Scarica STORIA DI ROMA TRA DIRITTO E POTERE - Capogrossi e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Romano solo su Docsity! LA GENESI DELLA NUOVA COMUNITA’ POLITICA Nell’ultimo millennio avanti cristo il Lazio era occupato da molteplici insediamenti umani che, in breve tempo, avrebbero dato origine a Roma e alle altre città del Latium vetus (il Lazio antico). Queste antiche comunità risultavano alquanto isolate a causa della conformazione geologica del territorio laziale, caratterizzato da vasti acquitrini, avvallamenti e aree boschive. Dal punto di vista economico possiamo distinguere diversi settori che contribuirono allo sviluppo di queste antiche comunità: 1)il settore maggiormente sviluppato era l’allevamento: oltre alla pecora fortemente allevato era il maiale, animale capace di sopravvivere nutrendosi dei prodotti dei boschi, senza la necessità di particolari cure da parte degli allevatori. 2)L’agricoltura, ancorché primitiva, era praticata con successo. Dato il clima umido che caratterizzava il Lazio il prodotto prediletto dai romani era il farro, un cereale molto resistente anche se povero dal punto di vista nutrizionale. Anche gli alberi da frutto venivano sfruttati dalle comunità del Lazio antico, in particolare il fico e l’ulivo. 3)Infine non bisogna dimenticare l’importanza che il commercio rivestiva per queste comunità in ascesa. La circolazione delle merci e delle persone avveniva attraverso una serie di rotte commerciali, coperte per terra o per mare. Fra di esse ricordiamo: la rotta che univa l’Etruria e la Campania; gli scambi con le città costiere, resi possibili dai progressi realizzati nella costruzione di imbarcazioni con cui navigare sul mar Tirreno. Quando si pensa alle comunità del Lazio antico, non bisogna immaginare delle realtà simili alle poleis greche o alle città costituite successivamente alla fondazione di Roma. Il Latium vestus era, infatti, caratterizzato dalla presenza di numerosi villaggi costituiti da poche capanne. Il fattore su cui si fondava l’unione di queste comunità era la presenza di legami familiari o presudoparentali, ancorati alla memoria di una discendenza comune. Anche i vincoli religiosi contribuivano a unire queste antiche comunità: un esempio eclatante è rappresentato dai populi Albenses, un insieme di villaggi collocati nel cuore dei Castelli romani, accomunati dal culto di Iupiter Latiaris. In queste comunità primitive la funzione di guida del gruppo era connessa con l’età e con le competenze militari. È possibile distinguere due figure, in cui si concentravano tutte le funzioni direttive e organizzative: 1)I Patres: erano gli anziani della comunità, dotati della saggezza necessaria ad organizzare e guidare la collettività. Oltre a funzioni “amministrative, i patres avevano funzioni religiose che gli conferivano grande prestigio all’interno della comunità. 2)L’assemblea degli uomini in arme: i guerrieri più valorosi e capaci esercitavano una forte influenza sulle scelte della collettività. In tempo di guerra è probabile che i loro poteri risultassero decisamente preminenti rispetto a quelli dei patres. Paragrafo 2 La fondazione di Roma A partire dall’VIII secolo A.C. nelle comunità del Lazio arcaico si registrano una serie di cambiamenti che in breve tempo porteranno alla fondazione di Roma. 1)Un notevole aumento della popolazione: reso possibile dallo sviluppo dell’agricoltura che, a parità di terreno, riesce a sostenere un maggior numero di individui rispetto all’allevamento. 2)Un importante sviluppo tecnologico: La produzione domestica dei manufatti venne sostituita da una produzione specializzata, in cui gli artigiani concentrarono la loro attenzione sui beni da produrre non dovendo più partecipare attivamente alle attività agricole o pastorali. Ciò rafforzò lo scambio fra i prodotti agro-pastorali e quelli artigianali. 3)L’affermazione di un’aristocrazia dominante, che aveva accumulato ricchezze attraverso la guerra. Attorno ai guerrieri e ai gruppi familiari più forti si concentrarono un numero crescente di seguaci, il che a sua volta portò ad una stratificazione sociale di queste antiche comunità. Il mutamento economico-sociale, descritto nelle righe precedenti, ha portato ben presto ad un’evoluzione delle antiche comunità laziali che assunsero gradualmente le caratteristiche di vere e proprie città (si pensi, come esempio, ad Ariccia, Palestrina, Tivoli. Tutti insediamenti che assunsero una fisionomia diversa dal villaggio dell’età precedente). Fra queste realtà proto-urbane bisogna ricordare la città sorta dal sinecismo (un termine che indica la formazione di città dall’unificazione di diversi insediamenti) dei villaggi situati sul Palatino. Questo colle, che dopo molti secoli diverrà la residenza degli imperatori di Roma, fu il nucleo originario della città eterna. Non è un caso che i Romani credessero che il Palatino fosse il luogo in cui la lupa allevò Romolo e Remo. L’importanza del Palatino, così come del Quirinale e del Campidoglio, era anzitutto strategica: dalla sommità di questi colli era infatti possibile controllare uno dei pochissimi guadi sul Tevere, situato nel punto in cui il fiume si divide in due. Tradizionalmente la fondazione di Roma si fa risalire al 21 aprile del 753 A.C., data che ci viene tramandata da Varrone erudito romano vissuto alla fine della Repubblica. A prescindere dall’esattezza di questa data, che suscita diverse perplessità fra gli archeologi e gli storici, nella seconda metà dell’VIII secolo A.C. un vento di cambiamento investì i villaggi del Latium, spingendoli ad abbandonare le loro caratteristiche arcaiche per evolversi verso uno schema urbano. La leggenda di Romolo che traccia i confini della città, simboleggia tutti i cambiamenti che si realizzarono con l’abbandono delle strutture tipiche degli antichi villaggi. Una volta confermato re dal consenso degli dei e dei concittadini, il fondatore definisce la forma sociale e istituzionale della città . Anzitutto distinguendo i suoi seguaci in patrizie e plebei . Quanto alla forma politica , egli avrebbe distribuito il popolo nelle tre tribù dei Romnes, Tities e Luceres, ciascuna suddivisa in dieci curie, suddivise a loro volta ognuna in dieci decurie. Ci troviamo quindi di fronte a un sistema piramidale di distribuzione della popolazione costituito da trecento decurie, trenta curie, tre tribù. Una distribuzione prioritariamente finalizzata alla guerra, giacché ciascuna curia avrebbe dovuto fornire alla città cento uomini armati e dieci cavalieri, dando così luogo alla primitiva legione di tremila fanti e assicurando il complessivo organico di trecento cavalieri. Paragrafo 2.1. le strutture familiari e le aggregazione sociali nelle città dell’VIII secolo Come abbiamo visto nel paragrafo 1, le antiche comunità del Latium vetus era connesse attraverso legami familiari o pseudoparentali. Questi legami non vennero meno con l’avvento delle città ma anzi costituirono la base su cui nacque il sistema delle gentes. Durante tutta la storia di Roma sono due le strutture centrali su cui si è fondata la convivenza delle popolazioni riunite all’interno di questa città: la familia e il gens. 1. La familia. I romani distinguevano due tipologie di familia: ■ La familia proprio iure: Essa è costituita dalla coppia di sposi con i loro diretti discendenti, in altre parole gli individui che abitano all’interno della stessa casa. Nella familia proprio iure convivevano, sotto la potestas del pater, la moglie i figli e le figlie non sposate e i successivi discendenti per linea maschile con le loro eventuali mogli. I figli e i discendenti per linea maschile rimanevano soggetti alla potestas del pater familias fino alla sua morte. Le figlie e le nipoti, invece, uscivano dalla familia proprio Con il passare del tempo il Rex venne affiancato, nelle sue varie funzioni, da una serie di collaboratori: ■ Nella guida dell’esercito: si andò affermando il ruolo del magister populi e del magister equitum (quest’ultimo al comando della cavalleria). ■ Nel governo civile della città: il Rex era assistito dal praefectus urbi, un funzionario che con il tempo avrebbe visto crescere enormemente il suo potere. ■ Nella sua funzione di garante della pax deorum e dei mores: venne affiancato dal collegio dei pontefici. Paragrafo 1.1. Gli organi costitutivi della città: i Patres. Il termine arcaico patres venne ben presto sostituito dal più moderno senatus (da senes anziano). Comunque lo si chiami il Senato è l’assemblea degli anziani. Inizialmente composta dai patriarchi (i patres) delle gentes che andarono a formare la città di Roma, le fonti ci dicono che con il tempo la sua composizione mutò non essendo più legata al numero di gentes presenti in città (ciò trova conferma nel numero di senatori, gradualmente aumentati fino al numero definitivo di trecento, decisamente superiore rispetto al numero di gentes che insieme formavano il popolo di Roma). I senatori venivano scelti dal Rex fra coloro che si fossero distinti, all’interno delle varie gentes, per ricchezza, valor militare o per le azioni compiute in tempo di pace. Per quanto concerne l’identificazione dei compiti cui erano preposti i senatori, ruotavano tutti intorno alla figura del Rex: 1) Procedevano alla creatio del Rex: secondo le modalità indicate nel paragrafo precedente. 2) Fornivano auxilium e consilium al Rex: circa l’incisività di questa funzione, gli storici ritengono che il senato non aveva in epoca arcaica quel potere decisionale che otterrà durante la fase repubblicana. Ciò nonostante le funzioni consultive, esercitate dai senatori nei confronti del Rex, contribuirono non poco allo sviluppo ordinato della comunità, che per molti versi risultava ancora legata alle tradizioni pre-civiche. Paragrafo 1.2. Gli organi costitutivi della città: il popolo Come abbiamo visto nel capitolo 1, parlando della suddivisione effettuata da Romolo nel popolo di Roma, al tempo dei Rex la popolazione risultava suddivisa in 3 tribù le quali a loro volta erano divise in trenta curiae, ciascuna suddivisa in 10 decurie (per un totale di 300 decurie). Questa suddivisione, il cui scopo era prettamente militare dato che l’esercito veniva formato attraverso i soldati che ciascuna curiae era tenuta a inviare, era fondata sull’appartenenza dei membri della curiae ad una stessa discendenza. Per quanto concerne le funzioni di queste curiae, quindi del popolo che le compone, esse avevano: 1)Una funzione militare: essendo l’esercito, come più volte ribadito, formato dalla somma dei contingenti fissi che ciascuna curia doveva fornite. 2) Una funzione cerimoniale: La nomina del Rex richiedeva, come abbiamo visto, la partecipazione del popolo riunito nel comizio curiato. 3)Nominavano i magistrati ausiliari del rex: quelli cioè che dovevano coadiuvarlo nelle sue funzioni (si pensi ad esempio al praefectus urbi). 4)Partecipavano alla formazione di una serie di atti di natura privatistica: si pensi come esempio all’adrogatio con cui un pater familias si assoggettava alla potestas di un altro pater familias il quale era privo di discendenti diretti. Questa cerimonia doveva svolgersi dinanzi ai comizi curiati. 5)Partecipavano alle decisioni importanti che venivano prese dal Rex e dai patres: inizialmente l’assemblea non era chiamata ad esprimere un voto ma semplicemente a manifestare il suo assenso o dissenso attraverso il suffragium (termine che con il tempo assunse il significato di voto ma che inizialmente era associato all’applauso). Paragrafo 2 i Collegi sacerdotali Per comprendere il ruolo dei collegi sacerdotali, appare utile esaminare l’importanza rivestita dalla religione nella Roma arcaica. In quest’epoca una serie di culti tendono a sovrapporsi, chiara manifestazione delle varie culture che attraverso processi di sinecismo hanno contribuito alla nascita di Roma. 1)Molto importanti sono, innanzitutto, i culti dei Penati (spiriti protettori della Religione romana, assimilabili agli angeli custodi del Cristianesimo) e dei Lari (spiriti protettori degli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia, della proprietà o delle attività in generale). Questi culti sono di competenza di ciascun pater familias. 2)Accanto ai culti familiari, troviamo i culti e riti delle gentes e infine i culti della città. Rispetto a questi ultimi il culti arcaici, caratterizzati dall’adorazione di luoghi sacri o da pratiche magico-animistiche (si pensi come es al collegio sei Salii, una specie di sacerdoti guerrieri impegnati in rituali magici), cominciarono ben presto ad unirsi con nuovi culti che gradatamente presero il sopravvento. Chiara manifestazione di questa trasformazione religiosa fu la sostituzione delle tre supreme divinità arcaiche (Giove, Marte e Quirino), con quelle della religione olimpica che ruota intorno alla c.d. triade capitolina (composta da Giove, Giunone e Minerva) venerata in un grande tempio edificato sul Campidoglio. Da queste premesse è possibile esaminare i vari collegi religiosi che, con le loro funzioni, influenzavano non poco la vita della città: 1)Il collegio delle Vestali: composto da sacerdotesse il cui compito era la custodia del fuoco sacro, simbolo della città di Roma, che non doveva mai essere spento. Questo culto, che la tradizione vuole sia stato creato da Numa Pompilio, venne subito incardinato nell’apparato amministrativo statuendone la dipendenza dal Rex (in epoca repubblicana le vestali dipenderanno dal pontefice massimo). 2)Il collegio dei feziali: il cui compito era di legittimare le relazioni internazionali fra Roma e gli altri popoli. Solamente attraverso i feziali era possibile dichiarare una guerra giusta e, successivamente alla sua conclusione, stabilire le condizioni per la pace. Quanto detto fin ora non deve indurre a pensare che fossero i feziali a stipulare la pace (come se fossero dei moderni ambasciatori), al contrario essi dovevano solamente garantire che gli atti internazionali venissero conclusi secondo le forme previsto dai mores (le norme consuetudinarie). Questo rigido formalismo finì per tralasciare l’aspetto sostanziale delle decisioni che venivano prese dal Rex e dai patres, con l’effetto di legittimare qualunque atto (in particolare le guerre ) a patto che esso venisse compiuto secondo le forme prescritte dai feziali. 