Scarica STORIA-DI-ROMA-TRA-DIRITTO-E-POTERE--Capogrossi e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! CAPITOLO SETTIMO : UN’ARISTOCRAZIA DI GOVERNO 1.La nuova direzione politica patrizio - plebea Il compromesso patrizio – plebeo del 367 a.C. aveva sanato un punto debole del precedente assetto costituito dal suo esclusivismo . Alla lunga , l’interruzione dei meccanismi di mobilità sociale, intervenuta agli inizi del V secolo, avrebbe infatti comportato l’indebolimento di un patriziato irrigidito e dissanguato, con esiti negativi sulla sua stessa capacità di governo. Ora il ruolo dell’antica aristocrazia gentilizia e la sua fisionomia guerriera sono ripresi appieno dalla nuova classe di governo della repubblica, la nobilitas patrizio – plebea, formatasi a seguito dell’accesso plebeo alle magistrature superiori. Questo blocco sociale, capace al contrario del patriziato , di un costante , anche se molto circoscritto rinnovamento, costruì e gestì , nel tempo, una sempre più complessa macchina istituzionale. Fu esso a guidare la più straordinaria e duratura < storia di successo> del mondo antico , realizzata con un esemplare impasto di abilità politica e diplomatica, di brutalità e competenza militare, di sapienza istituzionale e di governo. Una storia dove vecchio e nuovo si saldano felicemente, giacché la capacità di far fronte al nuovo di questa aristocrazia non attenua il suo attaccamento e il continuo riferimento al significato esemplare del passato. Come del resto sovente è avvenuto nei processi storici, le tradizioni e la mentalità dell’antico patriziato si erano trasmesse alla nobiltà patrizio – plebea. E’ vero che, in teoria, ciascun cittadino che fosse nato da padre libero, ingenuus, poteva aspirare ad una carica magistratuale. Ma nei fatti questa carriera era aperta a pochi e in genere predeterminati individui appartenenti a un ristretto gruppo sociale. Era aperta, come già prima del 367 a.C. , a chi appartenesse alla non molto numerosa aristocrazia di sangue : ai patrizi. Nell’antichità classica ma soprattutto in Roma, il buon cittadino, l’individuo che dà il suo contributo alla vita della città è anzitutto un potenziale soldato. E’ altresì una persona che partecipa attivamente alla vita politica cittadina. Il suo tempo non è dedicato all’attività economica : il sostentamento suo e della famiglia è ricavato in genere da una proprietà fondiaria lavorata da altri soggetti : gli schiavi, i contadini pagati a giornata o, come coloni, con parte del prodotto del fondo. Per questo solo il giovane appartenente a una famiglia di buoni proprietari fondiari poteva pensare a una sua ascesa politica, condizione per il suo inserimento nella nobilitas patrizio – plebea. Ma occorreva anche che egli godesse di amicizie e protezioni altolocate : la prima condizione per il suo successo era infatti distinguersi nel corso degli anni di servizio militare. Un servizio militare prolungato : non meno di dieci anni dovevano passare in tale condizione , prima che il cittadino, lasciate le armi, potesse presentarsi a una candidatura. Ovviamente una condizione del genere tagliava fuori da ogni possibile aspirazione tutti coloro che dovevano vivere del loro lavoro, la gente minuta. D’altra parte non meno importante era il modo in cui questo prolungato impegno militare poteva essere assolto. Allora , come oggi, essere prescelto a servire direttamente nello conoscenze che mancavano sovente ai quadri dirigenti degli eserciti cittadini. Quanto poi fosse rilevante l’aspetto militare nella storia individuale e nei ruoli sociali, lo mostra l’importanza che avrà , nel corso di tutta la repubblica, il solenne riconoscimento tributato ai singoli per il proprio valore in guerra e, soprattutto, ai comandanti militari in occasione di grandi successi, con il trionfo. Solenne cerimonia, decretata dal senato , con cui il magistrato, sfilava solennemente nella città, seguito dalle sue legioni, esibendo il bottino della vittoria, e i prigionieri , dove il grande fasto pubblico si associava alle arcaiche forme simboliche del ptoere. Col tempo si venne definendo un preciso insieme di regole volte a disciplinare la carriera pubblica dei cittadini romani. Questa aveva inizio con l’elezione alle magistrature minori, presupposto per aspirare alle cariche superiori, dopo un regolare intervallo di tempo tra l’una elezione e l’altra, giungendo infine al vertice della repubblica, con l’elezione a console e a censore. Tale disciplina escludeva altresì un’immediata rielezione alla stessa carica, sempre al fine di evitare un’eccessiva concentrazione di potere in singoli individui. Malgrado il costante, anche se controllato e circoscritto, rinnovamento del ceto dirigente romano di cui s’è detto , tutta la vita politica continuò a essere solidamente controllata dalle consorterie nobiliari. E la lotta di potere, i rapporti di forza e le alterne vicende della politica passarono anzitutto attraverso la storia delle gentes. Pur non identificandosi più con il tramontato monopolio patrizio delle cariche pubbliche e del senato, esse infatti costituivano un potente legame sociale e un sistema di solidarietà e di alleanze naturali entro cui l’individuo si trovava a operare. Anzi , il fatto che ben presto gli strati superiori della plebe si venissero anch’essi organizzando per gentes, accanto alle antiche stirpi patrizie, contribuì a conservarne la rilevanza pubblica e sociale. In una società fortemente tradizionale e gerarchica come quella romana, dove il rango era determinato dall’appartenenza a un lignaggio e fondato sui meriti degli antenati , per i plebei come per i patrizi, l’appartenenza a una gens restava un sicuro punto di riferimento. In effetti la formazione e la condotta politica e sociale dei membri della nobilitas si ispirava anzitutto alle tradizioni familiari e al ricordo dell’opera delle generazioni precedenti. Ricorrono costantemente, nella vita politica in Roma, nel corso di molti secoli, i nomi delle grandi stirpi nobiliari portati dagli innumerevoli magistrati che si successero al governo della repubblica. Inframmezzati qua e là da qualche nome diverso : di nomine novi ascesi a rinsanguare l’aristocrazia repubblicana, che conservò il monopolio del potere sino all’età delle guerre civili, in un contesto fortemente gerarchico , dove il popolo minuto era chiamato a un ruolo di comparsa o poco più. Non esistevano dunque le condizioni perché si formasse un tipo di alleanze o raggruppamenti politici su progetti e programmi, come nell’esperienza moderna, del < partito> politico. Non che non esistessero divergenze anche molto profonde, all’interno dell’oligarchia romana in ordine alle scelte politiche, sia interne che internazionali, e che non esistessero strategie consolidate e contrapposte, delineatesi e persistenti nel corso delle generazioni. Ma tutto ciò era anzitutto affidato alla memoria familiare e di ceto : ancorati alla loro specifica tradizione, i diversi clan di dipendenza semi – privati , tuttavia con una forte rilevanza politico – sociale, che integravano e , in qualche modo, < armonizzavano> l’impersonalità dei meri assetti giuridici dati da Roma al mondo provinciale. Mitigando altresì alcune asprezze di un governo che si veniva rivelando assai spesso avido e miope. 2. Gli sviluppi sociali tra IV e III secolo a.C. Nulla più della straordinaria spinta espansionista che prese consistenza nella politica romana, a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C. , può testimoniare l’enorme importanza del ricompattamento politico – sociale intervenuto con le leggi Licine Sestie. In quegli anni l’espansione territoriale romana si fù consolidata in una vasta unità regionale che rappresentava, come ricorda Tom Cornell, uno dei territori più ricchi e più adatti allo sfruttamento agrario dell’intera Italia centrale. Immediatamente di seguito avrebbe avuto inizio l’espansione verso le ricche pianure campane, con l’acquisizione di Capua nella sua orbita. In questa fase, i Latini, stretti dalla soffocante alleanza con Roma, avevano cercato di sottrarsi mediante una vera e propria insurrezione militare. La loro sconfitta portò al definitivo assorbimento delle città dell’antica Lega latina nell’ordinamento politico di questa città . Lo scorcio del secolo fu soprattutto dominato dal conflitto con la popolazione militare più forte esistente allora in Italia, situata sugli altipiani appenninici tra l’attuale Abruzzo, il Molise, sino a lambire la Campania e la Lucania : i Sanniti. Contro costoro la potente organizzazione militare romana ebbe a subire un ulteriore formidabile collaudo i cui risultati si poterono apprezzare immediatamente dopo, quando Roma fu in grado di resistere all’esercito di Pirro, chiamato a soccorso dall’ultima città della penisola italica ancora indipendente, Taranto. La tradizione militare macedone, illustrata dalla straordinaria avvenuta di Alessandro Magno , e di cui lo stesso Pirro , suo parente, era un importante rapresentante , non riuscì a prevalere sulle legioni romane. Fu l’ultimo ostacolo che si frapponeva ancora alla completa acquisizione dell’intero mezzogiorno d’Italia , con i suoi porti e le floride città mercantili di origine greca, nel dominio romano : un fatto compiuto già nel 272 a.C. , con la caduta di Taranto. Questa ininterrotta e felice politica