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Storia di Roma tra diritto e potere, Sintesi del corso di Storia del Diritto Romano

riassunto non sostitutivo del testo, utilizzato per sostenere l'esame. chiaro e al tempo stesso sufficientemente preciso

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 02/11/2019

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Scarica Storia di Roma tra diritto e potere e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! DIRITTO ROMANO CAPITOLO 1 → La genesi della comunità politica Il paesaggio fisico in cui si situavano gli insediamenti umani che, agli inizi dell'ultimo millennio a.C. avrebbero dato origine a Roma e alle altre città del Latium vetus non doveva essere molto diverso da quello odierno, solo più scosceso e segnato da maggiori e improvvisi dislivelli. Le dimensioni complessive del territorio erano relativamente modeste. Nella primitiva economia di queste popolazioni un ruolo importante era rappresentato dall'allevamento dove, accanto alla pecora, ebbe per molto tempo fondamentale importanza il maiale. Era anche praticata una forma primitiva di agricoltura, legata alla coltivazione di un cereale resistente ed adatto alle zone umide: il farro, oltre che all'orzo. Vi erano in questa zona importanti vie commerciali, come quella corrispondente all'attuale Isola Tiberina, dove il Tevere era più facile da guadare o la Via Salaria, importante per il commercio del sale. Si trattava pressochè di aggregazioni fondate su relazioni familiari o pseudoparentali, legate alla memoria di una più o meno leggendaria discendenza comune. Molte sono le informazioni che possiamo ricavare dalle tombe d'epoca arcaica, scavate nelle varie località laziali. Da esse si evince che era chiaramente diffusa una credenza in una vita ultraterrena; inoltre un altro aspetto importante è costituito dalla grande omogeneità di questi ritrovamenti, a testimoniare una notevole uniformità di condizioni economiche. All'interno di questa civitas un ruolo preminente era attribuito ai patres, i più anziani del gruppo, detentori della saggezza e della capacità di guidare la comunità. Probabilmente alcuni di essi assolvevano particolari funzioni religiose, non solo all'interno della singola famiglia, ma anche nell'ambito del villaggio. Si trattava di un mondo caratterizzato da una cultura comune, consistente innanzitutto nell'uso della stessa lingua – il latino – e nella partecipazione a riti e culti di cui restano numerose ed importanti tracce. Alla vitalità di questo tessuto unitario dovette anche contribuire un insieme di interessi più direttamente economici. Intorno agli anni in cui la tradizione colloca la “fondazione” di Roma, nel 753 a.C., se seguiamo la cronologia indicata da Varrone, il grande erudito romano di fine repubblica, profonde trasformazioni sembrerebbero verificarsi nell'organizzazione economico-sociale del Lazio primitivo. Si tratta di un processo di differenziazione, documentato dalla presenza di tombe con arredi funerari di crescente opulenza, nettamente distinte da quelle tuttora più diffuse, assai più modeste. Vi è dunque l'affermazione di una gerarchia sociale, con gruppi economicamente e socialmente più forti, con una chiara fisionomia aristocratica. Ciò che contribuiva a questa ineguaglianza era un fondamentale fattore costituito dalla guerra, dove il diverso valore individuale, gli stessi armamenti e quindi le prede belliche definivano diversità di posizioni e di prestigio. Inoltre in questa fase, lo sviluppo economico permette ormai ad alcuni individui di non partecipare immediatamente alla produzione dei beni alimentari direttamente funzionali al sostentamento, specializzandosi invece in altre attività artigianali e dando così luogo ad un primo “mercato” di scambio tra prodotti agropastorali e manufatti. Dalle fonti si possono ricavare due date riguardanti la fondazione di Roma: • 814 a.C. → data che ci è fornita dallo storico greco Timeo, probabilmente per creare un parallelismo con Cartagine per il dominio sul Mediterraneo; • 753 a.C. → come ci viene detto da Tito Livio nel primo libro dell' “Ab urbe condita”. In realtà però non vi è una data precisa perché il territorio romano era abitato da varie comunità che si incontravano per scambi commerciali. Queste comunità appartenevano a tre ceppi: latino, sabino ed etrusco. Sono proprio esse che danno origine al fenomeno del sinecismo (da sun oikeo = abitare insieme) che porterà alla nascita di Roma. Roma era originariamente una comunità di poche capanne con un insieme di norme giuridiche che derivavano da un comune sostrato indoeuropeo; per questo motivo i latini ed i sabini si intendevano meglio, mentre gli etruschi dopo un primo periodo di contatto entrano in conflitto. Per capire come si giunse dal villaggio alla città vi sono diverse teorie. La prima è quella di Bonfante, che negli anni '20 formula la teoria evoluzionistica con base piramidale, in quanto sostiene che la nascita di Roma sia l'unione di molte singole famiglie in una comunità (la famiglia naturale era dunque il nucleo originale). Egli riteneva che dall'organismo più semplice si formasse quello più complesso e che tutti questi organismi avrebbero svolto nel corso del tempo la medesima funzione. Perciò riteneva che il potere esercitato sulla famiglia proprio iure fosse del tutto simile a quello esercitato dal capo di un gruppo politico. La famiglia proprio iure costituisce l'unità elementare di un sistema fondato sul matrimonio rigidamente monogamico, consistente nella coppia di sposi con i diretti discendenti: il nucleo di persone che, almeno tendenzialmente, vive nella medesima casa. Vi è una rigorosa logica patriarcale che si esplica nel principio secondo cui il vincolo di parentela è stabilito solo attraverso la linea maschile: si tratta della cosiddetta parentela “agnatizia”. Secondo tale criterio i figli di un fratello o di una sorella non sono agnati tra loro. Nella famiglia proprio iure convivevano, sottoposti all'ampia e forte potestas del padre, la moglie, i figli e le figlie non sposate e i successivi discendenti per linea maschile, nonché le loro mogli. E a tale potere restavano sottoposti – salvo successivi temperamenti introdotti dai giuristi romani – sino alla morte del suo titolare. Le figli e le nipoti ne uscivano nel momento in cui, sposandosi, entravano a far parte della famiglia del marito. Il sistema familiare più antico era fondato sul matrimonium cum manu che comportava la totale integrazione della moglie nella famiglia del marito, attraverso la finzione che la poneva in condizione di figlia del proprio marito. La famiglia communi iure si compone invece di tutti coloro che sono legati da un vincolo di parentela per essere stati sottoposti alla patria potestas di un comune antenato. Questa tesi vacillava però poiché mancava un elemento fondamentale per ritenere il potere esercitato dal pater familias come statale e politico: la stabilità. Alla morte del pater familias la struttura familiare sarebbe finita. A questo punto Bonfante ipotizzò che la struttura familiare coincidente con quella statuale fosse la famiglia communi iure o la gens, ma in questo caso ciò che mancava era il “capo”. Egli allora ipotizzò che la gens fosse retta da un “pater gentis”, ma di ciò non si ha certezza. Ipotizzò che il pater alla sua morte avrebbe indicato un unico erede che esercitasse il comando su tutto il gruppo, ma ciò incontrava ostacoli poiché alla morte del pater familias tutti i figli diventavano sui iuris. Quindi abbandonò questa idea e sostenne che l'organismo antenato alla civitas fosse la gens. Mayer pone, invece, la gens al centro. Infatti dalle fonti emerge che il pater familias subisce l'influsso di un capo della gens e su questo la teoria di Bonfante è stata messa in crisi poiché diviene più importante il capo della gens, mentre lui insiste sulla figura del pater familias. Quindi Bonfante va dal piccolo al grande, Mayer parte dal grande per arrivare al piccolo poiché riteneva che Roma si sarebbe formata in seguito alla disgregazione di gruppi indoeuropei emigrati in Italia. Vi è inoltre la teoria paganica, la più accreditata in base alla quale l'elemento base costitutivo delle singole etnie era il villagio (pagus) che poteva avere o meno identità membri esercitati come interreges, un ponte dunque tra il vecchio ed il nuovo re ancora da nominare. L'interregnum è composto da 10 senatori che regnano per cinque giorni fino alla convocazione degli auguri (inauguratio) per un massimo di 50 giorni. Dopo i primi 50 giorni quando ancora non si fosse addivenuti alla designazione del nuovo re, si deve supporre che il comando passasse a un altro collegio di 10 patres. Quindi quelli che prima erano i patres, diventano il senatus, cioè l'assemblea degli anziani, dei “patriarchi” delle varie gentes che, oltre a ritrovarsi investita del particolare potere dell'interregnum, si riunisce e collabora con il rex. Ha soprattutto una funzione consultiva per le decisioni più gravi per la città, ha un ruolo di mediazione tra le varie parti dello stato. I patres non si possono identificare con i capi delle gentes. Essi infatti sono prima 100, poi 500 o 200, per poi giungere al numero pressoché definitivo di 300, e quindi non solo è poco probabile l'originaria presenza di cento gentes nella fase iniziale della storia di Roma, ma ancora più inverosimile è l'automatica crescita delle genti cittadine secondo numeri altrettanto artificiali, in corrispondenza ai successivi incrementi del senato. Tra coloro che in ogni generazione fossero emersi all'interno della varie gentes, per lignaggio, ricchezza, o per le loro azioni in guerra e pace, il rex sceglieva, più o meno liberamente, i membri del senato: i patres. La scelta di essi è plausibile che non fosse il mero riconoscimento della presenza di una gens, ma contribuisce a sua volta a definire un nuovo gruppo familiare emergente come tale. Da qui la possibile presenza dei singoli conscripti, estranei all'aristocrazia gentilizia identificata nei patres. Per quanto riguarda il populus, la popolazione è divisa in tre tribù: • ramnes → latini; • tities → sabini; • luceres → etruschi. Ogni tribù è costituita da dieci curie ed a sua volta da altre dieci decurie. In questo modo si raggiungono dunque le tremila unità, che costituiscono l'arcaico esercito romano. La differenza di questa organizzazione rispetto all'ordinamento centuriato e che quest'ultimo è fondato sul censo e sull'età, mentre si è di una curia perché vi appartenevano i propri antenati. I comizi curiati avevano una funzione eminentemente militare. Nella prima costituzione romulea l'organico dell'esercito romano era dato infatti dalla somma dei contingenti fissi che ciascuna curia doveva fornire. Proprio questa rilevanza delle curie e, attraverso di esse, delle strutture gentilizie, ha favorito l'idea che il primitivo esercito romano si organizzasse secondo forme tipiche delle aristocrazie, in un sistema essenzialmente cavalleresco. Abbiamo visto come il popolo, riunito nel comizio centuriato (cioè tutti e solo i maschi adulti tra i 25 e i 60 anni), partecipasse all'investitura del nuovo rex inauguratus, come anche a tutte le sue enunciazioni solenni tenute, appunto, nel comizio. Ha competenza anche nella designazione dei magistrati ausiliari del rex. Si riunisce, per tutta l'età repubblicana, a presenziare ed approvare l'adrogatio con cui un pater familias si assoggettava volontariamente alla potestas di un altro padre assumendo, a tutti gli effetti, nei riguardi di costui, la condizione di figlio. Davanti ai comizi si effettuava la forma più arcaica di testamento, ed infine sempre rientrante in questa categoria, vanno ricordati tutti quei provvedimenti che modificavano la condizione delle gentes o relativi all'ammissione di uno straniero. Vi è inoltre competenza in materia di ius sacrum. All'inizio l'assemblea non aveva il potere di impedire a rex e patres l'approvazione di determinati atti. Successivamente il potere dell'assemblea si accentua, può esprimere rumorosamente la sua approvazione o il dissenso, pur non potendo ancora condizionare le decisioni con un voto formale. Verso la fine della monarchia, è possibile che i comizi centuriati siano giunti ad esprimere formalmente un loro voto, almeno per alcuni aspetti specifici. Inoltre erano presenti molteplici collegi sacerdotali che costituiscono uno degli aspetti utili per capire la natura complessa e stratificata dell'organizzazione e dell'identità cittadina. Per quanto riguarda l'aspetto religioso si deve ricordare la presenza di una molteplicità di filoni in essa confluenti. Importantissimi i culti dei Penati e dei Lari (gli antenati divinizzati) propri di ciascuna famiglia, di competenza di ciascun pater familias, poi i culti e i riti delle gentes, delle curiae o di aggregazioni più ampie e infine i culti della città. Tra i più antichi di questi collegi vi sono i Luperci Quinctiani e i Luperci Fabiani, che presiedevano all'importante rito dei lupercali, quel percorso rituale, evocativo degli arcaici legami territoriali di alcune comunità preciviche. Ma non meno antico appare il collegio dei Salii, una specie di sacerdoti-guerrieri impegnati in singolari rituali di tipo magico-animistico, e dei Fratres Arvales che sovrintendevano al culto dell'antichissima dea Dia. Una rilevanza maggiore conserva il collegio dei Flamines. I tre flamines maggiori sono: Dialis, Martialis e Quirinalis, legati al culto di divinità arcaiche. Questi collegi sono caratterizzati da una consistente estraneità al rex, si tratta di realtà che la città stenta a fare proprie e che conservano un loro spazio arcano, ai margini del nuovo sistema. Si avvia però accanto al tradizionalismo un processo innovatore, con la sostituzione delle tre supreme divinità arcaiche, Giove, Marte e Quirino. Al loro posto si impose infatti l'espressione della religione olimpica costituita dalla cosiddetta “triade capitolina”: Giove, Giunone e Minerva il cui culto, appunto, si svolge sulla roccaforte (arx) della città: il Campidoglio, in un grande tempio appositamente identificato. Un altro culto dalle radici antichissime è quello di Vesta, affidato ad apposite sacerdotesse che godevano ancora in età tardorepubblicana e imperiale di una condizione sociale elevatissima. Esse vivevano separate dalla comunità cittadina, a garantire un'assoluta purezza rituale. Il loro compito è la custodia del fuoco sacro, che deve restare acceso permanentemente, e dell'acqua. Poi vi sono i Feziali, i cui compiti erano essenzialmente circoscritti alle relazioni internazionali. Si tratta di un sacerdozio che, non diversamente da altri, quali i Salii o gli auguri, non era esclusivo dei romani, ma presente anche in altre popolazioni italiche, anzitutto tra i Latini. Il collegio, di venti membri nominati a vita, non sembra presieduto da un supremo sacerdote, anche se al suo interno si distingue, per la preminenza di funzioni, il pater patratus. Ogni richiesta rivolta a popoli stranieri o da questi a Roma doveva avvenire mediante questo canale, che puntualmente Varrone indica come il garante del rispetto della fides publica inter populos: della lealtà internazionale. È solo attraverso i feziali che poteva dichiararsi una guerra “giusta” e una volta terminata, stringersi la pace legittima, atta a vincolare le parti. Se Roma decideva di entrare in guerra, essi inviavano un loro ambasciatore presso il nemico per invitarlo ad arrendersi; qualora non lo facesse, scagliava una lancia nel territorio, si aprivano le porte del tempo di Giano e si dava inizio al bellum iustum (fatta cioè secondo ius). Il complesso di tali forme costituì il primo nucleo di un diritto internazionale: questo ius fetiale, estendendosi anche ai rapporti di diritto privato tra Romani e stranieri, contribuì indubbiamente ad arricchire ed articolare l'esperienza giuridica romana arcaica. Attraverso questo canale s'introduceva una prima consapevolezza di una dimensione del diritto non ristretta alle mura della città. Poi vi è il collegio degli auguri: che gli antichi romani s'interrogassero costantemente sulla volontà degli dei al fine di regolare la vita sociale e di prendere decisioni importanti, non è certo fatto singolare. I romani distinguevano tra: • auspicia → di rex e dopo magistrati, per i singoli dies; • auguria → degli auguri, possono riguardare situazioni lontane nel tempo e possono investire anche un oggetto più ampio che non singole iniziative, sino a riferirsi al destino stesso di Roma. Gli auguri erano in numero di tre, solo successivamente saranno elevati a nove. Per quanto riguarda i pontefici (da pontem facere, sono il ponte tra umano e sovraumano) si tratta di un collegio istituito da Numa e presieduto, almeno in età repubblicana, dal pontefice massimo. Ne doveva far parte, anche se non si sa in quale posizione, lo stesso rex, all'epoca del suo potere, giacché in età successiva ne sarà membro il rex sacrorum, la sua pallida reliquia (in età repubblicana, quando perderà il potere politico e rimarrà quello religioso). Il collegio era composto originariamente da cinque membri, tra cui i tre flamines maggiori destinati, come il pontefice massimo, a restare in carica tutta la vita. Più tardi in età repubblicana, i suoi componenti furono elevati a tredici. Il pontifex maximus esercita nei riguardi del rex una funzione di consulenza, assiste ed orienta il rex nella conoscenza, interpretazione ed applicazione delle norme che regolavano la vita della città, esso condizionava l'intero tessuto sociale garantendo la pacifica convivenza tra i singoli cittadini e i vari gruppi familiari e gentilizi. Furono i pontefici che raccolsero e conservarono queste primitive regole di comportamento e il modo di gestire gli inevitabili conflitti al fine di preservare la pace sociale. Inoltre questo collegio esercita un ruolo primario nell'elaborazione e conservazione delle leges regiae. I Romani si riferiscono a questo patrimonio come ai mores et instituta maiorum. De Francisci sostiene che i mores risalirebbero in buona parte alle stesse origini latine, consistendo in regole già vigenti nelle strutture dell'organizzazione precivica; anche gli dei infatti sono semplici garanti, e non creatori, dei mores. L'importanza dei pontefici e il ruolo rivoluzionario del rex stanno appunto qui: nell'essere stati i registi del passaggio dalla pluralità di istituzioni “locali” ad un corpo unitario. CAPITOLO 3 → I re etruschi Dopo Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio ed Anco Marzio si verifica una profonda frattura per l'avvento al potere di una serie di re di origine etrusca. Alla fine del VII secolo Roma era divenuta una delle principali città del Lazio, sia per dimensioni territoriali che per popolazione. In parallelo agli sviluppi politico – militari che avevano contribuito all’accentuato rafforzamento della struttura urbana di Roma è da registrarsi l’azione di altri fattori, dall’accresciuta importanza delle forme di proprietà individuale all’ancor più significativa espansione delle attività artigianali e mercantili. Ciò che, a sua volta, aveva coinciso, se non con i primi passi di un’economia monetaria, con l’accentuata circolazione del bronzo come unità di misura e valore di riferimento degli altri beni. L’accresciuto rilievo della città aveva poi reso possibile, sotto i nuovi e più dinamici re di stirpe etrusca , un notevole incremento delle grandi opere pubbliche facendo di Le centurie nascono con fini militari, ma dopo vengono convocate per affidare l'imperium ai consoli, quindi assumono un potere politico-militare. Le fonti antiche sono unanimi nell'attribuire allo stesso Servio l'introduzione dello strumento essenziale a realizzare tale obiettivo: il censimento. Sempre allo stesso Servio è attribuita l'introduzione di un altro sistema di distribuzione della cittadinanza per tribù territoriali, in sostituzione delle vecchie tre tribù gentilizie dei Ramnes, Tities e Luceres. Queste tribù territoriali dovevano fornire alle varie centurie i contingenti militari, nonché il sostentamento a loro necessario. Gravava infatti sulle tribù l'onere di un tributo: già gli antichi associavano il termine tributum a tribus. Questa forma primitiva di tassazione, riscossa dai tribuni aerarii, antichi magistrati della tribù, era commisurata all'entità delle proprietà dei singoli cives e aveva, come si è detto, precipui scopi bellici. Le tribù si distinguevano tra: • urbane → Suburana, Esquilina, Collina e Palatina. Si trattava di distretti della città di Roma, cioè che rientravano nel pomerium; • rustiche → che si trovavano nel territorio al di fuori del pomerium. Il loro numero variò sensibilmente nel corso dei secoli della storia romana. Dalle quattro unità originarie dell’età arcaica, esse furono aumentate progressivamente a causa della crescente espansione territoriale di Roma (21 in epoca repubblicana) fino ad essere portate definitivamente a 35 (31 rustiche e 4 urbane) nel 241 a.C. (anno in cui si concludeva la prima guerra punica). La popolazione veniva distribuita nelle varie tribù in base al proprio domicilio ovvero in base alla proprietà fondiaria: se il cittadino possedeva un fondo situato in un determinato distretto, veniva iscritto nella tribù corrispondente. Coloro che, invece, non possedevano nulla venivano inseriti nelle quattro tribù urbane. Solo dopo la guerra sociale (I sec. a.C.), ed a seguito dell’ampliamento della cittadinanza, tali criteri furono sostituiti dal diverso principio dell’orìgo. La tribù non aveva solo funzioni amministrative di organizzazione della popolazione, ma anche funzioni fiscali e militari, assicurando la riscossione dei tributi a favore dello Stato da parte dei tribuni ærarii, e la fornitura di un contingente fisso di uomini (fanti e cavalieri). Una delle conseguenze della stratificazione economica formalizzata dal sistema centuriato fu la quasi subitanea scomparsa di quei comportamenti di singoli o di gruppi familiari volti ad affermare una gerarchia sociale in forme individuali. Ci si riferisce al lusso funerario. Questo diminuito fasto delle tombe corrispose infatti a una fase di grandi spese pubbliche, con la costruzione di importanti templi e di imponenti opere urbane. Le prime leggi volte a stabilire un limite alle spese funerarie dovettero essere allora introdotte venendo poi recepite nella successiva