte di quel collegio. 2. I patres. Secondo l’indicazione degli antichi, con la morte del rex, auspicia ad patres redeunt. Con il potere di interrogare gli dei, tornava al senato il supremo ruolo di governo che vi era connesso, di fatto esercitato a turno da alcuni suoi membri designati come interreges, tra i re. Tale interregnum non trova paralleli con la Grecia antica e appare esclusivamente latino: esso veniva esercitato da dieci membri del senato per cinque giorni ciascuno. Dopo i primi cinquanta giorni si deve supporre che il comando passasse ad un altro collegio di dieci patres, ove non fosse ancora maturato quel consenso politico sicuramente preliminare alla creatio del nuovo rex. Il cuore del problema è costituito da quel redeunt: perché questa facoltà costitutiva del potere sovrano torna al collegio senatorio? È qui che si sfiora la logica profonda che è alla base della struttura cittadina, destinata a influenzare permanentemente la concezione romana del potere politico. L’antico potere di governo dei patres, ridotto a un ruolo pressoché residuale di fronte al rex, alla sua scomparsa riprenderebbe dunque l’originaria pienezza. Solo comprendendo questo aspetto del senato e la sua legittimazione originaria e la conseguente potenziale capacità espansiva del suo potere, se ne coglierà sino in fondo il ruolo, non solo per l’età monarchica, ma almeno per tutto il periodo repubblicano. Tanto il più arcaico termine patres quanto il più recente senatus, impiegati dai romani ad indicare tale consesso, sembrano richiamare l’idea dell’età e dei ruoli a essa collegati, in coerenza al carattere accentuatamente patriarcale della società romana. È dunque l’assemblea degli anziani che, oltre a ritrovarsi investita del particolare potere dell’interregnum, si riunisce e collabora con il rex. L’appartenenza al collegio dei patres sancisce e convalida una superiorità sociale dei gruppi che li esprimono. Anche se nulla legittima ad immaginare che l’organizzazione gentilizia fosse sottoposta formalmente al potere di un pater o princeps gentis, era però evidente la preminenza in essa, nel corso delle varie generazioni, di alcuni personaggi particolari. Tra coloro che fossero emersi all’interno delle varie gentes, per lignaggio, ricchezza e per le proprie azioni in guerra e in pace, il rex sceglieva o era obbligato a scegliere i membri del senato: i patres. Certo con dei forti limiti, giacché tali assemblee non dovevano avere il potere di esprimere esse stesse la volontà della città e neppure quello di modificare o di paralizzare decisioni prese dagli organi del governo cittadino: rex e patres. Anche se proprio nelle delibere di interesse generale il peso dell’assemblea dovette accentuarsi. Era la sede d’espressione e di verifica di quel consenso su cui si fondava, in ultima istanza, la persistente legittimità e la forza del rex. La partecipazione dei comizi all’insieme degli atti che investivano la vita della città e il suo governo attesta comunque la presenza, sin dall’inizio, di una comunità politica, mai semplice accozzaglia di sudditi soggetti a un volere superiore ed estraneo. Il punto centrale è che i vari rituali non rappresentano mere sovrastrutture rituali di processi sovrimposti alla comunità. Tutto ciò costituisce infatti la base fondamentale di una data struttura sociale, il veicolo indispensabile per la costruzione di una comunità e con essa della nuova legalità cittadina. 4. I collegi sacerdotali. Tutti e tre gli organi costitutivi della città, rex, patres e populus, hanno sicuramente radici preciviche. Eppure il segno della nuova realtà cittadina è dato proprio dal loro ridefinirsi in termini nuovi. In parte diversa è invece l’altra componente essenziale della città, il suo patrimonio culturale. Qui infatti il carattere di continuità con il mondo precivico appare più evidente. E questo vale anzitutto per la sfera religiosa dove si può cogliere in modo affatto peculiare un’accentuata mistura di conservatorismo e di innovazione. Ma vale egualmente per ciò che concerne la varia e ricca presenza di collegi sacerdotali, sin dalla prima età monarchica. Essi costituiscono uno degli aspetti che meglio fa capire la natura complessa e stratificata dell’organizzazione e dell’identità cittadina. Da un lato perché lo stesso governo della comunità non si esaurisce nelle istituzioni politiche, essendo per molti aspetti determinante, con il fattore religioso, l’opera di questi stessi collegi. Dall’altro perché molti di essi si saldano alle radici preciviche, seppure nel quadro di un non facile processo di adattamento che ne ha permesso una configurazione relativamente unitaria. È in questo contesto che le forme e tradizioni più arcaiche sopravvissero a lungo, nella tradizione repubblicana, quando non rinverdite addirittura dalla grande scenografia arcaicizzante di Augusto. Onde comprendere il ruolo della sfera religiosa nella società romana arcaica, si deve ricordare la presenza di una molteplicità di filoni in essa confluenti. Anzitutto, importantissimi, i culti dei Penati e dei Lari, propri di ciascuna famiglia, di competenza di ciascun pater familias, poi i culti e i riti delle gentes, delle curiae o di aggregazioni più ampie e infine i culti della città. In essi confluisce una molteplicità di elementi che ci riporta a epoca preistorica, con l’innumerevole serie di divinità che accompagnano i romani in ogni aspetto della vita e in ogni periodo. A ciò si collega la vasta stratigrafia di collegi e consorterie religiose, di pertinenza sia di singoli gruppi, che dell’intera comunità. Spiccano tra i molti i Luperci Quinctiani e i Luperci Fabiani, che presiedevano l’importante rito dei lupercali, quel percorso rituale evocativo degli arcaici legami territoriali di alcune comunità preciviche. Ma non meno antico appare il collegio dei Salii, una specie di sacerdoti guerrieri impegnati in singolari rituali di tipo magico animistico e dei Fratres Arvales che sovraintendevano al culto dell’antichissima dea Dia. Nella fase successiva della piena espansione della vita cittadina appare conservare una rilevanza maggiore il collegio dei Flamines, anch’esso tuttavia appartenente al più antico patrimonio religioso romano e con una fisionomia del tutto particolare. Ciò è evidente nei tre flamines maiores: Dialis, Martialis e Quirinalis. Ma tali caratteri arcaici appaiono anche nella serie di limitazioni rituali, stabilite in particolare nei riguardi del flamen Dialis che sembrano risalire all’età del bronzo. Vi è un punto chiave che evidenzia il carattere precivico di tali figure: la loro sostanziale estraneità al rex. Si tratta di una realtà che la città stenta a fare propria e che quindi conserva un suo spazio arcano ai margini del nuovo sistema. Il nucleo centrale della religione cittadina fu infatti rapidamente occupato da una originale fusione di elementi arcaici con forme decisamente innovatrici. Un processo che ha un momento di particolare evidenza nella sostituzione delle tre supreme divinità arcaiche, Giove, Marte e Quirino con quelle della religione olimpica che ruota attorno alla cd. triade capitolina: Giove, Giunone e Minerva, il cui culto si svolge nella roccaforte, arx, della città: il Campidoglio, in un grande tempio appositamente edificato. Rientra in questa nuova sfera il culto di Vesta affidato ad apposite sacerdotesse che godevano ancora in età tardo repubblicana e imperiale di una condizione sociale elevatissima. Il compito delle vestali, oltre alla partecipazione ad alcune importanti festività, è la custodia del fuoco sacro, che deve restare acceso permanentemente e accanto a questo dell’acqua. L’integrazione nella città di questo culto è però attestata dalla dipendenza delle vestali dal rex: in un rapporto di dipendenza di tipo familiare sostituito poi in epoca repubblicana dal rapporto della vestale maggiore con il pontefice massimo. Non minore ambivalenza tra le radici preistoriche e la nuova funzionalità cittadina si può cogliere in altri collegi religiosi che assolsero un ruolo di grande rilievo anche oltre l’età regia. Anzitutto il collegio dei feziali, i cui compiti erano essenzialmente circoscritti alle relazioni internazionali: si tratta di un sacerdozio che non era esclusivo dei romani, ma presente anche in altre popolazioni italiche, anzitutto tra i latini. Il che lo rendeva atto a costituire il sistema di comunicazione formale tra Roma e le altre comunità. Il collegio di venti membri nominati a vita non sembra presieduto da un supremo sacerdote, anche se al suo interno si distingue per la preminenza di funzioni il pater patratus. Ogni richiesta rivolta a popoli stranieri o da questi a Roma doveva avvenire mediante questo canale, che puntualmente veniva indicato come garante del rispetto della fides publica inter populos, della lealtà internazionale. È solo attraverso i feziali che poteva dichiararsi una guerra giusta e stringersi la pace legittima. I feziali e il pater patratus semplicemente dovevano tradurre le decisioni politiche nella forma richiesta dall’ordinamento romano per la validità degli atti internazionali. Non deve però sfuggire il significato del rigido formalismo di cui i feziali erano custodi. Esso infatti comportava la possibilità di rendere giusta ogni guerra dichiarata nel rispetto di certe regole, prescindendo dalla validità sostanziale delle pretese originarie, la cui affermazione fosse stata anch’essa affidata ai feziali secondo regole rituali. Lo sviluppo delle regole formali con tutelate dette luogo alla formazione di una procedura che è alla base di quel primo nucleo di un diritto internazionale costituito dal ius fetiale. Estendendosi anche ai rapporti di diritto privato tra romani e stranieri, il ius fetiale era destinato a contribuire al complesso processo di arricchimento dell’esperienza giuridica romana arcaica. Quanto poi al collegio degli auguri, è da sottolineare il ruolo fondamentale in alcuni momenti centrali della più antica vicenda romana. Tutto fa pensare a una loro origine antichissima e diffusa al di là dei confini di Roma. Più difficile invece da comprendere è il motivo per cui quest’interpretazione dei segni della volontà divina finisse, nell’esperienza romana, con il dare luogo a due sistemi diversi. In effetti i romani distinguevano gli auguria dagli auspicia, secondo un criterio che non doveva concernere tanto il tipo di manifestazioni divine da interpretare, derivando piuttosto dalla categoria di persone legittimate a interrogare la volontà degli dei: il rex e poi i magistrati per gli auspicia, gli auguri per gli auguria. Un’altra differenza tra auguria e auspicia sembra associarsi al riferimento di questi ultimi essenzialmente a situazioni immediate nel tempo e di per sé bene individuate. La constatazione di infausti auspici da parte del magistrato riguardava l’atto da compiersi nel giorno in cui tali auspici erano stati presi. E questo atto poteva essere però ripreso e portato a termine nel giorno o nei giorni immediatamente successivi. L’augurium invece può riguardare una situazione lontana nel tempo e può investire anche un oggetto più ampio che non singole iniziative, sino a riferirsi al destino stesso di Roma. Dal verbo augere, aumentare, deriva l’idea che augurium evochi non la semplice manifestazione di una volontà divina, ma una crescita di potenza, un arricchimento della condizione e dell’azione umana a seguito di un richiesto intervento degli dei. Per questo sia un luogo che una persona possono essere oggetto di inauguratio. Una prima risposta è quella secondo cui tali mores risalirebbero in buona parte alle stesse origini laziali, consistendo pertanto in regole già vigenti nelle strutture dell’organizzazione precivica. Partendo da tale concezione si pongo tuttavia alcuni problemi di difficile soluzione. 6. Le radici arcaiche del diritto cittadino. Dell’originario patrimonio culturale delle gentes ancora presenti in età storica restano essenzialmente varie forme di culti e riti religiosi di specifica pertinenza di alcune o di una sola gens. L’indubbio carattere arcaico di essi collega il mondo cittadino alle antichissime tradizioni laziali dell’età precedente. Non ci si deve meravigliare che le notizie riguardino soprattutto forme culturali e rituali proprie delle gentes. È abbastanza naturale infatti la più accentuata dispersione dell’originario patrimonio gentilizio relativo alla sfera più propriamente sociale e giuridica. Privi infatti della maggiore forza di conservazione delle forme religiose, questi altri mores gentilizi furono esposti a una maggiore erosione, anche per la pressione cittadina volta a ridurre al mero livello sociale le regole gentilizie restate fuori dal proprio ordinamento. Altre informazioni consentano l’idea che questi stessi sacra gentilicia siano le sopravvivenze di un fenomeno più ampio e organico, solo limitatamente salvatosi dall’erosione del tempo e soprattutto dalla progressiva affermazione della antinomica struttura politica cittadina. In effetti gli antichi ricordano un insieme di tradizioni e particolarità rituali legate al nome di singole gentes, che appaiono tuttavia più frammentarie, se non più marginali rispetto alla sfera religiosa. È indubbio che anch’esse traggano origine da antichissime prescrizioni. In ciò si distinguono dalle peculiarità di singole gentes derivanti da specifiche e più tardive deliberazioni assunte dal gruppo: questo è il caso della decisione della gens Manlia di non usare il prenome di Marcus dopo l’uccisione di M. Manlio Capitolino e identificata dagli antichi in un decretum gentis. Ma ancor più interessante è l’eco di pratiche peculiari a una gens: ad esempio l’assoluta assenza di forme di adozione all’interno dei Claudi, sino a Nerone, mentre ai Fabi era vietato sia il celibato che l’esposizione degli infanti. È dunque probabile che lo stesso riflusso nelle nuove istituzioni cittadine di parte del contenuto culturale dei vari gruppi minori avesse riguardato anche altre sfere, oltre quella religiosa. Come per gli aspetti religiosi, queste stesse regole spesso non erano esclusive di una sola gente, o di un solo villaggio, ma costituivano un comune tessuto che era venuto saldando insieme, in una struttura culturale omogenea, più villaggi e più gruppi originariamente distinti. Credenze, pratiche sepolcrali, riti, sistemi matrimoniali e forme familiari erano d’altra parte circolate già nel mondo precivico. Ed è proprio questo antico patrimonio, divenuto il cemento istituzionale della civitas a definirne l’identità politico-culturale: la sua lingua, le sue rappresentazioni ideali, i suoi sistemi di organizzazione sociale e le sue stesse gerarchie sociali, oltre che la sua religione e il suo diritto. Di contro le tradizioni rimaste di pertinenza di ciascun gruppo interno alla nuova comunità sopravvissero solo e nella misura in cui esse non contraddicessero e minacciassero il sistema unificato di valori condivisi. Già prima che Roma nascesse, gli uomini che la costituirono sapevano come si nasceva, ci si accoppiava, si allevavano i figli, si viveva insieme, si godeva dei frutti del proprio lavoro e infine si moriva. Nessuno di quei fatti era solo un accadimento materiale: ciascuno di essi e molti altri ancora comportavano un insieme di conseguenze entro un sistema che era anche culturale ed erano essi stessi disciplinati da pratiche e da riti. I fatti materiali che concernevano ciascuno e tutta la comunità erano ormai da tempo sottratti al mero stato di natura, divenuti elementi di carattere culturale. Anche nella Roma di Romolo, le regole matrimoniali potevano essere complesse: tabù, divieti, obblighi e forme stereotipe attraverso cui il vincolo veniva costituito ingenerando conseguenze e obblighi. Il matrimonio poneva in essere una nuova famiglia, nascevano figli e discendenti. L’insieme delle risposte che a questi, come a molti altri quesiti, era in grado di dare sin dall’inizio la società romulea è appunto il contenuto del primitivo ordinamento. In Roma il diritto è concepito come preesistente al legislatore, che interviene solo a modificare e innovare singoli punti. Il suo fondamento sono i mores: il punto di partenza di tutta la storia del diritto romano. La comunità politica si forma in parallelo, se non successivamente, a essi. Il re può intervenire a regolare o a limitare e modificare il ruolo del pater familias nell’ambito della repressione domestica, può circoscriverne alcuni eccessi, può controllare, attraverso le curie, le modifiche artificiali nella composizione dei gruppi familiari o lo spostamento di patrimoni ereditari. E ancor più il suo giudizio può innovare in uno o altro specifico aspetto di pratiche tradizionali. Ma le strutture fondanti dell’ordinamento da cui discendevano tutti i vincoli che gravavano sui consociati, appaiono saldamente fondate sui mores solo marginalmente ed episodicamente modificati da singole leges. L’importanza dei pontefici e il ruolo rivoluzionario del rex stanno appunto qui: nell’essere stati i registri del passaggio dalla pluralità di istituzioni locali a un corpo unitario. CAPITOLO TERZO : I RE ETRUSCHI. 