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“STORIA DI ROMA TRA DIRITTO E POTERE” di Capogrossi Colognesi,riassunto, Sintesi del corso di Storia del Diritto Romano

riassunto completissimo di storia del diritto romano

Tipologia: Sintesi del corso

2012/2013
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Scarica “STORIA DI ROMA TRA DIRITTO E POTERE” di Capogrossi Colognesi,riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! STORIA DEL DIRITTO ROMANO “STORIA DI ROMA TRA DIRITTO E POTERE” di Capogrossi Colognesi, ed. 2009 CAPITOLO 1 “La genesi della nuova comunità politica” 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico Agli inizi dell'ultimo millennio a.C., l'economia delle popolazioni laziali erano molto primitiva; un ruolo importante era rappresentato dall'allevamento e della coltivazione di un cereale povero (farro) con lo sfruttamento di certi alberi da frutto come il fico e l'ulivo. Fin dagli inizi dell'ultimo millennio a.C., si svilupparono forme di circolazione di uomini e cose, grazie all'incremento dei livelli economici delle popolazioni; sorsero nuove rotte commerciali che attraversavano la pianura laziale e che univano l'Etruria alla Campagnia. Uno dei pochi punti di passaggio, dove era più facile l'attraversamento del Tevere, è costituito dall'area in cui sorgerà a Roma. Quest'area, fin dagli inizi dell'ultimo millennio a.C., era popolata da numerosi villaggi vicini gli uni agli altri, costituiti da poche capanne. L'aggregazione interna ed esterna di questi villaggi era basata sulla presenza di forme familiari o pseudo parentali che non dovevano coincidere necessariamente con singole unità familiari, e che legavano tra loro queste varie comunità di popoli, designati unitariamente come Albenses. In una vita ultraterrena era già diffusa e ciò lo attesta la presenza di ritrovamenti nelle tombe, che attesta, tra l'altro, una notevole uniformità di condizioni economiche. Anche il culto degli antenati era presente al livello omogeneo nelle comunità Guida del gruppo erano gli anziani, i patres, detentori della saggezza e della capacità di condurre la comunità; tuttavia nei momenti di pericoli di crisi, i poteri di decisione di comando venivano deferiti ad alcuni guerrieri di particolare valore capacità. Permanente nell'assemblea era affidato agli uomini in arme, che restavano competenti per le decisioni relative alla vita della comunità, affiancando gli anziani. Al patres erano affidate anche particolari funzioni religiose. Le fitte relazioni fra questi piccoli villaggi, situati a pochi metri di distanza gli uni dagli altri, fecero sorgere una cultura comune, agevolata dalla lingua latina e dalla partecipazione a riti e culti, finalizzata alla cura di interessi economici. Si celebravano perciò sacrifici in comune, come nel caso dei Triginta Populi Albenses, momento importante nel sistema di comunicazioni di scambio tra le varie comunità, che assumeva anche un valore politico; così come politica appare la figura arcaica del Rex Nemorensis, il grande solitario sacerdote del bosco sacro presso Nemi. Questo era il luogo di culto collettivo e di aggregazione di più comunità, così come altri centri religiosi, quali la sorgente e il boschetto presso Ferentino e il santuario sito nei boschi tra Ariccia e Nemi, dedicato al culto di Diana. A proposito di quest'ultimo centro, Catone vi ambienta la stipula di un'alleanza, sotto la guida di Tuscolo, tra comunità più evolute, tra cui la stessa Roma, Tivoli, Palestrina… La tradizione colloca la fondazione di Roma verso la metà dell'VIII secolo, precisamente nel 753 a.C. Profonde trasformazioni sembrerebbero verificarsi nell'organizzazione economica e sociale del Lazio primitivo; tale processo è documentato dalla presenza nelle tombe di arredi funerari di crescente opulenza, nettamente distinte da quelle tuttora più diffuse, assai più modeste. Esse attestano quindi una chiara ideologia aristocratica che andava formandosi. Ecco che si afferma la gerarchia sociale e una distinzione di ruoli legata alla ricchezza. Ciò fu possibile grazie ad un primo sviluppo economico della società e dai primi fenomeni di accumulazione della ricchezza derivanti dai bottini di guerra per questo attorno ai guerrieri e ai gruppi familiari più forti si concentrò un numero crescente di seguaci, il che a sua volta dovette accentuare le differenze gerarchiche, sia in termini di forza militare che di ricchezza acquisita. È proprio allora che siete un primo sviluppo tecnologico, passando da una produzione domestica di manufatti (oggetti di terracotta) ad una produzione specializzata di oggetti metallici, la cui realizzazione implica la presenza di un'elevata tecnologia e la concentrazione di adeguate risorse. Grazia quanto appena detto alcuni individui poterono permettersi di non partecipare direttamente alla produzione di beni alimentari funzionali al sostentamento, specializzandosi invece in altre attività artigianali e dando così luogo ad un primo mercato di scambio tra prodotti agricoli manufatti. È verosimile che fin da allora essi stessi un regime di appropriazione individuale dei beni mobili, esteso anche al bestiame minore, oltre che agli animali da trasporto da lavoro. Analogamente dovevano già essere presenti forme limitate di pertinenza della terra, se non altro sulla capanna e sullo spazio circostante, ma anche sui primi circoscritti campi coltivati. Ciò, insieme alla diversa distribuzione delle risorse della pastorizia, dovette determinare una progressiva stratificazione dei singoli patres all'interno delle varie comunità d'appartenenza, rafforzando maggiormente alcune di queste a danno di altre. L'accentuarsi di tali squilibri poteva, in alcune situazioni, dar vita a fenomeni di sinecismo (“abitare insieme”, termine che già gli antichi impiegavano per indicare la formazione delle città dall'aggregazione di abitati sparsi) delle minori comunità verso la più ampia forma cittadina. 2. La fondazione di Roma Questi primi centri insediativi unitari, di un certo rilievo, si potrebbero definire "città informazione". Tra i vari fenomeni di sinecismo, il nucleo originario della città è da identificarsi sul Palatino, che a sua volta si protendeva verso i colli vicini all'Esquilino, saldandosi con l'altro grande sistema costituito dal Quirinale e dal Campidoglio. Al colle Palatino si ricollegano le leggende e i più antichi riti religiosi, oltre che i ricordi legati alla coppia dei gemelli salvati dalle acque del Tevere. Questa area integrativa, soprattutto successivamente alla fusione dei villaggi del Palatino con quelli del Quirinale-Campidoglio, presentava una rilevanza strategica eccezionale. La naturale fortificazione costituita da questi colli permise infatti il controllo di uno dei pochissimi guadi praticabili dal Tevere, dove il fiume si divide in due. Ed è qui che interviene l'improvvisa accelerazione di progetti di già sedimentati di cui esemplare è la vicenda del centro legato al leggendario mondo delle origini laziali: Alba Longa (vedi paragrafo 5). Si possono intuire tracce, sopravvissute sono inarcate tradizioni religiose, di altre forme aggregative, alternativa al percorso unificatore che prevalse e che portò all'esistenza di quella Roma arcaica, con quella configurazione territoriale che la storia conosciuto. Con il prevalere di questa particolare aggregazione avviata verso la forma cittadina, e il nucleo, almeno potenzialmente politico, di tutte le altre era destinato ad essiccarsi, dissolvendosi di fronte alla forma storicamente vincente della polis. Indipendentemente dalla data precisa della fondazione di Roma (21 aprile 753 a.C.), nella seconda metà dell'VII sec. a.C., si registrano alcuni fenomeni convergenti che fanno pensare che alcuni dei villaggi preistorici si fossero venuti fondendo in una nuova entità unitaria caratterizzata da una fisionomia urbana. Con gli spazi per la vita della comunità per l'assemblea cittadina, per i luoghi dei culti e per la sede del re, nascono anche la politica e le istituzioni. Questa coincidenza ha portato diversi storici moderni ad abbassare la data della piena definizione dell'ordinamento politico cittadino, nel senso che si associa l'esistenza della nuova compagine cittadina al viene compiuto definirsi di un ordinamento politico sovrano, con le sue proprie forme di governo e istituzionali e con il coerente disegno dell'organico dei cittadini e delle strutture militari. Sotto questo profilo, la nascita di Roma può effettivamente essere abbassata in modo relativamente ragionevole, giacché fino al 367 a.C., il compiuto disegno di una “costituzione” romana non fu completato. Roma come "ponte", vincolo strategico. Di controllo dei collegamenti delle comunicazioni di più ampio respiro. Questo aspetto, insieme alla singolare capacità di assorbimento che la struttura cittadina arcaica aveva mostrato verso entità diverse, anche se affini, e 1+ generale sua apertura verso fusi eterogenei, segnerà in profondità, con il carattere della successiva crescita, la fisionomia politica le fortune di Roma. Questo fu un fattore di vantaggio che le permise di sopravanzare rapidamente le altre comunità in via di evoluzione, verso le forme cittadine situate nell'area del Latium vetus, con i conseguenti vantaggi militari, oltre che economici e sociali. Le disse radicale che caratterizza molte società arcaiche rispetto alla città e che questa ha un fondatore e non un pater e che pertanto punir insieme soggetti diversi, senza necessariamente inglobarli in un vincolo di parentela. E di qui che la politica opera tendenzialmente in modo eversivo, verso la predominanza del sangue e dell'appartenenza familiare. E nelle strutture precedenti, l'inserimento del nuovo individuo avviene nella sua trasformazione in parente, nella città essa avviene con la sua integrazione nelle istituzioni come cittadino, membro del populus. Questo mutamento, rompendo il mondo chiuso del villaggio della famiglia, dilatava eccezionalmente gli spazi per la circolazione. Ciò è attestato già dalla designazione del successore di Romolo: Numa non è membro della città, provenendo dalla città sabina di Cures, ma la sua estraneità non fu un fatto dirimente. È in tutta la storia successiva si incontrerà l'eco di queste migrazioni, della facilità con cui Roma assorbì nuovi gruppi di cittadini, addirittura dell'ascesa di alcuni di essi al vertice della comunità: è un'apertura che costituisce un meccanismo fondamentale per l'accelerazione del processo di crescita cittadina. L'immagine tradizionale della città antica, forgiata che a partire dal XIX secolo, ha sempre insistito sull'esclusivismo di tale organismo e sulla sua tendenziale chiusura all'esterno. In effetti man mano che le strutture vennero rafforzandosi, dovette accentuarsi la distanza tra il cittadino e lo straniero. Questo carattere di Roma, ha fatto immaginare che la condizione originaria di tali comunità fosse uno stato di naturale di ostilità delle une contro le altre, che avrebbe impedito ogni tutela dello straniero fuori della sua piccola patria. Preso atto del fatto suo che la vittoria dell'una comunità sull'altra significava la scomparsa della città vinta e il consequenziale assorbimento della sua popolazione da parte della città vincitrice, le guerre di Roma appaiono come una forma accelerata di successivi sinecismi, con uno spostamento degli insediamenti sottomessi ed il loro totale assorbimento nella città vincitrice. Esemplare è il caso di Alba Longa (vedi sopra), il leggendario centro federale delle comunità latine, evolutosi tuttavia più lentamente verso le forme cittadine e, quindi, restato più fragile rispetto a centri come Ariccia, Tivoli e la stessa Roma. Alba infatti fu integralmente dissolta e assorbita da quest'ultima, dopo la vittoria conseguita dal suo re Tullio Ostilio. La sua popolazione venne trasferita a Roma, pienamente incorporata nella cittadinanza romana, mentre i suoi maggiorenti furono immediatamente integrati nell'aristocrazia gentilizia romana. Da questo inserimento derivò un importante nucleo delle genti patrizie di Roma, tra cui i Giulii, i Servilii, i Quintii… Il risultato di tale processo fu l'accelerazione della crescita quantitativa e quindi politico- militare decenti che si erano più rapidamente consolidati, tra cui vi è Roma, ma anche Tivoli e Palestrina. Con lunedì del meccanismo cumulativo, giacché ogni successo militare, accrescendo gli organici di popolazione gli spazi territoriali della città vincitrice, alimentava nuovi successi. È allora che gli antichi oppida, i populi, i castelli isolati come le molte da ancora non consolidate, scomparvero senza lasciare traccia, alimentando la forza di quelle comunità destinate invece a persistere nel corso di tutta l'antichità. Accelerando le forme di circolazione culturale, tali processi dovettero contribuire in modo determinante allo sviluppo degli assetti sociali e politici romani. Si tratta di fenomeni che a loro volta indebolirono la stretta relazione dell'ordinamento con le strutture gentilizie. Nelle fonti antiche si riporta un solo caso di immigrazione di un gruppo gentilizio compatto: quello dei Claudi all'inizio del quinto secolo avanti Cristo. Il capo di una grande gens sabina, Appio Claudio, avrebbe abbandonato la sua città di origine e dissensi politici molto gravi proprio in ordine al rapporto con Roma, trasferendosi in quest'ultima, con tutta la sua gente e i clienti, in un numero sicuramente leggendario di 5000. A tutti sarebbe stata immediatamente concessa la cittadinanza romana insieme all’heredium di spettanza di ciascun cittadino, mentre Appio fu ammesso al Senato, dando così origine alla potente gens Claudia che attraverserà tutta la storia di Roma fino all'impero. CAPITOLO 2 “Le strutture della città” 1. Il rex, fulcro delle istituzioni cittadine Il rex costituì il fattore propulsivo dell'ordinamento cittadino. Esaltava l'interno dinamismo rispetto ai vecchi meccanismi parentali e alle logiche di lignaggio, affermando con il suo potere la funzione unificante della città. In figura sono presenti radici preistoriche che possiamo cogliere nel suo carattere carismatico nella forte accentuazione religiosa derivata dall'arcaica immagine dei re-sacerdoti. Questo aspetto influenzò anche la successiva fisionomia del potere istituzionale romano, addirittura oltre la Repubblica. Il rex tuttavia si colloca in un quadro nuovo dove è assente ogni logica dinastica che potrebbe riallacciarsi alle strutture patriarcali parentali che ne sono state elemento costitutivo. Non è il figlio che succede al padre in questa monarchia. La volontà divina svolge qui un ruolo fondamentale. Se Romolo, il leggendario fondatore della città, consulta direttamente di beni, interpretando i segni favorevoli, anche il successore Numa Pompilio ascende alla carica attraverso la solenne cerimonia dell’inauguratio (destinata a persistere nei rituali romani sino all'età imperiale). L’augure tocca con la destra il capo di Numa e chiede a Giove di manifestargli, con segni sicuri, la volontà che Numa sia re di Roma. Rex inauguratus, dunque, perché carico di una dimensione sacrale, supremo sacerdote e tramite della comunità con i suoi beni. Ma non è solo il volere divino a determinare l'avvento del nuovo re poiché intervengono anche il Senato e il popolo. L’inauguratio è effettuata nei riguardi del nuovo re, già individuate creato ad opera del Senato, attraverso un suo membro specificamente qualificato per la sua funzione di interrex. Dopo la sua creatio e la successiva inauguratio, il nuovo rex si sarebbe presentato al popolo riunito nella forma dei comizi curiati, da lui stesso convocati, al fine di assumere di fronte al loro il supremo comando. L'incontro tra il rex ed i suoi governati, anzitutto il suo esercito, era carico di valore, esprimendo solidarietà e consenso. E che sarebbe sopravvissuto al regnum in quella lex curiata de imperio che continuò ad accompagnare l'elezione dei magistrati superiori ancora in età repubblicana. È questo incontro che perfezione il rituale dell'acquisizione dei poteri legali da parte dell'investito dal favore umano e divino. Sacerdote e capo militare, il rex è insieme il ductor dell'esercito anche, rispetto alla città, il garante della pax deorum , dove si esalta la sua funzione di custode e tutore del diritto. Colui che “sa” e “dice” le norme della città e le applica nella gestione e composizione dei conflitti interindividuali e nella repressione delle condotte criminali, onde assicurare l'esistenza stessa e la sicurezza della compagine cittadina. L'esistenza delle leges regiae e le altre norme attribuite, di volta in volta i vari re succedutisi a Roma, è bene provata. Tale statuizione vincolava tutti i membri della comunità cittadina. Queste solenni pronunce venivano espresse unilateralmente dal rex di fronte all'assemblea cittadina, unica garanzia di pubblicità in un'epoca in cui ancora la scrittura era inesistente e un ruolo fondamentale era ancora svolto dalla memoria individuale e collettiva. I romani non conoscevano ancora un calendario fisso, corrispondente al ciclo annuale del sole. I periodi e le date del calendario erano pertanto definiti secondo un sistema mobile e sempre variante di divisioni dell'anno che serviva stabilire tutte le scadenze della vita cittadina (dalle attività comiziali, ai giorni in cui si poteva chiedere giustizia, sino alle festività che segnavano e regolavano i vari lavori agricoli). Ciò avveniva agli inizi di ogni mese, dinanzi ai comizi convocati dal pontefice (in appositi giorni predeterminati), dove il re indicava il calendario del mese, con i giorni fasti e nefasti. Nella sua attività, il re, fu progressivamente affiancato da una serie di collaboratori istituzionali. Questi finì col non essere mai solo nella sua azione di governo: un esempio è dato dall'attività di comando dell'esercito, dove accanto a lui vi era un comandante militare, che lo poteva anche sostituire in questo ruolo delicatissimo. Era il magister populi (“populi” come esercito) a sua volta associato ad un magister equitum, al comando della cavalleria. Non lo fu neppure nel governo civile della città, dove era assistito da un praefectus urbi, il cui ruolo si sarebbe accresciuto nel tempo, soprattutto nel delicato settore dei giudizi civili e della repressione criminale. La penale, con la sanzione di un insieme di condotte lesive degli altri membri della comunità, nelle forme più antiche di organizzazione giuridica, ad era particolarmente importanza. Lo dimostra la presenza di collaboratori del re (duoviri perduellionis e quaestores parracidii) in questo particolare settore, competenti per la repressione di alcuni reati di particolare gravità. Infine il re aveva la funzione fondamentale di garantire custodire i mores, il corpo consuetudinario del diritto cittadino, e di tutelare l'ordine legale della città: il collegio pontificale aiutò il re in questa attività; appare ovvio dunque che lo stesso ne facesse parte di questo collegio. 2. I patres In seguito alla morte del re, il supremo ruolo di governo connesso al Senato si manifestava attraverso l'esercizio a turno di alcuni suoi membri designati come "interreges" (tra i re): questo ponte tra il vecchio e nuovo re era garantito dai senatori. Questa particolare figura di interregnum non trova paralleli con la Grecia antica e appare esclusivamente latina. Esso veniva esercitato da 10 membri del Senato, per cinque giorni ciascuno. Dopo i 50 giorni si deve supporre che il comando bastasse a un altro collegio di 10 patres, ove non fosse ancora maturato quel consenso politico sicuramente preliminare alla creatio del nuovo rex. Questo ritorno di potere dal sovrano ha i patres richiama l'antico potere di governo di questi ultimi, ridotto ad un ruolo pressoché residuale di fronte alla re, che, in seguito alla sua scomparsa, riprenderebbe l'originaria pienezza. Tanto più arcaico termine "patres”quanto il più recente “senatus” (da senex, vecchio), impiegati dai romani a indicare tale consesso, sembrano richiamare l'idea dell'età e dei ruoli ad essa collegati, in coerenza al carattere accentuatamente patriarcale della società romana. È dunque l'assemblea degli anziani, dei patriarchi delle varie gentes che, oltre a ritrovarsi investita del particolare potere dell’interregnum, si riunisce collabora con il re. L'appartenenza al collegio dei patres sancisce e convalida una superiorità sociale dei gruppi che li esprimono. Non va vista, in questi patres, alcuna forma di rappresentanza politica: categoria questa affatto estranea all'esperienza politica romana, anche per l'età seguenti. Tra coloro che, in ogni generazione, fossero emersi all'interno delle varie gentes, per lignaggio, ricchezza, e per le proprie azioni in guerra in pace, in Rai sceglieva ove era obbligato a scegliere, i membri del Senato: il patres. Il numero dei patres fu prima 100, poi 150 o 200, giungendo infine al numero pressoché definitivo di 300 senatori. Altra importante funzione dell'assemblea dei patres è costituita dall'opera di consiglio di ausilio fornite all'azione del rex. Duttavia il rapporto rex-Senatus non dovette essere così vincolante per il primo come quello che intercorre rapporti con i supremi magistrati repubblicani. Se non altro perché il re era in una posizione ben più forte di quella che sarà propria dei consoli. Tuttavia questa funzione consultiva, coinvolgendo il Senato nelle decisioni più gravi per la città, dovette rappresentare un momento importante nella formazione di quel consenso, indispensabile per la vita ordinata della comunità. È improbabile che fin dall'inizio si fosse definita una sfera di competenze di vincoli tra gli organi del re, del Senato e delle cerie; perciò si esclude l'idea che è già nella prima età reggia il Senato prestasse la sua auctoritas ad atti di altri organi della comunità e in particolare alle delibere dei comuni curiati. A ben vedere, il momento in cui si dovettero avere delibere e atti estese anche ai rapporti di diritto privato tra romani stranieri, destinato ad essere un attributo del processo di arricchimento dell'esperienza giuridica romana arcaica. Il colle degli auguri avevano origine antichissima e venivano consultati al fine di regolare la vita sociale e di prendere decisioni importanti, affinché si potesse dare un'interpretazione dei segni della volontà divina. I romani distinguevano gli auguria dagli auspicia, secondo un criterio che non doveva concernere il tipo di manifestazioni divine da interpretare piuttosto alla categoria di persone legittimate ad interrogare la volontà degli dei: il re e poi i magistrati per gli auspicia, mentre gli auguri per gli auguria. Altra differenza si deve associare al riferimento degli auspicia a situazioni immediate nel tempo è di per sé ben individuate. Se l'atto che doveva essere compiuto era accompagnato da auspici infausti, non deve essere effettuato, a Usa lo stile atteggiamento divino ma poteva essere ripreso e portato a termine nel giorno immediatamente successivo. L’augurium invece riguarda la situazione lontana nel tempo e investe un oggetto più ampio e non singole iniziative, fino a riferirsi al destino stesso di Roma. Dal verbo "augere" (aumentare), deriva l'idea che augurium E chi non la semplice manifestazione di una volontà divina a una crescita di potenza, un arricchimento della condizione dell'azione umana a seguito di un richiesto intervento degli dei: per questo sia un luogo che una persona possono essere oggetto di inauguratio. Il re è persona inaugurata per eccellenza concentrandosi su di lui la forza magico- religiose del consenso divino. Il prestigio e di non minore potere di fatto del collegio degli auguri giustifica il numero ridotto dei suoi componenti (da tre a nove). Come per i feziali, anche in questo campo si vende solidificando una scienza è un diritto augurale. Le tradizioni seguite dal collegio degli auguri vennero raccolte in testi conservati segretamente: si accumulò così sapere ancestrale, arricchitosi di generazione in generazione. Atto di collegi in genere si era prescelti per cooptazione e vi appartenevano solo elementi patrizi. Solo pochissimi ruoli, tra quelli ora evocati, presuppongono una totale consacrazione del sacerdote alla divinità, con la conseguente separazione dalla vita corrente nella città. In questo caso, i nominati a vita, sono esclusi da ogni forma di gestione diretta del potere. Per il resto invece i ruoli sacerdotali sono assunti da ordinari cittadini che non vi smettono i loro correnti interessi alla partecipazione alla vita ordinaria della comunità, non diventano una casta separata portatori di valori diversi da quelli della polis. Si sfiora così un tema assai importante relativo alla precoce laicità dell'ordinamento romano. Quest'ultimo aspetto segna una delle fondamentali diversità della società greco-italica dalla storia di molte altre società orientali, maggiormente commutate in senso teocratico. La debolezza della diretta gestione del potere dei collegi sacerdotali in Roma, anche dei più importanti come quello degli auguri o dei pontefici, appare collegabile alla forte preminenza di un'aristocrazia guerriera e all'precoce affermarsi del peso politico dell'esercito cittadino. Di qui anche la fisionomia del re, ben diversa dalla forma ierocratica delle monarchie dell'oriente mesopotamico e dalla figura dei faraoni egiziani. 5. I pontefici il collegio pontificale era il più importante collegio, fondamentale nella storia di Roma. La fisionomia dinamica di tale collegio si contrappone a quella statica degli altri, vista la partecipazione al complesso processo di selezione delle tradizioni ancestrali, fuse nel nuovo contenuto religioso istituzionale della città, dai membri del collegio pontificale. Soprattutto perché è poli, dopo l'età dei re, i pontefici non si limitarono a registrare trasmettere la memoria, ma intervennero su di essa con una continua attività di interpretazione di innovazione. Ai Pontefici che risale l'elaborazione delle prime logiche interpretative delle prime tecniche analitiche in grado di fornire la base di un'elaborazione razionale autonoma, segnando così l'inizio della straordinaria avventura della scienza giuridica romana. Il collegio era presieduto, in età repubblicana, dal pontefice Massimo: figura di notevole prestigio nella società romana. Ne faceva parte lo stesso re che ne diventerà membro (REX SACRORUM); esso inoltre annoverava altri 13 membri, tra cui tre flamines maggiori destinati, come il pontefice massimo, a restare in carica tutta la vita. Per l'età monarchica invece il collegio istituito da Numa era composto da cinque membri. Il pontefice massimo aveva una superiore autorità di controllo su tutte le forme della vita religiosa romana: basta dire che gli venne attribuita al generale funzione di supporto di consulenza nei riguardi del re. Tutto questo rapporto di collaborazione si coglie in tutta una serie di cerimonie religiose (sacrifici a protezione della città, voti promessi alle singole divinità per allontanare pericoli incombenti, consacrazione di luoghi assegnati alla divinità), oltre che nell'enunciazione del calendario di cui si è detto. Ma è soprattutto in relazione alla conoscenza e all'applicazione delle primitive norme che disciplinano la vita della comunità cittadina che si evidenzia la fondamentale funzione di supporto di tale collegio. Norme che il re faceva osservare con la sua autorità del suo potere e che investivano sui complessi cerimoniali che regolano il rapporto della comunità o dei singoli gruppi cittadini con le proprie divinità, sia quelle infrazioni individuali che potevano attirare l'ira divina sulla città intera, si è i meccanismi volti a garantire la convivenza fra i singoli cittadini e vari gruppi familiari gentilizi. Quest'ultimo tipo di esigenza avrebbe dato luogo a una forma embrionale di rapporti che potremmo definire "diritto processuale" e "diritto privato". I pontefici pertanto raccolse le conservarono tali primitive regole di comportamento il modo di gestire gli inevitabili conflitti al fine di preservare la pace sociale: funzione che da sola sarebbe stata già sufficiente a spiegare il prestigio di questo collegio. È evidente come tali competenze si intrecciassero strettamente al ruolo del re, come supremo garante della vita della comunità e quindi come suo giudice legislatore. Primario fu tra l'altro il ruolo pontificale nell'elaborazione e nella conservazione delle leggi regie, di cui abbiamo detto; con esse tra l'altro, sin dalla legislazione di Romolo, non si faceva altro che rinnovare modificare i singoli elementi di un tessuto istituzionale preesistente. Di ciò i romani d'epoca più tarda avevano consapevolezza, riferendosi a questo comma il mores et instituta maiorum. Queste consuetudini degli antenati appaiono un'immagine carica di significato riferita al patrimonio ancestrale, dove sfera religiosa, sociale e giuridica sono ancora difficilmente distinguibili. Tali norme sono quelle sulle quali si fondava l'ordinamento della gens, il suo ordinamento giuridico. 