legislazione delle XII Tavole . Un altro e più importante settore della vita sociale in cui dovette aversi un incisivo intervento del rex , già prima dell’epoca etrusca, fu quello costituito dalla repressione dei comportamenti individuali pericolosi per l’ordinamento cittadino. In questo ambito infatti la sua azione dovette essere più diretta e innovatrice che nel più vasto campo dei mores. L’autonoma presenza della città, a imporre il proprio ordine, anche nella sfera criminale, senza intervento degli interessi privati lesi, concerneva pertanto due tipi di comportamenti : l’uccisione violenta di un membro della comunità , da un lato, forme di tradimento o azioni dirette contro l’esistenza stessa della comunità politica dall’altro. Questi ultimi tipi di condotta sono richiamati sotto i due termini di perduellio, crimine contro l’ordine politico e della civitas e di proditio, il tradimento con il nemico e comportano la morte del colpevole. Per quanto discussa e incerta nel suo fondamento etimologico , tuttavia è assai verosimile, che la condanna a morte del parricidas, sancita dalle XII tavole, non riguardasse solo l’uccisione del proprio padre, ma anche chi avesse uscciso un qualsiasi cittadino avente autonoma rilevanza rispetto alla comunità . In questi casi il rex interveniva direttamente attraverso suoi magistrati, i quaestores parricidii e i duoviri perduellionis. La loro esistenza conferma la novità di questi reati rispetto al mondo precivico. Accanto a questi casi, va ricordata una molteplicità di procedimenti repressivi di condotte asociali e dannose, alcuni dei quali d’efficacia immediata, che potremmo chiamare < di polizia >, e altri invece in cui la punizione interveniva soprattutto sul piano della sfera religiosa, anche se con conseguenze personali molto gravi, sino alla morte dell’autore del reato. Tali condotte erano colpite anzitutto perché, violando precetti e regole , attiravano l’ira degli dei sull’autore del misfatto e, con esso, sulla comunità intera. Il caso più importante e con chiare radici preciviche è costituito dalla particolare sanzione consistente nella consacrazione ( sacratio ) del colpevole agli dei . Tale condizione comportava il suo distacco dalla comunità e la perdita di ogni tutela giuridica , esponendolo a qualsiasi aggressione cui non avrebbe reagito l’intervento sanzionatorio della città. Vi sono poi altre azioni delittuose punte molto gravemente nella legislazione decemvirale, ma che non sembrano comportare questa sacratio dell’autore del reato, né il diretto risarcimento della vittima. Si pensi alla repressione degli atti di magia contro il vicino l’incendio doloso del raccolto. In tal caso la sanzione prevista, che consisteva quasi sempre nella morte del colpevole , avveniva attraverso i canali delle forme religiose arcaiche che, ci riportano a situazioni più antiche della repressione della perduellio o dello stesso parricidium .E comunque tutto fa pensare che occorresse, anche in questo caso, la reazione del danneggiato e la sua denuncia del malfattore. Non meno numerosi tuttavia sussistevano comportamenti lesivi dei singoli cittadini ed effettuati < ingiustamente >. Si pensi al furto , ma si pensi anche al danneggiamento di un bene o a delle lesioni fisiche arrecate a un individuo. Ebbene in questi casi la comunità primitiva interveniva a proteggere il danneggiato contro l’autore della condotta illegittima. Ma lo faceva solo se la stessa vittima si faceva parte attiva per difendersi , mentre l’eventuale condanna mirava a conseguire insieme l’obiettivo di risarcire il danno e di punire l’autore della condotta illegittima. Una logica che mostra appunto il delicato equilibrio tra il ruolo arbitrale della comunità politica e l’autonomia dei singoli gruppi. CAPITOLO 4 → Dalla monarchia alla repubblica Benché la spinta etrusca verso il sud si sarebbe prolungata ancora in seguito, verso la fine del VI sec essa aveva conosciuto una seria battuta d'arresto, a seguito di alcune gravi sconfitte militari ad opera dei Greci e dei loro alleati Latini. Tutto ciò ebbe a riflettersi anche sugli equilibri interni a Roma, giacché divenne allora possibile un vero e proprio “colpo di stato” da parte dell'aristocrazia romana, che non solo estromise dal trono Tarqunio il Superbo, ma cancellò lo stesso istituto della monarchia. La data tradizionale con cui si suole indicare il passaggio dalla monarchia alla repubblica è il 509 a.C. In questo periodo vi era stato un inizio di crisi economica ed una conseguente stagnazione nella crescita della popolazione; è facile immaginare che in un contesto di questo tipo riprendessero forza le forme sociali ed economiche più arretrate: le gentes, arroccate nei loro possessi territoriali. Certo si è che i primi anni della repubblica furono caratterizzati da una fisionomia incerta e da gravi difficoltà internazionali. Da un lato Roma ebbe a fronteggiare la reazione etrusca, in appoggio ai Tarquini. È abbastanza certo che il capo etrusco Porsenna abbia conquistato militarmente Roma, anche se questo successo non comportò la restaurazione di Tarquinio. In questo quadro fluido, è assai probabile che Roma, dopo l'espulsione dei Tarquini, per qualche tempo restasse ancora legata alla sfera d'influenza etrusca. Anche perché non si può sottovalutare il suo isolamento nel contesto laziale, a seguito della lotta delle città latine contro gli etruschi, cui essa aveva fornito sostanziale supporto. La conservazione dell'alleanza con questi ultimi dovette pertanto risultare indispensabile per difendere la sua precedente preminenza, ora contestata dai Latini. Nel 504 a.C. ci fu la battaglia di Ariccia, che segnò l'inizio della caduta delle 12 comunità etrusche e la nascita della Lega latina, comandata da un dictator. Dopo la battaglia di Ariccia la lega latina teme che Roma possa prendere il sopravvento sulle altre comunità, per questo la attaccano, ma Roma nella battaglia sul lago Regillio stravince. Viene dunque stipulato nel 493 a.C. il foedus cassianum, che prende il nome da Spurio Cassio, che dopo aver guidato gli eserciti romani nella guerra contro i Latini, riuscì a concludere con essi una pace duratura. Per 150 anni i rapporti tra Romani e latini furono da esso regolati. Si tratta di un foedus aequum, in quanto i due contraenti sono sullo stesso livello ed è di mutuo soccorso. In realtà però non è equo, in quanto se Roma viene attaccata tutte le città della lega devono mandare i loro eserciti, se invece viene attaccata una città della lega Roma manda un piccolo contingente. Il foedus è importante perché ci dà notizie sul praetor maximus. Entrando nella lega Roma si schiera anche contro gli Etruschi, quindi ormai la frattura è chiara e vi è una maggioranza di latini e sabini. Per quanto riguarda la disputa tra patrizi e plebei, bisogna prendere in considerazione l'aspetto politico che concerneva, come si è detto, l'esclusione plebea dal governo della città: dalle supreme magistrature sino ai collegi sacerdotali. Il contenuto dello scontro è di per sé evidente, riguardando la pretesa equiparazione dei due ordini. Più articolato appare il contesto economico. Esso si espresse anzitutto nell'insistente richiesta di un alleggerimento dei debiti che opprimevano gli strati economicamente più deboli della città. In particolare, come in tante altre società precapitalistiche, i ceti agricoli più poveri erano tra i più esposti a tale flagello: bastava un'annata o poche annate di cattivi raccolti e subito le riserve familiari e la stessa semente venivano consumate. A questo punto esplodeva il processo d'indebitamento, con il peso degli interessi che rendevano difficile ricostituire il capitale d'esercizio e assicurare il sostentamento della famiglia contadina. Ma il punto su cui il confronto appare ancora più grave, rischiando di portare a radicali lacerazioni della società romana, fu lo sfruttamento della terra. Gli antichi ricordano infatti come ripetutamente i plebei chiedessero che i territori strappati ai nemici fossero distribuiti almeno in parte in proprietà privata a tutti i cittadini. Tale pretesa si scontrò con la decisa opposizione dei patrizi, interessati a conservarne il controllo nella forma dell'ager publicus, di pertinenza della città, ma da loro sfruttato in modo esclusivo. Della gravità del conflitto dà la misura la messa a morte, per opera patrizia, dello stesso Spurio Cassio che aveva tentato di venire incontro alle aspirazioni dei plebei. Per quanto concerne infine l'aspetto sociale della contrapposizione tra patrizi e plebei, il punto centrale è in genere indicato dall'assenza del conubium, che escludeva la possibilità di un rapporto matrimoniale valido fra un patrizio e una plebea o viceversa. Questo era un regime che ribadiva formalmente l'inferiorità sociale dei plebei: i quali, infatti, contro di esso si batterono, sino a ottenerne il superamento con la lex Canuleia del 445 a.C. È quanto traspare dalle famose secessioni dei plebei (a seguito della serrata patrizia) sul Monte Sacro e sull'Aventino, nel 494 e nel 471 a.C. La crisi di questi momenti fu superata solo con il riconoscimento alla plebe di un insieme di strumenti protettivi contro le prevaricazioni delle magistrature patrizie. A guidare la secessione plebea si erano posti dei magistrati, ispirati alla figura dei tribuni militum che assunsero il nome di tribuni della plebe. Il compromesso che ne seguì comportò il loro riconoscimento come organi della città: conferendo ad essi oltre all'inviolabilità della loro persona, il “diritto d'aiuto” a favore della plebe. Il potere d'intervento dei tribuni si estese comunque all'intera vita politica cittadina, sostanziandosi nella possibilità loro riconosciuta di interporre l'intercessio: un vero e proprio veto, contro qualsiasi atto o delibera dei magistrati o dello stesso senato. In tal intermedi, e dall'espansione anche verso il Lazio meridionale, assicurata dalla vittoria, peraltro tutt'altro che facile, sulla bellicosa popolazione ivi insediata, i Volsci. Così in pochi anni, cadde in mano romana un enorme e ricco patrimonio fondiario, che portò in pratica a raddoppiare il precedente ager romanus. L'assegnazione a tutti i cittadini romani di un appezzamento di sette iugeri (due ettari) ricavati dalle terre strappate a Veio attenuò l'interesse plebeo per la redistribuzione dell'antico ager publicus. Si noti che questa modalità di distribuzione della terra veiente comportò l'acquisizione per le varie famiglie di un multiplo dei sette iugeri assegnati a ciascun cittadino. I vari lotti assegnati ai cittadini in età adulta, ma ancora sotto la potestas del padre tuttora vivente, venivano a sommarsi nelle mani di quest'ultimo dando origine, nel caso di famiglie abbastanza numerose, a unita fondiarie di notevoli dimensioni. Nel 367 con Licinio VI si giunse ad un compromesso, che consiste nell'approvazione di tre leggi in tre ambiti. Con queste leggi si accelerò il processo di trasformazione delle strutture politico-istituzionali e sociali di Roma che rese possibile un'intima saldatura tra i due ordini sociali. A livello politico si fusero rapidamente in un nuovo ceto di governo patrizio-plebeo. La prima delle tre leggi prevedeva che uno dei due consoli potesse essere plebeo, quindi si apriva la strada per la piena partecipazione della plebe a tutte le cariche politiche e religiose romane. La seconda introduceva un limite al possesso individuale della terra: forse di tutta la terra e non solo dell'ager publicus, come in genere si scrive. Ciascun cittadino non poteva disporre di più di 500 iugeri: circa 125 ettari, una dimensione ingente, ma comunque tale da frantumare gli antichi possessi patrizi. La terza ed ultima legge prevedeva una serie di provvedimenti volti a limitare il peso dei debiti, prevedendo che gli interessi già pagati dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Un insieme di norme di grandissima rilevanza sociale intervenne poi ad alleviare le condizioni dei debitori, rompendo le forme di dipendenza arcaiche: tra cui particolarmente rilevante la Poetelia Papiria del 326 a.C. Il cittadino così indebitato era così sottratto all'asservimento personale da parte del creditore, restando vincolato solo sul piano giuridico ed economico. CAPITOLO 5 → Il compiuto disegno delle istituzioni repubblicane Il consolato L'antica figura del rex presentava intimamente fusi in sé due fondamentali aspetti: un ruolo politico-militare, ed uno religioso che si esprimeva nella sua inauguratio, e nella legittimazione a interrogare la volontà degli dei, mediante gli auspicia. Con la sua scomparsa i Romani ne preservarono i principali aspetti religiosi in capo a quello che potremmo indicare come un “fossile istituzionale”: il rex sacrorum, in posizione eminente ma formale all'interno del collegio pontificale. Si completava così una sorta di processo di laicizzazione che in realtà era stato già avviato dai re etruschi (che non si sa se fossero essi stessi inaugurati). Anche ora però per i titolari dell'imperium, come per tutti gli altri magistrati, continuava a sussistere un aspettodella sfera religiosa non distinguibile dalla vita politica e militare: il potere/dovere di interrogare la volontà degli dei prima di intraprendere ogni azione pubblica. Tutti costoro, i consoli anzitutto, prima di qualsiasi azione rilevante dovevano prendere gli auspicia per ricercare questa volontà ed interrogarla. La carica dei consoli era annuale ed una volta terminata essi non potevano essere rieletti per 10 anni. Per la loro elezione è necessaria: • una designazione da parte dell'assemblea centuriata; • la proclamazione dei due più votati dinanzi al comizio centuriato; • la rinuncia dei consoli uscenti; • la creatio, la nomina che è di competenza del comizio curiato, attraverso l'imperium assumono gli auspicia. L'imperium consolare era poi distinto, a seconda che fosse esercitato all'interno della città a governare la comunità politica e la vita dei suoi membri (imperium domi), o che si sostanziasse in un comando militare, al di fuori della città (imperium militiae). Tra i poteri dei consoli peraltro, non rientrava quello di decidere della guerra, essendo ciò di competenza dei comizi centuriati: era però loro compito provvedere all'arruolamento dei cittadini, previa decisione del senato, e successivamente, dirigere la campagna militare, anche qui con la supervisione del senato. Il loro imperium militiae si estendeva sino al potere di mettere a morte i propri soldati in casi particolarmente gravi. Sempre a fini militari i consoli avevano altresì il compito di imporre dei tributi ai cittadini per sostenere le spese della guerra. All'interno della città, nell'esercizio del governo civile, ai consoli era riconosciuto sin dall'inizio un duplice potere: il ius agendi cum populo e il ius agendi cum patribus. Da una parte cioè il potere di convocare i comizi centuriati, al fine sia di proporre l'approvazione di nuove leggi, sia di fare eleggere i magistrati per l'anno successivo, procedendo quindi alla proclamazione degli eletti. In questo caso essi, d'intesa con il senato, presentavano ai comizi liste preselezionate e ristrette di candidati. L'altra facoltà era quella di convocare il senato – organo che non si poteva autoconvocare – e di chiedere ad esso il parere su problemi di particolare rilievo relativi al governo della città. I consoli inoltre presiedevano alla gestione del tesoro pubblico e sovrintendevano l'amministrazione delle terre pubbliche nei periodi in cui non erano in carica i censori a ciò specificamente deputati. I consoli ebbero sino alla creazione del pretore, anche la giurisdizione sulle controversie private tra i cittadini. Inoltre senza l'iniziativa di uno dei due detentori dell'imperium sia il senato che i comizi non potevano svolgere il loro ruolo, essendone esclusa l'autoconvocazione. L'accentuato carattere collegiale del consolato rendeva inevitabile che la sfera di competenze corrispondente all'imperium fosse riconosciuta in toto a ciascuno dei due magistrati. L'unico limite era dato dall'identico potere in capo all'altro console. Ciascuno dei due aveva, inoltre, il potere di paralizzare qualsiasi attività del collega con quel singolare strumento che abbiamo già incontrato con i tribuni della plebe: l'intercessio, cioè la facoltà di interporre un atto formale che penalizzi l'attività del collega. Ciò rendeva possibile l'esplosione di crisi non risolvibili, crisi tanto più gravi ove fossero intervenute in tempo di guerra perché avrebbero potuto portare a paralizzare a gestione efficace di una campagna militare. Si poté cercare di rimediare a tali inconvenienti in via meramente empirica, suddividendo le varie funzioni del consolato tra i due colleghi. Nel corso del tempo l'ambito di competenze assegnate, con la regia del senato, a ognuno dei due consoli si definì in modo più netto. Esso venne indicato con il termine provincia, che poi sarebbe passato ad indicare primariamente quel peculiare oggetto dell'imperium magistratuale costituito dai territori extraitalici acquisiti al potere romano. I consoli avevano un ruolo superiore e centrale rispetto a tutte le altre figure che erano invece in posizione subordinata, a eccezione dei censori, eccentrici rispetto all'intero sistema. Ma soprattutto, il loro potere d'intercessio nei riguardi degli altri magistrati sancì anche formalmente il carattere gerarchico dell'ordinamento repubblicano. La simbologia relativa al rex si trasmise ai consoli: una toga molto decorata con i bordi color porpora, la sella curule, cioè una sedia senza spalliera dove si siedono i consoli, i pretori e gli edili ed infine 12 littori con fascio di verghe ai quali in periodo di guerra, quando si usciva dall'Urbe, venivano applicati scuri. Altro aspetto fondamentale di questa figura era l'inviolabilità della persona del magistrato contro cui non poteva essere avanzata, durante l'anno di carica non solo alcuna minaccia materiale, ma neppure alcuna pretesa legale. Sin dagli inizi degli Repubblica, in situazioni di particolare pericolo, i Romani, sospendendo il funzionamento delle cariche ordinarie, potevano ricorrere ad una magistratura straordinaria: la dittatura. Il dittatore era unico, titolare di un imperium maius, rispetto a quello dei consoli, e sottratto almeno in origine alle limitazioni imposte ai magistrati ordinari dalla libertas repubblicana. Esso, almeno nella prima fase, non era eletto, ma nominato da uno dei consoli con l'accordo del collega e del senato. La nomina del dittatore mirava in origine a far fronte a gravi crisi belliche, e la carica non poteva durare più di sei mesi. un giuramento ed alla fine colui che perdeva, avendo mentito, doveva versare il sacramentum nelle casse del tempio; • più malleabile, si può modificare, è un diritto vivo che subisce modifiche per rispecchiare l'andamento della società dei suoi tempi. In ogni editto vi è una parte che ne costituisce il nucleo fondante, che si tramanda sempre (edictum tralaticum). Di anno in anno però il pretore può ritenere di aggiungere qualcosa, un nuovo strumento di potere di una fattispecie che precedentemente non era stata tutelata → ad esempio la “formula octaviana”, introdotta agli inizi del I secolo a.C., che serve a reprimere una particolare fattispecie, quella della coercizione con la violenza. Ottavio che era pretore decise di inserire questa formula; Publicio invece introduce l' “actio publiciana” o la “presuntio luciana” , introdotta da Lucio Scevola. Quindi alcune vengono aggiunte, altre ritenute superate vengono tolte ed il pretore può modificare l'editto anche durante l'anno di carica attraverso tre strumenti: – denegare l'actio → la via più breve, cioè non reputare un caso di interesse giuridico; – decretum (da decernere) → decisione che il pretore assume di derogare all'editto. In condizioni normali la fattispecie non è tutelata e non si ha intenzione di tutelarla in futuro, però limitatamente alla singola fattispecie ed in via del tutto eccezionale si decide di tutelarla, vi è dunque una massima discrezionalità del giudice urbano; – edictum repentinum → quando la fattispecie è totalmente nuova e da tutelare anche per il futuro e questo editto ha un valore “ex nunc” (da qui in poi, anche la formula octaviana probabilmente ha origine come edictum repentinum). Quando si emana l'editto all'inizio dell'anno di carica il pretore può avvalersi di un consilium che lo affianchi nella sua attività, oppure scriverlo da solo. Il pretore nell'editto da un lato fa salvi i mores e la tradizione romana, e dall'altro lato con l'editto concilia i principi generali dell'ordinamento con le esigenze della società e quindi recepisce norme di ius gentium, ius naturae e nuove escogitazioni giurisprudenziali, come la cautio muciana. Esso è uno strumento attraverso il quale il giurista introduce un elemento innovativo perrisolvere uno dei buchi di sistema nel diritto delle successioni romane. Il buco era nella successione sotto condizione, ad esempio in un testamento era scritto “tu sarai erede se non intraprenderai la carriera politica”, ma come si poteva dare questa garanzia? Mucio fa introdurre una cautio, cioè una premessa solenne (pena il perdere tutto ciò che si era ereditato) di non intraprendere la carriera politica. Se si fosse candidato avrebbe perso il suo status di erede. La parte finale dell'editto è costituita dai mezzi complementari della procedura formulare, uno strumento con il quale il pretore permette al vincitore di una causa di impossessarsi del bene facendo valere il suo diritto. Tutto ciò costituisce lo ius honorarium, cioè l'insieme delle norme che scaturiscono dall'attività edittaria dei pretori. I Romani pensano il diritto per categorie di azioni processuali, dal 17 al 342 d.C. si userà solo la procedura formulare. Altro aspetto del diritto romano è lo ius civile vetis, che si basa sui mores, plebisciti. La potenza eversiva dell'editto comporterà che con il Principato, sotto Adriano, si capirà che è necessario formulare un editto perpetuo, poiché si deve evitare che durante il principato l'operato del princeps e la sua attività normativa entri in conflitto con l'attività edittale. Salvio Giuliano viene incaricato dal senato consulto di codificare l'editto perpetuo, che potrà essere modificato solo con una costituzione imperiale. Al di sotto delle preture si collocano le magistrature