1. Le basi sociali delle riforme del VI secolo. Nell’incerto crepuscolo tra leggenda e ricordo che avvolge la narrazione degli antichi intorno ai primi secoli di Roma è abbastanza netta l’eco di una profonda frattura intervenuta con l’avvento al potere di una serie di re di origine etrusca. Certamente si trattò di un momento di forte modernizzazione dell’apparato politico- istituzionale, tale da anticipare alcuni caratteri di quello che sarà l’impianto di fondo del successivo sistema repubblicano. Tali trasformazioni furono a loro volta rese possibili dalla crescita politica e sociale di Roma, nel corso del primo secolo e mezzo di vita. Non solo essa, alla fine del VII secolo era divenuta una delle principali città del Lazio sia per dimensioni territoriali che per popolazione. Essa, aveva cessato ormai di essere la sede già creata di una popolazione di pastori e agricoltori, accingendosi a un nuovo salto in aventi nel suo sviluppo economico- sociale. L’accresciuto rilievo della città aveva poi reso possibile, sotto i nuovi e più dinamici re di stirpe etrusca, un notevole incremento delle grandi opere pubbliche facendo di essa quella che fu chiamata la grande Roma dei Tarquini. Ne restano tuttora importanti tracce archeologiche. Lo sviluppo di tutte le attività indotte da tali opere a sua volta postulava un accresciuto fabbisogno di manodopera urbana, a seguito di cui una massa crescente di popolazione, composta anche da stranieri, si dovette concentrare nella città. Queste molteplici attività urbane si dovettero inserire sempre più malamente nella logica chiusa del sistema delle curie. Nuovi gruppi sociali e nuovi ceti erano infatti i protagonisti di questa stagione, la cui organizzazione interna tendeva in generale a fondarsi sulla centralità delle minori unità familiari, se non dei singoli individui. La prorompente economia urbana era più congrua a mestieri e attività individuali che permettevano a singoli individui o unità familiari anche piccole, d’aspirare a uno status economico-sociale autonomo. Da un lato dovette verificarsi così una crescita complessiva degli strati sociali estranei al sistema gentilizio, costituiti sia da un popolo minuto, ai margini o quasi dell’economia cittadina, sia da strutture familiari abbastanza importanti per consistenza economica in grado di pretendere uno spazio autonomo nella città. Dall’altro si verificò anche un processo di erosione della stessa compattezza delle gentes, a seguito delle tendenze centrifughe di singole famiglie o lignaggi. Le attività rurali potevano essere organizzate ancora in forme limitatamente comunitarie nell’ambito delle gentes e delle curie. Ma le sempre più importanti attività artigianali e lo stesso commercio presupponevano una specializzazione del lavoro e un’articolazione delle forze produttive poco adatte a organizzazioni così ampie come le gentes. Sin dai tempi della monarchia latino-sabina la società romana disponeva di un’organizzazione familiare straordinariamente funzionale a questo tipo di attività. Si tratta della familia proprio iure, dove, al limitato numero dei partecipanti, corrispondeva una reale compattezza, e dove soprattutto l’unità, più che su un piano orizzontale di tanti collaterali, si realizzava in senso verticale. In essa dunque più generazioni potevano essere saldate insieme, sotto la potestas dell’avus, dando luogo a un sistema particolarmente adatto alla trasmissione di un sapere tecnico. Di contro, il carattere temporaneo della potestas del capofamiglia assicurava una progressiva e limitata proliferazione di questo sapere e delle conseguenti attività, al momento della sua morte. Tant’è che esso non si fuse con i patres preesistenti, dando origine invece a un nuovo gruppo sociale, probabilmente anch’esso annoverato tra i patrizi, ma di minor rango: indicato nelle fonti come minores gentes, genti minori. Che la politica dei re etruschi mirasse deliberatamente a trarre tutte le conseguenze organizzative dalle migliorate condizioni economiche della città lo mostra l’altra riforma tentata da Tarquinio, volta ad allargare l’organico della cavalleria. L’opposizione a tale tentativo indusse il re ad aggirare l’ostacolo, raddoppiando le tra antiche centurie dei celeres. D’altra parte l’intervento sull’organico dei cavalieri, se da una parte rispondeva a esigenze tattiche, dall’altra doveva avere una portata più ampia, mirando al superamento delle stesse tribù romulee con l’inserimento al vertice dell’esercito di gruppi non appartenenti alla vecchia aristocrazia. Le prime riforme in effetti aiutano a capire che la crescita economico-sociale aveva ingenerato una situazione nuova, ponendo problemi e aprendo possibilità prima inesistenti, o almeno non percepite in misura adeguata. Con tali sviluppi erano anche aumentati i gruppi detentori di una notevole percentuale della ricchezza cittadina, in misura non inferiore a quella già di pertinenza delle genti patrizie. Di lì l’aspirazione a un’integrazione nel vertice cittadino, soddisfatta da Tarquinio Prisco con l’incremento dei senatori, ma anche con l’utilizzazione di questo nuovo organico di ricchi nelle file della cavalleria cittadina. Il che, a sua volta, non poteva dissociarsi da un più generale potenziamento della struttura di base dell’esercito: la fanteria. Ciò si rivelò possibile utilizzando le ricchezze individuali, antiche e nuove, in funzione di un armamento uniforme e fortemente potenziato in tutto l’organico della legione. Un risultato a cui non poteva sopperire l’antico sistema curiato, in cui i cittadini erano inseriti solo in base alla loro discendenza: è questo il problema che verrà risolto in modo affatto rivoluzionario dal successore di Tarquinio, il grande Servio Tullio. La modernità critica ha sovente dubitato della verità storica di questo personaggio, o comunque del suo ruolo nel mutamento istituzionale di Roma. Tuttavia, molto spesso le profonde trasformazioni intervenute nei vari sistemi sociali, con l’emergere delle forze nuove e di nuove necessità sono state tradotte in mutati assetti da singole personalità in grado di interpretare il senso del cambiamento e di canalizzarne le forze portanti, soventi contraddittorie e incerte, nella direzione progettata. Per questo la figura di un grande riformatore come Servio era forse più difficile da inventare che da ricordare. 4. L’ordinamento centuriato. Al centro della sua riforma si impone dunque una nuova organizzazione militare, in funzione di un tipo di combattimento più moderno. La primitiva legione fornita dalle curie e costituita secondo i genera hominum, fu così soppiantata da quello schieramento oplitico che costituì, in Italia come in Grecia, la grande novità delle forme di combattimento proprie della città giunta a un adeguato livello di crescita. La sua denominazione deriva dalla parola greca oplites, che significa armato. Tali trasformazioni ebbero un evidente fondamento di carattere economico che si espresse nella disponibilità di una maggior quantità di armamenti individuali. Il che fu infatti reso possibile dagli sviluppi tecnologici, con l’aumentata produzione del metallo lavorato, nonché dalla presenza di un maggior numero di individui abbastanza ricchi da procacciarsi gli armamenti così prodotti. Anche per Roma, l’affermazione di questo sistema bellico coincise con un profondo mutamento dei rapporti sociali e politici: entrò in crisi infatti il fondamento guerriero del predominio gentilizio. Con l’armamento oplitico le differenze di classe non si attenuarono, ma si spostarono. Si accentuava anzitutto il rilievo della ricchezza individuale. Lo schieramento oplitico presupponeva un numero maggiore di cittadini abbienti, in grado di procacciarsi un armamento abbastanza costoso. Di qui la netta distinzione intervenuta tra costoro e una schiera ancora più numerosa di individui privi di mezzi destinati ad avere funzioni meramente subalterne di ausilio e assistenza agli opliti. La massa più elevata di armati presupposti dalla riforma serviana non postulava solo una crescita complessiva di ricchezza dei romani, ma richiedeva anche una più precisa stratigrafia, fondata su un sistema di inquadramento della popolazione diverso da quello basato sulle curie. Di qui una nuova forma di distribuzione dei cittadini, fondata sulla ricchezza individuale. Con un effetto indiretto ma gravido di conseguenze per il futuro: che ormai l’individuo si trova in diretto rapporto con la città per quel che vale, anzitutto economicamente e per quel che è. La creazione del cittadino è ora perfezionata. Ciò avrebbe comportato la sostituzione del comizio curiato con un nuovo sistema di carattere timocratico: tutti i cittadini sarebbero stati distribuiti in cinque classi corrispondenti ai diversi livelli di ricchezza, suddivise a loro volta in centurie. Il disegno compiuto dei nuovi comizi centuriati consisteva in un totale di 193 centurie di cittadini, ripartite in cinque classi: la prima era composta da coloro che avevano un capitale di 100mila assi, la seconda di 75mila, la terza di 50mila, la quarte di 25mila e la quinta di 12.500 assi. La prima classe forniva all’esercito, oltre alle centurie dei cavalieri, che ammontavano a 18, comprensive però anche quelle i cui cavalli erano forniti dalla città, equo publico, ben quaranta centurie di juniores, cittadini tra i 18 e i 46 anni che costituivano il vero corpo combattente della città e 40 centurie di seniores, soldati più anziani che servivano da riserve. La seconda, la terza e la quarta classe fornivano invece ciascuna dieci centurie di juniores e dieci di seniores. A queste 188 centurie si devono aggiungere ancora 5 centurie: due di soldati del genio, di tecnici che collocavano accanto alle centurie della prima classe, due centurie di musici, posti accanto alla quarta classe e infine un’unica centuria di capite censi, in cui erano inclusi tutti i cittadini privi di qualsiasi capitale e estranei alle specializzazioni. L’antico patriziato dovette in origine essere ben presente anche nelle classi più elevate delle centurie di fanteria. E tuttavia delle prime classi di centurie dovevano far parte anche molti esponenti di famiglie non patrizie, anch’esse adeguatamente qualificate dalla loro ricchezza. L’egemonia patrizia restava sempre forte, non era però assoluta, aprendosi così per più ampi gruppi sociali un ruolo significativo proprio in quell’aspetto così essenziale alla posizione del cittadino nelle società antiche costituito dal servizio militare. Il maggior peso finiva con il gravare sui cittadini più ricchi, quelli appartenenti alle prime classi. Essi infatti erano tenuti a fornire il numero maggiore di soldati. La città serviana non esprimeva una società più democratica o paritaria, ma un nuovo tipo di gerarchia. Quando l’ordinamento centuriato si estese dall’originaria sfera militare alla dimensione politica, il voto dei membri delle prime classi di centurie fu ben più pesante e importante di quello degli altri. Il rapporto tra la sfera politica e quella militare sarebbe stato sempre strettissimo; non a caso la convocazione del popolo nei comizi, era indicata con l’espressione significativa di exercitus imperare: convocare l’esercito e la stessa assemblea centuriata era designata come esercito urbano. Ma soprattutto i comizi continuarono a essere convocati fuori del pomerium, la cinta sacra di Roma all’interno della quale non poteva esplicarsi il comando militare. La fisionomia dell’ordinamento centuriato rappresenta il punto di arrivo di un processo complesso. Restando all’età di Servio è da presumersi che la svolta si esaurisse negli aspetti propriamente militari. È quindi possibile che l’innovazione fosse allora rappresentata dall’introduzione delle sole centurie di juniores: l’organico dell’esercito. Concentrandoci infatti su queste sole centurie, direttamente riferite all’esercito oplitico, ci si può rendere conto che la somma delle prime tre classi corrisponde al numero di sessanta centurie. Ciò che a sua volta deve essere messo in relazione con quanto dicono Livio e Dionigi circa il fatto che solo gli appartenenti alle prime tre classi erano forniti di un armamento pesante, adeguato alla fanteria oplitica. Gli armati delle centurie inferiori si presentano semplicemente come ausiliari dei primi. Queste sessanta centurie corrispondono ai seimila armati cui era pervenuta quell’unica legione romana che, ai tempi della monarchia etrusca, costituiva tutto l’esercito della città. Appare dunque verosimile che l’originaria riforma militare di Servio sia consistita nella semplice duplicazione dell’antico organico della legione. L’accrescimento è evocato dalla distinzione di quella parte di popolazione destinata a costituire la classis, come l’esercito era allora chiamato, da quella restata, infra classem, ai margini dell’esercito, con funzioni ausiliarie. Solo in seguito, questa legione originaria verrà sdoppiata, senza però che ciò comportasse l’ulteriore raddoppio dell’organico militare. ricchezza che avrebbero potuto indebolire la stessa forza economica dei ceti aristocratici. Un altro e importante settore della vita sociale in cui dovette aversi un incisivo intervento del rex, già prima dell’epoca etrusca, fu quello costituito dalla repressione dei comportamenti individuali pericolosi per l’ordinamento cittadino. La sua azione dovette essere più diretta e innovatrice che nel più vasto campo dei mores. La stessa esistenza della comunità moltiplicava, con la vicinanza, le occasioni di conflitto e quindi postulava l’introduzione di forme regolate di litigio atte a evitare il confronto violento e governate da procedimenti razionali. Seppure ereditando anche qui criteri e valori più antichi, la città intervenne precocemente anche a reprimere le condotte criminali dei singoli individui. Sino ancora nella legislazione delle XII tavole quella che si chiamerà repressione criminale in senso proprio era circoscritta solo ad alcune condotte particolarmente gravi. Il resto era lasciato all’ancor forte autonomia dei singoli gruppi familiari e gentilizi e alla loro capacità di autodifesa. L’autonoma presenza della città concerneva pertanto due tipi di comportamenti: l’uccisione violenta di un membro della comunità da un lato e forme di tradimento o azioni dirette contro l’esistenza stessa comunità politica dall’altro. Questi ultimi tipi di condotta sono richiamati sotto i due termini di perduellio, crimine contro l’ordine politico della civica, e di proditio, il tradimento con il nemico e comportano la morte del colpevole. È assai verosimile che la condanna a morte del parricidas, sancita dalle XII tavole, non riguardasse solo l’uccisore del proprio padre, ma anche chi avesse ucciso qualsiasi altro cittadino avente autonoma rilevanza rispetto alla comunità. In questi casi il rex interveniva direttamente attraverso i suoi magistrati, i quaestores parricidii e i duoviri perduellionis. La loro esistenza conferma la novità di questi reati rispetto al mondo precivico. Accanto a questi casi va ricordata una molteplicità di procedimenti repressivi di condotte asociali e dannose, alcuni dei quali d’efficacia immediata, che si potrebbero chiamare di polizia e altri invece in cui la punizione interveniva soprattutto sul piano della sfera religiosa. Tali condotte erano colpite anzitutto perché, violando precetti e regole, attiravano l’ira degli dei sull’autore del misfatto e con esso sulla comunità intera. Il caso più importante e con chiare radici preciviche è costituito dalla particolare sanzione consistente nella consacrazione del colpevole agli dei (sacratio). Tale condizione comportava il suo distacco dalla comunità e la perdita di ogni tutela giuridica, esponendolo a qualsiasi aggressione cui non avrebbe reagito l’intervento sanzionatorio della città. Vi sono poi altre azioni delittuose punite molto gravemente nella legislazione decemvirale, ma che non sembrano comportare questa sacratio dell’autore del reato, né il diretto risarcimento della vittima. Ad esempio la repressione degli atti di magia contro il vicino o l’incendio doloso del raccolto. In tal caso la sanzione prevista avveniva attraverso i canali delle forme religiose arcaiche che riportano a situazioni più antiche della repressione della perduellio o dello stesso parricidium. Non meno numerosi tuttavia sussistevano comportamenti lesivi dei singoli cittadini ed effettuati ingiustamente. In questi casi la comunità primitiva interveniva a proteggere il danneggiato contro l’autore della condotta illegittima. Ma lo faceva solo se la stessa vittima si faceva parte attiva per difendersi, mentre l’eventuale condanna mirava a conseguire insieme l’obiettivo di risarcire il danno e di punire l’autore della condotta illegittima. La proprietà e gli altri diritti individuali erano esclusivamente riferiti alla figura del pater della familia proprio iure. Un criterio molto rigido che corrisponde a quello che si tende definire come sistema patriarcale, dove l’unità familiare in qualche modo imprigiona i singoli individui in vincoli di sangue e di status che li accompagnano per tutta la vita. Solo che il diritto romano presenta una fisionomia particolare: al contrario di altre società in cui il sistema familiare tende a sopravvivere al titolare provvisorio dei poteri di governo su di esso, in Roma questo non è mai avvenuto. L’unità familiare si dissolveva con il passaggio di ogni generazione, alla morte del pater, suddividendosi per quanti sono gli immediati suoi discendenti. Questo è il motivo istituzionale per cui l’ordinamento cittadino ha valorizzato questo sistema. Perché esso è lo strumento più devastante nei confronti della tendenza dei gruppi intermedi. La famiglia romana era fortemente coesa nella sua struttura giuridica, ma transeunte: non superava una generazione e per questo non poteva assumere una valenza latamente politica, contribuendo al contrario a indebolire la stessa logica gentilizia. CAPITOLO QUARTO : DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA. 1. La cacciata dei Tarquini e la genesi della costituzione repubblicana. Nella vicenda romana si innesta un fattore internazionale di cui occorre tener conto: il collegamento di Roma con il mondo etrusco, proteso verso la Campania, in diretto conflitto con gli insediamenti greci ivi situati. Negli ultimi decenni del VI secolo la spinta etrusca verso la Campania aveva conosciuto una seria battuta d’arresto a seguito di alcune gravi sconfitte militari ad opera dei greci e dei loro alleati latini. Tutto ciò ebbe a riflettersi anche sugli equilibri interni a Roma, giacché divenne allora possibile un vero e proprio colpo di stato da parte dell’aristocrazia romana, che non solo estromise dal trono Tarquinio il superbo, ma cancellò lo stesso istituto della monarchia. La data tradizionale in cui si colloca questa svolta è il 509 a.C. I primi anni della repubblica furono caratterizzati da una fisionomia incerta e da gravi difficoltà internazionali. Da un lato Roma ebbe a fronteggiare la reazione etrusca, in appoggio ai Tarquini. È abbastanza certo che il capo etrusco di Chiusi, Porsenna, abbia conquistato militarmente Roma, ma è ancora più importante il fatto che il suo successo non influì sulla successiva vicenda costituzionale romana e non comportasse quindi la restaurazione di Tarquinio. È indubbio che Roma, dopo la caduta dei Tarquini, per qualche tempo restasse ancora legata alla sfera di influenza etrusca. La conservazione delle antiche alleanze dovette infatti risultare indispensabile per difendere la sua precedente preminenza, ora contestata dai latini. Ma che la solidità di Roma fosse ormai un fatto acquisito lo prova la relativa rapidità con cui essa seppe reagire anche militarmente all’ostilità latina pervenendo a un esito sostanzialmente positivo e al rinnovo dell’antica alleanza con il Foedus Cassianum. Esso prende il nome da Spurio Cassio, una figura di grande rilievo nei primi anni della repubblica che, nel 493, dopo aver guidato gli eserciti romani nella guerra contro i latini, riuscì a concludere con essi una pace duratura. La brusca scomparsa del rex aveva ridato all’antico patriziato una rinnovata preminenza di cui resta traccia evidente: dopo i primi anni di vita della repubblica, le gentes patrizie si spinsero a bloccare a proprio vantaggio l’insieme dei canali di circolazione sociale e ascesa politica che avevano funzionato nell’età precedente. Questa chiusura segnò tuttavia, nei tempi lunghi, l’inizio di una crisi lenta, ma non per questo meno inesorabile, a danno dei momentanei vincitori. Vi era infatti un aspetto irreversibile delle riforme serviane: il nuovo ordinamento centuriato, con il superamento dei comizi curiati. Un ritorno alla situazione originaria avrebbe comportato un vero e proprio collasso dell’apparato militare in un momento di massima necessità di difesa. Egualmente difficile sarebbe stato il ripristino dell’originaria figura del re-sacerdote vanificando il rafforzato imperium dei re etruschi. L’aristocrazia gentilizia puntò piuttosto sull’ulteriore modifica delle riforme serviane. Fu un meccanismo abbastanza semplice, anche se non privo di difficoltà, quello da essa messo in atto e che consisteva del circoscrivere il vertice del governo cittadino. La soppressione del carattere vitalizio della carica suprema di governo e il suo sdoppiamento, con i due consoli eletti annualmente, realizzarono perfettamente tale riequilibrio, salvaguardando nondimeno il forte carattere militare assunto dal comando supremo in età etrusca. In tal modo si realizzavano le premesse per un permanente spostamento del baricentro politico a favore dell’altro organo del governo cittadino: il senato. I primi cinquant’anni del nuovo assetto repubblicano sono forse il periodo più oscuro e ricco di interrogativi di tutta la storia romana. Fonte di incertezza sono quei pur così importanti elenchi di magistrati eponimi che hanno inizio con la repubblica. In questi fasti compaiono, sino al 486, accanto a nomi di consoli patrizi, anche quelli di magistrati plebei; poi questi nomi cessano, a conferma delle unanimi indicazioni degli storici antichi relative all’esclusione dei plebei dal consolato e dalle altre magistrature, così come dagli stessi ranghi del senato. Una svolta che un tempo si tendeva semplicemente ad annullare, negando l’autenticità alle liste con i nomi dei plebei: esse infatti smentivano una rappresentazione storica in termini di flussi lineari di eventi tutti concordanti in Contro questo monopolio gentilizio e soprattutto a bloccare un suo ulteriore incremento a seguito di nuove conquiste, si mosse dunque la richiesta plebea di distribuire tutte le terre in proprietà privata, rispetto a cui le famiglie plebee si sarebbero trovata sullo stesso piano di quelle patrizie. Per quanto concerne l’aspetto sociale della contrapposizione tra plebei e patrizi, il punto centrale è in genere indicato dall’assenza del conubium. Questo avrebbe comportato la degradazione sociali dei figli nati da tali matrimoni, esclusi comunque