3)Il collegio degli auguri: Gli auguri erano dei sacerdoti il cui compito era di intercedere presso gli dei per chiederne l’ intervento. I Romani usavano distinguere gli auguria dagli auspicia: • Gli auspicia: non erano formulati dagli auguri ma dal Rex e dai magistrati che lo coadiuvavano nelle sue funzioni. Al momento di compiere un atto, in particolare se dotato di una certa importanza, il Rex o i suoi magistrati verificavano che non vi fossero auspici sfavorevoli (segno che una divinità non voleva che l’atto fosse compiuto in quel giorno). L’atteggiamento ostile della divinità, attestato dalla lettura degli auspici, non impediva però che lo stesso atto fosse portato a termine nei giorni successivi. Da quanto detto si capisce che gli auspici erano connessi a situazioni specifiche e immediate. • L’augurium: può riguardare qualunque situazione, anche molto lontana nel tempo, rispetto alla quale si chiede l’aiuto della divinità (si pensi alle richieste inviate agli dei per la protezione della città di Roma). Con l’augurium il sacerdote non va semplicemente a ricercare una manifestazione della volontà divina; il suo scopo è quello di richiedere un intervento attivo degli dei. Ciò trova conferma nella nomina del rex che come abbiamo visto viene inaugurato, nominato cioè grazie all’intervento degli dei. 4)Il collegio dei pontefici: esso ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo del diritto. Sin dall’età dei re i pontefici oltre a registrare e trasmette oralmente il diritto, svolsero un’intensa attività di interpretazione e innovazione che finì con il portare alla creazione di nuove norme giuridiche. In età monarchica il collegio era comporto da 6 membri (portati a 13 con l’avvento della repubblica) ed era presieduto dal pontefice massimo. Compito fondamentale di questo collegio era la conservazione e l’interpretazione delle leges regiae, le leggi elaborate dal Rex la cui fonte primaria erano i mores (le norme consuetudinarie) di cui facevano parte anche le regole vigenti prima della fondazione della città. A conclusione di questo discorso intorno ai collegi religiosi presenti a Roma in età arcaica, occorre notare che solamente pochissimi ruoli (ad esempio quello delle Vestali), presupponeva una totale consacrazione alla divinità. Tutti gli altri compiti non impedivano al sacerdote di continuare i suoi precedenti affari quale normale cittadino. Si tratta di un elemento molto importante che permette di distinguere l’ordinamento romano, che potremmo definire in un certo senso laico, dalle varie società orientali caratterizzate dalla presenza di regimi teocratici. Paragrafo 3 le radici arcaiche del diritto cittadino A questo punto, dopo aver completato l’analisi degli organismi che componevano la città di Roma al tempo dei rex, una domanda sorge spontanea: in quell’epoca esisteva già un corpo normativo che, secondo i nostri canoni, potremmo chiamare diritto? La risposta è che in origine lo Ius (il diritto) risultava confuso e mescolato insieme con il Fas (il costume), con le credenze religiose, con le pratiche magiche e con i culti delle gentes (si pensi come esempio al culto di Venere da parte della gens Iulia). Secondo gli storici le prime norme giuridiche è probabile che si formarono proprio grazie alle gentes, o meglio alla diffusioni di tradizioni e comportamenti che fino a quel momento erano rimasti circoscritti alle singole gens. Le credenze religiose, le pratiche sepolcrali, i sistemi matrimoniali delle diverse gentes contribuirono alla formazione della religione romana e di una forma embrionale di diritto. Prima di concludere una precisazione è d’obbligo: A differenza dei tempi moderni, in cui il diritto è creato dal legislatore, per i Romani lo Ius preesisteva al legislatore che interveniva solo per modificarlo o innovarlo. Fondamento dello Ius erano, infatti, i mores: le consuetudini radicate nella cultura romana su cui si basava l’organizzazione stessa della città. il Rex poteva intervenire per limitare il ruolo del pater familias nella repressione domestica, vietarne determinati eccessi ma non poteva svuotarlo completamente delle sue prerogative, dal momento che le organizzazioni familiari erano il punto fondamentale su cui si basava la vita della città. Le strutture fondamentali dell’ordinamento romano risultavano dunque poggiate sui mores e, solo in minima parte, sulle singole leges adottate dai Rex. CAPITOLO 3 I RE ETRUSCHI 1)Il censimento: il cui scopo era quello di accertare con precisione la condizione economica di ogni famiglia Romana. 2)La distribuzione della popolazione in tribù territoriali: essa avvenne attraverso la sostituzione delle vecchie tre tribù dei Ramnes, Tities e Luceres, con nuove tribù suddivise a loro volta in tribù urbane (in cui erano collocati gli individui privi di proprietà fondiarie) e tribù rustiche (dove venivano raggruppati i proprietari dei fondi). In questo modo era possibile accertare con facilità la distribuzione della ricchezza fondiaria. Le tribù dovevano fornire alle varie centurie il sostentamento loro necessario attraverso un tributo che veniva riscosso dai tribuni aerarii. Questa prima forma di tassazione era proporzionata alla ricchezza dei singoli proprietari. Con il tempo il numero delle tribù rustiche andò aumentando (inizialmente 19, in età repubblicana divennero 33) lasciando al margine le 4 tribù urbane composte da cittadini nullatenenti. Paragrafo 4.2. Il controllo sociale e la repressione penale conseguente alla riforma di Servio Tullio L’ordinamento centuriato, introdotto da Servio Tullio, ebbe fra i suoi effetti di accentuare l’intervento autoritativo della città attraverso: 1)Un diffuso controllo sociale: finalizzato ad evitare lo spreco di ricchezze (spesso utilizzate dagli aristocratici per costruire tombe sfarzose più delle loro stesse dimore). Tale controllo è in linea con il sistema timocratico introdotto dal sovrano etrusco, in cui la difesa della città (quindi il suo sviluppo) poggiava sulla ricchezza individuale. 2)La repressione dei comportamenti individuali pericolosi per la comunità: la repressione criminale, in realtà, risultava ancora molto circoscritta. La maggior parte dei reati, infatti, venivano puniti direttamente dalle famiglie, che ricorrevano al loro diritto all’autodifesa. Fra i reati puniti direttamente dalla città occorre ricordare: ■ L’uccisione violenza di un membro della comunità (il c.d. perduellio) e le azioni dirette contro la comunità politica (la proditio). Entrambi i crimini venivano giudicati dal rex, attraverso i suoi magistrati, e con tutta probabilità venivano puniti con la condanna a morte. ■ Le condotte che violavano precetti e regole (in particolare regole religiose): queste venivano punite attraverso la sacratio, una procedura religiosa che comportava il distacco del soggetto in questione dalla città con la perdita contestuale di ogni tutela giuridica (non sarebbe stato più difeso in caso di aggressione alla sua persona o ai suoi beni). A conclusione di tutto questo discorso occorre ricordare che nonostante i grandi cambiamenti introdotti dai re etruschi, la struttura di base della società Romana rimase la famiglia proprio iure, organizzata intorno alla figura del pater familias. CAPITOLO 4 DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA Paragrafo 1 La cacciata dei Tarquini e la genesi della costituzione repubblicana Alla fine del VI secolo A.C. l’espansione etrusca in Italia subì una battuta d’arresto a seguito di alcune sconfitte militari subite nelle campagne contro i greci e i loro alleati latini. L’aristocrazia Romana approfittò della situazione per estromettere Tarquinio Prisco dal trono e proclamare la fine della monarchia. Il mutamento politico che si registrò a Roma in quegli anni, cancellò in parte le riforme introdotte dai monarchi etruschi. Tutto ciò ebbe l’effetto di garantire una nuova ascesa della vecchia aristocrazia gentilizia, il cui potere era notevolmente diminuito a seguito delle riforme introdotte da Servio Tullio. Nonostante la cacciata dei Tarquini, Roma rimase per qualche tempo legata alla sfera di influenza etrusca: • In parte a causa della reazione di Porsenna, capo etrusco dei Chiusi, che invase Roma imponendo il divieto di lavorare il ferro se non per la produzione di strumenti agricoli (un vero e proprio disarmo ante litteram). • In parte perché l’alleanza con gli etruschi risultava necessaria per contrastare il nuovo nemico di Roma: i Latini. Nei 50 anni successivi alla fine della monarchia, le gentes patrizie discussero a lungo su quale forma di governo fosse maggiormente consona alla preservazione della città, giungendo alle seguenti conclusioni: 1)Indispensabile risultava, anzitutto, la conservazione dell’ordinamento centuriato (introdotto con le riforme serviane). Il ritorno all’ordinamento curiato avrebbe, infatti, comportato un vero e proprio collasso dell’apparato militare, in un momento in cui la difesa della città risultava di primaria importanza. 2)Per lo stesso motivo appariva assurdo il ripristino dell’originaria figura del re-sacerdote . I Re etruschi, infatti, avevano rafforzato notevolmente il loro imperium, con l’effetto di avere un maggiore controllo sull’esercito e sugli organi politici della città. La decisione delle gentes patrizie fu semplice ma geniale: mantenere gli elementi fondamentali che hanno caratterizzato la monarchia etrusca, mutando solamente la figura del Rex: esso venne sdoppiato e i suoi poteri attribuiti a due consoli, eletti annualmente dal senato. Nacque così la Repubblica Romana: per molti secoli essa dominerà il panorama internazionale, espandendo inverosimilmente i suoi territori e la sua popolazione. Il senato, le cui funzioni erano notevolmente diminuite con l’avvento della monarchia etrusca, acquisì sempre più potere divenendo il nuovo “baricentro” della politica cittadina. Paragrafo 2 la lotta tra patrizi e plebei Un altro elemento che caratterizza gli anni successivi alla cacciata dei re etruschi, è la chiusura dei patrizi verso i plebei. Questa situazione fu alla base di: 1)Un profondo conflitto politico: per lungo tempo (pare sino al 367 A.C.) i plebei vennero esclusi dal consolato, dalle alte magistrature e dallo stesso senato. 2)Uno scontro economico: caratterizzato dalle continue lamentele dei plebei che vedevano le ricchezze accumularsi nelle mani dei soli patrizi. Fra le varie contestazioni occorre ricordare: • Le continue richieste di alleggerire i debiti che opprimevano gli strati economicamente più deboli della città. Particolarmente colpiti erano gli agricoltori: bastava, infatti, un’annata di cattivi raccolti perché le riserve familiari si esaurissero. Ciò obbligava il pater familias a indebitarsi per sfamare la sua famiglia, fin quando gli interessi sui debiti lo conducevano all’insolvenza. A quel punto la legge Romana prevedeva che il debitore, incapace di pagare i suoi debiti, finisse in una condizione semiservile (il c.d. nexum) o addirittura fosse venduto come schiavo in territorio straniero. • La richiesta di distribuire ai cittadini romani i territori strappati agli stranieri, affinché ne acquisissero la proprietà privata. Questa pratica era avversata dai patrizi i quali volevano che queste terre fossero mantenute nell’ager publicus su cui, secondo gli storici, essi esercitavano in via esclusiva il diritto di sfruttamento (non si capirebbe altrimenti l’interesse della plebe a trasformare l’ager publicus in proprietà privata). 3)Uno scontro sociale: dovuto all’assenza di conubium fra patrizi e plebei. La mancanza del conubium impediva a due persone, provenienti dai due diversi ceti, di sposarsi. In caso di matrimonio di una donna patrizia con un plebeo, essa avrebbe perso la sua condizione originaria (di patrizia) e i figli nati dal matrimonio sarebbero stati considerati dei plebei. Questa sanzione ribadita formalmente l’inferiorità sociale dei plebei (venne eliminata con la lex Canuleia del 445 a.c.). Contro l’oppressione dei patrizi la plebe si mobilitò in massa, minacciando la stessa sopravvivenza della neonata repubblica. La tensione di quegli anni fu, infatti, alla base della famosa secessione dell’Aventino (o secessione sul Monte Sacro) una forma di lotta politica adottata dalla plebe romana, nel 494 a.c., per ottenere una parificazione di diritti con i patrizi. A guidare la secessione plebea si erano posti dei magistrati, che avevano assunto il nome di tribuni della plebe. In quegli anni Roma era perennemente in lotta contro i latini: in quel preciso momento i Volsci avevano approntato un esercito che stava marciando contro la città. I senatori volevano quindi allestire un esercito per contrastare i nemici, ma la popolazione in sintonia con i plebei in rivolta rifiutò di rispondere alla chiamata alle armi. Il senato incaricò quindi il console Servilio di convincere il popolo ad arruolarsi. I Volsci vennero sconfitti e la plebe romana riuscì, dopo qualche tentennamento del senato, ad ottenere il riconoscimento dei tribuni della plebe quali nuovi organi della città. Essi avevano una precipua funzione di controllo nei riguardi delle altre magistrature repubblicane. Una sorta di potere di intervento negativo che andò man mano aumentando, fino al riconoscimento dell’intercessio: un vero e proprio veto, da esercitare contro ogni atto o delibera adottata dagli altri magistrati o dallo stesso senato. La secessione dell’Aventino aveva consacrato la plebe quale nuova forza autonoma della città, in grado di influire sulla vita stessa della repubblica. Il suo punto di forza era l’assemblea, il concilium plebis: essa votata le proprie delibere (i cd. Plebisciti) ed eleggeva i propri magistrati (i tribuni e in seguito gli edili). Quelli ora descritti sono solo i primi passi di un più ampio cammino che porterà, nel tempo, ad una formale equiparazione fra patrizi e plebei. Per i momento essi rimangono una realtà sociale autonoma, isolata e contrapposta a quella patrizia. Paragrafo 3 La legge delle XII tavole Una svolta fondamentale negli equilibri politici del V secolo a.c., si realizzò con l’approvazione della legge delle XII tavole: un corpus di leggi compilato nel 451-450 a.C, contenente regole di diritto privato e pubblico. Le Tavole hanno una rilevanza fondamentale in quanto costituiscono la prima redazione scritta di leggi nella storia di Roma. Secondo la versione tradizionale, tramandata dagli storici antichi, la creazione di un codice di leggi scritte sarebbe stata voluta dai plebei nel quadro delle lotte tra patrizi e plebei che si ebbero all'inizio dell'epoca repubblicana [vedi paragrafo precedente]. Questa grande innovazione, che ovviamente incontrò l’obiezione dei patrizi, fu resa possibile dalla defezione di una parte del patriziato. Le fonti tramandando un nome in particolare: Appio della gens Claudia. Nonostante egli fosse patrizio si schierò a favore della plebe, rendendo possibile la realizzazione di questo progetto rivoluzionario. Nel 451 a.c., anno in cui venne redatta la legge delle XII tavole, il potere della città non venne esercitato dai due consoli (come avveniva di consueto) ma da un collegio di 10 membri (i c.d. decemviri legibus scribundis), presieduti da Appio Claudio, il cui compito primario era la redazione per iscritto delle leggi che avrebbero regolato la vita cittadina. Questo momento finirà per ridefinire la concezione che Roma ha del diritto: fino ad ora, infatti, la vita cittadina era regolata dai mores (gli antichi costumi), la cui conservazione e applicazione era garantita dal collegio dei pontefici. I mores preesistevano alla comunità cittadina, che doveva solamente adeguarsi al loro contenuto. Del tutto opposta è l’idea che sta alla base della legge delle XII tavole: una legge scritta, formalmente approvata dalla comunità politica, avente il valore irreversibile di un testo scritto che garantisce uguaglianza a tutti i cittadini. Le fonti offrono molti dettagli sulle varie fasi che portarono alla redazione della legge delle XII tavole. Notizie incerte vennero, invece, tramandate sulle fasi successive. Secondo la maggior parte degli storici nel 450 a.c. il collegio dei decemviri legibus scribundis venne rieletto per il secondo anno consecutivo, in modo da completare la redazione della legge delle XII tavole. In quell’anno il decemvirato venne integrato da un certo numero di membri provenienti dal ceto plebeo. Questa “democratizzazione” del collegio, presieduto nuovamente da Appio Claudio, attirò Paragrafo 1 Il consolato e il governo della città Parlando del quadro istituzione delle Roma repubblicana, occorre abbandonare l’idea moderna di ordinamento istituzionale: inteso come un insieme di organi, puntualmente regolamentati nel loro funzionamento da una norma fondamentale (una Costituzione). Nel mondo Romano non solo non esisteva una costituzione scritta, ma le stesse leggi che regolavano il funzionamento delle istituzioni, erano soggette a continui cambiamenti. Per questo motivo nell’esaminare le istituzioni repubblicane, appare preferibile concentrare l’attenzione solamente su quegli organi che si sono conservati e perfezionati nel tempo, tralasciando quelli che hanno fatto da “comparsa” nella storia della Repubblicana Romana. I Consoli: la carica consolare venne introdotta all’inizio della repubblica; tuttavia si consolidò definitivamente solo nel 367 a.c. (con l’emanazione delle Leggi Licinie Sestie). Ai consoli era conferito il supremo potere di comando, definito dai Romani imperium maius (in quanto superiore al potere di ogni altro magistrato). Parlando dell’imperium consolare bisogna distinguere: • L’imperium