6. Le radici arcaiche del diritto cittadino sirene progressivamente definendo una specifica area di fenomeni che possiamo definire "giuridici", rispetto alle forme del rito, le dimensioni magico-religiose, alla sfera dei costumi e delle determinazioni sociali. La stessa valenza arcaica del termine "ius" e lungi dal corrispondere alla nostra idea di diritto, così come non è facile rapporto originario riscontrabile tra le due sfere del ius e fas (costume). Era una somiglianza che non significava identità, dovendo quindi prevalere, di volta in volta, l'una sfumatura rispetto all'altra, sovrapponendosi logiche pratiche simili e diverse insieme. Il riflusso delle nuove istituzioni cittadini di parte del contenuto culturale dei vari gruppi minori ha riguardato anche altre sfere, oltre quella religiosa. Dal governo delle comunità di villaggio, lo sfruttamento della terra e degli altri penitenziari, i criteri che regolano il matrimonio e i sistemi familiari, alla divisione del lavoro, collegato da una parte le classi di età e dall'altra i sensi, la successione ereditaria,… Questa diversa sfera della consiste in un insieme di pratiche sociali in quel riferimento ai legami di sangue, la pervasiva subordinazione, la presenza di norme lautamente giuridiche, si presentavano sempre come un intralcio indissolubile. D'altra parte, come per gli aspetti religiosi, queste stesse regole spesso non erano esclusiva di una sola gente, di un villaggio, ma costituivano un comune tessuto che era venuto saltando insieme, in una struttura culturale omogenea, la ex gruppi originariamente distinti. Credenze, pratiche sepolcrali, temi matrimoniali e forme familiari erano d'altra parte circolate già nel mondo precivico, talché consolidarsi all'interno dell'unità cittadina, piuttosto che segnare una rottura o una radicale sovrapposizione di forme nuove, esprime quasi inevitabile sviluppo di fattori presenti nel mondo nazionale. È proprio questo antico patrimonio, divenuto il cemento istituzionale della civitas, a definirne l'identità politico culturale: la lingua, le rappresentazioni ideali, i sistemi di organizzazione sociale, la religione; di contro le tradizioni rimaste di pertinenza di ciascun gruppo interno la nuova comunità sopravvissero solo nella misura in cui restano contraddicessero e minacciassero il sistema unificato di valori condivisi. A Roma il delitto concepito come preesistente legislatore, non solo modificar rinnovare i singoli punti. Il suo fondamento sono i mores , punto di partenza di tutta la storia del diritto romano. La comunità politica si forma in parallelo, se non successivamente, il punto intervenire regolare o limitare e modificare il ruolo del pater familias nell'ambito della repressione domestica, può circoscriverne alcuni eccessi, può controllare, attraverso le curie, le modifiche artificiali nella composizione di gruppi familiari lo spostamento di patrimoni ereditari. E ancor di più il suo giudizio, con la consulenza determinante dei pontefici, in un altro specifico aspetto pratiche tradizionali. Ma le strutture dell'ordinamento (organizzazioni familiari, forme di signoria sui beni, rapporti tra individui) da cui discendono tutti mi gravavano sui consociati, appaiono saldamente fondate sui mores solo marginalmente modificati da singole leges. L'importanza dei pontefici e il ruolo rivoluzionario del re : nell'essere stati i registri del passaggio della pluralità di istituzioni locali un corpo unitario. Senza che mai si sia immaginato che l'esistenza di questo dipende che dall'atto normativo del sovrano, concepito invece come depositario e il garante di un patrimonio. CAPITOLO III “I re etruschi” 1. Le basi sociali delle riforme del VI secolo Una profonda frattura intervenire con l'avvento del potere di una serie di re di origine etrusca. Si trattò di un momento fortemente moderno dell'apparato politico-istituzionale, tale da anticipare alcuni caratteri di quello che sarà l'impianto di fondo del successivo sistema repubblicano. Tali trasformazioni furono rese possibili dalla crescita politiche sociali di Roma, nel corso del primo secolo in mezzo di vita. Essa è divenuta una delle principali città del Lazio, sia per dimensioni territoriali che per popolazioni, aveva cessato di essere la sede di una popolazioni di pastori agricoltori, accingendosi ad un nuovo salto in avanti nel suo sviluppo economico- sociale. In parallelo si ebbe la cresciuta importanza delle forme di proprietà individuale e l'ancor più significativa espansione delle attività artigianali mercantili. Ciò aveva coinciso, a sua volta, con l'accentuata circolazione del bronzo come unità di misura valori di riferimento degli altri beni. L'accresciuto rilievo della città aveva poi reso possibile, sotto i nuovi più dinamici e re di stirpe etrusca, un notevole incremento delle grandi opere pubbliche costruendo la grande Roma dei Tarquini. Nuovi ceti e nuovi gruppi sociali erano i protagonisti di questa stagione, la cui organizzazione interna attendeva in generale a fondarsi sulla centralità delle minori unità familiari, se non dei singoli individui. La prorompente economia urbana era più congrua mestieri attività individuali che permettevano singoli individui o unità familiari anche piccole, da aspirare ad uno status economico-sociale autonomo. Da un lato dovette così verificarsi una crescita complessiva degli strati sociali estranei al sistema gentilizio (popolo minuto), ai margini dell'economia cittadina, sia da strutture familiari abbastanza importanti per consistenza economica in grado di pretendere uno spazio autonomo nella città. Dall'altro si verificò anche un processo di erosione della stessa compattezza delle gentes a seguito delle tendenze centrifughe di singole famiglie o lignaggi. Oltre al fatto che non di rado dovette intervenire la rottura dei vincoli di dipendenza dei clienti arcaici, sia per una loro emancipazione economica, sia per l'estinzione di alcune gente. Tutti ormai l'individuo si trova in diretto rapporto con la città, per quel che "vale", anzitutto economicamente e per quel che è. La creazione del cittadino è ora perfezionato, restando un retaggio dell'età future. Ciò avrebbe comportato la sostituzione del comizio coniato con un nuovo sistema di carattere timocratico. Tutti cittadini sarebbero stati distribuiti in cinque classi corrispondenti ai diversi livelli di ricchezza, suddivise a loro volta in centurie. Il disegno compiuto dei nuovi comizi centuriati consisteva in un totale di 193 centurie di cittadini, ripartita in cinque classi. La classe forniva l'esercito, oltre alle centurie di cavalieri, che ammontavano a 18, comprensive però anche di quelle i cui cavalli erano forniti dalla città, delle 40 centurie di iuniores e di 10 seniores. Infine forniva 15 centurie di iuniores e 15 di seniores. A queste 188 centurie si devono aggiungere ancora e 500 di musiche di collocarle centurie di magra, centurie di musici, poste ed infine un'unica centuria in cui inclusi tutti cittadini privi di capitale ed estranei alle specializzazioni ora ricordate. L'egemonia Patrizia, in questa nuova organizzazione militare, restava sempre forte, tuttavia non era assoluta, aprendosi così per più ampi gruppi sociali un ruolo significativo proprio in quell'aspetto così essenziale la posizione del cittadino nelle società antiche, costituita dal servizio militare. D'altra parte è evidente che il maggior peso finisse col gravare sui cittadini più ricchi, quelli appartenenti prime classi. Essi infatti, proporzionalmente meno numerosi dei cittadini delle altre classi sociali, erano tenuti a fornire il numero maggiore di soldati. Il che, sua volta, era perfettamente coerente alle nuove caratteristiche dell'esercito oplitico e del suo suo fondamento timocratico legato alla ricchezza individuale. In effetti la città serviana non esprimeva una società più democratica o paritaria, ma un nuovo tipo di gerarchia. Talché, quando l'ordinamento centuriato si estese dall'originaria sfera militare alla dimensione politica, il voto dei membri delle prime classi di centurie fu più pesante è importante di quello degli altri cittadini. Il rapporto tra la sfera politica e quella militare sarebbe restato strettissimo; non a caso la convocazione del popolo nei comizi era indicata con l'espressione affatto significativa di "convocare l'esercito" e la stessa assemblea centuriata era indicata come "esercito urbano". L'accrescimento non solo di numero, ma di potenzialità belliche legato al pieno armamento oplitico introdotto è evocato dalla distinzione di quella parte di popolazione destinata a costituire la classis, come l'esercito era allora chiamato, da quella restata infra classem, ai margini dell'esercito, con funzioni ausiliarie. Solo in seguito, questa legione originaria verrà sdoppiata, senza però che ciò comportasse l'ulteriore raddoppio dell'organico militare. Ciascuna regione avrebbe infatti continuato composti di 60 centurie, ridotte peraltro dai 100 uomini originali a 60 e talora addirittura 30, a seconda della qualità degli armati e della diminuita consistenza numerica delle legioni stesse, allorché si privilegiavano l'unità militari più numerose e agili. Ed emerge altresì l'epoca in cui ciò dovette verificarsi: quando il supremo comando passò dal re alla coppia di consoli. Non sembra d'ostacolo l'obiezione avanzata da alcuni autori fondata sull'inadeguatezza della popolazione romana alla fine dell'età monarchica ad assicurare un esercito di linea di 6000 armati. Contro di ciò che infatti osservato che già l'estensione del territorio di Roma raggiungiamo una dimensione notevole e non sembrano troppo incauti calcoli che, pur considerando la densità piuttosto bassa di abitanti, fanno montare per quest'epoca la popolazione di Roma intorno al numero di 80.000. 5. Le tribù territoriali e il censimento dei cittadini questa riorganizzazione militare e della cittadinanza realizzata da Servio postulava una conoscenza analitica dei livelli di ricchezza dei singoli cittadini onde distribuirli nelle centurie delle diverse classi. Allo stesso re si imputa dunque anche l'introduzione del censimento, oltre che un ulteriore distribuzione della popolazione per tribù territoriali: due innovazioni tra loro collegate. Con il censimento si accertava la condizione economica di ogni gruppo familiare in funzione del nuovo sistema, di cui non sfuggiva agli antichi significato gerarchico. Ma il riordino della cittadinanza appare ben più articolato poiché, dallo stesso re, è stato introdotto un altro sistema di distribuzione della cittadinanza per tribù territoriali, in sostituzione delle vecchie tre tribù dei Ramnes, Tities e Luceres. La loro funzione era quella di provvedere ad un organico inquadramento di tutti cittadini: vere proprie ripartizioni amministrative che dovevano fornire alle varie centurie i contingenti militari, nonché il sostentamento al loro necessario. Gravava infatti sulle tribù l'onere di un tributo: dagli antichi associava il termine "tributum" a "tribus". Questa primitiva forma di tassazione, riscossa dai tribuni aerarii, antichi magistrati delle tribù, era commisurata all'entità delle proprietà dei singoli cives e aveva precipui scopi bellici. Immediatamente di seguito alle prime quattro tribù urbane, si sarebbero aggiunte le nuove tribù rustiche, realizzando una distribuzione più articolata della cittadinanza. Le tribù urbane sarebbero stati raggruppati gli individui privi di proprietà fondiaria, mentre in quelle rustiche furono collocati proprietari dei fondi in esse situati. In tal modo diventava immediatamente di rilevabile la distribuzione della ricchezza fondiaria (criterio su cui era fondata la distribuzione dei cittadini nelle varie classi delle centurie) che invece, se nel sistema delle sole quattro tribù urbane che in quello precedente delle tre originarie tribù, non aveva rilevanza. Mentre poi la denominazione delle quattro tribù urbane si riferiva entità territoriali (Suburana, Esquilina, Collina e Palatina), quelle delle più antiche tribù rustiche derivava dall’onomastica gentilizia (Aemilia, Cornelia, Fabia…). Questo non significa che la struttura interna di codeste tribù fosse fondata sui legami gentilizi: al contrario l'appartenenza ad essere andata dalla proprietà individuale della terra. È però possibile che siffatti riferimenti onomastici attestano la presenza, all'interno di queste tribù, in aree omogenee e con loro una identità territoriale, di gruppi compatti di proprietari appartenenti alla stessa gens. Solo con le tribù rustiche poteva essere rilevata in modo adeguato la ripartizione della proprietà fondiaria che era alla base delle ricchezze individuali. In modo diveniva definitiva la distinzione tra il mondo dei proprietari fondiari è quello, forse ancor più numeroso, dei nullatenenti ammucchiati tutti nelle sole quattro tribù urbane, degradate ora a strutture pressoché residuali. Alle 19 tribù esistenti alla fine dell'età monarchica avrebbe fatto seguito immediatamente l'istituzione di due nuove tribù. Numero destinato a crescere per raggiungere quello di 35: 31 rustiche e 4 urbane. 6. Controllo speciale repressione penale una delle conseguenze della stratificazione economica formalizzata del sistema centurie a comportò la scomparsa di quei comportamenti di singoli o di gruppi familiari volti ad affermare una gerarchia sociale in forme individuali (il lusso funerario). Ciò avvenne non in ragione di un impoverimento della società romana piuttosto a causa di una corrispondente fase di grandi spese pubbliche, con la costruzione di importanti templi e di imponenti opere urbane. Le prime leggi volta stabilire un limite alle spese funerarie dovettero essere allora introdotte, venendo poi recepite nella successiva legislazione delle 12 tavole di cui era stata precisa memoria. Un altro più importante settore della vita sociale in cui dovette verso l'incisivo intervento del re fu quello costituito dalla repressione dei comportamenti individuali pericolosi per l'ordinamento cittadino. In questo ambito infatti l'astrazione dovette essere più diretta innovatrice che nel più vasto campo dei mores. Ora la stessa esistenza della comunità moltiplicava, con la vicinanza, le occasioni di conflitto è quindi postulava l'introduzione di forme regolate di litigio atte ad evitare il confronto violento governate da procedimenti razionali. È allora che si dovettero consolidare i primi meccanismi di una procedura civile e di regole che permettessero agli organi cittadini di distribuire ragioni e torti tra i privati litiganti. La città intervenne precocemente anche a reprimere le condotte criminali dei singoli individui. Ciò iniziò con la repressione criminale circoscritte ad alcune condotte particolarmente gravi, mentre l'essere ha lasciato all'autonomia dei singoli gruppi famigliari e gentilizi e alla loro capacità di autodifesa. Dove al massimo la comunità interveniva regolare le forme sancire i limiti della vendetta dell'autodifesa privata. L'autonoma presenza della città a imporre il proprio ordinamento, anche nella sfera criminale, senza intervento degli interessi privati lesi, concerneva pertanto due tipi di comportamenti: l'uccisione violenta di un membro della comunità, da un lato, forme di tradimento o azioni dirette contro l'esistenza stessa della comunità politica dall'altro. Questi ultimi tipi di condanna sono richiamati sotto i due termini di perduellio, crimine contro l'ordine politico della civitas, e di proditio, il tradimento con il nemico e comportano la morte del colpevole. È verosimile anche la condanna a morte del parricidas, sancita nelle 12 tavole, che non riguardava solo l'uccisore del proprio padre ma anche chi avesse ucciso un qualsiasi cittadino avente autonoma rilevanza rispetto alla comunità. In questi casi il re interveniva direttamente attraverso i suoi magistrati, i questori parricidii e i duoviri perduellionis. La loro esistenza conferma la novità di questi reati rispetto al mondo precivico. Da questi reati, va ricordato una molteplicità di procedimenti repressivi condotte a sociali e dannose, alcuni dei quali d'efficacia immediata, che potremmo chiamare "di polizia" e altri invece in quella punizione interveniva soprattutto sul piano della sfera religiosa, anche se con conseguenze personali meno gravi, sino alla morte dell'autore del reato. Tali condotte erano colpite anzitutto perché, violando precetti regole, tiravano l'ira degli dei sull'autore del misfatto e sulla comunità intera. Il caso più importante è costituito dalla particolare sanzione consistente nella consacrazione del colpevole agli dei. Tale condizione comportava il suo distacco dalla comunità alla perdita di ogni tutela giuridica, esponendola qualsiasi aggressione cui non avrebbe reagito l'intervento sanzionatorio della città. Vi sono poi altre azioni delittuose punite molto gravemente nella legislazione decemvirale, ma che non sembrano confortare questa consacrazione dell'autore del reato (sacratio), nè il diretto risarcimento della vittima. Si pensi alla repressione degli atti di magia contro il vicino l'incendio doloso del raccolto. In questo caso la sanzione prevista avveniva attraverso i canali delle forme religiose arcaiche che ci riportano situazioni più antiche della repressione della perduellio o dello stesso parricidium. E comunque tutto fa pensare che occorresse anche in questo caso la reazione del danneggiato nella sua denuncia del malfattore. Non meno numerosi erano comportamenti lesivi dei singoli cittadini ed effettuati ingiustamente. Ad esempio il furto, il danneggiamento di un bene o le lesioni fisiche arrecata ad un individuo. In questi casi la comunità primitiva interveniva proteggere il danneggiato contro l'autore della condotta illegittima. Ma lo faceva solo se la stessa vittima si faceva parte attiva per difendersi, mentre l'eventuale condanna mirava conseguire insieme l'obiettivo di risarcire il danno di punire l'autore della condotta illegittima. Una logica che mostra il delicato equilibrio tra il ruolo arbitrale della comunità politica e l'autonomia dei singoli gruppi. Per riguardo ai diritti individuali questi erano esclusivamente riferiti alla figura forte del pater della familia proprio iure (sistema patriarcale dove l'unità familiare in qualche modo in prigione singoli individui in vincoli di sangue e di status che li accompagnano per tutta la vita). L'unità familiare si dissolveva col passaggio di ogni generazione, la morte del padre, suddividendosi per quanti sono gli immediati i suoi discendenti. Questo è il motivo istituzionale per cui l'ordinamento cittadino valorizzato questo sistema. Poiché esso, addirittura più della grande riforma centuria, comunque certamente in parallelo essa, è lo strumento più devastante nei riguardi della tendenza dei gruppi intermedi, fondati su sangue sull'apparente è la a porsi come entità autonoma rispetto all'ordinamento politico unitario. La famiglia romana era fortemente coesa, nella sua struttura giuridica, ma transeunde: non superava la generazione per questo non poteva assumere una valenza lautamente politica, contribuendo al contrario di indebolire dall'interno alla stessa logica gentilizia. CAPITOLO IV "Dalla monarchia alla Repubblica" 1. La cacciata di Tarquini e la genesi della costituzione repubblicana Per quanto concerne infine l'aspetto sociale della contrapposizione tra plebei e patrizi, il punto centrale è indicato dall'assenza del conubium che escluderebbe la possibilità di un rapporto matrimoniale valido fra un patrizio è una plebea o viceversa. Questo avrebbe comportato la degradazione sociale dei figli nati da tali matrimoni, esclusi comunque dai ranghi del patriziato, oltre alla perdita di rango della sposa, se è essa era d'origine Patrizia. Una sanzione che ribadiva formalmente l'inferiorità sociale dei plebei: i quali, infatti, contro di essa si batterono, sino ad ottenerne il superamento con la lex Canuleia del 445 a.C. Il ricompattamento della plebe contro questo sistema di esclusioni fu talmente violento consistente da minacciare la sopravvivenza stessa della comunità politica. E quanto traspare dalla famosa secessione sul Monte Sacro o sull'Aventino del 494 a.C., in cui si adombra, con la rottura del patto politico cittadino, la possibile formazione di una comunità politica alternativa alla città dominata dai patres, con una sua diversa sede territoriale. La crisi fu superata solo con il riconoscimento alla plebe di un insieme di strumenti protettivi rispetto alle prevaricazioni delle magistrature patrizie. A guidare la secessione plebea si erano posti dei magistrati, ispirati alla figura dei tribuni militum, o addirittura alcuni tribuni militum dell'esercito centuria schieratisi con la plebe, che avevano assunto il nome di tribuni della plebe. Il compromesso politico che ne seguì comportò il loro riconoscimento come organi della città: sancendo dunque il loro diritto d'aiuto a favore della plebe. Ma proprio questo carattere escluse per molto tempo la loro partecipazione all'effettivo governo della città, attribuendo ad essi invece una generalizzate sempre più penetrante funzione di controllo nei riguardi dell'azione degli altri magistrati repubblicani. Il loro potere d'intervento negativo se stesse in effetti all'intera vita politica cittadina, stanziandosi nella possibilità loro riconosciuta d’interporre l’intercessio: un vento contro qualsiasi atto o delibera dei magistrati o dello stesso Senato. In tal modo l'autorità dei tribuni era lungi dall'essere subalterna alle strutture cittadini, potendo giungere a paralizzare nel suo complesso la vita stessa della comunità. La posizione di questi magistrati era poi rafforzata dal carattere sacrosanto della loro persona, originariamente affermato con la lex sacrata e sempre in seguito confermato. Tale legge consisteva in un giuramento assunto collettivamente dalla plebe ma vincolante, per il suo fondamento religioso, l'intera comunità. Con tali leggi la componente plebea si poneva come forza autonoma, in grado di ridisegnare l'intero impianto cittadino. Il suo punto di forza era l'assemblea (concilium plebis) organizzata sulla base della distribuzione per tribù territoriali, che votava proprie delibere: i plebisciti, ed eleggeva propri magistrati: i tribuni e in seguito gli edili. Si trattava solo dei primi passi verso un più vasto processo di equiparazione: per il momento il mondo plebeo costituiva ancora una realtà sociale autonoma e antagonista. Per questo, con i suoi magistrati, la plebe mantenente sul dignitario separato, con tradizioni religiose, divinità e templi suoi propri. Fino addirittura di identificarsi con una sfera territoriale al di fuori del recinto sacrale della città: l'Aventino. La sua posizione tuttavia conobbe un progressivo consolidamento che permise di superare ben presto una strategia meramente difensiva. Già verso la metà del secolo si ebbero i primi sostanziali passi in avanti nella lotta per la parificazione politica sociale dei due ottimi e, con essa, di un mutamento complessivo dell'assetto cittadino. 3. Le XII Tavole Nella memoria degli antichi, un punto di svolta nelle vicende del V secolo a.C., è costituito dal successo plebeo nell'ottenere la redazione scritta del corpo di regole che presiedeva alla vita della città. In tal modo infatti veniva meno il monopolio della conoscenza delle interpretazione del diritto cittadino sinora esercitato dal corpo aristocratico dei pontefici. Questa grande innovazione avvenne quando il capo dell'autorevole gens Claudia, Appio, si schierò a favore di tale richiesta, assumendo una funzione centrale nel nuovo processo legislativo. Per l'anno 451-450 a.C. al posto della normale coppia consolare si provvide così ad istituire un collegio di 10 membri, con il compito, oltre l'ordinario governo della città, di leges scribere, di redigere per iscritto le leggi della comunità cittadina. Appio Claudio fu chiamato presiederlo. In questa svolta giocava innanzitutto 1+ matura aspirazione a quella certezza che sono la norma scritta può dare rispetto formule di carattere consuetudinario che appare costantemente riproporsi nel corso della storia. Inoltre, la preminenza originaria dei mores ancestrali, affidati a sapere alla memoria degli specialisti, si sostituiva l'idea della centralità della legge scritta, formalmente approvata dalla comunità politica. Un'idea affine alle concezioni proprie del mondo greco cui, non a caso, la tradizione antica ricollegava la stessa redazione delle XII Tavole. Il valore irreversibile del testo scritto di una legge uguale per tutti cittadini accessibile a tutti fatti, di per sé, una nozione nuova nell'esperienza romana. Ai 10 membri del collegio furono attribuiti poteri assoluti sottratti alla provocatio che limitava invece l'imperium dei magistrati ordinari. Il che ci permette di immaginare che il decemvirato, pur all'origine finalizzato alla redazione delle leggi, tendesse ad assumere un significato più ampio di organo generale di governo della città e delle sue leggi. Non solo esso sostituiva la coppia consolare, ma comportava anche la sospensione di ogni altra magistratura, compresi tribuni della plebe. Si adombrava l'unità di governo che, con l'ammissione anche di plebei in questo collegio, allorché esso venne rinnovato per un nuovo anno, realizzava la sostanziale parificazione politica dei due ordini. Il collegio fu rieletto per il secondo anno, onde completare la redazione delle XII Tavole, sempre presieduto da Appio Claudio ma integrato da elementi plebei. Questa importante svolta a favore della plebe, rese incomprensibile la fisionomia tirannica e antiplebea attribuite dagli antichi ai nuovi decemviri , ed ora, anche allo stesso Claudio. Come era avvenuto già nel caso dell'espulsione dei Tarquini da Roma, anche la crisi del decemvirato con la correlata espulsione del decemviro Appio Claudio da Roma è legata alla violenza da questi arrecata ad una fanciulla plebea, Virginia. Ma anche in tal caso la vicenda romanzesca copre una crisi politica. L'autore crede opportuno concentrarsi sul nucleo di verità che può celarsi dietro la caduta di Claudio. Che, ancora una volta crede si possa cercare in uno degli elementi caratteristici della rappresentazione che la parte aristocratica sempre dato della libertas repubblicana. Questa non assume connotazioni di carattere democratico, non è una libertas di tutti, ma di una consorteria aristocratica: è fondata sull'eguaglianza di pochi. Le personalità che in qualche modo tendono a sottrarsi alla compattezza del sistema aristocratico, fin dall'inizio della storia repubblicana, sono sempre indicate con carattere di tiranni. L'oligarchia al potere imputa loro la massima colpa verso la libertas repubblicana: l'aspirazione ad un potere assoluto, l’adfectatio regni. Sarà questo lo strumento per colpire ogni personalità che devii eccessivamente dalla lealtà verso il gruppo dirigente. Da Spurio Cassio ad Appio Claudio, dalle tragiche grandiose figure dei Gracchi, fino a Giulio Cesare, assistiamo alla costante ripetizione di tale accusa da parte di un'aristocrazia, sempre mutevole nella sua composizione interna, ma dominata da una logica sempre uguale. Le XII Tavole costituirono il grande nuovo corpo legislativo che costituì da allora il fondamento del ius civile: il diritto della città, identificandosi in pratica con esso. Malgrado il loro valore fondativo, era chiaro che non tutto il diritto vigente in Roma era stato in essere riportato. È questo, del resto che sconsiglia di applicare il termine "codice" a tale raccolta, che esso difficilmente può spogliarsi del significato assunto a partire dal tardo settecento europeo: raccolta normativa che tende a rinchiudere tutto il diritto vigente, almeno per quanto concerne un certo settore della vita giuridica. La maggior parte delle norme contenute nelle XII Tavole invece presuppone altri segmenti del diritto che avesse preesistono e su cui esse si innestano, modificandoli eventualmente. E questi segmenti altro non sono che i mores ancestrali. Ma era anche altrettanto evidente che le regole in seguito applicate dai magistrati giusdicenti, che continuarono a utilizzare la consulenza dei pontefici, non si limitarono certo l'originario dettato dei decemviri. La loro portata effettiva si tende infatti modificando nel corso del tempo ad opera dell'interpretatio, dei pontefici prima, dei giuristi laici in seguito. Non verrà mai meno l'importanza anche ideologica di tale legislazione cui nei secoli successivi ci si chiamerà, non solo per le sue norme specifiche, ma per il suo valore generale di riferimento all'ordinamento giuridico romano. Con il 449 avanti Cristo tuttavia nuovi vincoli confini più precisi furono posti ad antiche pratiche. Le libertà dei pontefici di conservare, o eventualmente modificare le antiche tradizioni secondo la sapienza esoterica sottratta ogni controllo esterno, conobbe ora un limite evidente. Almeno per quanto riguarda l'aspetto formale, ogni cittadino fu in grado di sapere quale fosse il diritto della città. Egualmente le capacità di modificaree di innovare attraverso provvedimenti legislativi, trova un punto di partenza è un ovvio elemento di condizionamento in un diritto certo, redatto per iscritto, noto e controllato da tutta la comunità. L'essere che conosciamo solo in parte e in modo frammentario il contenuto delle XII Tavole possiamo ricostruire i caratteri di fondo di tale legislazione, sottolineando come concernesse essenzialmente il processo civile il sistema dei diritti privati che attengono ai rapporti tra cittadini. Questa raccolta che fa da spartiacque tra vecchio e nuovo, raccoglie gli antichi mores e le nuove regole introdotte dai decemviri. Di qui la coesistenza di molte regole arcaiche di principi e meccanismi innovativi che sembrano allora affiorare per la prima volta nell'esperienza giuridica romana. Il primo aspetto, che ci riporta epoca talvolta ben più antica delle XII Tavole, lo si può trovare nel sistema che regola le obbligazioni legali liberamente contratte tra i privati. Tali rapporti di sostanze in forme immediate o mediate di dipendenza personale: il debitore legato, sottoposto anche personalmente al potere del creditore. L'importante è quella del nexum, dove il termine latino evoca. Un legame materiale che vincola giuridicamente. La stessa logica arcaica la ritroviamo nell'insieme di vincoli personali derivanti dalle conseguenze di azioni dannose e illegittime. In essi infatti le forme primitive delle obbligazioni si saldano le forme se mi private delle sanzioni. Tuttavia, proprio in questo campo, già si introduce un elemento nuovo costituito dalla possibilità per le parti di un accordo privato e tra loro vincolante (un pacisci, da cui poi il pactum come fonte di obbligazione, che supera lo stadio della vendetta sancita peraltro nelle XII Tavole con la cosiddetta "legge del taglione") per giungere alla nozione capace di evolversi sino ai giorni nostri, di "transazione", di "accordo privato vincolante" e fonte, a sua volta, di un nuovo tipo di obbligazioni. Appare ancora poco sviluppato invece l'intervento diretto nella comunità a reprimere comportamenti illeciti dei singoli, regolati, più che attraverso la tutela fornita alla reazione delle parti di esse che non autonomamente dagli organi cittadini. Predecemvirale appare anche la fisionomia che caratterizza la struttura base dell'organizzazione sociale: la famiglia nucleare dominata dalla centralità del pater familias, unico titolare di diritti, legittimato la loro gestione. Un sistema alternativo di negativo di un possibile ruolo delle gentes come soggetto collettivo di diritti e poteri all'interno della città. Di contro, fu il sistema decemvirale a introdurre in seguito più o