dai ranghi del patriziato, oltre alla perdita di rango della sposa, se essa era di origine patrizia. Una sanzione che ribadiva formalmente l’inferiorità sociale dei plebei, i quali infatti contro di essa si batterono sino a ottenerne il superamento con la lex Canuleia del 445. Il compattamento della plebe contro questo sistema fu talmente violento e consistente da minacciare la sopravvivenza stessa della comunità politica. È quanto traspare dalla famosa sua secessione sul Monte Sacro o sull’Aventino del 494, in cui si adombra la possibile formazione di una comunità politica alternativa alla città, con una sua diversa sede territoriale. La crisi fu superata solo con il riconoscimento alla plebe di un insieme di strumenti protettivi rispetto alle prevaricazioni delle magistrature patrizie. A guidare la secessione plebea si erano posti dei magistrati, ispirati alla figura dei tribuni militum, o addirittura alcuni tribuni militum dell’esercito centuriato schieratisi con la plebe, che avevano assunto il nome di tribuni della plebe. Il compromesso politico che ne seguì comportò il loro riconoscimento come organi della città: sancendo dunque il loro diritto di aiuto a favore delle plebe. Ma proprio questo carattere escluse per molto tempo la loro partecipazione all’effettivo governo della città. Il loro potere di intervento negativo si estese all’intera vita politica cittadina, sostanziandosi nella possibilità loro riconosciuta di interporre l’intercessio: un vero e proprio veto contro qualsiasi atto o delibera dei magistrati o dello stesso senato. In tal modo l’autorità dei tribuni era lungi dall’essere subalterna alle strutture cittadine, potendo in teoria giungere a paralizzare nel suo complesso la vita stessa della comunità. Era lo stesso meccanismo della secessione a trasferirsi così all’interno delle strutture istituzionali. La posizione di questi magistrati era poi rafforzata dal carattere sacrosanto della loro persona, originariamente affermato con una lex sacrata e sempre poi confermato. Questa consisteva in un giuramento assunto collettivamente dalla plebe ma vincolante, per il suo fondamento religioso, l’intera comunità. Con tali leges la componente plebea si poneva come forza autonoma, in grado di ridisegnare l’intero impianto cittadino. Il suo punto di forza era l’assemblea, il concilium plebis, organizzata sulla base della distribuzione per tribù territoriali, che votava proprie delibere: i plebisciti e eleggeva propri magistrati, i tribuni e in seguito gli edili. Si trattava solo dei primi, sebbene fondamentali, passi verso un più vasto processo di equiparazione. Per il momento il mondo plebeo costituiva ancora una realtà sociale autonoma e antagonista. Per questo mantenne un tessuto identitario separato, con tradizioni religiose, divinità e templi propri. Sino addirittura a identificarsi con una sua sfera territoriale al di fuori del recinto sacrale della città: l’Aventino. La sua posizione conobbe un progressivo consolidamento che permise di superare ben presto una strategia meramente difensiva. Già verso la metà del V secolo si ebbero i primi sostanziali passi in avanti nella lotta per la parificazione politica e sociale dei due ordini e con essa di un mutamento complessivo dell’assetto cittadino. 3. La XII tavole. Nella memoria degli antichi, un punto di svolta nelle vicende del V secolo è costituito dal successo plebeo nell’ottenere la redazione scritta del corpo di regole che presiedeva alla vita della città. Questa grande innovazione fu resa possibile dalla defezione di una componente importante dello stesso patriziato: ciò avvenne quando il capo dell’autorevole gens Claudia, Appio, si schierò a favore di tale richiesta, assumendo una funzione centrale nel nuovo processo legislativo. Per l’anno 451-450 al posto della normale coppia di consoli si provvide così a istituire un collegio di dieci membri, con il compito, oltre all’ordinario governo della città, di leges scribere, di redigere per iscritto le leggi della comunità cittadina. Appio Claudio fu chiamato a presiederlo. In questa svolta giocava anzitutto una più matura aspirazione a quella certezza che solo la norma scritta può dare rispetto a formule di carattere consuetudinario e che appare costantemente riproporsi nel corso della storia. Alla preminenza originaria dei mores ancestrali si sostituiva l’idea della centralità della legge scritta, formalmente approvata dalla comunità politica. Ai dieci membri del collegio erano attribuiti, secondo le fonti antiche, poteri assoluti e sottratti alla provocatio che limitava invece l’imperium dei magistrati ordinari. Il che permette di immaginare che il decemvirato, pur all’origine finalizzato alla redazione delle leggi, tendesse ad assumere un significato più ampio, di organo generale di governo della città e delle sue leggi. Non solo esso sostituiva la coppia consolare, ma comportava anche la sospensione di ogni altra magistratura, compresi i tribuni della plebe. La tradizione, se è univoca intorno alla redazione delle XII tavole, meno lo è nella rappresentazione delle vicende successive. Il collegio, rieletto per il secondo anno, onde completare la redazione delle tavole della legge, sempre presieduto da Appio Claudio, era stato integrato da elementi plebei. Come era avvenuto nel caso dell’espulsione dei Tarquini da Roma, associata all’aggressione sessuale di Lucrezia, moglie di Collatino, da parte del figlio di Tarquinio il superbo e il conseguente suicidio dell’oltraggiata, anche la crisi del decemvirato con la correlata espulsione del decemviro Appio Claudio da Roma è legata alla violenza arrecata ad una fanciulla plebea, Virginia. Ma anche in tal caso, la vicenda romanzesca copre una crisi politica. Un nucleo di verità si può cercare in uno degli elementi caratteristici della rappresentazione che la parte aristocratica ha sempre dato della libertas repubblicana. Questa libertas, infatti, non assume connotazioni di carattere democratico, non è una libertas di tutti, ma di una consorteria aristocratica: è fondata sull’eguaglianza di pochi. Le personalità che in qualche modo tendono a sottrarsi alla compattezza del sistema aristocratico, sin dall’inizio della storia repubblicana, sono sempre indicate con caratteri di tiranni. L’oligarchia al potere imputa loro la massima colpa vero la libertas repubblicana: l’aspirazione a un potere assoluto, l’adfectatio regni. Sarà questo lo strumento per colpire ogni personalità che devii eccessivamente dalla lealtà verso il gruppo dirigente. Forse l’ulteriore e per certi versi definitiva crescita plebea sarebbe stata allora tollerata se il disegno riformatore con la regia di Appio Claudio non fosse andato oltre. Affiorava così la possibilità di una totale rifondazione della comunità, con un’integrazione sociale più radicale di quella possibile per la città patrizia delle origini. Dove emerge infatti una tendenza non solo ad assicurare una conoscenza pubblica delle norme, ma a realizzare anche un loro nuovo modo di formazione. All’antico sapere pontificale pare contrapporsi un’opposta concezione. Con la tendenziale concentrazione delle funzioni di governo e legislative nel binomio costituito dai decemviri e dall’assemblea popolare, per un momento e un momento solo, parrebbe che tutto il diritto fosse riportato all’interno della politica. Ma fu solo una tendenza che traspare rapidamente, senza riuscire a ingenerare un sostanziale o tanto meno definitivo mutamento della natura globale dell’esperienza giuridica romana. Perché questa potenziale eversione segnò invece la catastrofe politica di Claudio, facendo rapidamente rientrare il sistema giuridico nel suo alveo tradizionale. Si salvò solo il programma originario volto a dare certezza all’intero ordinamento romano. Dal 449 una volta approvate anche le due ultime tavole, le XII tavole rappresentarono la nuova realtà istituzionale alla quale i romani si sarebbero rivolti per secoli come il punto iniziale della loro storia giuridica. Il nuovo grande corpo legislativo costituì da allora il fondamento dello ius civile: il diritto della città, identificandosi in pratica con esso. Malgrado il loro valore pressoché fondativo era infatti chiaro che non tutti il diritto vigente in Roma era stato in esse riportato. È questo del resto che sconsiglia di applicare il termine codice a tale raccolta. La maggior parte delle norme contenute nelle XII tavole presuppone altri segmenti del diritto che ad esse preesistono e su cui esse si innestano, modificandoli eventualmente. Il secolo di chiudeva con sostanziali progressi verso l’equiparazione politica dei due ordini, mentre restava immutato il monopolio patrizio sulle terre pubbliche e aggravato il problema dell’indebitamento degli strati più poveri della plebe. È qui però che negli ultimi anni immediatamente successivi intervenne la svolta destinata a far superare questi nodi: nel 396 si concluse infatti vittoriosamente l’annoso tentativo di Roma di conquistare militarmente la potente città etrusca di Veio, che bloccava la sua espansione verso nord. Questa vittoria fece cadere in mano romana un enorme e ricco patrimonio fondiario, che portò in pratica a raddoppiare il precedente ager romanus. Tutto ciò ebbe a riflettersi positivamente anche sul lungo stallo che aveva caratterizzato la lotta patrizio-plebea in ambito sociale e economico. La distribuzione a tutti i cittadini romani di un appezzamento di sette iugeri ricavati dalle terre strappate a Veio attenuò l’interesse plebeo per la redistribuzione dell’antico ager publicus. Ma questa stessa distribuzione di ricchezza alleggerì anche la pressione esercitata sugli strati più deboli dai processi di indebitamento. Questa modalità di distribuzione della terra veiente comportò l’acquisizione per le varie famiglie di un multiplo dei sette iugeri assegnati a ciascun cittadino. In base al regime della proprietà vigente i vari lotti assegnati ai cittadini in età adulta, ma ancora sotto la potestas del padre tuttora vivente, venivano a sommarsi nelle mani di quest’ultimo dando origine a unità fondiarie di notevoli dimensioni. Il riassetto interno avviato con le distribuzioni di terra veiente aprì un processo destinato a concludersi circa trent’anni dopo nel 367 con il compromesso patrizio- plebeo. È in quell’epoca che le basi economiche della società romana si allargarono in misura consistente. Sotto questo profilo non sembra avere avuto grandi effetti l’infortunio intervenuto con l’aggressione vittoriosa dei Galli e la conquista e l’incendio della città da parte loro. Con il loro però subitaneo ritiro, rapidissima fu la ripresa di Roma, su cui pesava tuttavia l’esigenza sempre più acuta di assicurare un ulteriore ricompattamento interno. Nel 367 furono così approvata tre distinte proposte di legge che, dai magistrati proponenti, sono ricordate come le leggi Licinie Seste. Nella memoria storica dei romani esse appaiono come un fondamentale punto di svolta nella lunga vicenda della lotta patrizio-plebea con il quale la plebe appare conseguire gran parte degli obiettivi principali che si erano prefissi. Con la legislazione del 367 si accelerò un processo di trasformazione delle strutture politico-istituzionali e sociali di Roma che rese possibile un’intima saldatura tra i due ordini sociali. I patrizi e i plebei restarono distinti per tutta l’età repubblicana e oltre ancora, ma a livello politico essi vennero rapidamente fondendosi in un nuovo ceto di governo patrizio-plebeo, mentre la centralità della proprietà individuale della terra e lo stesso carattere individualistico delle terre pubbliche sfruttate dai privati completò l’avviata dissoluzione delle arcaiche strutture gentilizie. La nuova legislazione introdotta nel 367 avviò quasi immediatamente l’unificazione politica della città, destinata a tradursi in una formidabile e durevole spinta espansionistica. La prima delle tre leggi Licinie Seste prevedeva che uno dei due consoli potesse essere plebeo. Con la seconda legge si introduceva un limite al possesso di terre pubbliche da parte di ciascun cittadino, così che, con la definitiva frantumazione delle terre dei patrizi, i possessi di minori lotti di terre pubbliche divennero effettivamente accessibili a un maggior numero di cittadini, ivi compresi i plebei. Per i debiti, l’ultima legge prevedeva infine una serie di provvedimenti volti a limitare il peso di questi, prevedendo che gli interessi già pagati dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Un insieme di norma di grandissima rilevanza sociale limitava e poi sopprimeva definitivamente l’asservimento personale del debitore, rompendo le forme di dipendenza arcaiche: tra esse particolarmente rilevante la Poetelia Papiria del 326. È in quell’epoca che ormai l’unica vera forma di lavoro dipendente divenne la moderna schiavitù, destinata a rappresentare un elemento fondante dell’economia romana. Del resto la sua precedente consistenza è attestata dalla lex Manlia del 357 con cui si imponeva una tassa del 5% alle manomissioni. La sequenza politico-sociale che si innesta a partire dal 396 è di impressionante evidenza. Da un lato infatti, dopo un ristagno durato tutto il V secolo, in rapida successione ben otto nuove tribù si aggiunsero al precedente nucleo di 17 tribù rustiche, completandosi nel 495. Nel successivo periodo conclusosi nel 241 si completò il numero complessivo delle tribù giungendo al totale di 31 tribù rustiche non più destinato a mutare. Con la svolta del 367 si era ormai pervenuti al completamento dell’architettura costituzionale della città. Con essa i censori assumevano una fisionomia più netta, precisandosi le loro competenze per quanto concerne l’arruolamento da loro effettuato, nei ranghi del senato, degli ex magistrati, sia patrizi che plebei. Essi diventavano così garanti della costruzione di una nuova aristocrazia politica che si sostituì nel governo della repubblica all’antica nobiltà di nascita costituita dai patrizi. In quello stesso anno un nuovo magistrato veniva introdotto, destinato a amministrare la giustizia e a regolare le controversie tra i privati: il pretore. PARTE SECONDA : L’APOGEO REPUBBLICANO. CAPITOLO QUINTO : IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE. 1. Il consolato e il governo della città. Nel considerare il quadro istituzionale della città repubblicana si deve tener conto di una logica di fondo che sembra ispirarlo. A qualificarne infatti in modo affatto particolare la fisionomia, non era solo l’assenza di una costituzione scritta, con quel tanto di sistematico e di coerente in termini di disegno organizzativo, da ciò necessariamente generato. Giocava in tal senso anche la natura delle singole leggi che avevano introdotto nuove figure di governo o nuovi compiti e regole per le magistrature già esistenti. Il carattere ellittico delle leggi arcaiche e alto-repubblicane ne rendeva imprecisa la portata specifica e lo stesso contenuto, non indicando quasi mai le modalità e i criteri concreti per la loro applicazione. I qui l’importanza della successiva interpretazione e della prassi che erano venute regolando settori interi dell’apparato politico, senza o oltre la norma. Questa stessa articolazione dei criteri organizzativi rendeva poi possibile una successiva loro rimessa in questione. Di qui il paradosso affatto romano di un insieme di regole, in genere seguite, ma all’improvviso e in certe condizioni disattese. Il nucleo centrale del potere e delle funzioni riconosciute a ciascun organo della repubblica si è conservato e perfezionato nel tempo. Partendo dalla figura dei consoli, introdotti probabilmente all’inizio della repubblica, ma riaffermati a regime e definitivamente solo nel 367. A questa coppia di magistrati, al vertice dell’intero assetto di governo della città, è dunque conferito il supremo potere di comando. Esso è indicato come imperium maius, in quanto superiore a quello di ogni altro magistrato. Insieme alla collegialità, questa carica è caratterizzata dall’annualità. L’antica figura del rex presentava intimamente fusi in sé due fondamentali aspetti: un ruolo politico-militare e uno religioso, che si esprimeva nella sua inauguratio, e nella legittimazione a interrogare la volontà degli dei, mediante gli auspicia. Con la sua scomparsa i romani ne preservarono alcuni aspetti meramente religiosi in capo a quello che si potrebbe indicare come un fossile istituzionale: il rex sacrorum. La sopravvivenza era necessitata dall’esigenza di scindere la figura inaugurata del rex dal potere politico di cui egli, sino ad allora, era stato il titolare supremo. Un’ulteriore conseguenza di tale processo era la rafforzata autonomia del governo cittadino dall’influenza delle forme religiose, così importanti invece nelle società orientali. Vi era tuttavia un aspetto della sfera religiosa che non poteva invece disgiungersi dalla vita politica e militare: il potere-dovere di interrogare la volontà degli dei prima di intraprendere ogni azione pubblica. Di prendere cioè gli auspicia per cogliere il segno di questa volontà e interpretarlo. L’imperium consolare era poi distinto a seconda che fosse esercitato all’interno del confine della città, orientato essenzialmente a governare la comunità politica e la vita dei suoi membri, cd. imperium domi, o che si sostanziasse in un comando militare fuori dalla città, cd. imperium militiae. Una serie di limitazioni introdotte gradualmente a circoscrivere l’efficacia dell’imperium domi nei riguardi dei cittadini non poteva applicarsi o si sarebbe applicata in dimensioni minori in relazione all’imperium militiae, al comando dell’esercito romano. La funzione primaria del pretore è tuttavia riferita essenzialmente alla sfera processuale e per questo è indicata con un termine specifico: iurisdictio, da ius dicere. L’autonoma definizione dei compiti giurisdizionali attribuiti al pretore sottolinea uno sviluppo che va oltre la mera dialettica della legge, esaltata dal valore di riferimento delle XII tavole, la persistenza dei mores e l’interpretatio pontificale. La sua iurisdictio si sostanziò essenzialmente nel controllo delle procedure e nella verifica della legittimità delle pretese in conformità a quello che era il diritto vigente. Nell’esercizio di questa sua competenza si dovette precocemente verificare un fenomeno gravido di conseguenze: la separazione tra il ruolo del magistrato e la valutazione delle specifiche circostanze oggetto della controversia a lui sottoposta dai privati. Nel sistema processuale, diviso in due fasi, la sentenza che decideva della causa era lasciata ad un giudice privato, in base all’accertamento dei fatti materiali addotto dalle parti, il cui inquadramento nell’ambito degli schemi giuridici, tuttavia, non era di sua competenza. La scissione in due fasi del processo romano evidenziava infatti la presenza di due convergenti meccanismi: l’accertamento dei fatti materiali cui si riferiva il litigio processuale e il loro inquadramento all’interno del sistema di regole proprie del diritto romano. Questo secondo e primario aspetto era di stretta competenza del pretore e dalla sua definizione prendevano significato i fatti stessi lasciati all’accertamento del giudice privato. Tale scissione era destinata a facilitare una sempre più autonoma definizione delle categorie giuridiche di riferimento da parte del magistrato giusdicente. Ad una condizione tuttavia, che si superasse la rigidità delle più arcaiche forme processuali per legis actiones. È qui dunque che intervenne, a partire dalla seconda metà del III secolo, un’innovazione di grande rilievo, quando il pretore estese la forza del suo imperium all’interno del processo. Nel compiuto disegno istituzionale del 367 il sistema di governo della città è costituito da un gruppo di magistrati superiori, rappresentato dai censori, e dalle altre magistrature cum imperio: i consoli, il pretore e da una magistratura straordinaria costituita dal dittatore. Al di sotto di queste figure si collocano le magistrature minori, con funzioni più circoscritte e munite di una semplice