domi: esercitato dai consoli all’interno dei confini della città. Nel tempo vennero introdotte una serie di limitazioni a questo potere, con lo scopo di proteggere i cittadini della repubblica (si pensi al diritto dei cittadini di appellarsi al popolo contro la repressione dei magistrati, mediante la c.d. provocatio, ovvero al potere di veto, l’intercessio, esercitata dai tribuni della plebe nei confronti delle altre magistrature, compresi i consoli). Dentro la città i consoli svolgevano i seguenti compiti: • Convocavano i comizi centuriati: attraverso l’esercizio dello ius agendi cum popolo. Ciò avveniva allo scopo di far eleggere i nuovi magistrati ovvero approvare le leggi. • Chiedevano il parere del senato: esercitando lo ius agendi cum patribus. Questo potere era esercitato quando i consoli dovevano affrontare questioni particolarmente importanti per la città (in particolare decisioni di politica estera, politica monetaria ecc.). • Gestivano il tesoro pubblico: sotto il controllo del senato e con l’ausilio dei questori. • Reprimevano le condotte criminali e, fino alla creazione dei pretori, risolvevano le controversie private che insorgevano fra i cittadini. • L’imperium militiae: minori limitazioni erano applicati ai consoli quando svolgevano le funzioni militari tipiche della loro carica. Essi non potevano decidere di andare in guerra (tale compito spettava, infatti, ai comizi centuriati); tuttavia avevano il potere di: • arruolare i cittadini, previa decisione del senato, e condurre la campagna militare (anch’essa soggetta alla supervisione del senato. • imporre dei tributi ai cittadini per sostenere le spese della guerra. Passando ad esaminare le caratteristiche della carica consolare, esse sono essenzialmente due: 1)L’annualità: i consoli venivano eletti annualmente dal popolo riunito nei comizi centuriati. L’annualità non era una caratteristica esclusiva della carica consolare, anche le cariche degli altri magistrati duravano 1 anno. 2)La collegialità: Essa acquisiva un ruolo fondamentale in quanto a entrambi i consoli erano riconosciute le stesse funzioni e gli stessi poteri. Per questo motivo ciascun console era dotato del potere di paralizzare qualunque attività del suo collega, ricorrendo all’intercessio (uno strumento di cui abbiamo parlato trattando dei poteri dei tribuni della plebe). Da notare che il potere di intercessio era utilizzabile dai Consoli contro qualunque altro magistrato: ciò evidenzia il carattere gerarchico dell’ordinamento repubblicano, in cui i consoli erano al vertice. Questo sistema, il cui scopo era quello di evitare l’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo, lasciava ampio spazio a conflitti e sovrapposizioni fra i due consoli. Questi conflitti erano particolarmente pericolosi in tempo di guerra, quando i consoli esercitavo l’imperium militiae. Per garantire l’efficienza durante le campagne militari, il potere dei consoli venne definito in modo netto assegnando ciascuno di essi a una provincia (il territorio extra-italico in cui si svolgeva la campagna militare). Sin dall’inizio della repubblica i Romani avevano previsto la possibilità , in condizioni particolarmente critiche, di sospendere le normali magistrature per attribuire tutti i poteri ad un unico magistrato: il dictator. Esso non veniva eletto dal popolo bensì nominato da uno dei consoli con l’accordo del suo collega e del senato. Il carattere militare di questa carica è dimostrata non solo dalla continuità che egli mostra rispetto alla figura del magister populi (il comandante dell’esercito in età monarchica), ma anche dal fatto che la sua carica durasse 6 mesi (il tempo di una campagna militare, dato che i romani combattevano essenzialmente nel periodo estivo). In conclusione appare utile ricordare che con l’avvento della repubblica i consoli, eredi dell’imperium del Rex, persero qualunque funzione religiosa che venne ereditata dal rex sacrarum. Questa distinzione fra potere politico e potere religioso, segna il momento in cui si realizza la laicizzazione del governo cittadino. Nonostante i consoli siano privati della funzione sacra tipica del sovrano (che aveva, tra gli altri, il compito di consultare gli dei ed esporne la volontà mediante gli auspicia), rimaneva comunque necessario consultare gli dei, attraverso la consultazione e l’interpretazione degli auspicia. Paragrafo 2 il pretore e le altre magistrature Accanto ai consoli vennero introdotte, con l’avvento della repubblica, una serie di cariche civili e militari. Nel descrivere l’assetto istituzionale che ha caratterizzato Roma a partire dal 367 a.c., bisogna distinguere due categorie di magistrati: 1)I magistrati superiori: si tratta dei magistrati dotati di imperio (o come dicevano i romani magister cum imperio. L’imperium è un potere di stampo militare che, come denuncia il suffisso -ium, ha natura dinamica, e che conferisce al suo titolare la facoltà di impartire ordini ai quali i destinatari non possono sottrarsi, con conseguente potere di sottoporre i recalcitranti a pene coercitive di natura fisica (fustigazione o, nei casi più gravi, decapitazione) o patrimoniale. Simboli esteriori di questo potere sono i fasci littori, utilizzati in precedenza dal Rex per indicare il potere di decapitare chi si fosse sottratto ai suoi ordini, nel periodo repubblicano vengono fatti propri dalle alte magistrature. A questa categoria appartenevano: • I Consoli: di cui si è parlato ampiamente nel paragrafo precedente, rendendo superflua un ulteriore trattazione. • Il Dictator: anch’esso esaminato nel paragrafo precedente. • Il Pretore: il cui compito fondamentale era l’amministrazione della giustizia, attraverso l’esercizio della giurisdizione nei processi tra privati. Il pretore era un magistrato dotato di imperium, poteva condurre l’esercito in battaglia (esercitando l’imperium militiae) ma rimaneva comunque subordinato ai consoli, che erano dotati del potere di esercitare nei suoi confronti l’intercessio per paralizzarne le decisioni. La sua iurisdictio (un termine che deriva dall’unione di due parole, ius e dicere, che significano dire il diritto) riguardava essenzialmente il controllo delle procedure e il loro rispetto durante il processo. Il pretore non decideva le cause nel merito, tale compito era rimesso a giudici privati che adottavano la sentenza sulla base dei fatti allegati dalle parti; egli si limitava a valutare il rispetto delle regole proprie del diritto romano. Il potere del pretore di entrare all’interno del processo finì per creare un nuovo diritto, lo Ius Honorarium: un insieme di norme create di volta in volta dal pretore ( e in minima parte anche dagli altri magistrati), per regolare casi concreti non direttamente disciplinati dallo ius civile (quella parte del diritto romano derivato dai mores maiorum, dalle XII tavole e dalla loro interpretatio). Con il tempo lo Ius Honorarium finirà per sostituirsi allo Ius civile portando al definitivo superamento del rigido formalismo che aveva caratterizzato le legis actiones, sostituite ben presto dal processo formulare. Le legis actiones avevano un difetto fondamentale: ogni errore, anche minimo, nella pronuncia dei certa verba o nel compimento dei gesti previsti dal rituale avrebbe comportato la perdita della lite. Questo problema era superato nel processo formulare dalla pronuncia di verba concepta, parole concepite di volta in volta dal pretore giusdicente e modellate sulla controversia concreta, grazie alle quali si perveniva ad affidare il giudizio ad un giudice o collegio di giudici. Tali verba concepta, ben presto redatte per iscritto, venivano denominate formulae, donde il nome di processo per formulas (o processo formulare). • I Censori: La magistratura del Censore fu istituita nel 443 a.C. sulla base di una proposta presentata al Senato, per ovviare al problema sempre più pressante, del ritardo con cui venivano tenuti i censimenti, fino ad allora di responsabilità dei consoli. Venivano eletti direttamente dai comizi centuriati. All'inizio la durata in carica era di cinque anni, ma già dal 433 a.C., il periodo fu diminuito in modo da non superare i 18 mesi. A differenza degli altri magistrati superiori non erano muniti di imperium, rimanendo estranei ai compiti militari e alle dirette delibere politiche (a differenza dei Consoli non avevano il diritto di convocare il senato o i comizi centuriati). Ciò nonostante il loro rango e il loro prestigio erano altissimi, addirittura superiori ai Consoli. Un fatto che induce a pensare che né i Consoli né i tribuni della plebe potessero esercitare l’intercessio nei confronti dei Censori. I censori svolgevano alcuni compiti fondamentali: • Effettuavano il censimento della popolazione: in modo da distinguere i cittadini dagli stranieri; gli schiavi dai nati liberi e dai liberti. Attraverso queste distinzioni era possibile collocare ciascun cittadino in una famiglia, stabilire le proprietà fondiarie a lui connesse, inserirlo nelle varie classi di censo (introdotte con l’ordinamento centuriato voluto da Servio Tullio). • Esercitavano la cura morum: La sorveglianza sui comportamenti individuali e collettivi. In caso di comportamenti particolarmente gravi, i censori irrogavano una specifica sanzione, la nota censoria: essa comportava l’emarginazione del soggetto colpito dalla comunità, con la conseguente iscrizione in una classe di centurie inferiore a quella cui aveva diritto in base al suo patrimonio e con l’esclusione dai ranghi del senato: • Fondamentale è il loro controllo sulle attività economiche della città, attraverso il vaglio delle entrate e delle spese pubbliche; la verifica degli appalti concessi ai privati; l’amministrazione delle proprietà e dei beni pubblici (registrati nel censimento, insieme ai beni privati). • Selezionavano i candidati alla carica senatoriale: esercitando la c.d. lectio senatus. Non è chiaro il criterio utilizzato dai censori per selezionare i candidati al senato, anche se è probabile che essi si attenessero a criteri obiettivi scegliendo i senatori fra gli ex magistrati, partendo da quelli gerarchicamente superiori: prima venivano scelti gli ex censori ed ex consoli, poi gli ex pretori e infine gli ex questori. • Con il declino e la caduta della Repubblica Romana la carica venne poi assunta direttamente dagli imperatori, spesso in chiave anti-senatoria. Appare utile inoltre effettuare la distinzione fra Lex Rogata e Lex Dicta: La prima nasceva dalla rogatio (dalla proposta) del magistrato e veniva emanata grazie all’approvazione dell’assemblea; La Lex Dicta, invece, non richiedeva l’approvazione dell’assemblea (es Lex Rogata: legge comiziale; es Lex Dicta senatoconsulto). Il potere riconosciuto ai comizi è una chiara espressioni di quanto statuito nella legge delle XII tavole: “Qualsiasi cosa stabilisca il popolo diventerà legge efficace”. In questa fra si coglie un principio generale molto caro ai Romani, almeno in epoca repubblicana: i comizi centuriati sono dotati di un potere sovrano che si manifesta attraverso la formulazione delle leggi comiziali. Paragrafo 5 Il potere del legislatore e i suoi limiti A partire dal 357 a.c . la repubblica romana acquisì la sua fisionomia definitiva. Da quel momento una nuova idea di legalità si sostituì a quella esistente durante il governo semi-dispotico dei Rex: l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alle norme della città. Su questo principio generale si basano una serie di altri principi, che vanno a limitare il potere del legislatore: 1)Il divieto di legiferare a danno di specifiche persone. 2)Il divieto di adottare una legge con lo scopo di privare un gruppo di individui della libertà o della cittadinanza. 3)Il divieto di attentare alla vita della repubblica. 4)L’adfectatio regni: il divieto di aspirare alla corona. Sulla base di questa accusa molti esponenti politici sono stati messi a morte nella storia romana. Fra questi vanno ricordati i Gracchi, entrambi accusati di adfectatio regni. Cesare stesso venne assassinato per questo motivo: celebre è la fase che, secondo quanto tramandato dalle fonti, Bruto avrebbe pronunciato inferendo il colpo finale all’agonizzante Cesare: “Così muoiono i tiranni”. Oltre al principio di uguaglianza, alti principi hanno regolato la vita delle istituzioni repubblicane: si pensi a quella parte delle XII tavole in cui si afferma che: “Qualsiasi cosa stabilisca il popolo diventerà legge”. Questa formula richiama alla mente il principio di sovranità popolare contenuto all’articolo 1 della nostra Costituzione che afferma: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nella forma e nei limiti della Costituzione”. Tutti questi principi hanno come scopo di garantire la libertas repubblicana. Oggi giorno essi verrebbero formulati all’interno di una carta costituzionale. Essa era sconosciuta ai romani, che spesso non scrivevano neanche questi principi, ritenendoli incorporati nella stessa storia di costruzione della repubblica. Non era possibile andare contro questi principi (ad esempio quelli che attribuiscono ai consoli l’imperium, il diritto di provocatio, il diritto di intercessio spettante ai tribuni della plebe ecc. ) senza minare l’essenza stessa della repubblica. Questi principi, dunque, possono essere considerati il nucleo essenziale della costituzione repubblicana. L’aspetto più interessante di questi principi e il loro carattere indeterminato: era normalmente impossibile conoscerli ex ante, si manifestavano solo dopo che una norma positiva (adottata cioè dal legislatore) andava a violarli. Per questa ragione i principi fondamentali lasciavano un ampio margine di variabilità al sistema, la cui elasticità, mutevolezza e creatività dipendeva proprio dall’assenza di principi rigorosi, redatti per iscritto all’interno di una carta costituzionale. Per tutti questi motivi, parlando dell’ordinamento giuridico romano in epoca repubblicana, gli storici usano riferirsi all’esistenza di una costituzione materiale (intesa appunto come un insieme di principi non scritti) piuttosto che a una costituzione formale (come quelle moderne), redatta per iscritto e resa, in tal modo, immutabile se non seguendo particolari procedimenti (si pensi all’attuale procedimento di revisione costituzionale). Quanto detto fino ad ora subirà un profondo cambiamento con l’avvento del principato. La Costituzione repubblicana verrà sostituita dalla Costituzione imperiale: composta da una serie di scritti provenienti dall’imperatore, diretta emanazione della sua volontà [vedi capitolo 16 edicta, mandata, decreta ecc]. CAPITOLO 6 LA STRADA PER L’EGEMONIA ITALICA Paragrafo 1 Cittadini e stranieri Negli anni immediatamente successivi alla sua fondazione, Roma esercitava il controllo su un territorio che non superava i 100 km quadrati. Le conquiste militari degli anni seguenti e l’assorbimento (volontario o meno) delle comunità minori del Lazio, aumentarono notevolmente il territorio di Roma che già nel VI secolo a.c. controllava un territorio di circa 900 km quadrati. Uno strumento fortemente utilizzato da Roma agli albori, per accentuare il suo ruolo egemonico nel Lazio, fu la religione: basti pensare all’istituzione di un culto federale di Diana, attraverso la costruzione sull’Aventino di un apposito tempio da parte di Servio Tullio, con lo scopi di trasformare Roma nel principale centro di culto della regione. L’ampiezza del territorio romano alla fine del VI secolo a.c., può essere ben intesa può essere ben intesa attraverso la lettura del primo trattato fra Romani e Cartaginesi che, secondo Polibio, sarebbe stato stipulato negli anni immediatamente successivi alla cacciata di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma. Questo trattato pone dei limiti alle possibili aggressioni di Roma da parte dei Cartaginesi e viceversa. E’ interessante il fatto che questo “patto di non aggressione” riguarda tutte le città del Lazio, il che ci deve far concludere che già alla fine del VI secolo a.c., il controllo di Roma si estendeva su tutta la regione. L’immediata conseguenza di questa espansione territoriale fu l’aumento della popolazione, che venne divisa in due parti: cittadini e non cittadini: i primi erano dotati di diritti politici; i secondi ne erano privi. Ad eccezione dei diritti politici, a Roma vigeva il principio della territorialità del diritto: in base al quale il diritto dello stato si applicava a tutti coloro che si trovavano all’interno del suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Gli stranieri dunque erano tenuti a rispettare le leggi civili e penali di Roma che di contro gli forniva una tutela analoga a quella garantita ai cittadini. Ciò segna un netto contrasto rispetto alle poleis greco- italiche in cui prevaleva il principio della personalità del diritto: in base al quale ogni individuo era soggetto alle leggi dello stato di appartenenza; quando si trovava in un altro Stato la sua protezione non era garantita dagli uomini ma dagli dei (la frase “l’ospite è sacro”, giunta fino ai giorni nostri, dipende da questa protezione che l’ospite chiedeva agli dei quando si trovava in terra straniera). Paragrafo 2 Latini e cittadini delle colonie Il Trattato stipulato con Cartagine sarà seguito pochi anni dopo da un altro trattato ancora più importante: il Foedus Cassianum, un patto di alleanza fra Romani e Latini che istituiva una lega comune il cui scopo era garantire la protezione reciproca dei cittadini appartenenti alle diverse comunità alleate. La logica di quest’accordo, appare ben diversa rispetto a quella che sta alla base del trattato Roma- Cartagine: esso voleva sancire una forma di comunanza giuridica tra Romani e Latini Prisci (un nome utilizzato per distinguere questi latini dai successivi abitanti delle colonie). In base a questa assimilazione giuridica fra le due comunità, ai Latini che si fossero trovati a Roma sarebbero stati garantiti alcuni diritti fondamentali: 1)Lo ius commercii: il diritto di commerciare liberamente con Roma con la possibilità di ricorrere al magistrato per la tutela dei propri atti negoziali. 