espansionistica comportò, com’è ovvio, un parallelo processo di crescita economica, incrementato dai bottini ricavati dalle ricche città della Magna Grecia e dalle ulteriori acquisizioni territoriali. E’ pur vero che resterà per molto tempo, a dominare l’immaginario collettivo dei Romani e la loro auto rappresentazione, l’idea di un popolo laborioso , legato alla terra e ai suoi duri impegni , costretto sovente a prendere le armi per difendersi da aggressioni di prepotenti vicini, in cui tutti vivevano molto austeramente, quasi poveramente, seguendo i costumi ancestrali. L’immagine elaborata e trasmessa dai Romani è quella dei grandi condottieri e salvatori della patria come Cincinnato, Manio Curio Dentato che, lasciata la guida delle legioni romane, tornarono a lavorare i loro campicelli aviti, di pochissimi iugeri , con le proprie mani. Ma , appunto, questa evocazione, talvolta veritiera, spesso decisamente falsata, ci interessa più come testimonianza di una nostalgia e di una ideologia, che non come preciso ricchezza >, come Fabio Pittore dirà poi di essi per l’epoca delle guerre puniche. Ma già allora la precedente stratificazione sociale aveva dovuto subire significativi mutamenti. Anzitutto per la saldatura degli strati superiori della plebe con le famiglie patrizie che non fu solo politica. Qui interessa infatti la formazione di una proprietà fondiaria di una certa consistenza e di patrimoni sufficientemente importanti da costituire il fondamento di un altro meccanismo . Da sempre l’organizzazione statale romana si è venuta strutturando, sulla base dei ruoli assorbenti attribuiti alle varie magistrature elettive e ai loro diretti collaboratori, in un insieme di attività tutte o quasi di carattere gratuito : il vir bonus, il vittorioso cittadino dell’ideologia romana è colui che dedica i suoi sforzi a servire la patria, prima come guerriero, poi nella vita politica della città. La gratuità di tale impegno e delle cariche politiche presupponeva una selezione tra aspiranti in possesso di adeguati mezzi economici. Tale meccanismo favorisse il sostanziale monopolio delle cariche magistratuali da parte di una nobiltas relativamente ristretta, con il conseguente accumularsi di tradizioni e di competenze funzionali a tali ruoli . Un effetto collaterale di questa connotazione aristocratica, unita alla generale ideologia del mondo romano, svalutativa di mestieri e professioni remunerate , è costruito dal mancato sviluppo di un ceto qualificato di amministratori e burocrati, pur essendo l’apparto statale chiamato a far fronte a esigenze sempre più complesse. Non è un caso infatti, che se ciò non è stato caratteristico della sola esperienza romana, che tutta la sempre più complessa organizzazione dell’apparato statale si fondasse su una struttura molto < leggera >, fatta di pochi collaboratori dei vari magistrati , senza una vera burocrazia che potesse funzionare in modo autonomo, pur sotto la guida di costoro. Tuttavia nuove e molteplici esigenze e funzioni si imponevano a una macchina politico – amministrativa che iniziava ad avere un’importanza almeno regionale : si pensi solo a una politica di opere pubbliche di dimensioni ormai imponenti, con la costruzione degli edifici civili e religiosi della città, delle grandi strade militari , dei primi acquedotti. Ma si pensi anche a un patrimonio pubblico , soprattutto delle terre conquistate, sempre più ingente che doveva essere amministrato attraverso un complesso e articolato sistema di concessioni e di affittanze, nonchè alla gestione di entrate finanziarie enormemente accresciute , anch’essa affidata in gran parte all’intermediazione privata, e infine all’opera di rifornimento e di attrezzatura di eserciti sempre più importanti. L’armamento degli eserciti, il loro approvvigionamento, in un ambito territoriale ormai a vasto raggio , postulavano anch’essi quadri organizzativi e operativi dotati di competenze sempre più sofisticate e con crescenti risorse economiche. La risposta fu allora, come anche per tutta la lunga vicenda repubblicana , quella di < scaricare> tali funzioni all’esterno delle stesse strutture istituzionali della città. Gran parte degli aspetti significativi della vita finanziaria e della gestione delle ricchezze e delle attività di interesse statale si realizzarono appaltando a privati imprenditori le attività a ciò necessarie e lasciando a questi tutti i vantaggi economici delle intermediazioni così richieste. Così lo sfruttamento delle terre pubbliche , non distribuite in proprietà privata, fu affidato ai privati, secondo modalità e con regimi abbastanza differenziati, ma in genere a fronte del pagamento di un canone periodico ( talvolta però con un pagamento iniziale < d’acquisto > più elevato ) . Data la debolezza organizzativa dei magistrati responsabili della loro gestione, gran parte di tali terre non veniva direttamente assegnata alla miriade di coltivatori e di allevatori interessati al loro sfruttamento, ma concessa a grandi mediatori, in grado di pagare le elevate somme richieste dai magistrati romani per aree assai ampie. Questi poi suddividevano tali estensioni di ager publicus, tra tutti i piccoli agricoltori interessati, lucrando la differenza, sovente assai elevata, tra la cifra globale del lavoro versata alle casse di Roma e i canoni percepito dai sub conduttori. Il guadagno di Roma era minore , ma si evitava tutto il lavoro e il funzionamento di controllo che la riparazione delle terre pubbliche tra una molteplicità di coltivatori e allevatori avrebbe comportato e i costi a ciò connessi. Un meccanismo non diverso riguardava anche le riscossioni tributarie, nelle province , gestite anch’esse attraverso appalti ai privati che si facevano carico di tale incombenza per conto di Roma, lucrando anche qui la differenza tra il percepito e quanto dovuto a essa. Ma non meno importante appare lo sviluppo delle opere pubbliche. La grande rete stradale che ebbe inizio con la via Appia, alla fine del IV secolo, la costruzione dei primi acquedotti pubblici destinati a trasformare le condizioni materiali della città e la crescita degli edifici pubblici e dei templi , più tardi lo sviluppo delle grandi terme pubbliche, comportarono un crescente livello di investimenti e di opere. Anche questo settore si fondò , non già su un intervento diretto dell’apparato pubblico, ma su una delega alla gestione privata attraverso il consueto sistema degli appalti. Lo stesso sistema s’applicò per l’organizzazione del vettovagliamento e delle strutture logistiche a sostegno di eserciti impegnati sempre più a lungo e in territori sempre più lontani da Roma. Tutto ciò fu possibile grazie alla precoce affermazione, in Roma, di un gruppo sociale relativamente articolato, distinto dalla mobilità delle cariche, tutta orientata al governo della politica e agli impegni militari. Si trattava di individuare provvedimenti dagli strati più ricchi della popolazione : quelli che fornivano all’esercito i cavalieri , gli equites, in grado di provvedere a loro spese alla costosa cavalcatura. Non solo costoro erano i detentori dei capitali necessari a supportare le intraprese ora accennate, che sovente richiedevano forti anticipazioni finanziarie e un sistema di garanzie patrimoniali da fornire alle pubbliche autorità . Ma essi soprattutto avevano acquisito quelle competenze e quelle tecnologie finanziarie e imprenditoriali richieste per far fronte ai compiti ora richiamati. Si tratta insomma di una specializzazione e anche di una peculiare destinazione di flussi di ricchezza che identificava e circoscriveva i suoi titolari dando ad essi un ruolo sempre più ( redemptores ) è rappresentato dagli appaltatori ( e riscossori) delle imposte, i publicani, così odiosamente richiamati in tante testimonianze antiche e addirittura nei Vangeli , per il loro ruolo negativo e insostituibile insieme nello sfruttamento dei popoli provinciali. In genere la formazione di questi nuovi gruppi sociali e l’affermarsi delle connesse attività economiche viene collocato in un periodo successivo a quello qui considerato. Ma se questo sistema non si fosse già avviato sin dalla fine del IV secolo, come sarebbe stata in grado Roma di affrontare l’imponente quantità di opere pubbliche che, se non altro a partire dalla censura di Appio Claudio , nel 312 a.C. , venne realizzata e, poi , di riconvertire in pochissimi anni la sua forza militare, attrezzando una potente flotta, nel corso della Prima guerra punica ? . E come avrebbe potuto mobilitare e coordinare le risorse della Magna Grecia nello scontro essenzialmente sul mare svoltosi nel corso della Prima guerra punica ? senza poi considerare i prolungati e pesanti sforzi organizzativi necessari al sostentamento delle stesse sue armate nella drammatica guerra contro Annibale e di cui abbiamo precise testimonianze in Livio. Ci si riferisce anzitutto all’assunzione da parte di alcune compagnie di pubblicani, nel 215 a.C. , dell’onere dei rifornimenti alle truppe romane in Spagna. Di fronte alle case pubbliche ormai vuote costoro furono in grado d’anticipare le somme colossali per tale operazione, senza previsione della data del rimborso delle spese da parte delle autorità cittadine , con il patto di poter recuperare i loro crediti solo con il miglioramento delle sorti della guerra. 