potestas che ne legittimava l’azione. Ogni magistrato poteva e doveva interrogare gli dei per potere esperire le proprie funzioni in piena legittimità: anche qui scattava infatti la rigida gerarchia che separava i magistrati cum imperio da quelli cum potestate. I primi erano titolari degli auspicia maiora, i secondi degli auspicia minora. I magistrati cum imperio si avvalevano poi, nell’espletamento delle loro funzioni, di un consilium di carattere privato, composto da amici e cittadini autorevoli, che contribuiva comunque a rafforzare l’autorità e l’efficacia della loro azione. I quaestores furono introdotti in numero di due, elevati a quattro alla fine del IV secolo e infine nel 267, durante la prima guerra punica, raddoppiati a otto. La loro competenza principale riguardava gli affari civili, e anzitutto l’amministrazione delle finanze statali, in collaborazione con i censori, e sotto le direttive del senato. Ma questa figura fu utilizzata per una molteplicità di ulteriori incombenze, in seguito anche per collaborare con i governatori provinciali. Per il governo dell’esercito si ripropone la figura dei tribuni militum: alcuni di diretta nomina dei consoli, altri eletti ancora dai comizi. Questi magistrati, nominati annualmente, costituiscono il gruppo definibile di ufficiali superiori al comando dell’intero esercito. Questo, a sua volta, è organizzato per legioni che continuano a essere la struttura fondamentale dello schieramento militare romano. L’elevato numero di questi tribuni militum, 24, comportò il fatto che non tutti, tutti gli anni, prestassero effettivamente servizio nelle legioni. Le nuove esigenze intervenute con il primo scontro con Cartagine sono inoltre all’origine dei duoviri navales, preposti al comando della flotta allora creata. Si tratta però di una magistratura che non divenne permanente. Una delle prime e più importanti acquisizioni dei plebei fu l’integrazione nell’assetto repubblicano di una loro magistratura: i tribuni della plebe. Essi rappresentano il contropotere nei riguardi dello stesso sistema istituzionale costituito dai supremi magistrati e dal senato, in funzione della difesa degli interessi della plebe (cd. auxilium praestare). Vari erano gli strumenti pratici di cui disponevano: oltre al potere di intervento e sanzione contro gli autori di condotte dannose a carico dei plebei, cd. multae irrogatio, potevano interporre l’intercessio contro qualsiasi iniziativa magistratuale. Senza considerare una ancora più pericolosa facoltà, consistente nella summa coercendi potestas, con cui il tribuno, pur privo di imperium, poteva giungere a uccidere il trasgressore delle leggi sacrate, compreso qualsiasi magistrato repubblicano o comminargli la consacrazione dei beni senza l’ostacolo della provocatio. Essi potevano convocare la plebe in assemblea, organizzata per tribù territoriali, proponendo l’approvazione di delibere comuni (cd. plebei scita). Va infine ricordata l’introduzione degli edili della plebe con compiti organizzativi all’interno della città. Accanto ad essi in seguito saranno introdotti gli edili curuli, appartenenti invece alle magistrature cittadine. Questa figura avrà la funzione di sovraintendere alla vita materiale ed economica della città, dai mercati alla viabilità, dalla polizia all’igiene, alle cerimonie pubbliche e ai giochi pubblici. Il controllo dei mercati ebbe rilevanza particolare perché era finalizzato anzitutto a garantire un adeguato approvvigionamento dei beni di prima necessità, comportando anche una costante sorveglianza sull’andamento dei prezzi. Gli edili furono titolari di una limitata giurisdizione sui mercati e le transazioni cittadine, emanando loro editti cui si rivolse anche l’attenzione dei giuristi. Un’innovazione ancora più importante era stata, nel 442 a.C., l’introduzione dei censori che riprendeva così una funzione già dei re etruschi e dei primi consoli. La redazione del censimento della popolazione era un compito quanto mai delicato giacché in base alle liste del censo, tutta la cittadinanza romana veniva a essere fotografata. In tal modo si distinguevano innanzitutto i cittadini dagli stranieri e dagli schiavi, e tra i cittadini i nati liberi, gli ingenui, dagli schiavi manomessi: i liberti. Ciascun cittadino era così collocato nella sua famiglia, associata alla proprietà fondiaria di cui era titolare, radicato nelle varie tribù territoriali e infine inserito nelle classi di censo cui lo legittimava la sua ricchezza familiare. Questi magistrati enumeravano i membri del senato. Con la lectio senatus si inserivano nuovi nomi, tra i membri del senato, a riempire i vuoti verificatisi nel quinquennio precedente a seguito delle morti o di altri eventi. Probabilmente dalla fine del IV secolo, in coincidenza con il plebiscito di Ovinio, la selezione venne definitivamente attribuita a censori ed agganciata a criteri obiettivi. Venivano anzitutto prescelti gli ex magistrati, partendo dall’alto: prima gli ex censori ed ex consoli, poi gli ex pretori e infine gli ex questori. Era nei poteri dei censori anche quello di escludere dai ranghi del senato, con un apposito provvedimento, un suo membro che si fosse macchiato di comportamenti seriamente lesivi del prestigio di tale consesso. Si trattava di una grave decisione che derivava dal loro generale potere di controllo dei costumi dei cittadini: la cura morum. In base ad essa, nei casi più gravi, tali magistrati potevano irrogare una specifica sanzione consistente nella nota censoria. Essa comportava una generica condizione di ignominia all’interno della comunità cittadina, ma poteva anche determinare una retrocessione nel ruolo politico sociale, con l’iscrizione del cittadino indegno in una classe di centurie inferiore a quella a cui aveva diritto in base al suo patrimonio, o con il suo allontanamento dalla classe dei cavalieri, o dai ranghi senatori. Un altro importantissimo ambito di competenze dei censori concerne l’amministrazione delle proprietà e dei beni pubblici, da loro registrati nel censimento insieme ai patrimoni privati. Essi inoltre sovraintendevano alle attività economiche della città, anzitutto controllando le entrate e le spese pubbliche, e provvedendo allo svolgimento di tutte quelle attività fondate sul sistema degli appalti da parte dei privati. I censori venivano eletti ogni cinque anni e duravano in carica fino al completamento del censimento, ma non oltre i diciotto i mesi. Essi non erano muniti di imperium, estranei ai compiti militari e anche alle diverse delibere politiche: il che spiega perché non avessero il diritto di convocare il senato e i comizi popolari. Anche la severa repressione di coloro che dolosamente si fossero sottratti al censimento, poteva essere da loro attuata solo mediamente, attraverso la coercizione materiale esercitata dai consoli o da altri magistrati cum imperio. È una tendenza in atto in tutta l’età repubblicana quella di integrare la struttura di base dell’organizzazione di governo della res publica, con una serie di elementi ulteriori volti a far fronte alle più differenziate e molto particolari esigenze suscitate Il sistema di governo della repubblica, malgrado questo singolare carattere, ha funzionato a lungo e nel complesso in modo molto efficace. Non solo, esso ha mostrato sovente notevoli capacità in senso decisionista come tempestività di scelte e di interventi, tali da non risentire, in apparenza, delle potenzialità negative richiamate. Il che si spiega con la forte compattezza e disciplina dell’intera comunità politica, che dovette orientare la complessiva condotta dei ceti dirigenti e delle supreme magistrature. Il rapporto tra tale organo e i consoli va interpretato anche considerando la configurazione sociale dei magistrati romani e il loro destino politico istituzionale. Non si deve dimenticare che essi, scaduto il loro anno di carica, venivano a far parte, per tutto il resto dei loro anni di vita attiva, dei suoi ranghi. Il loro comportamento, nel corso della loro carica, restava quindi profondamente condizionato dal loro collegamento con il consesso senatorio di cui non di rado facevano già parte e in cui sarebbero comunque rientrati. Quanto agli aspetti concreti del suo funzionamento, tale potente consesso non si poteva autoconvocare, essendo questo compito affidato ai titolari del ius agendi cum patribus. La sua organizzazione interna funzionava secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex magistrati. La sua presidenza conseguentemente era affidata all’ex censore più anziano. Con il consolidarsi delle sue competenza nella politica estera, il senato si arrogò il diritto di inviare ambascerie presso i popoli e le nazioni straniere onde trattare accordi e ogni questione di rilevanza internazionale. I personaggi prescelti per compiere tali missioni furono indicati come legati, i cui compiti erano predeterminati da un apposito senato consulto. Nella tarda repubblica essi erano scelti esclusivamente tra i membri di questo consesso. 4. Il popolo e le leggi della città. Con l’avvento della repubblica si dovettero immediatamente definire le forme di designazione dei nuovi governanti. L’introduzione di magistrati annuali, non inaugurati, postulava la loro elezione da parte della comunità cittadina, con un voto del popolo riunito in assemblea. La versione civile dell’antica organizzazione militare, costituita dai consorzi centuriati, assolse tale funzione. In questa assemblea il peso dei cittadini era diseguale, sia in relazione al censo che all’età. Nel comizio centuriato le delibere infatti erano assunte dalla maggioranza delle centurie che costituivano ciascuna unità di voto. Le centurie delle prime classi, e all’interno di ciascuna di classe, quelle dei seniores, erano meno affollate rispetto a quelle delle classi inferiori e a quelle degli juniores, e pertanto i loro membri avevano un peso politico maggiore. Per ciascuna di esse sussisteva infatti un eguale numero di centurie comprensive di cittadini più giovani e di seniores. Data la durata media della vita e dato il numero inferiore di annate in essi ricomprese, il numero dei seniores all’interno della stessa classe di centurie è ovvio che fosse minore che quello di corrispondenti juniores. Di qui il peso ponderato maggiore dell’anziano rispetto al giovane, oltre che del ricco rispetto al povero. Le 193 centurie non votavano contemporaneamente, ma secondo un ordine progressivo. In un primo momento il voto era orale, e raccolto da appositi funzionari, poi si passò alla votazione scritta. Sovente le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della prima classe, votando in modo uniforme, realizzavano da sole la maggioranza, tagliando fuori dalla decisione tutto il resto della popolazione. Poiché poi, una volta raggiunta la maggioranza, la votazione delle ultime centurie del comizio raramente riuscivano ad esprimere il loro voto. Sin dall’inizio della repubblica anche le delibere che riguardavano la vita della comunità dovettero essere assunte da tali comizi. Naturalmente uno strumento così ingombrante e complesso e la stessa logica di democrazia diretta che ne è alla base resero impossibile fare di codesta assemblea un sofisticato meccanismo atto a temperare il dispositivo delle singole leggi in funzione delle diverse esigenze e opinioni. Il magistrato legittimato a convocare i comizi, avendo individuato una data consentita dal calendario religioso e politico della città, con un certo anticipo doveva annunciarne la convocazione, rendendo pubblica la sua proposta di legge. Davanti al comizio convocato si svolgeva un dibattito su di essa per poi passare alla votazione, che riguardava la proposta nella sua interezza. L’assemblea poteva accettarla o respingerla, non essendo possibile introdurre emendamenti e modifiche, al testo originario. Egualmente questa forma di democrazia limitata operava nella elezione dei magistrati. L’autorganizzazione delle plebe nella sua lotta politica e le sue secessioni erano avvenute nella forma di assemblee, convocate secondo il criterio territoriale delle tribù. Esse pertanto costituirono, sin dall’inizio, i distretti elettorali dei magistrati plebei: dei tribuni e degli edili. Quando poi la fase di più acuto conflitto tra patrizi e plebei fu superata, soprattutto dopo la piena parificazione dei due ordini, quest’ultimo strumento, più agevole di quello dei comizi centuriati, fu utilizzato, per quanto possibile, al posto di quelli. I nuovi comizi tributi furono così integrati con la presenza anche dei patrizi e chiamati ad eleggere i magistrati minori, sine imperio, nonché ad assumere un ruolo sempre più importante nel processo legislativo romano. Il superamento del conflitto patrizio-plebeo rese infatti possibile il riconoscimento del valore generale dei plebisciti. La tradizione fa risalire addirittura alle leggi Valerie Orazie del 449 a.C. la parificazione dei plebisciti alle leggi comiziali. È più verosimile invece che questo processo sia stato realizzato in un momento successivo, attraverso due delibere comiziali: una delle leggi Publite del 339 e la legge Ortensia del 286. Così tra la fine del IV secolo e gli inizi di quello successivo, il più pesante apparato dei comizi centuriati limitò le sue delibere agli aspetti più importanti della vita cittadina. Il mezzo secolo che intercorre tra queste due leggi coincide con la piena integrazione dei due ordini e conseguentemente con il parziale mutamento di significato dello stesso tribunato della plebe, che da organo di parte e tendenzialmente antagonistico al sistema delle magistrature ordinarie e del senato, divenne elemento di un sistema politico unitario. La composizione dei comizi tributi contribuì a dare all’elettorato romano una fisionomia abbastanza conservatrice. Fu quella la sede atta a esaltare gli interessi del ceto dei proprietari rurali, che furono una delle basi essenziali della politica di espansionismo territoriale, essenzialmente orientata ad acquisire nuove terre agrarie. Solo abbastanza lentamente gli interessi mercantilistici, legati alla ricchezza mobiliare, acquistarono peso in codesto consesso. In ciò fu importante il precoce ruolo di Appio Claudio Cieco, con la conseguente apertura ad una più accentuata innovazione politica. Si impone nelle XII tavole, l’autonomia del processo legislativo il cui fondamento è direttamente riferito al popolo: conseguentemente ai comizi. Questa sovranità aveva le potenzialità per erodere l’altro aspetto fondante della comunità costituito dal carattere consuetudinario del sistema normativo romano e dal ruolo dell’interpretazione pontificale e dei giuristi. Di fatto però questa stessa legislazione intervenne, nei secoli della repubblica, solo molto limitatamente per modificare il diritto civile dei romani e quando cioè avvenne, fu quasi sempre per una particolare rilevanza sociale o politica dell’argomento trattato o qualche specifica esigenza e difficoltà della pratica legale, superabile efficacemente solo in via legislativa. Il settore privilegiato dall’azione legislativa dei comizi appare piuttosto il diritto pubblico. Se consideriamo l’insieme delle leggi di cui si ha ricorso, si possono individuare alcune tendenze di fondo della legislazione comiziale. Anzitutto, la larga prevalenza di leggi relative all’organizzazione cittadina: in particolare il vasto gruppo di provvedimenti relativi alle singole magistrature che ne ampliavano o modificavano le competenze e il funzionamento e quelli volti a stabilire limiti ulteriori all’originaria configurazione dei poteri magistratuali. Poi numerose leggi relative alla disciplina dei comizi testimoniano la progressiva trasformazione dell’originario dominio patrizio della prima età repubblicana. Ad esse si aggiunge, insieme a diverse leggi riferite all’organizzazione delle varie figure sacerdotali, un elevato numero di delibere relative alla dichiarazione di guerra e agli accordi internazionali, dove il popolo interveniva accanto al senato. È in questa stessa prospettiva che si colloca l’altro assunto posto a salvaguardia della repubblica e tuttavia mai formulato esplicitamente da una norma positiva: il divieto di attentare all’esistenza della res publica. Molti cittadini verranno accusati di aspirare a divenire re: adfectatio regni, e per questo messi a morte; ma non sembra mai stata votata una norma che vietasse questo comportamento eversivo. Essa è implicita nell’esistenza stessa della repubblica, nel mito della cacciata dei Tarquini ed è presente nella coscienza collettiva. Ora questi stessi principi, non necessariamente scritti e formulati in regole, non sono neppure chiaramente predeterminati e conoscibili ex ante. Sono incorporati all’interno della storia stesa della costruzione repubblicana: anzitutto il riconoscimento del valore fondante del processo di integrazione che ne è alla base. Per questo né l’autonomia né la sfera dei poteri del senato, da una parte, né il ruolo e la sacertà dei tribuni della plebe dall’altra, potrebbero essere messi in discussione da qualche legge positiva. Essi, non diversamente dall’esistenza della coppia consolare, dal diritto provocatio, sono incorporati nella storia comune della civica e ne costituiscono il fondamento da tutti condiviso. Si tratta di pochi e fondamentali meccanismi che si possono effettivamente considerare come il nucleo della costituzione reale della repubblica. Esso è necessariamente integrato da un sistema ben più fluido e abbastanza poco determinato di regole che ne integrano il contenuto rendendone possibile il funzionamento concreto. La loro efficacia e le relazioni tra di esse potrà però variare nel tempo, sia a seguito di leggi positive, come sarà per la funzione dell’autorictas senatoria, sia anche per gli equilibri concreti tra gli organi. Sovente si tratta di principi incorporati nel complesso edificio istituzionale, addirittura privi di una loro formale evidenza, finché un comportamento o una norma di diritto positivo sembri intaccarne l’esistenza: solo allora se ne coglie l’esistenza. È la violazione che evidenzia e conseguentemente parrebbe creare la norma stessa. Questa non conoscibilità a priori, a sua volta, è il risultato di un certo modo di essere di un determinato sistema, quello romano. Per questo non era neppure concepibile l’esistenza di un organo specificamente competente a valutarne la possibile violazione. In effetti, a ben vedere, questo aspetto indeterminato è un carattere di fondo dell’esperienza giuridica romana. La stessa costruzione del sistema dei diritti privati, il lascito più importante del sapere giuridico romano, presenta una caratteristica tendenza al non compiuto, al mai definitivamente stabilito, una volta per tutte. La portata effettiva delle norme e delle regole consuetudinarie, il funzionamento dei singoli istituti e il sistema di relazioni tra di essi non trovano mai una rigida definizione. Essi costituiscono il risultato di un processo dialettico in continuo divenire, caratterizzato da quel margine di variabilità e di incertezza che esprime anche la creatività e l’elasticità del sistema. La stessa indeterminatezza dell’ordinamento romano si presta quindi a varie interpretazioni e a varie sollecitazioni in senso diverso e talora opposto. Trasformazioni che permisero a Roma di far fronte a situazioni assolutamente nuove. CAPITOLO SESTO : LA STRADA PER L’EGEMONIA REPUBBLICANA. 