meno ampi correttivi fattori di elasticità alla pesante autorità del padre di famiglia. Li cogliamo nel meccanismo ideato per rompere la patria potestà del pater, mediante una particolare applicazione della mancipatio. Manco più importante appare il superamento del sistema oppressivo e rigidamente patriarcale costituito dal matrimonio cum manu che necessariamente assimilava la moglie alla condizione di una figlia di famiglia sottomessa la piena potestà del marito. Id di proprietà furono poi distinti in due diverse categorie, le res mancipi e nec mancipi, sottoposto ad un diverso regime di circolazione. Per le prime, in generale le cose più importanti in un'economia primitiva, anzitutto gli immobili, il trasferimento della proprietà era possibile attraverso l'impiego di una forma negoziale particolarmente solenne che coinvolgeva la presenza di una pluralità di testimoni: la mancipatio. Ma più interessante è la presenza dell'usus a sanare gli eventuali vizi intervenuti negli atti di trasferimento della proprietà stessa e, in particolare, della mancipatio. È questo un esempio molto importante delle innovazioni il quadro istituzionale della città repubblicana: le magistrature, il loro funzionamento le logiche di governo, si deve tener conto di una logica di fondo che sembra ispirarlo, rendendolo sostanzialmente estraneo alle nostre moderne idee in tema di costituzioni politiche. A qualificare l'assenza di una costituzione scritta, con quel tanto di di sistematico di coerente, giocava la natura delle singole leggi che, di volta in volta, avevano introdotto nuove figure di governo nuovi compiti regole per le magistrature già esistenti. Il carattere ellittico delle leggi arcaiche e alto-repubblicane, era imprecisa la portata specifica lo stesso contenuto, non indicando quasi mai le modalità e i criteri concreti per la loro applicazione. Di qui l'enorme importanza della successiva interpretazione delle prassi che erano venute regolando settori interi dell'apparato politico, senza od oltre la norma. Questa stessa articolazione dei criteri organizzativi rendeva poi possibili una successiva loro rimessa in questione: ci si poteva allontanare in certe circostanze dalle pratiche dalle regole senza che scattasse un'impossibilità assoluta. Di qui il paradosso romano di un insieme di regole, in genere seguite, all'improvviso e in certe condizioni, disattese. Parte dalla figura dei consoli introdotti all'inizio della Repubblica e riaffermati a regime e definitivamente solo nel 367 a.C., deve dire che questi erano una coppia di magistrati, al vertice dell'intero assetto di governo della città, cui era conferito il supremo potere di comando. Essere indicato come imperium mai più, in quanto superiore a quello di ogni altro magistrato. In alla collegialità, questa carica è caratterizzata dall'annualità. Come abbiamo visto l'antica figura del re presentava intimamente fusi in sé due fondamentali aspetti: un ruolo politico-militare e uno religioso che si esprimeva nella sua inauguratio, e nella legittimazione a interrogare la volontà di lei, mediante gli auspicia. Con la sua scomparsa i romani ne presentarono alcuni aspetti meramente religiosi in capo a quello che potremmo indicare come un fossile istituzionale: il rex sacrorum. La sopravvivenza, seppur ad sacra, dell'antico re all'interno del nuovo ordinamento repubblicano era necessitata dall'esigenza di scindere la figura inaugurata del re dal potere politico di cui è lì, sino ad allora, era stato il titolare supremo. Ulteriori conseguenze di tale processo era la rafforzata autonomia del governo cittadino dall'influenza delle forme religiose, così importanti invece nelle società orientali. Il titolare dell’imperium tende infatti quell'intimo rapporto con la sfera sacra che aveva invece caratterizzato il rex inauguratus delle origini, mentre relativo appare il peso dei sacerdoti e dei centri di culto sulla vita politica cittadina. Era tuttavia un aspetto della sfera religiosa che non poteva invece disgiungersi dalla vita politica militare: il potere-dovere di interrogare la volontà degli dei prima di intraprendere ogni azione pubblica. Di prendere cioè gli auspicia per cogliere il segno di questa volontà interpretarlo, ciò che veniva effettuato prima di una qualsiasi azione rilevante. L’imperium consolare era poi distinto, seconda che fosse esercitato all'interno del confine della città, orientate essenzialmente a governare la comunità politiche la vita dei suoi membri (imperium domi) o che senza stancarsi un comando militare, fuori dalla città (imperium militiae). Una serie di limitazioni introdotte gradualmente a circoscrivere l'efficacia dell'imperium domi nei riguardi dei cittadini non poteva infatti applicarsi si sarebbe applicato in dimensioni minori in relazione all’imperium militiae, al comando dell'esercito romano. Innanzitutto ci si deve riferire al diritto dei cittadini di appellarsi al popolo contro la repressione esercitata dai magistrati, manca il potere di veto esercitato dai tribuni della plebe. Questo non significa che consoli potessero anche decidere della guerra, essendo ciò di competenza dei comizi centuriati: era però loro compito provvedere all'arruolamento dei cittadini, previa decisione del Senato, e successivamente dirigere la campagna militare, anche qui con la supervisione del Senato, assicurando la disciplina dell'esercito. Di ciò il loro imperium militiae si spingeva fino al potere di mettere a morte propri soldati, in casi particolarmente gravi. Occorreva il parere di un consilium magistratuale, ma le procedure erano piuttosto sommaria; in seguito tuttavia le garanzie a favore dei cittadini vennero estesi anche nei riguardi del comando militare esercitato fuori dal pomerium. Ai fini militari il console avevano altresì il compito di imporre dei tributi cittadini per sostenere le spese di guerra. L'Inter della città ai consoli era riconosciuto sin dall'inizio un duplice potere: ius agendi cum populo e ius agendi cum patribus. Da una parte c'è il potere di convocare i comizi centuriati, sia al fine di proporre l'approvazione di nuove leggi, che di far eleggere i magistrati, procedendo quindi alla proclamazione degli eletti. In questo caso, essi, d'intesa con il Senato, presentavano i comizi liste preselezionate e circoscritte di candidati. L'altra facoltà era quella di chiedere il parere del Senato, avendolo convocato su problemi di particolare rilievo relativi al governo della città, soprattutto per quanto concerne la politica estera, la politica monetaria ogni materia di carattere religioso. Altri poteri dei consoli, tanto la politica tributaria, consistevano nella gestione del tesoro pubblico, sotto il controllo del Senato con l'ausilio dei questori, nell'amministrazione delle tre repubbliche, nell'intervallo tra due censure successive. Accanto ad un'ampia sfera di competenza nel campo della repressione criminale, i consoli o i tribuni militum consulari potestate, ebbero, sino alla creazione del pretore, anche la giurisdizione sulle controversie private dei cittadini. Si tratta in effetti di un insieme di competenze che per certi versi costituisce la chiave di volta degli equilibri repubblicani: da una parte infatti ha un'ampia quota dei poteri sovrani di delibera e di orientamento appartiene al Senato e ai comizi, ma è indubbio che senza l'iniziativa di uno dei due titolari dell'imperium questi organi non possano svolgere il loro ruolo essendone esclusa l'autoconvocazione. Da qui si evidenzia l'intreccio l'indispensabile cooperazione tra titolari di poteri diversi che l'ordinamento politico romano postulava. L'accento su carattere collegiale di tale magistratura rendeva inevitabile che la sfera di competenze corrispondente all'imperium fosse riconosciuta totalmente ciascuno dei due magistrati. L'unico limite che ne derivava era dato dagli identici poteri in capo all'altro console. Era un limite serio, in verità, perché significava che ciascuno dei due aveva il potere di paralizzare qualsiasi attività del collega con quel singolare strumento che abbiamo già incontrato con i tribuni della plebe, costituito dall'Intercessio. Una facoltà che i consoli potevano esercitare anche verso qualsiasi altro magistrato cittadino, ad eccezione del dittatore (la cui presenza comunque in origine era alternativa la loro persistenza in carica). Un sistema del genere rendeva possibile però l'esplosione di crisi non risolvibili all'interno della dinamica delle magistrature stesse. Crisi tanto più gravi ove fossero intervenute in tempo di guerra dove, il comando militare era indiviso, rendendo così possibili interferenze ancora più gravi, fino a paralizzare la gestione efficace di una campagna militare. Solo in via empirica si cercò di ovviare a tali inconvenienti dividendo in pratica le competenze lasciando ciascun console gestire in modo relativamente autonomo certi settori della cosa pubblica. Ma la vietava che entrambi i consoli si ponessero la testa della stessa armata romana, sino a dover governare un giorno per uno. Nel corso del tempo l'ambito di competenza assegnate, con la regia del Senato, a ciascuno dei due consoli si definì il modo più netto. Esso venne indicato con il termine provincia, che poi sarebbe passato di indicare l'oggetto primario dell'imperium magistratuale. La titolarità dell'intercessio da parte dei consoli nei riguardi degli altri magistrati sanciva anche formalmente il carattere gerarchico dell'ordinamento delle magistrature repubblicane. Come imperium consolare derivava direttamente dal potere del re, ugualmente la simbologia adesso relativa, introdotta dai re etruschi, trasmise intatta i consoli: il colore porpora dei bordi della loro tunica, il particolare seggio magistratuale e soprattutto i littori: le guardie del corpo munite dei fasci e delle scuri, evocatrice del loro potere di repressione, sino alla condanna a morte del colpevole. Tuttavia, in considerazione della provocatio nella vita civile, la scure avrebbe accompagnato il console solo nelle campagne militari. Altro aspetto fondamentale di questa figura è l'inviolabilità della persona del magistrato contro cui non può essere portata, durante l'anno in carica, alcuna azione materiale e neppure una pretesa legale. Agli inizi della Repubblica, i romani, sospendendo il funzionamento delle cariche ordinarie, potevano ricorrere, in situazioni di particolare pericolo, ad una magistratura straordinaria: la dittatura. Il dittatore era unico, essendo titolari di un imperium che, almeno in origine era più forte concentrato di quello dei consoli, in ragione dell’eccezionalità del provvedimento e del suo carattere di emergenza. L'attore non era eletto ma nominato da uno dei consoli con l'accordo del collega del Senato. Egli non aveva in origine alcuna di quelle limitazioni che la libertas repubblicana aveva introdotto nei riguardi dei magistrati ordinari. La nomina del dittatore mirava dapprima a far fronte a gravi crisi di carattere militare aveva essenzialmente funzioni di difesa da pericoli esterni. La prova non solo la sua derivazione dalla figura del magister populi, il comandante dell'esercito dell'età monarchica, non a caso chiamato nominare anch'egli un suo magister equtum, ma anche il fatto che la carica non durasse oltre sei mesi delle antiche campagne militari che si svolgevano essenzialmente nel periodo estivo. Questo carattere non verrà meno (anche se in seguito le competenze del dittatore s'ampliarono) gli aspetti più immediatamente militari del governo della Repubblica, quelli religiosi politici. 2. Il pretore e le altre magistrature Sotto il consoli, sin dall'inizio, fu introdotta una serie di collaboratori civili e militari. Più rilevante, destinata a giocare un ruolo di primaria importanza nella storia giuridica romana, è senz'altro il pretore, cui era deferita la giurisdizione sui processi tre privati. Costui era, come consoli, titolare del supremo potere di comando, l'imperium, ma gerarchicamente inferiore ad essi: esposto quindi alla loro intercessio, incapace però di interporre contro di loro la propria. Il meno anche su imperium lo legittimava, se necessario, ad esercitare il comando militare, guidando gli eserciti romani fuori del confine sacro della città, ciò che avvenne abbastanza di frequente, dati crescenti impegni militari di Roma e il moltiplicarsi degli scenari di guerra. La fonte primaria del pretore è riferita essenzialmente la sfera processuale ed è per questo indicata con un termine specifico: "iurisdictio", dare il diritto. L'autonoma definizione dei compiti giurisdizionali attribuiti a questa carica sottolinea lo sviluppo che va oltre la mera dialettica tra la legge, esaltata dal valore di riferimento delle 12 tavole, la persistenza dei mores e l'interpretazione pontificale. La redazione del pretore si sviluppò in parallelo a questi altri segmenti dell'esperienza giuridica romana. La sua iurisdictio si sostanziò essenzialmente nel controllo delle procedure nella verifica della legittimità delle pretese in conformità quello che era il diritto vigente. Nell'esercizio di questa sua competenza si dovette precocemente verificare un fenomeno gravido di conseguenze che avrebbe reso possibile una straordinaria evoluzione e maturazione delle forme processuali e giuridiche romane: la separazione tra il ruolo del magistrato e la valutazione delle specifiche circostanze oggetto della controversia sottoposta dai privati. Nel processuali, divisa in due fasi, la sentenza che decideva della calza era lasciata ad un giudice privato, in base all'accertamento dei fatti materiali addotti dalle parti, il cui inquadramento nell'ambito degli schemi giuridici, non era di sua competenza. La scissione in due fasi del processo romano evidenziava infatti la presenza di due convergenti meccanismi: l'accertamento dei fatti materiali cui si riferiva il litigio processuale ed il loro inquadramento all'interno del sistema di regole proprie del diritto romano. Tale scissione era destinata a facilitare una sempre più autonoma elaborazione delle categorie giuridiche di riferimento da parte del magistrato. Ad una condizione, tuttavia, che si superasse la rigidità dell'età arcaiche forme processuali per legis actiones. Con esse infatti lo Stato formalismo del comportamento dei litiganti, la rigida predeterminazione delle pretese adducibili in giudizio e la fissità delle formule che le parti del magistrato dovevano recitare, lasciavano poco spazio suo ruolo giurisdizionale. E qui dunque intervenne un'innovazione di grande rilievo, allorché il pretore stesse la forza del suo imperium all'interno del processo (a partire dalla seconda metà del terzo secolo). Negli istituzionali del 367 a.C. il sistema di governo della città è costituito da un gruppo di magistrature superiori, rappresentato dai censori, e delle altre magistrature cum imperio: i Solo quando il plebei iniziarono ad essere ammessi gradualmente le magistrature superiori, cum imperio, come nei ranghi del Senato si allargarono ricomprendere, accanto ai membri delle antiche gentes patrizie, anche i magistrati di rango plebeo, arruolati (conscripti) per la prima volta in tale organismo. Da allora la perifrasi "patres conscripti" indicherà il Senato nella sua pienezza. Al Senato sono alcune funzioni esclusive: anzitutto quella di approvare, integrandone l'efficacia con la propria auctoritas, ed è comizi in tema di leggi. Nel corso del tempo, una serie di leggi stabilirono che quest'approvazione senatoria non dovesse confermare la delibera comiziale, ma intervenisse preventivamente, come autorizzazione dei vari magistrati a presentare una proposta ai comizi. Il mutamento aveva lo scopo di sottrarre la sovranità del comizio, nella formazione della legge, alla conferma da parte del Senato. Tuttavia il suo ruolo non fu cancellato, ma solo ridotto ad un filtro preventivo. La sua funzione di propulsore ed ispiratore dell'intera politica romana, nel corso di tutta la Repubblica, nonché il suo funzionamento come stanza di compensazione delle opposte linee politiche e di governo e delle tensioni sociali, trovarono un momento di particolare rilievo nell'assistenza e consulenza apprezzata all'azione di governo dei magistrati superiori. Consulenza non meramente facoltativa, giacché il consiglio non lasciava molti margini alla libertà d'azione del magistrato stesso. In settori (politica estera, scelta tra guerra e pace, problemi e affari di carattere religioso) si affermò la prassi consolidata che vincolava sostanzialmente l'azione del magistrato, prima, a chiedere il consulto del Senato e poi a seguirne l'orientamento. Con sua queste funzioni ed ugualmente carico di potere è l'altro privilegio riconosciutogli con la funzione di approvare la selezione dei candidati alle varie cariche magistratuali, effettuata dai magistrati in carica. In virtù della sua assoluta centralità politica nella Repubblica, il Senato appare in grado di assicurare un costante equilibrio dell'intero assetto delle magistrature romane. Si solo alla sua funzione di arbitro in rapporto alle possibili tensioni interne alla coppia consolare. Restava in tutta la sua originaria pienezza la forza del potere monarchico in capo i consoli, ma indebolita dalla loro collegialità. In questa prospettiva si coglie il carattere di fondo delle istituzioni politiche repubblicane, sino alla crisi che, dalla fine del II secolo a.C., avvierà il tramonto della libera RES PUBLICA. Si tratta di quello che potremmo definire il loro carattere "consociativo". Tanto la facilità dei reciproci veti all'interno delle magistrature collegiali, che il ruolo potenzialmente paralizzante del tribuno corrispondono ad una concezione secondo cui il potere politico e di governo non tendeva costruirsi sul criterio della maggioranza e sulla conseguente differenziazione di ruoli tra questa e la minoranza. Neppure le reciproche garanzie a favore di tutti gli elementi costitutivi della comunità politica si realizzarono secondo lo schema fondante della moderna sua attualità: la divisione dei poteri. Al contrario, il governo della comunità sempre richiesto una compartecipazione di tutti i soggetti politici nella gestione dei singoli centri del potere politico. Il comportamento dei consoli dunque restava profondamente condizionato dal loro collegamento con il Senato di cui non di rado facevano già parte è in cui sarebbero comunque rientrati. Da qui l'omogeneità dell'organizzazione magistratuale romana con la politica e gli interessi senatori. Un omogeneità destinata a persistere nel tempo e plasmare la fisionomia politica della città, anche se non mancano le eccezioni, molto significative, poi, con l'aggravarsi di compiti sempre più radicali nella compagine sociale cittadina, essa venne definitivamente meno. Quanto agli aspetti concreti del suo funzionamento dobbiamo ricordare che tale potente consesso non si poteva auto convocare, essendo questo compito affidato ai titolari del ius agendi cum patribus. La sua organizzazione interna funzionava secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex magistrati. La sua presidenza conseguentemente era affidata alle censore più anziano. Con il consolidarsi delle sue competenze nella politica estera, il Senato sia luogo il diritto di inviare ambasceria presso i popoli e le nazioni straniere onde trattare accordi e ogni questione di rilevanza internazionale. I personaggi prescelti per compiere tali missioni furono indicati come legati, i cui compiti erano predeterminati da un apposito senatoconsulto. Nella Repubblica e si erano scelti esclusivamente tre membri di questo consesso. 4. Il popolo e le leggi della città l'introduzione dei magistrati annuali, non inaugurati, postulava la loro elezione da parte della comunità cittadina, con un voto del popolo riunito in assemblea. La versione civile dell'antica organizzazione militare costituita dai comizi centuriati assolse tale funzione. In questa assemblea il peso dei cittadini era diseguale, in relazione al censo che all'età. In tali comizi le delibere erano assunte dalla maggioranza delle centurie che costituivano ciascuna un'unità di voto. Centurie delle prime classi, e all'interno di ciascuna classe quella dei seniores, erano meno affollate rispetto a quelle delle classi inferiori e a quelle degli iuniores è pertanto i loro membri avevano un peso politico maggiore. Per ciascuna classe sussisteva infatti un eguale numero di centurie comprensive di cittadini più giovani (18-45 anni) e di seniores (46-60 anni). Il passo ponderato maggiore degli anziani rispetto ai giovani, oltre che dei diritti rispetto ai poveri. Le 193 centurie non votavano contemporaneamente, ma secondo un ordine progressivo. In un momento della morale ed era raccolto da appositi funzionari, passò alla votazione scritta. D'altra parte si capisce che spesso le centurie dei cavalieri e quelle della prima classe, votando in modo uniforme, realizzassero da sole la maggioranza, tagliando fuori dalla decisione tutto il resto della popolazione. E poi, una volta raggiunta la maggioranza, la votazione finiva, le ultime centurie del comizio raramente riuscivano ad esprimere il loro voto. Dall'inizio della Repubblica non solo la nomina dei magistrati superiori, ma anche le delibere che riguardavano la vita della comunità dovette essere assunte da tali comizi. Non solo le grandi decisioni politiche, ma anche ogni altro atto che fosse vincolante per la città stessa: sin da allora concepito come la legge della città. Uno strumento così ingombrante e complesso e la stessa logica di democrazia diretta che ne è alla base, era impossibile fare di codesta assemblea un meccanismo atto a temperare il dispositivo delle singole leggi in funzione delle diverse esigenze ed opinioni. Il magistrato legittimato convocare i comizi, avendo individuato una data consentita dal calendario religioso e politico dalla città, con un certo anticipo doveva annunciare la convocazione, rendendo pubblica la sua proposta di legge. Da comizio convocato si svolge un dibattito su di essa per poi passare alla votazione che riguardava la proposta nella sua interezza. Poteva accettarla o respingerla, non essendo possibile introdurre emendamenti e modifiche al testo originario. Egualmente questa forma di democrazia limitata operava nell'elezione dei magistrati: i comizi erano chiamati a scegliere i nuovi magistrati all'interno di una ristrettissima rosa di nomi, selezionati dai magistrati uscenti con il consenso del Senato. L'organizzazione della plebe nella sua lotta politica ha le sue eccezioni erano avvenute nella forma di assemblee (concilia plebis), furono così integrati con la presenza anche dei patrizi e chiamati ad eleggere i magistrati minori, sine imperio, nonché ad assumere un ruolo sempre più importante nel processo legislativo romano. Il compito Patrizia-plebeo, esse infatti possibile riconoscimento del valore generale dei plebisciti. La tradizione fa risalire addirittura le leggi Valerie Orazie del 449 a.C. La parificazione dei plebisciti alle leggi comiziale. Ma è verosimile che questo processo sia stato realizzato in un momento successivo, attraverso due delibere comiziale: una delle leggi Publilie del 339 a.C. è la legge Ortensia de 186 a.C. Così, il più pesante apparato dei comizi centuria limitano le sue delibere agli aspetti più importanti della vita cittadina, in particolare l'elezione dei magistrati cum imperio. Nessuna meraviglia dunque che buona parte della legislazione romana, a partire dal secolo III, tasse da proposte dei tribuni. Il secolo che intercorre tra queste due leggi coincide con la piena integrazione dei due ordini e con il parziale mutamento di significato dello stesso tribolato della plebe, che da organo di parte e tendenzialmente agonistico il sistema delle magistrature ordinarie e del Senato, divenne elemento di un sistema politico unitario. Solamente il Senato potrà utilizzare l'azione di qualche tribuno proprio per osteggiare o paralizzare la condotta politica troppo indipendente, o considerata scorretta di qualche magistrato ordinario. Nelle XII Tavole si impone l'autonomia del processo legislativo il cui fondamento è direttamente riferito al popolo: conseguentemente ai comizi. Affiora qui un principio generale, poi temperato da altri criteri, con cui si esalta la centralità della legge e il potere sovrano dei comizi. Di fatto però questa stessa legislazione intervenne, nei secoli della Repubblica, sono molto limitatamente per modificare il diritto civile dei romani, e quando ciò avvenne, fu quasi sempre per una particolare rilevanza sociale o politica dell'argomento trattato o qualche specifica esigenza e difficoltà della pratica legale, superabile efficacemente solo in via legislativa. Il settore privilegiato dell'azione legislativa dei comizi appare piuttosto il diritto pubblico, dove si intervenne continuamente a correggere perfezionare il funzionamento della macchina politica e il sistema di governo della Repubblica. Vi fu larga prevalenza di leggi relative all'organizzazione cittadina, in particolare il vasto gruppo di provvedimenti relativi alle singole magistrature che non pigliavano o modificavano le competenze e il funzionamento e quelli volti a stabilire limiti ulteriori all'originaria configurazione dei poteri magistratuali. Ad esse si aggiunge un elevato numero di delibere relative alla dichiarazione di guerra e agli accordi internazionali, dove il popolo interveniva accanto al Senato. In questo ambito appaiono i provvedimenti relativi alla fondazione delle colonie, l'attribuzione degli statuti municipali, nonché alla concessione della cittadinanza romana a singoli stranieri o di intere comunità. Un altro importante gruppo di leggi appaiono i numerosi interventi in tema di debiti, volte a limitare i pesi gravanti sui debitori e l'usura, i divieti legislativi di eccessive spese di lusso è soprattutto la vasta e ripetuta legislazione agraria. Lo stesso carattere hanno poi le leggi degli ultimi secoli della Repubblica, che introducono le distribuzioni di grano la plebe a prezzi ridotti o gratuitamente. All'inizio di quest'attività comiziale si delineò un limite connaturato alla legislazione romana. Si tratta di una concezione delle norme giuridiche esistenti come valide perennemente e quindi non abrogarvi il espressamente. Solo molto raramente la sostituzione delle nuove regole alle antiche si accompagnava però all'esplicita obliterazione di quest'ultime: allora i romani parlavano di leges perfectae. La maggior parte delle leggi infatti conseguiva questo risultato indirettamente, rendendo impossibile, o troppo dannoso, per i privati il perseguimento delle antiche forme giuridiche ancora valide. 5. La sovranità del legislatore e i suoi limiti Con la Repubblica una nuova forma di illegalità si dovette imporre rispetto all'immagine primitiva del governo semidispotico del rex. Questa legalità si associa all'idea di un'eguaglianza dei cittadini di fronte alle norme della città: idea già predominante all'epoca delle XII Tavole e certo non esclusiva dei romani, ma anche alla crescente consapevolezza che l'esistenza della res publica poneva limiti ad ogni titolare dei segmenti di sovranità ripartiti tra gli organi della città. Vi erano alcuni principi, non sempre consacrati da norme di diritto positivo, che apparivano connaturati all'esistenza stessa della Repubblica. Tra essi va annoverato il modo fondante in cui era concepita la specifica libertà individuale e la garanzia personale del cittadino sancita dalle leggi Valerie Orazie. Egualmente un principio generale che regolava la legislazione romana concerneva il divieto di adottare norme di carattere singolare, non destinate a regolare una generalità di situazioni, ma volte a colpire specificamente una posizione individuale. Alla stessa logica si ispirava un'altra norma che escludeva la possibilità di legiferare a danno di specifiche persone, vietando di introdurre dei privilegi negativi. Egualmente, in seguito, si identificheranno delle norme di diritto particolare in deroga ai criteri generali della legislazione e del diritto. Il tratto con Cartagine sarà seguito, pochi anni dopo, da un ancor più importante patto d'alleanza fra romani e latini detto FOEDUS CASSIANUM. Il latino che si fosse trovato nei territori romani non solo veniva assimilato ai cittadini romani nella fruizione di tutto il diritto privato e della conseguente protezione processuale delle forme solenni del diritto romano, ma era anche ammesso a stringere validi rapporti matrimoniali con i romani. Questi meccanismi di assimilazione sono indicati dai romani con due espressioni tecniche: ius commercii e iua conubii (diritto di commercio e diritto di sposarsi). È un principio che funzionava in base alla reciprocità di comportamento di tutte le città della lega: come tutte le relazioni di carattere internazionale. In altre parole latini a Roma godevano di una condizione analoga a quella di romani che si fossero trovati nelle altre città dell'alleanza: una parziale assimilazione cittadini delle varie comunità. Non appartiene invece l'originario regime del FOEDUS CASSIANUM, il diritto di emigrare, che in seguito avrebbe legittimato i membri delle città della lega ad acquistare la cittadinanza di Roma, spostando la loro residenza in essa. L'unità politica ribadita dal trattato prevedeva tra l'altro la possibilità che l'insieme delle città della lega fondasse nuove colonie che sarebbero divenute se stesse nuovi membri dell'alleanza. Si trattava di una pratica comune a tutto il mondo delle poleis greco-italiche, in cui processi d'espansione avvenivano attraverso la fondazione di queste nuove città. Si trattava di piccole comunità semiurbane, create ex novo dalla città-madre e situati in punti strategicamente importanti, anche se sovente assai distanti dalla fondatrice. A differenza della colonizzazione greca in Italia, i vincoli tra le colonie e Roma restarono sempre strettissimi ed energico e costante, il controllo esercitato da questa su tutte le varie colonie, moltiplicatesi nel corso degli anni. Le singole città della lega, e in particolare Roma, aderendo a questa politica coloniale a Comune, non avevano comunque rinunciato al potere di fondare proprie colonie. La facoltà della lega latina di fondare sue colonie fu effettivamente esercitata nel corso del primo secolo dell'alleanza. Tuttavia, a partire dagli inizi del IV sec. a. C., con il crescente predominio di Roma, e sta di fatto si è proprio di tale potere, fondando autonomamente nuove colonie latine: ciò che divenne anche formalmente, sua esclusiva facoltà con lo scioglimento della lega nel 338 a.C. La folla di colonie latine, da parte di Roma, oltre ad assicurare il controllo di nuovi territori, servì a realizzare una politica demografica e, indirettamente economica. Essa infatti assicurarono l'alleggerimento demografico della popolazione sovrabbondante, rendendo possibile il conseguimento di una sempre rinnovata redistribuzione di terre, a vantaggio soprattutto dei ceti meno abbienti di Roma e delle città questa più strettamente collegate. Fu una politica che divenne uno strumento formidabile per rafforzare da accelerare la romanizzazione di tutta l'Italia ed in particolare di quelle aree di recente conquista che si prestavano grandi investimenti agrari. Tra le colonie romane e le colonie latine sussistevano tuttavia fondamentali differenze: la più evidente è la loro diversa condizione giuridica. La mia romane infatti non è una struttura istituzionale estranea a Roma, ma solo un suo segmento organizzativo, comprendente un certo numero di suoi cittadini che mantenevano lo statuto personale preesistente. Al contrario, la colonia latina era formalmente una comunità separata ed estranea a Roma, tanto che quei cittadini romani che avessero partecipato, come non è infrequente, la sua fondazione, diventandone membri, perdevano la loro cittadinanza d'origine acquistando la condizione giuridica di latini. La folla di una nuova colonia avveniva in genere sulla base di una delibera del senato e dell'approvazione dei comizi che stabilivano anche i magistrati incaricati delle procedure necessarie per la sua istituzione, dando istruzioni per l'emanazione dello statuto che avrebbe regolato, con una lex data, la vita e l'organizzazione interna. Dal quarto secolo avanti Cristo venne adottato dai romani il sistema di divisione dell'area della colonia in parcelle regolari e tutte della stessa misura. Sotto la guida dei magistrati incaricati delle operazioni di fondazione della colonia, appositi tecnici, gli agrimensori, avendo identificato un punto centrale, tracciavano due linee perpendicolari che venivano costituire gli assi centrali, chiamati cardo ed ecumano maggiore. Secondo lo schema tipico, la centuria consisterebbe in un’area di 200 iugeri: equivalente ai 100 heredia in lei. Da questo numero ideale parrebbe derivare quindi il suo nome. In Italia queste linee di divisione, cardi e decumani, chiamati dagli agrimensori anche genericamente limites, "confini", avevano una certa larghezza in modo da costituire vere e proprie strade rurali, realizzando un articolato reticolo stradale, atto ad assicurare a tutte le unità fondiarie l'accesso alle più grandi vie pubbliche. 