3. Appio Claudio Cieco e gli inizi della modernizzazione Un esempio significativo della fedeltà alle tradizioni gentilizie e della conseguente continuità politica all’interno del ceto dirigente romano lo troviamo in Appio Claudio . Alla fine di quel IV secolo così ricco di mutamenti e di aperture , egli sembra emblematicamente segnare per più di un aspetto i nuovi orizzonti della scena politico – istituzionale romana. La sua preminenza politica, chiaramente echeggiata negli autori antichi, è attestata dalla sua rielezione al consolato nel 307 e nel 296 a.C. In sé nulla di più ovvio che il membro di uno dei grandi lignaggi romani, che sin dalla sua migrazione in Roma, agli inizi della repubblica, aveva continuato a illustrare la gloria , pervenisse ripetutamente alla massima carica magistratuale. E neppure può apparire singolare il fatto che egli , nella sua azione di governo, svolgesse un ruolo di innovazione e di < modernizzazione >, del tutto in linea con le tradizioni familiari. Colpisce piuttosto l’amplissimo spettro dei suoi interventi che vanno dalle strutture materiali della città sino al cuore dei suoi processi culturali e tecnici. Ha quasi un valore simbolico, in effetti, il fatto che la prima e più importante via di comunicazione costruita da Roma, la via Appia, chiamata dagli stessi Romani la < regina delle vie>, prenda il nome da questo personaggio che, nella sua censura, ne determinò la costruzione. Non si tratta solo di una grande opera pubblica e di comunicazione civile : essa corrisponde anzitutto a un progetto politico e militare di realizzata da Appio , della cui fortissima personalità risuona chiaramente l’eco negli storici antichi. E questo, a sua volta, evidenzia una linea di continuità ideale con l’antico decemviro : che si ritrova nel ruolo affatto particolare giocato dal Censore nel campo del diritto. Di nuovo venne in gioco , come al tempo delle XII Tavole , il monopolio del collegio pontificale, che anche Appio Claudio Cieco mirò a rodere , ma in modo meno radicale , più sapiente , e per ciò stesso , alla lunga, più efficace di quanto non avesse fatto il suo avo. A lui risale infatti un’iniziativa gravida di conseguenze intrapresa dal suo segretario e liberto Gneo Flavio ( giacché appare pressoché impossibile che questi non avesse avuto il consenso del patrono) . Flavio infatti, nel 304 a.C. , rese pubblici i calendari e i formulari delle azioni processuali, permettendo a tutti i concittadini di accedere direttamente alla conoscenza degli strumenti fondamentali per la tutela processuale dei loro diritti. Sino ad allora costoro erano dipesi dalla esclusiva e riservata conoscenza che ne aveva il collegio pontificale, al quale quindi dovevano rivolgersi per poter agire in giudizio. Si trattò di un formidabile salto in avanti nel processo di diffusione delle conoscenze giuridiche. E qui si saldano quelle aperture verso nuovi orizzonti politico – geografici, a una più o meno consapevole intuizione delle nuove esigenze che le dimensioni più vaste della politica di potenza romana comportavano anche sul piano del diritto. Si ha una gamma di soluzioni straordinariamente innovative che, già nel 338 a.C. , furono introdotte nella sistemazione del Lazio e della Campania settentrionale. Questo è un punto abbastanza trascurato dagli studiosi moderni : come se fosse ovvio e affatto naturale quell’improvviso capovolgimento logico che, dall’esclusivismo proprio della città antica fece scaturire il suo opposto : la moltiplicazione della città stessa in tanti < micro – doppioni> ovvero i municipi. Che svuotò l’essenza stessa della civitas, l’idea d’appartenenza al corpo cittadino, appena completatasi con il patto patrizio – plebeo, introducendo questa cittadinanza dimezzata : qualcosa che < è e non è > , costituita dalla civitas sine suffragio. I più intelligenti e consapevoli si dovettero rendere conto dell’utilità e forse della necessità urgente di rafforzare quegli strumenti logici e tecnici che sino ad allora erano stati tranquillamente affidati al lavorio separato e sicuro di una esperta consorteria quale il collegio pontificale, rinforzato, da pochi anni, dalla figura del pretore. Non solo si trattava di far fronte ai grandi processi istituzionali ingenerati dalla stessa espansione politica romana, or ora considerati, ma anche al rapido accrescersi di nuove esigenze nel campo dei rapporti privatistici. Qui infatti, al diritto delle persone e alla disciplina dei rapporti familiari e successori, si era venuto sostituendo , al centro della vita sociale, l’insieme dei rapporti negoziali, funzionali a un’accresciuta circolazione di beni. Chiamato a mediare e orientare questi processi, il vecchio consesso pontificale, forse, rischiava di non essere più adeguato rispetto alla loro dimensione quantitativa e alla complessità , ingenerata dall’accentuato processo evolutivo della società romana. Anche oggi lo possiamo constatare : quando interviene una forte accelerazione fosse la forza delle armi. Il ruolo di un aristocratico innovatore come Appio Claudio e, sessant’anni dopo , di un esponente plebeo come Tiberio Coruncanio ci devono inoltre far riflettere sulla coerenza della spinta modernizzatrice del nuovo blocco patrizio – plebeo. La fine del monopolio pontificale, infatti , non segna solo l’inizio di un grandioso processo di crescita dell’ordinamento giuridico romano e del suo supporto tecnico – scientifico . Essa segna anche l’essiccarsi definitivo di ogni potenziale alternativa consistenze in una gestione di tali saperi da parte di un corpo separato di sacerdoti, ciò che in effetti era invece avvenuto in molte altre società antiche. Il processo avviato da Claudio, destinato ad ampliare e rafforzare le competenze chiamate a lavorare nel campo del diritto, non modificava , i rapporti sociali esistenti . La conseguenza e quindi la gestione del diritto, infatti, restò saldatamente nelle mani di quella nobilitas chiamata a regolare e dirigere la vita politica e sociale della città. E qui si realizzò nel corso di alcune generazioni, una singolare selezione per cui il comune accesso alla conoscenza contribuì a ridefinire una gerarchia fondata da un lato sull’autorità sociale ( solo i membri della nobilitas per tutta l’età repubblicana e ancor oltre furono legittimati a tale esercizio ) dall’altro sul personale prestigio e competenza, acquisito, come gli altri aspetti della politica, in concorrenza con i propri pari. La forza dell’oligarchia romana, ciò che ne ha legittimato il ruolo di governo nel tempo , nella sua capacità di raccogliere tutta la forza innovatrice e ammodernatrice dell’operazione di Claudio e dei suoi epigoni, riaffermando così, ed estendendo, la propria presa sul governo della città. Questo è il senso del passaggio dalla giurisprudenza pontificale a quella cosiddetta < laica > , allorché la nobilitas repubblicana cessò ogni delega a un corpo selezionato quali i pontefici, assumendo la diretta gestione di questo delicato settore del sapere. 4. Le regole di un’oligarchia La maggior parte delle leggi votate nei comizi servirono dunque a perfezionare e a completare l’editto già esistente. La legislazione comiziale romana si è svolta secondo un lungo e relativamente coerente percorso orientato a ridefinire in continuazione l’instabile equilibrio tra organi cittadini. Ma ancora più laboriosa e mai compiuta in un disegno definitivo fu la disciplina dei vari organi costitutivi della repubblica. Lungi dal consistere in un blocco uniforme in cui un insieme di meccanismi istituzionali ha continuato a funzionare secondo le logiche e nella forma predeterminata una volta per tutte, il disegno si è venuto continuamente modificando nel corso di tutta l’età repubblicana, anche con riforme di notevole importanza. Per il senato, si è già detto come si definissero in modo sempre più ripido i criteri di selezione dei nuovi membri, sottraendoli all’arbitrio e all’incertezza delle scelte autoritative dei magistrati. La logica di ciò è evidente , se si considera come fosse sempre molto stretto il controllo senatorio sulla selezione degli aspiranti alle cariche effettuata da magistrati in carica al fine di sottoporre la scelta finale ai comizi. Gli automatismi successivi garantivano, più dell’arbitrio di un singolo censore, le logiche di cooptazione della vecchia oligarchia senatoria. a creare squilibri permanenti tra i poteri e gli organi della repubblica. CAPITOLO OTTAVO : L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO ROMANO E GLI SVILUPPI DELLA SCIENZA GIURIDICA 1. I giuristi e il diritto privato Il fondamento del ius civile romano è da identificarsi nei mores e nella legge delle XII Tavole. Ma si è anche già sottolineato come, nella concreta applicazione di questo corpo vetusto di regole, fosse stato a lungo determinante il ruolo assolto dal collegio pontificale. Assai più tardi, in età imperiale, i giuristi teorizzeranno la complessa fisionomia di quel diritto da essi studiato e straordinariamente sviluppato. Così Gaio , un giurista del II secolo d.C. , affermerà che il < diritto del popolo Romano consiste nelle leggi , nei plebisciti , nei senatoconsulti, nelle costituzioni imperiali , negli editti di coloro che hanno il ius edicendi, e, infine, nei pareri degli esperti : i responsa prudentium >. Alla sua epoca, in effetti, il substrato consuetudinario del