1. Cittadini e stranieri. Indipendentemente dalla discussione circa la verità storica di alcune delle conquiste attribuite in quel periodo a Roma, va comunque ricordato come il suo territorio, in origine non superiore al centinaio di chilometri quadrati, verso la fine del VI secolo a.C. fosse aumentato di circa otto e nove volte. Né meno formidabile e rapido era stato l’incremento della popolazione cittadina, accelerato dall’assorbimento delle minori comunità investite dalla sua espansione. Vi è anche un’altra conseguenza però derivante da tale consolidamento e dalla conseguente politica di potenza così ingenerata: l’accentuarsi dei caratteri di separatezza tra la comunità cittadina e ciò che ne è fuori, cioè tra romani e stranieri. Qui però occorre chiarire in via preliminare un aspetto che parrebbe caratterizzare la fisionomia delle antiche città, sia in Grecia che in ambito italico. In esse infatti era presente una concezione del diritto abbastanza diversa da quella che caratterizza gli ordinamenti statali moderni. A eccezione dei diritti politici, riservati ovviamente ai propri cittadini, vige infatti in questi ultimi il cd. principio della territorialità del diritto. Il diritto dello stato si applica cioè a tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Costoro dovranno rispettare le leggi civili e penali dello stato ospitante e automaticamente riceveranno una tutela analoga a quella dei suoi cittadini, in una condizione di sostanziale eguaglianza. Nel mondo antico e particolarmente nel complesso passaggio delle poleis greco italiche, tendeva a prevalere un criterio opposto, fondato sulla personalità del diritto. Allorché si fosse trovato nell’ambito di un’altra comunità politica, ogni individuo sarebbe stato estraneo al diritto proprio di essa, non avendo quindi la facoltà di utilizzarlo, e chiedere la protezione legale di cui fruivano i cittadini di quest’ultima. Già in età molto risalente, si sperimentarono nuovi e più giuridici meccanismi per assicurare tutela adeguata ai membri delle varie comunità interessate. Uno dei primi strumenti fu la concessione a un singolo o a un gruppo di stranieri dell’hospitium da parte di privati o della città, senza che ciò postulasse un accordo con la città di questi stranieri. Le radici di tale istituto, l’ospitalità, risalgono alle forme di circolazione gentilizia. In origine era il modo in cui si formalizzava la protezione che potenti clan privati assicuravano ai loro amici di altre comunità, una forma di protezione dentro il proprio ordinamento. Tra chi aveva concesso l’hospitium e il beneficiario di quest’ultimo intercorreva un vero e proprio vincolo volto ad assicurare la tutela dello straniero. Accanto a questo hospitium privato, intervenne anche un hospitium pubblico concesso dalla città stessa ad alcuni stranieri che permetteva a essi di rivolgersi ai tribunali locali per pretendere protezione legale. Questi casi di hospitium pubblico, senza l’intermediazione di privati cittadini, divennero sempre più numerosi con il rafforzarsi delle strutture cittadine. Lo strumento generalizzato nel mondo delle poleis per sopperire alle esigenze di tutela dei propri cittadini all’estero fu però quello dei trattati internazionali. Essi furono utilizzati dai romani sin da epoca molto risalente, come attestano i numerosi riferimenti agli accordi intercorsi tra Roma e i suoi vicini già durante i re e confermato dalla precoce presenza dei feziali, espressamente preposti alla loro stipula. Tali accordi costituirono il fondamentale meccanismo per la costruzione di un tessuto entro cui la città stessa poteva sviluppare la sua azione. Solo in prosieguo di tempo e a seguito di nuova e più vasta articolazione del loro sistema giuridico, sia sotto il profilo giudiziario che dei connessi processi di concettualizzazione, i romani avrebbero realizzato un sistema generalizzato e sicuro di tutela degli stranieri, indipendentemente dall’esistenza di un trattato internazionale che li vincolasse a proteggere legalmente i cittadini della controparte. Ma allora, non a caso, il loro sguardo era ormai proiettato su tutto il bacino mediterraneo. È indubbio infatti che il campo privilegiato della primitiva esperienza romana di carattere internazionale, fosse l’area caratterizzata, sin dall’origine, da una comunanza etnico culturale e linguistica: l’antica Lazio. Si è dunque indotti a inserire gli echi delle complesse vicende cui si è fatto cenno in un quadro sostanzialmente unitario, che non è l’originario stato stirpe, ma la presenza di un persistenze sentimento di comunanza, il rafforzarsi di una consapevolezza etnica, il nomen latinum, che sin dall’inizio hanno agevolato i rapporti fra le varie comunità e le comunicazioni commerciali ed economiche tra di esse. Qui, soprattutto nell’ultima fase del re, Roma affermò la sua superiorità. La politica romana di incorporazione delle comunità minori era restata circoscritta essenzialmente alle popolazioni più omogenee, concludendosi comunque con la fine del periodo monarchico. Ma anche in quella fase le relazioni di Roma con il mondo latino si erano venute articolando anche attraverso la conclusione di molteplici foedera: veri e propri accordi internazionali. D’altra parte si è anche richiamato la duplice valenza delle leghe religiose e dei santuari comuni. Il significato politico di alcune di queste leghe religiose spiega la tendenza romana ad assorbire o comunque ad affermare un certo controllo su questi stessi culti. Così un momento assai importante dell’assunzione di un ruolo egemonico di Roma nel Lazio appare, nella prospettiva degli storici antichi, l’istituzione di un culto federale di Diana con la costruzione sull’Aventino di un apposito tempio da parte di Servio, in alternativa ad altri centri di culto su cui Roma non aveva una posizione di superiorità. Soprattutto nel caso delle colonie romane si trattò di insediamento relativamente ristretti, sovente con un organico non superiore a trecento coloni, che rispondevano a esigenze di carattere strategico. Sovente fondate in prossimità della costa marina, esse costituivano anzitutto dei presidi militari, come controllo delle comunicazioni, centri di difesa contro aggressioni esterne in aree pericolose o ostili. Tali funzioni spiegano perché i cittadini fossero esentati dal servizio nelle legioni romane, assolvendo già in loco a una funzione militare. La facoltà della lega latina di fondare sue colonie fu effettivamente esercitata nel corso del primo secolo dell’alleanza. Tuttavia, a partire dagli inizi del IV secolo con il crescente predominio di Roma, essa di fatto si appropriò di tale potere, fondando autonomamente nuove colonie latine: ciò divenne anche formalmente sua esclusiva facoltà con lo scioglimento della lega nel 338 a.C. Nel corso del tempo la fondazione di colonie latine, da parte di Roma, oltre ad assicurare il controllo dei nuovi territori, servì a realizzare una politica demografica e indirettamente economica. Esse infatti assicurarono l’alleggerimento demografico della popolazione sovrabbondante, rendendo possibile il conseguimento di una sempre rinnovata redistribuzione di terre, a vantaggio soprattutto dei ceti meno abbienti di Roma e delle città a questa più strettamente collegate. Nuclei consistenti di popolazione si trasferirono in aree relativamente poco sfruttate, spesso solo di recente acquisite al dominio romano, favorendone le progressiva urbanizzazione. Fu una politica che divenne uno strumento formidabile per rafforzare e accelerare la romanizzazione di tutta l’Italia e in particolare di quelle aree di recente conquista che si prestavano a grandi investimenti agrari. Tra le colonie romane e le colonie latine sussistevano tuttavia fondamentali differenze: la prima e più evidente è costituita dalla loro diversa condizione giuridica. La colonia romana era un suo segmento organizzativo, comprendente un certo numero dei suoi cittadini che mantenevano lo statuto personale preesistente. La colonia latina era formalmente una comunità separata ed estranea a Roma, tanto che quei cittadini romani che avessero partecipato, come non era infrequente, alla sua fondazione, divenendone membri, perdevano la loro cittadinanza di origine, acquistando la condizione giuridica di latini. La fondazione di nuova colonia avveniva in genere sulla base di una delibera del senato e dell’approvazione dei comizi che stabilivano anche i magistrati incaricati delle procedure necessarie per la sua istituzione, dando istruzioni per l’emanazione dello statuto che avrebbe regolato, con una lex data, la vita e l’organizzazione interna. Un importante elemento connesso alla fondazione della colonia è costituito dal particolare assetto del territorio a essa assegnato. Sin dal IV secolo, infatti, venne adottato dai romani un sistema di divisione dell’area della colonia in parcelle regolari e tutte della stessa misura. Sotto la guida dei magistrati incaricati delle operazioni di fondazione della colonia, appositi tecnici, gli agrimensori, avendo identificato un punto centrale, tracciavano due linee perpendicolari che venivano a costituire gli assi centrali, chiamati cardo e decumano maggiore. In parallelo a distanza regolare venivano tracciare altre linee rette che si incrociavano pertanto ad angolo retto, costituendo al loro interno tanti quadrangoli regolari: le centurie. Secondo lo schema tipico la centuria consisterebbe in un’area di duecento iugeri equivalente appunto ai cento heredia romulei. Da questo numero ideale parrebbe derivare quindi il suo nome. In Italia queste linee di divisione, cardi e decumani, chiamati dagli agrimensori anche limites, confini, avevano una certa larghezza in modo da costituire vere e proprie strade rurali. Questa pratica ha un fondamento nelle più antiche tradizioni religiose del mondo romano italico, collegandosi alle autoctone concezioni dello spazio come elemento di un universo religioso. Il documento più importante è data dalla persistenza in tutto l’ambito dell’impero delle tracce di questa colossale manipolazione territoriale. E ancora oggi, in molte città, soprattutto nelle aree pianeggianti dell’Italia del Nord, il reticolo urbano che si incrocia ad angolo retto perpetua le antiche divisioni coloniarie. Attualmente in vari territori europei e nordafricani gli archeologi rintracciano sempre più numerose sopravvenienze delle antiche forme di divisione del territorio agrario. 3. La svolta del 338 a.C. e i nuovi statuti giuridici di Roma. L’espansionismo romano solo in parte è stato il frutto di fattori meramente militari, fondandosi piuttosto su una non sempre più articolata politica di cui la regia restò essenzialmente nelle mani del senato. Qui però interessa sottolineare un aspetto più tecnico che ne costituì un fondamentale supporto. Giacché è indubbio che il nuovo quadro istituzionale che si delineò sin da allora fu reso possibile proprio dall’accorta e innovativa utilizzazione delle logiche giuridiche elaborate dal collegio pontificale che ne era il depositario e messe a disposizione del ceto di governo romano. Sino alla metà del IV secolo Roma in effetti applicava in genere il criterio di multare le popolazioni sconfitte e sottomesse sottraendo a esse una parte del loro antico territorio. I nuovi territori così acquisiti, da una parte, restavano nella disponibilità dello stato cittadino e costituivano il demanio di ager publicus, lasciato in varie forme allo sfruttamento dei privati solitamente dietro pagamento di un canone, dall’altra, furono ridistribuiti in proprietà privata ai cittadini romani, sia nelle forme di terre assegnate individualmente, sia mediante la fondazione di colonie. Ne era conseguito l’incremento numerico delle tribù territoriali e indirettamente una naturale espansione demografica, ma nulla più. Diversamente che alle origini, le popolazioni delle città vinte non erano state assorbite all’interno della civitas romana: erano rimaste piuttosto come entità più o meno subalterne, sovente vincolate formalmente da trattati di alleanza diseguali imposti da Roma. Si trattava in fondo di una politica abbastanza generalizzata, nel mondo delle poleis greco italiche ma che ne aveva segnato un forte limite, che si può cogliere in modo particolarmente evidente proprio nelle vicende dello città greche, il cui espansionismo non riuscì quasi mai a superare la radicale separatezza tra la città egemone e le comunità subalterne. La drastica soluzione adottata da Roma per Veio, se pur giustificata dalla durate e dalla violenza dello scontro, appare abbastanza rozza. Ma fu un’impreparazione presto colmata: pochi anni dopo essa avrebbe mostrato una ben superiore capacità di governo delle molteplici comunità su cui, anche fuori del Lazio, si sarebbe estesa la sua egemonia, comprese le ricche città campane. Una capacità di cui colpisce la ricchezza e la varietà delle soluzioni di volta in volta adottate, secondo una logica singolare, che da un lato esaltava, dall’altro in qualche modo trascendeva la dimensione propria della città stato che la costituzione del 367 aveva appena completato. Il Foedus Cassianum, durato per circa un secolo e mezzo, era venuto definitivamente meno nel 338. Allora infatti un’ultima e più pericolosa defezione dei latini dall’alleanza si era conclusa con la definitiva vittoria militare dei romani. Il senato di Roma ridefinì allora, in modo affatto unilaterale, la situazione giuridica di ciascuna delle città vinte. Il carattere di questa delibera, anche se per diverse di esse lasciava sostanzialmente immutata la loro preesistente condizione, esprimeva la piena e definitiva assunzione, da parte di Roma, di un potere sovrano su tutte le antiche città della lega. Tuttavia esse continuarono a godere, sino alle radicali trasformazioni intervenute con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli italici, nel corso del I secolo, di un’autonomia organizzativa interna non diversa da quella che avevano come stati sovrani prima del 338. Lo dimostra bene un altro particolare provvedimento assunto in quel contesto dal senato: l’interruzione di ogni vincolo giuridico e istituzionale intercorrente tra le varie città laziali che proprio il Foedus Cassianum invece presupponeva. Per tutte costoro infatti i romani concilia commerciaque inter se ademerent: unilateralmente bloccarono tutti i rapporti giuridici e istituzionali tra queste città, evidentemente onde ostacolare qualsiasi ulteriore solidarietà che potesse nuovamente sfociare in un’alleanza antiromana. Almeno a partire da quel momento, la vecchia nozione della città sovrana, in cui il diritto della comunità e lo statuto politico si identificavano, era venuta meno. Roma si stava avviando a divenire un’entità politica nuova a cui facevano capo, in forma politicamente affatto subalterna, sia le città incorporate, pur gratificate di una vasta autonomia interna semisovrane, che i vari tipi di colonie. L’ordinamento romano fondato tuttora su una struttura politica affatto cittadina disponeva di una pluralità di statuti giuridici personali la cui convergenza unitaria appariva in sostanziale contrasto con il carattere proprio di ciò che, molto approssimativamente, si intende per città stato. Il che contribuì a dare a Roma una fisionomia affatto particolare e inedita. L’organizzazione di governo e l’assetto istituzionale di questi nuovi municipi è stato reso gradualmente omogeneo con la presenza di magistrature uniformi e di senati locali (l’ordine dei decurioni). Chiara l’azione di orientamento in tal senso di Roma, che appare ancora più evidente nell’imposizione da essa effettuata di una superiore autorità comune preposta ad amministrare la giustizia. Si tratta dei prefetti, magistrati delegati dal pretore, aventi competenze per aree territoriali e gruppi di popolazioni più o meni ampi. Questo meccanismo fu sperimentato con i praefecti Capuam Cumas. La loro giurisdizione concerneva le questioni di maggiore rilevanza economica, che, in genere riguardavano le elites locali, più accentuatamente romanizzate, mentre è probabile che i magistrati originari delle singole città avessero conservato una competenza per le questioni di minor momento. Anche se ci si trova di fronte ad una realtà quanto mai fluttuante. Nella progressiva penetrazione politico istituzionale di Roma in tutto il territorio della penisola e nelle forme organizzative adottate per le popolazioni sottoposte, costante fu il riferimento al modello cittadino. Anche quando la vera e propria sovranità fu avocata da quella che si può definire la città superiore rappresentata da Roma, si favorì la persistenza di una circoscritta individualità politica nei vari municipi e colonie. E questo lo si vede molto bene proprio nel caso in cui particolari motivi ispirarono una opposta politica, dove la massima sanzione irrogata a una comunità appare appunto la sua cancellazione come città, quasi la soppressione di un organismo vivente. Un vincolo che contribuì a limitare un’espansione accelerata del diritto romano era la sua insuperabile connessione con l’uso della lingua latina. Il carattere formalistico e orale del diritto romano, l’uso di parole e frasi predeterminate per porre in essere una serie di atti giuridicamente rilevanti, dalla trasmissione della proprietà alle forme primitive di contratto sino ai litigi processuali, escludeva che chi non sapesse parlare latino potesse accedere al diritto romano. Ora, i romani non solo non imponevano la loro lingua ai popoli sottoposti, ma escludevano addirittura che essi potessero usarla negli atti ufficiali, senza loro autorizzazione. Così i municipi sine suffragio continuarono per secoli a usare dei vari loro diritti come delle lingue autoctone solo molto lentamente subendo un processo di romanizzazione peraltro inarrestabile. Dovettero essere soprattutto le elites locali a intessere rapporti esterni, fruendo costantemente del diritto romano e portando avanti così, in forma semispontanea, il processo di romanizzazione delle loro istituzioni. Nel Lazio e nei territori immediatamente confinanti, questo statuto fu rapidamente trasformato nella piena cittadinanza romana comprensiva dei diritti politici. Laddove, insomma, sin dall’inizio sussisteva una forte omogeneità culturale, linguistica e, verosimilmente, giuridica che permise l’acquisizione rapida della piena cittadinanza romana senza gravi scosse. La misura del successo di tali processi è data dal fatto che, alla fine della repubblica, le tradizioni, le culture e i linguaggi italici erano ormai affatto tramontati, di fronte all’espansione dei modelli romano latini. Di qui la relativa facilità con cui si ebbe la definitiva espansione del diritto romano in tutta la penisola, almeno a partire dalla fine della guerra sociale, dopo la concessione della piena cittadinanza romana a tutti gli italici. Uno dei principali vantaggi conseguiti dai romani con tale organizzazione fu una rapidissima crescita degli organici cittadini. Già intorno al 330 a.C., dopo la grande sistemazione del Lazio e della Campania settentrionale, il blocco politico rappresentato da Roma, con le comunità incorporate e i suoi alleati dipendenti latino campani, raggiungeva gli 800mila abitanti in un territorio di circa 6000 kmq. Contemporaneamente nel 332 a.C. le tribù territoriali romane avevano raggiunto il numero di 29 sul totale di 35 che verrà raggiunto nel secolo successivo. Giacché, sia la grande villa schiavistica tardo repubblicana e imperiale sia la piccola proprietà contadina in organico rapporto con il sistema della centuriatio ripetono, sul territorio, gli schemi urbani e, attraverso la fitta viabilità rurale, appaiono direttamente connessi alla città e a essa funzionali. Questo panorama, da solo, non dà conto interamente della complessità del disegno strategico romano, rispetto alla penisola italica, a partire dagli ultimi decenni del IV secolo a.C. L’ampia estensione territoriale pienamente romanizzata di cui il sistema coloniario e quello municipale appaiono le strutture portanti presupponesse, sotto il profilo territoriale e degli assetti organizzativi, anche nuclei minori. E questo soprattutto nelle aree dove i processi di urbanizzazione erano più lenti o addirittura inconsistenti. Lì si ricordano dunque altre figure quali i fora, i conciliabula, i pagi e gli stessi villaggi (vici), quali località in cui popolazioni rurali venivano a incontrarsi in mercati stagionali, si saldavano in comuni luoghi di culti e distretti rurali aventi una loro identità amministrativa. Nel mentre che i suoi antichi alleati venivano assorbiti all’interno dell’ordinamento politico romano e regolati dal suo potere sovrano, una miriade di nuovi rapporti di alleanza venivano stretti dai romani con le varie popolazioni e comunità italiche, nel corso della loro rapida espansione. Il foedus, il trattato di alleanza, era stipulato tra soggetti sovrani, talora sancendo una loro formale subalternità politica, a favore di Roma (foedus iniquum), altre volte conservando invece il carattere formale, ma solo formale, di un’alleanza tra pari (foedus aequum). Il fatto che tra gli impegni reciproci assunti tra le parti vi fosse l’obbligo di aiutare l’alleato in caso di guerra era ed è la vera chiave di lettura di questi trattati. A Roma gli innumerevoli alleati italici dovevano quindi fornire supporto in termini di risorse materiali e di uomini. Così si moltiplicava la forza militare di Roma, per nuove conquiste, per nuove vittorie sancite da nuove alleanze subalterne. Anche il senato romano, nel definire la politica estera di Roma, si è costantemente impegnato a favorire e sostenere i gruppi aristocratici all’interno di ciascuna città alleata, a danno delle forze popolari e contro ogni spinta in senso democratico. In ciò si rifletteva anzitutto la tendenza intimamente conservatrice delle classi dirigenti romane. Ma dovevano giocare anche altri fattori: anzitutto la maggior facilità di controllare un ceto ristretto e interessato alla conservazione della legge e ordine e condizionato dai suoi stessi interessi economici, rispetto alle spinte meno calcolabili e tendenzialmente eversive di gruppi più estesi e più fortemente radicati alle loro radici autoctone. CAPITOLO SETTIMO : UN’ARISTOCRAZIA DI GOVERNO. 