2)Lo ius connubii: il diritto di contrarre matrimonio con un cittadino Romano. 3)Lo ius migrandi: questo diritto non venne introdotto con il Foedus Cassianum, bensì in epoca successiva. Esso stabiliva la possibilità dei Latini di acquistare la cittadinanza Romana, spostando la loro residenza a Roma. Gli stessi diritti ora esposti spettavano ai Romani che decidevano di intrattenere rapporti con le città Latine. Un’altra importante conseguenza di questo Trattato fu la possibilità che l’insieme delle città della Lega fondasse nuove colonie. Si trattava di piccole comunità semi-urbane, create dalla citta- madre e situate in punti strategici anche molto distanti. Questa facoltà della Lega di fondare colonie fu effettivamente esercitata durante tutto il V secolo a.c. A partire dal IV secolo a.c. Roma, avendo acquisito il predominio sulle città del Lazio, si appropriò del potere di fondare autonomamente le colonie. Fu l’inizio della fine della Lega, che venne definitivamente sciolta nel 338 a.c. La fondazione di colonie da parte di Roma non solo garantiva il controllo su nuovi territori, ma servì anche a realizzare una politica demografica ed economica. Le colonie, infatti, assicuravano l’alleggerimento demografico della città (spesso sovrappopolata) tramite il trasferimento di gruppi consistenti di popolazione in nuovi territori che venivano in tal modo urbanizzati. I territori cittadini, a loro volta, potevano essere redistribuiti ai cittadini, in particolare ai meno abbienti. La fondazione di una nuova colonia avveniva sulla base di una delibera del senato e con l’approvazione dei comizi, che nominavano i magistrati incaricati delle procedure necessarie alla sua istituzione. Contestualmente veniva redatto uno statuto che ne avrebbe regolato la vita e l’organizzazione interna. Una delle caratteristiche più importanti delle colonie romane, che in ciò si distinguevano dalle colonie latine, è lo stretto legame con la madre patria. Le colonie, infatti, non costituivano una struttura istituzionale esterna a Roma; i cittadini che vi si trasferivano mantenevano la cittadinanza Romana. Altra caratteristica essenziale è l’organizzazione urbanistica della colonia. Essa avveniva per mezzo degli agrimensori: tecnici nominati a tal scopo dai magistrati incaricati della fondazione della colonia. Gli agrimensori, dopo aver identificato un punto centrale, tracciavano due linee perpendicolari (una orizzontale l’altra verticale) che dividevano la colonia in 4 rettangoli. Queste linee (chiamate Cardo e Decumano maggiore) rappresentavano gli assi centrali dell’intero sistema urbanistico. In parallelo a queste linee venivano tracciate, a distanza regolare, altre linee (cardini e decumani) che incrociandosi ad angolo retto, creavano tanti rettangoli di uguali dimensioni. Questi rettangoli erano le centurie, la loro area era di circa 50 ettari. Attraverso queste linee i Romani creavano nella colonia una fitta rete di strade rurali, così da assicurare a tutte le unità fondiarie un rapido accesso alla via pubblica. Lo scopo finale di questa politica urbanistica era di rendere efficiente la colonia, favorendone un rapido sviluppo. SCANNERIZZARE PAGINA 137 Paragrafo 3 La svolta del 338 a.c. e i nuovi statuti giuridici di Roma economica: il sostentamento suo e della sua famiglia avveniva, infatti, attraverso lo sfruttamento di una o più proprietà fondiarie, lavorate da altri soggetti (schiavi, contadini pagati a giornata, coloni). Per questo motivo solamente un giovane appartenente ad una famiglia dotata di rendite fondiarie poteva pensare di entrare in politica. Se disponeva di una condizione economica sufficiente ad esimerlo dallo svolgimento di quello che oggi definiremmo “un lavoro”, iniziava il cursus honorum di questo cittadino che può essere suddiviso in diverse fasi: 1) La prima condizione per il suo successo politico era lo svolgimento di un servizio militare della durata di non meno di 10 anni. Solo dopo questa lunga esperienza militare, egli avrebbe potuto presentarsi alle elezioni per le cariche minori di questione o edile. La velocità con cui si realizzava questa ascesa politica era, ovviamente, diversa da persona a persona: servire, ad esempio, nello Stato Maggiore di un Generale impegnato in una campagna militare e distinguersi per atti di coraggio, significava avere la strada spianata alle successive elezioni. 2)Una volta che il cittadino, deposte le armi, presentava la sua candidatura politica, l’appoggio in senato o tra i magistrati illustri diveniva fondamentale dato che il suo nome doveva essere selezionato fra una rosa di candidati. Infine non va sottovalutato l’aspetto economico della candidatura politica: il futuro magistrato, infatti, doveva impegnarsi in una campagna elettorale che con il passare degli anni diventerà sempre più costosa, costringendo i candidati a contrarre dei prestiti, con la speranza di poterli restituire con i guadagni ricavati dalle campagne militari e dalla spoliazione delle province. 3)Una volta eletti alle cariche minori si poteva aspirare a quelle superiori, fino a giungere al vertice della repubblica con l’elezione a console o censore. Due erano i principi fondamentali che regolavano l’accesso alle cariche: ■ La non duplicabilità: non si poteva essere eletti alla stessa carica per due anni consecutivi. ■ Gli intervalli di tempo tra la scadenza di un mandato in una certa magistratura e la possibilità di presentarsi ad un’altra (intervallo fissato in 2 anni). ■ Entrambi i principi avevano come scopo di evitare un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo. Questi principi, unitamente al servizio militare cui si doveva sottoporre preliminarmente il futuro magistrato, fecero si che in età ciceroniana bisognava avere: 37 anni per diventare edile curale; 40 per accedere alla pretura; 43 per il consolato. Il sistema così delineato comportava che colui che veniva eletto a una carica magistraturale, era uscito da uno lungo “collaudo” in cui erano state testate anzitutto le sue capacità militari attraverso una forte selezione che premiava solamente i migliori o, come accade ancora oggi, i più fortunati. Un’ulteriore conseguenza di questo sistema, che trova le sue radici nell’impegno militare del futuro magistrato, è che le legioni romane, per secoli costituite da cittadini-proprietari che si dedicavano alla guerra non per professione ma mossi da uno spirito patriottico (oltre che da interessi economici), furono comandate da soldati esperti (i futuri magistrati) che in modo professionale assunsero tali funzioni. Ciò permise agli eserciti di Roma di fronteggiare armate ben disciplinate e addestrate come quelle dei macedoni, dei cartaginesi, dei regni d’Oriente. In conclusione occorre sottolineare che malgrado il rinnovamento del ceto dirigente, realizzato attraverso la creazione della nobilitas patrizio-plebea, la vita politica di Roma continuò ad essere controllata dalle consorterie nobiliari. Ciò trova conferma nel fatto che gli strati superiori della plebe (quelli che ambivano alle cariche magistraturali), cominciarono anch’essi ad organizzarsi in gentes. Roma rimaneva, dunque, fortemente legata alle tradizioni. La formazione politica, militare e sociale dei membri della nobilitas patrizio-plebea, si ispirava alle tradizioni familiari, al ricordo dei grandi uomini vissuti nelle precedenti generazioni. In questo contesto il “popolo minuto” era chiamato a un ruolo di comparsa. La vita della città era fondata sui rapporti di parentela, sull’appartenenza gentilizia e su un ulteriore legame molto importante: quello clientelare. Il cliens in età romana era quel cittadino che, per la sua posizione svantaggiata all'interno della società, si trovava costretto a ricorrere alla protezione di un "patronus" o di una intera "gens" in cambio di svariati favori, talvolta al limite della sudditanza (applicatio) fisica o psicologica. Lo schema clientelare non venne utilizzato solamente a Roma. Quando, infatti, un magistrato romano otteneva la resa di una città o di una popolazione, attraverso una vittoria militare, andava immediatamente ad assumerne la protezione. Egli si faceva intermediario fra la comunità e il senato, divenendo il referente costante per ogni richiesta che la popolazione volesse fare a Roma. In cambio di questa protezione politica il magistrato esigeva un continuo supporto materiale. Questo schema verrà utilizzato in epoche successive per intere province, costrette a pagare un tributo a Roma in cambio della sua protezione. Paragrafo 2 Gli sviluppi sociale tra IV e III secolo a.c. Negli anni in cui si realizzò l’avvento della nuova nobiltà patrizio-plebea, Roma aveva esteso enormemente i suoi territori, fino a controllare l’intera Italia centrale . Dopo la sconfitta dei latini (nel 338 a.c.) e il conseguente scioglimento della Lega introdotta dal Foedus Cassianum, i principali nemici di Roma divennero i Sanniti (un antico popolo italico stanziato nel Sannio, corrispondente agli attuali territori della Campania settentrionale, dell'alta Puglia, di gran parte del Molise, del basso Abruzzo e dell'alta Lucania). Iniziò dunque una lunga guerra, che nel tempo porterà Roma a dominare l’intero territorio italico. Dopo una serie di vittorie delle legioni romane nel III secolo a.c. Taranto, ultima roccaforte dei sanniti, era pronta a cadere. I sanniti, certi della sconfitta, chiesero aiuto a Pirro, discendente di Alessandro Magno, per resistere alla potenza di Roma. Tutto fu vano: nel 272 a.c. le armate di Roma conquistarono Taranto, eliminando ogni residua resistenza dei Sanniti. Oltre ai Sanniti i Romani combatterono in quegli anni molti altri popoli: i Galli, gli Umbri, gli Etruschi ecc. Questa ininterrotta e felice politica militare, produsse un enorme espansione di Roma non solo dal punto di vista territoriale ma soprattutto economico. Il problema è che questa grande espansione rese molto più complessa la gestione delle entrate finanziare così come delle spese, in particolare quelle utilizzare per il sostentamento dell’esercito. I magistrati, la cui carriera come abbiamo visto nel paragrafo precedente aveva una forte connotazione militare, erano incapaci di gestire adeguatamente la complessa situazione finanziaria di Roma. La soluzione fu semplice: appaltare a privati imprenditori le attività economiche di interesse statale. Eccone alcuni esempi: a)Le terre pubbliche, ottenute grazie alle campagne militari in cui Roma era costantemente impegnata, venivano affidate ai privati a fronte del pagamento di un canone periodico. Questi, a loro volta, suddividevano le terre ricevute in gestione in tanti ager publicus, che venivano assegnati a piccoli agricoltori dietro il pagamento di un canone. Gli appaltatori guadagnavano grazie alla differenza fra la somma periodica che dovevano versare allo stato e i canoni che essi ottenevano dai contadini (somme che, secondo le fonti, erano piuttosto elevate). b)Le riscossioni tributarie nelle province: di esse venivano incaricati dei privati (tramite un appalto). Essi si facevano carico di questa incombenza, lucrando la differenza fra il percepito e la somma da versare alle casse di Roma. c)Lo sviluppo delle opere pubbliche, l’organizzazione del vettovagliamento per gli eserciti: tutte queste attività si svolgevano mediante degli appalti stipulati dalla città con privati imprenditori. Questo complesso sistema fu reso possibile dall’affermazione di un nuovo gruppo sociale: gli equites (coloro, cioè, che nella divisione in centurie erano capaci di fornire all’esercito i cavalieri. La loro ricchezza verrà fortemente utilizzata nel corso della storia di Roma (basti pensare al finanziamento della flotta romana, durante la Prima guerra punica ovvero al sostentamento delle armate durante la lunga guerra contro Annibale). Paragrafo 3 Appio Claudio e gli inizi della modernizzazione Uno dei personaggi che meglio rappresenta il clima politico-sociale del IV secolo a.c. è Appio Claudio, discendente del famoso decemviro che ricoprì tale carica nel 451 e nel 450 a.c. [vedi capitolo 4 paragrafo 3]. Eletto ripetutamente alle massime cariche magistraturali (fu censore nel 312 a.c.), nel corso della sua lunga carriera svolse un’importante opera di modernizzazione della città, intervenendo nei più vari settori. Fra di essi particolarmente importante è l’attività urbanistica: Sotto Appio Claudio venne costruita la via Appia, chiamata dai Romani “la regina delle vie”, il cui nome deriva proprio dal personaggio di cui stiamo parlando. Questa grande opera pubblica è una chiara espressione della politica economica voluta da Appio Claudio. Al contrario dei gruppi tradizionalisti, orientati verso il consolidamento dei possedimenti fondiari dell’Italia centro-settentrionale, Claudio riteneva fondamentale stabilire una via di comunicazione e di commercio con la Magna Grecia. Ciò avvenne attraverso la costruzione di strade (come l’Appia che univa Roma con la Campania e con la Puglia) e attraverso lo sfruttamento del Mare. Claudio aveva capito che la fortuna di Roma dipendeva dalle terre situate a meridione, futuro terreno di scontro tra i Romani e la potente Cartagine. L’attenzione di Appio Claudio per il commercio, lo indusse ad adottare una serie di riforme: 1)Modificò la composizione delle tribù: tenendo conto, nel conteggio della ricchezza, non solo dei beni immobili posseduti (la ricchezza fondiaria) ma anche della ricchezza mobiliare. In questo modo i soggetti privi di rendite fondiarie, precedentemente iscritti nelle 4 tribù urbane, vennero conteggiati fra le tribù rustiche. 