diritto romano, gli antichi mores , era ormai da secoli totalmente assorbito all’interno del valore fondante delle XII Tavole, per eccellenza le < leggi > della città, e dell’interpretatio dei giuristi. In effetti è attraverso il lavoro di riflessione e delle opere della giurisprudenza che si trasmetterà la conoscenza del diritto cittadino, il ius civile. Ha un enorme rilievo , in questa vicenda, il passaggio da un sapere monopolizzato da un gruppo chiuso di specialisti , i pontefici , a una elaborazione svolta in un contesto diverso e più < moderno >. Ciò avvenne tra la fine del III e i primi decenni del II secolo a.C. , con le prime generazioni di giuristi < laici > . All’antico carattere sapienziale e autoritativo della tradizione pontificale si sostituì un più avanzato livello di razionalità , con il costante controllo dei procedimenti argomentativi e delle soluzioni prospettate da parte di una nuova e più vasta comunità costituita da tutti i conoscitori del diritto. Costoro furono così in grado, non solo di estendere a dismisura gli spazi e i tipi di relazioni governati dal diritto, ma soprattutto di elaborare un insieme di procedimenti logici, di verifiche pratiche e di astrazioni concettuali che costituiscono il sostrato di quella vera e propria < scienza > del diritto , sviluppatasi in Roma , per la prima volta nella storia del mondo antico. Il punto di partenza, di questo processo risale alla censura di Appio Claudio , prima, al pontificato di Tiberio Coruncanio poi, il primo pontefice plebeo ( nel 330 una lex Ognulnia aveva completato il processo di parificazione dei due ordini, ammettendo i plebei ai collegi sacerdotali ). Questi infatti, nel 254 a. C. , rendendo pubbliche le sedute dei pontefici, permise che, anche al di fuori del ristretto numero dei membri di quel collegio, altri acquisissero la conoscenza dei contenuti e la comprensione dei metodi applicati dagli stessi pontefici. Divenne allora possibile anche per altri cittadini dedicarsi allo studio e all’interpretazione della tradizione giuridica romana. . Con la definitiva e sistematica affermazione di queste nuove tendenze, in età postannibalica, si imposero, al di fuori di esso, le prime grandi personalità di giuristi ( luce delle pratiche più tarde, pur presenti ancora nei giuristi tardo repubblicani , è verosimile che il punto di partenza del loro lavoro consistesse nella determinazione precisa della portata delle antiche formule legislative e negoziali. Anzitutto la comprensione e spiegazione del significato letterale delle parole in esse impiegate : interpretazione non facile, per l’oscurità della lingua arcaica di molte delle antiche norme, ma , soprattutto, non neutrale perché , in molti casi, attraverso nuovi e modificati valori attribuiti al singolo vocabolo o alla frase , si poteva innovare e modificare il valore immediato e l’originaria portata delle norme. Da questo punto di partenza il controllo pontificale si spinse più in là di quest’ambito allorché , molto liberamente e con intelligenza creativa, innovò il contenuto ed estese o mutò l’ambito di applicazione dei singoli negozi e dei vari istituti giuridici. Non vi è praticamente norma nelle XII Tavole che non richiedesse e non rendesse possibile un insieme di interpretazioni sempre più complesse e innovative man mano che le arcaiche forme del diritto antico si rivelavano di per sé insufficienti a disciplinare una realtà sociale ed economica in rapido sviluppo. Strumenti essenziali di questa prima fase dell’esperienza giuridica romana furono anzitutto l’utilizzazione su vasta scala delle finzioni giuridiche e dell’analogia. Nuovi risultati si realizzavano appunto modificando consapevolmente il significato e la portata di un istituto per giungere a conseguenze del tutto diverse da quelle ordinarie. Nella stratificazione del sistema giuridico romano incontriamo così, in modo pressoché sistematico, la distorsione consapevole dell’originaria finalità di antichi istituti per giungere a risultati affatto nuovi. Ad esempio utilizzando il divieto di abusare del potere di vendita del figlio sancito dalle XII Tavole ( che stabilivano un limite al numero di vendite effettuate da parte del pater , superato il quale costui perdeva la sua potestas sul figlio ), per creare il nuovo istituto dell’emancipazione : una serie di vendite fittizie con cui il padre liberava volontariamente il figlio dalla sua potestà. Ma si pensi ancora alla molteplice applicazione, sicuramente gestita dai pontefici , di falsi processi, concordati tra le parti, per giungere a conseguire una pluralità di risultati : dal trasferimento della proprietà, all’adozione di un figlio o alla liberazione di uno schiavo. E il collegio pontificale egualmente deve anche essere intervenuto a progettare la norma decemvirale che ammetteva la temporanea assenza della moglie dalla casa maritale, in modo da scindere un legittimo matrimonio, valido secondo il diritto civile, dal pesante potere patriarcale del marito, in origine indissolubile dal matrimonio stesso. Egualmente si finse di < vendere > un patrimonio, quando in verità si voleva lasciare il medesimo, dopo la propria morte, ovviamente a titolo gratuito, a un successore : l’erede. In altri casi invece si trattava di utilizzare uno schema già esistente nell’esperienza giuridica romana per estendere l’efficacia rispetto a situazioni similari, anche se non originariamente previste. Con la < laicizzazione > della scienza giuridica venne meno l’originaria forza cogente del sapere pontificale che scioglieva difficoltà e dubbi, esprimendosi con soluzioni univoche e in forma definitiva. Proprio perché i pareri non provenivano più da un’autorità unica ma da una molteplicità di individui appartenenti al ceto dei giuristi, prese forma una nuova fisionomia del diritto , concepito come ius conclusiva, ma derivavano da un continuo e sempre rinnovato dibattito tra gli specialisti. Prevalevano di volta in volta le idee e interpretazioni più convincenti , le soluzioni proposte dalle personalità più autorevoli. Autorevolezza, del resto, determinata essenzialmente dal consenso degli altri giuristi e dall’opinione pubblica, secondo una logica destinata a persistere per tutta la restante età repubblicana e durante il principato. Certo , in tal modo, sussistevano margini relativamente ampi d’incertezza circa le soluzioni di ciascun caso pratico e conseguentemente, circa i criteri di comportamento che doveva assumere il cittadino sia in ordine a possibili accordi e nuovi affari giuridici, sia intorno alla legittimità di una pretesa avanzata da lui o contro di lui, sia intorno alla sfera di poteri che i vari diritti di sua pertinenza gli potevano assicurare. In verità ciascuno, ma anche lo stesso magistrato nella sua azione giurisdizionale, doveva orientarsi rispetto a un insieme di opinioni, talora piuttosto contraddittorie e quasi mai uniformi, sostenute dai giuristi in relazione alle varie questioni loro sottoposte. Ma questo è appunto il carattere < controverso > del diritto romano identificabile in un corpo di soluzioni adottate dai vari giuristi, in relazione a un’infinità di casi , e nel corso di più generazioni. Certo , un’idea semplificata di < certezza > veniva così sacrificata a favore di una dialettica in incessante sviluppo. Questo, lungi dall’indebolire, accentuò il prestigio dei giureconsulti, fondato sulla loro continua attenzione alla coerenza logica delle soluzioni adottate rispetto alle premesse, sul rigoroso rapporto tra la < regola > astratta e la portata precisa del caso da risolvere e soprattutto sull’ininterrotta verifica dei risultati di volta in volta conseguiti. Un meccanismo del genere sorse e si sviluppò essenzialmente sotto lo stimolo di nuovi casi continuamente sottoposti all’attenzione e alla valutazione dei giuristi. Questi, a loro volta, furono poi da essi utilizzati in via autonoma come palestra per nuove elaborazioni ; talora i casi stessi furono inventati, onde verificare la validità e la portata delle soluzioni già adottate o addivenire ad altre alterntive. Questo modo di lavorare riguardava essenzialmente problemi specifici, impegnandosi raramente in enunciazioni di carattere generale sulla base di presupposti teorici esplicitamente individuati. Sin dalla prima età di questa nuova fioritura scientifica possiamo cogliere gli indizi di una forza creativa che, probabilmente, non era stata così evidente , forse neppure così presente, nella fase precedente. Basti pensare che le prime generazioni di giuristi laici ( così si indicano questi nuovi cultori del diritto estranei al collegio pontificale ) vennero a creare , con la loro riflessione, nuovi istituti del diritto civile, nuove categorie di diritti e nuove relazioni, completamente al di fuori di ogni normativa legale e assolutamente estranei all’insieme di regole introdotte dalle XII Tavole. Questo ad esempio è stato il caso del rivoluzionario riconoscimento di situazioni giuridiche destinate a limitare l’antico diritto di proprietà e il cui contenuto consisteva in un insieme di facoltà per l’appunto inerenti a questa stessa proprietà . Ci si riferisce all’usufrutto e alle servitù prediali, introdotte sicuramente tra la fine del III e la prima metà del II secolo a.C.e tutelate mediante actione in rem. Ma ancor più innovativo appare il riconoscimento