1. La nuova direzione politica patrizio plebea. Il compromesso patrizio plebeo del 367 a.C. aveva sanato un punto debole del precedente assetto aristocratico costituito dal suo esclusivismo. Il ruolo dell’antica aristocrazia gentilizia e la sua fisionomia guerriera sono ripresi appieno dalla nuova classe di governo della repubblica, la nobilitas patrizio plebea, formatasi a seguito dell’accesso plebeo alle magistrature superiori. Questo blocco sociale, capace di un costante anche se molto circoscritto rinnovamento, costruì e gestì, nel tempo, una sempre più complessa macchina istituzionale. Fu esso a guidare la più straordinaria e duratura storia di successo del mondo antico, realizzata con un esemplare impasto di abilità politica e diplomatica, di brutalità e competenza militare, di sapienza istituzionale e di governo. Una storia dove vecchio e nuovo si saldano felicemente. In teoria, ciascun cittadino che fosse nato da padre libero, ingenuus, poteva aspirare ad una carica magistratuale. Ma nei fatti questa carriera era aperta a pochi e in genere predeterminati individui appartenenti a un ristretto gruppo sociale. Era aperta a chi appartenesse alla non molto numerosa aristocrazia di sangue: ai patrizi. Era aperta anche ad altri, ma in che modo? Nell’antichità classica, ma soprattutto in Roma, il buon cittadino, l’individuo che dà il suo contributo alla vita della città è anzitutto un potenziale soldato. È altresì una persona che partecipa attivamente alla vita politica cittadina: il sostenimento suo e della famiglia è ricavato in genere da una proprietà fondiaria lavorata da altri soggetti. Per questo solo il giovane appartenente ad una famiglia di buoni proprietari fondiari poteva pensare ad una sua ascesa politica, condizione per il suo inserimento nella nobilitas patrizio plebea. Ma occorreva anche che egli godesse di amicizie e protezioni altolocate: la prima condizione per il suo successo era infatti distinguersi nel corso degli anni di servizio militare. Un servizio militare prolungato: non meno di dieci anni dovevano passare in tale condizione, prima che il cittadino, lasciate le armi, potesse presentarsi ad una candidatura. Ovviamente una condizione del genere tagliava fuori da ogni possibile aspirazione tutti coloro che dovevano vivere del loro lavoro, la gente minuta. Di qui le tradizioni politiche note, come l’orientamento conservatore dei Fabi, sin dai tempi più antichi, legato ai valori agrari e cauto verso le nuove politiche imperialistiche, di contro il carattere avventuroso e capace di grandi aperture innovative dei Claudi. La storia di queste famiglie serve a educare le nuove generazioni e a orientarle, non meno di quanto gli interessi del presente inducessero poi queste ultime a riscrivere la loro stessa storia familiare. Uno strumento fondamentale di questa persistente forma gerarchica e dei ruoli delineati è rappresentato dalla clientela che costituisce un tipo di relazione straordinariamente diffuso nell’antichità anche fuori di Roma. Non si tratta più di clientela arcaica, dipendente dalle grandi signorie patrizie ormai scomparsa, ma di un reticolo di alleanze e di rapporti di dipendenza di natura più complessa. Che corrisponde anzitutto ad un sistema di ruoli. Intorno alle grandi famiglie e con riferimento alle personalità più eminenti tra i vari patres, si venne costruendo così un reticolo di forme di lealtà subalterna destinate a riflettersi anche nel momento elettorale, a sostegno delle ambizioni e dei disegni dei grandi. È in questo quadro di relazioni reciproche di scambio che si inseriscono anche le carriere degli uomini nuovi. Molti di essi infatti, lungi dal farsi da soli, fruirono di legami di protezione forniti loro dai vari gruppi nobiliari per muovere i primi passi della loro carriera. Quanto fosse importante lo schema clientelare a Roma, lo prova il fatto che questo sistema di relazioni squilibrate non restò circoscritto solo ai rapporti sociali e politici cittadini. Su una logica non dissimile, infatti, si fondò il tipo di relazioni funzionali alla costruzione dell’egemonia di Roma. Quando un magistrato romano, con la sua vittoria militare, aveva ottenuto la resa di una città o di una popolazione, con il conseguente assoggettamento politico, egli ne assumeva la protezione. Anzitutto facendosi intermediario tra gli interessi di questa comunità e il supremo volere del senato, cercando di ottenere da questo la sanzione definitiva dei provvedimenti da lui assunti nell’affermare la signoria romana e divenendo poi il referente costante per ogni richiesta che tale popolazione dovesse fare ai Romani. Protezione politica dunque a fronte di un continuo supporto materiale, di ogni tipo, a favore del patrono. E in seguito ciò varrà per intere province. Si creò così un singolare sistema di legami di dipendenza semi privati, tuttavia con una forte rilevanza politico sociale, che integravano e, in qualche modo, ammortizzavano l’impersonalità dei meri assetti giuridici dati da Roma al mondo provinciale. 2. Gli sviluppi sociali tra IV e III secolo a.C. Negli anni della spinta espansionistica che prese consistenza nella politica romana a partire dalla seconda metà del IV secolo, rivestono un ruolo importante le leggi Licinie Sestie. In quegli anni l’espansione territoriale romana si era consolidata in una vasta unità regionale che rappresentava uno dei territori più ricchi e più adatti allo sfruttamento agrario dell’intera Italia centrale. Immediatamente di seguito avrebbe avuto inizio l’espansione verso le ricche pianure campane. In questa fase, i latini avevano cercato di sottrarvisi mediante una vera e propria insurrezione militare. La loro sconfitta portò al definitivo assorbimento delle città dell’antica lega latina nell’ordinamento politico di questa città. Lo scorcio del secolo fu soprattutto dominato dal conflitto con la popolazione militarmente più forte esistente allora in Italia, situata sugli altipiani appenninici tra l’attuale Abruzzo, Molise, sino a lambire la Campania e la Lucania: i sanniti. Contro costoro la potente organizzazione militare romana subì un ulteriore formidabile collaudo i cui risultati si poterono apprezzare immediatamente dopo, quando Roma fu in grado di resistere all’esercito di Pirro, chiamato a soccorso dall’ultima città della penisola italica ancora indipendente, Taranto. La tradizione militare macedone, e di cui lo stesso Pirro era un importante rappresentante, non riuscì a prevalere sulle legioni romane. Fu l’ultimo ostacolo che si frapponeva ancora alla completa acquisizione dell’intero mezzogiorno. Questa ininterrotta e felice politica espansionistica comportò un parallelo processo di crescita economica, incrementato dai bottini ricavati dalle ricche città della magna Grecia e dalle ulteriori acquisizioni territoriali. Forse i romani del IV secolo non avevano ancora pienamente conosciuto la ricchezza, ma già allora la precedente stratificazione sociale aveva dovuto subire significativi mutamenti. Anzitutto per la saldatura degli strati superiori della plebe con le famiglie patrizie che non fu solo politica. Da sempre l’organizzazione statale romana si è venuta strutturando in un insieme di attività tutte o quasi di carattere gratuito: il vir bonus, il cittadino virtuoso dell’ideologia romana è colui che dedica i suoi sforzi a servire la patria, prima come guerriero, poi nella vita politica della città. La gratuità di tale impegno e delle cariche politiche presupponeva una selezione tra aspiranti in possesso di adeguati mezzi economici. Tale meccanismo favoriva il sostanziale monopolio delle cariche magistratuali da parte di una nobilitas relativamente ristretta, con il conseguente accumularsi di tradizioni e di competenze funzionali a tali ruoli. Un effetto collaterale di questa connotazione aristocratica è costituito dal mancato sviluppo di un ceto qualificato di amministratori e burocrati, pur essendo l’apparato statale chiamato a far fronte a esigenze sempre più complesse. Non è un caso infatti che tutta la sempre più complessa organizzazione dell’apparato statale si fondasse su una struttura molto leggera. Tuttavia nuove e molteplici esigenze e funzioni si imponevano a una macchina politico amministrativa che iniziava ad avere un’importanza almeno regionale. Non sempre si è tenuto conto in modo adeguato del risvolto organizzativo ed economico finanziario che il sempre maggiore impegno militare romano comportava. L’armamento degli eserciti, il loro approvvigionamento, in un ambito territoriale oramai a vasto raggio, postulavano anch’essi quadri organizzativi e operativi dotati di competenze sempre più sofisticate e con crescenti risorse economiche. La risposta fu allora quella di scaricare tali funzioni all’esterno delle stesse strutture istituzionali della città. Gran parte degli aspetti significativi della vita finanziaria e della gestione delle ricchezze e delle attività di interesse statale si realizzarono appaltando a privati imprenditori le attività a ciò necessarie e lasciando a questi tutti i vantaggi economici delle intermediazioni così richieste. Così lo sfruttamento delle terre pubbliche fu affidato ai privati, secondo modalità e con regimi abbastanza differenziati, ma in genere a fronte del pagamento di un canone periodico. Gran parte di tali terre non veniva però direttamente assegnata alla miriade di coltivatori e di allevatori interessati al loro sfruttamento, ma concessa a grandi mediatori, in grado di pagare le elevate somme richieste dai magistrati romani per aree assai ampie. Questi poi suddividevano tali estensioni di ager publicus tra tutti i piccoli agricoltori interessati, lucrando la differenza, sovente assai elevata, tra la cifra globale da loro versata alle casse di Roma e i canoni percepiti dai sub conduttori. Il guadagno di Roma era minore, ma si evitava tutto il lavoro e le funzioni di controllo che la ripartizione delle terre pubbliche tra una molteplicità di coltivatori e allevatori avrebbe comportato e i costi a ciò connessi. Un meccanismo non diverso riguardava anche le riscossioni tributarie, nelle province, gestite anch’esse attraverso appalti ai privati che si facevano carico di tale incombenza per conto di Roma, lucrando anche qui la differenza tra il percepito e quanto dovuto a essa. Ma non meno importante appare lo sviluppo delle opere pubbliche. La grande rete stradale che ebbe inizio con la via Appia, alla fine del IV secolo, la costruzione dei primi acquedotti pubblici destinati a trasformare le condizioni materiali della città e la crescita degli edifici pubblici e dei templi, più tardi lo sviluppo delle grandi terme pubbliche, comportarono un crescente livello di investimenti e di opere. Anche questo settore si fondò su una delega alla gestione privata attraverso il consueto sistema degli appalti. Lo stesso sistema si applicò per l’organizzazione del vettovagliamento e delle strutture logistiche a sostegno di eserciti impegnati sempre più a lungo e in territori sempre più lontani da Roma. Tutto ciò fu possibile grazie alla precoce affermazione di un gruppo sociale relativamente articolato, distinto dalla nobiltà delle cariche, tutta orientata al governo della politica e agli impegni militari. Si trattava di individui provenienti dagli strati più ricchi della popolazione: quelli che fornivano all’esercito i cavalieri, gli equites, in grado di provvedere a loro spese alla costosa cavalcatura. Questo è punto abbastanza trascurato dagli studiosi moderni: come se fosse ovvio e naturale quell’improvviso capovolgimento logico che dall’esclusivismo proprio della città antica fece scaturire il suo opposto, la moltiplicazione della città stessa in tanti micro doppioni, i municipi. E che poi svuotò l’essenza stessa della civitas introducendo la cittadinanza dimezzata: la civitas sine suffragio. Chi fu il magistrato o il senatore a imporre questi marchingegni, o il pontefice che lo consigliò non si sa: si conosce solo il singolare seguito di questa storia. Si trattava anche di far fronte al rapido accrescersi di nuove esigenze nel campo dei rapporti privatistici. Qui infatti al diritto delle persone e alla disciplina dei rapporti familiari e successori, si era venuto sostituendo l’insieme dei rapporti negoziali, funzionali a un’accresciuta circolazione di beni. Chiamato a mediare e orientare questi processi, il vecchio consesso pontificale rischiava di non essere più adeguato rispetto alla loro dimensione quantitativa e alla complessità ingenerate dall’accentuato processo evolutivo della società romana. È possibile che in effetti, di fronte a una posizione che poteva divenire di freno di costoro, il pretore da solo non fosse in grado di gestire e governare la trasformazione. Ed è egualmente ipotizzabile che tutto ciò, insieme alle ancora latenti tensioni tra gli ordini, potesse ingenerare un malessere proprio tra coloro che alla crescita erano più interessati e avevano necessità di forme giuridiche adeguate, soprattutto di un accesso a esse facilitato e semplificato. Certo è solo un’ipotesi ma permette di inquadrare la spinta innovatrice di Appio e del suo scriba all’interno di una logica coerente. Si potrebbe dunque interpretare l’opera riformatrice di Claudio come destinata a ridisegnare ruoli e funzioni di governo all’interno del preesistente blocco sociale. In modo più o meno consapevole, le sue aperture avviavano il superamento dei tempi morti e del lento filtraggio tipici dei un collegio chiuso, con le sue logiche di corporazione, indipendentemente dalla sua stessa composizione sociale, come erano i pontefici. Esse tendevano piuttosto ad avviare e ampliare un mercato di giuristi. Era un mercato controllato da una logica generale di tipo gerarchico, tale da escludere in partenza qualsiasi forma generalizzata di eguaglianza, secondo gli schemi delle democrazie antiche o moderne. Lo stesso censore era competente nel campo del diritto sino a essere autore di opere giuridiche. La notizia esprime una verità nascosta: che è appunto il fatto che il ceto di governo romano, agli inizi della sua grande avventura imperiale, si impadronisse del diretto controllo del diritto, più o meno consapevole dell’enorme valore di esso. Semmai colpisce la precoce comprensione di come la politica e le forme dell’organizzazione fossero altrettanto essenziali di quanto non fosse la forza delle armi. Il ruolo di un aristocratico innovatore come Appio e sessant’anni dopo di un esponente plebeo come Tiberio Coruncanio devono inoltre far riflettere sulla coerenza della spinta modernizzatrice del nuovo blocco patrizio plebeo. La fine del monopolio pontificale infatti segna anche l’essicarsi definitivo di ogni potenziale alternativa consistente in una gestione di tali saperi da parte di un corpo separato di sacerdoti, ciò che in effetti era invece avvenuto in molte altre società antiche. Il processo avviato da Claudio non modificava i rapporti sociali esistenti. La conoscenza e quindi la gestione del diritto restò saldamente nelle mani di quella nobilitas chiamata a regolare e dirigere la vita sociale e politica della città. E qui si realizzò una singolare selezione per cui il comune accesso alla conoscenza contribuì a ridefinire una gerarchia fondata da un lato sull’autorità sociale e dall’altro sul personale prestigio e competenza, acquisito in concorrenza con i propri pari. La forza dell’oligarchia romana, ciò che ne ha legittimato il ruolo di governo nel tempo, sta nella sua capacità di raccogliere tutta la forza innovatrice e ammodernatrice dell’operazione di Claudio e dei suoi epigoni. Questo è il senso del passaggio dalla giurisprudenza pontificale a quella cd. laica, allorché la nobilitas repubblicana cessò ogni delega a un corpo selezionato quali i pontefici, assumendo la diretta gestione di questo delicato settore del sapere. 4. Le regole di un’oligarchia. La maggior parte delle leggi votate nei comizi servirono dunque a perfezionare e a contemplare l’edificio già esistente. Ma ancora più laboriosa e mai compiuta in un disegno definitivo fu la disciplina dei vari organi costitutivi della repubblica. Lungi dal consistere in un blocco uniforme in cui un insieme di meccanismi istituzionali ha continuato a funzionare secondo le logiche e nella forma predeterminata una volta per tutte, il disegno si è venuto continuamente modificando nel corso di tutta l’età repubblicana, anche con riforme di notevole importanza. Per il senato si definirono in modo più rigido i criteri di selezione dei nuovi membri, sottraendoli all’arbitrio e all’incertezza delle scelte autoritative dei magistrati. Particolarmente rilevante fu l’intervento legislativo nei riguardi dei comizi. Qui si provvide a modificare la stessa composizione delle unità di voto, intervenendo sul numero delle centurie, nonché sull’ordine che presiedeva alla loro consultazione nei comizi. Le votazioni non furono contemporanee per tutti i distretti di voto. Infine nuove norme intervennero più volte, non solo a modificare quest’ordine di voto, ma anche a ridefinire il rapporto tra le centurie stesse e il fondamentale sistema di distribuzione della popolazione per tribù territoriali. Non sempre di queste modifiche e dei criteri adottati si riesce a farsi un’idea chiara in base alle notizie degli antichi. Più sicuri si è sul tipo di innovazioni relative al contenuto delle varie magistrature e al modificarsi delle loro originarie competenze e poteri e allo stesso percorso stabilito per il cursus honorum del cittadino. Esse appaiono costantemente ispirate alla salvaguardia delle natura oligarchica della repubblica. Si trattava pertanto di evitare che la compattezza dell’aristocrazia di governo, fondata su una logica essenzialmente paritaria, fosse intaccata dal prevalere di singole personalità politiche troppo forti, che avrebbero potuto squilibrare il sistema affermando un potere personale. Se dunque il relativo ritardo con cui il giovane romano poteva entrare nell’agone politico evidenzia un generico favore per la maturità, se non l’anzianità, diverse sono poi le regole che governavano il successivo percorso. I due principi della non duplicabilità delle cariche e gli intervalli di tempo stabiliti tra la scadenza da una data magistratura e la possibilità di presentarsi alle elezioni per una magistratura superiore erano entrambi finalizzati a evitare il concentrarsi di troppo potere, e in un periodo troppo ristretto, nella stessa persona. E proprio nel momento in cui il massimo sforzo militare romano nella seconda metà del III secolo aveva impedito il rispetto di queste regole, maturò la preoccupazione di riaffermarle: le lex Villia annalis del 180 a.C. ribadì, con l’età minima per l’accesso alle cariche pubbliche, derivata dall’obbligo dei preliminari dieci anni di servizio militare, l’intervallo di due anni tra l’una carica e la successiva. In età ciceroniana l’età per accedere all’edilità curule era di 37 anni, 40 per la pretura, 43 per il consolato, mentre derivava verosimilmente dall’intervento di Silla il criterio dei 31 anni per la nomina a questore. Tutta la storia della repubblica è stata caratterizzata dalla presenza di fortissime personalità politiche che sembrano dare una fisionomia particolare a certi periodi di tempo, a certe fasi storiche, ma essi non giunsero mai a creare squilibri permanenti tra i poteri e gli organi della repubblica. CAPITOLO OTTAVO : L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO ROMANO E GLI SVILUPPI DELLA SCIENZA GIURIDICA. 