3. La svolta del 338 a.C. e i nuovi statuti giuridici di Roma In genere Roma voltava le popolazioni sconfitte e sottomesse, sottraendo ad essere una parte del loro antico territorio. Era l'applicazione di un'idea diffusa in tutto il mondo antico che il vincitore avesse ogni potere sui vinti e quindi anche loro beni. In territori così acquisiti, da una parte restarono nella disponibilità dello Stato cittadino è costituirono il demanio dell'ager publicus, lasciato in varie forme allo sfruttamento dei privati, in genere dietro pagamento di un canone, dall'altra furono redistribuiti in proprietà privata ai cittadini romani, sia nelle forme di terre assegnate individualmente, sia mediante la fondazione di colonie. Ne ha conseguito l'incremento numerico delle tribù territoriali e una naturale espansione demografica. Diversa è che alle origini, le popolazioni delle città vinte non erano state assorbite all'interno della civitas romana: piuttosto erano rimaste entità più o meno subalterne, sovente vincolate formalmente da trattati di alleanza diseguale imposti da Roma. I riti di questa politica si erano visti proprio in occasione della conquista di Veio. Di una città così importante forte, Roma non aveva saputo far altro, una volta sconfitta, che distruggerla, disperdendone la popolazione. La drastica soluzione adottata da Roma per Veio, seppur giustificata dalla durata e dalla violenza dello scontro, appare abbastanza rozza, fino a far trapelare una certa impreparazione della vincitrice ad affacciarsi in modo adeguato sulla scena di una politica di più ampio respiro. Tuttavia pochi anni dopo essa avrebbe dimostrato una superiore capacità di governo delle molteplici comunità su cui, anche fuori del Lazio, si sarebbe stessa la sua egemonia. Capacità di cui colpisce anzitutto la ricchezza e la varietà delle soluzioni di volta in volta adottate, secondo una logica singolare, che da un lato esaltava, dall'altro in qualche modo trascendeva la dimensione propria della città-Stato che la costituzione del 367 aveva appena completato. Il FOEDUS CASSIANUM durato per circa un secolo e mezzo, era venuto meno nel 338 a.C. Allora infatti un'ultima e più pericolosa defezione dei latini dall'alleanza, si era conclusa con la definitiva vittoria militare dei romani. Di conseguenza il Senato di Roma, in virtù del potere assoluto del vincitore, definì allora, in modo affatto unilaterale, la situazione giuridica di ciascuna delle città vinte. Il carattere di questa delibera, anche se per diverse di esse lasciava sostanzialmente mutata la loro preesistente condizione, esprimeva la tiene definitiva assunzione, da parte di Roma, di un potere sovrano su tutte le antiche città della lega. Tuttavia esse, pur derivando ormai la loro condizione delle decisioni romane, continuarono a godere, fino all'eredità le trasformazioni intervenute con la concessione della cittadinanza romana tutti gli italici, nel corso del primo secolo a.C., di un'autonomia organizzativa interna non diversa da quella che avevano come Stati sovrani, prima del 338 a.C. per tutte le varie città laziali inumani unilateralmente bloccarono tutti i rapporti giuridici e istituzionali, per ostacolare qualsiasi ulteriore solidarietà che potesse nuovamente sfociare in un'alleanza antiromana. Roma si stava avviando divenire un'entità politica nuova cui facevano capo, in forma politicamente affatto subalterna, le città incorporate, pur gratificate di una vasta autonomia interna, che i vari tipi di colonia. L'ordine romano, fondato tuttora su una struttura politica cittadina, disponeva di una pluralità di statuti giuridici personali la cui convergenza unitaria appariva in sostanziale contrasto con il carattere proprio ciò che è, molto approssimativamente, si intende per città-Stato. Fino al 338 a.C., in linea di massima, appartenevano a Roma, sottoposti alla sua sovranità solo i cittadini romani: a partire da allora invece, Roma poté disporre anche di un altro statuto giuridico, quello di latino. Poteva trasformare un romano in latino, come nel caso della partecipazione di questi ad una colonia latina, e poteva disporre unilateralmente della condizione giuridica di questi stessi latini, ormai sui sudditi, modificandone il contenuto. La differenziata condizione dei latini prisci e coloniali, appare privilegiata all'interno della più vasta categoria dei peregrini. A parte la 338 a.C., il valore di quest'ultimo riferimento venga mutare: ad ora infatti esso aveva indicato il cittadino di una comunità sovrana estranea a Roma. Ora, anch'esso, egualmente col designare uno dei possibili statuti giuridici interni all'ordinamento sovrano romano e quindi alla sfera del suo potere. L'accesso facilitato alle forme alla tutela del diritto romano, nei rapporti dei latini con i romani, consacrato dal commercium e dal conubium, non significa che si fossero dissolti gli ordinamenti propri delle varie città latine. Questi continuarono a regolare la vita interna di tali comunità e le relazioni legali tra i loro cittadini. 4. La genesi del sistema municipale Con il generale provvedimento assunto dal Senato romano nel 338 a.C., dopo la vittoria sui latini e i loro alleati, i romani, oltre alle disposizioni che abbiamo fin qui considerato, avevano anche concesso ad alcune città vinte la loro piena cittadinanza. In alto i casi poli, invece di questa, avevano attribuito qualche comunità una cittadinanza romana "limitata": senza diritti politici. Si trattava di una figura giuridica particolare, introdotta già dai romani a favore della città etrusca di Cerveteri che aveva accolto il loro sacra al momento dell'incendio gallico. Nel caso i nuovi cittadini, iscritti in una delle antiche tribù territoriali romane divenivano cives, pienamente parificati sia sotto il profilo dei diritti privati che due ruoli pubblici e istituzionali, quali il voto nei comizi e la partecipazione agli impegni militari. I cives sine suffragio (cittadini senza diritti politici) restavano invece esclusi dalla partecipazione politica ed alla pari dignità militare, godendo solo della parificazione della sfera giuridica privata. Meritata gli stranieri gli alleati gratificati dal semplice ius commercii e dal ius conubii, i latini appartenenti alle città del Latium vetus, i membri delle nuove colonie latine, e i municipes sine suffragio o optimo iure sussistevano molteplici elementi comuni che avvicinavano queste diverse posizioni, senza tuttavia rendere identiche. Diversamente dal caso del conubium e del commercium, la concessione della civitas sine suffragio avrebbe comportato sempre l'assimilazione dello straniero così gratificato al romano: che le relazioni tra i due si svolgessero Roma che l'altra città. Dopo l'estensione della civitas sine suffragio da parte di Roma, nei rapporti tra gli abitanti di Cerveteri e i romani, questi si sarebbero avvalsi sempre e solo del diritto romano. E mente il cittadino di Cerveteri, così come il cittadino di Capua (due città con la civitas sine suffragio), nei loro reciproci rapporti, non applicheranno o l'altro dei loro diritti particolari, ma il Comune diritto romano. In modo, a partire dal terzo secolo avanti Cristo, il romano diventa progressivamente l'unico mezzo la complessiva circolazione culturale e sociale della penisola, assumendo la nuova funzione di generale collante nei rapporti tra i membri più comunità legate a Roma. L'essenza della cittadinanza non comportava più l'inglobamento fisico dei nuovi chives romani nella città di Roma: al contrario le varie città conservavano pienamente la loro identità materiale, sono divenute una frazione del popolo romano. Del resto per i municipi sine suffragio è da ritenersi che la loro estraneità alla sfera politica romana comportasse necessariamente la persistenza dell'originaria identità istituzionale, del tutto autonoma rispetto quella romana. Si disegnano così nel corso del tempo, un mosaico di innumerevoli centri urbani che vivevano di una loro vita autonoma e contemporaneamente erano anche parte di una città superiore enormemente dilatata, quale Roma. All'inizio in modo frammentario e apparentemente casuale, la sperimentazione di un nuovo assetto politico: l'organizzazione per municipi di Roma. Lo statuto giuridico delle terre dei municipi sine suffragio, diversamente da quello delle colonie latine, era retto dalle forme della proprietà privata, non identificabile tuttavia con il Rapporti di parentele e appartenenza gentilizia, legami di amicizia individuali e di gruppo e, soprattutto, vincoli clientelari costituivano in effetti, nel corso di tutta la storia romana, quei collanti su cui si fondava la politica e con cui si costruivano il consenso sociale e le fortune individuali. Da qui le tradizioni politiche a tutti note, come l’orientamento conservatore dei Fabi, legato ai valori agrari e cauto verso le nuove politiche imperialistiche, di contro il carattere avventuroso e capace di grandi aperture innovative dei Claudi. Un altro fondamentale di questa persistente forma gerarchica e dei ruoli ora delineati è rappresentato dalla clientela che costituisce un tipo di relazione straordinariamente diffusa nell’antichità, anche fuori di Roma. Più che di una clientela arcaica, si tratta di un reticolo di alleanze di rapporti di dipendenza di natura più complessa che corrisponde ad un sistema di ruoli: con la riaffermazione di forme di signoria aristocratica che si sostanziava nell’elargire protezione in tutte le forme ai ceti socialmente più deboli. Alle grandi famiglie e con riferimento alle personalità preminenti tra i vari padri, si venne costruendo così un reticolo di forme di lealtà subalterna destinata a riflettersi anche nel momento elettorale, a sostegno delle ambizioni dei disegni dei grandi. È in questo quadro di relazioni reciproche di scambio che, si inseriscono anche le carriere degli uomini nuovi. Molti di essi infatti, lungi dal farsi da soli, fruirono dei legami di protezione forniti loro dai vari gruppi nobiliari poi muovere i primi passi della loro carriera. La clientelari a Roma è importantissimo e lo dimostra il fatto che questo sistema di relazioni squilibrate non restò circoscritto solo ai rapporti sociali e politici cittadini. Su una logica non dissimile, infatti, secondo il tipo di relazioni funzionali alla costruzione dell’egemonia di Roma. È infatti un magistrato romano, con la sua vittoria militare, aveva ottenuto la resa di una città o di una popolazione, con il conseguente assoggettamento politico, e infine assumeva la protezione. Anzitutto facendosi intermediario fra gli interessi di questa comunità e supremo volere del Senato, cercando di ottenere da questo la sanzione definitiva dei provvedimenti da lui assunti nell’affermare la signoria romana e divenendo poi il referente costante per ogni richiesta che tale popolazione dovesse fare romani. Protezione politica dunque a fronte di un continuo supporto materiale a favore del patrono. Si creò così un singolare sistema di legami di dipendenza semiprivati, con una forte rilevanza politico-sociale, che a molti davano l’imparzialità dei neri effetti giuridici dati da Roma al mondo provinciale, mitigando altresì alcune asprezze di un governo che si veniva rivelando spesso abito e miope. 2. Gli sviluppi sociali tra il IV e III sec. a. C. La straordinaria spinta espansionistica, a partire dalla seconda metà del quarto secolo avanti Cristo, testimonia l’enorme importanza del ricompattamento politico-sociale intervenuto con le leggi Licinie Sestie. Lo scorcio del secolo fu soprattutto dominato dal conflitto con la popolazione militarmente più forte esistente allora in Italia, situata sugli altipiani appenninici tra l’attuale Abruzzo, il Molise, fino a lambire la Campania e la Basilicata: i sanniti. La tradizione militare macedone, illustrata dalla straordinaria avventura di Alessandro magno, di cui lo stesso Pirro, suo parente, era un importante rappresentante, non riuscì a prevalere sulle legioni romane. Fu l’ultimo ostacolo che si frapponeva ancora alla completa acquisizione dell’intero mezzogiorno d’Italia, con i suoi porti e le floride città mercantili di origine greca, nel dominio romano: un fatto compiuto già nel 272 a.C., con la caduta di Taranto. Queste ininterrotte felice politica espansionistica comportò un parallelo processo di crescita economica, incrementato dai bottini ricavati dalle ricche città della Magna Grecia e dalle ulteriori acquisizioni territoriali. Da sempre l’organizzazione statale romana si è venuta strutturando sulla base dei ruoli assorbenti attribuiti alle varie magistrature elettive ai loro diretti collaboratori, in un insieme di attività tutte o quasi di carattere gratuito: il vir bonus, il virtuoso cittadino dell’ideologia romana è colui che dedica i suoi sforzi a servire la patria, come il guerriero, poi nella vita politica della città. La novità di tale impegno e poi delle cariche politiche e presupponeva una selezione tra aspiranti in possesso di adeguati mezzi economici. Si è già detto come tale meccanismo favorisse il sostanziale monopolio delle cariche magistratuali da parte di una nobilitas relativamente ristretta, con il conseguente accumularsi di tradizioni e di competenze funzionali ettari ruoli. Un tocco laterale di questa connotazione aristocratica è costituito dal mancato sviluppo di un certo qualificato gli amministratori burocrati, pur essendo l’apparato statale chiamato a far fronte ad esigenze sempre più complesse. Non è un caso infatti che tutta la sempre più complessa organizzazione dell’apparato statale si fondasse su una struttura molto leggera, fatta di pochi collaboratori dei vari magistrati, da una vera e propria burocrazia che potesse funzionare in modo autonomo, pur sotto la guida di costoro. Tuttavia nuove molteplici esigenze si imponevano ad una macchina politico-amministrativa che iniziava ad avere un’importanza almeno regionale: si risolva ad una politica di opere pubbliche di dimensioni ormai imponenti, con la costruzione di edifici civili e religiosi della città, delle grandi strade militari, dei primi acquedotti. Ma si pensi anche ad un patrimonio pubblico, soprattutto nelle terre conquistate, sempre più vincente che doveva essere amministrato attraverso un complesso articolato sistema di concessioni e affittanza, nonché alla gestione di entrate finanziarie enormemente accresciute, anch’essa affidata in gran parte all’intermediazione privata, incline all’opera di rifornimento di attrezzatura di eserciti sempre più importanti. Sposta fu quella di scaricare tali funzioni all’esterno delle stesse strutture istituzionali della città. Gran parte degli aspetti significativi della vita finanziaria della gestione delle ricchezze e delle attività di interesse statale si realizzarono appartando privati imprenditori le attività ciò necessarie e lasciando a questi tutti vantaggi economici delle intermediazioni così richieste. Così lo sfruttamento delle tre repubbliche, non distribuite in proprietà privata, fu affidato ai privati, secondo modalità differenziate, ma in genere a fronte del pagamento di un canone periodico. La debolezza organizzativa dei magistrati responsabili della loro gestione, gran parte di tali terre non veniva direttamente assegnata alle miriadi di coltivatori di allevatori interessati al loro sfruttamento, ma concessa grandi mediatori, in grado di pagare le elevate somme richieste dai magistrati romani per aree assali ampie. Questi poi si dividevano tali estensioni di ager publicus, tra tutti i piccoli agricoltori interessati, lucrando la differenza, sovente assai elevata, tra la cifra globale da loro versata alle casse di Roma e canoni percepiti dai suoi conduttori. Il guadagno di rom era minore, ma si evitava tutto il lavoro e le funzioni di controllo che la ripartizione delle terre tra una molteplicità di coltivatori e allevatori avrebbe comportato e i costi a ciò connessi. Ma non è importante lo sviluppo delle opere pubbliche. La rete stradale che ebbe inizio con la via Appia, la fine del IV secolo, la costruzione dei primi acquedotti pubblici destinati a trasformare le condizioni materiali della città e la crescita degli edifici pubblici e dei templi, comportarono crescente livello di investimenti di opere. Anche questo settore si fondò su una delega alla gestione privata attraverso il consueto sistema degli appalti. Lo stesso sistema si applicò per l’organizzazione del vettovagliamento e delle strutture logistiche sostegno di eserciti impegnati sempre più a lungo in territori sempre più lontani da Roma. Tutto ciò fu possibile grazie alla precoce affermazione, in Roma, di un gruppo sociale relativamente articolato, distinto dalla nobiltà delle cariche, tutta orientata al governo della politica e agli impegni militari. Si trattava di individui provenienti dagli strati più ricchi della popolazione, gli equites, in grado di provvedere a loro spese alla costosa cavalcatura. Solo costoro erano i detentori dei capitali necessari a sopportare le imprese che sovente richiedevano forti anticipazioni finanziarie e un sistema di garanzie patrimoniali da fornire alle pubbliche autorità. Ma soprattutto avevano acquisito quella competenza e quella tecnologia finanziaria e imprenditoriale richiesta per far fronte ai compiti organi chiamati. Sottogruppo particolare di questo ceto di cavalieri e di appaltatori è rappresentato da indiscusso delle imposte, i publicani, così odiosamente richiamati in tante testimonianze antiche per il loro ruolo negativo è insostituibile insieme allo sfruttamento dei popoli provinciali. In genere la formazione di questi nuovi gruppi in e l’affermarsi delle connesse attività economiche viene collocato in un periodo successivo a quello cui considerato ma se il sistema non si fosse già avviato sin dalla fine del secolo considerato, ma non in grado di imponenti quantità di opere pubbliche e venne realizzata a partire dalla censura di Appio Claudio, nel 312 a.C. 3. Appio Claudio Cieco e gli inizi della modernizzazione È significativo della fedeltà alle tradizioni gentilizie e della conseguente continuità politica all'interno del ceto dirigente romano lo troviamo in un personaggio di grande rilievo: Appio Claudio discendente del famoso decemviro che ricoprì la censura nel 312 a.C. al secolo così ricco di mutamenti di aperture, gli sembrava emblematicamente segnare per più di un aspetto i nuovi orizzonti della scena politico-istituzionale romana. È lì, nella sua azione di governo, svolgeva un ruolo di innovazione e di modernizzazione del tutto in linea con le tradizioni familiari. Colpisce l'amplissimo spettro dei suoi interventi che vanno dalle strutture materiali della città sino al cuore dei processi culturali e tecnici. La più importante via di comunicazione costruita da Roma prende il suo nome, via Appia, dal personaggio che nella sua censura ne determinò la costruzione. Non si tratta solo di una grande opera pubblica e di comunicazione civile ma corrisponde innanzitutto ad un progetto politico militare di espansione verso la Magna Grecia, in un percorso che unisce Roma alla Campania, dirigendosi poi verso la Puglia, sino al grande porto di Brindisi: la porta verso la Grecia ed il Mediterraneo orientale. L'espansione verso l'Italia meridionale significava anche una scelta tra due alternative possibili che si ponevano ai romani: la mera fedeltà alla tradizionale politica di crescita territoriale e della ricchezza fondiaria, una nuova apertura verso gli orizzonti le possibilità che il contatto con il mondo mercantile della Magna Grecia rendeva possibile. Nella prima alternativa erano orientati soprattutto i gruppi più tradizionalisti i cui interessi erano puntati verso le ricche terre dell'Italia centrale e settentrionale. D'altra parte si apriva la possibilità di nuove aperture verso un'economia dominata dagli interessi commerciali e orientata verso i grandi traffici mediterranei, associata piuttosto le città e i porti della Magna Grecia, enti oltre che per i commerci e per l'agricoltura, per un ricco artigianato. L'esito finale di questa seconda prospettiva il mare con i suoi interessi mercantili e marinari delle città ivi situate. L'attesa di Appio Claudio verso gli aspetti mercantile finanziari e i ceti più direttamente ad essa collegati e anche alla base della riforma della composizione delle tribù che comportava la valutazione, accanto ai beni immobili, anche della ricchezza mobiliare per la distribuzione della cittadinanza. Un criterio che si sarebbe riflesso altresì sulla stratigrafia sociale dei comizi centuria. Questa radicale innovazione si associa ad un'altra novità introdotta con la sua censura: l'iscrizione tra i nuovi senatori di alcuni liberti. Fatto inaudito agli occhi dei romani, sulla cui veridicità del resto si può nutrire qualche dubbio. In ogni caso si trattò di riforme troppo radicali destinate ad avere vita breve perché negli anni successivi si ebbe la revoca sia dell'iscrizione delle tribù rustiche della turba dei non proprietari, ricondotti così all'interno delle sole quattro tribù urbane, sia la cancellazione degli ex schiavi fatti senatori. Quest'ultima vicenda comunque fa pensare ad una crescente importanza di ripartire l'economia mercantile romana. Malgrado questi temperamenti, l'azione di rinnovamento realizzata da appio, della cui fortissima personalità risuona chiaramente l'eco negli storici antichi, evidenzia una linea di continuità ideale con l'antico predecessore. A questi infatti risale un'iniziativa gravida di conseguenze intrapresa dal suo segretario e liberto Gneo Flavio. Flavia infatti nel 303 a.C., resi pubblici i calendari e formulari delle azioni processuali, permettendo a tutti concittadini di accedere direttamente alla conoscenza degli strumenti fondamentali per la tutela processuale dei loro diritti. Si tratta di un formidabile salto in avanti nel processo di diffusione delle conoscenze giuridiche. anche la carica di pontefici), iniziando una riflessione sistematica sulle norme, sugli istituti e sulle forme processuali. Si trattava di un lavoro a metà teorico e a metà pratico, che si aggiunse e poi si sostituì a quello dei pontefici nell'assistere e orientare i propri cittadini: consigliandoli sugli atti giuridici per stipulare, aiutandoli nell'interpretazione di situazioni legali oscure ed incerte, assistendoli negli eventuali litigi. I giuristi ricevevano nelle proprie abitazioni amici, clienti, ma anche estranei che necessitavano di un parere legale, l'argento consigli e assistenza. Gli incontri erano un aspetto della vita sociale e ovviamente erano pubblici: pubblici i consigli e le spiegazioni. Perciò intorno ai più brillanti e autorevoli tra questi specialisti, da cui si andava per un parere, ma anche per istruirsi, si costituì un pubblico di auditores. E tra costoro, nascevano interessi evocazioni, si formavano allievi che imparavano il modo di ragionare del giurista già affermato, comprendevano il procedimento utilizzato per giungere a certi risultati, acquisivano la conoscenza di tradizioni legali consolidate e di leggi. Diventavano insomma essi stessi nuovi giuristi. Nel tramonto della scienza pontificale dovette giocare un ruolo non marginale la progressiva diffusione della scrittura. Certo, essa risale già la Roma del IV secolo a.C., come pacifica la redazione scritta delle XII Tavole. Tuttavia la stessa formulazione delle norme in esse contenute, funzionale alla memorizzazione (Cicerone informa che i ragazzi dovevano imparare a memoria le intere XII Tavole), insieme all'accentuato ritualismo di tutte le più antiche forme giuridiche romane e all'insistita presenza di testimoni fa pensare più ad una durevole rilevanza dell'oralità che non all'uso di documenti scritti. Pertanto molti procedimenti e soluzioni perseguite dal pontefice, seppure schematicamente registrati in testi scritti, si fondavano in parte sgradevole del gruppo. Già nel III secolo a.C. intervenne un notevole ampliamento delle forme scritte: basti pensare all'inizio di una letteratura latina che queste presupponeva. E allora, in tale mutato contesto, che la nobilitas laica si impadronì di questa sfera del sapere pratico, iniziando a produrre testi scritti in cui si conservava la memoria dei casi e delle soluzioni già discusse e delle proposte avanzate dall'uno o dall'altro giurista. La raccolta di questi testi inizia così la circolare, contribuendo all'accumulazione di un sapere trasmesso nel corso delle generazioni con le inevitabili selezioni e ulteriori innovazioni. D'altra parte lo scritto, invece della sua memoria, favoriva anche una nuova articolazione del pensiero, la stesura di ragionamenti più complessi. Al carattere oracolare del parere pontificale si sostituì così la discussione di ragionamento di cui restava ricordo scritto. Si aprì allora la lunga strada della costruzione intellettuale di un sistema di governo dei rapporti sociali che ha impastato in sé la storia della civiltà europea. Fintanto che i primi erano stati i depositari anche della conoscenza delle norme, totale era la loro autorità nell'interpretare il contenuto e la portata di queste. Anche alla luce delle pratiche più tarde, pur presenti ancora nei turisti tardo repubblicani, è verosimile che il punto di partenza del loro lavoro consistesse nella determinazione precisa della portata delle antiche formule legislative negoziali. Anzitutto la comprensione e spiegazione del significato letterale delle parole in esse impiegate: interpretazione non facile, per l'oscurità della lingua arcaica di molte delle antiche norme, ma soprattutto non neutrale perché, in molti casi, attraverso nuovi modificati valori attribuiti al singolo vocabolo alla frase, si poteva rinnovarlo modificare il valore immediato e l'originaria portata della norma. Da questo punto di partenza il controllo pontificale si spinse più in là di quest’ambito allorché, molto liberamente con intelligenza creativa, in loro il contenuto ed estese o mutò l'ambito di applicazione dei singoli negozi dei vari istituti giuridici. Strumenti essenziali di questa prima fase dell'esperienza giuridica romana furono anzitutto l'utilizzazione su vasta scala delle finzioni giuridiche e dell'analogia. I risultati si realizzavano. Modificando consapevolmente il significato e la portata di un istituto per giungere a conseguenze del tutto diverse da quelle ordinarie. Si ebbe la distorsione consapevole dell'originaria finalità di antichi istituti per giungere a risultati nuovi. Ad esempio utilizzando il divieto di abusare del potere di vendita del figlio sancito dalle XII Tavole (che stabilivano un limite al numero di vendite effettuate da parte del pater, superato il quale costui perdeva la sua protestas sul figlio), per creare il nuovo istituto dell'emancipazione: una serie di vendite fittizie con cui il padre liberava volontariamente il figlio della sua protesta. Il collegio pontificale ugualmente deve anche essere intervenuta progettare la norma decemvirale che ammetteva la temporanea assenza della moglie dalla casa ma vitale, in modo da scindere un legittimo matrimonio, valido secondo il diritto civile, dal pesante potere patriarcale del marito, in origine indissolubile dal matrimonio stesso. Egualmente si finse di vendere un patrimonio, quando in verità si voleva lasciare il medesimo, dopo la proprie morte, ovviamente titolo gratuito, ad un successore: l'erede. In altri casi invece si trattava di utilizzare uno schema già esistente nell'esperienza giuridica romana per estenderne l'efficacia rispetto situazioni similari, anche se non originariamente prevista. Inoltre i pontefici allestivano farsi