intervenuto , sulla base di un formidabile sforzo teorico, con la netta distinzione della nozione del possesso da quella del diritto corrispondente, la proprietà. Un’operazione che molte altre esperienze giuridiche non hanno mai realizzato appieno e che, giù nel III secolo a.C. era acquisita dai giuristi romani. Si pensi infine al ruolo che questi giuristi dovettero giocare, insieme al pretore, nell’elaborare il nuovo sistema processuale destinato a obliterare le antiche e rigide legis actiones . Ma non meno importante fu l’attività interpretativa dispiegata nel campo degli illeciti extracontrattuali e , successivamente, il ruolo dei giuristi nella creazione dei contratti consensuali. Praticamente non vi è un campo in cui l’intervento dell’interpretazione della giurisprudenza laica non abbi innovato radicalmente, introducendo nuove regole e istituti fondati appunto su null’altra autorità che il proprio prestigio. Per questo dobbiamo ricordare che, quando parliamo dell’< interpretazione > dei giuristi romani, usiamo un termine che, nel suo significato corrente , è ampiamente inadeguato a farci cogliere appieno la forza creatrice di questo lavoro. D’altra parte non tutti i pareri e le soluzioni già date e ricordate dalla ristretta cerchia di giuristi erano d’egual valore e avevano un analogo peso nell’orientare privati , magistrati e giudici nella pratica legale. Giacché il parere dell’uno pesava più di quello dell’altro giurista, la soluzione proposta da quello si imponeva non solo per la sua intrinseca validità , ma anche per l’indefinibile e impalpabile, ma efficace , autorità del suo autore. Come in tutte le aristocrazie era un modo di pari, quello dei giuristi, dove non esistevano gerarchie formali, non vi erano carriere interne , né valutazioni < oggettive > , concorsi, esami , punteggi e quant’altro. Ma proprio per questo, quanto più indefinita era la dimensione dell’autorità intellettuale che disegnava e ridisegnava in continuazione gerarchie e spazi d’influenza , tanto più incisivo era l’effetto di questa autorità. Si primeggiava perché si era legittimati solo ed esclusivamente dai membri di questo gruppo ristretto , auto selezionato e volontariamente coeso. E più il procedimento seguito dall’uno dava luogo a risultati utili e convincenti, più le sue successive soluzioni finivano con l’essere recepite per la mera autorità già conseguita , non di rado senza che di esse si rendessero esplicitamente neppure le giustificazioni razionali che pur le avevano ispirate. 2. Il pretore e l’innovazione del processo civile romano Sin dalla sua istituzione, il pretore, come del resto gli altri magistrati com imperio, era caratterizzato da una forte autonomia rispetto all’ordinamento esistente. Caratere che si accentuò notevolmente allorché si modificarono i meccanismi che avevano presieduto sin dall’origine all’interpretazione e all’applicazione del diritto vigente. Ciò avvenne a opera del pretore, con procedimenti nuovi, fondati sul suo potere di iurisdictio, e investendo una serie sempre più ampia di questioni e litigi secondo criteri che poteva prescindere dagli schemi propri del ius civile, ispirati a una logica più immediatamente equitativa , più semplici e accessibili a soggetto appartenenti a culture giuridiche diverse. L’importanza di tale nuovo settore della vita giuridica fu tale da rendere necessario, nel 242 a.C. , la creazione accanto al vecchio pretore ( da allora disegnato come urbanus : < cittadino> ) , di un nuovo pretore che avesse competenza specifica sui litigi tra stranieri o tra stranieri e Romani : il praetor peregrinus. Ciò, a sua volta, accentuò ulteriormente lo sviluppo di quelle forme di litigio sottratte alla logica delle legis actiones, a tutela di situazioni giuridiche nate dalla pratica commerciale e fondate sulla buona fede delle parti. Si trattava di un insieme di rapporti nuovi, estranei al formalismo dei negozi del diritto civile e a quelle strutture patriarcali , l’esaltazione dello status di pater familias, di proprietario, di cittadino , che dominava tuttora l’antico ius civile. Dove l’accordo, la < stretta di mano> diveniva il momento centrale , di fronte al rispetto delle procedure, alla rigidità di atti o di frasi cariche di parole arcaiche che il diritto civile richiedeva fossero rispettate perché certi effetti legali avessero luogo e che , comunque pronunciate , divenivano vincolanti. Tra l’altro , si crede che proprio in questo campo, per la sua estraneità assoluta alle forme del ius civile, più rapidamente lo stesso pretore si sia potuto svincolare dall’ipoteca dei pontefici, saldandosi invece alle prime esperienze della giurisprudenza laica. Questa procedura più semplice e priva di formalismi, dall’ambito originario di applicazione nei litigi con o tra peregrini, si estese ben presto anche ai rapporti tra Romani, sempre più insofferenti degli arcaici e ormai inutili rituali. Verso la fine del III secolo a.C. , proprio sulla scorta dell’esperienza già acquisita con gli stranieri e dopo l’estensione delle nuove forme di protezione giuridica e delle più informali situazioni legali tutelate dal praetor peregrinus agli stessi Romani , erano maturi i tempi per una svolta ulteriore. Ebbe inizio allora il generalizzato tramonto delle legis actiones. Tra la fine del terzo e la prima metà del II secolo a.C. fu gradualmente introdotto un nuovo tipo di processo. Esso è designato come il < processo formulare> perché fondato su < formule >, predeterminate in modo circostanziato, che il pretore rilasciava alla fine delle discussioni preliminari tra le parti, svoltesi davanti a lui, e che riassumevano e richiamavano il contenuto preciso delle opposte pretese legali e fornivano al giudice – vincolandolo, i criteri da seguire nel decidere della controversia, accertando la verità materiale dei fatti addotti dalle parti. La struttura di queste formule e il loro contenuto prescittivo potevano variare all’infinito , adeguando quindi la rigidità e l’astrattezza delle antiche regole alla varietà dei casi pratici e alla capacità di progresso della riflessione dei giuristi. Era così assicurata al magistrato giusdicente una libertà assai maggiore d’impostare il processo in modo aderente alla sostanza del conflitto tra le parti ed al contenuto effettivo delle loro pretese. Ma soprattutto, ora , il pretore poteva attribuire un peso adeguato , ai fini della decisione, a elementi di fatto, rilevanti sotto il profilo della con la parte comune ai diritti positivi delle varie società. Ma codesta specie di comparazione giuridica ante litteram è sicuramente una costruzione tardiva e posticcia, giacché la genesi di questo settore del diritto romano è interna all’esperienza romana. Certo, essa derivava dall’esigenza di fornire tutela a uomini appartenenti a esperienze giuridiche diverse, adeguandosi alla loro cultura e talora recependo anche pratiche mercantili diffuse nel bacino mediterraneo o comuni ai popoli italici, di cui molti elementi potevano essere presenti in Roma. Necessità elementare di tutti gli ordinamenti cittadini, in un quadro dove circolavano ampiamente uomini e cose, era quella di tutelare il valore degli accordi pacificamente stipulati, garantirne i risultati privilegiando la buona fede ed evitando ogni formalismo, del resto impossibile proprio per il carattere < promiscuo > ( sotto il profilo dei diritti d’appartenenza ) delle parti negoziali. Del resto le origini di questo sistema risalgono alla prima età repubblicana. Malgrado l’importanza di tali sviluppi, è però indubbio che incidenza ancora maggiore, sulla storia del diritto romano , ebbe l’ulteriore innovazione dell’introduzione del processo formulare. Questo infatti fu lo strumento fondamentale che permise al pretore di esplorare precocemente i grandi spazi che il suo imperium / iurisdictio magistratuale gli apriva. Dove egli era veramente il < sovrano > ( solo soggetto a un controllo equitativo o politico dei suoi consociati, eventualmente paralizzabile nella sua azione dall’intercessio di un console, di un collega o di un tribuno, oppure chiamato a rispondere delle sue azioni successivamente alla fine della sua carica ). Il pretore, non era il < servo della legge >, e pertanto poteva evitare di applicarla o poteva intervenire a condannare o ad assolvere anche in casi che la legge non prevedeva, se il senso comune di equità e le esigenze materiali di fronte a cui si fosse trovato avessero consigliato tali soluzioni. Di fatto, seppure sul piano eminentemente processuale, era un nuovo diritto che si sovrapponeva e correggeva, integrandolo, l’antico ius civile. Anche attraverso nuovi strumenti che il pretore veniva forgiando. Ad esempio un tipo di litigio che , già prima del processo formualre a partire dal III secolo a.C. , venne introdotto mediante una scommessa che i litiganti erano costretti a stipulare tra loro dal pretore onde accertare la verità di una loro pretesa giudiziale ( ager per sponsionem), superando così i vincoli e le rigidità delle stesse legis actiones. Vanno inoltre ricordati gli ordini del pretore contenuti negli interdetti ( una specie di procedimento sommario e di urgenza, anch’esso già definito nel II secolo a.C. e volto a tutelare situazioni non configurabili come diritti individuali ), nonché le stipulationes e le cautione. Con queste egli poteva