1. I giuristi e il diritto privato. Il fondamento del ius civile romano è da identificarsi nei mores e nella legge delle XII tavole. Ma nella concreta applicazione di questo corpo vetusto di regole è stato a lungo determinante il ruolo assolto dal collegio pontificale. Assai più tardi, in età imperiale, i giuristi teorizzeranno la complessa fisionomia di quel diritto da essi studiato e straordinariamente sviluppato. Gaio affermò che il diritto del popolo romano consiste nelle leggi, nei plebisciti, nei senatoconsulti, nelle costituzioni imperiali, negli editti di coloro che hanno il ius edicendi e infine nei pareti degli esperti, i cd. responsa prudentium. Alla sua epoca, in effetti, il substrato consuetudinario del diritto romano era ormai da secoli totalmente assorbito all’interno del valore fondante delle XII tavole, per eccellenza le leggi della città, e dell’interpretatio dei giuristi. È attraverso il lavoro di riflessione e delle opere della giurisprudenza che si trasmetterà la conoscenza del diritto cittadino, il ius civile. Enorme rilievo in questa vicenda fu costituito dal passaggio da un sapere monopolizzato da un gruppo chiuso di specialisti, i pontefici, a una elaborazione svolta in un contesto diverso e più moderno. Ciò avvenne tra la fine del III e i primi decenni del II secolo, con le prime generazioni dei giuristi laici. All’antico carattere sapienziale e autoritativo della tradizione pontificale si sostituì un più avanzato livello di razionalità, con il costante controllo dei procedimenti Autorevolezza determinata essenzialmente dal consenso degli altri giuristi e dall’opinione pubblica, secondo una logica destinata a persistere per tutta la restante età repubblicana e durante il principato. In tal modo sussistevano margini relativamente ampi di incertezza circa le soluzioni di ciascun caso pratico e conseguentemente circa i criteri di comportamento che doveva assumere il cittadino sia in ordine a possibili accordi e nuovi affari giuridici, sia intorno alla legittimità di una pretesa avanzata da lui o contro di lui, sia intorno alla sfera di poteri che i vari diritti di sua pertinenza gli potevano assicurare. In verità ciascuno doveva orientarsi rispetto ad un insieme di opinioni, talora piuttosto contraddittorie e quasi mai uniformi, sostenute dai giuristi in relazione alle varie questioni loro sottoposte. Ma questo è appunto il carattere controverso del diritto romano identificabile in un corpo di soluzioni adottate dai vari giuristi, in relazione ad un’infinità di casi, e nel corso di più generazioni. Un’idea semplificata di certezza veniva così sacrificata a favore di una dialettica in incessante sviluppo. Questo accentuò il prestigio dei giureconsulti, fondato sulla loro continua attenzione alla coerenza logica delle soluzioni adottate rispetto alle premesse, sul rigoroso rapporto tra la regola astratta e la portata precisa del caso da risolvere e soprattutto sull’ininterrotta verifica dei risultati di volta in volta conseguiti. Un meccanismo del genere si sviluppò essenzialmente sotto lo stimolo di nuovi casi continuamente sottoposti all’attenzione e alla valutazione dei giuristi. Questi, a loro volta, furono poi da essi utilizzati in via autonoma come palestra per le nuove elaborazioni. Questo modo di lavorare riguardava essenzialmente problemi specifici, impegnandosi raramente in enunciazioni di carattere generale sulla base di presupposti teorici esplicitamente individuati. Sin dalla prima metà di questa nuova fioritura scientifica si possono cogliere gli indizi di una forza creativa che, probabilmente, non era stata così evidente, forse neppure così presente, nella fase precedente. Le prime generazioni di giuristi laici vennero a creare, con la loro riflessione, nuovi istituti del diritto civile, nuove categorie di diritti e nuove relazioni, completamente al di fuori di ogni normativa legale e assolutamente estranei all’insieme di regole introdotte dalle XII tavole. Ancora più innovativo appare il riconoscimento intervenuto, sulla base di un formidabile sforzo teorico, con la netta distinzione della nozione del possesso da quella del diritto corrispondente, la proprietà. Un’operazione che molte altre esperienze giuridiche non hanno mai realizzato appieno e che nel III secolo era già acquisita dai giuristi romani. Ma non meno importante fu l’attività interpretativa dispiegata nel campo degli illeciti extracontrattuali e successivamente il ruolo dei giuristi nella creazione dei contratti consensuali. Praticamente non vi è un campo in cui l’intervento dell’interpretazione della giurisprudenza laica non abbia innovato radicalmente, introducendo nuove regole e istituti fondati appunto su null’altra autorità che il proprio prestigio. Quando si parla di interpretazione dei giuristi romani, si usa un termine che, nel suo significato corrente, è ampiamente inadeguato a far cogliere appieno la forza creatrice di questo lavoro. Non tutti i pareri e le soluzioni già date e ricordate dalla ristretta cerchia di giuristi erano di egual valore e avevano un analogo peso nell’orientare privati, magistrati e giudici nella pratica legale. Giacché il parere dell’uno pesava più che quello dell’altro giurista, la soluzione proposta da quello si imponeva non solo per la sua intrinseca validità, ma anche per l’indefinibile e impalpabile, ma efficace, autorità del suo autore. Come in tutte le aristocrazie era un mondo di pari quello dei giuristi, ma proprio per questo, quanto più indefinita era la dimensione dell’autorità intellettuale che disegnava e ridisegnava in continuazione gerarchie e spazi di influenza, tanto più incisivo era l’effetto di questa autorità. Si primeggiava perché si era legittimati solo e esclusivamente dai membri di questo gruppo ristretto, auto selezionato e volontariamente coeso. E più il procedimento seguito dall’uno dava luogo a risultati utili e convincenti, più le sue successive soluzioni finivano con l’essere recepite per la mera autorità già conseguita, non di rado senza che di esse si rendessero esplicite neppure le giustificazioni razionali che pur le avevano ispirate. 2. Il pretore e l’innovazione del processo civile romano. Sin dalla sua istituzione, il pretore era caratterizzato da una forte autonomia rispetto all’ordinamento esistente. Per diverso tempo si era posto un serie limite a questo processo innovativo: esso era rappresentato dalla rigidità e dal formalismo dell’antico processo romano per legis actiones. L’esistenza di circoscritti e predeterminati schemi verbali con cui si dovevano esprimere le pretese processuali bloccava l’ampliamento delle possibili pretese dei litiganti a situazioni non previste dalle forme arcaiche. Non si deve dimenticare che, almeno fino alla seconda metà del III secolo, egli aveva continuato ad avvalersi della consulenza dei pontefici. Per questo, la perdita dell’antico monopolio pontificale nella conoscenza e nella elaborazione del diritto, affermando un sapere giuridico più aperto dovette favorire il ruolo innovatore del pretore. Gli furono infatti forniti allora gli strumenti concettuali per costruire nuovi meccanismi processuali in grado di adeguare le antiche forme legali alle nuove esigenze economico sociali e a più progrediti valori di equità. I limiti e le rigidità dell’antico processo civile vennero così progressivamente aggirati, sino alla definitiva obliterazione dell’antico sistema delle legis actiones. Era un rapporto stretto, questo, tra i pretori e il nuovo ceto dei giuristi, giacché anche nel caso non infrequente in cui codesti magistrati fossero privi di specifiche competenze nel campo del diritto, essi si avvalsero del loro consiglio ed assistenza. Del resto alcuni di questi giuristi dovettero assai di frequente far parte di quel consilium di cui il pretore si avvaleva. Era infatti essenzialmente il consenso dei principali giuristi intorno alla esistenza di un dato istituto e alla sua disciplina, a sancirne la legittimità. Così sono avvenute le grandi innovazioni e l’arricchimento di interi settori del diritto. Dal II secolo si imposero alcuni dei presupposti che contribuirono in modo determinante al superamento di tale situazione. Fu infatti in quella fase di straordinaria crescita politico militare, ma anche economica e culturale, di Roma che un numero sempre maggiore di stranieri, per i più diversi motivi, fu attratto in quella che ormai era divenuta una delle principali città del mediterraneo. La maggior parte di essi non era titolare del ius commercii con i romani, ma egualmente, nella sua vita quotidiana e nei suoi rapporti commerciali, necessitava di una protezione giuridica, che doveva comunque essere fornita al di fuori delle regole e delle forme del ius civile dal quale costoro erano esclusi e conseguentemente anche al di fuori degli schemi delle corrispondenti legis actiones. Ciò avvenne a opera del pretore, con procedimenti nuovi, fondati sul suo potere di iurisdictio, e investendo una serie sempre più ampia di questioni e litigi secondo criteri che potevano prescindere dagli schemi propri dello ius civile, ispirati a una logica più immediatamente equitativa, più semplici e accessibili a soggetti appartenenti a culture giuridiche diverse. L’importanza di tale nuovo settore della vita giuridica fu tale da rendere necessario, nel 242, la creazione accanto al vecchio pretore di un nuovo pretore che avesse competenza specifica sui litigi tra stranieri o tra stranieri e romani: il praetor peregrinus. Ciò a sua volta accentuò ulteriormente lo sviluppo di quelle forme di litigio sottratte alla logica delle legis actiones, a tutela di situazioni giuridiche nate dalla pratica commerciale e fondate sulla buona fede delle parti. Si trattava di un insieme di rapporti nuovi, estranei al formalismo dei negozi del diritto civile e a quelle strutture patriarcali che dominavano tuttora l’antico ius civile. Proprio in questo campo più rapidamente lo stesso pretore si è potuto svincolare dall’ipoteca dei pontefici, saldandosi invece alle prime esperienze della giurisprudenza laica. Questa procedura più semplice e priva di formalismi, dall’ambito originario di applicazione nei litigi con o tra peregrini, si estese ben presto anche ai rapporti tra romani, sempre più insofferenti degli arcaici e ormai inutili rituali. Verso la fine del III secolo erano maturi i tempi per una svolta ulteriore: ebbe allora inizio il generalizzato tramonto delle legis actiones. Tra la fine del terzo e la prima metà del II secolo fu gradualmente introdotto un nuovo tipo di processo. Esso è designato come il processo formulare perché fondato su formule, predeterminate in modo circostanziato, che il pretore rilasciava alla fine delle discussioni preliminari tra le parti, svoltesi davanti a lui, che riassumevano e chiarivano il contenuto preciso delle opposte pretese legali e fornivano al giudice i criteri da seguire nel decidere della controversia, accertando la verità materiale dei fatti addotti dalle parti. La struttura di queste formule e il loro contenuto prescrittivo potevano variare all’infinito. Fu questa singolare articolazione dei processi normativi a rendere possibile l’enorme e relativamente rapido sviluppo del sistema del diritto romano in funzione delle grandi trasformazioni economico sociali iniziate all’epoca delle guerre puniche. Oltre al pretore, anche altri magistrati aventi competenze giurisdizionali hanno emanato editti di un certo rilievo, anche se minore rispetto a quello pretorio, nell’evoluzione giuridica romana. Si tratta anzitutto degli edili curuli che erano preposti al controllo dei mercati cittadini e in quell’ambito titolari di una limitata giurisdizione. In secondo luogo, dei governatori provinciali chiamati ad amministrare la giustizia nelle loro province, e che nel loro editto fissavano i criteri cui si sarebbero attenuti nel corso della loro carica. A partire dal II secolo sono ormai evidenti due logiche parallele su cui si struttura l’intero ordinamento giuridico romano. Da una parte il diritto in senso stretto: le norme del diritto civile, esclusive dei cittadini romani. Dall’altra il diritto onorario, non meno efficace, ai fini pratici, delle regole del diritto civile, ma fondato esclusivamente sul potere magistratuale e illustrato dall’editto pretorio. Questa dicotomia resterà per tutto il corso della vita del diritto romano. È indubbio che essa avrebbe potuto ingenerare più di una difficoltà se, in concreto, tali processi non fossero stati governati in modo profondamente unitario dalla cooperazione tra magistratura giusdicente e scienza giuridica laica. In questa fase nuova infatti, se è ormai del tutto obliterato l’antico rapporto di dipendenza del pretore dal sapere autoritario ed esclusivo dei pontefici, il suo ruolo è nondimeno profondamente intrecciato al lavoro dei giuristi. È in questa oggettiva convergenza di funzioni che si è realizzato il punto di sutura tra i due sistemi del ius civile e del ius honorarium. Senza la sanzione processuale assicurata dal pretore l’interpretazione giurisprudenziale delle regole dello ius civile, elaborata dai giuristi difficilmente avrebbe portato alle profonde innovazioni effettivamente verificatesi. A lui infatti incombeva l’onere di concedere una formula processuale atta a recepire o a non escludere la soluzione del problema giuridico proposta dai giuristi. Costoro vennero anche operando nei riguardi del corpo normativo costituito dalle previsioni edittali, relative alle fattispecie variamente tutelate, lo stesso insieme di interpretazioni che in relazione al ius civile era divenuto il medium tra la domanda di giustizia della società e il diritto romano. 4. La scienza giuridica romana come sapere aristocratico. La maggior parte delle regole che disciplinavano la vita dei cittadini nella sfera giuridica privata non derivava da una delibera dell’assemblea cittadina. È questo uno degli aspetti dove si può cogliere con la massima evidenza la singolare natura della società romana. In essa infatti si vede operare nel corso dei secoli e malgrado tutti i rivolgimenti politici e le lotte di ceto, una delega mai discussa, prima ad un collegio religioso, e poi a una comunità di sapienti, di un grandissimo potere: quello di enunciare ciò che è il diritto della città nella sua applicazione concreta. La legge, sia quella generale e fondante identificata nelle XII tavole, sia la singola norma particolare, era senz’altro fonte del diritto, concepita come vincolante per l’intera comunità. Ma accanto, quasi sopra di essa, si poneva l’interpretatio dei giuristi: senza di essa la norma, sovente nel suo arcaismo anche linguistico, nella sua povertà strutturale e definitoria, sarebbe restata inoperante, o avrebbe avuto ben altre e più circoscritte applicazioni. Il cittadino di fronte all’oscurità e genericità delle norme delle XII tavole che lo interessava, di fronte allo schematismo di una legge successivamente votata dai comizi, dipendeva subito dalla mediazione autoritativa di un sapere specialistico: quello dei pontefici prima e quello dei giuristi laici in seguito. In effetti, la iurisdictio magistratuale e la legge comiziale intervenivano più in parallelo che con una funzione esplicitamente abrogativa del vecchio ordinamento. Ne conseguiva che l’unico fattore che poteva incidere direttamente sulla portata delle regole del ius civile era l’interpretatio dei giuristi. Interpretatio che veniva indicata appunto come fonte autonoma di diritto. Essa era pertanto l’unico strumento capace di penetrare più a fondo nel corpo duro dell’antica tradizione consolidatasi nella sacralità del ius civile. Un potere dunque assai grande, che non era nelle mani del popolo adunato in comizio né affidato al potere sovrano del magistrato elettivo, ma delegato a un corpo di sapienti. I saperi e i poteri istituzionali che servivano a gestire e controllare questi fondamentali aspetti della vita sociale e politica restarono per secoli esclusivamente nelle mani dell’aristocrazia romana. Sino alla prima età del principato, la scienza giuridica si è anch’essa identificata integralmente con questa stessa nobilitas. L’attività da essa svolta al servizio dei cittadini era effettuata gratuitamente. Per allargare la cerchia di amici, alleati e clienti chiamata poi in ausilio, al momento del voto elettorale, a supporto dei propri ruoli nella politica cittadina. Era questo un lavoro che non disonorava il cittadino di rango, anzi gli permetteva di eccellere tra i suoi pari, contribuendo a ridefinire gerarchie sociali e supremazie anche politiche. Una caratteristica di fondo della società romana era il carattere schiavistico da essa già precocemente assunto e adesso, alle soglie delle guerre puniche, ormai dominante. Esso divenne a sua volta un fattore di selezione sociale e di rafforzamento di quelle logiche gerarchiche coessenziali alle forme politico sociali romane. Chi deve lavorare, come piccolo mercante, come artigiano o quant’altro, per assicurare il proprio sostentamento è in partenza escluso dagli happy few chiamati a reggere la città, a guidare gli eserciti e a far parte della nobilitas. Si preparava, nel corso del III secolo a.C., a contatto con la magna Grecia e poi direttamente con il mondo ellenistico, una rivoluzione negli orizzonti intellettuali: nuovi spazi si aprivano alla classe dirigente romana e nuove occupazioni, purché gratuite. E in ciò occupazioni intellettuali e morale aristocratica si vennero a saldare perfettamente. Lo studio della retorica greca fu essenziale per divenire un buon oratore, ma fu un sapere che fecondò in profondità anche lo studio del diritto, permettendo di chiarire e raffinare le tecniche argomentative che ne costituivano il corpo centrale. Le grandi correnti filosofiche greche, anzitutto lo stoicismo, contribuiranno infatti a dare una maggiore profondità di campo alla scienza giuridica, con una maggiore consapevolezza del suo significato nella costruzione della società umana. E questo studio rientrava tra le attività che potevano essere esercitate senza disdoro dall’aristocrazia romana, divenendo uno strumento importante per la vera vocazione di un aristocratico, oltre alla guerra, che il governo della città. La connotazione aristocratica della giurisprudenza repubblicana è una chiave di lettura importante per farci comprendere il modo in cui i vari aspetti dell’esperienza giuridica romana si sono venuti svolgendo e tra loro intrecciando. E che ha sicuramente contribuito al carattere autoritativo dei responsa dei giuristi repubblicani. Raramente, prima della vicenda romana, il diritto si era saldato in modo così esplicito alla politica come arte di governo e della disciplina sociale. Sempre più, con l’accrescersi della potenza romana, la fondamentale questione del controllo e dell’organizzazione di un numero crescente di individui e realtà territoriali differenziate si impose al centro dell’attenzione della classe di governo, plasmandone gli orientamenti. La forma del diritto divenne il sistema di coordinate che organizzò l’universo di riferimento e lo strumentario intellettuale di cui essa si avvalse in questa storia di successo. Talché