minori, con funzioni più circoscritte e munite di una semplice potestas che ne legittimava l'azione. La diversità di rango si rifletteva altresì sugli auspicia da loro esperiti nell'assolvimento della carica. I magistrati cum imperio erano infatti titolari degli auspicia maiora, mentre i magistrati minori, cum potestate, avevano gli auspicia minora. Ricordiamo innanzitutto alcuni che abbiamo incontrato nell'ultima età della monarchia, come i duoviri perduellionis e i quaestores parricidii, competenti per la repressione dei maggiori crimini. In un diretto rapporto di collaborazione con i consoli ricordiamo invece i quaestores. Sono presenti già in età monarchica con i quaestores parricidii e in età repubblicana sono titolari di potestà finanziaria, gestiscono le casse dell'erario e su ordine del senato (a sua volta esortato dal console) erogano soldi per le varie spese. Si occupano inoltre di gestire l'iter che porta all'ingresso nell'erario dei tributi dei cittadini romani, tassa che poi non sarà più pagata. Di solito avviavano una gara d'appalto con delle società che davano i soldi subito in base a quanto i questori si aspettavano di ricevere e poi guadagnavano dalle eccedenze. Alla fine dell'anno di carica si entra in senato. Svolgono anche il ruolo di magistrati istruttori in alcuni casi processuali. In principio vi erano solo due questori urbani; alla fine del IV secolo furono elevati a quattro, cioè due questori urbani e due questori italici e, infine, nel 267 a.C., durante la prima guerra punica, furono raddoppiati a otto ed alcuni inviati nelle province. Con Silla saranno poi elevati a 20. Vi erano poi i tribuni della plebe, che si occupavano della difesa degli interessi dei plebei. Per quanto concerne gli strumenti d'azione di cui disponevano, essi, oltre al potere d'intervento e di sanzione contro gli autori di condotte dannose a carico dei plebei, potevano, come si è già visto, interporre l'intercessio contro qualsiasi attività magistratuale. Senza considerare un'ancor più pericolosa facoltà consistente nella summa coercendi potestas, con cui il tribuno, pur privo di imperium, poteva giungere ad uccidere il trasgressore delle leggi sacrate, compreso qualsiasi magistrato repubblicano, senza l'ostacolo della provocatio, o comminargli la consacrazione dei beni. Vi erano inoltre anche gli edili, che acquisivano competenze tra un lustrum (censimento) e l'altro, si trattava dunque di magistrati ordinari minori subalterni. Erano detti “curuli” poiché sedevano sulla sedia pur non avendo l'imperium. In principio erano eletti dai comizi curiati, in seguito dai comizi tributi (organizzazioni di natura territoriale di cui non sappiamo nulla). Erano due e la loro carica era annuale. I loro compiti erano: • ius dicendi → emanano editti, con i quali verrà introdotto il principio di garanzia per i vizi della cosa venduta, con le azioni redditoria ed estimatoria; • esercitavano poteri riguardanti la tutela di luoghi pubblici; • cura annonae → sovrintendenza sulla distribuzione di cereali soprattutto ai plebei; • cura ludorum → sovrintendenza all'organizzazione dei giochi; • importante era il loro ruolo di controllo dei mercati. All'inizio vi erano solo patrizi, poiché con questa carica si potevano far eleggere i pretori per il cursus honorum. Un'innovazione ancora più importante fu l'introduzione dei censori, cioè una magistratura ordinaria maggiore non permanente (a differenza di consolato e pretura). Il loro peculiare compito era quello di valutare il censo dei cittadini, quindi vi è una connessione con la struttura timocratica dell'ordinamento centuriato. Il censimento distingueva prima di tutto i cittadini dagli stranieri e dagli schiavi e, tra i cittadini, i nati liberi – gli “ingenui” - dagli schiavi manomessi: i “liberti”. Il censimento si svolge nel Campo Marzio e vi si recano tutti i cittadini. Il pater familias dichiara i membri della sua famiglia e la res mancipi sotto il suo possesso. I dati vengono riportati in due registri, uno inerente al pagamento delle tasse e un altro per le leve e la convocazione dei comizi. I censori nello svolgimento del proprio compito avevano ampi margini di discrezionalità, potevano esprimere una valutazione sulla condotta dei dichiaranti e sanzionare alcuni comportamenti errati compiuti negli anni trascorsi dall'ultimo censimento. Con la lectio senatus (la redazione della lista dei senatori) s'inserivano nuovi nomi, tra i membri del senato, a riempire i vuoti verificatisi nel quinquennio precedente, a seguito di decessi o altri eventi. Non sappiamo bene come avvenisse questa scelta e che margini di discrezionalità avessero i censori, ma probabilmente, in coincidenza del plebiscito Ovinio, la selezione fu fatta dipendere da criteri obiettivi: venivano anzitutto prescelti gli ex magistrati, partendo dall'alto, e quindi prima ex censori e consoli, poi ex pretori e questori. Si occupano di: • amministrare l'ager publicus e disciplinare le controversie ad esso collegate; • escludere dai ranghi del senato un suo membro che si fosse macchiato di comportamenti seriamente lesivi del prestigio di tale consenso; • un generale potere di controllo dei costumi dei cittadini (cura morum); • nei riguardi di tutti i cittadini potevano irrogare una specifica sanzione consistente nella nota censoria, che comportava una generica condizione di ignominia all'interno della comunità cittadina; con essa si poteva però anche abbassare il rango sociale del cittadino indegno, iscrivendolo in una classe di centurie inferiore a quella cui aveva diritto in base al suo patrimonio; • altra fondamentale sfera di competenza concerneva l'amministrazione di beni pubblici, da loro registrati nel censimento insieme con i patrimoni privati. Essi inoltre sovrintendevano alle attività economiche della città, anzitutto controllando le entrate e le spese cittadine, e provvedendo allo svolgimento di tutte quelle attività fondate sul sistema degli appalti da parte dei privati. I censori venivano eletti ogni cinque anni e duravano in carica fino al completamento del censimento, ma non oltre i 18 mesi. La loro estraneità ai compiti militari ed anche alle dirette delibere politiche spiega perché essi non fossero muniti di imperium, non potendo quindi convocare il senato ed i comizi popolari. Gli elementi che escludono il possesso dell'imperium sono: – durata della carica non annuale; – discontinuità (l'imperium si sarebbe dovuto interrompere e poi riprendere); – assenza dei littori nella simbologia. Anche quando dovevano punire qualcuno lo facevano per il tramite di altri magistrati cum imperio. È abbastanza incerto sino a che punto l'intercessio dei tribuni della plebe potesse rivolgersi contro la loro attività. Infine vi erano i viginti sex viri, cioè magistrature minori indirizzate allo svolgimento di funzioni di ordine pubblico. Si compongono di: • tresviri capitales → giustizia criminale per cause di gravità minore; • tresviri monetales → assistono alla protezione di monete; • decemviri stlitibus iudicandis → amministrano la giustizia civile in situazioni di scarso valore; • 4 praefecti Capuam Cumas → prefetti in città come Capua, Cuma, Literno, Acerra (zone della cosiddetta Campania felix). Non usavano le leges actiones poiché non hanno l'imperium, forse usavano una procedura formulare. In seguito verranno inviati prefetti fiduciari in distretti periferici che si occupavano di competenze anche degli edili; • quattorviri viis in urbe purgandis → si occupavano della pulizia delle strade a Roma; • duoviri → competenti per le vie esterne all'urbe, verificano la tenuta delle strade (curatores viarum). CAPITOLO 6 → Cittadini e stranieri Dobbiamo prima di tutto ricordare come il territorio romano, in origine non superiore al centinaio di km quadrati, verso la fine del VI secolo a.C. fosse aumentato di circa otto o nove volte. Ciò accentuò i carattere di separatezza tra la la comunità cittadina e ciò che “ne è fuori”: tra Romani e stranieri, costituendo un aspetto di fondo della vita giuridica, non solo di Roma, ma, in generale, di tutte le antiche città, sia in Grecia che in ambito italico. Tralasciando infatti i diritti politici, riservati ovviamente ai propri cittadini, vige negli ordinamenti moderni il cosiddetto principio della “territorialità del diritto”. Il diritto dello stato si applica cioè a tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Pertanto anche gli stranieri dovranno rispettare le leggi civili e penali dello stato ospitante e automaticamente, fruendo a loro volta di una tutela analoga a quella dei cittadini, in una condizione di sostanziale uguaglianza. Al contrario, nel mondo antico, tendeva a prevalere un criterio opposto, per cui ogni individuo era legato alla sua patria d'appartenenza e al diritto proprio di questa, con la cosiddetta “personalità del diritto”. Uno dei primi strumenti per assicurare tutela adeguata ai membri delle varie comunità interessate fu la concessione, a un singolo o a un gruppo di stranieri, dell'hospitium, l' “ospitalità”, da parte di privati o della città, senza che ciò postulasse un accordo con la città di questi stranieri. Tra chi aveva concesso l'hospitium e il beneficiario intercorreva un vero e proprio vincolo volto ad assicurare a quest'ultimo la protezione adeguata. Presto, accanto all'hospitium privato, intervenne un hospitium pubblico concesso dalla città stessa ad alcuni stranieri che, in tal modo, erano ammessi a rivolgersi ai tribunali locali per pretendere protezione legale. In questo periodo dunque Roma affermò la propria superiorità, anche attraverso la conclusione di molteplici foedera: veri e propri accordi internazionali. Questa superiorità è attestata dal primo trattato tra i Romani e Cartaginesi, verosimilmente stipulato in seguito alla cacciata di Tarquinio il Superbo da Roma. Esso oltre a fornirci informazioni sull'assetto territoriale, c'informa sull'impegno dei due soggetti contraenti ad assicurare reciproca tutela ai propri cittadini che si fossero trovati nell'ambito di influenza della controparte. Il trattato con Cartagine sarà seguito dall'ancor più importante patto d'alleanza fra Romani e Latini che abbiamo già incontrato: il Foedus Cassianum. Lo schema seguito con questo trattato affermava infatti dei meccanismi di parziale assimilazione tra le varie città coinvolte nel trattato, affermando una forma di comunanza giuridica tra Romani e Prisci Latini. Questa è infatti la portata del principio secondo cui il Latino che si fosse trovato in ambito romano non solo veniva assimilato ai cives Romani nella fruizione del diritto privato e della conseguente protezione processuale nelle forme solenni del diritto romano, ma era anche ammesso a stringere validi rapporti matrimoniali con i Romani. Questi meccanismi sono indicati dai Romani con due espressioni tecniche: ius commercii e ius connubii. In altre parole i Latini a Roma godevano di una condizione analoga a quella dei Romani che si fossero trovati nelle altre città dell'alleanza: una parziale assimilazione ai cittadini delle varie comunità. È possibile che non appartenesse invece all'originario regime del Foedus Cassianum il “diritto di emigrare”, in base al quale in seguito gli abitanti delle città della Lega avrebbero potuto acquistare la cittadinanza di Roma, spostando la loro residenza in essa. Più interessante è il fatto che l'unità politica sancita da tale foedus s'esprimesse anche con la fondazione, da parte della Lega, di proprie colonie destinate a divenire esse stesse nuovi membri dell'alleanza. In questo contesto il termine colonia aveva un significato totalmente diverso da quello dei giorni nostri. Allora infatti si trattava di piccole comunità urbane, create ex novo dalla città-madre, e situate in punti strategicamente importanti, anche se sovente assai distanti dalla fondatrice. Le singole città della Lega ed in particolare Roma, aderendo a questa politica coloniaria comune, non avevano però rinunciato al potere di fondare proprie colonie. Così Roma continuò ad istituire, come già era avvenuto all'età dei re, accanto alle colonie latine, anche proprie colonie di cittadini romani. Le colonie erano città nuove, fondate da gruppi di cittadini romani o latini, ai quali venivano assegnati in affitto appezzamenti di terra nelle campagne circostanti i nuovi insediamenti. Di solito le colonie venivano fondate in località di confine o di recente conquista, per insediarvi guarnigioni stabili, a presidio del territorio in caso di ribellioni. Le colonie potevano essere: • romane → abitate da cittadini poveri della capitale che vedevano nelle nuove città un'occasione per migliorare la propria condizione. Erano considerati cittadini romani a tutti gli effetti e godevano dunque degli stessi diritti civili e politici degli altri cittadini romani, quali il diritto di voto e la possibilità di accedere alle cariche pubbliche; • latine → abitate da cittadini che erano esclusi dal godimento dei diritti politici, mentre beneficiavano di importanti diritti civili, primo fra tutti quello di potersi sposare con i cittadini romani (i figli di tali unioni sarebbero stati a loro volta cittadini romani); essi potevano però ottenere la piena cittadinanza romana se si trasferivano a Roma, anche i cittadini romani che avevano partecipato alla loro fondazione perdevano la cittadinanza d'origine, acquistando la condizione giuridica dei latini. La fondazione di una nuova colonia avveniva in genere sulla base di una delibera del senato e dell'approvazione dei comizi, con cui si designavano i magistrati preposti alla sua istituzione, dando anche istruzioni per l'emanazione dello statuto che avrebbe regolato, con una lex data, la vita e l'organizzazione interna. Sin dal IV secolo a.C. venne adottato dai Romani un sistema di divisione in parcelle regolari e tutte della stessa misura. Tale sistema fu indicato come limitatio (da limites, confini) o anche, più frequentemente, come centuriatio dall'unità territoriale chiamata appunto centuria (se invece fosse stata usata la strigatio o stamnatio, la divisione dei terreni era rettangolare). Sotto la guida dei magistrati incaricati delle operazioni di fondazione della colonia, appositi tecnici, gli agrimensori, avendo identificato un punto, tracciavano per essodue linee perpendicolari che costituivano gli assi centrali, chiamati cardo e decumano maggiore. In parallelo ad essi, a distanza regolare venivano tracciate altre linee rette (rispettivamente cardini e decumani), venendo così a costituire una maglia di quadrati uniformi: le centurie. Secondo lo schema tipico la centuria consisterebbe in un'area di duecento iugeri. In Italia queste linee di divisione avevano una determinata larghezza in modo da costituire vere e proprie strade rurali, realizzando un articolato reticolo atto ad assicurare a tutte le unità fondiarie l'accesso alle principali vie pubbliche. I nuovi territori così acquisiti, da una parte restarono nella disponibilità della città e costituirono il demanio di ager publicus, dall'altra furono redistribuite in proprietà privata. L'ager publicus si struttura sotto varie forme: • ager occupatorius → messo a disposizione occupandolo; • ager vectigales → con il pagamento di un vectigale, cioè di un canone, si riceveva un territorio in locazione, che si poteva sfruttare. Il possessore si tutelava da un eventuale spossessamento con strumenti di natura processuale; • ager adoperato per assegnazione da parte degli agrimensores. Fino al 338, come tutte le altre città, Roma governava direttamente solo sui suoi cittadini, da questa data in poi potè disporre anche di un altro statuto giuridico: quello Latino. Poteva trasformare un romano in un latino, come nel caso della partecipazione di uno di questi a una colonia latina, e poteva disporre unilateralmente della condizione giuridica di questi stessi latini, ormai suoi sudditi, modificandone il contenuto. Con le città conquistate Roma procedette a concludere accordi politici trasformandole in municipia. Queste città mantenevano l'autonomia amministrativa, ovvero la possibilità di governarsi da sé, con magistrati propri; erano però obbligate a versare tributi alle casse dello Stato romano e a fornire contingenti militari in caso di guerra. In base gli accordi stipulati, ad alcuni municipi venne concessa la piena cittadinanza romana: in altre parole gli abitanti di queste città godevano degli stessi diritti civili e politici dei cittadini romani. Altri municipi invece non godettero dei diritti politici, ma solo dei diritti civili: i loro abitanti, per esempio, potevano commerciare e contrarre matrimoni con i Romani, ma non avevano diritto al voto; la loro era di conseguenza una cittadinanza parziale, che tuttavia poteva diventare piena in caso di particolari meriti. La differenza tra i cittadini optimo iure e quelli sine suffragio, consisteva nell'assenza dello ius suffragii, il diritto di voto cioè, che poteva essere sia attivo che passivo. Non si parla, nei rapporti tra i vari diritti, di reciprocità, ma di un meccanismo centripeto. Nei molteplici rapporti tra i vari tipi di colonie e i vari tipi di municipia scompare ogni dimensione di reciprocità: sia la civitas optimo iure che quella sine suffragio comportava sempre l'applicazione del diritto romano, ovunque fossero posti negozi tra vecchi e nuovi cittadini, tanto a Roma che in qualsiasi altro luogo. Sempre e dovunque i cittadini di queste comunità avrebbero utilizzato solo il diritto romano che, in tal modo, divenne l'unico medium che metteva in collegamento le varie comunità. Ciò sviluppò al massimo la forza centripeta di Roma. La lingua latina era fondamentale per accedere ai maggiori istituti del diritto romano, ma i Romani non solo non imponevano la loro lingua ai popoli sottoposti, ma escludevano che essi potessero addirittura usarla negli atti ufficiali, senza la loro autorizzazione. Così i municipi sine suffragio continuarono per secoli a usare le lingue autoctone pur subendo progressivamente un processo di romanizzazione inarrestabile. Tuttavia l'ampia estensione territoriale pienamente romanizzata, di cui il sistema coloniario e quello municipale appaiono le strutture portanti, presuppone, sotto il profilo strutturale e degli assetti organizzativi, anche nuclei minori. Essi sono i fora, i conciliabula, i pagi e gli stessi villaggi (vici), cioè località in cui le popolazioni rurali venivano a incontrarsi in mercati stagionali, si saldavano in comuni luoghi di culto e in distretti rurali aventi una loro identità amministrativa. Si tratta di strutture con una loro più o meno accentuata autonomia, situate all'interno ed in funzione dell'ager Romanus, rispetto alle quali intervenivano, con funzioni di controllo e coordinamento, i magistrati romani. Mentre, inoltre, i suoi antichi alleati venivano assorbiti all'interno dell'ordinamento politico romano, una miriade di nuovi rapporti di alleanza furono stretti dai Romani con le varie popolazioni e città italiche, nel corso della loro rapida espansione. Il foedus, il trattato d'alleanza, continuava ad essere stipulato tra soggetti sovrani, talora sancendo una loro formale subalternità politica a favore di Roma (iniquum), altre volte conservando invece il carattere formale, ma solo formale, di un'alleanza tra pari (aequum). Il fatto che tra gli impegni reciproci assunti tra le parti vi fosse l'obbligo di aiutare l'alleato in caso di guerra era ed è la vera chiave di lettura di questi trattati, giacché mai queste piccole città, queste comunità minori, sovente interamente circondate da territori romani, sarebbero state in grado di scatenare in modo autonomo una guerra, mentre, al contrario, le guerre le faceva in continuazione l'altro alleato, cioè Roma. Queste città vengono definite alleati o socii, e sono non latine, hanno una autonomia politica, nessuna imposizione di tributi, ma obbligo di fornire navi e soldati. di resistere all'esercito di Pirro, ma la tradizione militare macedone, illustrata dalla straordinaria avventura di Alessandro Magno, e di cui lo stesso Pirro era un importante rappresentante, non riuscì a prevalere sulle legioni romane. Questa ininterrotta e fortunata politica espansionistica comportò, com'è ovvio, un parallelo processo di crescita economica, incrementato dai bottini ricavati dalle ricche città della Magna Grecia e dalle ulteriori acquisizioni territoriali. Da sempre l'ordinamento politico romano si era fondato su un insieme di attività tutte o quasi di carattere gratuito associato alle varie magistrature elettive. Il vir bonus, il virtuoso cittadino dell'ideologia romana è colui che dedica i suoi sforzi a servire la patria, prima come guerriero, poi nella vita politica della città. In effetti quel sostanziale monopolio delle cariche magistratuali da parte di una nobilitas relativamente ristretta aveva come suo cemento proprio la gratuità di tale impegno e delle cariche politiche, con la conseguente drastica selezione di natura economica tra i potenziali aspiranti. Malgrado ciò è indubbio che nuove e molteplici esigenze e funzioni si venissero progressivamente imponendo ad una macchina di governo che iniziava ad avere un'importanza almeno regionale: si pensi solo a una politica di opere pubbliche di dimensioni ormai imponenti, con la costruzione degli edifici civili e religiosi della città, delle grande strade militari, dei primi acquedotti. Ma si pensi anche ad un patrimonio pubblico, costituito soprattutto dalle terre conquistate, sempre più ingente, che doveva essere amministrato attraverso un complesso ed articolato sistema di concessioni e di affittanze, nonché alla gestione di entrate finanziarie enormemente accresciute. Tutte attività che furono affidate per la massima parte all'intermediazione privata. Un meccanismo non diverso riguardava anche le riscossioni tributarie, nelle province, gestite anch'esse attraverso appalti ai privati che si facevano carico di tale incombenza per conto di Roma, lucrando anche qui la differenza tra il percepito e quanto dovuto ad essa. Tutto ciò fu possibile grazie alla precoce affermazione, in Roma, di un gruppo sociale relativamente articolato, distinto dalla nobiltà delle cariche, tutta orientata al governo della città e agli impegni militari. Si trattava di individui provenienti dagli strati più ricchi della popolazione: quelli che fornivano all'esercito i cavalieri (equites) in grado di provvedere a loro spese alla costosa cavalcatura. Essi avevano acquisito quelle competenze e quelle tecnologie finanziarie e imprenditoriali richieste per far fronte ai compiti ora richiamati. Un sottogruppo particolare di questo ceto di “cavalieri” e di appaltatori è rappresentato dagli appaltatori (e riscossori) delle imposte, i publicani, così odiosamente richiamati in tante testimonianze antiche e addirittura nei Vangeli, per il loro ruolo negativo e insostituibile insieme nello sfruttamento dei popoli provinciali. L'insieme dei meccanismi istituzionali non appare mai disegnato una volta per tutte, essendosi invece modificato senza sosta, nel corso di tutta l'età repubblicana, anche con riforme di notevole importanza. Tali innovazioni appaiono costantemente ispirate alla salvaguardia della natura oligarchica della Repubblica, mirando a preservare la compattezza dell'aristocrazia di governo, fondata su una logica essenzialmente paritaria, contro la prevaricazione di singole personalità politiche troppo forti, che avrebbero potuto aprire la strada ad un potere personale. Si è già visto il relativo ritardo con cui il giovane romano poteva entrare nell'agone politico, dopo il servizio militare, che evidenzia un generico favore per la maturità, se non l'anzianità. Soprattutto nel corso del tempo si vennero perfezionando le regole che governavano il successivo percorso. I due principi della non duplicabilità delle cariche e gli intervalli di tempo stabiliti tra la scadenza da una data magistratura e la possibilità di presentarsi alle elezioni per una magistratura superiore erano entrambi finalizzati ad evitare il concentrarsi di troppo potere, in un periodo di tempo troppo ristretto, nella stessa persona. Quando nel III secolo per un periodo furono abolite, ci pensò la lex Villia annalis a reintrodurre l'età minima per l'accesso alle cariche pubbliche, derivata dall'obbligo dei preliminari dieci anni di servizio militare, e l'intervallo di due anni tra l'una carica e la successiva. Un esempio significativo della fedeltà alle tradizioni gentilizie e della conseguente continuità politica all'interno del ceto dirigente romano lo troviamo in un personaggio di grande rilievo: Appio Claudio, che aveva ricoperto anche la censura. La sua preminenza politica è attestata dalla sua rielezione al consolato. Viene ricordato come un grande innovatore, di cui colpisce l'amplissimo spettro di interventi che vanno dalle strutture materiali della città sino al cuore dei suoi processi culturali e tecnici. Egli, ad esempio, durante la censura avviò i lavori per la costruzione della via Appia, cioè la porta verso la Grecia ed il Mediterraneo orientale. Questo spostamento degli orizzonti politici romani verso il Mezzogiorno significava un'alleanza più stretta con i gruppi mercantili e marinari delle città ivi situate. L'attenzione di Appio Claudio verso gli aspetti mercantili e finanziari e i ceti più direttamente ad essi collegati è anche alla base della sua riforma della composizione delle tribù che assumeva, oltre ai beni immobili, anche la ricchezza mobiliare, come criterio di distribuzione dei cittadini. Un ampliamento che si sarebbe riflesso altresì sull'assetto dei comizi centuriati. Rivoluzionaria fu anche la scelta di iscrivere tra i nuovi senatori alcuni liberti. Questo insieme di innovazioni era indubbiamente troppo avanzato perché potesse resistere all'inevitabile reazione della parte più conservatrice: negli anni successivi si revocò sia l'iscrizione nelle tribù rustiche della turba dei non proprietari, ricondotti così all'interno delle sole quattro tribù urbane, sia la nomina a senatore di ex schiavi. Inoltre è a lui che risale una grande iniziativa che avrebbe avuto rilevanti conseguenze, intrapresa dal suo segretario e liberto Gneo Flavio. Egli, in qualità di edile, rese pubblici i calendari e i formulari delle azioni processuali, permettendo a tutti i cittadini di accedere direttamente alla conoscenza degli strumenti fondamentali per la tutela processuale dei loro diritti. Sino ad allora costoro erano dipesi dalla esclusiva e riservata conoscenza che ne aveva il collegio pontificale, al quale quindi dovevano rivolgersi per poter agire in giudizio. Si trattò di un formidabile salto in avanti nel processo di diffusione delle conoscenze giuridiche. Furono introdotte inoltre una serie di riforme finalizzate alla sistemazione del Lazio e della Campania settentrionale. L'opera riformatrice di Claudio tese a ridisegnare ruoli e funzioni di governo e mirò a integrare l'opera dei pontefici con il superamento dei tempi morti e del lento filtraggio che era proprio del loro modo d'operare. Le innovazioni di Claudio, insomma, furono determinanti nell'avviare quella che io chiamerei la formazione di un “mercato”, non di cose, ma di giuristi. CAPITOLO 8 → L'evoluzione del diritto romano e gli sviluppi della scienza giuridica Conclusasi la lunga stagione di un sapere monopolizzato da un gruppo chiuso di specialisti, i pontefici, tra la fine del III e i primi decenni del II secolo a.C., si affermarono le prime generazioni di giuristi “laici”. Costoro furono in grado non solo di estendere a dismisura gli spazi e i tipi di relazioni governati dal diritto, ma soprattutto di elaborare un insieme di procedimenti logici, di verifiche pratiche e di astrazioni concettuali che costituiscono il sostrato di quella vera e propria “scienza” del diritto sviluppatasi in Roma, per la prima volta nella storia del mondo antico. Non meno importante del ruolo di Appio Claudio fu, in tal senso, il pontificato di Tiberio Coruncanio (il primo pontefice plebeo). Egli infatti, permettendo la pubblicità delle sedute dei pontefici, aveva reso possibile che, anche al di fuori del ristretto numero dei membri di quel collegio, altri acquisissero la conoscenza delle regole e la comprensione dei metodi applicati dagli stessi pontefici nel loro lavoro interpretativo. Anche i cittadini estranei a tale collegio poterono così dedicarsi allo studio e all'interpretazione della tradizione giuridica romana. In questo modo s'imposero le prime grandi personalità di giuristi (che solo in alcuni casi rivestirono anche la carica di pontefice). Si trattava di un lavoro tra il teorico e il pratico, che si aggiunse e poi si sostituì a quello dei pontefici nell'assistere e orientare i propri cittadini: consigliandoli sugli atti giuridici da porre in essere (cavere), aiutandoli nell'interpretare situazioni legali oscure e incerte (respondere) e assistendoli negli eventuali litigi (agere). I giuristi ricevevano nelle proprie abitazioni amici, clienti, ma anche estranei che necessitavano di un parere legale, largendo consigli e assistenza. Gli incontri erano un aspetto della vita sociale e ovviamente, pubblici: pubblici i consigli e le spiegazioni. Questi giuristi iniziarono ad essere circondati da un pubblico di auditores, che con il tempo diventavano essi stessi nuovi giuristi. Nel tramonto della scienza pontificale dovette giocare un ruolo non marginale la progressiva diffusione della scrittura. Già nel III secolo, e ancora più in quello successivo, intervenne un notevole ampliamento delle forme scrittorie: basti pensare all'inizio di una letteratura latina che questo presupponeva. È allora, in tale mutato contesto, che la nobilitas laica si impadronì di questa sfera del sapere pratico, iniziando a produrre testi scritti in cui si conservava memoria dei casi e delle soluzioni già discusse e delle proposte avanzate dall'uno o dall'altro giurista. Lo scritto favoriva anche una nuova articolazione del pensiero, attraverso ragionamenti più complessi. Fin tanto che i pontefici erano stati i soli depositari della conoscenza delle norme, totale era stata la loro autorità nell'interpretarne il contenuto e la portata. È verosimile che il punto di partenza del loro lavoro consistesse nella determinazione precisa della portata delle antiche formule legislative e negoziali. Anzitutto la comprensione e spiegazione del significato letterale delle parole in essa impiegate: interpretazione non facile, per l'oscurità della lingua arcaica di molte delle antiche norme, ma, soprattutto, non neutrale perché, in molti casi, attraverso le possibili interpretazioni del singolo vocabolo o delle varie formule, si poteva innovare e modificare il valore immediato e l'originaria portata della norma. Non vi è praticamente norma delle XII tavole che non richiedesse e non rendesse possibile un insieme di interpretazioni sempre più complesse e innovative, man mano che le arcaiche forme del diritto antico si rivelavano di per sé insufficienti a disciplinare una realtà sociale ed economica in rapido sviluppo. Il vantaggio dei pontefici era dunque quello di possedere il monopolio della scienza giuridica; essere pontefice rappresentava inoltre un innalzamento dell'ordine patrizio, poiché i pontefici erano tutti patrizi. Nel III secolo quando il conflitto tra patrizi e plebei si placa, vi sono da un lato la nobilitas patrizio-plebea e dall'altro i ceti ad essa subalterni, e perciò si deve pensare per forza ad una rivalutazione dei rapporti di forza tra collegio pontificale e interpreti della scienza giuridica in generale. Vi sono nuovi ceti pronti a dedicarsi all'interpretazione e al responso, e che hanno capito che con l'applicazione del diritto possono ottenere un consenso dei clienti, i quali accresceranno con i loro voti il loro consenso politico, infatti l'essere “patroni” di un ceto clientelare accresce il proprio potere politico. In riferimento al processo dobbiamo tener conto del fatto che a Roma moltissimi fossero analfabeti e quindi non erano in grado di affrontare un processo civile. Per questo si legavano ad un patrono che gli dettasse le parole, che lo assistesse in giudizio. Altra importante personalità sarà Quinto Mucio Scevola, figlio di Publio, che scriverà un prontuario di regole per i casi più rilevanti. Si avverte un forte influsso da parte del mondo greco, infatti Pomponio dirà “per primo trattò il diritto civile secondo classificazioni sistematiche”. Pontefice e cultore del diritto sacro insieme a quello civile, egli presenta la tipica fisionomia aristocratica che, nel caso particolare, giungeva a sostanziarsi in una tradizione di studi e di specialismi trasmessa di padre in figlio. Ma di Quinto va soprattutto ricordata l'importanza delle sue opere scritte: un libro di “definizioni”, così popolare ed autorevole da sopravvivere fino a Giustiniano, e soprattutto i 18 libri iuris civilis. La sua opera fu oggetto di numerosi commentari di altri giuristi successivi. A Mucio viene riconosciuto il merito di avere per la prima volta elevato lo studio del diritto al rango di scienza, anche se si discute sulla validità di questo giudizio. Un'altra personalità di spicco è l'allievo di Mucio, cioè Servio, di cui non sopravvivono tracce delle sue opere. Sarà la numerosa schiera dei suoi allievi diretti e indiretti (gli auditores Servii) che ci lascerà raccolte dei suoi pareri, i responsa, relativi soprattutto alla soluzione dei casi pratici. Egli farà un lungo periodo di studi a Rodi, dove apprende rudimenti di logica e filosofia che utilizzerà nell'analisi dell'opera del maestro e in libri a carattere monografico legati a problemi giuridici del tempo: uno sulla costituzione della dote e uno sulla detestatio sacrorum, che è uno strumento sacrale con il quale si rompono i rapporti con la gens di appartenenza per transitare, a seguito di adrogatio, in una gens diversa. Dalla scuola di Servio deriva Alfeno Varo, che raccoglie la produzione del maestro e pubblica i Digesta, una selezione di responsi sia suoi che del suo maestro, di cui quello più famoso è quello che riguarda il problema del testamento sottoposto a modus, cioè si diventa eredi solo se si fa qualcosa ed in un certo modo. Il periodo di crisi iniziato nel 133, che si concluderà con la discesa di Augusto, mette in crisi il sistema repubblicano e porta ad una rivisitazione del rapporto con lo ius publicum (insieme di norme attive sul piano fattuale, non si parla di costituzione scritta, ma “materiale”). Fino ad ora i giuristi non se ne erano occupati, in questa fase se ne occuperanno gli antiquari, uomini dotti con buone competenze giuridiche che esercitano il proprio otium riflettendo sul meccanismo del funzionamento della Res publica, sulla categoria di relazioni tra cives e res publica. Varrone, oltre ad essere autore di altre opere, scrive un trattato isagogico sulle competenze del console e sulle sue relazioni con il senato, per formare un console, cioè Pompeo (fino ad ora non era stato necessario per la presenza del cursus honorum e poiché il console poteva avere un collegio di fidati, ma Pompeo era troppo giovane anche per questo). Si ha la necessità di individuare categorie solide su cui fondare il potere delle guerre civili. A questo riguardo vi è un giurista cesariano, Caio Atellio Capitone, che nutre una predilizione per il diritto augurale e il diritto sacrale. Sarà lui a cui Mecenate e Ottaviano si rivolgeranno per creare una struttura politica che eviti l'impressione che Ottaviano sia un monarca, nonostante abbia pieni poteri. Egli parla di res publica restituita, infatti Ottaviano viene visto come colui che ha ripristinato la res publica, facendo salve molte magistrature romane e riuscendo a dargli un insieme di poteri per sorvegliare sul potere repubblicano, facendo credere che sia una proposta del senato. Qualche commentatore più tardo definirà questo modello come il nodus status reipublicae, un nuovo corso della Res publica. Capitone è il grande teorico del principato, Tacito alla sua morte lo definirà un uomo dal grande ingegno che è servito al potere. CAPITOLO 9 → I nuovi orizzonti del III secolo a.C. e l'egemonia romana nel Mediterraneo La presa di Roma sui grandi centri mercantili e marittimi della Magna Grecia, conclusasi con la conquista di Taranto, era destinata a proiettare la sua spinta espansionistica verso una realtà sino ad allora estranea: il mare. La svolta intervenne con il consapevole coinvolgimento di Roma negli affari interni di Messina: una città situata nell'orbita degli interessi territoriali cartaginesi in Sicilia. Si trattava di una scelta politica molto grave, giacché inevitabilmente poneva i Romani in urto con l'antica alleata, dando luogo al primo conflitto militare tra Cartagine e Roma. Iniziava una nuova e drammatica stagione, destinata a concludersi solo alla fine del secolo, nel 202 a.C., con la definitiva vittoria sull'avversaria e sul più grande nemico che Roma abbia mai avuto: Annibale. Queste le date più importanti: – 264 → inizia la prima guerra punica che si protrae fino al 241; – 238-237 → occupazione da parte dei Romani della Sardegna e della Corsica, sottratte ai Cartaginesi; – 238 → conquista della Liguria e della Gallia Cisalpina; – 231 → alleanza dei Romani con la spagnola Sagunto; – 218-202 → seconda guerra punica. Dubbi non lievi erano affiorati nell'oligarchia romana a proposito dell'intervento romano nelle vicende di Messina e, nel corso dei due successivi conflitti, non furono pochi gli sforzi da parte dei gruppi politici più cauti, non solo a Roma, ma anche a Cartagine, di arrestare lo scontro con un ragionevole, e possibile, compromesso. Alla prova dei fatti prevalsero comunque gli elementi più radicali che vollero condurre la vicenda sino alla sua estrema conclusione. Il partito conservatore ottenne un parziale successo, imponendo anche un'espansione territoriale verso l'Italia centro settentrionale. Sotto la guida in particolare di un grande dirigente plebeo, Gaio Flaminio. E ancora una volta, a tale vicenda, si associa la costruzione della via Flaminia, sotto la censura dello stesso Flaminio, nella direzione opposta a quella della più antica via Appia. Nella seconda guerra punica Annibale, portando il suo esercito nella Penisola, perseguiva un disegno strategico che andava oltre il mero confronto militare. Egli mirava alla disgregazione di quell'intreccio d'alleanze subalterne e d'incorporazioni più o meno forzate con cui si era costruito il blocco politico-militare dei popoli italici sotto il diretto controllo di Roma. Sebbene il suo genio militare gli facesse vincere tutti gli scontri diretti che i Romani si illusero di poter affrontare con lui, Annibale non sarebbe riuscito a realizzare a pieno questo progetto. I disastri militari di Roma culminarono a Canne nel 216 a.C. In seguito, grazie a Quinto Fabio Massimo si avviò una strategia totalmente diversa, fondata sul riconoscimento della superiore capacità militare di Annibale. Evitando pertanto ogni scontro frontale, egli mirò piuttosto a stancarlo con piccole ma continue battaglie di logoramento, ottimamente guidate dal collega, il grande generale plebeo, Claudio Marcello, e dalla devastante politica della terra bruciata. Lunghi anni durò questa situazione di stallo, mentre, sotto la guida dei due fratelli Scipioni, i Romani riaprivano la guerra contro contro i possessi cartaginesi in Spagna, cercando di alleggerire la pressione di Annibale in Italia. Cinque anni dopo Canne, nel 211 a.C., si ebbe una svolta significativa, quando, sotto la pressione popolare, il giovane Publio Cornelio Scipione, figlio di uno dei due condottieri della spedizione romana in Spagna, alla loro morte fu investito di quel comando, senza aver prima ricoperto alcuna magistratura superiore: completamente al di fuori, dunque, dal regolare cursus honorum. In Africa Scipione conseguì la definitiva vittoria su Annibale, nel 202 a.C. Profonde e durature furono le conseguenze di questa vittoria, conseguita dopo una guerra così lunga, sanguinosa e devastante. L'enorme potenza così acquisita, non solo collocava Roma in una posizione di assoluto potere rispetto a tutto il Mediterraneo occidentale, ma le permetteva d'affacciarsi con forza sull'Oriente ellenistico. Uno dei più grandi storici del Novecento, Toynbee ha evocato l' “eredità di Annibale”, come titolo di una sua monumentale ricerca, ispirandosi a una bellissima immagine di un altro grande studioso, Gaetano de Sanctis. Questi aveva infatti ritratto Annibale che si allontanava sconfitto dall'Italia, lasciando però dietro di sé, come sua eredità il frutto velenoso dell'accanita lotta da lui condotta contro i Romani. Frutto destinato ad intaccare ed erodere, alla lunga, il trionfo dei vincitori. Tuttavia le straordinarie dimensioni di uno scontro in cui la posta in gioco era tutto avevano inciso su ogni aspetto della società e delle istituzioni romane. Un esempio è il comando straordinario conferito a Publio Cornelio Scipione, che innovava profondamente la prassi costituzionale, staccando il supremo potere di comando militare, l'imperium, dalle magistrature ordinarie, cui sino ad allora esso era stato indissolubilmente legato. Publio Cornelio Scipione accumulò dunque un grandissimo potere ed a lui facevano capo le tendenze, largamente diffuse nella nobilitas, favorevoli a un più deciso coinvolgimento di Roma in Oriente. Contro la preponderanza politica di Scipione si muoverà con decisione Catone il censore, con processi criminali, non direttamente contro l'Africano, praticamente intoccabile nella sua gloria, ma contro il fratello, prima per un affare di “fondi neri” a disposizione di costui nel corso del comando militare in Oriente, di cui non si riusciva a dar conto. Poi con un'accusa portata direttamente da Catone nell'anno della sua censura, per la condotta stessa della guerra e il sospetto di gestione. Nell'amministrazione dei loro patrimoni, i membri della classe dirigente romana fruivano di un insieme di collaboratori, sovente schiavi o liberti orientali con particolari competenze commerciali o finanziarie. Una quota probabilmente maggioritaria di essi dovette tuttavia orientarsi verso gli investimenti immobiliari. L'investimento privilegiato dell'oligarchia romana continuò ad essere costituito dal fondi agrari. Nelle trasformazioni economico-sociali allora intervenute era stato un fattore determinante la grande crescita quantitativa degli schiavi. Nell'ordinamento romano era riconosciuto ai proprietari di schiavi di concedere loro la libertà e, inscindibilmente da essa, anche la cittadinanza romana. È chiaro che i beneficiari di questo straordinario potere furono soprattutto quegli schiavi più a contatto con i loro padroni e meglio in grado di conquistarne la benevolenza. Divenuti liberti, essi e i loro discendenti costituirono un nuovo ed importante gruppo sociale la cui diversa fisionomia e la cui differenziazione culturale, contribuì ad arricchire ulteriormente la società romana. I figli di ex schiavi, se nati quando il padre era già divenuto “liberto”, avevano lo statuto di “ingenui”, potendo ulteriormente ascendere nella scala sociale. Verso la metà del II secolo un grande intellettuale greco, autore della più importante storia a noi pervenuta delle guerra puniche e della successiva espansione romana in Oriente, Polibio, s'interrogò a fondo sui motivi dello straordinario successo politico di Roma. L'intero sesto libro delle sue Storie è dedicato a tale questione. Il grande vantaggio di Roma consisterebbe secondo lui in un equilibrio difficile e sempre mutevole fra le tre forme di governo proprie delle società umane: il governo monarchico, identificabile nei consoli; quello aristocratico, nel senato; quello democratico, nei comizi. CAPITOLO 10 → La prospettiva delle grandi riforme e la crisi della classe dirigente romana In questo periodo l'assetto ormai imperiale di Roma entra in crisi, in quattro ambiti: • crisi economica e delle strutture agrarie; • assetto militare; • concessione della cittadinanza (e una volta concessa a tutti si crea il problema della gestione di un così ampio ventaglio di cittadini); • crisi politica. Paradossalmente erano proprio i successi della politica romana a pesare negativamente sul destino di questa città. Era ormai evidente, infatti, la divaricazione tra un gruppo sociale sempre più ristretto in cui si concentrava una gigantesca somma di potere e di privilegi e una base sociale sempre più ampia, in parte costituita dagli stessi cittadini romani e da tutti gli alleati italici, sottoposta addirittura a costi crescenti. Ciò che rendeva possibile la rottura di quel patto su cui si era fondata la costruzione repubblicana. L'indispensabile capacità di difesa del ruolo egemone raggiunto