costringere i litiganti, in via pregiudiziale, a fornire garanzie e ad assumere specifiche obbligazioni processuali per conseguire risultati lontani dal diritto civile, ma conformi a criteri di giustizia sostanziale. Così come formidabile mezzo d’innovazione era il potere di non ammettere una pretesa processuale pur legittima secondo lo stretto diritto civile ove ostassero motivi d’equità sostanziale o , addirittura di imporre al giudice di utilizzare, come se fossero intervenuti , di fatti non veramente esistenti ( actiones ficticiae) o di giudicare a favore dell’attore sulla base di fatti di per sé irrilevanti per il diritto civile ( actiones fondato esclusivamente sul potere magistratuale e illustrato dall’editto pretorio. Questa dictonomia resterà , seppure in condizioni profondamente mutate , per tutto il corso della vita del diritto romano, sia nella tarda repubblica che nell’età del principato. E’ indubbio che essa avrebbe potuto ingenerare più di una difficoltà se , in concreto, tali processi non fossero stati governati in modo profondamente unitario dalla cooperazione tra magistratura giusdicente e scienza giuridica laica. In questa fase nuova, infatti, se ormai è del tutto obliterato l’antico rapporto di dipendenza del pretore dal sapere autoritario ed esclusivo dei pontefici, il suo ruolo è nondimeno profondamente intrecciato al lavoro dei giuristi. E’ in questa oggettiva convergenza di funzioni apparentemente molto diverse e di ruoli distinti che si è realizzato il punto di sutura tra i due sistemi del ius civile e del ius honorarium.Senza la sanzione processuale assicurata dal pretore l’interpretazione giurisprudenziale delle regole del ius civile, elaborata dai giuristi difficilmente avrebbe portato alle profonde innovazioni effettivamente verificatesi. A lui infatti incombeva l’onere di concedere una formula processuale atta a recepire o a non escludere la soluzione del problema giuridico proposta dai giuristi. D’altra parte, non solo nella stessa elaborazione del contenuto dell’editto e nella concreta condotta processuale, l’azione dei magistrati, talora del tutto incompetenti in materia legale, fu assistita dai giuristi. Costoro vennero anche, se non soprattutto , operando nei riguardi del corpo normativo costituito dalle previsioni edittali, relative alle fattispecie variamente tutelate, lo stesso insieme d’interpretazioni che già in relazione al ius civile era divenuto il medium tra la domanda di giustizia della società e < il > diritto romano. 4. La scienza giuridica romana come sapere aristocratico L’evoluzione del diritto privato romano era sottratto al diretto intervento della comunità politica. Ciò significa che la maggior parte delle regole che disciplinavano la vita dei cittadini nella sfera giuridica privata non derivava da una delibera dell’assemblea cittadina. E’ questo uno degli aspetti dove si può cogliere con la massima evidenza la singolare natura della società romana. In essa infatti vediamo operare nel corso dei secoli e malgrado tutti i rivolgimenti politici e le lotte di ceto, una delega mai discussa, priva a un collegio religioso , e poi a una comunità di sapienti , di un grandissimo potere : quello di enunciare ciò che è < il diritto > della città nella sua applicazione concreta. La legge , sia quella generale e fondante identificata nelle XII Tavole, sia la singola norma particolare era senz’altro fonte del diritto , concepita come vincolante per l’intera comunità. Ma accanto, quasi a dire , < sopra > di essa, si poneva l’interpretatio dei giuristi: senza di essa la norma, sovente nel suo arcaismo anche linguistico, nella sua povertà strutturale e definitoria, sarebbe restata inoperante, o avrebbe avuto ben altre e più circoscritte applicazioni. Gran parte del diritto vigente nelle varie società europee era redatto in testi scritti in latino, lingua estranea alle lingue correnti e in nessun modo ancora < codificato> in cittadino, ci rimanda a una caratteristica di fondo della società romana, come di molte società antiche. Si tratta del carattere schiavistico da essa già precocemente assunto e ora, alle soglie delle guerre puniche ormai dominante . Esso divenne a sua volta un fattore di selezione sociale e di rafforzamento di quelle logiche gerarchiche che abbiamo visto come coessenziale alle forme politico – sociali romane. Chi deve lavorar, come piccolo mercante, come artigiano o quant’altro, per assicurare il proprio sostentamento è in partenza escluso dagli happy few chiamati a reggere la città , a guidare gli eserciti , a far parte della nobilitas. D’altra parte si preparava , nel corso del III secolo a. C. , a contatto con la Magna Grecia e poi direttamente con il mondo ellenistico, una rivoluzione negli orizzonte intellettuali: nuovi spazi si aprivano alla classe dirigente romana e nuove occupazioni, purché gratuite . E in ciò, dal filosofeggiare al dilettarsi di letteratura e poesia, all’arte oratoria, così importante nella vita politica cittadina, ma anche nei dibattiti giudiziari con cui ci si faceva una fama da spendere egualmente nella carriera politica : si pensi a Cicerone, occupazioni intellettuali e morale aristocratica si vennero a saldare perfettamente. Lo studio della retorica greca fu essenziale per divenire un buon oratore, ma fu un sapere che fecondò in profondità anche lo studio del diritto, permettendo di chiarire e raffinare le tecniche argomentative che ne costituivano il corpo centrale. Non si deve però presumere che tale influenza s’esaurisse nelle sole tecniche d’analisi utilizzate dai giuristi romani e neppure nell’elaborazione delle categorie con cui essi verranno organizzando il materiale da loro esaminato. Le grandi correnti filosofiche greche, anzitutto lo storicismo, contribuiranno infatti a dare una maggiore profondità di campo alla scienza giuridica, con una maggiore consapevolezza del suo significato nella costruzione della società umana. E questo studio , appunto , rientrava tra le attività che potevano essere esercitate senza disdoro dall’aristocrazia romana , divenendo uno strumento importante per la vera vocazione di un aristocratico, oltre alla guerra, che era il governo della città . La connotazione aristocratica della giurisprudenza repubblicana è una chiave di lettura importante per farci comprendere il modo in cui vari aspetti dell’esperienza giuridica romana si sono venuti svolgendo e tra loro intrecciando. E che ha sicuramente contribuito a quel carattere autoritativo dei responsa dei giuristi repubblicani. E’ vero che, nel corso del I secolo d.C: , la comunità dei giuristi mutò in parte la sua fisionomia, con la presenza di elementi provenienti dall’ordine equestre. Ma ciò corrispose al generale mutamento negli assetti sociali e al diverso ruolo che vennero allora assumendo gli stessi giuristi. Si crede, in effetti, che raramente , prima della vicenda romana, il diritto si fosse saldato in modo così esplicito alla politica come arte del governo e della disciplina sociale. Sempre più, con l’accrescersi della potenza di Roma, la fondamentale questione del controllo e dell’organizzazione di un numero crescente di individui e realtà territoriali differenziate s’impose al centro dell’attenzione della classe di governo, plasmandone gli orientamenti. La forma del diritto divenne il sistema di coordinate che organizzò l’universo di riferimento e lo strumentario intellettuale di cui essa si avvalse in questa storia di successo. Talché fu il diritto lo strumento particolare alla definizione di forme fisse e concordate atte a sancire, da una parte < le regole del gioco> nelle lotte per il potere e nell’azione individuale, dall’altra il funzionamento ottimale, consapevolmente predeterminato tra i gruppi interessati dell’intero apparato pubblico. Esso fu lo strumento per determinare i confini entro cui ciascun potere pubblico e privato poteva e talora doveva esercitarsi e per individuare quell’insieme di comportamenti che garantivano il godimento dei beni materiali , la loro circolazione e il loro accrescimento. Il linguaggio e le logiche che legavano la comunità dei cittadini e la stessa struttura della città erano così dominati in misura crescente dalla forma giuridica. Non meno della vita del singolo, immerso in una quoditianità tutta permeata del diritto, dove si richiedeva un’infinità di azioni rilevanti giuridicamente. Si determinava così un carattere centrale della società romana destinato , per molteplici vie, a influenzare in profondità la storia futura. Il modo particolare in cui abbiamo visto prodursi sempre nuovi spazi del diritto , sempre nuove soluzioni vincolative per i consociati era possibile, a sua volta, solo a due condizioni : che esistesse un fortissimo controllo sociale e una ancor maggiore compattezza di ceto. Una soluzione adottata per la sola autorità intellettuale e per il prestigio personale del suo autore, uno strumento processuale imposto o rifiutato dal pretore in virtù del suo imperium , la sostanziale assenza della legge come generale e preordinata decisione della comunità politica, poterono funzionare, come è stato nel caso romano e non per decenni, ma per secoli, solo sulla base di un generale anche se non esplicito insieme di deleghe a soggetti portatori di autorità. Deleghe possibili perché il gruppo sociale legittimato a esprimerle era sufficientemente compatto da non richiedere mediazioni preventive ( cioè < leggi > ) che definissero il livello degli interessi contrapposti da tutelare. Pur nel contrasto tra opinioni scientifiche e interessi pratici dei litiganti , vi era la coscienza di un superiore insieme di ragioni comuni comunque salvaguardate anzi rafforzate dall’appartenenza a un blocco sociale egemone e omogeneo nei suoi valori di riferimento e nella sua cultura, al quale apparteneva, insieme ai magistrati e ai giuristi, gran parte dei principali e più importanti tra i fruitori di questo stesso < diritto > e della relativa tutela processuale. Ed è interessante notare che, anche quando la lotta politica ruppe la compattezza di ceto e segnò le sorti della libertas repubblicana, l’autonomia della scienza giuridica romana era così consolidata da sopravvivere alla crisi, restando, seppure in condizioni e con spazi diversi, ancora al centro della vita giuridica del principato. 