processi, concordati fra le parti, per giungere a conseguire una pluralità di risultati: dal trasferimento della proprietà, l'adozione di un figlio o alla liberazione di uno schiavo. Con la laicizzazione della scienza giuridica ben nemmeno l'originaria forza cogente del sapere pontificale che scioglieva difficoltà di dubbi, esprimendosi con soluzioni univoche e in forma definitiva. Proprio perché i pareri non provenivano più da una autorità unica ma da una molteplicità di individui appartenenti al ceto dei giuristi, prese forma una nuova fisionomia del diritto, concepito come ius controversum. Un diritto in cui l'effettiva portata e significato stesso delle regole, il suo funzionamento, non intendevano sostanziarsi in forma chiara e conclusiva, ma derivavano da un continuo sempre rinnovato dibattito tra gli specialisti. Prevalevano di volta in volta le idee e interpretazioni più convincenti, le soluzioni proposte dalla personalità più autorevole. Autorevolezza, del resto, determinati essenzialmente dal consenso degli altri giuristi e dall'opinione pubblica, secondo una logica destinata a persistere per tutta la restante età repubblicana e durante il principato. Certo, in tal modo, sussistevano margini relativamente ampi di incertezza circa le soluzioni di ciascun caso pratico è circa i criteri di comportamento che doveva assumere il cittadino sia in ordine ai possibili accordi e ai nuovi affari giuridici, sia intorno alla legittimità di una pretesa avanzata da lui o contro di lui, sia intorno alla sfera di poteri che i vari diritti di sua pertinenza gli poteva assicurare. In verità ciascuno doveva orientarsi rispetto ad un insieme di opinioni, talora piuttosto contraddittorie e quasi mai uniformi, sostenute dai giuristi in relazione alle varie questioni loro sottoposte. Questo è dunque il carattere controverso del diritto romano identificabile in un corpo di soluzioni adottate dai vari giuristi, in relazione ad un'infinità di casi, e nel corso di più generazioni. Certo, un'idea semplificata di certezza veniva così sacrificata a favore di una dialettica in incessante sviluppo. Questo, lungi dall'indebolire, accentuò il prestigio dei Giulio consulti, fondato sulla loro continua attenzione alla coerenza logica delle soluzioni adottate rispetto alle premesse, sul rigoroso rapporto tra la regola astratta e la portata precisa del caso da risolvere e soprattutto sull'ininterrotta verifica dei risultati di volta in volta conseguiti. Questo modo di lavorare riguardano essenzialmente problemi specifici, impegnandosi raramente in enunciazioni di carattere generale sulla base di presupposti teorici esplicitamente individuati. Sin dalla prima età di questa nuova fioritura scientifica si colgono gli inizi di una forza creativa che probabilmente non era stata così evidente forse neppure così presente, nella fase precedente. Si pensi alle prime generazioni di giuristi laici che vennero a creare, con la loro riflessione, nuovi istituti di diritto civile, nuove categorie di diritti e nuove relazioni, completamente al di fuori di ogni normativa legale è assolutamente estranei all'insieme di regole introdotte dalle XII Tavole. Questo del sempre stato il caso di rivoluzionario riconoscimento di situazioni giuridiche destinate a limitare l'antico diritto di proprietà e il cui contenuto consisteva in un insieme di facoltà per l'appunto inerente questa stessa proprietà. Riferendoci così all'usufrutto e alle servitù prediali, introdotti sicuramente tra la fine del III e la prima metà del II sec. a.C. e tutelate mediante actiones in rem. Si pensi inoltre al ruolo che questi giuristi dovettero giocare, insieme al pretore, nell'elaborare il nuovo sistema processuale destinato ad obliterare le antiche rigide legis actiones. Praticamente non vi è un campo in cui l'intervento dell'interpretazione della giurisprudenza laica non abbia rinnovato radicalmente, introducendo nuove regole istituti fondati appunto su null'altro autorità che il proprio prestigio. Per questo dobbiamo ricordare che, quando si parla di interpretazione dei giuristi romani, si usa un termine che nel suo significato corrente è ampiamente inadeguato a far cogliere appieno la forza creatrice di questo lavoro. Non tutti i pareri delle soluzioni già date e ricordate dalla stretta cerchia di giuristi erano di ugual valore. Il parere dell'uno pensava più che quello dell'altro giurista, la soluzione proposta da quello s'imponeva non solo per la sua intrinseca validità, ma anche per l'indefinibile e impalpabile, ma efficace, autorità del suo autore. Come in tutte le aristocrazie era un mondo di pari, quello dei giuristi, dove non esistevano gerarchie formali, non vi erano carriere interne, né valutazioni oggettive, concorsi, esami e quant'altro. Ma proprio per questo, si disegnavano in continuazione gerarchie, tanto più incisivo era l'effetto e l'influenza di ciascun giurista. Si primeggiava perché si era legittimati solo ed esclusivamente dai membri di questo gruppo ristretto, auto selezionato, e volontariamente coeso. E più il procedimento seguito dal uno dava luogo a risultati utili convincenti, più le sue successive soluzioni finivano con l'essere recepite per la vera autorità già conseguita, non di rado senza che si rendessero esplicite neppure le giustificazioni razionali che pur le avevano ispirate. 2. Il pretore e l'innovazione del processo civile Romano Sin dalla sua istituzione, il pretore, così come gli altri magistrati cum imperio, era caratterizzato da una forte autonomia rispetto all'ordinamento esistente. Carattere che si accentuò notevolmente allorché si modificarono i meccanismi che avevano presieduto sin dall'origine all'interpretazione all'applicazione del diritto vigente. Per diverso tempo si era posto un serio limita tuttavia questo processo innovativo: era rappresentato dalla rigidità e dal formalismo dell'antico processo romano per legis actiones. L'esistenza di circoscritti e predeterminati schemi verbali con cui si dovevano esprimere le pretese processuali bloccava l'ampliamento delle possibili pretese dei litiganti a situazioni non previste dalle forme arcaiche, vincolando la capacità innovativa della giurisprudenza e la libertà del pretore. D'altra parte non si deve dimenticare che, almeno sino alla seconda metà del III secolo a.C., egli avesse continuato ad avvalersi della consulenza di pontefici. La perdita dell'antico monopolio pontificale nella conoscenza nell'elaborazione del diritto, affermando di sapere giuridico più aperto dovette favorire il ruolo innovatore del pretore. Gli furono infatti forniti allora gli strumenti concettuali per costruire nuovi meccanismi processuali in grado di adeguare le antiche forme legali alle nuove esigenze economico-sociali e a più progrediti valori di equità. I limiti e le rigidità dell'antico processo civile vennero così progressivamente aggirati, fino alla definitiva obliterazione dell'antico sistema delle legis actiones. Era un rapporto stretto, questo, tre pretori e il nuovo ceto dei giuristi, giacché anche nel caso non infrequente in cui codesti magistrati fossero privi di specifiche competenze nel campo del diritto, e essi si avvalsero del loro consiglio ed assistenza. Del resto alcuni di questi giuristi dovettero assai di frequente far parte di quel consilium di cui il pretore, come ogni magistrato cum imperio, secondo la prassi romana, si avvaleva. Per questo Gaio poteva legittimamente annoverare i responsa dei prudentes, cioè l'insieme dei pareri dei giuristi, come una delle fonti del diritto romano: dei iura populi romani. Era infatti essenzialmente il consenso dei principali giuristi intorno all'esistenza di un dato istituto e alla sua disciplina, sancirne la legittimità. Così sono avvenute, negli ultimi due secoli della Repubblica, le grandi innovazioni e l'arricchimento di interi settori del diritto. Vi furono alcuni presupposti che contribuirono in modo determinante al superamento della situazione giuridica precedente. Infatti in quella fase di straordinaria crescita politico-militare di Roma che un numero sempre maggiore di stranieri, per i più diversi motivi, fu attratto in quella che ormai era diventata una delle principali città del Mediterraneo. La maggior parte di Questa vasta gamma di interventi non esprimeva certo un suo arbitrio personale. Piuttosto era qualcosa che era previsto e atteso. Il successore di un pretore che aveva bene amministrato la giustizia, ricevendo consenso dalla comunità, aveva interesse ad azzerare il già fatto: lo recepiva integralmente, modificando qualcosa che non andava, introducendo qualche altra novità che sembrava utile necessaria. Così l'editto del pretore, di anno in anno, veniva ripubblicato dal nuovo magistrato, conservandosi e completandosi nel tempo. Certo, potevano opporsi, l'pretore nel corso del suono di carica nuovi problemi non preventivamente previsti nel suo stesso editto e non regolati dall'antico ius civile. In tal caso egli poteva assumere qualche nuovo provvedimento con un decreto appositamente assunto. Questo, stavolta, se si fosse rivelata efficace, poteva successivamente essere inglobato organicamente nel nuovo editto emanato dal suo successore. Romani stranieri sapevano che, anche rispetto al diritto civile, le auto del pretore innovava nella sostanza e prevaleva, giacché, senza protezione processuale, il diritto in sé valeva poco, potrebbe realizzarsi solo per il buon cuore della controparte, non per la forza di una sentenza. Al sistema del diritto civile si venne così affermando nuovo sistema di regole che non potevano abrogare quello, ma che con quello coesistevano in modo sostanzialmente autonomo: il diritto pretorio, il IUS HONORARIUM. Pretore, anche altri magistrati aventi competenze giurisdizionali hanno emanato editti di un certo rilievo, anche se minore rispetto a quello pretorio, dell'evoluzione giuridica romana. Si tratta anzitutto degli edili curili che erano preposti al controllo dei mercati cittadini ed erano titolari di una limitata giurisdizione. In secondo luogo, dei governatori provinciali, chiamati ad amministrare la giustizia nelle loro province e che nel loro editto fissava i criteri cui si sarebbero ottenuti nel corso della loro carica. A partire dal II secolo a.C. sono ormai evidenti ideologiche parallele su cui si struttura l'intero ordinamento giuridico romano: da una parte il diritto di senso stretto (norme del diritto civile, esclusive dei cittadini romani) dall'altra il diritto onorario, non meno efficace ai fini pratici delle regole del diritto civile (fondato esclusivamente sul potere magistratuale dell'editto pretorio). Questa dicotomia resterà, seppure in condizioni profondamente mutate, per tutto il corso della vita del diritto romano, sia nella tarda Repubblica che nell'età del principato. Essendo il ruolo del pretore profondamente intrecciato a quello dei giuristi, si realizzò una struttura tra i due sistemi delle ius civile e dell'ius onorario. La sanzione processuale assicurata dal pretore, l'interpretazione giurisprudenziale delle regole del civile, elaborata dai giuristi, difficilmente avrebbe portato le profonde innovazioni effettivamente verificatesi. A lui infatti spettava l'onere di concedere una formula processuale attua recepire ora non escludere la soluzione del problema giuridico proposto dai giuristi. D'altra parte, non solo nella stessa elaborazione del contenuto dell'editto e nella concreta condotta processuale, l'azione dei magistrati, talora del tutto competenti in materia legale, assistita dai giuristi. Costoro vennero anche, se non soprattutto, operando nei riguardi del corpo normativo costituito dalle previsioni vitali, relative alle fattispecie variamente tutelati, lo stesso insieme di interpretazioni che già in relazione civile era divenuto il medium tra la domanda di giustizia della società e il diritto romano. 4. La scienza giuridica romana come sapere aristocratico Nel sottolineare la marginalità della legislazione comiziale rispetto all'evoluzione del sistema del diritto privato romano, si evidenzia come questo fosse sottratto al diretto intervento della comunità politica. Ciò significa che la maggior parte delle regole che disciplinavano la vita dei cittadini nella sfera giuridica privata non derivava da una delibera dell'assemblea cittadina. La legge, sia quella generale e fondante identificata nelle XII Tavole, sia la singola norma particolare era senz'altro fonte del diritto, concepita come vincolante per l'intera comunità. Ma accanto, si poneva l'interpretatio dei giuristi: senza di essa la norma sovente nel suo arcaismo anche linguistico, nella sua povertà strutturale e definitoria, sarebbe restata inoperante o avrebbe avuto ben altre e più circoscritte applicazioni. Il cittadino di fronte all'oscurità e genericità delle norme delle XII Tavole che lo interessava, di fronte allo schematismo di una legge successivamente votato dai comizi, dipendeva subito dalla mediazione autoritativa del sapere specialistico: quello dei pontefici prima e quello dei giuristi laici in seguito. In effetti la iurisdictio magistratuale e la legge comiziale intervenivano più in parallelo che con una funzione esplicitamente abrogativa del vecchio ordinamento. Ne conseguiva che l'unico fattore che poteva incidere direttamente sulla portata delle regole dell'ius civile era interpretatio dei giuristi. Interpretatio che non a caso è indicata come fonte autonoma di diritto. È sera pertanto l'unico strumento capace di penetrare più a fondo nel corpo duro dell'antica tradizione consolidatasi nella sacralità dell'ius civile. Un potere dunque assai grande che non era nelle mani del popolo adunato in comizio né affidato il potere sovrano del magistrato elettivo, ma delegato ad un corpo di sapienti. I saperi ed i poteri istituzionali che servivano a gestire controllare questi fondamentali aspetti della vita sociale e politica restarono per secoli esclusivamente nelle mani dell'aristocrazia romana. Sulla selezione delle magistrature repubblicane, in buona parte monopolizzati dalla nuova nobilitas si è già detto a ciò fa riscontro il fatto che la scienza giuridica si sia anch'essa identificate integralmente con questa stessa nobilitas. Come d'abitudine per questo tipo di aristocratici, l'attività (che i romani avevano riassunto con i tre parole: “cavere”, “agere” e “respondere”) da essa svolta al servizio dei cittadini era effettuata gratuitamente. Per allargare la cerchia di amici, alleati e clienti chiamata può in ausilio, al momento del voto elettorale, a supporto dei propri ruoli nella politica cittadina. Era questo un lavoro che non gli sembrava il cittadino di rango, anzi gli permetteva di eccellere tra i suoi pari, contribuendo a ridefinire gerarchie sociali e supremazia anche politiche. Il carattere schiavistico divenne un fattore di selezione sociale e di rafforzamento di quelle logiche gerarchiche con essenziali alle forme politico-sociali romane. Chi deve lavorare, come il piccolo mercante, come artigiano o quant'altro, per assicurare il proprio sostentamento e in partenza escluso dalla nobilitas. D'altra parte si preparava nel corso del III secolo a.C., a contatto con la Magna Grecia e poi direttamente con il mondo ellenistico, una rivoluzione negli orizzonti intellettuali: nuovi spazi si aprivano la classe dirigente romana e nuove occupazioni, purché gratuite. Lo studio della retorica greca fu essenziale per divenire un buon oratore, ma fu un sapere che secondò in profondità anche lo studio del diritto, permettendo di chiarire raffinare le tecniche argomentative che ne costituivano il corpo essenziale. Le grandi correnti filosofiche greche, anzitutto lo storicismo, contribuiranno infatti a dare una maggiore profondità di campo alla scienza giuridica, con una maggiore consapevolezza del suo significato nella costruzione della società umana. E questo studio, appunto, rientrava tra le attività che potevano essere esercitate senza disdoro dall'aristocrazia romana, divenendo uno strumento importante per la vera vocazione di un aristocratico, oltre alla guerra, che nel governo della città. La connotazione aristocratica della giurisprudenza repubblicana ha sicuramente contribuito a conferire carattere autoritativo ai responsa dai giuristi repubblicani. È vero che nel corso del I secolo d.C., la comunità dei giuristi mutò in parte la sua fisionomia, con la presenza di elementi provenienti dall'ordine equestre. Ma ciò corrispose il generale mutamento negli assetti sociali e al diverso ruolo che vennero allora assumendo gli stessi giuristi. Sempre più, con l'accrescersi della potenza di Roma, la fondamentale questione del controllo dell'organizzazione di un numero crescente di individui e realtà territoriali differenziate si impose al centro dell'attenzione della classe di governo, plasmando negli orientamenti. La forma del diritto divenne il sistema di coordinate che organizzò l'universo di riferimento e lo strumentario intellettuale di cui essersi avvalso in questa storia di successo. Esso fu lo strumento per determinare i confini entro cui ciascun potere pubblico al privato poteva allora doveva esercitarsi e per individuare quell'insieme di comportamenti che garantivano il godimento dei beni materiali, la loro circolazione il loro accrescimento. 5. La giurisprudenza dalle guerre annibaliche alla crisi della Repubblica Attraverso una consapevole propensione alla concettualizzazione si rivoluzionarono le categorie fondanti del diritto romano arcaico, costruendo i pilastri di quella che sarebbe stata la grande architettura del diritto romano nella sua età dell'oro: quel diritto romano che i nostri padri ispirandosi a una categoria soprattutto utilizzate nella storia dell'arte, definivano come "classico". Avvalendosi degli schemi elaborati dalla filosofia greca, i giuristi romani iniziarono a lavorare su sistemi classificatori mirando essenzialmente a distinguere e a raggruppare la molteplicità dei fatti giuridicamente rilevanti in base alla presenza meno di elementi comuni, assunti come criteri qualificanti. Tali raggruppamenti erano finalizzati anzitutto ad applicare al singolo caso una regola prevista per il intera classe di fatti in cui esso rientrava. Ad esempio su un cittadino si presentava davanti al magistrato afferrando l'uomo e affermando che era suo, il diritto messo in gioco variava solo in base alla qualificazione giuridica di questa persona. Se l'individuo che si affermava mio era indicato come schiavo, allora era una questione di proprietà, ma se si affermava che esso era il proprio figlio, allora la controversia non riguardava più la sfera della proprietà, ma gli statuti familiari. L'accresciuta circolazione delle conoscenze attraverso le opere dei giuristi favorì la conoscibilità delle soluzioni tecniche e delle interpretazioni antiche divenute vincolanti agli occhi dei giuristi e di coloro cui era affidata l'applicazione del diritto all'Roma. Ecco che la nobilitas senatoria ed il ceto equestre poterono far loro questo sapere. Attraverso questo insieme di riflessioni e di classificazioni si venne formando un sistema di regole categorie, organizzato secondo gli schemi della dialettica greca, per generi e specie. E allora che si definirono alcune delle strutture fondanti dello stesso sistema del diritto: la radicale distinzione tra rapporto obbligatorio diritti sulle cose, la fondamentale definizione della precisa fisionomia della proprietà, nettamente distinta dal possesso e a sua volta evidenziata dall'articolarsi dei diritti più limitati sulle cose e limitativi della stessa proprietà. Si trattò di acquisizioni destinate a costituire la base dei successivi sviluppi del diritto romano, che hanno altresì profondamente influenzato la scienza giuridica europea e i nostri diritti continentali, fino ai giorni nostri. Ed è allora che le strutture patriarcali si dissolsero rapidamente con l'articolarsi dei poteri del pater familias, con il riconoscimento di una forte autonomia legale patrimoniale della donna, anche a seguito del più recente tipo di matrimonio, introdotto dalla scienza pontificale, che escludeva la pienezza dei poteri del marito sulla sposa. Ma è soprattutto nel campo dei contratti che si introdusse il concetto rivoluzionario che un nuovo assetto legale, derivante da un accordo volto ad assicurare uno scambio di prestazioni tra due o più parti poteva divenire il contenuto unitario di una situazione giuridicamente protetta, generatrice di obblighi specifici a carico di ciascuno dei partecipanti all'accordo. Situazioni infinitamente lontana, nella sua ricchezza, dallo schematismo di un stipulatio o dell'antico mutuo da cui un obbligo specifico a carico dell'uno derivava esclusivamente da un fatto o da parole intercorse tra debitore creditore. Al contrario, i nuovi contratti consensuali, divennero il recipiente unitario e lo stereotipo in cui riversare un insieme di relazioni inerenti a processi anche economici di maggiore complessità. Delle prime opere scritte da più antichi giuristi agli inizi del II secolo a.C. va menzionata un'opera allora famosa, i TRIPERTITA di Sestio Elio Peto Cato, console nel 198 a.C. A questa fase fondatrice fece seguito la stagione più matura dove già la ricca messe di risultati conseguiti iniziò ad essere organizzata e sistemata: età tragica ma vitale delle guerre civili dominata dalle personalità di Quinto Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo. Il primo si staglia come l'autore di una prima generale organizzazione del sistema giuridico. Cicerone dice che egli fu il primo ad organizzare il diritto generatium secondo gli schemi che si sono ora esposti. Il grande giurista, che si colloca agli inizi dell'ultimo secolo della Repubblica, per molti versi presenta un aspetto ambivalente: pontefice è cultore del diritto sacro insieme a quello civile, egli presenta la tipica fisionomia aristocratica che giungeva sostanziarsi in una tradizione di studi e di specialissimi trasmessa di padre in figlio. Quinto infatti era figlio di un altro giurista molto di politico: lo strumento per la vittoria finale di Catone fu un processo criminale. L'autorità dell'Africano impedì che il processo fosse condotto a termine: ma la sua esposizione in questo affare col suo prestigio personale, avviando nel declino politico. Cosa non è di ciò egli addirittura lasciò Roma, ritirandosi in volontario esilio in Campania, nei suoi possedimenti presso Literno. Ed è di nota che Catone stesso era stato protetto dalla gens Fabia e aveva fatto i primi passi della sua carriera pubblica con il suo appoggio. I suo orientamento politico (conservatori agrari contro innovatori filomercantilisti) trasmesso verso il sistema dei lignaggi, parentele e clan gentilizi e delle connesse alleanze sociali e amicizie, si confermava come un carattere della tradizione politica romana. Il tram di Scipione e il recupero di attualità dell'aristocrazia senatoria emisero un riequilibrio della scena politica romana per tutto il II secolo: l'epoca della grande espansione imperialistica. Il dei poteri personali, di un crescente squilibrio generato dalla gloria militare era stato seminato e si accingeva ormai a dare frutti velenosi: si era aperta l'eredità di Annibale. In seguito, si introdussero ulteriori cautele e restrizioni nella carriera politica: la Lex Villia annalis, del 180 a.C., con cui si regolò l'età necessaria per presentarsi alle varie cariche, mentre si rafforzò il divieto di iterazione delle cariche e di continuazione per più anni di seguito nella medesima magistratura: dopo il terzo consolato di seguito di Marcello, nel 152 a.C. non vi furono più casi in cui non si rispettasse l'intervallo decennale tra un consolato e successivo, fino a cinque consecutivi consolati di Mario: ma con essi siamo già in piena crisi della Repubblica. 2. Il governo provinciale negli anni immediatamente successivi alla prima guerra punica, a seguito della sua vittoria e poi dei mutati equilibri del Mediterraneo occidentale, Roma era subentrata ai cartaginesi nel controllo di buona parte della Sicilia e della Sardegna. Queste acquisizioni territoriali trance marine furono indicate con il termine “provincia”: vocabolo che designava la sfera di competenza specifica riconosciuta d'un magistrato come imperio. Si trattava di organizzare un sistema di governo nuovo che non poteva e non intendeva ripetere, se non per alcuni aspetti, l'esperienza simile attrice che aveva e avrebbe continuato a caratterizzare il processo di romanizzazione dell'Italia. In effetti gli italici costituivano un'indispensabile retroterra, anzitutto demografico, del potere politico-militare romano: fornendo non solo contingenti militari importanti, ma anche supporti materiali ed economici. In ciò divergevano le nuove realtà provinciali, almeno per molto tempo, considerata anzitutto territori e popolazioni da sfruttare economicamente, non realtà da assorbire in un blocco politico unitario. I romani derivavano in buona parte il loro sistema organizzativo dai modelli ellenistici preesistenti. In particolare quelli adottati da Siracusa, splendida ed importante città greca della Sicilia, il cui tiranno, Gerone, dette il nome allo statuto generale applicato dai romani: la cosiddetta Lex Hieronica. In sostanza si derivò dai regni dell'oriente ellenistico l'idea che il monarca fosse anche il proprietario dell'intero territorio. Di conseguenza tutti coloro che avessero in qualche modo acquisite sfruttato le terre coltivabili, anzitutto i piccoli agricoltori, furono considerati come affittuari che dovevano pagare al sovrano un canone annuo. In Sicilia tutti gli agricoltori dovevano iscriversi inoltre in appositi registri, indicando la quantità di terra coltivata e il proprio nome, mentre le percezione della decima si sarebbe dovuto provvedere con il consueto sistema degli appalti. In generale quasi tutta la popolazione originaria della provincia era considerata come straniera, la mercé del popolo romano, in quanto non più appartenente ad una comunità sovrana e priva ormai di un suo proprio autonomo statuto giuridico (peregrini nullius civitatis). Anche nella realtà provinciale giocò tuttavia la sensibilità romana per il modello cittadino: dov'è romani, invece che a un mondo arretrato e dai caratteri rurali, si trovarono di fronte a città del sviluppate che richiamavano gli schemi loro propri della città-stato, esile potenziarono. Ciò avvenne seguendo schemi tra loro differenziati, concedendo sovente a queste lo statuto gratificante di città alleate (civitates foederatae), non di rado lasciando loro un'autonomia se mi sovrana (civitates sine foedere liberae), giungendo talora a esonerarle dagli oneri tributari in genere imposti loro (civitates liberae et immunes). In generale le città provinciali conservarono, entro il quadro di una più o meno ampia autonomia, le loro istituzioni e le loro leggi. Anche su questo il governatore provinciale aveva una funzione di supervisione, trovandosi quindi al vertice di un sistema composito in cui, ancora una volta, non una molteplicità di statuti giuridici, sia personali che territoriali veniva coesistere all'interno di un potere politico anche troppo fermamente esercitato. In generale queste città erano poi sottoposta ad un'imposizione tributaria indicata dai romani con il termine stipendio e specifici obblighi come quelli delle città libere siciliane, tenuta a vendere a Roma il loro frumento ad un prezzo politico della serie di rassegne di Cicerone contro Verre, il corrotto devastante governatore della Sicilia, risulta chiaro come codesto sistema potesse sfociare facilmente in una forma di sistematica oppressione per gli abitanti locali. L'alleanza tra l'avidità dei governatori romani gli appaltatori delle imposte, i publicani, comportò una pressione fiscale eccessiva tale da incidere negativamente sulle condizioni economiche di tali territori, soprattutto delle aree meno redditizie. I publicani infatti tendevano ad aumentare a dismisura la percentuale dei tributi commisurata la produzione agricola, andando molto al di là di quelli che erano criteri generali stabiliti da Roma e a cui, in teoria, gli stessi governatori avrebbero dovuto far riferimento. Costoro però invece di controllare il comportamento fraudolento illegale di questi intermediari, si associarono sovente ad essi nel taglieggiare le popolazioni sottoposte. Le due prime province, la Sicilia la Sardegna, furono affidate al governo di nuovi magistrati creati appositamente; poiché per esse era necessaria la presenza di un presidio militare che consolidasse le acquisizioni romane, si affida al governo di queste province a due nuovi pretori appositamente creati, richiedendosi l'esercizio dell'imperium. In seguito, col moltiplicarsi dei nuovi territori provinciali, i romani rinunciarono a moltiplicare in misura crescente numero dei magistrati ordinari: si aumentò dunque il numero dei titolari dell'imperium militiae, senza accrescere il numero di magistrati eletti annualmente dai comizi. La prorogatio imperii fu lo strumento utilizzato a tal fine. Al termine del suo anno di carica, ciascun console e ciascun pretore veniva inviato ad assumere il comando di una provincia, conservando l'imperium non più come magistrato ancora in carica, ma come pro-console o pro-pretore, fino a che lui stesso sarebbe stato rilevato da tale condizione del suo successore inviato dal Senato. La determinazione dei diversi magistrati destinati al governo delle varie province divennero effetti uno degli oggetti di maggior contessa competizione tra gli interessati è uno strumento di ulteriore potere nelle mani del Senato. Erano infatti province ricche e meno ricche, aree dove erano più facili le occasioni di arricchimento o di ulteriori glorie militari, magari a buon mercato, ed è difficile da controllare in cui l'impegno militare avrebbe sicuramente superato i vantaggi di facili vittorie e buoni bottini. Di qui la necessità di stabilire le destinazioni dei vari magistrati in modo relativamente imparziale: il che avvenne con l'assegnazione di queste già al momento dell'assunzione della carica magistratuale, mediante un sistema che sottraeva Senato l'arbitrio il potere di favorire gli amici svantaggiare i nemici. In linea di massima ogni provincia era retta da un particolare statuto, elaborato su incarico del Senato in base alle sue istruzioni, da 10 cittadini (decem legati) a ciò preposti all'atto di costituzione della provincia stessa. Una volta ratificato il loro operato dallo stesso Senato, il governatore provinciale emanava il suddetto statuto come lex data in virtù del suo imperium. Soppresse le preesistenti istituzioni politiche, e stralciando la posizione della civiltà che essa qui Roma avesse concesso l'autonomia e la libertà, in questo statuto si provvedeva a dividere il territorio provinciale in diversi distretti. Lo schema generale del governo provinciale prevedeva la presenza, accanto al governatore, di un gruppo di legati di rango senatorio inviati direttamente dal Senato, sotto di lui, di un questore con funzioni militari e finanziarie, ma a cui verranno affidati i più diversi incarichi. A questo vertice di governo si associava però la debolezza dell'apparato burocratico che avrebbe dovuto sopportarne l'azione. Che, tra l'altro, spiega due fenomeni di segno opposto: da una parte la persistente importanza dei centri urbani preesistenti nella provincia cui venivano deferite molte competenze in forma privata di autogoverno o di autonoma organizzazione della vita locale. Dall'altra la dilagante pericolosa presenza degli intermediari privati romani:i publicani. Il governatore era preposto al controllo del sistema giudiziario, con una competenza che si estendeva soprattutto tutte quelle comunità al di fuori degli ordinamenti cittadini è ormai prive di un loro proprio diritto cui fare riferimento. Di fatto le tradizioni locali continuarono ad essere praticate tutelate dai romani, ma la superiore titolarità del governatore abbia un processo di trasformazione verso un sistema in cui essere nere integrandosi e confondendosi con le forme più elementari e immediate del diritto romano. La repressione criminale discendeva invece dall'imperium militiae del governatore che in questo caso, almeno in linea generale, non s'arrestava neppure di fronte alle città autonome, mentre le città alleate in base a un trattato conservavano la loro autonomia giurisdizionale anche in questo settore. Se le malefatte di Verre in Sicilia fossero forse un po' fuori dal comune, si deve ricordare che il suo guaio non fu la generalizzata e amara protesta dei siciliani, alla scadenza della sua carica, nella possibile disapprovazione dell'aristocrazia politica romana, ma l'ambizione di un giovane oratore che voleva fermarsi in Roma e che trovò l'occasione di acquistare notorietà è successo. Senza Cicerone, gli amici di Verre avrebbero sicuramente evitato questo processo avesse luogo o finisse con una condanna. D'altra parte che la concussione e l'estorsione dei provinciali fosse molto diffusa lo prova la precoce approvazione, nel corso del II secolo, delle leggi de repetundis volte reprimere questo tipo di reati. Leggi, forse, per un certo tempo l'estate più sul piano delle buone intenzioni e delle minacce che effettivamente incisive sul comportamento degli interessati. Almeno sino a quando le giurie dei tribunali giudicanti furono composte da cittadini di rango senatorio: appartenenti cioè al gruppo sociale più coinvolto in siffatto tipo di reati. 