da Roma, si fondava anzitutto su quella forza militare che, però, a sua volta era la causa prima dello smisurato afflusso di ricchezza, dell'urbanizzazione, dello sfruttamento provinciale, con le tensioni conseguenti e, infine, del moltiplicarsi di quei poteri straordinari conferiti ai grandi comandanti militari. Le fazioni e i gruppi politici che avevano caratterizzato la vita della repubblica si coagularono così in due grandi e permanenti linee di tendenza: – gli ottimati, coloro che appartenevano alle classi più elevate; – i populares, coloro che difendevano la libertà del popolo contro l’arroganza del Senato ed erano favorevoli alle richieste dei cittadini più poveri, pur appartenendo spesso anch’essi alle classi più elevate. Questi gruppi possono essere avvicinati alla nostra idea di “partito” come libera consociazione di individui legati da una comune e simile visione della politica e degli obiettivi da seguire. Meritano un approfondimento le vicende che riguardano le consultazioni del senato. Durante il dibattito senatorio non tutti si esprimo, il senatore che interviene ha un certo rilievo, in ambito consolare ad esempio. Con il passare del tempo verrà individuato un criterio mediante il quale vengono interpellati i senatori: parlano prima i magistrati designati per la carica, cioè coloro che diverranno consoli e che passano avanti a quelli di rango consolare, poi i consulares, poi i praetores designati ed infine i tribuni edili. Dunque in astratto potrebbero parlare tutti. Non c'è un limite di tempo per chi parla, però al tramonto subentrano le divinità degli Inferi, che negano gli auspicia al senato; teoricamente un uomo potrebbe parlare tutto il giorno (diem dicendo consumere → consumare il giorno parlando) → ostruzionismo. I senatori alla fine della discussione fanno emergere delle posizioni guida. Il senato poi vota secondo la discrezionalità dei magistrati. Esso può votare per singulorum sententias exquisitas (sentenze richieste ai singoli senatori, dove per sententiae si intendono interventi che i senatori formulano rispetto alla relatio magistratuale): il senatore valuta, quando emergono più posizioni legittime, quello che è il parere preponderante; quando si tratta di prendere delle decisioni nette, si sceglie tra due proposte (quelle preponderanti), i senatori votano muovendosi da una parte all'altra dell'aula pedibus, dirigendosi dove vi è il senatore che ha formulato la proposta abbracciata. Il senatore si mette a contare e pronuncia la frase “questa parte sembra maggiore” e quindi diviene chiaro l'orientamento del senato. Quella del senato è comunque una proposta, non vincolante di per sé, poi l'atto normativo, che dà avvio all'iter che porterà alla realizzazione di quella che è la proposta senatoriale, ricade sulle spalle del magistrato, che può essere o il magistrato convocante o un altro magistrato sacerdote a seconda della proposta. Il magistrato in astratto può rifiutarsi di attuare la proposta del senato consulto, ma ciò non è possibile per l'autorità dei senatori e per il loro orgoglio di casta. La domanda che ci poniamo è se nel III secolo il senato consulto fosse l'equivalente di un atto normativo e se sia in grado di produrre una normativa immediatamente operante. Nel Principato la risposta è affermativa (come dice Gaio), perché viene rivalutato. Se però cerchiamo di spiegarlo con le categorie dello ius civile, la risposta è no. Se guardiamo ai fatti concreti, cioè alla traduzione del senato consulto in legge, allora possiamo dire che il potere normativo del senato vincola lo ius civile: il potere normativo de facto del senato consulto crea un nuovo ius civile, poiché il magistrato per tradurre in norma immediatamente operante il senato consulto ha bisogno di presentare proposta di legge ai comizi, far approvare la lex publica, e così in modo indiretto il senato crea ius civile. Il ruolo del senato è dunque di sollecitazione dei magistrati a tradurre in atti normativi immediatamente operanti delle proposte di natura propositiva. La lex publica si caratterizza di tre parti: • praescriptio → documenta le tappe di formazione della lex; • rogatio → testo della proposta avanzata dal magistrato/tribuno; • sanctio → clausole per l'osservanza della lex che regolano i rapporti tra la lex e l'ordinamento. Il senatus consultum ultimum è un senato consulto con cui in una situazione di crisi politica si incaricano i magistrati, di solito i consoli, di porre in essere una serie di attività, sospendendo le garanzie “costituzionali”, come la provocatio, l'intercessio, per riportare ordine nell'Urbe. La formula tipica è “videat consules ut.. (provvedano i consoli affinché). Altro esempio di sollecitazione sono le questiones extraordinariae ex senatus consulto. In età arcaica erano processi davanti al comizio centuriato, dopo però a causa dell'aumento della popolazione, gli iudicia populi divengono inefficaci e per determinati crimini di natura politica e contro i politici il Senato decide di trasmettere la competenza a corti straordinarie, che vengono nominate dal senato consulto, che sono presiedute da un magistrato in carica e con lui un collaboratore ed un collegio che ha funzioni di affiancamento. Nelle quaestiones non si avviene ad una decisione definitiva, si fa comunque salva la possibilità per chi è condannato di appellarsi alle leggi Per quanto riguarda l'aspetto tecnico del senato consulto, esso viene trascritto da una commissione composta dal magistrato proponente, questore e da altri senatori interessati alla trascrizione dell'atto. Si struttura in tre parti, come la legge: • praescriptio → insieme di dati tecnici inerenti alla convocazione del senato (dove, quando, chi); • relatio → sintesi della proposta formulata dai magistrati; • decretum → (in questo varia un po' rispetto alla legge), il passaggio dalla seconda fase alla terza è stabilito da una formula standard che tradotta vuol dire “poiché di quella cosa piacque che ciò fosse stabilito, di quella cosa così stabilirono”. Segue il testo del decretum che trasforma la proposta con maggiore consenso in legge, norma operativa. La sententia viene trasformata in legge quando alla fine viene scritto censuere (così hanno stabilito). La struttura nel corso del tempo si manterrà abbastanza stabile, anche se ci sono dei piccoli aggiustamenti, ad esempio durante il Principato, tra la formula di transizione tra relatio e decretum ed il decretum vero e proprio, si introdurrà un cum narrativo (prop. Causale), con una spiegazione delle motivazioni che hanno indotto il senato a prediligere una soluzione piuttosto che un'altra. Può capitare che in una stessa seduta si debba decidere di più questioni, oppure rispetto ad una singola relatio individuare due decreta. Verso la metà del II secolo a.C., era ormai abbastanza diffusa, nei gruppi dirigenti romani, una più o meno confusa consapevolezza dei fattori di crisi presenti nella società romana. Vi era molta preoccupazione per l'abbandono delle campagne da parte dei liberi coltivatori, una questione di grande importanza, data la necessità di fornire con adeguate leve di giovani gli organici delle legioni. A quell'epoca, la composizione dell'esercito si fondava sulle logiche dell'ordinamento centuriato, seppure profondamente modificate e aggiornate nel corso dei secoli. Esso si fondava essenzialmente sul ceto dei piccoli e medi proprietari fondiari (gli adsidui), mentre ne restava al margine la massa di nullatenenti ormai ammucchiatisi in Roma e che vivevano in gran parte in forma parassitaria di liberalità pubbliche e private. Tutti costoro erano concentrati nelle poche centurie di proletarii. A partire dalle guerre annibaliche, si abbassò progressivamente la soglia della proprietà fondiaria richiesta per la collocazione tra gli assidui, e le fila dell'esercito romano furono completate anche con piccolissimi proprietari. La situazione tra le varie classi sociali era molto tesa, con le quali si stabilì anche un limite ai possessi di terre da parte di ciascun cittadino. Questa era la situazione quando nel 133 a.C. un giovane aristocratico, Tiberio Gracco, la cui madre Cornelia apparteneva all'illustre stirpe di Scipione l'Africano, iniziò la sua carriera politica facendosi eleggere al tribunato della plebe. Egli appena eletto avviò una decisa politica riformatrice, tale da suscitare profonde avversioni, oltre che non minori convinte adesioni. Tiberio, con una lex Sempronia, propose ai comizi una legge con cui si riaffermava un limite ai possessi delle terre pubbliche che ciascun cittadino poteva detenere: cinquecento iugeri, per ogni pater familias cui si sarebbero potuti aggiungere altri duecento cinquanta iugeri, sino ad un totale massimo complessivo di ben mille iugeri. I terreni confiscati furono ridistribuiti in modo che ogni famiglia della plebe contadina avesse 30 iugeri. Concentrandosi sull'ager publicus Tiberio si faceva forte del fatto che la comunità CAPITOLO 11 → Il tentativo di restaurazione Sillana e il tramonto della repubblica Nel corso dei secoli, le ondate di tribù barbariche del Nord si erano ripetute e, talora, con esiti abbastanza catastrofici. Da tempo esse però non si erano più verificate, anche per la rafforzata presenza militare romana nell'Italia settentrionale. Di qui l'emozione suscitata dalla rinnovata minaccia, aggravata dalle difficoltà insorte allora nell'assicurare la leva delle legioni da schierare contro gli invasori. La vittoriosa difesa contro gli invasori fu comunque assicurata ad opera di un generale di origine plebea la cui personalità avrebbe dominato le vicende romane a cavallo del secolo: Gaio Mario. La popolarità così conseguita gli valse il comando di un'ancor più difficile guerra contro Giugurta, re della Numidia. Le difficoltà della leva furono superate arruolando volontari provenienti dai vasti strati di cittadini nullatenenti (proletarii), attirati dal soldo e dalla speranza di ulteriori vantaggi economici con la divisione del bottino di guerra. Si avviò così la progressiva trasformazione in un esercito di mestiere. Alla fedeltà verso un'entità impersonale come la res publica sarebbe subentrata nei veterani, arruolati per lunghi periodi di tempo, una più immediata ed esclusiva fedeltà al proprio generale. Era questa un'importante premessa per la progressiva affermazione del potere personale dei grandi comandanti militari. Dopo le campagne contro le invasioni barbariche e contro Giugurta, il prestigio di Mario, rieletto ripetutamente al consolato, determinò una forte spinta in senso popolare. La guida effettiva, tuttavia, finì con l'essere assunta da due personalità più rozze e radicali, Saturnino e Glaucia, che si rivelarono i due veri cervelli politici del partito popolare. La crisi si aggravò ulteriormente quando Saturnino e Glaucia, cercando di farsi rieleggere al tribunato, giunsero all'assassinio del candidato avversario. Ciò legittimò il senato a emanare il sempre temuto senatusconsultum ultimum, incaricando lo stesso console in carica, Mario, di intervenire contro i suoi antichi alleati. Egli non fu in grado d'impedire che, sotto la spinta della nobilitas, si perpetrasse l'uccisione di Glaucia e Saturnino, e di molti loro seguaci, dopo che essi erano stati disarmati e imprigionati dallo stesso console. Ormai egualmente inviso ai popolari, per la repressione da lui condotta, e all'aristocrazia senatoria per tutta la sua precedente storia politica, egli ritenne opportuno allontanarsi da Roma con un pretesto. La guida dei popolari venne di fatto assunta da un altro politico radicale, Cinna, anch'egli un tribuno della plebe. Vi fu in questo periodo una parziale modifica della fisionomia della più alta magistratura di Roma: il consolato. Proprio con Mario infatti, sovvertendo le regole tradizionali, si ammise la rielezione della stessa persona a tale carica per più anni di seguito. Quasi negli stessi anni il figlio di Livio Druso cercò di risolvere la questione degli Italici. Egli, divenuto tribuno, si distaccò dalla politica paterna riprendendo molte delle linee riformatrici del partito avversario. Si trattò di una politica piuttosto equilibrata: mentre una lex Livia agraria rilanciava, insieme ad una legge frumentaria, il contenuto delle riforme graccane, di contro Druso restituiva le competenze giudiziarie al senato, togliendole ai cavalieri. Innalzò a 600 il numero dei senatori e ne aprì i ranghi ad esponenti del ceto equestre. Dovette far fronte anche alla richiesta degli Italici di accedere alla cittadinanza romana. A tal proposito Druso presentò una proposta di legge relativamente moderata, che prevedeva la progressiva concessione della cittadinanza romana agli alleati italici. L'oligarchia senatoria però rifiutò ogni soluzione di compromesso ed i più oltranzisti del partito senatorio si spinsero ad assassinare lo stesso Druso. Allora, di fronte a questa ulteriore e violenta chiusura, le tensioni accumulatesi esplosero con violenza portando a una generalizzata ribellione antiromana da parte degli Italici. La “guerra sociale” si affermò come una grande alleanza di popoli, il cui nucleo più forte era costituito dai Sanniti. La maggior parte degli studiosi affermano che bisogna individuarne il fondamento nella diffusa aspirazione degli Italici, anzitutto dei Latini, alla piena assimilazione e parità di condizioni con i Romani. Tra i soci italici, infatti, non dovettero essere pochi coloro che videro, in questo frangente, l'occasione per riconquistare una piena libertà dal giogo di Roma, abbattendone la soverchiante potenza. Nei Latini, attratti anch'essi nell'alleanza antiromana, dovette prevalere il primo aspetto, nei Sanniti, invece, il secondo. I ceti dirigenti di Roma, che avevano saputo in modo così straordinariamente efficace conquistare un vastissimo impero, si stavano ora mostrando pressoché incapaci di conservarlo. Maturò la svolta politica che indusse Roma ad offrire, ora, a chi avesse sospeso le ostilità belliche, quei benefici precedentemente negati. Tra l'89 e l'88 a.C. la guerra si spense lentamente dopo che la lex Iulia de civitate Latinis et sociis danda, integrata poi da altre due leggi, sancì la concessione della cittadinanza romana ai Latini e agli antichi alleati italici restati fedeli o che avessero immediatamente deposto le armi contro Roma. Ora però si verificava un problema: valutare le modalità con cui i nuovi cittadini romani dovessero essere inquadrati all'interno del sistema comiziale romano. I nuovi cives, pur così numerosi, vennero inquadrati in un numero molto limitato di tribù. Tuttavia c'è da dire che le riunioni comiziali si svolgevano a Roma e ciò imponeva ai nuovi cittadini che avessero voluto partecipare al voto, spostamenti più o meno gravosi, con giorni di viaggio. Di fatto solo i più ricchi tra costoro, e solo per quelle votazioni che avessero avuto maggiore importanza, parteciparono ai comizi, con un effetto relativamente limitato sul loro esito. In questo contesto e con il passare del tempo, dunque, le vecchie lingue sparirono a vantaggio del latino. Per quanto riguarda la parte orientale dell'Impero, il potente re del Ponto, Mitridate, provocato da un'avventurosa spedizione contro di lui da parte di un modesto esercito locale, guidato e accompagnato da forze romane, dette ai piccoli staterelli ancora indipendenti e alle numerose città e popolazioni ormai assoggettate da Roma un clamoroso segnale di sollevazione contro il suo dominio. Esso consisteva nel massacro di tutti i commercianti romani e italici che, forti di questa supremazia, si erano sparsi nei territori d'Oriente, impegnati in molteplici speculazioni. La vasta adesione all'ordine di eccidio e le dimensioni di questo attestano l'intensità dell'odio antiromano nell'Oriente ellenistico. Il comando di questa importante campagna militare fu assegnato a Lucio Cornelio Silla, un brillante esponente del partito aristocratico che si era già messo in luce nella guerra sociale. Nel corso di un ormai endemico processo di erosione delle istituzioni repubblicane spicca indubbiamente l'uso politico dei processi criminali: da un lato i procedimenti de maiestate avviati da parte popolare per eliminare o indebolire eminenti esponenti dell'aristocrazia. Di contro la nobilitas ricorreva al senatusconsultum ultimum per spezzare la forza dei populares. A questi abusi si accompagnava poi, non di rado, il delitto politico, in uno scontro senza più misure e regole. La situazione si acuì ulteriormente quando Silla andò in Asia ed addirittura furono uccisi alcuni dei suoi parenti. Entrato vittorioso nella città, egli impose un ordine legale fondato sul terrore. Silla introdusse infatti le “liste di proscrizione” con cui una serie di capi popolari, ma anche di meri avversari personali di Silla o di qualche suo potente seguace, furono dichiarati “nemici della repubblica”: i loro beni furono espropriati essendone una parte consistente assegnata a colui che avesse denunciato il singolo proscritto e la loro stessa vita lasciata alla mercé dell'assassinio legalizzato. La lex Valeria de Sulla dictatore, imposta ai comizi ormai asserviti, attribuì a Silla un potere assoluto, in qualità di “dittatore per ricostruire la repubblica e scrivere le leggi”. Il grande capo aristocratico restò in carica circa due anni e al loro scadere si ritirò a vita privata. Per quanto riguarda le riforme introdotte da Silla, egli era un convito e radicale esponente della cultura e dei valori dell'aristocrazia romana che si sostanziava in un sistema fortemente gerarchico, con il suo punto di forza nel senato. Il dichiarato obiettivo perseguito dal dittatore di riaffermare l'antica centralità del senato come sede primaria della politica, perduta o, almeno, fortemente indebolitasi nel corso degli ultimi decenni, doveva fare i conti con due ordini di problemi. Da un lato stemperare il rinnovato vigore rivoluzionario del tribunato della plebe, dall'altro andava bloccata la pericolosa crescita del peso politico dei comandi militari, di cui lo stesso Silla aveva dato la misura. Quanto al tribunato della plebe, l'obiettivo era chiaro: si trattava di impedire che, per il futuro, potesse riproporsi l'azione eversiva di questi magistrati, evidenziatasi sin dall'età dei Gracchi e divenuta il fondamento del partito popolare. Silla stabilì la preventiva approvazione del senato dei candidati all'elezione a tribuno ed introdusse il divieto, per coloro che avevano ricoperto questa magistratura, di rivestire altre cariche, comprese quelle cum imperio. Lo stesso suo fondamentale potere di veto (intercessio) fu profondamente intaccato, limitato ad interventi solo a favore del singolo cittadino. Diciamo che i suoi interventi erano finalizzati ad una parziale rivitalizzazione dell'auctoritas patrum interposta alle leggi comiziali. L'auctoritas costituisce la convalida, ad opera del senato, delle deliberazioni assunte dalle assemblee popolari. Rappresentava una delle attribuzioni di maggior rilievo del collegio senatoriale. V'era poi anche l'obiettivo d'impedire che altri potessero riprendere l'esempio da lui stesso dato, usando l'esercito per imporsi nel gioco politico romano. Silla accentuò la distinzione tra governo civile e comando militare, ribadendo l'antica tradizione che escludeva l'esercizio dell'imperium militiae entro i confini sacri di Roma (pomerium). Solo che ora, i confini civili di Roma furono da lui estesi sino a comprendere tutta l'Italia peninsulare rendendo illegale in tutto questo territorio ogni attività di tipo militare. Ne risultò la totale spoliazione dei consoli del loro imperium militiae, essendo stati essi vincolati a risiedere permanentenemte e a esercitare le loro funzioni solo in ambito italico. Vi fu inoltre la riattribuzione al ceto senatorio del controllo dell'intero sistema criminale romano, con la rinnovata composizione di tutte le questiones perpetuae. I componenti di tali tribunali tornarono a essere di rango senatorio. Egualmente in tale direzione si colloca la soppressione delle frumentationes a favore della plebe urbana. Per quanto riguarda il processo criminale, limitata appare la tipologia dei crimina perseguiti direttamente dalla città di fronte all'estensione di altre forme di repressione che richiedevano la reazione diretta e personale degli offesi. Tuttavia, nel corso del tempo, l'intervento diretto della città si ampliò gradualmente coinvolgendo Cesare aveva giò dato prova della sua forte influenza sui comizi facendosi eleggere alla prestigiosa carica di pontifex maximus. Dall'accordo con Pompeo e Crasso egli si riprometteva di ottenere il loro appoggio alla sua candidatura al consolato, Pompeo grazie ai comizi controllati da Cesare, voleva ottenere l'approvazione del suo progetto di sistemazione delle province d'Asia che il senato era restio a concedergli, ed infine Crasso voleva rispolverare il proprio prestigio militare, ormai datato, guidando una nuova guerra contro i Parti. L'accordo tra i tre personaggi giovava dunque a tutti. Il Primo Triumvirato fu firmato nel 60 a.C. ed il fatto che esso non fosse altro che un accordo politico privato, irrilevante in sé rispetto ai ruoli istituzionali e alle forme di governo, sottolineava la debolezza di un sistema di governo ormai incapace di reggersi sulle sue proprie fondamenta, alla mercé dei rapporti di forza, di volta in volta delineatisi nel gioco politico. Con le proposte di legge agraria da lui ispirate e contro cui si schiererà, a difesa degli interessi e dei pregiudizi oligarchici, Marco Tullio Cicerone, Cesare riprendeva un punto centrale e altamente simbolico del programma di parte popolare sin dall'età dei Gracchi. Con esse infatti si prevedeva una nuova distribuzione di ager publicus sia in Italia che in varie province ed una nuova disciplina delle terre restate pubbliche. Si può però cogliere un più generale interesse per buon governo nella sua lex Iulia de pecuniis repetundis, volta a riorganizzare l'intera disciplina di questo reato ed il relativo processo con tale efficacia da giustificarne la sua successiva durevole fortuna. Sicuramente buona parte del suo potere proveniva dall'appoggio da parte dei tribuni della plebe. Sin dal primo triumvirato del resto era nota la sua stretta alleanza con lo spregiudicato ed energico Clodio, che avrebbe solidamente tutelato gli interessi di Cesare, negli anni della lontananza di questi, andato a governare, dopo