2)Permise ai liberti di accedere alle cariche senatorie, una riforma che fece storcere il naso alla maggior parte dei Romani. Queste due riforme, appena illustrate, erano troppo radicali per una città tradizionale come Roma, per questo vennero immediatamente eliminate negli anni successivi all’ultimo consolato di Claudio. Nel tempo le formule adottate dal pretore, pur derivando dalla soluzione di casi concreti, andarono trasformandosi in regole generali. Ciò derivò dal fatto che il pretore, essendo un magistrato superiore dotato di imperium, aveva la prerogativa di emanare gli editti (contenenti prescrizioni da rendere note a tutta la popolazione). Tramite gli editti i due Pretori, all’inizio di ogni anno, rendevano note alla popolazione le situazioni giuridiche non tutelate dallo ius civile, che avrebbero ricevuto la loro protezione. Questo nuovo corpus normativo divenne nel tempo così complesso, che i Romani gli diedero un nome: ius gentium (il diritto degli uomini) spesso chiamato anche ius honorarium. La differenza fra lo ius gentium e lo ius honorarium è che il primo, secondo gli schemi tradizionali, è composto da quell’insieme di regole comuni a tutti i popoli; il secondo, invece, è quel sistema di norme che nel periodo successivo al 367 a.C. venne introdotto dai magistrati romani (principalmente dal praetor) al fine di colmare le lacune dell'ormai obsoleto ius civile. In realtà la differenza fra lo ius gentium e lo ius honorarium appare assai sottile e difficilmente fondata sul fatto che lo ius gentium consista in un insieme di norme comuni a tutti i popoli. Nonostante l’importante contributo fornito dai pretori al diritto sostanziale, il settore in cui questi magistrati ebbero maggior successo fu il diritto processuale attraverso la graduale introduzione del processo formulare. Le formule, da utilizzare durante il processo, venivano indiate dai pretori per mezzo dell’editto. La stabilizzazione del processo formulare si realizzò quando i Pretori, di anno in anno, andavano ripubblicando l’editto dell’anno precedente, con l’aggiunta eventuale di un provvedimento, qualora si dovessero regolamentare situazione che non si erano ancora mai presentate. A questo punto occorre fare alcune precisazioni: a)Lo Ius Honorarium: sempre più sviluppato e diffuso grazie all’intervento dei pretori, non cancellò del tutto lo ius civile che rimarrà valido per tutta la durata della repubblica e anche all’epoca del principato. b)I due sistemi, lo ius civile e lo ius honorarium, trovavano il loro punto di raccordo nella cooperazione fra magistrati (da cui proveniva lo ius honorarium) e giuristi (interpreti del diritto civile). basti pensare che molto spesso i magistrati, dinanzi a questioni particolarmente importanti, chiedevano l’ausilio dei giuristi. Paragrafo 4 La scienza giuridica romana come sapere aristocratico Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, un ruolo fondamentale nell’evoluzione giuridica del diritto, venne giocato dai giuristi laici del III/II secolo a.c. A questo punto una domanda sorge spontanea: I “normali” cittadini che funzione avevano in questo complesso sistema? Essi sicuramente partecipavano ai comizi in cui si facevano le leggi. Tuttavia, dinanzi alle difficoltà incontrate nella vita di tutti i giorni, non potevano far altro che rivolgersi agli esperti di diritto (collegio dei pontefici prima, giuristi laici poi) per sciogliere i nodi di un diritto oscuro e spesso contraddittorio. Per questi motivi la scienza giuridica rimase durante tutta l’esperienza romana un sapere nelle mani degli aristocratici (patrizi e plebei ricchi abbastanza da dedicare il loro tempo allo studio del diritto). I depositari di questo sapere assistevano gratuitamente gli altri cittadini, almeno in epoca repubblicana, in modo da crearsi un folto gruppo di clientes da utilizzare alle successive elezioni. Ma da cosa deriva questa attenzione degli aristocratici allo studio del diritto? secondo gli esperti questa “dedizione giuridica” deriva principalmente dalla diffusione della filosofia ellenistica, la quale considerava attività “onorevoli”: la letteratura, la poesia e l’oratoria (su cui si fonda, a sua volta, lo studio del diritto). Paragrafo 5 Dalla giurisprudenza delle guerre annibaliche alla crisi della repubblica Fu proprio la diffusione della filosofia ellenistica a creare il terreno fertile per la nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma a questo punto viene da chiedersi: cos’è la scienza del diritto? Per rispondere alla domanda bisogna ricordare che i giuristi romani, a partire dal II secolo a.c., cominciarono a lavorare su sistemi di classificazione, così da raggruppare i fatti giuridicamente rilevanti che avessero elementi in comune Attraverso queste classificazioni si venne formando un sistema di regole e categorie, organizzato secondo gli schemi della dialettica greca (per generi e specie). Ciò portò alle seguenti innovazioni: ■ Vennero distinti i diritti obbligatori dai diritti reali. ■ Venne distinto il diritto di proprietà dal possesso. ■ Vennero migliorate le condizioni di vita della donna, eliminando il vecchio matrimonio cum manu (che prevedeva il passaggio della donna, dopo le nozze, sotto la potestas del pater della famiglia dello sposo). ■ Venne introdotto definitivamente il contratto: inteso come l’accordo con cui due o più parti andavano a creare una situazione giuridicamente protetta dall’ordinamento. Si riuscì in tal modo a superare lo schema chiuso della stipulatio, garantendo l’insaturazione di relazioni di maggiore complessità. Tradizionalmente la nascita della scienza giuridica si fa risalire al 198 a.c., data in cui venne eletto console Sesto Elio Peto Cato, autore dei Tripertita. Quest'opera, come dice anche il titolo, era divisa in tre parti: una trattava le XII Tavole, la seconda interpretazione pontificale, la terza riguardava le legis actiones. Le parti venivano analizzate tutte separatamente per far mettere in rilevanza la profonda differenza tra le XII Tavole e l'interpretatio, oltre a parlare i come venivano regolate le legis actiones. Quest'opera perciò ha come obiettivo di compiere un'analisi del diritto di quell'epoca. Per questo motivo Sesto Elio viene ritenuto il primo vero giurista romano da cui poi nacque la giurisprudenza romana poiché i precedenti scritti che si perdono nella tradizione si limitano a elencare i vari atti normativi mentre lui è il primo a fare una vera e propria analisi comparata. A questa fase “fondatrice” della giurisprudenza, fece seguito una fase più matura che coincide con l’età tragica delle guerre civili (dal I secolo a.c. al I secolo d.c.), dominata da due personalità: 1)Quinto Mucio Scevola: Secondo molte fonti si tratta del primo autore responsabile di una generale organizzazione del sistema giuridico. Cicerone, anche se non lo amava, ci dice che egli fu “il primo ad organizzare il diritto”. Il grande giurista, che svolse la sua carriera politica fra la fine del II secolo a.c. e l’inizio del I secolo a.c., presenta una tipica mentalità aristocratica. Egli viene ricordato per alcune opere fondamentali: ■ Un libro di definizioni: il c.d. oron (che in greco significa, appunto, definizione). ■ i diciotto libri del iurisi civilis: una raccolta con cui il giurista ha realizzato una prima sistemazione del diritto civile Romano. 2)Servio Sulpicio Rufo, di una generazione più giovane di Quinto Mucio Scevola (svolse le sue funzioni politiche fino al 43 a.c.) è considerato da Cicerone, suo grande amico, di molto superiore a Mucio. Un’idea, quella di Cicerone, che può facilmente essere condivisa dato che non esiste campo, nel diritto Romano, in cui Servio non abbia dimostrato la sua particolare capacità analitica. Si ritiene, infatti, che egli abbia avuto l’intenzione di riorganizzare l’intera materia giuridica all’interno di un quadro unitario nuovo (superando la frammentazione del diritto in ius civile e ius honorarium). 3)Resta infine un ultimo giurista da considerare, prima di terminare l’esame dell’esperienza giuridica repubblicana e passare a quella imperiale: Marco Antisio Labeone. Vissuto durante l’epoca di Augusto, si sottrasse tenacemente ai tentativi del princeps di inserirlo fra i suoi stretti collaboratori. Fu autore di un numero elevatissimo di opere, nelle quali riversò lo spirito dell’esperienza giuridica repubblicana, ormai giunta ai suoi ultimi anni di vita. CAPITOLO 9 I NUOVI ORIZZONTI DEL III SECOLO A.C. E L’EGEMONIA ROMANA NEL MEDITERRANEO Paragrafo 1 le guerre puniche e l’eredità di Annibale La sconfitta dei Sanniti, resa definitiva dalla capitolazione di Taranto del 272 a.c. (vedi capitolo 7 paragrafo 2), assicurò a Roma il controllo dei grandi centri mercantili e marittimi della Magna Grecia. Ciò obbligò Roma a fare i conti una realtà che fino a quel momento era rimasta a loro estranea o quasi: il mare. Il controllo Romano sul mare finì col tempo per acuire le rivalità con la sua antica alleata: Cartagine; rivalità che si trasformò in conflitto quando Roma fornì aiuto ai Mamertini, mercenari che si erano impadroniti della città di Messina sottraendola ai Cartaginesi. Da quel momento iniziato una serie di lunghi conflitti: La Prima guerra punica (dal 265 a.c. al 241); l’occupazione della Sardegna e della Corsica, fino a quel momento controllate dai Cartaginesi, da parte dei Romani (nel 238 a.c.); L’alleanza dei Romani con Sagunto, città della Spagna utilizzata dai Romani in funzione anti-cartaginese (nel 231 a.c.); la Seconda guerra punica (dal 218 al 202 a.c.), in cui Roma trovo un degnò avversario, Annibale, il quale mise a rischio l’intero progetto politico Romano. Non bisogna dimenticare le guerre combattute da Roma sul “fronte settentrionale”. Esse furono incentivate dai dirigenti del “partito agrario”, interessanti ad un’espansione Romana verso il nord (da ricordare la conquista del Piceno, le campagne contro i Galli guidate da un dirigente plebeo, Caio Flaminio, sotto la cui censura venne realizzata la via Flaminia nel 220 a.c. per unire Roma alla costiera adriatica). Di tutte le guerre combattute in quel periodo, particolarmente importante è la Seconda guerra punica. Annibale, geniale stratega Cartaginese, dopo una serie di vittorie contro l’esercito Romano, valicò le alpi con i suoi famosi elefanti ed invase l’Italia fino a giungere alle porte di Roma. Nonostante i suoi iniziali successi, alla fine di questa guerra (conclusasi nel 202 a.c.) Roma ebbe la meglio. Secondo gli storici il motivo di questa vittoria risiede nella compattezza del blocco politico costituito fra Roma e le comunità italiche assimilate, più o meno forzatamente, nel corso dei secoli. Al momento della sua discesa in Italia, infatti, Annibale riteneva che tutte le comunità assoggettate a Roma si sarebbero unite contro il comune nemico; così non è stato. Solo le popolazioni di più recente sottomissione, come i Galli o gli abitanti della Magna Grecia, appoggiarono il Cartaginese nella sua battaglia contro i Romani. Le altre comunità rimasero fedeli a Roma, ci cui ormai facevano parte integrante. Dal punto di vista politico, la guerra con Cartagine fu vinta grazia ad un’alternanza fra le politiche guerrafondaie del “partito oltransista” (che si ostinava ad affrontare Annibale in scontri frontali nonostante la sua superiorità in campo aperto), e le scelte più caute delle fazioni moderate, che optarono per una strategia di logoramento (fondata sulla tattica della terra bruciata e delle incursioni mirate). La vittoria definitiva si deve, come è noto, a Publio Cornelio Scipione, chiamato da quel momento l’Africano. La vittoria di Roma su Cartagine ebbe enormi conseguenze sulla “politica estera” Romana: si apriva, infatti, la strada dell’imperialismo. Della vittoria contro Annibale andarono a beneficiare alcune grandi figure, in primis Scipione l’Africano, che ottennero: 1)Un aumento esponenziale delle ricchezze: concentrate nelle mani dell’aristocrazia e del ceto equestre. 2)L’investimento di queste ricchezze in attività remunerative , che a loro volta comportavano un ulteriore arricchimento. Fra le principali attività occorre ricordare: ■ Gli investimenti immobiliari: realizzati attraverso l’acquisto di insulae, i “palazzoni” dove abitava la plebe (Le insulae sono le case dei romani. Per il numero di persone che ospitato, potrebbero essere definitivi dei villaggi messi in verticale. La loro altezza è considerevole, toccando e spesso superano di 21 metri. I primi piani delle insulae erano i più lussuosi, destinati a ricchi professionisti o a magistrati minori, che impreziosivano la loro casa con preziosi arredi. Più si saliva nei piani, più aumentava la povertà; il motivo è semplice: gli abitanti dei piani superiori, in caso di incendi, che erano molto frequenti a Roma, avevano meno probabilità di uscire vivi dal caseggiato.). Questi palazzoni, una volta acquistati, venivano concessi in affitto a un amministratore professionista. Tra il proprietario e l’amministratore c’era un accordo: il proprietario dava in affitto tutti i piani alti all’amministratore per 5 anni e in cambio chiede solo il canone dell’appartamento al pianterreno, che spesso ha il costo di una domus patrizia. L’amministratore, inoltre, dovrà impegnarsi a mantenere il decoro del palazzo, ad effettuare le dovute manutenzioni, a riscuotere gli affitti. Molti erano i ricchi Romani che si arricchivano investendo nelle insulae (basti pensare che Cicerone guadagnava ogni anno 80.000 sesterzi, grazie all’affitto degli appartamenti di cui era proprietario). ■ L’acquisto di proprietà fondiarie: un investimento facilitato dall’abbandono delle terre da parte dei contadini che, a causa della lunga guerra contro Cartagine, avevano passato gran parte della loro vita lontana dai campi. Non era facile per costoro tornare, una volta lasciato l’esercito, a “zappare la terra”. Appariva molto più conveniente trasferirsi in città per dedicarsi al commercio ovvero arruolarsi per le guerre d’Oriente, nella speranza di collezionare ricchi bottini. Si realizzò dunque un rapido inurbamento dei contadini, che favorì i membri dell’oligarchia romana che estese i suoi domini, incorporando i capi degli antichi agricoltori. 