5. La giurisprudenza dalle guerre annibaliche alla crisi della repubblica Attraverso l’inizio di un consapevole sforzo di concettualizzazione, si poterono rivoluzionare le categorie fondanti del diritto romano arcaico, costruendo i pilastri di quella che sarebbe stata la grande architettura del diritto romano nella sua < età dell’oro> : quel diritto romano definito come < classico >. Avvalendosi degli schemi elaborati dalla filosofica greca, i giuristi romani iniziarono complessità. A questa fase fondatrice fece seguito una stagione più matura , dove già la ricca messe di risultati conseguiti iniziò a essere organizzata e sistemata: fu il momento straordinariamente creatico che coincide con l’età tragica ma vitale delle guerre civili, dominato da due personalità : Quinto Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo. Nella coscienza dei contemporanei e nel ripiegarsi sulla storia del proprio sapere che vennero facendo le generazioni successive, Quinto Murcio si staglia come l’autore di una prima generale organizzazione del sistema giuridico. Cicerono, ci dice che egli fu il primo a organizzare il diritto generatim . Il grande giurista , che si colloca agli inizi dell’ultimo secolo della repubblica, per molti versi presenta un aspetto ambivalente : pontefice e cultore del diritto sacro insieme a quello civile, egli presenta la tipica fisionomia aristocratica che, nel caso particolare, giungeva a sostanziarsi in una tradizione di studi e di specialisti trasmessa di padre in figlio. Ma di Quinto va soprattutto ricordata l’importanza delle sue opere scritte : un libro di < definizioni > ( con il termine greco oron ), così popolare e autorevole da sopravvivere sino a Giustiniano, e soprattutto i diciotti libri ius civilis. Ivi tutta la materia del diritto civile romano trovava una prima importante sistemazione, tant’è che la sua opera, a sua volta, fu l’oggetto di numerosi commentari di altri giuristi successivi che, in tal modo , approfondirono lo studio di questo settore del diritto : Lelio Felice, Pomponio e Gaio. Cicerono era amico di Servio ed esprime , a più riprese, nelle sue opere la grande amministrazione nutrita per questo giurista. Per lui questi, di una generazione più giovane di Mucio, gli era senz’altro superiore, essendo merito suo quello di avere per la prima volta elevato lo studio del diritto al rando di scienza. In questo autore l’organizzazione di categorie appare fondarsi su una tecnica più matura e collaudata di quella del suo grande predecessore , segnando il vero punto di partenza per i successivi percorsi giurisprudenziali. Si può affermare che con Servio la struttura sostanziale dei problemi di fondo relativi alle grandi categorie giuridiche e alla disciplina specifica di molteplici istituti del diritto privato romano sia stata posta in termini che non sarebbero stati modificati granché dalla giurisprudenza dei secoli successivi. Non solo, ma in certi passaggi parrebbe addirittura affiorare in Servio il tentativo di riorganizzare l’intera materia giuridica all’interno di un quadro logico sistematico nuovo, ispirato a una coerenza < dogmatica > che non sarà dato di ritrovare poi neppure nei più grandi giuristi imperiali : da Labeone a Giuliano e che solo nelle grandi sistemazioni dell’ultima stagione della scienza giuridica < classica > riemergerà , secondo logiche tuttavia assai meno innovative. Sarà la numerosa schiera degli allievi diretti e indiretti di Servio , gli auditore Servii, che ci lascerà raccolta dei suoi pareri, i responsa, relativi soprattutto alla soluzione di casi pratici. Egli fu il primo giurista del cui pensiero resti consistente documentazione : la rilevanza degli echi che ancora ci giungono è la prova della grande influenza da lui esercitata su più di una generazione, negli anni del definitivo tramonto della repubblica. Resta infine un’ultima grande figura di giurista che si staglia già sui nuovi orizzonti E’ certo che esse furono presenti sin dai primi anni del primo conflitto con Cartagine e destinate a persistere , seppure in forme alterne, nella successiva vicenda repubblicana. Sin da prima dell’inizio della guerra, del resto, non erano state poche le opposizioni, tra i notabili repubblicani, all’accentuarsi di una politica ostile a Cartagine. Anche in seguito, durante le due guerre, si ricordano, da parte dei gruppi politici più cauti , sia in Roma che in Cartagine, diversi tentativi di arrestare lo scontro con un ragionevole compromesso. Alla prova dei fatti prevalsero comunque i gruppi più radicali che vollero condurre la vicenda sino alla sua estrema conclusione. Nel caso romano, ciò non impedì che, in quello stesso lasso di tempo, i dirigenti del partito < agrario > ottenessero un parziale successo, imponendo anche un’espansione territoriale verso il Nord. In questo senso vanno ricordate le campagne militari nell’Italia centro – settentrionale che avrebbero portato all’acquisizione delle ricche terre del Piceno e della pianura padana. In particolare la conquista del Piceno e le campagne contro i Galli , guidate da un grande dirigente plebeo, Caio Flaminio. Emblematica appare in tal senso la costruzione della via Flaminia nel 220 a.C. , sotto la censura dello stesso Flaminio. Diretta a Nord verso l’Adriatico , sotto Rimini, essa andava in direzione opposta a quella, più antica , della via Appia. Quasi a simboleggiare una alternativa nella politica espansionista romana, legata ai tradizionali aspetti agrari di cui il Piceno costituiva l’esito quasi naturale. Quanto alla eredità politica di Appio Claudio , è sufficiente ricordare come, tra i magistrati che fecero pendere la bilancia a favore della guerra contro Cartagine, sia da annoverarsi un altro Claudio , appartenente alla stessa gens : Appius Claudius Caudex. Una conseguenza di grande rilievo dello scontro con Cartagine fu il formidabile collaudo della costruzione politica romana in Italia. Se infatti già nel corso della Prima guerra punica la società romana aveva mostrato una grande capacità di mobilitazione di risorse, riconvertendosi, con i propri eserciti territoriali, in una potenza marinara , fu la Seconda guerra punica , con la discesa di Annibale in Italia a dare la misura della compattezza del blocco politico costruito da Roma. In effetti Annibale, portando il suo esercito in Italia, perseguiva un disegno strategico che andava oltre il mero confronto militare con i Romani, mirando alla disgregazione di quel sistema con cui si era venuto costruendo , tra IV e III secolo, il blocco politico – militare dei popoli italici sotto il diretto controllo di Roma. Sebbene il suo genio militare gli facesse vincere tutti gli scontri diretti che i Romani si illusero di potere affrontare con lui, Annibale non sarebbe riuscito a realizzare appieno il suo progetto. Solo le popolazioni più recentemente sottomesse dai Romani come i galli e gli Etruschi, o alcune città della Magna Grecia, anzitutto Capua, defezionarono dalla loro fedeltà ai Romani. La persistenza del blocco di alleanze romano – italico riuscì a impedire che un disastro militare come Canne segnasse la fine politica di Roma. E’ quello che Annibale aveva ben chiaro, rinunciando a espugnare l’appartenente indifesa Roma dopo questa sua clamorosa vittoria. Il messaggio della classe dirigente romana, anzitutto del senato , allora, non fu quello di profondità , per il vincitore, la fine dell’esistenza stessa di una comunità politica, della libertà e spesso della vita, per gli sconfitti, non avesse inciso su ogni aspetto della società e delle istituzioni romani. Del resto la percezione del carattere cruciale di quegli anni per la storia del mondo antico fu comune a tutti i popoli del Meditterraneo e si riflette ancor oggi nel profondo della nostra visuale. Non è poi un caso che nel dibattito che s’aprì verso la fine dell’800, in cui intervennero anche storici del mondo antico, su cui ha richiamato l’attenzione Andrea Giardina, la stessa storia dell’Italia moderna , o meglio la desolazione del latifondo meridionale, ancora ben presente allora, venisse fatta risalire alle devastazioni della guerra annibalica , così a lungo guerreggiata soprattutto nell’Italia meridionale, aggravata dalla pratica della < terra bruciata>. La prolungata guerra contro Annibale, lo sforzo eccezionale cui fu sottoposta l’intera organizzazione romana del potere, l’entità dei