il suo consolato, la Gallia Cisalpina. Molti furono i motivi che comportarono la crisi definitiva della repubblica e il suo esito. Anzitutto la debolezza delle strutture politiche cittadine rispetto agli immani compiti che si ponevano per il governo e il controllo di un potere esercitato ormai, direttamente o indirettamente, su tutto il mondo mediterraneo. La stessa concessione della cittadinanza romana agli italici, più che un riassetto complessivo del sistema di governo di Roma, aveva finito con il rendere più evidente l'inadeguatezza della forma di governo della res publica. V'era poi il problema del controllo politico della forza militare, aggravatosi con la restaurazione sillana. Non avendo approntato alcun meccanismo istituzionale che saldasse direttamente, secondo una linea di comando unitaria il governo militare a quello civile, non solo era possibile, ma anche molto probabile, che quest'ultimo alla fine cadesse alla mercé del primo. Alla fine in questo conflitto tra personalità politiche vinse non solo il capo di eserciti più bravo nell'arte della guerra, ma anche e soprattutto colui che aveva più chiaro, davanti a sé l'obiettivo da perseguire, gli strumenti per realizzarlo e il prezzo da pagare. La situazione precipitò dopo una prolungata e velenosa controversia, avviatasi sin dal 52 a.C. e formulata in termini giuridici. Da una parte infatti il senato voleva disarmare Cesare: il progetto dei suoi avversari era quello di costringerlo a presentare personalmente la sua candidatura al consolato come privato cittadino (come da prassi ordinaria). Dall'altra parte il generale chiedeva di poterlo fare non di persona, restando ancora alla testa del suo esercito in Gallia, per rientrare in Roma solo dopo la sua elezione e protetto dalla nuova carica. Il disegno del partito senatorio era evidentemente quello di ridurre fortemente il potere di Cesare, privilegiando la posizione di Pompeo, ormai schieratosi decisamente con esso. Il suo ritorno a Roma come privato cittadino, in una stagione in cui l'assassinio politico era ormai divenuta la forma di lotta corrente, più che un azzardo, sarebbe stata una totale ingenuità o una dichiarazione di resa. Si trattava quindi di cambiare i termini del gioco. Varcando, nel 49 a.C., il Rubicone – il fiumiciattolo presso Rimini che segnava il confine dello spazio civile di Roma entro cui era vietato guidare eserciti – Cesare si mise indubbiamente fuori dall'antica legalità repubblicana, accingendosi ad affermare, con la decisione e la lucidità che ne avevano caratterizzato sino ad allora l'azione politica, una nuova legalità. Allontanatosi dall'Urbs e dall'Italia Pompeo con tutto il suo seguito, Cesare restò padrone del campo. Il suo avversario aveva infatti prescelto come teatro dello scontro militare ormai inevitabile l'Oriente, dove egli aveva numerose clientele e amicizie per il ruolo a suo tempo svolto nella sistemazione di quell'area. A Farsalo, nella Grecia centrale, si giocò dunque l'ultima partita, dove Cesare, a capo di un'armata numericamente inferiore dell'esercito di Pompeo, ma meglio organizzata e più abilmente guidata, inflisse all'avversario una radicale sconfitta. Pompeo fugge in Egitto dove viene assassinato dal giovane Tolomeo, sovrano d'Egitto, per compiacere Cesare , che però venuto a conoscenza della vicenda fa valere l'argomento secondo cui solo un cittadino romano può mettere a morte un altro cittadino romano, e così riesce ad annettere l'Egitto come regno cliente, lasciando a Cleopatra e al fratello un ridotto potere. La conclusione dell'intera vicenda si ha a Tapso, in Africa, con il suicidio del più illustre degli ultimi difensori dell'oligarchia romana, Catone. Forte della definitiva vittoria sul partito senatorio e su Pompeo, tornato a Roma Cesare si accinse a costruire la nuova realtà politica. Egli infatti ricoprì per più anni di seguito l'ufficio di console, conservando tuttavia il diretto controllo dell'esercito mediante l'imperium proconsolare. La posizione di Cesare risalta però soprattutto per il potere assoluto ed eccezionale da lui acquisito facendosi conferire la dittatura. Inoltre in virtù della potestà censoria, attribuitagli dai comizi, potè intervenire molto incisivamente sulla struttura della cittadinanza e sulla composizione dei vari ordini e ceti, compreso l'assetto del senato. Aveva inoltre il potere di attribuire il governo delle province ai vari magistrati, il diritto di decidere nuove guerre e il controllo dell'erario che gli assicurava il governo di tutti i flussi d'entrata e di uscita dalle casse pubbliche. Si trovava nelle sue mani l'intera macchina delle finanze pubbliche. Quando fu istituita, nel 48 a.C., questa dittatura doveva essere temporanea, di durata semestrale. Dal 45 a.C. essa fu però trasformata in un attributo permanente e vitalizio, facendo uscire definitivamente la sua persona da qualsiasi precedente repubblicano. Anche a livello simbolico si accumulò una serie di innovazioni che tendevano a esaltare la sua persona al di là dei limiti tradizionali: dalla toga purpurea che i magistrati indossavano solo nel giorno del loro trionfo e progressivamente riconosciutagli senza alcun limite, alla corona d'alloro, anch'essa segno originario del trionfo militare e da lui portata d'ordinario, all'istituzione di una guardia personale composta da senatori e cavalieri. Non vi fu aspetto delle istituzioni e della società che non sia stato investito dalla sua azione. Due in particolare sono i settori dove la su azione avviò a soluzione problemi centrali per l'esistenza stessa della res publica. Si tratta dei nodi cruciali costituiti dalla cittadinanza romana e dall'organizzazione del sistema provinciale. Cesare rilancia con forza il processo d'integrazione, portandolo alle sue inevitabili conseguenze, sia estendendo la cittadinanza romana a tutta la Gallia Cisalpina e realizzando così l'effettiva unificazione politica della Penisola, ma anche in senso verticale. Egli infatti procede ad un'altra e ancora più incisiva riforma, allargando l'organico del senato a 900 membri. Altro aspetto fortemente innovativo è costituito dall'inserimento nelle sue fila di esponenti della borghesia italica, tra cui alcuni Galli, solo allora divenuti cittadini, oltre che una serie di più dubbie figure di seguaci, politici o militari del dittatore. Per quanto riguarda l'organizzazione territoriale, al cuore del potere, concentrato in Roma, si raccordò un sistema periferico di città, orientato a riprodurre “in piccolo” il modello romano. L'avvio della singolare costruzione di quello che possiamo chiamare l' “impero municipale”, che avrà il suo apogeo a partire da Augusto, trova le sue sicure radici nel complesso di riforme e di innovazioni introdotte da Cesare. Cesare rafforzò i controlli esercitati dal potere centrale, ponendo limiti agli arbitri nei governi provinciali, per evitare lo strapotere e la politica di sfruttamento condotta dai governanti, dagli speculatori e dagli affaristi. Per valutare la spinta rivoluzionaria dei suoi anni di governo dobbiamo tener presente che la sua azione investì quasi ogni aspetto della società romana in uno straordinario sforzo di razionalizzazione e di modernizzazione. Anzitutto con la riforma del calendario, portato a 365 giorni e praticamente restato a regolare il tempo sino ai giorni nostri, i grandi piani di sistemazione urbanistica della capitale e gli ancor più vasti programmi di opere pubbliche, o l'approvazione di una legislazione “d'emergenza” per fronteggiare le conseguenze catastrofiche delle guerre civili. Per quanto riguarda le popolazioni della Penisola un punto fermo da queste affermato era costituito dalle condizioni per l'acquisizione della cittadinanza romana, che subordinavano tale acquisto alla rinuncia, da parte delle varie città italiche, ai loro antichi sistemi giuridici. Indipendentemente dal terremoto giuridico che ciò comportava, la subitanea e integrale sostituzione del diritto romano agli ordinamenti locali, anche in ragione del loro minor grado di articolazione e raffinatezza, dovette essere difficile e richieder tempo. Per questo credo che il processo allora avviato, se pure definito il linea generale nel modo sopra indicato, si sia completato da solo nel periodo che va dalla guerra sociale agli anni del governo di Cesare, allorché la civitas romana venne da lui estesa agli abitanti della Gallia Cisalpina. In seguito, l'insieme di diritti privati, in primo luogo la stessa proprietà, così riconosciuti a tutti i vecchi e nuovi cittadini, fu concepito come un blocco organico e indicato con l'espressione ius italicum. Le Idi di marzo del 44 a.C., quando Cesare venne pugnalato in senato da un gruppo di congiurati appartenenti ai suoi ranghi, tra cui il nobile Bruto, amico e protetto dello stesso dittatore, segnano l'ultimo importante sussulto di una tradizione aristocratica ancora vitale, ma possono anche far sospettare un certo isolamento di Cesare negli ultimi mesi di governo. Diversi furono i motivi, contribuirono anche le ombre che derivavano dal suo love affair con l'erede della dinastia dei faraoni, dallo stesso Cesare confermata come regina d'Egitto, Cleopatra, che aveva cessato di essere cosa privata. La presenza di Cleopatra a Roma e quella del figlio nato dalla loro relazione, Cesarione, la dissoluzione del precedente matrimonio di Cesare, insieme all'accentuata esaltazione della sua figura e del suo potere, evocavano l'immagine ormai di un sovrano orientale. La fragilità del programma politico alla base della congiura anticesariana è però a sua volta resa evidente dall'incertezza di condotta dei congiurati, successivamente all'uccisione di Cesare. Si trattò di un arco di tempo di un anno circa, conclusosi con il definitivo accordo tra Antonio e Ottaviano, nell'estate del 43 a.C. Il primo e più immediatamente evidente aspetto è che gli eventi che seguirono all'uccisione di Cesare, lungi dal riequilibrare i rapporti di forza, confermarono l'irrimediabile debolezza politica delle istituzioni repubblicane cui si rifacevano i congiurati. Praticamente senza soluzione di continuità si imposero infatti al centro della scena politica gli eredi e i continuatori di Cesare, mentre si confermava il carattere determinante dell'elemento militare nella definizione dei rapporti di forza. Dopo una specie di tregua armata, una nuova forma di governo venne fatta votare dai comizi, a sancire la irreversibile rottura con il passato: il secondo triumvirato. Esso, del 43 a.C., attribuiva amplissimi poteri di governo e costituenti, supportati dal comando militare assicurato dall'imperium proconsolare, al grande collaboratore e generale di Cesare, Marco Antonio, al giovane pronipote dello stesso Cesare e da lui adottato per testamento, Gaio Ottavio, nonché ad un altro eminente capo popolare, sostanzialmente la situazione precedente, in un quadro di non grande chiarezza istituzionale, anche se, a partire dal 31 a.C. egli si era fatto eleggere console insieme al suo fidato Agrippa. Carica che conservava ancora nel 27, allorché, nel gennaio di quell'anno, in due solenni sedute del senato, Ottaviano annunciò la rinuncia ai suoi poteri straordinari, a seguito dell'avvenuta restaurazione della res publica, in grado ormai di funzionare regolarmente. È però vero che, anche dopo questa “restituzione”, egli restava titolare del consolato, mentre era stato già designato princeps senatus – un organismo che pretendeva di aver riportato all'antico prestigio dopo la crisi delle guerre civili – e rimaneva investito dei poteri propri della tribunicia potestas. Gli fu inoltre votato un insieme di onori straordinari e di nuovi poteri. La tribunicia potestas formalmente è il potere dei tribuni, anche se per loro esiste la magistratura che comporta due vincoli: collegialità e annualità della carica. Per permettere ad Augusto di avere le prerogative del tribuno della plebe senza il fattore dei vincoli bisogna dare la res, ma senza la imaco esteriore. Lo studioso Syhne dice che essa permetteva di esercitare poteri tipici di magistratura straordinaria senza che lo fosse, quindi viene assicurata e conservata la forma repubblicana e allo stesso tempo assicurata la base monarchica. Le potestà interconnesse con la tribunicia potestas sono: • ius agendi cum patribus; • ius agendi cum plebe; • diritto alla sacrosantitas (inviolabilità della persona che permetteva ad un principe di prendere precauzioni senza doversi appellare alla provocatio); • intercessio (possibilità di paralizzare gli atti di tutti gli altri magistrati presenti a Roma). Quando Ottaviano era stato adottato da Cesare aveva smesso di essere plebeo ed era divenuto patrizio, per questo non poteva esser tribuno della plebe, ma poteva assumere la tribunicia potestas, che era come se fosse in realtà la stessa cosa. Fu concesso a favore di Ottaviano un imperium, per la durata di cinque o di dieci anni, con il diretto comando di tutte le province non “pacificate”: in pratica quelle strategicamente rilevanti, dove si trovavano le legioni. Questa sua posizione fu integrata anche da un diritto d'intervento per salvaguardare in generale ogni interesse pubblico, in seguito indicato da Plinio come omnium rerum potestas. Si pensa che l'imperium di Augusto fosse totale, indistinto e assoluto. L'imperium è il potere che in età repubblicana viene dato per strutturare le magistrature maggiori: si possono prendere gli auspicia ed essere posti al vertice della scala gerarchica romana. Mentre il rex ha imperium vitalizio, i consoli ne hanno uno annuale, mentre i dittatori dipende. Il principe ha un imperium svincolato dalla magistratura, i senatori in precedenza avevano concesso a privati cittadini imperia straordinari per risolvere situazioni di conflitto (a Pompeo ne era stato donato uno per sconfiggere i pirati). L'imperium che viene concesso a Tiberio è un imperium proconsolare, esercitabile cioè solo fuori dall'Urbe e in determinate province, ma che senso aveva darlo ad uno che era sempre a Roma? Diciamo che questo imperium non è proconsolare in senso stretto, diviene tale al di fuori del pomerium, ma anche all'interno può essere esercitato liberamente con tutte le prerogative che sono tipiche di coloro che avevano magistrature nelle quali è previsto. Ottaviano iniziò ad essere indicato come il princeps universorum: di tutti. Tale eminenza venne poi ulteriormente sottolineata dalla sua nuova designazione come Augustus, evocativa di un'autorità vaga ed indistinta, atta a collegarsi anche con la sfera religiosa. Non si deve poi dimenticare che egli in base all'adozione testamentaria di Cesare, avesse assunto il praenomen di questi: Imperator, a significare, insieme all'eredità politica del grande predecessore, la sua preminente posizione nella res publica e il fondamento militare del suo ruolo. Nel 27 vi è anche la distinzione tra province: • senatorie: funzionano come in età repubblicana, controllate dal Senato. Si paga un contributo che va nell'erarium e sono pacificate, non hanno legioni; • imperiali: sono affidate ad Augusto che non potendole governare tutte vi invia dei rappresentanti. Nel 23 a.C. egli rinunciò al consolato; ottenne allora la pienezza dei poteri tribunizi a vita, senza però la titolarità della carica, il che gli assicurò il carattere sacrosanto della sua persona, la possibilità di convocare i comizi e soprattutto il potere di veto contro ogni possibile iniziativa dei magistrati in carica. Da quell'anno l'imperium di Ottaviano fu qualificato come maius. In seguito egli avrebbe assunto anche l'imperium consolare, verosimilmente a vita, ed il ius auxilii esteso oltre al pomerium. Quasi ovvia conseguenza di questa sua peculiare situazione era il controllo da lui acquisito su ogni decisione circa la guerra e la pace, e sulla stipula dei trattati internazionali. Si venne perfezionando un sistema di governo che conservava la forma della costituzione repubblicana – il senato, anzitutto, i comizi, e le antiche magistrature repubblicane – ma in cui la struttura portante dell'intera impalcatura era ormai fondata su un potere personale garantito dal diretto controllo dell'esercito e da una capillare ed amplissima facoltà d'intervento in tutte le sfere della politica e dell'amministrazione. Ottaviano si fece attribuire la somma quasi totale delle competenze proprie delle più importanti magistrature repubblicane, concentrando in sé quella sovranità così articolata e diffusa nel sistema repubblicano. Augusto fu anche nominato pontefice massimo nel 12 d.C. Ed assolve alla necessaria ed esclusiva intermediazione tra la sfera divina e quella umana. Nel corso degli anni successivi, con pazienza e abilità non meno grandi, egli conserverà e consoliderà la sua posizione e, con essa, l'impero. L'eccezionale lunghezza di questo periodo, più di ogni altro fattore, potè assicurare quella stabilità e quella sicurezza cui ormai tutti i ceti e tutte le parti dell'impero ambivano. Per quanto riguarda il senato, Augusto non amava tale consesso che, nella sua grande maggioranza, al momento dello scontro definitivo con Antonio, si era schierato contro di lui. Tuttavia, anche volendolo, non avrebbe potuto sopprimere questo fondamentale serbatoio della classe dirigente romana. Il suo progetto comportava sì profondi riequilibri e trasformazioni, ma non l'integrale cancellazione della stessa fisionomia della città e tanto meno una generale rivoluzione sociale: in ciò egli non solo era per calcolo e temperamento più cauto dell'ansia innovatrice di Cesare, ma meno propenso di questi a portare sino alle estreme conseguenze gli aspetti più radicali della tradizione popolare. La sua opera politica si concretizza in un ponte tra vecchio e nuovo, anche il suo rapporto con il senato sarà ambivalente. La politica religiosa fu un altro elemento importante nella costruzione del consenso intorno alla figura di Augusto, come possiamo notare nella solenne inaugurazione dell'Ara Pacis Augustae. Egli stesso nelle Res gestae dice che superò tutti per auctoritas, ma non ebbe poteri maggiori degli altri magistrati presenti. Quindi non si crea un potere magistratuale forte (poiché altrimenti sarebbe sfociato in una adfectatio regni), ma avrà più auctoritas di tutti. Con il passare del tempo si verificò un sensibile ridimensionamento dell'antico ruolo del senato a favore del governo di Augusto. Ridusse infatti il numero dei senatori a 600, con l'allontanamento di non pochi dei nuovi membri introdotti a suo tempo da Cesare, tra cui molti provinciali, riqualificò il prestigio di questo organismo. Del senato facevano parte i diretti discendenti di un membro di esso, nonché coloro che vi fossero stati fatti rientrare direttamente dal superiore potere censorio dello stesso principe. In parallelo si precisò, anche più nettamente il livello di ricchezza richiesto per accedere a tale collegio. Divenne infatti indispensabile che i senatori avessero un patrimonio di almeno un milione di sesterzi, talché in alcuni casi lo stesso Augusto intervenne personalmente a integrare le insufficienti ricchezze personali dei prescelti. I senatusconsulta divennero una fonte normativa, una fonte del diritto civile al pari delle antiche leges comiziali. Il senatoconsulto era emanato dal senato, in genere, su proposta del princeps, esposta personalmente in assemblea, o letta da un magistrato da lui incaricato. Nel tempo, sempre meno la delibera del senato si sarebbe discostata dal testo sottopostogli, sicché i giuristi, nel riferirsi alla nuova normativa, iniziarono ad indicarla come l'oratio in senatu habita: “il discorso tenuto dal principe in senato”. Anche lo spazio dei comizi fu significativamente ridimensionato. Essi persero gran parte del loro ruolo nella scelta dei nuovi magistrati, giacché sin da Augusto il principe prescelse alcuni di questi con una sua commendatio, rendendo di fatto la loro elezione un atto dovuto dei comizi. Di contro, Augusto tese a dare un grande rilievo all'altra antica funzione assolta dai comizi: la legislazione. Della numerosa serie di leggi comiziali con le quali, in età augustea, si venne a incidere profondamente su tutta la vita giuridica, tanto nei vari aspetti del diritto civile quanto in quelli del diritto penale e del sistema processuale, si ricordi una lex Iulia iudiciorum privatorum con cui si sancì la definitiva scomparsa dell'antico processo per leges actiones, ed un'altra lex Iulia iudiciorum publicorum, che introdusse una generale riforma del processo penale romano, intervenendo ampiamente sul sistema delle quaestiones. Per quanto riguarda le magistrature, è indubbio che in questo tipo di governo la loro antica funzione appaia in decadenza. Ciò è evidente soprattutto per quelle figure che avevano avuto un ruolo maggiore in età repubblicana, e in particolare i consoli. La loro incidenza venne ridotta con l'introduzione, accanto a quelli ordinari, di altri consoli suffecti, destinati a subentrare ai primi nel corso dell'anno. In tal modo si poteva soddisfare un maggior numero di ambiziosi, riducendo ancor più l'effettiva rilevanza della carica. Discorso non molto diverso va fatto per il tribunato, limitato fortemente dalla diretta concorrenza della tribunicia potestas dello stesso principe. Tuttavia tale magistratura si confermò immutata, così come tale restò l'ediltà. La questura potè conservare, almeno in un primo momento, le sue antiche funzioni. Alla persistente importanza del pretore contribuiva altresì la consolidata istituzionalizzazione delle quaestiones perpetuae nel campo criminale, tutte presiedute da un pretore. Il numero di questi ultimi sotto Augusto giunse ad un massimo di 16. Un'importante novità fu che a partire da Augusto si introdusse un sistema generale di retribuzioni fisse per tutti i magistrati e funzionari, mentre prima erano gratuite, al massimo si provvedeva alla restituzione delle spese sostenute durante la carica. In questi sviluppi un ruolo importantissimo fu svolto dal ceto equestre che fornì in misura crescente i quadri richiesti dal nuovo apparato, rinnovandosi così e modificandosi gli equilibri e la gerarchia sociale tardorepubblicana. La crescita d'importanza degli equites era già ben evidente con gli immediati successori di Augusto, in particolare con Nerone, e si accentuò ulteriormente con Vespasiano e Adriano. A differenza delle magistrature repubblicane, tutti questi funzionari