3)Il largo utilizzo di manodopera schiavista. La nascita di enormi tenute agricole, sottoposte al controllo di pochi aristocratici romani, rese necessario l’uso massiccio di manodopera schiavista. Gli schiavi vennero utilizzati in vari settori (agrario, minerario, navale). Accanto a questi schiavi “non specializzati”, ve n’erano altri la cui importanza fu fondamentale per la crescita culturale ed economica di Roma: artisti, letterali, filosofi, commercianti, esperti nelle materie economiche, artigiani. La loro influenza non deriva tanto dai servigi che essi fornivano ai loro padroni quando dalla possibilità di questi ultimi di liberarli, riconoscendogli contestualmente la cittadinanza romana. Divenuti liberi questi schiavi costituivano un nuovo gruppo sociale, le cui differenze sociali e culturali avrebbero contribuito all’arricchimento della società romana. La manomissione degli schiavi acquista ancora più importanza se si tiene conto che i figli di ex schiavi, nati dopo che i loro genitori erano stati liberati dalle “catene del servaggio”, erano considerati ingenuii, cittadini a tutti gli effetti capaci di ascendere alle magistrature superiori. Da questo punto di vista Roma è una delle società più aperte del mondo antico. Paragrafo 5 La teoria della costituzione mista Verso la metà del II secolo a.c. un grande storico greco, Polibio, si interrogò sui motivi dello straordinario successo politico di Roma. Secondo lo studioso il vantaggio di Roma sarebbe derivato dalla sua capacità di coniugare insieme le tre forme di governo che caratterizzano tutte le società umane: il potere monarchico (identificabile nella forza dei consoli); il potere aristocratico (dei senatori) e il potere democratico (dei comizi). L’analisi di Polibio è interessante in quanto ci permette di capire che a differenza degli ordinamenti moderni, caratterizzati dalla divisione dei poteri (Legislativo, esecutivo e giudiziario) fra diversi organi; nell’esperienza romana si registra una confusione dello stesso potere tra soggetti diversi. Nell’esercizio di un potere venivano, infatti, coinvolti più titolari in modo da garantire una forma di controllo reciproco (ad esempio per l’adozione di una legge era necessaria la proposta di un magistrato, il consenso del senato e la votazione dei comizi). Questi equilibri, di cui ci parla Polibio, verranno meno con la caduta della repubblica e l’ascesa di una nuova realtà fino a quel momento estranea alla comunità romana: l’impero. CAPITOLO 10 LA PROSPETTIVA DELLE GRANDI RIFORME E LA CRISI DELLA CLASSE DIRIGENTE ROMANA Paragrafo 1 La rottura del patto Verso la metà del II secolo si evidenziavano fattori di crisi dovuti fondamentalmente allo squilibrio tra le dimensioni di Roma e il resto del mondo da essa dominato. Roma aveva conservato quella struttura istituzionale, tipica delle città-stato classiche che era inadeguata per la sua dimensione. Al centro delle tensioni sociali vi era lo squilibrio tra la grande concentrazione di privilegi nei confronti di un gruppo sociale ristretto e l’accumularsi dei costi gravanti su una base sociale sempre più ampia (cittadini romani e alleati italici). I vari gruppi politici repubblicani si riunirono in due grandi “partiti” (linee di tendenza): gli “optimates” e i “populares”. A questo quadro deve aggiungersi l’impiego della forza bruta: “l’imperium legittimante al comando militare”, attraverso il senatus consultus ultimum che consentiva, in caso di grave ed eccezionale pericolo per la repubblica, di sospendere le ordinarie garanzie di libertà e tutela giuridica per i cittadini. Questo strumento venne utilizzato, la prima volta, per la repressione dei culti dionisiaci alla fine del III sec. a.C. (si trattò di un invenzione di un complotto ai danni del Senato. I Culti in questione, predicando l’abbandono estatico alla divinità sembravano poter sovvertire l’ordine romano). Si tentò di riproporre successivamente questo strumento (che consentì ai consoli di reprimere molto duramente il culto) nella lotta contro i Gracchi. Paragrafo 2 Tiberio Gracco e la distribuzione dell’ager publicus Quando, nel 133 a.C., Tiberio Gracco iniziò la sua carriera facendosi eleggere al tribunato della plebe, la situazione delle campagne romane era caratterizzata da latifondi, appartenenti alla classe senatoria e coltivati principalmente da schiavi. Era quasi completamente scomparsa la figura del contadino-soldato che costituiva il nerbo della legione romana. Già nel 140 si era cercato, da parte di ambienti politici vicini agli Scipioni (parenti dei Gracchi da parte di madre) di proporre una riforma agraria che sopperisse all’impoverimento dei piccoli agricoltori. Tiberio, ispirato anche a Catone, propose ai comizi una legge che affermava un limite ai possessi di terre pubbliche che ciascun pater familias poteva acquisire: 500 iugeri (125 ha) più 250 per ogni figlio maschio fino a un massimo di 1000. Gli antichi possessi di ager publicus che rientravano nei limiti sarebbero divenuti proprietà privata dei singoli possessori, la parte restante sarebbe stata distribuita, sotto il controllo di un triumvirato eletto dai concilia plebis, tra i cittadini non abbienti, prevedendo anche l’inalienabilità della proprietà. La proposta fu osteggiata da molti membri della classe senatoria, ma anche supportata, oltre che dalla plebe, da altri senatori. Coloro che osteggiavano tale riforma, si affidarono ad un altro tribuno, C. Ottavio, affinchè interponesse l’intercessio impedendo che i concilia potessero discuterla e votarla. Tiberio riuscì a superare l’ostacolo dell’intercessio facendo votare agli stessi concilia la deposizione di Ottavio sulla base dell’argomento che un magistrato della plebe non poteva operare contro di essa. Un sistema sostanzialmente illegale che consentì la votazione della proposta di Tiberio. Tiberio sfruttò anche l’eredità di Attalo II, re di Pergamo, lasciata al popolo Romano, per finanziare la riforma. Lo scontro si inasprì, tanto che Tiberio cercò di farsi rieleggere come tribuno l’anno successivo al fine di proteggere la sua incolumità (il tribuno era assolutamente inviolabile). I suoi nemici lo accusarono di aspirare a un potere monarchico (adfectatio regni) e nei tumulti che seguirono venne assassinato, con alcuni seguaci, da un gruppo di senatori nei pressi della curia. Il Senato cercò di coprire la successiva persecuzione (dei seguaci) con forme legali, attraverso un senatusconsultum ultimum, tale tentativo fu vanificato dal console Publio Mucio Scevola che oppose l’intercessio. Persecuzione che si ebbe con i consoli successivi (Lena e Rupilio). In ogni caso la riforma non fu totalmente abrogata, tanto che e possibile ancora rinvenire nel sud Italia “cippi graccani” che segnavano i confini dei territori assegnati ai piccoli coltivatori. Paragrafo 3 L’eredità politica di Tiberio e il programma di Gaio Gracco La crisi si riacutizzò 10 anni dopo quando Gaio, fratello di Tiberio, venne eletto tribuno della plebe (123 a.C.). Gaio fece approvare una serie di leggi e riforme, molto più ampie e ambizione rispetto a quelle del fratello. Riprese sicuramente le riforme agrarie operate inizialmente da Tiberio, sebbene con alcune modifiche, ma ne propose altre caratterizzate da una politica filo-plebea e con un forte rilancio della colonizzazione romana: ■ Con una lex Sempronia fondò una colonia a Taranto e ne progettò un’altra a Capua con lo scopo di sottrarre quelle fertili terre ( di pertinenza romana come punizione per la defezione ad Annibale) al controllo senatorio. ■ Tento di osteggiare il senato anche con la lex Sempronia de pronvincia Asia che sottraeva al controllo del senato gli apparti per le imposte nelle ricche province dell’Asia. ■ Con la lex Sempronia de privinciis consularibus obbligò il senato a sorteggiare le province da assegnare ai futuri consoli prima delle elezioni (in modo da impedirgli di sostenere amici e osteggiare nemici). ■ Con la lex Sempronia de capite civis Romani riaffermò il controllo dei comizi per tutti i casi di applicazione della pena capiale nelel quaestiones. ■ Modificò la composizione deli tribunali de repetudis, competenti per i reati di concussione e corruzione ( di cui spesso si macchiavano i titolari di uffici amministrativi e di governo provinciale, appartenenti quasi tutti all’elite senatoria) In sostanza tentò di dare a Roma una più radicale e sostanziale democrazia, forse conosciuta solo dalla Grecia. (intervenne in molti altri campi pag 233 altre leggi). Paragrafo 4 Un nuovo modello di “res pubblica”? Sembra delinearsi un sistema politico direttamente governata dal popolo e dai suoi magistrati (soprattutto dal tribunato della plebe). Questo primato della democrazia assembleare, agli occhi del ceto dirigente romano (anche moderato) appariva eversivo. Questo consentì la violenta reazione senatoria. In un momento di parziale erosione del consenso di cui Gaio godeva, nel tumulto che si ebbe poco prima della sua terza (mancata) rielezione, i suoi avversari ne organizzarono l’assassinio. In realtà il suo programma politico era per certi versi contraddittorio: contrastava gli aspetti patologici dell’espansionismo imperiale, sostenendone le premesse basate sulla potenza romana; fece votare leggi frumentarie (che consentivano la distribuzione di grano a prezzo politici ai marciò col suo esercito su Roma e, sconfitti gli avversari, impose un ordine legale fondato sul terrore. Il massacro degli esponenti popolari, anche senatori, fu attuata attraverso le famose liste di porscrizione: capi popolari e avversari di Silla vennero dichiarati “nemici della Repubblica”, i loro beni espropriati (lasciandone una parte a chi avesse denunciato il proscritto) e la loro vita lasciata alla mercè di ogni assassino legalizzato. A questo punto Silla decise che era il momento di ottenere il pieno controllo sulla Repubblica Romana. Nell’82 a.c. fece approvare dai comizi centuriati, ormai asserviti al suo volere, la lex Valeria de Sulla dictatore. Essa attribuì a Silla i poteri assoluti in qualità di “dittatore per ricostruire la repubblica e scrivere le leggi”. Silla rimase in carica due anni. Allo scadere del termine, pur potendo rimanere dittatore a vita, si ritirò non ritenendo più necessari i poteri che gli erano stati conferiti. Paragrafo 3 Le riforme sillane Durante i due anni in cui fu dittatore, Silla introdusse una serie di riforme finalizzare a riaffermare l’antica centralità del senato come sede primaria della politica, limitare il potere del tribunato della plebe e contrastare la crescita del peso politico dei comandi militari. 1)Restituì al senato il controllo dell’intero sistema criminale romano. 2)Riaffermò il controllo senatorio sui processi legislativi: stabilendo nuovamente che una legge dei comizi potesse considerarsi valida solamente se confermata dal senato successivamente alla sua approvazione in assemblea (non era più sufficiente l’autorizzazione preventiva al magistrato che proponeva la legge ai comizi). 3)Reintegrò le file dei senatori: il cui numero era notevolmente diminuito nel corso delle lotte sociali che si susseguirono dai Gracchi fino al dominio di Silla. Quest’ultimo fisso a 600 il numero dei senatori, con il chiaro scopo di inserire nel consesso molti esponenti della classe equestre, in modo da garantire un’integrazione dei due gruppi sociali al vertice della repubblica, la nobiltà e i cavalieri, chiaramente in funzione anti plebea. 4)Ridisegno il tribunato della plebe: Con lo scopo di impedire che questi magistrati, dotati di grandi poteri (in primis l’intercessio) potessero compiere atti eversivi (che nella sua logica da patrizio significava anti-aristocratici) come era accaduto con i Gracchi. Per questo motivo stabilì: ■ La preventiva approvazione dei candidati da parte del senato (fino a quel momento erano eletti liberamente dall’Assemblea popolare); ■ La regola per cui coloro che avevano ricoperto questa magistratura non potevano rivestirne altre (in particolare quelle cum imperio). ■ Una drastica riduzione dei loro poteri: l’intercessio, in particolare, poteva esplicarsi solo a favore del singolo cittadino colpito da un atto di un magistrato, non potendo più essere utilizzato per paralizzare decisioni che investivano l’intera città (o meglio l’intero territorio di Roma). La riforma imposta da Silla al Tribunato della plebe appare contraddittoria: Il tribunato della plebe, infatti, era uno degli organi che meglio rappresentava la tradizione repubblicana, fondata sull’equilibrio dei poteri attraverso la condivisione di ogni singolo potere da parte di più soggetti. Con il ridimensionamento dei tribuni, insomma, Silla finì con l’intaccare la tradizione repubblicana ancora di più rispetto a quanto aveva fatto in passato la fazione da lui combattuta (i populares). 5)Soppresse le frumentationes: uno strumento utilizzato fino a quel momento dai capi popolari per ottenere il supporto della plebe urbana. 6)Accentuò la distinzione fra governo civile (imperium domi) e comando miliare (imperium militiae): Questo al fine di evitare che qualcuno, imitando il suo esempio, marciasse su Roma in armi e imponesse a tutti la sua politica. La decisione di Silla fu molto efficace: vietare l’esercizio dell’imperium militiae all’interno dei confini sacri di Roma (il c.d. pomerio), opportunamente estesi per l’occasione a tutta l’Italia peninsulare. Questa decisione spogliò definitivamente i consoli dell’imperium militiae, affidandolo alle promagistrature. I consoli, infatti, come gli altri magistrati ordinari erano vincolati a risiedere e a esercitare le loro funzioni in territorio Italico. 7)Definì più precisamente il cursus honorum: proibendo il rinnovo delle magistrature per più anni di seguito e specificando l’età per accedere a determinate cariche. 8)Riaffermò la competenza e la libertà del senato nell’assegnazione delle province e aumentò il numero di magistrati minori e pretori. Paragrafo 4 L’evoluzione del diritto e del processo criminale sino alle grandi riforme di fine II secolo Fino alla fine del II secolo a.c., il sistema di repressione dei comportamenti delittuosi era molto debole, soprattutto se paragonato al processo civile. 1)Inizialmente erano pochi i crimina che venivano perseguiti dalla città direttamente, la maggior parte richiedevano la reazione diretta e personale degli offesi. 2)Nel corso del tempo si ampliò l’intervento diretto della città: che si realizzò diversamente: ■ Per i reati maggiori: la competenza spettava ai pretori (in quanto magistrati dotati dell’imperio) e ai tribuni della plebe (come estensione della facoltà di sanzionare chi avesse attentato alla loro persona sacrosanta). ■ Per i reati minori: invece, erano giudicati dai questori e dagli edili a meno che non si fosse stati colti in flagrante, in questo caso la repressione era esercitata direttamente dai tresviri capitales (magistrati con poteri di polizia). Nel sistema di repressione dei comportamenti delittuosi vigeva ancora l’antica regola per cui i giudizi che comportavano la condanna a morte erano sottratti alla competenza esclusiva dei magistrati mediante la provocatio ad populum (ai magistrati restava la funzione istruttoria). Un gruppo di leges Porciae estese, inoltre, il diritto di provocazione dei cittadini romani anche contro la loro fustigazione e anche se si fossero travati fuori Roma e nelle province. Il problema della provocatio ad populum è che l’assemblea popolare, convocata per giudicare il soggetto responsabile di un grave crimine era, da una parte influenzata politicamente e, dall’altra, condizionata dall’emotività tipica di ogni riunione di persone in numero elevato. Questa situazione portò alla necessità di una riforma di tale sistema. Paragrafo 5 Le quaestiones perpetuae La riforma intervenne stabilendo che i processi più gravi e delicati, in particolare se vedevano imputato un membro della classe senatoria, non fossero risolti mediante la provocatio ad populum bensì affidandone la soluzione a un magistrato cum imperio, coadiuvato da un consilium di senatori. Questo schema inizialmente utilizzati per specifici reati (come la corruzione , il broglio, gli attentati alla sicurezza della repubblica) vennero inizialmente indicati come questiones extraordinarie (eccezzionali). Con il tempo, tuttavia, alcuni di questi procedimenti divennero ordinari (questiones perpetuae) portando alla qualificazione di diversi reati che dovevano necessariamente essere giudicati seguendo questo sistema. Eccone alcuni esempi: ■ Il crimen repetendarum (concussione ai danni dei provinciali), un reato particolarmente diffuso a Roma. ■ La Questio maiestatis (alto tradimento e comportamenti pericolosi per l’ordine pubblico) ■ Il Peculatus (sottrazione di beni pubblici) ■ Il De ambitu (broglio) ■ Il De sicariis et veneficis (uccisioni violente e gravi turbative di ordine pubblico) Verso la metà del secolo, una lex Calpurnia (149), costituì un tribunale stabile in cui giudicare questi crimini, secondo lo schema delineato nelle righe precedenti. In ogni caso, la repressione dei crimina era ancora legata a una logica privatistica di autodifesa. Non vi era un soggetto terzo, quale un pubblico funzionario, ma la difesa della città era affidata a tutti i suoi membri e la vittoria in un processo comporta un premio ricavato dalla stessa condanna pecuniaria. In questi procedimenti la giuria aveva il compito di dichiarare la colpevolezza mentre il magistrato doveva irrogare la condanna. Era possibile evitare la condanna a morte, prima della pronuncia, con lo ius exilii: chiedendo di essere esiliati da Roma (una pena più grave di quanto possa sembrare in quanto Roma, a quel tempo rappresentava la libertà e la civiltà, inoltre col tempo l’esiliato dovette abbandonare l’intero territorio italico). Nel complesso uno dei settori in cui le riforme sillane incisero più profondamente fu il processo criminale permettendo di meglio precisare i reati perseguiti e separando le funzioni di polizia