fu il diritto lo strumento attraverso cui si definì il complessivo funzionamento della società. Esso fu lo strumento per determinare i confini entro cui ciascun potere pubblico e privato poteva e talora doveva esercitarsi e per individuare quell’insieme di comportamenti che garantivano il godimento dei beni materiali, la loro circolazione e il loro accrescimento. Il linguaggio e le logiche che legavano la comunità dei cittadini e la stessa struttura della città erano così dominati in misura crescente dalla forma giuridica. Si determinava così un carattere centrale della società romana destinato, per molteplici vie, a influenzare in profondità la storia futura. Il modo particolare in si sono prodotti sempre nuovi spazi del diritto, sempre nuove soluzioni vincolative per i consociati era possibile, a sua volta, solo a due condizioni: che esistesse un fortissimo controllo sociale e una ancora maggiore compattezza di ceto. Una soluzione adottata per la sola autorità intellettuale e per il prestigio personale del suo autore, uno strumento processuale imposto o rifiutato dal pretore in virtù del suo imperium, la sostanziale assenza della legge come generale e preordinata decisione della comunità politica, poterono funzionare non per decenni, ma per secoli, solo sulla base di un generale anche se non esplicito insieme di deleghe a soggetti portatori di autorità. Ma di Quinto va ricordata soprattutto l’importanza delle sue opere scritte: un libro di definizioni così popolare e autorevole da sopravvivere sino a Giustiniano, e soprattutto i diciotto libri di iuris civilis. Tutta la materia del diritto civile romano trovava una prima importante sistemazione, tant’è che la sua opera, a sua volta, fu l’oggetto di numerosi commentari di altri giuristi successivi che, in tal modo, approfondirono lo studio di questo settore del diritto: Lelio Felice, Pomponio e Gaio. Cicerone era amico di Servio e esprime nelle sue opere la grande ammirazione nutrita per questo giurista. Per lui questi, di una generazione più giovane di Mucio, gli era senz’altro superiore, essendo merito suo quello di avere per la prima volta elevato lo studio del diritto al rango di scienza. In questo autore l’organizzazione di categorie appare fondarsi su una tecnica più matura e collaudata di quella del suo grande predecessore, segnando il vero punto di partenza per i successivi percorsi giurisprudenziali. Con Servio la struttura sostanziale dei problemi di fondo relativi alle grandi categorie giuridiche e alla disciplina specifica di molteplici istituti del diritto privato romano sia stata posta in termini che non sarebbero stati modificati granché dalla giurisprudenza dei secoli successivi. Ma in certi passaggi parrebbe addirittura affiorare in Servio il tentativo di riorganizzare l’intera materia giuridica all’interno di un quadro logico sistematico nuovo, ispirato a una coerenza dogmatica che non sarà dato di ritrovare poi neppure nei più grandi giuristi imperiali: da Labeone a Giuliano e che solo nelle grandi sistemazioni dell’ultima stagione della scienza giuridica classica riemergerà, secondo logiche tuttavia assai meno innovative. Di Servio non sopravvivono frammenti delle sue opere: sarà la numerosa schiera dei suoi allievi diretti e indiretti, gli auditores Servii, che lascerà raccolte dei suoi pareri, i responsa, relativi soprattutto alla soluzione di casi pratici. Egli fu il primo giurista del cui pensiero resti consistente documentazione: la rilevanza degli echi che ancora giungono è la prova della grande influenza da lui esercitata su più di una generazione, negli anni del definitivo tramonto della repubblica. Resta infine un’ultima grande figura di giurista che si staglia sui nuovi orizzonti del principato augusteo e tuttavia per valori, propensioni e stile segna piuttosto il momento finale della grande tradizione repubblicana. Marco Antistio Labeone tenacemente si sottrasse alle insistenti blandizie di Augusto per attrarlo nella sua orbita di collaboratori e amici. La sua chiara adesione ai valori dell’antica nobilitas l’indusse ad appartarsi dalla vita politica dominata ormai dalla grande ombra del principe, rinunciando così alla prospettiva di quel cursus honorarum, ormai possibile solo con il favore del nuovo potere. Dedicatosi soprattutto alla riflessione scientifica, oltre che all’insegnamento e ai responsa, egli fu l’autore di un numero elevatissimo di opere nelle quali dovette rifulgere la sua autonomia e peculiare creatività, che ancor oggi si riflette nelle numerose citazioni del suo pensiero effettuate dai giuristi successivi, oltre che in non molti passi a lui direttamente attribuiti. CAPITOLO NONO : I NUOVI ORIZZONTI DEL III SECOLO A.C. E L’EGEMONIA ROMANA NEL MEDITERRANEO. 1. Le guerre puniche e l’eredità di Annibale. Il controllo romano dei grandi centri mercantili e marittimi della magna Grecia, conclusosi con la conquista di Taranto era destinato a ampliare la spinta espansionistica romana verso una realtà sino ad allora estranea: il mare. La svolta precipitò in occasione dell’aiuto fornito dagli stessi romani ai Mamertini, mercenari che si erano impadroniti della città di Messina, in Sicilia, sottraendola ai consistenti interessi cartaginesi nell’isola. Si trattava di una scelta politica molto grave, giacché inevitabilmente li poneva in diretto contrasto con l’antica alleata, dando luogo al primo conflitto militare tra Cartagine e Roma. Iniziava una nuova e drammatica stagione per la politica romana, destinata a concludersi solo alla fine del secolo, nel 202 a.C., con la definitiva vittoria sull’avversaria e sul più grande nemico che Roma abbia mai avuto: Annibale. Nel 265 iniziò la prima guerra punica che si protrarrà fino al 241. Nel 238-237 si ebbe l’occupazione da parte dei romani della Sardegna e della Corsica, sottratte ai cartaginesi. Nel 238 si realizzò la conquista della Liguria e dalla Gallia Cisalpina. Nel 231 si strinse l’alleanza dei romani con Sagunto contro l’espansione cartaginese in Spagna. Nel 218-202 si svolse infine la seconda guerra punica. La dimensione stessa degli avvenimenti e la drammaticità dei problemi che si posero, in quegli anni, alla classe dirigente romana contribuirono ad accentuare divergenze già esistenti al suo interno, fra i fautori di un più cauto e tradizionale espansionismo territoriale, e i gruppi più avventurosi, interessati a valorizzare il recente dominio romano sulla magna Grecia. Esse furono presenti sin dai primi anni del primo conflitto con Cartagine e destinate a persistere, seppure in forme alterne nella successiva vicenda repubblicana. Sin da prima dell’inizio della guerra non erano state poche le opposizioni, tra i notabili repubblicani, all’accentuarsi di una politica ostile a Cartagine. Anche in seguito durante le due guerre da parte dei gruppi politici più cauti, sia in Roma che in Cartagine, diversi tentativi di arrestare lo scontro con un ragionevole compromesso. Alla prova dei fatti prevalsero comunque i gruppi più radicali che vollero condurre la vicenda sino alla sua estrema conclusione. Nel caso romano ciò non impedì che i dirigenti del partito agrario ottenessero un parziale successo, imponendo anche un’espansione territoriale verso il nord. Le campagne militari nell’Italia centro-settentrionale avrebbero portato all’acquisizione delle ricche terre del Piceno e della pianura padana. In particolare la conquista del Piceno e le campagne contro i Galli, guidate da un grande dirigente plebeo, Caio Flaminio. Emblematica appare in tal senso la costruzione della via Flaminia nel 220 a.C. sotto la censura dello stesso Flaminio. Diretta a nord verso l’Adriatico, sotto Rimini, essa andava in direzione opposta a quella più antica della via Appia. Quanto all’eredità politica di Appio Claudio è sufficiente ricordare come, tra i magistrati che fecero pendere la bilancia a favore della guerra contro Cartagine sia da annoverarsi un altro Claudio, appartenente alla stessa gens: Appius Claudius Caudex. Una conseguenza di grande rilievo dello scontro con Cartagine fu il formidabile collaudo della costruzione politica romana in Italia. Infatti fu la seconda guerra punica, con la discesa di Annibale in Italia, a dare la misura della compattezza del blocco politico costruito da Roma. In effetti Annibale, portando il suo esercito in Italia, perseguiva un disegno strategico che andava oltre il mero confronto militare con i romani, mirando alla disgregazione di quel sistema di alleanze subalterne e di incorporazioni più o meno forzate con cui si era venuto costruendo, tra IV e III secolo, il blocco politico militare dei popoli italici sotto il diretto controllo di Roma. Annibale non sarebbe riuscito a realizzare appieno il suo progetto. Solo le popolazioni più recentemente sottomesse dai romani, come i galli e gli etruschi, o alcune città della magna Grecia, anzitutto Capua, defezionarono dalla loro fedeltà ai romani. La persistenza del blocco di alleanze romano italico riuscì ad impedire che un disastro militare come Canne segnasse la fine politica di Roma. È quello che Annibale aveva ben chiaro, rinunciando a espugnare l’apparentemente indifesa Roma dopo questa sua clamorosa vittoria. Il messaggio della classe dirigente romana non fu quello di tutti a casa ma di mobilitare ulteriormente una cittadinanza stremata e impaurita, mandando l’inequivocabile segnale, ad amici e nemici, di una lotta a oltranza. Anche se la direzione delle operazioni militari passò nelle mani del partito oltranzista a quelle del capo della fazione più prudente e meno entusiasta della guerra con Cartagine: Quinto Fabio Massimo. La rinuncia da parte sua agli scontri diretti a favore di una strategia di logoramento, con la tattica della terra bruciata, mutarono le sorti della seconda guerra punica, preparando la successiva riscossa. Che a sua volta fu guidata dall’esponente giovane e brillante della linea guerrafondaia: Publio Cornelio Scipione che, dalla vittoria su Annibale, avrebbe preso il nome di Africano. Profonde e durature furono le conseguenze della totale vittoria militare conseguita da Roma alla fine di questo durissimo scontro. Era infatti pressoché inevitabile che, con essa, si rafforzarono potentemente gli orientamenti espansionistici del gruppo dirigente romano, finendo con l’assumere una fisionomia decisamente imperialistica. Ed è proprio nella prima metà di questo secolo che essa si affermò con straordinaria efficacia, allorché Roma acquisì il controllo diretto e indiretto dei regni ellenistici, impadronendosi di tutto il Mediterraneo orientale e del mondo civilizzato. riconosciuta a un magistrato cum imperio, il territorio conquistato e le sue popolazioni. In effetti gli italici costituivano un indispensabile retroterra, anzitutto demografico, del potere politico militare romano: fornendo non solo contingenti militari importanti, seppure sempre al margine del nerbo delle legioni, ma anche supporti materiali e economici. In ciò divergevano le nuove realtà provinciali, almeno per molto tempo, considerate anzitutto territori e popolazioni da sfruttare economicamente, non realtà da assorbire in un blocco politico unitario. Soprattutto nel caso siciliano, i romani derivarono in buona parte il loro sistema organizzativo dai modelli ellenistici preesistenti. In particolare quelli adottati da Siracusa, il cui tiranno, Gerone, dette il nome allo statuto generale applicato dai romani: la cd. lex Hieronica. In sostanza si derivò dai regni dell’oriente ellenistico l’idea che il monarca fosse anche il proprietario dell’intero territorio. Conseguentemente tutti coloro che avessero in qualche modo acquisito e sfruttato le terre coltivabili, anzitutto i piccoli agricoltori, furono considerati come affittuari che dovevano pagare al sovrano come canone annuo una quota parte del prodotto: in teoria la decima parte di questo. Nel caso siciliano i romani stabilirono che tutti gli agricoltori dovessero iscriversi in appositi registri, indicando la quantità di terra coltivata (professio iugerum), insieme al proprio nome (subscriptio aratorum), mentre alla percezione della decima si sarebbe dovuto provvedere con il consueto sistema degli appalti. In generale quasi tutta la popolazione originaria della provincia era considerata come straniera, in quanto non più appartenente a una comunità sovrana e priva di un suo proprio autonomo statuto giuridico (peregrini nullius civitatis). Dove i romani, invece ha a un mondo arretrato e dai caratteri rurali, si trovarono di fronte a città ben sviluppate, che richiamavano gli schemi loro propri della città-stato, essi le potenziarono. Ciò avvenne seguendo schemi tra loro differenziati, concedendo sovente a queste lo statuto gratificante di città alleate (civitates foederatae), non di rado lasciando loro un’autonomia semisovrana (civitates sine foedere liberae), giungendo talora, in casi particolarmente interessanti a esonerarle dagli oneri tributari in genere imposti loro (civitates liberae et immunes). In generale le città provinciali conservarono le loro istituzioni e le loro leggi. Anche su queste il governatore provinciale aveva una funzione di supervisione. In generale queste città erano poi sottoposte a un’imposizione tributaria indicata dai romani con il termine stipendium, e a specifici obblighi, come quelli delle città libere siciliane, tenute a vendere a Roma il loro frumento a un prezzo politico. L’alleanza tra l’avidità governatori romani e gli appaltatori delle imposte, i publicani, comportò una pressione fiscale eccessiva, tale da incidere negativamente sulle condizioni economiche di tali territori, soprattutto delle aree meno redditizie. I publicani infatti tendevano ad aumentare a dismisura la percentuale dei tributi commisurata alla produzione agricola, andando molto al di là di quelli che erano i criteri generali stabiliti da Roma e a cui gli stessi governatori avrebbero dovuto far riferimento. Costoro però si associarono sovente a essi nel taglieggiare le popolazioni sottoposte. Le due prime province furono affidate al governo di nuovi magistrati creati appositamente. Poiché per essere era necessaria la presenza di un presidio militare che consolidasse le acquisizioni romane, si affidò il governo di queste province a due nuovi pretori appositamente creati, richiedendosi l’esercizio dell’imperium. In seguito i romani rinunciarono a moltiplicare in misura crescente il numero dei magistrati ordinari. Si trattò dunque di aumentare il numero dei titolari dell’imperium militiae, senza accrescere il numero di magistrati eletti annualmente dai comizi. La prorogatio imperi fu lo strumento utilizzato a tal fine. Quello che sino ad allora era stato un provvedimento di emergenza divenne quindi un nuovo meccanismo per moltiplicare i governatori provinciali con pieni poteri. Al termine del suo anno di carica, ciascun console e ciascun pretore veniva inviato ad assumere il comando di una provincia, conservando l’imperium non più come magistrato ancora in carica, ma come proconsole o propretore, sino a che lui stesso sarebbe stato rilevato da tale condizione dal suo successore inviato dal senato. La determinazione dei diversi magistrati destinati al governo delle varie province divenne in effetti uno degli oggetti di maggior contesa e competizione tra gli interessati e uno strumento di ulteriore potere nelle mani del senato. Di qui la necessità di stabilire le destinazioni dei vari magistrati in modo relativamente imparziale: il che avvenne con l’assegnazione di queste già al momento dell’assunzione della carica magistratuale, mediante sortitio, un sistema che sottraeva al senato l’arbitrio e il potere di favorire gli amici e svantaggiare i nemici. In linea di massima ogni provincia era retta da un particolare statuto, elaborato, su incarico del senato e in base alle sue istruzioni, da dieci cittadini (decem legati), a ciò preposti all’atto di costituzione della provincia stessa. Una volta ratificato il loro operato dallo stesso senato, il governatore provinciale emanava il suddetto statuto come lex data in virtù del suo imperium. In questo statuto si provvedeva a dividere il territorio provinciale in diversi distretti. Solo molto lentamente, il sistema dell’amministrazione provinciale è venuto disegnandosi in forma coerente e razionale. Lo schema generale del governo provinciale prevedeva la presenza, accanto al governatore, di un gruppo di legati di rango senatorio inviati direttamente dal senato e, sotto di lui, di un questore con funzioni militari e finanziarie, ma a cui verranno affidati i più diversi incarichi. A questo vertice di governo si associava però la debolezza dell’apparato burocratico che avrebbe dovuto supportarne l’azione. Il che, tra l’altro, spiega due fenomeni di segno opposto: da una parte la persistente importanza dei centri urbani presenti nella provincia in cui venivano deferite molte competenze in una forma lata di autogoverno o di autonoma organizzazione della vita locale. Dall’altra la dilagante e pericolosa presenza degli intermediari privati romani: i publicani. Il governatore era preposto anche al controllo del sistema giudiziario, con una competenza che si estendeva soprattutto a tutte quelle comunità al di fuori degli ordinamenti cittadini e, in teoria, ormai prive di un loro proprio diritto cui fare riferimento. Di fatto le tradizioni locali continuarono a essere praticate e tutelate dai romani, ma la superiore titolarità del governatore avviò un processo di trasformazione verso un sistema in cui esse vennero integrandosi e confondendosi con le forme più elementari e immediate del diritto romano. La repressione criminale discendeva invece dall’imperium militiae del governatore che non s’arrestava neppure di fronte alle città autonome, mentre le città alleate in base ad un trattato conservavano la loro autonomia giurisdizionale anche in questo settore. Relativamente poche e eccezionali sono le figure di governatori distintisi per l’onesta amministrazione e per la cura dei governati. D’altra parte che la concussione e l’estorsione dei provinciali fosse molto più diffusa lo prova la precoce approvazione, nel corso del II secolo, delle leggi de repetundis volte a reprimere questo tipo di reati. Leggi forse, per un certo tempo, restate più sul piano delle buone intenzioni e delle minacce che effettivamente incisive sul comportamento degli interessati. Almeno sino a quando le giurie dei tribunali giudicanti furono composte da cittadini di rango senatorio: appartenenti cioè al gruppo sociale più coinvolto in siffatto tipo di reati. I comandanti militari e quei governatori provinciali istituzionalmente più di ogni altro in grado di effettuare tali reati provenivano infatti quasi tutti da questo ceto. 3. L’innesto della cultura ellenistica. Sotto il forte influsso di Scipione e dei suoi amici prese allora definitiva consistenza in Roma quella fisionomia imperialistica della politica estera romana. Verso la metà del II secolo Roma era pervenuta a controllare l’intero bacino mediterraneo e l’insieme di quei regni ellenistici che, sino ad allora, avevano rappresentato il punto più elevato della civiltà antica e la massima concentrazione di ricchezze e di popoli. Il problema di fondo per Roma era rappresentato dallo squilibrio a lei sfavorevole in termini di forza rappresentato dall’insieme dei regni asiatici rispetto alle sue pur grandi potenzialità, consolidate dalla clamorosa vittoria su Cartagine. Macedonia, Siria, Egitto, Regno del Ponto, l’Asia minore e la stessa Grecia, unite insieme, costituivano infatti un concentrato di ricchezze, di popoli e una tradizione militare tali da rendere assolutamente impari il confronto di Roma con una loro ipotetica alleanza. Il capolavoro politico romano fu di perseguire sistematicamente la divisione tra questi stati, stringendo alleanze con gli uni e isolando l’altro, affrontando così separatamente, prima la Macedonia, poi la Siria, definitivamente sconfitta nel 188, ad Apamea, e infine liquidando gli ultimi sussulti macedoni con la conclusiva vittoria di Pidna nel 168.