erano direttamente nominati dal principe e ne dipendevano integralmente, anzitutto per la retribuzione. I diversi livelli retributivi dei vari funzionari riflettevano la relativa importanza degli uffici ricoperti ed il loro rango. Col formarsi di un insieme di tecniche di gestione e di regole di governo, si venne a formare, seppure in forma affatto embrionale, una struttura di tipo burocratico, governata da una gerarchia interna, dove i suoi membri finivano col trovarsi all'interno di una forma di “carriera”. È indubbio che in questo nuovo sistema le fortune dei singoli dipendevano dal benvolere dei principi. scongiurare i pericoli di dissesto delle finanze locali che una cattiva amministrazione poteva comportare, con riflessi negativi, anche se indiretti, per Roma. Il governatore era altresì il superiore punto di riferimento nell'amministrazione della giustizia. Importante è anche la situazione dell'Egitto, che sebbene fosse divenuto un elemento, anche se molto importante, del sistema provinciale romano, con la sua vittoria su Cleopatra, Augusto, agli occhi degli Egiziani appariva l'erede dei faraoni, assumendo gli stessi onori divini e umani goduti dai Tolomei, l'ultima dinastia conclusasi ancora con Cleopatra. Su di esso il principe esercitò un controllo diretto, attraverso un praefectus Aegypti, di rango equestre, da lui direttamente dipendente: una delle cariche più elevate dell'intera carriera dell'ordine equestre a sottolineare il rilievo affatto particolare di tale dominio. Importante fu anche la formazione di quello che noi indichiamo, con espressione generica, la “cancelleria imperiale”: lo strumento indispensabile al principe per governare effettivamente, al di là della sua Urbs, l'universo imperiale. Mutava così il rapporto tra il centro del potere ed il complesso mosaico del sistema periferico, assoggettato ora a una costante opera di monitoraggio e d'indirizzo, assai più efficace che in età repubblicana. Lo sviluppo di questa rete di uffici e di funzioni permise a sua volta una crescente specializzazione nel personale reclutato dal principe. Il potenziato rapporto tra centro e periferia fu possibile in quanto fu progressivamente messo in opera un complesso sistema di circolazione delle informazioni e delle direttive imperiali. Un'operazione tanto più impegnativa se si considera lo straordinario mosaico legato agli smisurati ambiti territoriali ed alla eterogeneità stessa dei destinatari dell'imperium Romanum. In questo contesto assume rilevanza primaria l'ufficio ab epistulis, fondamentale strumento di comunicazione con l'esterno del principe. Tale ufficio fu diviso in due, per la corrispondenza in latino e in greco: le due lingue dell'impero, sotto la direzione di due procuratores. Come tutti gli antichi magistrati di più alto livello, anche Augusto era, infatti, titolare di uno ius dicendi inerente al suo imperium. E proprio a lui risalgono dunque i primi edicta rivolti a una provincia o a singole comunità all'interno di essa, nonché ai municipi o alle colonie romane. I destinatari immediati ne erano i magistrati e i funzionari preposti ai governi periferici. Lo strumento principale per impartire le direttive del governo centrale erano tuttavia i mandata, con cui il principe dava specifiche istruzioni ai governatori provinciali, non esclusi quelli delle province senatorie, o ad altri funzionari. Inoltre la loro efficacia, in un primo momento non andava oltre la vita del principe che li aveva emanati. Più direttamente riferiti alla sfera giuridica erano poi i decreta in cui si sostanziava una decisione giudiziale relativa a una questione sottoposta al principe, al di fuori del sistema ordinario del processo romano, e che egli aveva ritenuto opportuno esaminare. Con le epistulae e i rescripta l'imperatore dava invece risposte ai quesiti a lui rivolti da giudici o da privati cittadini. In linea di massima anch'essi concernevano problemi giuridici, fornendo una soluzione per il caso particolare e stabilendo i termini della controversia per cui fosse stato ottenuto tale superiore parere. Quando il quesito era rivolto all'imperatore da un giudice o da un suo funzionario, la risposta gli era inviata separatamente, con un'epistula. Al contrario, quando erano i privati a rivolgersi al principe, la risposta era redatta in calce al testo a lui sottoposto, in modo che il privato potesse esibire il parere più o meno vincolante del principe insieme al quesito a lui sottoposto (subscriptio): di qui la sua qualificazione come “rescritto”. Non meno importante fu il funzionamento del cursus publicus: un efficacissimo reticolo di supporti (stazioni di posta, tappe per rifornimenti, … ) che permetteva a chi ne poteva fruire di percorrere grandi distanze in tempi eccezionalmente veloci. Tale cursus era già esistente in età repubblicana ed ora passò sotto la responsabilità dei curatores e degli altri funzionari competenti. Per quanto riguarda la funzione di battere moneta, anche in questo ambito si ribadisce il dualismo tra principe e senato: le reciproche competenze furono fissate da Augusto, che si riservò la monetazione d'oro e d'argento, mentre quella in bronzo restava di spettanza del senato. La moneta in bronzo, pur molto importante per la complessiva quantità di circolante e per la sua rilevanza sociale come mezzo di pagamento di più largo uso quotidiano, restava subordinata. L'intero equilibrio monetario e la stabilità del potere d'acquisto del denaro si fondava sulla monetazione d'oro e d'argento. Il dualismo principe-senato si estese in verità a tutta la politica finanziaria dell'impero: accanto al vecchio aerarium Populi Romani si delineò infatti un sistema finanziario autonomo – il fisco imperiale – direttamente controllato dal principe. L'amministrazione del primo restò di competenza del praefecti aerarii di rango senatorio, cui successero, dopo una serie di mutamenti, con Nerone, i due praefecti aerarii Saturni. Soprattutto però l'intervento del principe e la confusione tra il suo patrimonio personale e il tesoro pubblico finì col ridurre l'importanza dell'aerarium populi Romani rispetto al fisco imperiale. Un ultimo accenno va fatto al sistema fiscale vigente nelle province che appare diverso per le province populi Romani e le province imperiali. In queste ultime tale settore dell'amministrazione fu affidato a dei procuratori impegnati a riscuotere un'imposizione personale gravante su tutti i provinciali, tributum capitis, e un'imposta fondiaria costituita dal tributum soli. Nelle province senatorie invece le competenze fiscali erano attribuite ad appositi questori, mentre le varie città erano responsabili per la riscossione degli stipendia dovuti al fisco in relazione ai patrimoni fondiari. Il diretto controllo degli eserciti romani, da parte del princeps, si accompagnò a sua volta alla loro definitiva professionalizzazione. Con la fine delle guerre civili, questa mobilitazione straordinaria era venuta meno, senza tuttavia che cessasse il fabbisogno di nuovi contingenti per assicurare l'organico delle legioni impegnate nella definitiva pacificazione e controllo dei grandi territori conquistati e nella difesa delle frontiere imperiali, oltre che, seppure in misura affatto sporadica a partire da Augusto, in nuove spedizioni al di là di esse. L'arruolamento a ciò necessario avvenne allora esclusivamente su base volontaria, e dovette ancora attingere prevalentemente alla popolazione italica. La politica imperiale mirò essenzialmente al consolidamento del sistema delle frontiere dell'impero, in particolare di quelle orientali, più esposte alla pressione di popolazioni ostili dall'esterno. Il fatto che le truppe stazionavano in zone marginali dell'Impero permise alle stesse di urbanizzarsi. Ai tempi delle guerre civili il loro organico era costituito dagli italici, ma ben presto, il numero dei provinciali si accrebbe, diventando infine maggioritario nella composizione complessiva delle armate. CAPITOLO 15 → La fisionomia dell'ordinamento imperiale Della sua successione, Augusto si preoccupò nel corso della sua lunga vita. Egli era facilitato dal fatto di non avere figli naturali di sesso maschile e pertanto di dover “inventare” un suo successore. A tal fine egli seguì due schemi paralleli, ma distinti. Da un parte si rifece alle logiche ereditarie proprie della società romana, investendo l'erede prescelto della rilevanza politica e sociale da lui acquisita. Il matrimonio con l'unica figlia di Augusto, Giulia, divenne così strumento di designazione politica. Questo avvenne prima con Claudio Marcello, figlio della sorella di Augusto, e, dopo la sua morte, con il fedelissimo Agrippa, fatti entrambi sposare da Giulia. Dopo la morte di Marcello e di Agrippa, nuovamente una simile investitura opererà nei riguardi di Tiberio, l'effettivo successore nel potere imperiale, anche lui unito in matrimonio a Giulia. Ma, ancor di più, ai fini dell'investitura politica, dovette valere lo stesso meccanismo che era stato utilizzato da cesare e su cui Augusto aveva costruito la sua fortuna: l'adozione, effettivamente attuata nei riguardi di Tiberio. Tuttavia la successione dell'erede realizzata in questo modo concerneva la sfera privata dei diritti, non la sfera pubblica. Per questo sin da Augusto intervenne un secondo meccanismo, accanto all'esaltazione dei vincoli familiari che consisteva nell'integrazione del successore designato nella sfera di potere e di governo durante la vita del predecessore. Capitone suggerisce ad Augusto la soluzione per la trasmissione: l'associazione di potestas, Augusto infatti si reca in senato e chiede che successione che va da Nerva, a Traiano, a Adriano, ad Antonino Pio sino a Marco Aurelio, non intervenne un rapporto di parentela, se non con la finzione costituita dal consueto meccanismo dell'adozione. Resta alto nella memoria collettiva il prestigio del principato di Traiano, anzitutto per la rinnovata immagine di forza associata ai suoi notevoli successi militari. Allora, infatti, com'è noto, si ebbe l'ultima stagione di conquiste con l'acquisizione della Dacia. Neppure sotto la prestigiosa guida di Traiano i Romani riuscirono ad ottenere una vittoria decisiva sui loro tradizionali nemici: i Parti. Tenendo conto della realtà delle forze disponibili, il suo successore, Adriano, preferì tornare alla ormai tradizionale politica di consolidamento dell'esteso limes romano, non esitando ad arretrare la presenza romana dove essa appariva insostenibile. Adriano percorse ripetutamente tutte le più remote province e località dell'impero, stimolandone lo sviluppo urbano e sociale. È opera sua la precisa definizione dei tipi di carriera e delle retribuzioni dei vari funzionari, secondo una gerarchia che corrispondeva a quattro livelli stipendiari. È sempre grazie a lui che si giunse a definire il complessivo organico dei vertici delle carriere burocratiche aperte all'ordine equestre. In questa direzione si colloca l'accentuata presenza dei giuristi adrianei nella burocrazia imperiale, da lui favorita, coerentemente, del resto, alla codificazione dell'editto del pretore, effettuata su suo ordine dal più grande giureconsulto dell'epoca: Salvio Giuliano. Il governo centrale sotto Antonino Pio e Marco Aurelio non avrebbe conosciuto grandi innovazioni: si trattò dell'ultima fase “alta” dell'impero, prima che crescenti difficoltà interne ed esterne ne modificassero la condizione complessiva. Allora lo sviluppo della civiltà urbana sembra essere giunto al suo zenit. Serpeggiavano già, seppure in modo episodico ed ancora iniziale, le prime ravvisaglie dell'indebolimento della civiltà municipale. Si trattava, ancora, di ombre lievi che anticipavano la crisi che sarebbe esplosa negli ultimi anni di Marco Aurelio, allorché la nuova guerra contro i Parti, perseguita senza esiti felici, non solo dissanguò ulteriormente le forze dell'impero, ma fece penetrare nei suoi territori una micidiale pestilenza destinata, nel corso di più di un ventennio, a cambiare la faccia di molte città e territori, incidendo in profondità sull'organico complessivo della popolazione. Vi fu dunque una crisi economica, a cui seguì un'alta inflazione, e una crisi demografica, che causò delle difficoltà per l'esercito. Se questi eventi negativi trascendono certo le responsabilità personali di Marco Aurelio, ciò non è altrettanto vero per la scelta del suo successore, con cui si ruppe la tradizione di adozioni che aveva permesso, se non ai più meritevoli in assoluto, almeno ad amministratori già collaudati, di pervenire alla suprema carica imperiale. L'investitura del figlio Commodo, per l'evidente inadeguatezza di costui, contribuì infatti ad aggravare la crisi dell'impero. La sua stessa soppressione, in seguito ad una congiura, e il successivo assassinio di Pertinace, suo successero, segnano l'esplosione di una grave crisi politica verificatasi negli ultimi anni del secondo secolo. Essa si espresse con l'ascesa al potere imperiale di Settimio Severo, forte del sostegno delle sue truppe. Con lui e con i suoi successori il problema della difesa delle frontiere con una sufficiente forza militare, più che dominante, divenne pressoché esclusivo. In questo sforzo furono dunque impegnate le risorse disponibili, in un contesto dove né l'economia né le condizioni demografiche dell'impero si erano riprese dalla peste Antonina. Sotto il suo successore, Caracalla, sarebbe passata quasi inosservata l'estensione della cittadinanza a pressoché tutti gli abitanti dell'impero, legata probabilmente alla politica fiscale di un apparato sempre più costoso gravante su una base economica sempre più ristretta. Dalla concessione della cittadinanza furono escluse: • città conquistate da Roma senza battaglie, si arrendevano prima di combattere, per questo non si riconosce nessun diritto; • individui macchiati di colpe infamanti o schiavi che si erano uniti con la padrona; • coloro che non risiedevano in nessuna città dell'impero, erano nomadi per esempio. CAPITOLO 16 → Un impero di città Il territorio italico era stato suddiviso, per fini amministrativi, in undici “regioni”. Certo è che le funzioni connesse al censimento, e in particolare la rilevazione della distribuzione della proprietà fondiaria, restarono di competenza dei municipi e delle colonie, rimasti i centri amministrativi autorganizzati delle nuove regioni. Già nel II secolo d.C. aveva iniziato a manifestarsi una certa tendenza del governo centrale a esercitare un più capillare controllo sulle strutture municipali e sulle varie amministrazioni locali. Anche se, nell'età degli Antonini ed oltre, sarebbe restata elevata la loro autonomia e capacità di autogoverno. La flessibilità di queste realtà dovette probabilmente spingersi sino al punto di tollerare che i senati e i magistrati locali potessero successivamente modificare l'originario statuto del municipio, probabilmente sulla base di un'autorizzazione del potere centrale. Il ricco e mutevole intreccio tra flessibilità e unitarietà ha contribuito ad un progressivo ed efficace irradiamento delle istituzioni giuridiche romane per cerchi concentrici, dove sempre più, giungendo all'estrema periferia dell'impero, la forza dell'impatto irradiante diminuiva, venendo a contatto con la vitalità delle tradizioni locali. Ovviamente in questo sistema, l'Italia costituisce l'area di più forte romanizzazione. Si ripropongono nel mondo provinciale i due schemi del municipio e della colonia. È quanto possiamo ricavare da una non facile, ma importante testimonianza di un testo di Gellio, in cui si narra come all'imperatore Adriano fosse presentata la richiesta degli abitanti di un municipio sito in ambiente provinciale, Italica, di passare da tale statuto a quello della colonia. L'imperatore nella sua pronuncia sottolinea la superiorità del municipio sulla colonia, dove il punto importante è la precisa consapevolezza di una reale diversità di condizioni tra queste due figure. Nel testo del brano si prosegue affermando che gli abitanti dei municipi avevano il diritto di vivere delle loro leggi e del loro proprio diritto, conservando una loro specifica res publica. Tutto fa pensare che, ancora nella piena fioritura dell'unità imperiale, la diffusione della cittadinanza romana in ambito provinciale non comportasse una totale e radicale uniformità degli statuti locali e degli ordinamenti interni ai municipi. I magistrati giusdicenti, sopravvissuti alle grandi trasformazioni introdotte da Augusto con le sue leges iudiciariae, s'impegnarono ad applicare a questo mondo assai più vasto l'antico diritto civile romano, così come si era venuto arricchendo e ampliando sia attraverso il loro stesso editto, integrato semmai dagli spazi lasciati alla interpretatio dei giuristi (senza dimenticare le ulteriori integrazioni derivanti dalle consuetudini regionali: i mores regionis). Gli statuti coloniari e municipali furono infatti, a partire da Cesare e Augusto, un formidabile strumento d'assimilazione di popoli e territori, Roma, creando nuove colonie o attribuendo lo statuto di colonia latina o di municipio a comunità e insediamenti locali preesistenti, non solo plasmò la fisionomia giuridica e i valori sociali di riferimento d'intere popolazioni, ma favorì un generale orientamento filocittadino, accelerando le trasformazioni interne alle società da esse governate e favorendone la progressiva assimilazione. Tra le organizzazioni del tempo ricordiamo: • le civitates foederatae, che godevano di una sovranità “tollerata” dal governo romano, piuttosto che di un'effettiva indipendenza politica; • le civitates liberae et immunes, a loro volta in condizioni migliori delle liberae, in quanto esonerate da obblighi fiscali verso Roma: tutte però egualmente fruenti di un'autonomia unilaterale concessa da Roma, che sfiorava anch'essa la dimensione della sovranità; • municipia; • colonie. Per quanto riguarda le popolazioni provinciali, di esse furono in genere solo i vertici ad integrarsi più profondamente, sino ad essere ammessi alla cittadinanza romana. In effetti, malgrado, nel tempo, le diverse tipologie di città e dei molteplici ordinamenti locali venissero assumendo una fisionomia relativamente uniforme, un punto restava fermo. Persisteva infatti, nel sistema imperiale, almeno nei primi due secoli del principato, sino alla svolta segnata nel 212 d.C. dalla concessione della cittadinanza romana a quasi tutti i sudditi dell'impero da parte di Caracalla, la profonda dicotomia costituita dalla civitas romana da un lato e dalla moltitudine di peregrini dall'altro. I nuovi governatori provvedevano ad emanare, al loro insediamento, un edictum contenente i criteri di governo della provincia, che riguardavano le pratiche dell'amministrazione provinciale, ma anche le indicazioni relative all'attività giurisdizionale di sua competenza. Oltre alle sue dirette funzioni, egli aveva anche un potere di sorveglianza e controllo sull'azione in questo settore delle civitates liberae e delle foederatae, in particolare in relazione a tutti quei procedimenti, nell'ambito della repressione criminale, che comportavano una condanna capitale. Nel corso dell'età repubblicana, non solo il termine latinus, ma anche peregrinus aveva cessato di indicare una comunità sovrana ed estranea all'ordinamento romano, designando piuttosto un individuo variamente soggetto al potere romano. In particolare, per quanto riguarda questo secondo termine, esso indicava una componente subalterna e periferica all'ordinamento romano: i sudditi provinciali, o alcune circoscritte categorie di ex schiavi particolarmente svantaggiate. Nelle province vi erano anzitutto i sudditi dei territori provinciali non organizzati in forma di civitates, peregrini direttamente dipendenti dal governatore romano, senza intermediazione di altri organismi. Vi erano poi gli abitanti delle numerose civitates stipendiariae, assoggettate alla fiscalità romana, ma tuttavia fruenti di una loro identità istituzionale e di una sfera di autonomia amministrativa. E infine si devono ricordare i peregrini delle civitates foederatae e delle sine foedere liberae che vivevano, secondo gli statuti cittadini, oltre agli abitanti di quelle città cui era stata concessa la condizione di colonia o municipio di diritto latino o romano. Le colonie romane si collocavano su un piano particolarmente elevato, ed è in relazione ad esse che prese consistenza l'espressione di ius Italicum, ad indicare la che sinora era stato l'indiscusso centro di tutto il governo imperiale, il suo ruolo affatto preminente. La divisione dell'impero effettuata in seguito da Diocleziano appare in qualche modo solo l'ulteriore sviluppo di tali tendenze. In questa difficile fase dell'impero, la ravvivata persecuzione del nuovo culto cristiano, sotto due imperatori: Decio e Valeriano, parrebbe segnalare un suo sostanziale progresso. Affermatosi nettamente in moltissime parti dell'impero, dai tempi di Claudio e di Domiziano, ormai ben distinto dalle originarie matrici giudaiche, esso era riuscito infatti a travalicare gli strati più modesti della popolazione, dove si era sparso in origine. La seppure parziale conversione dei ceti superiori e della stessa aristocrazia senatoria, d'altra parte, aveva contribuito ad accentuare l'ostilità di una parte ancora maggioritaria della popolazione verso una religione così estranea alle antiche tradizioni e caratterizzata da un forte senso d'identità, se non di superiorità, che contribuiva ad isolare i suoi seguaci dalla vita sociale. Veniva ormai meno lo splendore di quello che ho chiamato “l'impero delle città”. CAPITOLO 17 → Il diritto del principe Il fondamento dell'intero sistema era l'autonoma interpretatio dei giuristi, associata all'altro fattore innovatore costituito dall'editto dei pretori giusdicenti. In apparenza nulla sembrò mutare in quegli anni: il pretore, entrando in carica, continuava a emanare il suo editto, i giuristi continuarono il loro lavoro d'interpretazione delle antiche regole giuridiche, dando responsa e fornendo strumenti pratici ai privati, in modo non meno efficace che nell'età precedente. A conferma dell'importanza di questo loro lavoro, intervenne peraltro un'innovazione, da parte di Augusto, che conferì lo ius respondendi ex auctoritate principis, cioè il diritto di dare responsa in base all'autorità del principe. Questo diritto conferiva un'autorità particolare alle opinioni