dal giudizio criminale. Silla, coerentemente, soppresse il diritto di appello al popolo da parte del condannato (svolta non duratura). Paragrafo 6 I signori della guerra Silla, che dopo due anni di dittatura si ritirò a vita privata, pur non vivendo ancora a lungo, vide parte delle sue riforme incrinarsi. Appena possibile il partito popolare ridiede vigore ai tribuni della plebe e ne soppresse la separazione con il restante cursus honorum. I fattori della crisi antecedente erano ancora presenti ed erano accentuati dagli interessi della società romana: l’accentuato sfruttamento delle province, l’inurbamento della plebe rurale, il mutamento del sistema agricolo ( latifondi e schiavi), il professionalizzarsi dell’esercito. La novità di questo periodo è la sempre maggiore rilevanza degli equites. Il maggior punto di incontro tra la classe senatoria e gli equites si trova nella guerra: il più colossale investimento economico della società romana era nella sua macchina bellica. I senatori sostenevano la guerra in quanto era necessaria per la loro carriera, gli equites per il guadagno che ne derivava. CAPITOLO 12 L’ETA’ DELLE GUERRE CIVILI Paragrafo 1 La perdita di centralità del senato e i nuovi poteri personali La progressiva perdita di prestigio (come disse Giugurta “ogni cosa a Roma è in vendita, anzitutto i suoi senatori”) del senato contribuì a riaccendere la situazione di crisi e di guerra civile permanente. Il senato era divenuto sempre più parte del gioco politico. A ciò si aggiungeva la tendenza alla formazione di poteri personali a base militare. Alla tradizionale dicotomia tra il sistema ordinario delle magistratura cum imperio e delle promagistratre associate al governo delle province (e titolari esclusive dei poteri militari), si aggiunse il meccanismo di conferire (sempre più di frequente) poteri magistraturali sganciati dal meccanismo della prorogatio imperii. A Pompeo (privato cittadino), con la lex gabinia de piratis persequendis del 67 a.c., sono stati conferiti poteri straordinari, ancora più ampi di quelli usualmente conferiti ( meno limiti territoriali e durata superiore ad un anno) allo scopo di poter contrastare efficacemente i pirati. Pompeo successivamente riuscì a strappare a Lucullo il comando ■ Accumulò anche simboli di prestigio personale: come la toga purpurea ( che veniva indossata solo dai magistrati nel giorno del trionfo) la corona d’alloro e una guardia personale composta da cavalieri e senatori. ■ Tutte queste cariche gli permisero, nel giro di pochissimi anni, di riformare ogni aspetto delle istituzioni e della società romana: 1)Riprese il processo di integrazione: estendendo la cittadinanza alla Gallia Cisalpina. 2)Portò a 900 i senatori: includendo tra essi alleati e Galli appena divenuti cittadini. Con il chiaro scopo di porre all’interno del senato degli uomini a lui fedeli (in modo da bilanciare gli esponenti aristocratici che, anche se celatamente, tramavano contro di lui). 3)Pose le basi per la formazione dell’impero municipale: pur mantenendo il potere centrale a Roma, organizzo un sistema periferico caratterizzato da ampi margini di autonomia organizzativa. 4)Contrastò lo sfruttamento delle province: Cesare, infatti, credeva che il loro eccessivo sfruttamento avrebbe portato a grandi tensioni oltre che alla distruzione della ricchezza presente sul territorio. Per questo limitò questo “sciacallaggio” da parte dei nobili governatori e degli speculatori equestri. 5)Favorì i processi di urbanizzazione anche nelle province. 6)Distinse le province in due differenti categorie: a seconda che fosse necessario o meno un penetrante controllo militare (di cui sicuramente abbisognavano le province di recente formazione). 7)Portò il calendario a 365 giorni. Il calendario giuliano è un calendario solare, cioè basato sul ciclo delle stagioni. Fu elaborato dall'astronomo greco Sosigene di Alessandria e promulgato da Giulio Cesare (da cui prende il nome), nella sua qualità di pontefice massimo, nell'anno 46 a.C. Esso fu da allora il calendario ufficiale di Roma e dei suoi dominii; successivamente il suo uso si estese a tutti i Paesi d'Europa e d'America, man mano che venivano cristianizzati. Nel 1582 è stato sostituito dal calendario gregoriano per decreto di papa Gregorio XIII. 8)Fece, a Roma, diversi piani di sistemazione urbanistica e vasti programmi di opere pubbliche. 9)A livello legislativo tentò di limitare le dissipazioni e i lussi eccessivi; emanò una normativa sulla utilizzazione della manodopera nei grandi latifondi a pascolo; razionalizzò il sistema normativo con la codificazione dell’intero sistema del diritto civile. Paragrafo 5 L’eredità di Cesare L’immenso potere di Cesare aveva aumentato le inquietudini che portarono alla congiura delle Idi di Marzo del 44 a.C., ultimo sussulto di una tradizione aristocratica e forse segno di un isolamento di Cesare negli ultimi mesi di governo. Ciò che spinse le mani dei senatori ad armarsi delle daghe fu, inoltre, il timore che Cesare potesse spostare la sede centrale di Roma ad oriente, a causa della sua relazione con Cleopatra, non più privata in quanto venne a Roma con il figlio Cesarione. In ogni caso i congiurati molto abili nell’attaccare Cesare mentre era disarmato nel Senato, lo furono molto meno nel predisporre un progetto politico post-congiura, capace di garantire la ripresa della Repubblica Romana. Essi, infatti, si ispiravano genericamente alla libertas repubblicana. Si trattava, tuttavia, più di propaganda che di un concreto progetto politico. Ciò fu chiaramente dimostrato dal fatto che il controllo dell’aristocrazia senatoria (cioè dei congiurati) durò solamente fino all’accordo tra Antonio e Ottaviano del 43 a.C. Dopo una tregua armata che permise ai cesariani di organizzarsi meglio venne fatta votare dai comizi una nuova forma di governo: il secondo triumvirato. Attribuiva amplissimi poteri di governo e l’imperium militare a Marco Antonio (collaboratore e generale di Cesare), a Gaio Ottavio (pronipote ed erede di Cesare) e a Marco Lepido (eminente capo popolare). La carica era quinquennale e sarebbe scaduta nel 38. Vi fu subito una nuova stagione di sanguinose vendette fondata sul sistema delle liste di proscrizione sillane. Tutti i congiurati, molti membri della nobiltà senatoria e del ceto equestre furono inseriti nelle liste (non solo per motivi politici ma anche economici; tra questi figurava anche il senatore Cicerone). Nel 42 a.C. a Filippi le legioni di Ottavio e Antonio sconfissero definitivamente l’esercito di Cassio e Bruto, che si suicidarono, segnando la fine della tradizione repubblicana. Paragrafo 6 Lo scontro tra Ottaviano e Antonio Il Triumvirato fra Ottaviano Antonio e Lepido, che aveva ben funzionato nella guerra contro i Cesaricidi, cominciava a “stare stretto” ai tre triumviri in tempo di pace. Per evitare che si giungesse ad un conflitto venne trovato un accordo che prevedeva una spartizione territoriale delle competenze: ■ Ad Antonio: venne assegnato l’Oriente, parte più ricca e popolosa dell’impero ■ Ad Ottaviano: l’Italia e le province occidentali. ■ A Lepido: l’Africa. Ben presto Lepido, “anello debole” di questa catena a tre maglie, venne esautorato dai suoi poteri. Nel 37 a.c. venne stipulato un nuovo triumvirato i cui tutti i poteri vennero suddivisi fra Antonio e Ottaviano, mentre a Lepido fu solamente concessa la carica onorifica di pontefice massimo. Una volta rimasti solamente in due al potere, divenne inevitabile lo scontro. Antonio assunse un atteggiamento che lo avrebbe portato rapidamente alla rovina. L’insuccesso nella campagna contro i Parti; il divorzio da Ottavia per il matrimonio con Cleopatra (troppo presente accanto ad Antonio insieme a Cesarione e i loro figli e che facevano pensare a una politica dinastica lontana da Roma); l’illegittima pubblicazione del testamento di Antonio, che conferiva ai suoi figli il controllo sugli Stati orientali dipendenti da Roma quasi fosse egli stesso un monarca di quei luoghi, contribuirono a indebolire la posizione di Antonio. Nel frattempo Ottaviano, con l’aiuto del suo più grande generale Agrippa, sconfisse Sesto (figlio di Pompeo) aumentando il proprio prestigio. Gli storici analizzando la guerra fra Antonio e Ottaviano, sono concordi nel sostenere che Antonio, nonostante le modificazione apportate alla storia dallo stesso Ottaviano vincitore, era un abile generale, un competente magistrato e un uomo che, nonostante la propria ambizione, mostrò sempre lealtà verso gli impegni assunti. Ottaviano, al contrario, non era un abile militare ma un astuto uomo politico. Per garantirsi la vittoria si circondò di abili generali e ministri, fece il possibile per accrescere il proprio prestigio e popolarità e si fece difensore degli interessi italici. Nel 32 a.C., nonostante fosse scaduta la sua posizione di triumviro, fece prevalere la finalità della propria carica sulla durata. Assunto il consolato entrò in guerra non contro Antonio, generale romano, ma contro Cleopatra. Antonio andò in suo soccorso, attirato da Agrippa ad Azio, nel 31, quasi non combatté, ritirandosi con Cleopatra e parte della flotta e perdendo cosi molte navi e uomini. Rifugiati ad Alessandria i due si suicidarono nel 30a.C. all’arrivo di Ottaviano. CAPITOLO 13 AUGUSTO E LA COSTRUZIONE DI UN NUOVO MODELLO POLITICO- ISTITUZIONALE Paragrafo 1 La sperimentazione di una forma politica Ottaviano doveva provvedere a formalizzare il nuovo sistema di potere, cosa che fece in un arco di tempo relativamente lungo. Possiamo distinguere diverse fasi che lo portarono ad ottenere il potere assoluto a Roma. 1)Inizialmente si protrasse la situazione precedente all’avvento di cesare, con la conservazione delle strutture tipiche della Roma repubblicana. Nel 27 a.C. si fece eleggere console con il fidato Agrippa. Immediatamente: ■ Assunse la funzione di princeps del senato, al quale sembrò restituire prestigio e ruoli e annunciò che la crisi della repubblica era finita. (sottolineata nelle Res gestae, si tratta di una delle abili manipolazioni che lo portò a un così grande potere). ■ Mantenne costantemente i poteri della tribunicia potestas (i poteri, anzitutto di veto, dei tribuni della plebe). ■ assunse il controllo militare attraverso l’imperium in tutte le province non pacificate (quelle in cui erano stanziate le legioni). ■ Ottenne dal senato una nuova designazione: Augustus, a sottolineare la sacralità del suo ruolo. Inoltre da Cesare ottenne il praenomen “Imperator”. ■ 2)Nel 23 a.C. capì che non aveva più senso circoscrivere le su funzioni attraverso l’elezione ad una magistratura repubblicana. Il potere, infatti, gli era assicurato dal carattere sacrosanto della sua persona che gli permetteva: ■ Di convocare comizi. ■ Di esercitare il veto contro ogni possibile iniziativa dei magistrati, un potere derivante dalla tribunicia potestas (a vita). ■ Di convocare e presiedere il senato assumendo preminenza su esso ( lo ius agendi cum patribus tipico dei Consoli). ■ Di esercitare i suoi poteri proconsolari, per interferire anche sulle province senatorie che si trovavano oltre il pomerio. ■ Di esercitare la funzione di censore: con censimenti e revisioni dei ranghi del senato. Nel 22 a.c. ripristinò l’ordinaria coppia di censori, scegliendo due illustri senatori per ricoprire tale carica. ■ Nel corso dei suoi lunghi anni al potere, declinò molte cariche che richiamavano al periodo della guerra civile come il dictator il censor perpetuus ecc. La politica di Augusto fu senza dubbio genale: onde evitare di essere accusato di voler ripristinare la monarchia, egli inizialmente conservò tutte le strutture tipiche della repubblica romana ma arrogando a se la maggior parte dei poteri. Questo enorme potere personale, garantito dal pieno controllo dell’esercito, sono alla base dell’avvento di Ottaviano quale Imperator Caesar Augustus. Il suo principato durò molti anni (fino al 14 d.c.), ciò gli permise di dare stabilità al suo progetto politico realizzando la pax augustea (simboleggiata dall’Ara Pacis costruita nell’8 d.c.) e avviando , grazie alla straordinaria durata del suo impero, il secolo d’oro augusteo, caratterizzato finalmente da pace e certezze. Paragrafo 2 Equilibri da salvaguardare 3)La riorganizzazione della macchina militare romana con una più precisa definizione dei suoi compiti permanenti. Paragrafo 2 La creazione di un sistema burocratico per la gestione dell’impero Nell’organizzare il sistema burocratico per la gestione dell’impero, Augusto ritenne fondamentale concentrare la sua attenzione sulla città di Roma, da cui dipendeva immediatamente il consenso popolare che stava alla base del suo potere di princeps. A tal scopo riorganizzò le cariche magistraturali che svolgevano compiti essenziali all’interno della città: 1)Il controllo diretto sulla città venne affidato al praefectus urbi. Le sue competenze, limitate inizialmente a una funzione di polizia e giurisdizionale (fuori dal processo ordinario), si dilatarono sino a comprendere la giurisdizione criminale entro 100 miglia da Roma). I titolari di tale carica, nominati direttamente dal principe, dovevano appartenere alla classe senatoria e aver gestito il consolato (consulares). 2)Il comando delle truppe scelte per proteggere Roma fu affidato al prefetto pretorio, la carica più elevata cui potevano aspirare gli esponenti del ceto equestre. Per proteggere la città eterna furono stanziate nove coorti da 1000 uomini. Questa carica si sviluppò notevolmente nel tempo: estendendo la competenza nel campo della giurisdizione sotto il controllo del principe; assumendo il comando delle armate romane (accanto all’imperatore, divenendo una sorta di capo di stato maggiore); col tempo, infine, divenne una sorta di vicario dell’imperatore. 3)Il controllo sui mercati e l’approvvigionamento di Roma venne affidato al praefectus annonae. Di ceto equestre e sotto il controllo del princeps. 4)La prevenzione e la difesa della città dagli incendi venne affidata al praefectus vigilum, selezionato fra gli esponenti del ceto equestre. Paragrafo 3 Una rete amministrativa In virtù delle sue funzioni censore, che gli imponevano di esercitare un controllo sulle attività economiche di Roma , il principe agì su diversi fronti: 1)assunse, attraverso l’opera di curatores (appartenenti al ceto equestre), la gestione e la tutela dell’immenso patrimonio immobiliare di Roma. I monumenti religiosi e pubblici, le vie, gli acquedotti, le fognature e altre strutture pubbliche a Roma e in Italia furono sottoposte all’attenzione, indiretta, del princeps. 2)Un campo molto importante fu la segreteria del principe: necessaria al coordinamento dei vari uffici del governo centrale. Questo fu reso possibile grazie a una fitta e ben organizzata rete di comunicazione. Generalmente tale ruolo venne ricoperto da funzionari scelti nel ceto equestre coadiuvati da liberti imperiali. 3)Il patrimonio privato dell’imperatore (res privata) fu progressivamente inserito nel sistema delle finanze pubbliche e gestito secondo le logiche delle grandi signorie aristocratiche fondate su schiavi e liberti). L’istituzionalizzazione del patrimonio personale del principe portò da una parte alla concentrazione verso di esso di nuovi flussi economici ( acquisizioni a seguito di condanne, i proventi dell’attivo delle province, molti lasciti testamentari usati per garantire il resto del testamento). Conseguenza di questo fu che il nuovo patrimonio privato non sarebbe stato devoluto secondo le logiche della successione ereditaria privatistica, ma trasmesso al successore nel potere imperiale e affidato a un procurator a patrimonio. A questo patrimonio ne fu affiancato un altro, ancora più privato, la res privata, caratterizzato da una maggiore disponibilità. 