3. L'ingresso della cultura ellenistica Gli anni in cui la vita politica e la società romana furono dominate dalla personalità di Publio Cornelio coincisero con un'accentuata tendenza ad impegnare la potenza romana nel mondo ellenistico. Proprio sotto il forte influsso di Scipione e dei suoi amici prese allora definitiva consistenza in Roma, quella fisionomia imperialistica della politica estera romana di cui si è già detto. Di fatto, verso la metà del II secolo a. C., non era pervenuta controllare l'intero bacino mediterraneo e insieme di quei regni ellenistici che avevano rappresentato il punto più elevato della civiltà antica e la massima concentrazione di ricchezze e di popoli. Il problema di fondo per Roma era rappresentato dallo squilibrio lei sfavorevole in termini di forza rappresentato dall'insieme dei regni asiatici rispetto le sue pur grandi potenzialità, consolidate dalla clamorosa vittoria su Cartagine. Il capolavoro politico romano fu quello di perseguire sistematicamente la divisione tra questi Stati, stringendo alleanze con gli uni e isolando l'altro, affrontando così separatamente, prima la macedonia, poi la Siria, definitivamente sconfitta già nel 188 a.C. La graduale trasformazione di queste grandi realtà in nuove province, la riduzione della stessa Grecia a realtà provinciale sono solo ulteriori conseguenze di un gioco già definitosi. Sono alcuni casi in cui il Senato romano preferì mantenere una parvenza di autonomia di tali Stati, queste vaste acquisizioni si sostanziano in un continuo incremento del numero di province direttamente governate dai magistrati romani. È allora che la classe dirigente, non solo imparò il greco come sua seconda lingua e, attraverso di esso, si accostò in tutti campi del sapere in cui Atene e la Grecia avevano raggiunto risultati insuperati e si educò ai canoni artistici letterari che la civiltà antica 5. La teoria della costituzione mista Polibio, grande intellettuale greco della metà del II secolo, si interrogò a fondo sui motivi dello straordinario successo politico di Roma. Un successo di cui egli era stato testimone da un osservatorio privilegiato visto che era stato al seguito di Scipione Emiliano, uno dei più grandi comandanti militari della metà del secolo, vincitore di Cartagine nella terza guerra punica. Il vantaggio di Roma consisterebbe, secondo politico, in un equilibrio difficile e sempre mutevole fra le tre forme di governo proprio delle società umane, già identificati dai filosofi greci: il governo monarchico, quello aristocratico e, infine, quello democratico. Selezionato il meglio di questi tre meccanismi di governo e avelli fusi in un disegno unitario sarebbe dunque la ragione ultima del successo romano: il potere monarchico, identificabile nella forza dei consoli, quello aristocratico nel ruolo del Senato e quello democratico nei comizi. Il legislativo restava di pertinenza del popolo, riunito nel comizio. Tuttavia questa funzione non poteva disgiungersi dal potere esecutivo proprio dei magistrati, senza le cui proposte, il popolo né avrebbe avuto da decidere alcunché e neppurw avrebbe potuto riunirsi. Resto gli stessi ordini del pretore, gli edicta, non assumevano in sé un valore legislativo introducendo nuove regole vincolanti per i cittadini? Il punto è che l'esperienza romana appare ispirata ad una logica diversa, in cui più che la divisione dei poteri, parrebbe giocare la confusione di più poteri nello stesso soggetto e, contemporaneamente, la cessione dello stesso tipo di potere tra soggetti diversi, chiamati ad operare insieme. Sia la collegialità dei magistrati, sia l'auctoritas del Senato nei riguardi dei comizi, sia l'interazione tra magistrati e Senato con i suoi consulta, sembrano elementi di un'architettura costruita per funzionare attraverso la cooperazione e l'integrazione, con il conseguente equilibrio derivante da tutto ciò. In altre parole l'equilibrio dell'architettura repubblicana non parrebbe essersi realizzato mediante un sistema di controlli e bilanciamenti reciproci per poter in grado di funzionare autonomamente, ma nessuno esaustivo della sfera della sovranità. Al contrario all'equilibrio parrebbe piuttosto derivato dal coinvolgimento di più titolari nell'attuazione dello stesso potere e dalla presenza di meccanismi che necessitavano la costante presenza di un sufficiente livello di consenso fra tutti i soggetti istituzionalmente rilevanti. Nelle romana su cui politico veniva riflettendo, ciascuno portatore di un potere originario finiva dunque col partecipare a ogni fondamentale espressione della sovranità, giacché era proprio questa condivisione del potere che impediva la degenerazione in senso unilaterale della costituzione mista. PARTE TERZA “Un'ambigua rivoluzione" CAPITOLO X “La prospettiva delle grandi riforme e la crisi della legge dirigente romana" 1. La rottura del patto Verso la metà del II secolo erano ormai evidenti alcuni fattori di crisi ingenerati dall'evoluzione della politica romana e dalle sue dimensioni imperiali, dove aspetti politici e problemi istituzionali si intrecciavano in modo indissolubile. Si evidenziava allora l'impressionante e sempre più accentuato squilibrio tra le dimensioni di Roma e del suo territorio e nel resto del mondo da essa dominato. Perché Roma aveva conservato la struttura e le istituzioni della tipica città-Stato dell'antichità classica. Tuttavia ormai i limiti di questa forma organizzativa apparivano incompatibili con la dimensione dei compiti derivanti dalla sua espansione. Il latino s'avviava ad essere ormai l'unico medium è linguistico della penisola, l'omogeneità politiche culturali è un fatto pressoché compiuto, gli interessi economici anche molto stretti, mentre poi il diritto romano era ormai divenuto lo strumento di comunicazione delle elitès locali. Il fulcro centrale dell'insieme di tensioni e di contraddizioni generate dal successo della politica romana appare, in ultima analisi, lo squilibrio tra una gigantesca concentrazione di privilegi di un gruppo sociale sempre più ristretto, e l'accumularsi dei costi crescenti gravanti su una base sociale sempre più ampia, in parte costituita dagli stessi cittadini romani e da tutti gli alleati italici. Era il pericolo di rottura di quel patto su cui si era fondata la stessa costruzione repubblicana, non solo infatti, mancava, sarebbe mancata lungo una risposta condivise ai problemi nuovi che la società e il ceto dirigente romano si trovavano ad affrontare. Era impossibile che la soluzione potesse scaturire da quelle consolidate tecniche di governo e da questa per istituzionale che la classe dirigente romana si è rafforzata. Il problema infatti non era disegnare un modello istituzionale: il sostanziale fallimento di tutti tentativi che si concentrarono su questo punto lo dimostra. Il problema di fondo era infatti costituito dallo scardinamento dell'architettura istituzionale e dal suo necessario fondamento in termini di potere di consenso pubblico: e questo non poteva essere risolto solo in termini istituzionali. Da parte di alcuni appariva possibile solo la fedeltà e la difesa delle vecchie tradizioni e di antiche gerarchie; mentre per altri, il sistema tradizionale non solo non reggeva più, ma era messo in crisi da vari fattori e squilibri. Il carattere pressoché insolubile della contraddizione che ne emergeva gramo le tradizionali divergenze all'interno del gruppo dirigente romano. Ed è la conquista del Mediterraneo occidentale, a partire dalla seconda metà del II secolo, e si esplosero che analizzandosi verso soluzioni diametralmente opposte. Di qui l'esplosione di un conflitto insanabile tra l'aspirazione ad una democrazia più radicale e la difesa di un principio aristocratico ancora forte, che rivendicava Senato l'antica, ma non più indiscussa, centralità. Le fazioni e i gruppi politici che avevano caratterizzato la vita della Repubblica si coagulano così in due grandi e contrastanti linee di tendenza: gli ottimati e i popolares. Allora la lotta politica, almeno per quanto concerne il carattere di queste forze antagonise si avvicina maggiormente alla nostra idea di partito come libera consociazione di individui legati da una comune simile visione della politica e degli obiettivi da conseguire. Sarà poi potere specifico della magistratura suprema, l'imperium legittimante al comando militare, l'altro elemento che entrerà in gioco. I processi ebbero altresì l'effetto di irrigidire pericolosamente antiche pratiche di governo, ed indurre i vari partiti ad approdare a meccanismi più o meno improvvisati che finivano col ledere, in modo talora assai grave, i delicati equilibri su cui si era fondato l'edificio repubblicano. Meccanismi a loro volta consolidati più attraverso pratiche continuamente di calibrate e delicati compromessi e non fondati su disegni definiti una volta per tutte. Questo è il caso del nuovo valore attribuito dal Senato i suoi consulta tradizionalmente approvati per guidare l'azione politica dei magistrati superiori. Divenuti nella forma del senatus consultum ultimum, un delicatissimo strumento istituzionale che permetteva, sulla base del solo giudizio del magistrato proponente e della connessa delibera sanatoria, di sospendere le ordinarie garanzie di libertà e di tutela giuridica per i cittadini. Nessun vincolo più si opponeva così all'azione dei consoli intrapresa per la salvezza della Repubblica. La prima sperimentazione di esso avvenne, come sovente accade, in seguito ad un falso allarme. Si tratta dell'invenzione di un complotto a danno del Senato e dei dirigenti romani, rappresentato da culti dionisiaci, di origine greca, ampiamente diffusi nella penisola già negli ultimi anni del III secolo a.C. Indubbiamente tenuti di religiosità come quello romano, fortemente istituzionale, non poteva esservi nulla di più estraneo che la forma mistico-è statica dell'abbandono al sacro e alla possessione divina perseguite da quest'altro tipo di culti. La paura pervase il senato di Roma, anche a seguito di delazioni di alcuni pentiti, inducendolo ad autorizzare, con formale delibera, il console ad una durissima repressione del culto, mettendo la morte di seguaci e intervenendo che lo stesso tipo di repressione fosse impartito in tutti i municipi e le colonie in tutte le altre città italiche alleate dei romani. Per la prima volta si esagerarono i supremi magistrati romani dal rispetto dei vincoli che la libertas repubblicana era venuta stringendo al loro imperium. Che questo provvedimento senatorio fosse carico di pericoli non oltre il tentativo di utilizzare successivamente questo stesso strumento nella lotta contro i Gracchi. 2. Tiberio Gracco e la distribuzione dell’ager publicus Verso la metà del II secolo, era fresca l'esaltazione di politico della costruzione istituzionale che aveva permesso a Roma di conseguire tali risultati, mentre nel suo gruppo dirigente affiorava invece la consapevolezza di una situazione sempre più critica. Già intorno al 140 a.C. si era tentato, pur senza successo, da parte degli ambienti politici vicino agli Scipioni di presentare una proposta di legge agraria che si aprisse la crescente situazione di impoverimento e di abbandono dei piccoli agricoltori. Contemporaneamente in Senato si dibatteva il problema della diminuita natalità della popolazione romana: una questione di grande importanza, se consideriamo come la disponibilità di un organico sufficiente di giovani fosse condizione per l'arruolamento di nuove leve per le legioni, la base del potere di Roma. In quello stesso lasso di tempo un giovane aristocratico, Tiberio Gracco (la cui madre, Cornelia, apparteneva all'illustre stirpe di Scipione l'Africano, direttamente imparentato con il suo insigne discendente Scipione Emiliano) trovava drammatica conferma di questa realtà. Attraversando l'etruria, l'antica e ricca terra quasi alle porte di Roma, egli infatti scopriva un paesaggio desolato, un deserto di uomini liberi che erano stati fondamento della gloria della forza di Roma che ora erano schiavi ammassati dai grandi proprietari a lavorare le loro vaste tenute. Fin dagli inizi del II secolo avanti Cristo era emersa la volontà di difendere il fondamento agrario della società romana, come attestato dall'azione politica di Catone dal suo stesso trattato De Agricoltura. Tra coloro che a lui si erano ispirati non a caso è da annoverarsi il padre dei due Gracchi, un onesto il valoroso magistrato romano. In oltre, sin da allora, si era cercato di rivitalizzare l'antica legislazione de modo agrorum risalenti addirittura le leggi Licinie Sestie con cui si stabiliva un limite ai possessi di terre pubbliche da parte di ciascun cittadino. Tale intervento aveva suscitato malumori tra le classi alte, che si aggravarono in seguito, quando un altro progetto di riforma agraria fu proposto da Gaio Lelio, amico degli Scipioni, probabilmente durante il suo consolato nel 140 a.C. Tuttavia di fronte alla dura reazione dei ricchi, Lelio aveva precipitosamente fatto marcia indietro, lasciando così ulteriormente aggravare un problema che minacciava le strutture stesse della Repubblica. Nel 133 a.C. Tiberio inizia la sua carriera facendosi eleggere al tribolato della plebe. Ma, a differenza della maggior parte di costoro e gli avviò immediatamente una decisa politica riformatrice, tale da suscitare profonde avversioni, oltre che non minori convinte adesioni. Tiberio propose comizi una legge con cui si affermava un limite ai possessi di terre pubbliche che ciascun cittadino poteva acquisire: 500 iugeri, circa 125 ettari, per ogni pater familias cui si sarebbero potuti aggiungere altri 250 iugeri per ogni figlio maschio, fino ad un totale complessivo di ben 1000 iugeri. In tale proposta, gli antichi possessi di ager publicus che rientravano nei limiti previsti dalla legge sarebbero divenuti proprietà privata dei singoli possessori, mentre la terra eccedente tali misure era recuperata alla res publica per essere redistribuita tra i cittadini non abbienti, in forma di piccola proprietà contadina. Si trattava di una vera e propria riforma agraria, anche perché la legge prevedeva l'inalienabilità di questa piccola proprietà, onde favorire il radicamento dei nuovi assegnatari alla terra. Il compito di recuperare e distribuire tali terra i piccoli proprietari-contadini venne affidato ad un triumvirato appositamente istituito, eletto dai concilia plebis. In essa sarebbe stata eletta anche il suocero di Tiberio, a garantire l'effettiva applicazione della delibera. Il gruppo dei grandi proprietari terrieri si affidò ad un altro tribuno, Ottavio, perché secondo le regole tradizionali interponesse l’intercessio contro la proposta del collega, impedendo quindi che i concilia potessero discuterla e votarla. Ma quest'espediente non bloccò Tiberio nell'attuazione del suo progetto politico: l'ostacolo dell'intercessio fu da lui dimostra in modo efficace quanto brutale e ai limiti della legittimità. Non potrà superare la paralisi derivante dal veto del collega, il raggiro, facendo votare dagli stessi concilia la deposizione di Ottavio sulla Un intervento più pericoloso per il Senato appare la modifica della composizione dei tribunali de repetundis, competenti per i reati di corruzione e di concussione di cui spesso si macchiavano i titolari degli uffici di amministrazione di governo provinciale, appartenenti quasi tutta l'aristocrazia senatoria. A partire da una lex Sempronia iudiciaria, si minò modificare la composizione dei tribunali giudicanti e in particolare quella della quaestio de repetundis composta da membri del certo sanatorio, ovviamente più indulgenti verso i loro pari rango. A seguito della nuova legislazione l'organico dei giudici veniva ad essere fornito dai cavalieri, portatori di interessi in parte diversi, e che disponevano in questo modo di efficace mezzo di pressione nei confronti del certo senatorio. E qui emerge con chiarezza l'intento di saldare gli interessi del potente c'è sequestro alla politica del partito popolare. A questo gruppo così rilevante economicamente che restava sostanzialmente estraneo alla vita politica cittadina, si offriva ora un prezioso strumento di controllo proprio sui membri del Senato, creando con nessun elemento di contrasto. La legge votata dal popolo il diverso ruolo assunto dal tribuno, che cessava di essere titolare di un potere prevalentemente di controllo sul governo altrui per diventare invece il promotore di un proprio progetto, nel disegno di Gaio, venivano posti al centro dell'intera scena politica. La sovranità popolare teneva così a svincolarsi da quel costante di equilibrio costituito dall'auctoritas del Senato dello stesso cursus honorum per divenire autonomo fondamento della politica e della legittimità repubblicana. Che questo fosse il vero nocciolo della politica graccana, sembrerebbe confermarlo la grande quantità di leggi fatte votare direttamente da Gaio o da lui ispirate: di gran lunga eccedenti, per un arco di tempo così breve, il numero relativamente ridotto di legge ordinariamente votate dai comizi. A quelle che si sono già ricordate vanno aggiunte poi una lunga serie di altre leggi. 4. Un nuovo modello di res publica? La res publica che si delinea in questo frangente sembra direttamente governata dal popolo e dai suoi magistrati ma soprattutto da quel tribuno nato della plebe che, dopo tanti secoli, ritrovava l'originario significato rivoluzionario. Affiorava infatti più nettamente la potenziale emarginazione dei magistrati della Repubblica e nello stesso Senato. La legge votata dai comizi, svincolata in pratica da ogni interferenza di tali organi, diveniva, nel modello abbozzato dall'azione dei Gracchi, il vero centro istituzionale dello Stato cittadino. Affiorava così la possibilità di una deriva in senso ateniese, con un primato della democrazia assembleare sul costante temperamento dei poteri attraverso le mediazioni necessarie ad assicurare quelle convergenze postulati dalla costituzione romana. In senso deponeva anche il fatto che i due fratelli, per la loro lotta, scartassero gli strumenti tradizionali che, per essere utilizzati, richiedevano quel minimo di consenso tra organi e ordini di cui si è detto. Sottraendosi al controllo e alla normalizzazione che il cursus honorum comportava, essi appaiono fondare tutta la loro azione sulla figura ambigua del tribunale può. È comprensibile che agli occhi di molti membri del ceto dirigente romano, non solo tra i più conservatori degli aristocratici ma tra i moderati, istintivamente rispettosi dei tradizionali equilibri della Repubblica, il tentativo dei Gracchi assumeva la coloritura di un'avventura eversiva. Nel momento in cui gli equilibri vennero modificandosi, con una parziale erosione del consenso popolare di cui Gaio bracco godeva, i suoi avversari non esitarono, nei giorni di tumulto che seguirono la mancata rielezione di Gaio al tribunale della plebe per la terza volta consecutiva, a organizzare l'assassinio. La sconfitta di Gaio appare legata anzitutto la precarietà del blocco politico sociali da lui costituito in funzione di senatoria e fondato sull'alleanza con il ceto equestre. Nel tempo infatti l'ultima convergenza di interessi tra i due gruppi egualmente coinvolti nella politica imperialistica (nobiltà senatoria e cavalieri) era destinata a prevalere sui possibili vantaggi a breve termine che questi ultimi avevano potuto ricavare dalla loro alleanza con Gracco. In verità le soluzioni prospettate dai due fratelli erano sin dall'inizio, o insufficienti, come appunto la semplice riforma agraria di Tiberio, o inconsistenti, come il più complesso progetto di Gaio. Una radicale trasformazione del tradizionale assetto gerarchico di Roma in una grande democrazia di tipo ateniese avrebbe infatti potuto essere veramente praticabile solo a condizione che una stabile alleanza tra l'assemblea popolare ed il ceto equestre e immaginasse il ruolo del Senato dell'aristocrazia politica che in esso aveva il suo riferimento stabile. Ma proprio la costruzioni imperiali ormai realizzata contribuiva in modo determinante a conservare e valorizzare ulteriormente quelle funzioni militari e di governo che costituivano le funzioni aristocratiche. Non solo: anche una soluzione del genere era del tutto inadeguata di fronte a quello che stava diventando il problema centrale dell'organizzazione politico- istituzionale romana. Il dilatarsi anche spaziale dell'ambito di efficacia di un potere che restava invece sempre più pericolosamente ristretto nella sua base politica. È questo il problema che il giovane tribuno parrebbe aver affrontato nei suoi ultimi giorni e che si manifestava in concerto nella crescente pressione dei latini e anche dei gruppi di italici più legati a Roma per acquisire la cittadinanza. Gaio aveva infatti valutato nelle sue giuste dimensioni tale fenomeno è del resto in questa direzione lo spingeva anche l'esigenza di estendere i benefici delle leggi agrarie ad un numero di interessati più ampio che non fossero solo i cittadini romani. Così, si delinearono due tendenze di segno opposto: da una parte, l'accresciuto interesse di latini e italici ad acquisire individualmente o in blocco la cittadinanza romana; dall'altra una netta inversione nel precedente atteggiamento romano, da sempre piuttosto liberale in queste concessioni: ora esse diventarono sempre più rare e circoscritte. In relazione a ciò, il progetto di Gaio era tutt'altro che avventuroso, in quanto orientato ad assumere nella cittadinanza romana sono gli antichi latini che n'erano ancora restati fuori, pur fruendo da secoli del commercio e del connubio con i romani. Per gli alleati italici, Gaio immaginava invece una loro parziale assimilazione ai privilegi goduti in precedenza dagli stessi latini. La linea politica di questi personaggi fu pressoché cancellata e pochi anni dopo, con la lex agraria epigrafhica del 111 a.C., l'intero demanio territoriale romano fu completamente riorganizzato favorendo il consolidamento degli antichi possessi di ager publicus trasformati in piena proprietà e, di conseguenza, sminuendo l'importanza, anche quantitativa, delle terre pubbliche, l'origine di tutti i compiti degli ultimi decenni. Si affermò la inabilità delle assegnazioni da cane, che favorì la rapida sostituzione dei coloni in difficoltà con i grandi proprietari disposti a recuperare parte di queste terre, e dall'altro canto si mise anche formalmente termine processi di acquisizione dell'ager publicus. CAPITOLO XI “ il tentativo di restaurazione sillana e il tramonto della Repubblica" 1. Le riforme militari di Mario e la crisi italica La radicale sconfitta dei Gracchi non aveva risolto i problemi che le loro proposte avevano cercato di superare. Inoltre la crescente pressione degli italici, che in nessun modo avevano trovato udienza nella dirigenza romana, alla lunga si sarebbe rivelata perniciosa. Ma neppure la crisi demografica delle campagne italiche poteva considerarsi risolta: si è fenomeni di inurbamento sia la concorrenza della grande proprietà schiavistica avevano continuato a incidere negativamente sull'organico dei piccoli proprietari-contadini, un tempo il nervo delle legioni romane. Questo aspetto apparve quantomai evidente nella successiva stagione politica, allorché nuove e gravi esigenze militari assunsero improvvisa rilevanza per Roma. Si tratta innanzitutto della difficile campagna militare contro una nuova invasione della penisola da parte di bellicose popolazioni celtiche e germaniche. Da tempo esse però non si erano più verificati anche per la rafforzata presenza militare romana nell'Italia del Nord. Di qui l'emozione suscitata dalla rinnovata minaccia, tanto più che gravi difficoltà si riscontrarono allora nell'assicurare la leva per approntare un esercito adeguato. Apparivano ormai evidenti gli effetti dell'assottigliarsi del ceto di piccoli proprietari sull'organico delle legioni romane. La vittoriosa difesa contro l'invasione fu comunque assicurata ad opera di un bravo generale di origine plebea e la cui personalità avrebbe dominato le vicende romane a cavallo del secolo: Gaio Mario. Per concludere si avviò una guerra in Nordafrica, contro Giucurta, re della Numidia. Lo stesso Mario fu chiamato a guidare la conclusione di tale impresa, su fortissima pressione popolare e di fronte ad un Senato in certe profondamente isolato nell'opinione pubblica. La soluzione adottata da Mario fu di colmare vuoti, arruolando volontari provenienti dai vasti strati di cittadini nullatenenti, attirati dal soldo e dalla speranza di ulteriori vantaggi economici con la divisione del bottino di guerra. In questo modo si tagliavano però definitivamente le antiche radici cittadine dell'ordinamento militare romano, fondato sulla costituzione centuria atta avviandosi così la sua progressiva trasformazione in un esercito di mestiere. Una fedeltà verso un'entità impersonale come la Repubblica, naturale in un cittadino che solo per qualche anno era chiamato da effettuare il suo servizio militare, e che invece da sempre partecipava alla vita della città e alle sue vicende politiche, sarebbe subentrata nei veterani, arruolati per lunghi periodi di tempo, una più immediata ed esclusiva fedeltà al proprio comandante. Quest'appannarsi del carattere dell'antico esercito cittadino costituì pertanto la premessa per l'affermazione di forme sempre più accentuate di poteri personali in capo i grandi comandanti militari. I quali, alla fine del loro comando, si mostravano sempre meno disposti a rientrare nei ranghi come semplici, anche se autorevoli membri dell'aristocrazia senatoria. Questo aspetto era destinato a divenire il principale fattore di crisi, destinata infine a travolgere le istituzioni repubblicane. Dopo le campagne contro le invasioni barbariche contro Giugurta, il prestigio di Mario, rieletto ripetutamente al consolato, dominò l'orizzonte politico romano, determinando una forte spinta in senso democratico. La guida effettiva, tuttavia, finì con l'essere assunta da due personalità più rozze e di orientamento più radicale, Saturnino e Glaucia, che si rivelarono i due veri cervelli politici del partito popolare. Gli orizzonti di questi due demagoghi non andavano comunque al di là degli obiettivi tradizionali del partito popolare. Le proposte legislative elaborate da Saturnino e votate verso la fine del secolo riguardavano infatti la distribuzione di grano la plebe a prezzi irrisori, la fondazione di colonie tra le marine, redistribuzione di terre ai veterani di Mario e infine una nuova legge giudiziaria proposta da Glaucia. Più pericolosa era invece una lex Appuleia de maiestate minuta che precisava e ampliava la figura del crimen maiestatis con cui si colpiva nei reati di carattere politico. Tale imputazione, per l'indeterminatezza dei comportamenti annoverati come un attentato alla maiestas populi romani, era infatti facilmente utilizzabile in una lotta politica ormai senza esclusione di colpi. La radicalizzazione dello scontro imposta dai due demagoghi portò a nuovi gravissimi torbidi che si evidenziarono nei disordini che accompagnarono l'approvazione della legge agraria relativa alla distribuzione delle terre della Gallia cisalpina conquistate da Mario. Le continue forme di illegalità culminarono infine nel 100 a.C., allorché Saturnino e Glaucia cercarono di farsi rieleggere al tribunale tu, giunsero all'assassinio del candidato avversario. Ciò legittimò il Senato ad emanare sempre temuto senatusconsultum ultimum, incaricando lo stesso console in carica, Mario, di intervenire contro i suoi antichi alleati. Malgrado il tentativo di Mario di evitare le conseguenze ultime dell'incarico affidatogli, ad opera della nobilitas si perpetua o l'uccisione di questi due tribuni e di molti loro seguaci, dopo che erano stati disarmati e imprigionati dallo stesso console. Tutto ciò segnò non solo una nuova catastrofe per il partito popolare, ma anche il tramonto politico di Mario, un bravo e fortunato comandante militare, ma un politico incerto e poco abile. Ormai egualmente inviso ai popolari per la repressione da lui condotta e all'aristocrazia senatoria per tutta la sua precedente storia politica, egli ritenne opportuno allontanarsi da Roma con un pretesto. La guida dei popolari venne di fatto assunta da un altro politico radicale come Cinna. Il feroce massacro degli esponenti popolari tra cui molti membri del Senato, che ne seguì era un altro anello della catena di strage vendette in una logica perversa di azioni e reazioni. In ciò vi fu tuttavia un ulteriore, sinistra innovazione: le famose liste di proscrizione con cui una serie di capi popolari, ma anche di meri avversari personali di Silla o di qualche suo potente seguace, furono dichiarati nemici della Repubblica: i loro beni furono espropriati, essendone una parte consistente assegnata colui che avesse denunciato il singolo proscritto e la loro stessa vita lasciata alla mercé di ogni assassino legalizzato. La lex Valeria de Sulla dictatore, imposta ai comizi ormai asserviti, attribuì al Silla la pienezza dei poteri assoluti, in qualità di dittatore per ricostruire la Repubblica e scrivere le leggi. Il termine "dittatore", da lui assunto, ci riconduce alle origini stesse della Repubblica, con una figura che da tempo aveva perso la sua originaria rilevanza. Tuttavia, il contenuto in termini di poteri, l'indeterminatezza della durata e l'estensione, la finalizzazione stessa mirante a una generale restaurazione dell'ordinamento politico, evidenziano immediatamente la radicale diversità della costruzione Silvana rispetto ai modelli del passato. La legge di conferimento della dittatura rei publicae constituendae, una volta tanto, corrispondeva pienamente al progetto di Silla: il grande capo aristocratico resta in carica circa due anni. Allo scadere, malgrado nessun ostacolo si opponesse alla sua permanenza al vertice di Roma per il restante periodo della sua vita, si ritirò a vita privata. In quei due anni egli aveva portato a termine una serie di eccezionali provvedimenti legislativi tesi a riplasmare integralmente gli assetti istituzionali dell'organizzazione della Repubblica. Realizzate su disegno con la restaurazione dell'antica, gloriosa Repubblica, egli mi fece poteri eccezionali che riteneva ormai non più necessari. 