di questi giuristi, ed il loro parere finiva così con l'assumere un valore pressoché vincolante per il giudice, con un peso superiore alle opinioni, eventualmente divergenti, dei giuristi privi di questo riconoscimento ufficiale. Per tutta l'età di Augusto infatti codesto privilegio venne concesso ai migliori giuristi di quel periodo, tutti appartenenti all'ordo senatorio. Solo in seguito il ius respondendi fu concesso anche a personaggi di rango inferiore. Importante era anche il lavoro di conservazione degli atti del principe: lavoro di pertinenza della cancelleria, l'unica legittimata a garantirne l'autenticità. Non meno importante, per l'affermarsi di quella che noi oggi chiamiamo la “legislazione imperiale”, fu il ruolo dei giuristi. Progressivamente impegnati al diretto servizio del governo centrale essi si trovarono in un punto di snodo privilegiato per identificare il contenuto normativo ed il valore innovativo di molte, ma non di tutte, le disposizioni contenute nelle costituzioni imperiali. Essi poterono, quindi, nel tempo, selezionare tutto questo materiale, ricavandone quanto di questo era più atto ad assumere la portata di disposizioni generali e permanenti per la vita dell'impero, raccogliendolo come vera e propria fonte autonoma di diritto. Tuttavia il lavoro del giurista non era semplice, perché spesso nei discorsi che analizzavano vi erano elementi che non dovevano considerare, che rientravano nel contesto in cui il discorso doveva essere pronunciato, quindi si può dire che essi avessero il compito di ricavare dal testo il “nucleo dispositivo”, isolandolo ed eventualmente sintetizzandolo o chiarendolo: si ricavava la “massima” identificabile nella norma, sia a conferma di antiche regole, sia innovando rispetto ad esse. Egli era l'unico che disponeva della competenza e sensibilità per poter effettuare una selezione del genere. I vari tipi di costituzioni furono sovente riuniti in raccolte più o meno ampie, che avevano essenzialmente la funzione di rendere più accessibile l'insieme degli interventi imperiali aventi un contenuto più immediatamente normativo. In base a ciò divenne possibile per Gaio attribuire a tali costituzioni valore analogo alla legge. Tali interventi si inserirono in un sistema “aperto” costituito dal ius controversum dei giuristi, aprendo nuove strade, senza irrigidirsi nell'autorità immobile della norma. Augusto, ma soprattutto i suoi successori, provvidero a fornire una tutela processuale extra ordinem – al di fuori del sistema ordinario – a situazioni degne di protezione. Si trattava in genere di materie abbastanza marginali, su cui si doveva operare essenzialmente con logiche equitative. Questi procedimenti vennero indicati come forme di un “processo straordinario”: cognitio extra ordinem, a sottolineare il loro carattere eccentrico rispetto al processo civile ordinario. La competenza su tali giudizi fu quindi affidata dal principe ad altri pretori ed anche ai consoli. A differenza dei processi ordinari, tipici del sistema formulare, costoro giudicavano direttamente, senza deferire la verifica processuale al giudice privato. Su questi nuovi procedimenti influì anche l'esperienza del processo provinciale. Anche in esso infatti era assente la caratteristica cesura del processo civile ordinario romano, con la fase di competenza del magistrato, volta a impostare la controversia nei suoi termini legali e quella lasciata al iudex privatus, che si concludeva con la sentenza. Il governatore, avendo preso visione della causa, emanava lui stesso la sentenza. Ciò aveva reso possibile, diversamente dai precedenti processi ordinari, la condanna in contumacia del convenuto che avesse evitato di presentarsi in giudizio, nonché la possibilità d'appello contro la sentenza ad un giudizio superiore, secondo una logica gerarchica affatto estranea alla natura arbitrale del processo ordinario. Quindi anche in campo processuale i litiganti potevano rivolgersi direttamente alla superiore autorità del principe per dirimere la loro controversia: in tal caso il processo ordinario veniva sospeso. L'efficacia del nuovo ordinamento extra ordinem, immediatamente basata sulla pervasiva autorità del principe, agevolò la sua estensione anche ad ambiti legali originariamente sottoposti ai giudizi ordinari. Già nel II secolo d.C. questo processo sostituì la vecchia procedura formulare. I magistrati repubblicani si videro ridotti i loro spazi, poiché intervenne l'esercizio diretto della coercitio, il potere di repressione, da parte del principe e dei suoi delegati: i quattro prefetti, urbi, pretorio, vigilum ed annonae. Esso si attuava nella forma della cognitio extra ordinem, dove il giudice cercava direttamente le prove della colpevolezza dell'imputato, mentre questi era tenuto a dimostrare la sua innocenza, in un procedimento che noi definiremmo di tipo inquisitorio, a differenza del carattere accusatorio della vecchia procedura repubblicana. Ancora per tutto il I secolo d.C. almeno, l'efficacia della giurisdizione del pretore, con il suo editto, restò apparentemente immutata. Da questo secolo iniziarono ad apparire i vasti commentari dedicati al ius civile o al ius honorarium, dove sembra affiorare, rispetto alle vecchie raccolte di responsa, un approccio di carattere più sistematico e, forse, anche un più esplicito interesse teorico. A tutto ciò dobbiamo poi aggiungere un insieme di commentari a singoli rami del diritto, nonché le opere istituzionali destinate alla didattica: le institutiones, le regulae e le sententiae. È soprattutto da segnalare il corpo centrale della produzione d'età imperiale rappresentato dai commentari, che tenderanno ad accrescersi per dimensioni e importanza, riferiti al ius civile e al diritto onorario fondato sull'editto del pretore. Nell'ultima età repubblicana e in età augustea, si poteva cogliere l'inizio di un mutamento nella composizione sociale dei giuristi romani, con la presenza di quadri d'origine equestre, accanto agli esponenti dell'originaria tradizione nobiliare. Nella scienza giuridica incontriamo il deliberato distacco dal nuovo regime augusteo del giurista forse più brillante e autorevole di quell'epoca: Labeone. È da ricordare come da lui discendesse la formazione di una delle due scuole di giuristi in cui si divise la scienza giuridica romana lungo tutto il corso del I secolo d.C., sino a Salvio Giuliano, anche se essa avrebbe preso il nome di “proculiana” da un altro e minore giurista, Proculo. Questa scuola aveva una natura progressista e fortemente indipendente, a differenza dell'altra, detta “sabiniana”, di Sabino, che invece era conservatrice, legata ai valori tradizionali e al potere imperiale. La scuola sabiniana sembrerebbe più attenta ai dati materiali ed empiricamente orientata rispetto a operazioni più squisitamente speculative e astratte. In questo periodo il lavoro del giurista inizia a trasformarsi in una professione retribuita, sia nell'insegnamento, che nella partecipazione al governo imperiale. Possiamo considerare un punto d'arrivo di tali tendenze gli anni di Adriano. Si è già accennato al consolidamento in un testo definitivo e destinato a restare immutato, dell'editto del pretore, che questo imperatore affidò a Salvio Giuliano, come anche al potenziamento del consilium principis, con l'accresciuta presenza di giuristi. L'introiezione della scienza giuridica all'interno dell'amministrazione imperiale completata da Adriano spiega anche perché, allora, si verificasse il sostanziale ridimensionamento del ius respondendi. Ora la legittimazione e il coinvolgimento dei giuristi nel processo di formazione di nuovo diritto era avviato a divenire l'unico centro produttivo del diritto: il potere imperiale. L'ultima gloriosa fioritura della scienza giuridica romana si verifica nell'età degli Antonini e dei Severi. Allora emersero ancora grandi personalità, per giungere infine alle ultime battute, con Ulpiano e Paolo, sino agli epigoni, Modestino e Marciano, impegnati in una colossale opera di revisione e sistemazione dell'intero sapere giuridico accumulatosi nel corso dei secoli. Con i Severi non terminò solo quel periodo storico che degniamo come “principato”, a si concluse anche la fase vitale e produttiva della giurisprudenza del periodo che noi, per il suo ineguagliato splendore, chiamiamo “classico”. Quasi tutti i principali giuristi furono egualmente nominati a varie cariche e uffici dell'impero, anche Salvio Giuliano coprì numerose cariche fino al consolato e al successivo governo provinciale. È apparentemente sorprendente che coloro che sempre più si erano impegnati nella macchina del governo imperiale, continuando peraltro a esplorare in modo così sistematico e approfondito i vari campi del diritto dei privati, paiano disinteressarsi di quello che potremmo definire il “diritto amministrativo” della macchina di governo del principato. È pur vero che i silenzi della scienza giuridica romana potrebbero anche avere un minore significato, essendo magari il frutto della in parte casuale selezione subita, nel tempo, dalla monumentale produzione scientifica dei giuristi romani. Ci si può limitare a constatare che non si riscontra alcuna discussione relativa alla suddivisione delle varie funzioni, e quindi a possibili conflitti di competenza. E soprattutto non si trova traccia che mai qualche giurista si sia interessato dei pur non semplici rapporti legali tra questi portatori d'autorità ed i privati. Distrugge moltissimi luoghi pagani, si può parlare di una sorta di fondamentalismo cristiano. Egli fa cessare i giochi olimpici e mette in atto tutta una serie di meccanismi che comportano quella che viene definita una “caduta senza rumore”, perché ormai Roma, ancor prima delle sue riforme, sente pendere sul suo capo un modello in cui si esercita la penitenza tipico del cristianesimo. Morto Teodosio l'impero viene diviso in due parti, una Occidentale e una Orientale. L'Oriente avrà vita lunga, mentre l'Occidente nel 476 cade e l'intero impero viene invaso dai barbari: Vandali, Ostrogoti, Visigoti, Burgundi, Unni e Sassoni. Essi si preoccuperanno di far coesistere le loro popolazioni con gli ex cives romani, e questo porterà alla nascita delle leggi romano-barbariche, cioè provvedimenti emanati dai reges di questi regni che regolano i rapporti tra romani e peregrini. Nel periodo della giurisprudenza severiana, i giuristi non sono di rango senatorio, ma di rango equestre e fanno parte della cancelleria imperiale, culminano la loro carriera con la carica di prefetto del pretorio. I più famosi sono Papiniano, Ulpiano, Paolo, … Questi giuristi elaborano grandi commentari dell'Editto perpetuo di Giuliano e redigono degli studi monografici dedicati a singoli temi. Vi è un giurista, Modestino, di frontiera, che proveniva dall'Oriente dell'impero, e parlava in greco, il quale scrive un libro sulle regole della città, in cui commenta una serie di norme inerenti alla sistemazione delle città. Lui è il primo a farlo in greco, perché in latino lo farà Papiniano. Inoltre egli affronta anche il tema delle “excutationes”, cioè le scuse che si potevano usare per evitare di svolgere un ruolo. Aurelio Arcadio Carisio si occupa di norme correlate al diritto pubblico, e la sua opera ha successo poiché serve a fornire strumenti di comprensione delle regole iuris in un periodo in cui venivano sempre messe in discussione. Da questo periodo iniziano a circolare libri singulares, escerti pseudo-epigrafi di opere della giurisprudenza classica. Era necessario affinare determinati aspetti, perciò i giuristi attingono a grandi opere e realizzano escerti (sintesi) delle opere, focalizzandosi su singoli aspetti, al fine di fornire strumenti legittimati dal nome dell'autore. A Paolo ne sono stati attribuiti 70, ma sono tanti, non possono essere tutti suoi; inoltre vi sono tracce di natura linguistica che permettono di cogliere come giuristi di età classica sono stati oggetto di epitomazione (sintesi) e di riproduzione in escerto in età successiva. Per legittimare tali opere però si è mantenuto il nome del giurista dal quale avevano attinto. In questo modo nascono i libri singulares, che ci introducono alle interpolazioni → una alterazione di un testo. Dall'età post classica, in quest'ottica di rielaborazione dei testi giurisprudenziali (iura), i giuristi si preoccupano di attingere a fonti precedenti e a volte intervengono sui testi per adattarli ai tempi ed eliminare elementi di natura storica ritenuti inutili (come ad esempio i nomi dei consoli, oppure il fatto che nel IV secolo viene introdotto un nuovo istituto che riguarda la procedura per il conseguimento del dominium su terre che sono state lasciate dal precedente proprietario, e ci troviamo passi di Ulpiano che presentano questo istituto, che lui però non poteva conoscere). In una prima fase le interpolazioni sono poche. L'elemento che contribuisce ad una modificazione dei testi è il passaggio dal volumen (rotolo di papiro) al codex (codice di pergamena). Da questo momento i testi che sopravvivono sono oggetto di modificazione ed alcuni testi non si ricopiano più, rimangono papiri. Entriamo in quello che è stato definito “imbuto”, si pensa che alcuni testi siano andati perduti per assoluta casualità. Nell'ambito della letteratura giuridica una eccessiva circolazione di opere di vari giuristi, a volte copiate male, danno un quadro contrastante delle norme. Questo viene a creare una grande complessità, per questo si cerca di mettere in atto delle regole per la citazione di queste opere e per la producibilità in sede processuale. L'esito sarà l'emanazione di una costituzione imperiale, la legge delle citazioni, da parte di Valentiniano III, imperatore d'Occidente, poi recepita in Oriente da Teodosio II. Essa stabiliva che in sede processuale si potessero produrre solo le opere attribuibili a 5 giuristi (Gaio, Papiniano, Ulpiano, Paolo e Modestino) e che i giuristi dovessero essere seguiti nella loro opinione maggioritaria. Inoltre in caso di parità di opinioni (difficile poiché erano cinque, si verificava questo caso quando uno non prendeva posizione, anche perché magari non si era conservata l'opera su quel problema) si sarebbe prediletta l'opinione di Papiniano, e quando la parità fosse scaturita da una mancanza di Papiniano su un argomento, solo in quel caso era il giudice a stabilire con un libero apprezzamento a quale delle due parti dare ragione. Gli obiettivi della legge erano quindi: • limitare la producibilità del diritto; • garantire un'uniformità del diritto in tutto l'impero; • scoraggiare la ricopiatura dei giuristi “inutili”. Si incrementò dunque la circolazione di opere attribuite ai cinque, che però non sempre erano effettivamente loro. Si inizia ad assumere una distinctio magna tra leges generales (come editti) e leges speciales (costituzioni indirizzate a singoli soggetti, come per esempio le epistole). Quando l'impero viene diviso inizia ad esserci anche un dualismo legislativo, e si cerca di risolvere il problema recependo reciprocamente le costituzioni. Di solito un imperatore emana una costituzione in Oriente e viene recepita in Occidente. Emergono due raccolte private delle antiche costituzioni imperiali effettuate sotto Diocleziano. Si tratta del Codice Gregoriano, strutturato in 14 libri, a loro volta divisi in titoli in base all'argomento ed il Codice Ermogeniano, emanato un anno dopo. Questi codici, sino alla codificazione giustinianea, mantennero una certa importanza, sia per gli aspetti pratici che per il lavoro scientifico delle scuole. Si inizia a prospettare un progetto che prevedeva la raccolta ufficiale di tutti i testi giuridici ancora vigenti, rappresentati sia dalle costituzioni imperiali ancora in vigore, sia dai frammenti della giurisprudenza imperiale. Era questo infatti il programma originato da Teodosio II, enunciato con un'apposita costituzione nel 429, che dava mandato ad una commissione di otto giuristi di provvedere a redigere due raccolte che facessero stato di tutto il diritto esistente. La prima avrebbe dovuto riguardare le costituzioni imperiali tuttora in vigore, l'altra avrebbe dovuto essere una raccolta di iura. Tuttavia lo stato del materiale raccolto e disponibile nell'ambito degli uffici centrali e, forse, anche il livello dei commissari non resero possibile la realizzazione di tale progetto. Lo stesso imperatore dovette pertanto ripiegare su un obiettivo più modesto: quello di raccogliere le sole costituzioni imperiali da Costantino in poi, affidando il compito ad una nuova amministrazione di sedici membri Questo programma fu realizzato nel giro di pochi anni, il nuovo Codice Teodosiano entrò in vigore per autorità di Teodosio II in Oriente e in Occidente ad opera di Valentiniano III. Il codice è diviso in sedici libri e ogni libro suddiviso in titoli che comprendono una pluralità di frammenti tratti dalle varie costituzioni imperiali, di cui si riporta all'inizio l'autore e il destinatario, nonché, in calce, la data e il luogo di emanazione. Nell'intento di Teodosio, il suo Codice non sostituiva, ma semplicemente integrava le vecchie raccolte costituite dai due precedenti Codici Gregoriano ed Ermogeniano: tant'è che i testi in esso raccolti si riferiscono solo ad un'epoca successiva a quella in cui questi erano apparsi, diversi quindi dalle costituzioni contenute in questi ultimi. Il problema del codice di teodosio è quello della epitomazione e massimazione delle costituzioni, esse non venivano quasi mai riprodotte nella loro interezza, ma erano oggetto di tagli e sintesi, dei quali veniva fatta salva solo la regola iuris. Si diffondono anche compilazioni miste, cioè che contengono sia leges che iura, che erano prontuari utili in sede processuale. Vi è inoltre il liber siro Romanus, interamente dedicato a materie di carattere ereditario, che contiene dunque norme di diritto romano in lingua siriaca, armena, ed araba ed era finalizzato ad un utilizzo nei tribunali di ambiente islamico. Giustiniano salì al potere nel 527 e nel corso della sua lunga vita (morirà nel 565) marca in profondità la storia della sua epoca. Dal punto di vista militare, grazie ai suoi grandi generali gli fu possibile strappare l'Italia al dominio dei Goti, ma è indubbio che l'opera più insigne di Giustiniano consisté nel recupero della tradizione giuridica romana, da lui realizzato con l'ausilio di un notevole gruppo di giuristi. Realizzò dunque il Corpus Iuris Civilis, anche se questa è una nozione moderna. Senza la sua opera quasi tutto l'enorme materiale prodotto dalla scienza giuridica romana nel corso di tanti secoli si sarebbe dissolto nel nulla. Già l'anno successivo al suo insediamento, con una costituzione rivolta al senato, Giustiniano enunciò il suo primo progetto di far redigere una raccolta di tutte le costituzioni imperiali. In essa si prevedeva espressamente il recupero del materiale contenuto nei tre Codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, integrato da tutti i testi legislativi successivi a Teodosio II. Egli autorizzava i suoi commissari a effettuare tutti quei tagli, modifiche e aggiornamenti del testo delle antiche costituzioni che fossero necessari per adeguarne il tenore al diritto vigente alla sua epoca. In un arco di tempo assai breve l'opera fu compiuta e nel 529 il testo poté essere pubblicato, accompagnato dalla costituzione Summa rei publicae, con la quale si sanciva la sua entrata in vigore, come organico e unitario testo legislativo. Il codice non ci è giunto, mentre la costituzione sì. Il successo di questa prima iniziativa non fece altro che stimolare ulteriormente l'ambizione dell'imperatore, anche perché, nel frattempo, Triboniano (prima solo uno dei sette funzionari), che si era straordinariamente distinto per le sue capacità nei lavori di redazione del Codice, era divenuto il quaestor sacri palatii, ascendendo al vertice della burocrazia imperiale come responsabile dell'intera amministrazione della giustizia. In tale costituzione si dava ordine di provvedere a una raccolta di tutti gli antichi testi dei giuristi romani (anche se la scelta di questi era circoscritta ai soli giuristi muniti di ius respondendi), anche qui avendo cura di adeguare i loro scritti al diritto vigente, modificando, tagliano o aggiungendo quanto necessario a tale scopo. Quest'opera colossale fu completata in soli tre anni e nel 533 con la Constitutio deo auctore viene pubblicato il Digesto. I 16 commissari che avevano realizzato quest'opera, sulla base delle indicazioni di Giustiniano, avevano raccolto un insieme imponente di testi dei giuristi del principato, spingendosi sino d autori tardorepubblicani. Lo scopo era di raccogliere tutto lo scibile del mondo antico, non solo degli autori protagonisti della legge delle citazioni. Questi testi erano poi spogliati, selezionandone i passaggi più significativi, e successivamente copiati secondo un ordine logico che presupponeva unità tematiche all'interno dei vari argomenti trattati. Il Digesto consisteva infatti in 50 libri, ciascuno di essi essendo poi diviso in titoli che concernevano uno specifico argomento. I compilatori introdussero molte modifiche dei testi, non solo, come previsto, al fine di adeguarli alle modifiche normative intervenute nel frattempo, ma anche per renderli tra loro congruenti sopprimendo le incongruenze, pur presupposte dal carattere controversum dell'antico sapere. Secondo le indicazioni di Giustiniano i redattori apposero, in testa a ciascun frammento, il nome dell'autore e l'indicazione dell'opera e del libro da cui esso era stato ricavato. Per la difficoltà di reperimento dei materiali e di risoluzione delle controversie la commissione si divise in 3 sottocommissioni, ciascuna delle quali si occupò di determinate opere. Infatti se leggiamo tutto il Digesto notiamo che dopo tre anni di lavoro alcuni studiosi hanno ipotizzato che i commissari si siano serviti di predigesta, frammenti sulle varie materie compilati a catena che dovevano circolare per facilitare le decisioni su determinati argomenti. I romanisti si sono chiesti però che senso avesse ricorrere ai predigesta basati sui cinque giuristi se in realtà noi troviamo le opere anche di altri giuristi ? Probabilmente perché la metà dei frammenti contenuti in questa opera appartengono a Ulpiano e Paolo. È stato individuato che nell'opera vi è sempre un primo gruppo di opere