disastri, la grandezza della vittoria finale e infine le ulteriori conseguenze politiche non potevano non produrre effetti più o meno duraturi sull’intera società romana e sulle sue strutture e istituzioni, a più livelli. Lo testimonia anzitutto l’affermarsi , sulla scena politica cittadina, di grandi personalità che tendono a mettere in ombra e a minacciare gli equilibri tipici dell’oligarchia senatoria. Ma lo cogliamo anche nella trasformazione , e deformazione, dell’antico principio costituito dalla proroga nel comando militare dei magistrati superiori ( prorogatio imperii ) , dopo la scadenza regolare del loro mandato. Sino a che non fossero stati rilevati nel comando del successore, essi infatti continuavano a esercitare il comando come < pro magistrati> : proconsoli e propretori. Rispetto alla prassi sino ad allora seguita, qulcosa di nuovo avvenne, nel momento più drammatico della Seconda guerra punica, in relazione al giovane e carismatico Publio Cornelio Scipione. Questi infatti, nel 211 a.C. , fu investito del comando della guerra in Spagna contro i Cartaginesi , nel riuscito tentativo di allontanare o indebolire la pressione di Annibale sull’Italia. Egli fu eletto, dai comizi centuriati , direttamente alla pro magistratura, come proconsole, senza precedentemente avere rivestito la corrispondente carica di magistrato. In tal modo si innovava profondamente nella stessa logica sino ad allora seguita , prevedendo che il supremo potere di comando costituito dall’imperium potesse essere sganciato dalla titolarità della magistratura ordinaria. Un criterio che avrebbe avuto una durevole fortuna, sia nel corso delle guerre civili che, in seguito, nella costruzione del principato. Più indeterminata, ma non meno significativa e grave di conseguenze nelle logiche della oligarchia repubblicana, la posizione dello stesso Publio Cornelio Scipione l’Africano, in Roma dopo la sua vittoria su Annibale. La grandezza della vittoria e il ricordo dei pericoli superati si sommavano nell’attribuire a questo personaggio un’aura particolare e un prestigio mai avuto in precedenza da alcun uomo politico e, che trascendeva anche la sua eminente posizione istituzionale, per alcuni anni come princeps del senato. Per la prima volta erano veramente minacciati gli equilibri consolidati all’interno di questa repubblica aristocratica e il senato appariva svuotato di autorità rispetto a un repubblicane continuarono immutate : ma erano modificati gli equilibri interni e i reali centri di potere. E’ in ragione di ciò che si spiega la durissima lotta di Catone il Censore contro l’Africano. < Nulla di personale > o quasi, dunque, ma molto di politico : e , come non di rado accade nella storia, lo strumento per la vittoria finale di Catone fu un processo criminale. Non direttamente contro l’Africano, praticamente intoccabile nella sua gloria, ma contro il fratello, per un affare di < fondi neri > a disposizione di costui nel corso di un comando militare in Oriente, di cui non si riusciva a dar conto. L’autorità dell’Africano impedì che il processo fosse condotto a termine : ma la sua esposizione in questo affare intaccò il suo prestigio personale, avviandone il declino politico. Consapevole di ciò , egli addirittura lasciò Roma, ritirandosi in volontario esilio in Campania, nei suoi possedimenti presso Literno. E’ degno di nota che Catone stesso era stato un protetto della gens Fabia , e aveva fatto i primi passi della sua carriera pubblica con il suo appoggio. Come si vede , il diverso orientamento politico, conservatori, agrari contro innovatori filo mercantilisti e < protoimperalisti > , trasmesso attraverso il sistema dei lignaggi, parentele e clan gentilizi e delle connesse alleanze sociali e < amicizie > , si confermava, anche in tal caso, come un carattere della tradizione politica romana. Il tramonto di Scipione e il recupero di autorità dell’aristocrazia senatoria permisero un riequilibrio della scena politica romana per tutto il II secolo : l’epoca della grande espansione imperialistica. Un periodo, tra l’altro , in cui proprio l’insieme di competenze e di sapienza politica del senato guidò una fase delicatissima della politica estera romana. Ma fu l’ultima stagione in cui esso assolse con piena efficacia al ruolo di protagonista della politica romana. Il germe dei poteri personali, di un crescente squilibrio ingenerato dalla gloria militare era stato seminato e si accingeva ormai a dare frutti velenosi : s’era aperta l’< eredità di Annibale >, appunto In seguito, si introdussero ulteriori cautele e restrizioni nella carriera politica : la lex Villia annalis, del 180 a.C. , con cui si regolò l’età necessaria per presentarsi alle varie cariche, mentre si rafforzò il divieto di iterazione delle cariche e di continuazione per più anni di seguito della medesima magistratura: dopo il terzo consolato di seguito di Marcello nel 152 a. C., non vi furono più casi in cui non si rispettasse l’intervallo decennale tra un consolato e il successivo, sino a cinque consecutivi consolati di Mario : ma, con essi, siamo già in piena crisi della repubblica. 2. Il governo provinciale Negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra punica, a seguito della sua vittoria e poi dei mutati equilibri nel Mediterraneo occidentale, Roma era subentrata ai Cartaginesi nel controllo di buona parte della Sicilia e della Sardegna. Queste acquisizioni territoriali trans marine furono indicate con il termine provincia : vocabolo usato a designare la sfera di competenza specifica riconosciuta a un magistrato com imperio e ora esteso a indicare l’oggetto materiale di questa competenza : il territorio conquistato e le sue popolazioni. Si trattava di organizzare all’interno di un potere politico anche troppo fermamente esercitato. In generale queste città erano poi sottoposte a una imposizione tributaria indicata dai Romani con il termine stipendium , e a specifici obblighi , come quelli delle città libere siciliane, tenute a vendere a Roma il loro frumento a un prezzo politico. Dalla serie di orazioni di Cicerono contro Verre , il corrotto e devastante governatore della Sicilia, risulta chiaro come codesto sistema potesse sfociare facilmente in una forma di sistematica oppressione per gli abitanti locali. L’alleanza tra l’avidità dei governatori romani e gli appaltatori delle imposte , i publicani ( che nel caso siciliano presero il nome particolare di decumani , da < decima > ) comportò una pressione fiscale eccessiva, tale da incidere negativamente sulle condizioni economiche di tali territori, soprattutto delle aree meno redditizie. I publicani infatti tendevano ad aumentare a dismisura la percentuale dei tributi commisurata alla produzione agricola, andando molto al di là di quelli che erano i criteri generali stabiliti da Roma e a cui, in teoria , gli stessi governatori avrebbero dovuto far riferimento. Costoro però, invece di controllare il comportamento fraudolento e illegale di questi intermediari, si associarono sovente a essi nel taglieggiare le popolazioni sottoposte. Le due prime province, la Sicilia e la Sardegna, furono affidate al governo di nuovi magistrati creati appositamente. Poiché per esse era necessaria la presenza di un presidio militare che consolidasse le acquisizioni romane, si affidò il governo di queste province a due nuovi pretori appositamente creati, richiedendosi l’esercizio dell’imperium. In seguito, col moltiplicarsi dei nuovi territori provinciali e con le ulteriori necessità di disporre annualmente di un numero crescente di governatori legittimati a guidare le legioni romane in territori d’occupazione, i Romani rinunciarono a moltiplicare in misura crescente il numero dei magistrati ordinari. Si trattò dunque di aumentare il numero dei titolari dell’imperium militiae, senza accrescere il numero di magistrati eletti annualmente dai comizi. La prorogatio imperii fu lo strumento utilizzato a tal fine. Quello che sino ad allora era stato un provvedimento di emergenza, a garantire la continuità del comando militare, divenne quindi un nuovo meccanismo per moltiplicare i governatori provinciali con pieni poteri. Al termine del suo anno di carica, ciascun console e ciascun pretore veniva inviato ad assumere il comando di una provincia, conservando l’imperium non più come magistrato ancora in carica, ma come pro – console o pro – pretore, sino a che lui stesso sarebbe stato rilevato da tale condizione dal suo successore inviato dal senato. La determinazione dei diversi magistrati destinati al governo delle varie province divenne in effetti uno degli oggetti di maggior contesa e competizione tra gli interessi e uno strumento di ulteriore potere nelle mani del senato. Vi erano infatti province ricche e meno ricche , aree dove erano più facili le occasioni di arricchimento o di ulteriori glorie militari, magari a buon mercato , e zone difficili da controllare e in cui l’impegno militare avrebbe sicuramente superato i vantaggi di facili vittorie e buoni bottini. Di qui la necessità di stabilire le destinazioni dei vari magistrati in modo relativamente imparziale : il che avvenne con l’assegnazione di queste già al momento dell’assunzione della carica magistratuale , mediante sortitio , un sistema che sottraeva al senato l’arbitiro e il potere di favorire gli amici e svantaggiare i