3. Le riforme sillane Silla era un convinto radicale esponente della cultura e dei valori dell'aristocrazia romana che si sostanziano in un sistema fortemente gerarchico con il suo punto di riferimento di forza del Senato. Egli mira a riaffermare l'antica centralità del Senato come sede prima, per virgola, fortemente indebolita nel corso degli ultimi decenni. Si è già insistito sull'azione corrosiva svolta in proposito, da un lato, dal rinnovato vigore rivoluzionario del tribunale atto della plebe ed all'attività legislativa, il cui fondamento popolare era ormai sfuggito in gran parte al controllo del Senato stesso, dall'altro dalla rapidissima crescita di peso politico dei comandanti militari. Non meraviglia dunque che proprio questi due aspetti fossero al centro dell'intervento riformatore di Silla. Colpisce invece la complessità delle collezioni approntate, di contro alla rapidità di esecuzione del progetto di ricostruzione: dato che mette bene in evidenza l'eccezionale intelligenza istituzionale del dittatore. Anche se l'identificazione dei punti di crisi del vecchio sistema non garantiva l'efficacia dei rimedi progettati. In effetti, il rinnovato disegno istituzionale non poteva reggere senza un parallelo riequilibrio dell'intero assetto economico-sociale e dei rapporti di forza in esso affermatisi. L'obiettivo ultimo di ridare forza Senato restituendo al certo senatorio il controllo dell'intero sistema criminale avvenne attraverso la rinnovata posizione di tutte le quaestiones perpetuae, i cui giudici tornarono ad essere membri dell'orto senatorio. Secondo luogo si girò a riaffermare l'antico controllo senatorio sui processi legislativi: ha perfino operarono una serie di provvedimenti con cui, non sappiamo che porta precisa, può una parziale rivitalizzazione dell'auctoritas patrum interposta alle leggi comiziali. Si trattava di un passaggio chiave alla luce della fortissima autonomia legislativa dei comizi tributi, affermatasi a partire dei Gracchi. Un aspetto chiave del sostanziale indebolimento del Senato, dal quale del resto era derivata anche una perdita del suo pieno controllo sulle magistrature superiori e di conseguenza sugli stessi comizi centuriati. È indubbio che le riforme sillane mirassero soprattutto ridimensionare il peso dell'assemblea tributa, che fin dai Gracchi abbiamo visto essere stata la base costante dell'azione popolare. Quanto al Senato, Silla provvidero integrare le file dei senatori ormai dimezzate dalla lunga stagione di guerre di persecuzioni interne, confermando l'ampliato organico di 600 senatori progettato da Druso figlio. In tal modo egli poté inserirvi in esso un numero significativo di esponenti del ceto equestre, assicurando, insieme ad una maggiore rappresentatività di tale consesso, una più stretta integrazione dei due gruppi sociali al vertice della Repubblica: la nobiltà senatoria e i cavalieri. Al fine di garantire la piena indipendenza del blocco di governo così rinvigorito dalle possibili manipolazioni dei singoli magistrati e in particolare dei censori e gli ridusse ulteriormente l'autonomia di scelta da parte di costoro, rafforzando gli automatismi selettivi. La svalutazione radicale della figura del tribuno modificava un punto centrale degli equilibri consolidatisi da secoli. In effetti il tribunale atto non era stato solo l'organo fondamentale della dialettica politica tre gruppi sociali, ma era divenuto meccanismo prezioso, per la sua elasticità, dell'intera macchina politica della repubblica aristocratica. Altri di rendere meno ambita tale carica in cabina preventiva approvazione del Senato dei candidati all'elezione uno. Inoltre coloro che avevano ricoperto questa magistratura non potevano rivestirne altre, comprese quelle cum imperio. Parallelamente, anche l'ambito di intervento l'efficacia di un atto furono ridotti notevolmente. In particolare per quanto concerne il potere di veto, intercessio, esso poteva esplicarsi ormai solo a favore del singolo cittadino, cessando quindi di essere un fattore condizionante della politica romana, come invece era stato sin dall’ istituzione di tale figura. Sempre in una linea antipopolare si colloca l'altro provvedimento assunto da Silla volto a sopprimere la frumentationes a favore della plebe urbana. Come sappiamo, queste erano state un fondamentale strumento con cui i capi popolari avevano guadagnato il supporto dei loro seguaci. L'incontro Silla mirava anche impedire che altri potessero riprendere l'esempio dello stesso dato, guidando l'esercito contro Roma e annullando con la forza le delibere dei suoi organi costituzionali. Egli ritenne di poter realizzare tale obiettivo, accentuando la distinzione tra governo civile e comando militare, ribadendo l'antica tradizione che escludeva l'esercizio del imperium militiae, entro i confini sacri di Roma. Solo che ora i confini civili di Roma furono estesi fino a comprendere tutta l'Italia peninsulare rendendo illegale ogni attività di tipo militare in tale ambito territoriale. Questo portò la totale spoliazione dei consoli del imperium militiae, essendo questi vincolati ora risiedere permanentemente a esercitare le loro funzioni sono in ambito italico. Il comando militare allora restò di pertinenza esclusiva delle promagistrature. Un'innovazione che alla lunga si rivelò dannosa, rendo noto così nettamente l'unitarietà della figura del imperium: un aspetto fondante degli equilibri repubblicani. Il suo superamento rendeva inermi le magistrature supreme della Repubblica. La ambizioni istituzionali del dittatore volta rifondare effettivamente la Repubblica aveva ridisegnato con l'organicità dei suoi interventi, l'intera organizzazione del governo repubblicano. In qualche modo egli formalizzò l'i principi consuetudinari, formatisi nell'incertezza di prassi mai irrigidita in regole troppo precise. Il cambiamento esemplare è dato dalla nuova disciplina del cursus honorum introdotta da Silla: nessun mutamento radicale, sono regole antiche razionalizzate e meglio definite: dalla predizione del rinnovo delle cariche magistratuale lì per più anni di seguito alla contestuale precisazione dei criteri d'età per l'ammissione delle varie cariche. Ora il ceto dei magistrati si presentava con disegno più netto, fissando lo schema di carriera possibile per tutti cittadini romani. È invece ad una maggiore efficacia dell'azione di governo che si Mirò, riaffermando la competenza del Senato nell'assegnazione delle province promagistrati, elevando gli organici complessivi nel governo provinciale ed accrescendo il numero dei magistrati minori e dei pretori. Più rilievo appare il tentativo di limitare le prevaricazioni perpetrate sul governo provinciale, soprattutto quelle poste in essere dal ceto equestre e da pubblicani. Esemplare è il provvedimento assunto per la gestione della ricca provincia d'arte con cui Silla annullò l'assegnazione dell'appalto delle imposte pubblicani effettuata da gaio bracco, stabilendo che il tributo fissato a carico delle varie comunità fosse riscosso direttamente dal governatore della provincia. Ma l'azione di Silla, con le prescrizioni, con la violenta persecuzione dei suoi avversari, tra cui molti senatori, incise in profondità sulla composizione aristocratica del governo. L'espropriazione di grandi patrimoni fondiari non ridisegnò solo il panorama delle ricchezze- italiche, impoverendo interi gruppi sociali, ma permise anche l'accumulazione di un vasto demanio territoriale redistribuito ai suoi veterani. Nuovamente diede però quei grandi travasi di popolazione verso le campagne e le incisive modificazioni del sistema della proprietà fondiaria che si erano verificati in età graccana ora si ripeterono. Un altro settore in cui Silla lasciò una traccia profonda e il processo criminale. Anche qui l'obiettivo era politico volendo sopprimere in questo delicatissimo settore, il ruolo delle assemblee popolari e ridurre di conseguenza i margini di arbitrio dei singoli magistrati, in particolare dei tribuni. In tal modo una riforma aveva l'obiettivo immediato di limitare l'esercizio spregiudicato a fini politici del processo criminale ripetutamente verificatosi soprattutto nel corso degli ultimi decenni, raggiungendo così importanti risultati. Le riforme sillane resero possibile la rapida tecnicità azione di questo delicato settore del diritto. 4. L'evoluzione del diritto e del processo criminale sino alle grandi riforme di fine II secolo Nella repressione dei comportamenti delittuosi, il ruolo dell'ordinamento romano è abbastanza circoscritto. Limitata è la tipologia dei crimini perseguiti direttamente dalla città di fronte all'estensione di altre forme di repressione che richiedevano la reazione diretta personale degli offesi. Tuttavia, nel corso del tempo, l'intervento diretto della città si ampliò gradualmente, ciò che, a sua volta comportò maggior coinvolgimento dei magistrati cum imperio, e in particolare dei pretori aventi generali funzioni di giurisdizione nei procedimenti relativi ai vari crimini. Alla loro competenza si aggiunse la funzione repressiva dei tribuni della plebe, anch'essa destinata ad ampliarsi progressivamente. In effetti l'originaria facoltà di irrogare sanzioni a chi avesse attentato alla loro persona sacrosanta, era stata estesa a perseguire molti altri comportamenti illeciti dei cittadini e dei magistrati. Del resto dall'originaria sfera di difesa della loro persona si era venuta sviluppando quella più ampia azione volta a tutelare in generale la maiestas populi romani. Abbiamo già visto come questo reato più moderno della perduellio, e che verosimilmente la soppiantò, fosse destinato ad una lunga crescente fortuna, non priva di pericoli per la sua grande indeterminatezza. Inoltre una serie di reati minori fu progressivamente sottoposta alla competenza dei questori e degli edili. Mentre la più immediata repressione per reati colti in flagranza o nei riguardi di figure di minor conto era affidata ai poteri, come diremmo oggi, di polizia dei presbiteri dei tresviri capitales. Tali magistrati, istituiti per combattere le forme di illegalità dilaganti in Roma nella sua fase di rapido sviluppo urbano erano originariamente nominati dal pretore divenendo poi elettivi. Essi operavano direttamente erogando sanzioni minori come la fustigazione o l'incarceramento, mentre per i reati più gravi, in genere, la loro funzione era quella di istituire il procedimento criminale. Nel corso del tempo si era tuttavia evidenziato una seria debolezza di questo sistema se confrontato con il tecnicismo del processo civile. Fin dalla prima età repubblicana, i giudizi criminali che comportavano la condanna a morte dell'imputato erano stati sottratti alla competenza esclusiva dei magistrati mediante la provocatio ad populum. In tal modo i magistrati repubblicani finivano con lo svolgere solo una funzione istruttoria, mentre di fatto la funzione giudicante passava all'assemblea popolare. Suprema garanzia di libertà, questo intervento popolare, appare tuttavia ispirato ad una logica affatto opposta a quella che si trova alla base del fortunato sviluppo del diritto civile e della scienza adesso collegata. Qui infatti il tecnicismo proprio di una procedura in mano gli specialisti aveva permesso lo sviluppo prima che fosse stata pronunciata. Era il diritto di andare in esilio, il ius exilii che consisteva nella volontaria uscita dall'ambito della sovranità romana. Ciò aveva senso poiché, nel mondo antico, dove la città coincideva con la libertà, la vita stessa e i valori essenziali legati allo status e ai ruoli pubblici, l'esilio è pena grave e dolorosa e vissuta come tale. D'altra parte man mano che lo stesso diritto romano e la civitas romana si vennero estendendo, identificandosi infine con l'Italia tutta, allora lo spostamento divenne più grave e lo sradicamento più drammatico, sino a quegli stili comminati dal principe in età imperiale che incisero sovente sulla sopravvivenza stessa delle persone così colpite. Nel complesso uno dei settori in cui le riforme sillane incisero più profondamente e positivamente sul processo criminale. Esse permisero di meglio precisare il tipo di reati perseguiti dei singoli tribunali, separando più chiaramente le funzioni di polizia dal giudizio criminale, circoscrivendo quindi i margini d'arbitrio dell'indagine criminale favorendo la certezza della legge in un campo delicatissimo della vita sociale. La chiarificazione realizzata da Silla non alzerò il precedente sistema di repressione criminale, ma lo potenziò e perfezionò. Il progresso così realizzato sembra consistere pienamente nel riconoscimento del rapporto tra norma e repressione criminale. Solo allora infatti si è nucleo con adeguatezza il principio fondamentale di un'elevata civiltà giuridica secondo cui nessuno poteva essere assoggettato ad un procedimento criminale se la condotta criminosa imputatagli non fosse stata precedentemente prevista dalla legislazione cittadina. D'altra parte, coerentemente rigorismo e al carattere reazionario della politica siriana, non può meravigliare che gli s'opprimesse il diritto in appello al popolo da parte del condannato, è che egli estendesse dalle giurie delle quaestiones i cavalieri per ridarle in mano al ceto senatorio. A presiedere le sette quaestiones perpetuae istituita in modo permanente per giudicare dei reati sopra accennati e di altri ancora furono poi chiamati i sei pretori già esistenti a Roma, accanto al pretore urbano e peregrino. 6. I signori della guerra Silla non aveva un progetto di potere personale: ricostruito lo Stato repubblicano rafforzatolo nella sua fisionomia aristocratica, egli ritiene conclusa la sua missione, si ritirò volontariamente a vita privata. Molte delle sue riforme si rivelarono notevolmente durature proprio perché, nel complesso avevano fornito una razionale soluzione reali problemi di funzionamento della macchina politica. È interessante in proposito ricordare l'immediata reazione dei popolari volta ridare vigore poteri dei tribuni, e contemporaneamente a sopprimere la separatezza del restante cursus honorum. Le riforme sillane avevano rafforzato il blocco aristocratico-conservatore impegnato nella loro difesa, lo dimostra il fatto che tale reazione non riuscì comunque a ridare al tribolato l'antica forza, neppure dopo il 70 a.C. quando la potestà tribunizia fu parzialmente restaurata. Nel progetto Silvano traspare in me un singolare impasto di modernità e comprensione del nuovo con l'inseguimento dei modelli ormai senza sostanza. Tale tensione evidenzia bene le profonde contraddizioni che camminavano da tempo la res publica e che i tentativi sino ad allora perseguiti non avevano potuto risolvere. Né i Gracchi con le leggi agrarie o con il loro disegno di una democrazia più avanzata, l'estensione della cittadinanza gli italici, né Mario con la prevalenza delle logiche militari sulla dimensione della politica, nello stesso Silla, con il suo progetto di restaurazione della repubblica aristocratica e con la separazione tra potere militare civile, avevano saputo potuto dare una risposta adeguata al problema di fondo che stava erodendo dalle fondamenta l'antico edificio repubblicano. Essere infatti strettamente connesso alla politica imperialistica romana, da nessuno in verità rimessa seriamente in discussione. I fattori della crisi restavano dunque operanti, convergendo ora da accentuarli potenti interessi presenti nella società romana e insieme fenomeni strutturali di lungo periodo. Il processo di arricchimento soprattutto dei suoi strati dirigenti, e l'accentuato sfruttamento del mondo provinciale; i rapidi massicci fenomeni di inurbamento della plebe rurale; il mutamento delle strutture economiche dell'agricoltura italica e, infine, il rapido professionalità si dell'esercito rappresentano tutti questi fattori. Le vicende successive e lo stesso esempio di Silla avevano reso evidente la vera conseguenza di fenomeni verificatisi nell'età precedente: la centralità dell'esercito alla ricorrente tendenza dei suoi comandanti a sottrarsi al controllo ordinario degli organi della Repubblica. Abbiamo visto come rimedio da lui escogitata avrebbe addirittura sguarnito il presidio della libertas repubblicana, agevolando il carattere potenzialmente eversivo progressivamente assunto dall'imperium militiae, ormai sottratto alle magistrature ordinarie. CAPITOLO XII "L'età delle guerre civili" 1. La perdita di centralità del Senato e nuovi poteri personali Vi era un altro elemento che contribuì a riaccendere la situazione di crisi e di guerra civile permanente, facendola precipitare nei decenni immediatamente successivi al ritiro di Silla. Si tratta della progressiva perdita di prestigio del Senato. La perdita di autorità di tale consesso era ormai palese si evidenziava proprio quando politiche giuste da esso perseguite (come appunto la sua cautela nell'intraprendere una faticosa guerra oltremare contro lo stesso Giugurta) venivano svalutate nell'opinione pubblica per i sospetti di corruzione e di debolezza ormai pericolosamente diffusi. Invita al Senato era divenuto sempre più parte nel gioco politico perdendo in parte l'antica funzione di stanza di compensazione, centro di controllo dell'intero sistema politico. Questo declino, già affiorato nella tumultuosa stagione dei Gracchi, ebbe ulteriore conferma negli anni successivi assilla. Ormai le divergenze di un tempo si erano trasformate nello scontro di due fazioni. Il Senato era divenuto parte del gioco la testa del gruppo conservatore e aristocratico. Se questo che il partito popolare si rifacevano d'una loro eredità politica, con alcuni punti fermi di un embrionale programma di azione. A ciò si aggiungeva anche la tendenza alla formazione di poteri personali a base militare addirittura aggravata con le riforme sillane. Alla tradizionale dicotomia tra il sistema ordinario delle magistrature cum imperio e delle promagistrature associate al governo delle province e ormai titolari esclusive degli effettivi poteri militari, si aggiunge un ulteriore meccanismo. Ci riferiamo all'esigenza sempre più frequente di conferire, per scopi eccezionali, poteri magistratuale sganciati dal meccanismo della prorogatio imperii. Il sistema era antico, essendo già stato collaudato a dirittura con il giovane Publio Cornelio Scipione, ma già allora esso non a caso si era associato al ruolo carismatico del grande generale romano. Questo tipo di poteri suscitava grande timore nel ceto dirigente e ciò è provato dall'ostilità del Senato rispetto al conferimento a Pompeo, un antico collaboratore di Silla, già distintosi per le sue virtù militari, i poteri straordinari per combattere il crescente pericolo della pirateria nel Mediterraneo orientale e nell'Adriatico che minacciava di interrompere l'intero sistema di comunicazioni marittime da cui dipendeva lo stesso approvvigionamento di Roma fu ancora una volta per la pressione di parte popolare che si furono conferiti a Pompeo. Anche in questo caso, la forma e la sostanza dell'antica costituzione si modificarono vistosamente, giacché questi poteri erano stati attribuiti ad un privato cittadino, qual era allora Pompeo, e non, come sarebbe stato nella prassi, ad un magistrato cum imperio allo scadere della carica ordinaria. L'esigenza di non dar tregua ad un avversario estremamente mobile come i pirati rendeva a inevitabile che questo imperium non fosse circoscritto da limiti territoriali e neppure limitate nel tempo, dalla consueta annualità. Tale imperium, mettendo il titolare nel pieno controllo di più province territoriali dell'intera flotta, comportava di fatto per Pompeo una signoria pressoché assoluta su tutta la parte orientale dell'impero, senza alcun limite imposto da colleghi e controlli esterni. Ancora una volta il complesso sistema di equilibri della tradizione repubblicana sembrava dissolversi di fronte al ruolo carismatico di un potere personale, svincolato dalle tradizionali limitazioni che l'ordinamento repubblicano aveva costruito. Ad essi egualmente del favore popolare Pompeo in seguito potesse strappare, senza veri motivi, a Lucullo il comando della guerra in oriente, ingigantendo ulteriormente il suo già eccezionale potere personale. A sua volta, proprio in ragione dei timori suscitati in Senato da questa vicenda fuori dalle regole, al termine del suo comando in oriente, lo stesso Pompeo si sarebbe scontrato con la pervicace resistenza del Senato ad approvare il suo progetto di sistemazione delle grandi conquiste in oriente, con la creazione di nuove province. Era infatti in genere lo stesso magistrato che aveva guidato la conquista e l'assoggettamento di nuove comunità predisporne l'inquadramento e la sistemazione nell'ambito dell'organizzazione provinciale romana, assumendo nel ruolo semiufficiale di protettori, con la conseguente crescita della sua sfera di influenza e di prestigio politico. 2. Il primo triumvirato L'irresistibile sviluppo di questi poteri personali, con la sostanziale erosione della costituzione repubblicana, trovò drammatica evidenza quando l'accordo privato esautorò esplicitamente ruolo del Senato, affermando nuovi complessi di equilibri sulla scena politica romana al di fuori e sopra di esso. I protagonisti furono tre eminenti personalità provenienti da storie diverse e tra loro opposte: da un lato da antichi e importanti seguaci di Silla, Marco Licinio Crasso, potente e ricchissimo esponente del ceto dei cavalieri, e Pompeo, il grande generale si gliel'hanno all'apice del prestigio, dall'altro gaio Gaio Giulio Cesare. Quest'ultimo, pur appartenente alla migliore aristocrazia romana, era legato alla tradizione di parte popolare anche per la stretta parentela della moglie con il grande leggendario Mario. Un matrimonio che aveva un notevole significato politico, se si considera come Cesare, con coraggio, si fosse rifiutato di scioglierlo malgrado le dure pericolose pressioni in tal senso da parte di Silla all'epoca della sua dittatura. Cesare aveva già dato prova di quanto fosse forte la sua influenza sui comizi facendosi eleggere alla prestigiosa carica di pontifex maximus contro alcuni importanti personaggi dell'oligarchia senatoria che si erano candidati a tale funzione. Egli ora, con tale accordo, si riprometteva soprattutto di conseguire l'appoggio politico finanziario di Crasso, indispensabile per completare la carriera politica con il consolato e tentare poi, con i comandi provinciali, di acquisire quella rilevante quella forza militare di cui invece la già insigne Pompeo. Pompeo invece era stato indotto ad aderire a questo accordo dall'intendimento di ottenere, grazie comizi controllati da Cesare, l'approvazione del suo progetto di sistemazione delle province dell'Asia che il Senato era restio a concedergli. Ma soprattutto egli mirava rompere una situazione di progressivo isolamento, essendo ormai sospetto sia la gelosa aristocrazia senatoria per il suo ruolo militare eminente, oltre che per le troppo evidenti ambizioni, sia la fazione popolare per le sue origini politiche e la sua successiva storia. L'obiettivo di Crasso era invece quello di rinverdire il suo prestigio militare, ormai datato, con una guerra nuova contro i Parti. L'accordo tra i tre personaggi giovava dunque a tutti, seppure in forme e secondo progetti diversi, rendendo altresì palese la marginalità del Senato come sistema regolatore degli equilibri politici e degli interessi in campo. Esso fu infatti semplicemente scavalcato grazie al voto dei comizi. In tal modo questa volta, intervenuta nel 60 a.C., rimetteva esplicitamente in discussione l'impianto di base della restaurazione si lana, rendendo, non solo il Senato, ma gli stessi equilibri repubblicani una cosa del passato. Il fatto che questo stesso triumvirato non fosse altro che un accordo politico privato, irrilevante in sé rispetto ai ruoli istituzionali e alle forme di governo, sottolineava ulteriormente dalle purezza di un'architettura ormai incapace di reggersi sulle sue proprie fondamenta, la mercede rapporti di forza, di volta in volta delineatisi nel gioco politico. In seguito alla precoce scomparsa di Crasso nella spedizione contro i Parti, se si usa un ciclo che era già di per sé abbastanza eccezionale nella storia del mondo antico. Quanto all'azione politica di Cesare, negli anni in cui versa l'accordo con Pompeo, ancora in seguito, allorché maturò invece la crisi tra i due, sino allo scontro finale per il potere, sono da segnalare alcuni aspetti che non connotano l'intima adesione alla petizione popolare. Emblematiche appaiono le proposte di legge agraria da lui ispirate e contro di cui si schiererà, difesa degli interessi e dei pregiudizi oligarchici, Marco Tullio Cicerone. Esse miravano una nuova distribuzione di ager publicus sia in Italia che in varie province e a una nuova disciplina Da questi ruoli istituzionali Cesare acquisì funzioni prerogative che tradizionalmente erano state del Senato, come il potere di attribuire il governo delle province vari magistrati, il diritto di decidere nuove guerre, è il controllo dell'erario. Questa infatti significava il governo di tutti i flussi d'entrata e di uscita dalle casse pubbliche cui egli sovrintendeva integralmente anche in virtù della sua generale potestas censoria. Nel 48 a.C. e l'anno successivo, la dittatura conferita a Cesare era stata temporanea. Anche se fin da allora la sua portata appare del tutto diversa dall'antico modello repubblicano (ricordiamo, circoscritto al solo sei mesi è progressivamente limitato dei suoi poteri), per estensione e incisività, e non subordinata a una precisa, anche se assai vasta finalità, come quella di Silla. Ma a partire dal 47 e in modo ancora più evidente a partire dal 45 a.C., la dittatura venne trasformato in un attributo permanente e vitalizio, facendo uscire definitivamente la sua persona da qualsiasi precedente repubblicano. Contemporaneamente l'assunzione del consolato per 10 anni, il modo in cui egli disponeva della facoltà di designare una parte notevole degli antichi magistrati repubblicani, svuotando il ruolo dei comizi, l'assunzione progressiva di poteri come quello censorio, senza la titolare pura della relativa magistratura facevano di lui, più che qualcosa di eccezionale e anomalo rispetto alla struttura della Repubblica, la negazione stessa della logica repubblicana. Anche a livello simbolico si accumulò una serie di innovazioni che tendevano a esaltare la sua persona al di là dei limiti tradizionali: dalla toga purpurea che i magistrati indossavano solo nel giorno del loro trionfo e progressivamente riconosciutagli senza alcun limite, alla corona di alloro, anch'essa segno originario del trionfo militare e da lui portato ad ordinario, all'istituzione di una guardia personale composta da senatori e cavalieri. Questi e altri onori conferitigli fanno pensare alla progressiva trasfigurazione simbolica del portatore di poteri eccezionali, rappresentato come fondamento di un nuovo assetto politico. Ovviamente una posizione siffatta poteva facilmente assumere la fisionomia di una monarchia. Non vi fu aspetto delle istituzioni e della società che non sia stato investito dalla sua azione: di fatto un'opera che presupponeva, analogamente a quella di altri grandi modernizzatori, un potere pressoché assoluto. Due in particolare sono i settori dove la sua azione avviò a soluzione problemi centrali per l'esistenza della stessa Repubblica. Si tratta dei nodi cruciali costituiti dalla cittadinanza romana e dall'organizzazione del sistema provinciale: i due poli dell'impero di Roma. È vero che buona parte degli tali c'era già stata ammessa alla cittadinanza romana negli anni immediatamente successivi alla guerra sociale, ma sappiamo anche che, per molto tempo, si fosse cercato di limitare gli effetti di tali riforme inserendo i nuovi cittadini in pochissime tribù. Cesare riprende ora il processo di integrazione portandolo alle sue inevitabili conseguenze con l'estensione della cittadinanza romana tutta la valle cisalpina e realizzando così l'effettiva unificazione politica della penisola. Ma nella stessa direzione opera un'altra ancor più incisiva riforma: l'allargamento dell'organico destinato a 900 membri. Dove l'aspetto fortemente innovativo è costituito dall'inserimento nelle sue fila di esponenti della borghesia italica, tra cui quei galli, sono allora divenuti cittadini, oltre che di una serie di più dubbie figure di seguaci politici o militari del dittatore. La struttura politica della penisola venne poi completamente organizzata secondo lo schema mutuato dalla precedente tradizione: quello del rispetto e potenziamento dei minori centri cittadini, inglobati nella nuova unità istituzionale, ma preservati con grandissimi spazi di autogoverno. Al cuore del potere, restato rigorosamente in mano romana, si accordò un sistema periferico con ampi margini di autonomia organizzativa, orientato peraltro riprodurre in piccolo il modello romano. L'avvio della costruzione dell'impero municipale che, avrà il suo apogeo a partire da Augusto, trova le sue sicure radici nel complesso di riforme di innovazioni introdotte da Cesare. Qui si evidenzia la forza riformatrice di Cesare, intervenuta disciplinare i nuovi assetti istituzionali nell'ambito dell'Italia municipale, elaborando validi modelli anche per il mondo provinciale. Ancor più importante fu la drastica riforma da lui attuata nel governo delle province. In esso, la selvaggia politica di sfruttamento ad opera dei governatori e della nobiltà delle cariche da una parte, degli speculatori e affaristi del certo questo dall'altra, quasi sempre tra loro concordi nel violare le regole del buon governo e i criteri legali dell'amministrazione provinciale, minacciava di avviare l'intero sistema politico romano in una spirale distruttiva. Alla lunga infatti un sistema così irrazionale avrebbe comportato o crescenti tensioni resistenze locali, o la distruzione delle fonti di ricchezza con una devastazione dei popoli e dei territori da amministrare. Questo sistema dunque fu circoscritta modificato mediante 1+ efficace controllo centrale ponendo limiti agli arbitri nel governo provinciale. Inoltre l'opera del dittatore accentuò la tradizionale politica territoriale romana, tesa a favorire e accelerare i processi di urbanizzazione. Infine le sue riforme definirono una duplice condizione nelle varie province, secondo che il loro carattere più recente e le condizioni locali richiedessero uno un più diretto controllo militare. L'associazione andrò oltre abbracciando ogni aspetto della società romana in uno straordinario sforzo di razionalizzazione morte limitazione. Ricordiamo la riforma del calendario, portato 365 giorni, è praticamente restato regolare il tempo sino ai giorni nostri, i grandi piani di sistemazione urbanistica della capitale e gli ancor più vasti programmi di opere pubbliche, con cui si finanziarono indirettamente molti strati sociali più deboli o più colpiti dai danni derivanti dalle guerre civili, anche a compensare il blocco imposto da Cesare a quelle pericolose distribuzioni gratuite di grano che avevano devastato l’erario. Ci rendiamo conto come disegno cesari hanno scardinato dalle radici tale sistema, spostando nuovamente in modo definitivo gli equilibri a favore della sfera legislativa, che dopo le XII Tavole era restata relativamente marginale rispetto al pretore e all'interpretazione dei giuristi. 