4)Altro organismo fondamentale creato da Augusto fu il consilium principis, con il compito principale di garantire i suoi rapporti col senato (essendo composto da molti senatori), col tempo assunse un valore molto più ampio ricomprendendo esponenti autorevoli del vertice del sistema del governo imperiale e i migliori giuristi (con Adriano vennero addirittura retribuiti). Paragrafo 4 Il Fisco Un settore dove Augusto incise profondamente fu la politica finanziaria e monetaria dell’impero. 1)Disciplinò le competenze circa il diritto di battere moneta (da sempre del senato), attribuendo a se stesso la monetazione d’oro e d’argento e al senato quella di bronzo (per rispettare formalmente quel dualismo principe-senato che caratterizza il suo governo). 2)introdusse, a fianco all’aerarium populi, un nuovo tesoro. L’aerarium populi diventò il tesoro amministrato dal Senato romano, mentre il princeps ne creò uno nuovo denominato fiscus e dallo stesso Imperatore amministrato. Vero è che il princeps aveva il controllo generale dell'intero sistema fiscale, compreso l'aerarium populi Romani. In sostanza si veniva così a creare un dualismo nell'amministrazione finanziaria imperiale con la separazione tra due fondi, uno appartenente al populus ed un altro al princeps. 3)Costruì casse separate (rationes) per vari settori della spesa pubblica: bilancio militare , spese per il sistema burocratico, acquisendo la gestione diretta delle entrare. Molto importante tra queste è l’aerarium militare(gestito da 3 praefecti di rango pretorio che rispondevano al principe, nel quale confluirono varie imposte di successione, vendite all’incanto e contributi diretti del principe) con la funzione di supportare parte delle spese militari ( non il pagamento delle truppe) e principalmente la liquidazione dei veterani (prima in terre poi in denaro) di cui doveva conservarsi la fedeltà. Questo complesso sistema fiscale lasciava ampio spazio a possibili conflitti. Per questo motivo per tutelare l’impero vennero nominati vari giuristi e, con Adriano, venne istituito l’advocatus fisci, chiamato a rappresentare l’interesse dell’amministrazione finanziaria nei rapporti con i privati e nei relativi contenziosi. Claudio invece istituì il procurator a rationibus (poi solo rationalis) con il compito d tracciare una specie di bilancio generale dello stato. Paragrafo 4 il centro del potere e il governo provinciale Il sistema istituzionale delineato da Augusto e il rallentamento dell’espansione militare romana, resero possibile un periodo di pace (non al livello imperiale e delle elites, che continuavano con congiure, omicidi e lotte di potere) avvertito sia al livello centrale che provinciale. Questo sistema continuò a funzionare fino a Marco Aurelio (fine II sec d.C.). Il riaffermato primato di Roma e dell’Italia non aveva impedito un processo di romanizzazione delle elites locali: ■ Claudio (imperatore dal 41 al 54 d.c.) inserì nel senato esponenti provinciali e si impegnò in una politica di concessione della civitas Romana a numerose comunità provinciali; ■ I Flavi al potere dal 69 al 96 d.c. (Vespasiano, Tito e Domiziano) latinizzarono intere province; Vespasiano fu il primo imperatore di origine italica; Traiano fu il primo imperatore provinciale. L’elemento che maggiormente permise alle elites provinciali di compiere questa “scalata sociale”, fu l’esercito. Esso, infatti, permetteva di accumulare enormi ricchezze, sufficienti da garantire l’accesso al rango equestre; rendeva possibile la nomina nelle magistrature superiori e il conseguente inserimento nella nobilitas senatoria o, come accadde a Vespasiano o a Traiano, l’accesso al principato. Per quanto riguarda le province esse vennero suddivise in due categorie: 1)Provinciae Populi Romani: sotto il controllo del senato e governate da proconsoli, secondo lo schema tipico che abbiamo visto nel capitolo 9. Provinciae imperiali: governate dall’imperatore attraverso i legati Augusti princeps. Per quanto riguarda l’esazione fiscale, essa non venne più affidata in appalto ai pubbliciani, responsabili spesso di un eccessivo aumento delle imposte, bensì a procuratori imperiali. Ciò garantì un notevole miglioramento rispetto al precedente sistema degli appalti, evitando lo sfruttamento irrazionale delle fonti di ricchezza. Paragrafo 5 L’apparato militare Il fondamento militare del nuovo potere imperiale e la professionalizzazione degli eserciti, qualcosa che come abbiamo visto nel capitolo 11 si era già realizzata con Gaio Mario. Nel primo secolo del principato l’organico delle legioni doveva aggirarsi intorno ai 150000 uomini ( sotto augusto 25 legioni da 5000 uomini a cui devono aggiungersi gli ausiliari e la flotta. Il servizio militare durava 16 anni ( più 4 di riserva) che divennero nel 5d.c. 20 + 5. La liquidazione era conferita principalmente in denaro e non più in terreni. I veterani ottenevano anche una serie di privilegi: la cittadinanza romana, la legittimazione del matrimonio con la convivente ( durante il servizio non potevano sposarsi) e dei figli. Salvo la sconfitta della selva di Teutoburgo (nel 9 d.c.) dove tre legioni romane guidate da Varo vennero distrutte da guerrieri germanici guidati da Arminio (comandante degli ausiliari dell’esercito di Varo che decise di “tradire” i romani per mettersi a capo delle tribù germaniche che volevano combattere il tentativo di occupazione da parte di Roma) e salvo la conquista della Britannia meridionale sotto Claudio e della Dacia con Traiano, la strategia militare romana fu principalmente di consolidamento e difesa dei confini. Le armate romane, eccetto le poche coorti di pretoriani (italici e con maggiori possibilità di carriera), erano stanziate al di fuori dal territorio italico. Nei porti di Ravenna e Miseno (Napoli) erano stanziate le flotte romane. Venne diminuita la presenza militare in Iberia ed Egitto, ormai pacificati. Una maggior concentrazione di truppe fu conservata in Africa, Numidia, Mauritania, Palestina, Sardegna, Rezia, ■ Potenziò il sistema difensivo: attraverso l’assimilazione degli antichi staterelli semi-liberi e la conseguente semplificazione delle linee difensive, e attraverso la valorizzazione delle grandi barriere naturali quali il Reno e il Danubio (messe alla prova sotto il principato di Domiziano da incursioni germaniche). Va ricordato inoltre che sotto Vespasiano venne realizzato l’Anfiteatro Flavio, noto a tutto il mondo con il nomignolo inventato dai cittadini romani: il Colosseo. Alla morte di Vespasiano gli succedettero i suoi figli: prima Tito (imperatore dal 79 all’81 d.c.) poi Domiziano (che governò Roma dall’81 al 96 d.c.). Con entrambi gli imperatori si ebbe un progresso nell’assimilazione delle popolazioni extraitaliche con la romanizzazione delle elites provinciali (conferendo lo ius Latii a molte città provinciali). Domiziano fece anche un intervento di tipo protezionistico a sostegno dell’agricoltura italica. Tuttavia il suo governo fu di tipo autoritario, si sviluppò ulteriormente il sistema amministrativo accentuando le tensioni col senato che probabilmente portarono al suo assassinio. La morte di Domiziano portò alla fine degli imperatori appartenenti alla dinastia Flavia. Nelle dinastie Giulio-Claudia e Flavia, era presente un elemento fondamentale: il legame dinastico. i comandanti militari, fedeli a un membro della famiglia, proseguivano nella loro fedeltà nei discendenti. Paragrafo 3 il governo dei migliori e la militarizzazione dell’impero Dopo la morte di Domiziano per quasi un secolo la successione imperiale fu sottratta alla logica familiare, attraverso il meccanismo dell’adozione, se non dei più meritevoli, di soggetti già inseriti nel potere imperiale. Questa scelta non fu casuale, ma vi è l’influenza dei vari gruppi di potere ( esercito, aristocrazia senatoria..). Dopo il breve regno di Nerva (imperatore dal 96 al 98 d.c.), la guida di Roma passo a Traiano (che governò l’impero dal 98 al 117 d.c.). Il principato di Traiano è noto per i suoi successi militari: la conquista della Dacia (tuttavia non completata in quanto non si ottenne una vittoria definitiva sui parti) che portò l’impero alla sua massima estensione. Il suo successore Adriano (117-138 d.c.), uomo colto e permeato dalla cultura ellenistica, operò una politica di consolidamento dei confini ( limes) e riorganizzò l’apparato di governo definendo i tipi di carriera e le retribuzioni di diversi livelli di funzionari ( 60, 100, 200, 300 mila sesterzi l’anno). Durante il suo principato scomparvero i liberti imperiali dagli uffici di vertice a vantaggio dell’ordine equestre. Venne da lui anche favorita la presenza di giuristi nella burocrazia imperiale e venne codificato l’editto del pretore, su suo ordine, dal più grande giureconsulto dell’epoca ( Salvio Giuliano). I successori di Antonino Pio (138-161 d.c.) e poi Marco Aurelio (161-180 d.c.), non introdussero grandi innovazioni. Fu l’ultima fase alta dell’impero, caratterizzato da una sicurezza elevata. Con la fine del principato di Marco Aurelio e la sfortunata designazione del figlio Commodo (180-192 d.c.) si ebbero diversi problemi: la guerra con i Parti costò molto in termini economici e di vite all’impero, vi fu una grave pestilenza che portò ad una crisi demografica ed economica (in particolare un grande indebolimento del sistema finanziario municipale, molto dispendioso, che contava sempre meno investimenti privati) con la conseguenza che vennero arruolati anche dei barbari per la difesa dell’impero. Commodo, del tutto inadeguato, accentuò questa crisi e venne ucciso durante una congiura (fu il suo stesso maestro d’armi a ucciderlo mentre stava facendo il bagno). La sorte di Commodo toccò anche al suo successore, Pertinace (Imperatore per pochi mesi nel 193 d.c.) ad opera dei pretoriani ( sempre più avidi di ricchi compensi). La crisi politica che ne seguì mise il potere imperiale nelle mani dei militari che fecero divenire imperatore, per acclamazione, il comandante militare Settimio Severo (193-211 d.c.). Lui e i suoi successori dovettero affrontare come problema principale quello della difesa dei confini dell’impero. Con Settimio Severo si conclude il percorso iniziato da Augusto, evolutosi nel tempo (soprattutto sotto Adriano) della creazione di un sistema di governo fondato sulla progressiva concentrazione di potere nella figura del principe e sul funzionamento di una complessa macchina burocratico-militare. Con il suo successore Caracalla(211-217 d.c.) venne estesa la cittadinanza romana a quasi tutti gli abitanti dell’impero (Constitutio Antoniniana). Paragrafo 4 La forma della sovranità Ancora nell’età dei Severi le strutture portanti dell’impero continuavano ad essere le armate, i vertici del governo (identificati con il ceto senatorio) e i vertici dell’amministrazione (composti dai membri del ceto equestre). Nel rapporto tra principe e burocrazia un ruolo fondamentale fu svolto dai giuristi: la loro presenza dei settori più rilevanti dell’amministrazione fece si che l’apparato statale assumesse il loro formalismo, la loro coerenza logica e fu determinante per il processo di concentrazione dei processi normativi e giurisdizionali nella figura del principe (affermando la totale dipendenza degli strumenti esecutivi, della gerarchia della legge e della giustizia dalla volontà del principe). I giuristi mostrarono un certo disinteresse per quello che può essere definito come il “diritto amministrativo” romano. Erano descritte genericamente alcune cariche con i loro compiti, poteri e doveri. Ciò dipendeva probabilmente dal diretto rapporto del principe con l’apparato da lui costruito che, prendendolo come principale figura di riferimento, rendeva impossibile a questa primitiva burocrazia la spersonalizzazione dei ruoli tipica dei sistemi moderni. Paragrafo 5 Il paradosso dell’economia La svolta politica del principato augusteo rese possibile un ridisegno dei rapporti economici, con lo scopo di favorire la crescita economica dell’Italia, che si era già garantita ottime entrate con l’esportazione di vino, olio e suppellettili in ceramica prodotti in serie. Questo sviluppo venne favorito: ■ Dall’introduzione in Italia di manodopera a buon mercato: ottenuta grazie alle varie conquiste belliche. ■ Dai prelievi forzosi di beni e servizi dalle province a favore del centro (che alteravano il funzionamento del mercato e la formazione dei prezzi). Con Augusto e i suoi successori si vide la fine dei prelievi arbitrari di tipo privatistico e uno sviluppo razionale del prelievo pubblicistico. L’unificazione politica, la sicurezza anche giuridica, le opere pubbliche, le strade, resero possibile lo sviluppo del modello economico di “Hopkins”. Lo storico di Cambridge, analizzando la situazione di Roma nel periodo qui trattato, concluse che l’equilibrio dell’impero romano fu caratterizzato da un ciclo economico (definito sistema chiuso) nel quale il centro dell’impero importava ricchezza dalla periferia (le province) grazie alla sua supremazia politica, le periferie producevano e vendevano beni al centro in modo da poter pagare i tributi che venivano a loro volta utilizzati dal centro per acquistare i beni delle province. Questo portò a un indebolimento economico del centro che fu tuttavia più che compensato dallo sviluppo della periferia. Bisogna infine ricordare che sul sistema economico romano pesò sempre di più il costo della macchina da guerra romana, supportato interamente dalla base economica dell’impero unificato ( e non autoalimentato dalla conquista come avveniva precedentemente). CAPITOLO 16 IL DIRITTO DEL PRINCIPE Paragrafo 1 Una rete di governo: strumenti istituzionali e condizioni materiali Il nuovo assetto istituzionale, avviato con Augusto e perfezionato nel corso dei secoli dagli altri imperatori, era caratterizzato dalla presenza di troppe figure di amministrazione con forse maggiore complessità rispetto al periodo repubblicano. I vari uffici dell’amministrazione erano designati con la preposizione a-ab al fine di evidenziare la funzione svolta. Tra questi molto uffici assunsero grande rilevanza: ■ L’ufficio dell’ab epistulis: tenuto da letterati e sofisti (poi diviso in due uffici: latino e greco), era fondamentale per il sistema di comunicazioni. ■ L’ufficio a libellis (istituito da Claudio): competente a trattare le suppliche, spesso a tema giuridico, rivolte dai privati all’imperatore ( Papiniano e Ulpiano ricoprirono questa carica). Istituì anche l’ufficio a cognitionibus: competente per le questioni giurisdizionali assunte dal principe. ■ L’ufficio a commentariis: istituito sotto i Flavi, con la funzione di archiviare tutti gli atti ufficiali del principe. I giuristi assunsero un ruolo sempre più importante, il loro linguaggio permeò le logiche degli apparati di governo e aiutarono a formalizzare le funzioni riconosciute a ogni ufficio. Contribuirono alla “giuridizzazione” del potere. Questo sistema necessitava di un continuo flusso di comunicazioni tra centro e periferia e ordini, direttive, editti emanati in nome e per conto del principe: 1)Il punto di partenza fu lo ius edicendi (inerente all’imperium dello stesso Augusto) da cui risalgono i primi edicta rivolti a una provincia o a singole comunità. Il contenuto poteva investire, non solo un magistrato, ma tutti i cittadini, aumentandone il valore normativo. 2)Lo strumento principale per impartire le direttive del governo centrale erano i mandata, con cui il principe dava specifiche istruzioni ai governatori provinciali (inizialmente erano tuttavia limitati temporalmente alla vita del principe). 3)Più legati alla sfera giuridica erano i decreta, in cui si sostanziava una decisione giudiziale relativa a una questione sottoposta all’imperatore al di fuori del processo ordinario. Con essi si ribadiva il diritto vigente (anche se a volte se ne discostavano riorientando la giurisprudenza). 4)Con le epistulae e i rescripta l’imperatore rispondeva ai quesiti giuridici rivolti rispettivamente dai giudici o dai cittadini (il rescripta era in calce al testo sottoposto in modo da poter essere mostrato pubblicamente e utilizzato a proprio vantaggio).