5. L'eredità di Cesare l'immenso potere, unita al peculiare prestigio e all'enorme popolarità presso la gente minuta, oltre che tra i suoi soldati e i suoi veterani, era venuto sfumandosi, nella figura del dittatore, in un'aura quasi religiosa. Ciò contribuì ad aumentare le inquietudini suscitate nel cuore stesso di Roma dalla chiarezza con cui egli aveva reso ormai esplicito l'irrevocabile tramonto dell'antica Repubblica e dalla franchezza con cui aveva evidenziato i veri rapporti di forza rispetto al vetusto Senato, riempito ora dei suoi amici e clienti della Galia. Il complotto contro di lui, destinato ad avere successo, maturò proprio in questo clima di incertezza, accentuato dalla sua azione di governo così incisive rapida, ma per ciò stesso autoritaria. Le Idi di Marzo del 44 a.C. quando Cesare venne pugnalato in Senato da un gruppo di congiurati appartenenti ai suoi ranghi, tra cui il nobile Bruto, amico e protetto dallo stesso dittatore, segnano l'ultimo importante sussulto di una tradizione aristocratica ancora vitale, ma potrebbero anche far sospettare un certo isolamento di Cesare negli ultimi mesi di governo. Le accelerazioni da lui dato un processo inevitabile erano forse state eccessive. Gli stessi imponenti preparativi per una grande spedizione in oriente, con due tradizionali nemici di Roma, i Parti, che ne minacciavano in modo serio le frontiere, forse accentuarono tali preoccupazioni. Essi infatti potevano far insorgere il sotterraneo timore che la strategia del dittatore comportasse un generale spostamento verso oriente degli equilibri politici dell'impero e del loro sistema di governo. Questi timori più o meno diffusi avevano trovato qualche fondamento anche in altri aspetti della più recente condotta del dittatore. La sua tresca con l'erede della dinastia dei faraoni, dallo stesso Cesare confermata come regina d'Egitto, Cleopatra, aveva cessato di essere così privata. La presenza di Cleopatra in Roma e quella del figlio nato dalla loro relazione, Cesarione, la dissoluzione del precedente matrimonio di Cesare erano tutti elementi che, unite la concentrazione unica di potere nelle sue mani, avvicinavano la sua figura quella di un sovrano orientale. Di qui la paura, l'incertezza e serpeggianti dissensi destinati a sfociare in un complotto coronato da successo, anche se breve. La fragilità del progetto politico la base della congiura dice Seriana si può cogliere nell'incertezza di condotta di congiurati una volta avvenuta l'uccisione di Cesare e nella mancanza di una lucida valutazione delle forze reali che l'ucciso era venuto coagulando intorno ad un progetto politico di rinnovamento della Repubblica. La precarie ripresa dell'aristocrazia senatoria poteva durare solo sino al momento in cui costoro non fossero riusciti a formare un fronte compatto: si trattò di uno spazio di tempo cerca di un anno segnato da grandi incertezze da continui spostamenti politici, conclusosi con il definitivo accordo tra Antonio e Ottaviano, nell'estate del 43 a.C. L'uccisione di Cesare, lungi dal riequilibrare i rapporti di forza e recuperare una centralità delle antiche istituzioni repubblicane rispetto al ruolo che eserciti e comandanti militari avevano avuto, ancor prima della sua ascesa, confermò l'irrimediabile debolezza politica delle istituzioni repubblicane così li facevano i congiurati. Ormai ineliminabile era la presenza di quella dei propri partiti di cui si è già detto che sopravvivevano le avventure personali e ruoli individuali, dall'altro l'utilizzazione dell'elemento militare nella definizione dei rapporti di forza anche politici. Dopo che i capi del partito trovarono un accordo sulla spartizione dell'eredità politica Ceriana, una nuova forma di governo venne fatto portare da comizi a sancire la irreversibile rottura con il passato: il secondo triumvirato (rispetto al primo turno irato di Cesare, Pompeo e Crasso). Esso, votato con una legge del 43 a.C. attribuiva amplissimi poteri di governo, anche militare, con l'imperium proconsolare, costituenti al grande collaboratore e generale di Cesare, Marco Antonio, al giovane pronipote dello stesso Cesare e da lui adottato per testamento, Gaio Ottaviano, nonché a un altro eminente capo popolare Marco Lepido. La carica era votata per un quinquennio e sarebbe scaduto alla fine del dicembre del 38 a.C. Questa iniziativa, riaffermando nettamente la centralità dei poteri straordinari e anomali rispetto a la struttura repubblicana era il preciso segnale di ripresa del partito popolare. L'esplicito richiamo all'eredità politica di Cesare, comportava poi recupero della sua linea intrinsecamente eversiva rispetto ai valori alla tradizione repubblicana. Dopodiché ebbe inizio una nuova sanguinosa stagione di vendette, avviata con uno strumento già sperimentato da Silla: le liste di proscrizione. Tutti i congiurati, oltre numerosi membri della nobiltà senatoria e del ceto equestre furono inseriti in essere, e non solo per motivi politici. I triumviri infatti aveva un disperato bisogno di mezzi finanziari per sostenere anzitutto le spese di quelle armate su cui si fondava il loro potere e prepararsi allo scontro finale con l'esercito che i cesaricidi erano riuscite a raccogliere in oriente. In quel frangente fu ucciso anche Marco Tullio Cicerone, l'anziano oratore, estraneo alla congiura, ma colpevole di aver pronunciato in Senato le feroci invettive contro Antonio, con l'illusione di trovare del giovane Ottavio un maggior rispetto per l'antica legalità repubblicana. Due anni dopo, nel 43 a.C., la lunga strada della vendetta da conclusione Filippi, quando le legioni di Ottavio e di Antonio debellarlo l'esercito di Cassio e di B (benemerito militare della vittoria aspettò tutto ad Antonio). La morte dei due capi e di moltissimi altri membri del partito senatorio segno definitivo tramonto della tradizione repubblicana. Ma non segnò la fine delle guerre civili: mancano ancora all'ultimo atto, a concludere il precario equilibrio di potere tra i cesari anni. Ma prima di giungere ad Azio, con la sconfitta la morte di Antonio e la definitiva scelta di Ottaviano al potere imperiale, bisogna esplorare le complesse trame che fin dal primo triumvirato Ottaviano venne avviando con straordinaria sapienza politica: la nuova costruzione destinata ad identificarsi con i destini di Roma e che coincide con il suo stesso potere. 6. Lo scontro tra Ottaviano e Antonio votato triumviro con poteri costituenti ed eccezionali, Ottaviano condivideva con i suoi due soci una signoria sovrana, ed efficace, quanto indeterminata nel contenuto. E resterà tale da assicurargli che il controllo dell'elemento militare e del governo civile, essendo costituito l'unico limite dalla presenza dei colleghi. Di fatto, dopo difficile avvio che non escluso conflitti anche vivaci tra i triumviri, si addivenga ad una divisione di competenze su basi sottolineato dalla sua nuova designazione come Augustus, evocativa di una autorità vaga e indistinta, da collegarsi anche con la sfera religiosa (il termine è infatti lo stesso etimo di augurium e di inauguratio). Non si deve poi dimenticare che egli, in base all'adozione testamentaria di Cesare, aveva già assunto il praenomen di questi: Imperator, a significare insieme all'eredità politica del grande predecessore, la sua posizione eminente nella Repubblica e il fondamento militare del suo ruolo. In tal modo egli potrà poi affermare nelle Res gestae, che in quegli anni, facendosi rieleggere al consolato, non ebbe per quanto concerne la sfera di potere nulla di più di quello che ebbero i suoi colleghi, ma tutti egli sovrastava in una generica quanto pervasiva autorità. Nel 23 a.C. si completò il percorso costituzionale di Augusto. Nella corsa di quell'anno egli, infatti, rinuncia al consolato: carica che, in seguito avrebbe ricoperto solo altre due volte, evitando questa come ogni altra magistratura repubblicana. La possibilità di convocare i comizi soprattutto il potere di veto contro ogni possibile iniziativa dei magistrati in carica gli derivavano dalla tribunizia potestas, confermatagli ora in tutta la sua pienezza e a vita, senza però la titolata una della carica. Inoltre poteva convocare presiedere il Senato in modo da poter interferire anche sulle province sanatorie. In seguito egli avrebbe assunto anche il imperium consolare, probabilmente a vita ed il ius auxilii anche oltre il pomerio. A ciò si aggiungeva il diritto di modificare la decisione della corte giudicante nei processi criminali, aggiungendo sua volta quello dei loro componenti. In tal modo la costruzione augustea perfezionava rafforzava ciò che era già stato avviato da Cesare, confermando la fine di quell'essenziale dicotomia tra l'ordinamento politico e potere militare che aveva sconvolto la terza Repubblica, almeno a partire da Mario. Ormai la catena di comando appare concentrarsi nella figura del principe. Quasi ovvia conseguenza di questa sua peculiare situazione del controllo da lui acquisita intorno ad ogni decisione circa la guerra e la pace, e sulla stipula dei trattati internazionali. Egli era ugualmente legittimato definire gli aspetti amministrativi e giuridici dei municipi delle colonie e di tutte le altre comunità e popoli sottoposti alla sovranità di Roma. Augusto sembrava aver declinato il conferimento della cura legume et morum, offertagli a quel che sembra nel 19 e nel 18 a.C.; e prima ancora nel 23 a.C., aveva evitato di assumere il titolo di censor perpetuus, nonché quello di dictator rei publicae costituendae, lui proposti per far fronte ad una grave carestia allora intervenute in Italia. Ciò evidenzia la sua tendenza ad evitare tutte quelle cariche che bloccassero pratiche adottate nel corso della crisi repubblicana. Il che non esclude che egli non avesse esitato ad esercitare appieno le funzioni proprie del censore. A tal fine parrebbe che egli si fosse fondato sull'originaria estensione del potere consolare, piuttosto che sulla potestas censoria (probabilmente da lui mai accettata come esplicita designazione). È certo che svolse comunque in sostanza l'attività censoria, effettuandosi alcuni censimenti che la ben nota lectio senatus con la drastica revisione degli antichi e nuovi ranghi di tale consesso. Non bisogna sottovalutare tuttavia il fatto che, impara da questa sua assunzione delle funzioni censorie, gli ripristinò proprio nel 23 a.C. la corte ordinaria dei censori nelle persone di due autorevoli senatori. In tal modo si viene perfezionando il compiuto disegno del sistema di governo che conservava la forma della costituzione repubblicana ma in cui la struttura portante dell'intera impalcatura delle istituzioni era ormai fondata su un potere personale garantito al diretto controllo dell'esercito e da un capillare e amplissimo potere d'intervento in tutte le sfere della politica e dell'amministrazione. Essendo ormai la Repubblica sarebbe pacificata, Ottaviano si fece attribuire la somma quasi totale dei poteri che erano propri delle più importanti magistrature repubblicane, riassumendo in sé con la sovranità così articolate diffusa nel sistema repubblicano. Il fatto che l'insieme di tali competenze non derivasse dalla titolarità delle corrispondenti magistrature lo sottraeva poi al sistema dei controlli esercitato dal Senato sui magistrati repubblicani. Non solo, Augusto con il potere di convocare e di presiedere il Senato, aveva assunto una preminenza anche formale su di esso. Ma soprattutto, in virtù del suo generale superiore potere di iniziative di controllo, specie nella politica estera provinciale e nelle gestioni delle finanze pubbliche, si era sostituito, in notevole misura, al Senato stesso nel compito di orientare l'azione dei vari magistrati, erodendo suo vantaggio l'antica proprio cattiva che tale organismo si era da sempre gelosamente riservata. L'antico Ottavio, divenuto poi Cesare Ottaviano per adozione, è definitivamente scomparso. Ora al vertice dello Stato così restaurato si trova l’Imperator Caesar Augustus: l'immagine stessa del potere e della sua sacralità; idea accentuata dall'ulteriore differimento alla discendenza del divinizzato Cesare. Il nuovo nome non conserva più il ricordo delle vere origini familiari e soprattutto quello di Ottaviano capopopolo, al vertice di una fazione politica eversiva e macchiatasi di legalità e delitti. Esso, degli antichi vincoli, evoca solo la sua discendenza da Cesare, ormai assunto tra le divinità di Roma. Augusto, nominato pontefice Massimo, assolve alla necessaria l'esclusiva intermediazione tra la sfera divina quella umana. La sua designazione come pater patriae: colui che dà vita alla città si riallaccia la dimensione arcaica e patriarcale, sottolineando la supremazia in cui si sostanziano anche aspetti religiosi. E si evidenzia soprattutto la rinnovata vita della città di cui egli è l'autore. Fortune virtù si fondono nella sua vicenda in modo straordinario. La sua vita durò molto a lungo e con essa il suo governo: Augusto, nato nel 63 a.C., divenuto giù, 21 anni e infine, dopo Azio, poco più che trentenne solitario padrone dell'impero, sarebbe restato al potere sino al giorno della sua morte, nel 14 d.C. L'eccezionale lunghezza di questo periodo, più di ogni altro fattore, poté assicurare quella stabilità e sicurezza cui ormai tutti c'è da tutte le parti dell'impero ambivano. Era iniziato il secolo d'oro, l'età di Augusto, che riportava finalmente la pace e le certezze. E di ciò anche i nostalgici delle antiche libertà non poterono che prenderne atto, se non allietandosene, e rassegnandosi al nuovo e non più insopprimibile protettore e, forse, padrone. 2. Equilibri da salvaguardare Augusto eviterà costantemente le brusche accelerazioni che Cesare aveva tentato di dare alla complessa macchina politico-istituzionale romana, salvando quanto più possibile le istituzioni dell'antica Repubblica. Si trattava di non offendere l'insieme di valori e riferimenti con penetranti della tradizione repubblicana, ancora tanto forti nella sensibilità dei suoi cittadini e soprattutto degli irrequieti ceti dirigenti. A tal fine era indispensabile che le antiche istituzioni mantenessero un ruolo non semplicemente formale. Anzitutto il Senato. Augusto non amava tale consesso che, nella sua grande maggioranza, al momento dello scontro definitivo con Antonio, si era schierato contro di lui. E tuttavia, anche volendolo, egli non avrebbe potuto sopprimere questo fondamentale serbatoio della classe dirigente romana, annullando con ciò la vecchia nobilitas e perciò stesso smentendo la radice quel programma di stabilizzazione della società romana con cui si era proposto al governo e alla pacificazione dell'impero. Un'eventualità del genere avrebbe cancellato alla radice quella tradizione nobiliare da sempre struttura portante dell'intero impianto politico romano. Inoltre, quanto forti fossero ancora i valori repubblicani, lo aveva mostrato la sopravvivenza della vecchia costruzione nel corso di quasi un secolo di guerre civili. Se non fossero stati profondamente radicati nella società romana, non sarebbe durato tanto a lungo il dissanguamento di una classe dirigente nella lotta feroce che aveva devastato l'ultimo secolo della Repubblica. Il richiamo al complesso impasto geologico della Repubblica romano-italica era stato il nucleo forte del programma politico di Ottaviano contro Augusto e diveniva ora, dopo Azio, il cemento ideologico della nuova costruzione. Tutto ciò si associa inevitabilmente a quella libertas aristocratica e agli orizzonti di quell'oligarchia guerriera e politica con lo stesso principe apparteneva per nascita e formazione. Di qui la complessa fisionomia della sua condotta e il carattere di singolare compromesso tra vecchio e nuovo rappresentato dalla costruzione istituzionale da lui elaborata, del riflesso, del resto, dall'interpretazione data né in varie sedi pubbliche e, soprattutto nelle Res gestae. Augusto appariva da un lato come il detentore del comando militare, in qualità di imperator, e dall'altro anche come il princeps del consesso senatorio, secondo le antiche regole repubblicane. Ugualmente egli continuò a moltiplicare, nel corso del suo principato, i formali atti di ossequio verso il Senato, senza però rinunciare ad eroderne i poteri definitivi. Dalla politica religiosa al controllo dei costumi, dall'influenza esercitata sugli orientamenti letterari e artistici dell'epoca, con un forte recupero della classicità e del passato. In questi aspetti rifugge la lucidità con cui egli perseguì una persuasiva costruzione, anche ma non solo di carattere ideologico, che sa conciliare la società romana con la nuova realtà. Un altro formidabile ministro del principe, Mecenate, vide ad arruolare artisti, poeti, letterati per esaltare il secolo nuovo, la pax Augusta, in un'operazione che mirava conciliare un patrimonio culturale e politico da recuperare e salvaguardare, per quanto possibile, con le logiche dei valori del nuovo regime che non poteva perdere il suo sari meno a unico fondamento militare. Meno importante, sotto questo profilo, appare la politica religiosa: elemento non secondario sia nella costruzione del consenso sia del suo successivo governo. Già richiamato la sua carica di pontefice massimo, ricorderò ancora la solenne inaugurazione dell’Ara Pacis Augustae, deliberata nel 13 e dedicata nel nove a.C., celebrale la definitiva pacificazione dell'impero, dove gli splendidi bassorilievi evocano il mito di Enea, insieme ai riti e agli de della città, e dove era esposta anche una copia delle Res gestae. Ma le forme tradizionali la politica religiosa da Augusto associava anche elementi di novità. È un aspetto che vedremo nella celebrazione dei culti secolari, e che già era presente nell'immediata divinizzazione dell'ucciso Cesare e nel rilancio dei culti gentilizi, in primo luogo, di quella dea Venere da cui la gens Iulia, pure Cesare, apparteneva si vantava di discendere. A evidenziare una almeno parziale svuotamento della costituzione repubblicana giocava tuttavia la centralità dei due riferimenti divenuti i veri titoli di legittimità del nuovo potere: l'esercito e il popolo. L’imperium proconsulare e la tribunicia potestas, di cui abbiamo visto il ruolo determinante nella costruzione del nuovo sistema di potere, esprimono. Questo speciale rapporto. Ne risaltava l'immagine di un governo fondato sul consenso popolare e sull'apporto di un'armata di cui presto il grosso dell'organico avrebbe cessato di essere costituito da romani e dai calici, per aprirsi anche i sudditi delle da costruzione da Augusto province più profondamente romanizzate. E proprio osservatori militari costituiva una nuova base rappresentativa degli interessi collettivi presenti nell'impero, non meno efficaci di quanto non fosse stata per secoli all'interno degli orizzonti cittadini. La situazione emersa dopo il 27 o il 23 a.C. poteva essere ben interpretata come la signoria di un monarca. E tale fisionomia fu ravvisata in lui e dei suoi successori, non solo da molti storici moderni, sovente influenzati troppo da ideologie, preoccupazioni e interessi al loro contemporanei, ma anche dagli antichi, oltre che da buona parte del mondo provinciale, soprattutto in quell'oriente da sempre aduso a tale forma di governo. La costruzione di Augusto e la fisionomia che il potere supremo venne assumendo in capo ai suoi successori non sono infatti riconducibili ad un'esplicita, ma sostanziale forma monastica. Molti hanno interpretato il principato come una poco mascherata forma di monarchia militare, altri insistendo maggiormente sulla formale conservazione delle istituzioni e magistrature repubblicane, sul restaurato ruolo del Senato, lo hanno considerato una forma di diarchia tra il vecchio sistema repubblicano è superiore protettorato del principe. Il principato di Augusto, soprattutto per il fascismo italiano, fu un valore di riferimento. S'impone allora l'autonoma e persistente forza dell'aristocrazia senatoria al vertice non solo delle strutture politiche, ma di un intero sistema economico fondato ancora su quella ricchezza fondiaria, di cui essa aveva una parte consistente. Ma anche delle sue profonde tradizionale di selezionare i magistrati. Il potere di commendatio del principe avrebbe fatto svuotato l'antica libertà di scelta tra più candidati che essi avevano avuto un'età repubblicana. Mutamento che divenne esplicito con i successori di Augusto, allorché la stessa nomina degli antichi magistrati passò direttamente nelle competenze del Senato. Contro Augusto, diversamente dai suoi successori, tesa a dare un grande rilievo all'altra antica funzione assolta da comizi: la legislazione. Attraverso l'ormai docile strumento comiziale egli varò una vasta ed articolata legislazione volta riformare e razionalizzare l'intero assetto sociale. Di fatto già nel corso del primo secolo d.C. i comizi repubblicani passano rapidamente di vitalità, cessando infine di essere addirittura convocati, essendo quasi tutte le loro funzioni trasferite al Senato. All'età augustea risale invece una numerosa serie di leggi comiziali con le quali si venne ad incidere in profondità in tutta la vita giuridica, tanto che nei vari aspetti del diritto civile quanto in quelli del diritto penale e del sistema processuale. Così una lex Iulia iudiciorum privatorum sancì la definitiva scomparsa dell'antico processo per legis actiones, mentre un'altra lex Iulia iudiciorum publicorum introdusse una generale riforma del processo penale romano, intervenendo pienamente sul sistema delle quaestiones. Ma l'importante fu la legislazione augustea nel campo familiare visto preoccupante calo di natalità evidenziatosi da tempo. Non solo e non tanto aveva giocato il malessere delle guerre civili, in una stagione che ormai si sperava chiusa per sempre, quanto il diffondersi di una vita lussuosa e rilassata. È qui che la politica un'evidente il suo intento di restaurazione di un vasto apparato sociale piuttosto che quello di una sua radicale modifica. Con le legesIuliae de maritandis ordinibus Augusto introdussero un insieme di incentivanti e di sanzioni economiche per stimolare la natalità della nobilitas e favorirne i matrimoni legittimi. Queste, e altre leggi, si vennero componente in un sistema normativo organico (evocato da giuristi come la lex Iulia et Papia) volta a disciplinare tutto il sistema familiare e rapporti coniugali, mentre altre leggi erano state introdotte a rafforzare le regole di moralità e la disciplina sociale all'interno dei vincoli matrimoniali, riprendendo in particolare le condotte scandalose e disordini sessuali delle matrone romane. Nei primi anni del suo principato, Augusto provvide riformare l'organizzazione dei comizi, individuando un complesso sistema di precedenza tra le varie centurie in ordine all'andamento della votazione. Sintomo, questa riforma, solo della residua importanza dei comizi, ma anche dell'attenzione con cui Augusto è perseguita il controllo: anche di essi, in fondo, sospettoso, come del Senato. Tuttavia il loro sostanziale depotenziamento era già evidente con la riduzione d'importanza delle votazioni per l'elezione dei magistrati, e sette candidati predeterminati dal princeps con la sua destinatio. L'antica funzione delle magistrature di governo appare in rapida ed irreversibile decadenza. Ciò è evidente soprattutto per quelle figure che avevano avuto un ruolo maggiore età repubblicana ed in particolare i consoli. Non solo la selezione era ora strettamente sotto il controllo del principe, ma le stesse antiche funzioni di governo, politiche e militari, di costoro erano state ormai in gran parte da lui avocate. Il testo venne poi ulteriormente ridotto con l'introduzione, accanto ai consumi ordinari e di altri consoli suffecti, destinati a subentrare ai primi nel corso dell'anno. In tal modo si poteva soddisfare un maggior numero di ambiziosi, riducendo ancor più l'effettiva rilevanza della carica. Oltre alla vanità personale giocava l'elevata posizione in Senato degli ex consoli , ma soprattutto il fatto che dai loro ranghi provenissero i più importanti governatori provinciali, nonché il praefectus urbi, mentre l'accresciuto numero di consoli eletti annualmente, a sua volta, corrispondeva al maggior fabbisogno di consulares ingigantita macchina di governo. La stessa perdita di ruolo appare intervenire molto rapidamente anche per le altre antiche figure, dei censori, ai tribuni e agli edili. Se la censura vi era stato lo sporadico tentativo di Augusto di ricostruirla come figura autonoma, si era però rivelato immediatamente impossibile conservare a resta una reale efficacia essendo il suo contenuto divenuto elemento integrante del ruolo del principe. Qui i lunghi periodi in cui essa cessa di funzionare, sino a che, con Domiziano, divenuto lui stesso censor pepetuus, scomparve definitivamente. Discorso in parte non diverso vale anche per il tribunale, limitato fortemente dalla diretta concorrenza della tribunicia potestas dello stesso principe. Tuttavia tale magistratura si conservò immutata, nelle sue competenze formali, né variò il numero di 10 tribuni annuali. Così come restò in essere l’edilità: ma anche qui alcune delle sue funzioni più importanti furono sottratte e assunte direttamente dal principe con la cura annonae a lui attribuita ed esercitata tramite funzionari da lui dipendenti. Tra l'altro per quasi tutte queste figure, restate più ricche di prestigio che gli effetti dei poteri, il trasferimento del nucleo centrale delle loro antiche competenze al principe aveva comportato lo sviluppo di un sistema burocratico su cui occorrerà tornare più a fondo. Proprio per il carattere più circoscritto specifici compiti esecutivi, che già la connotava in età repubblicana, la questura poté invece conservare, almeno in un primo momento, l'le sue antiche funzioni. Così come per un lasso di tempo significativo la stessa pretura continua a conservare le sue importanti competenze giurisdizionali. Qui infatti giocava anzitutto il suo ruolo come fonte di diritto regolatore dell'intero sistema giuridico che aveva nel processo la chiave di volta. Alla persistente importanza del pretore contribuiva altresì la consolidata istituzionalizzazione delle quaestiones perpetuae nel campo criminale, tutte presiedute da un pretore. Il numero di questi giunse fino ad un massimo di 16. Inoltre il numero totale dei magistrati in qualche modo riferibile alle istituzioni repubblicane e addirittura con l'aumentare, a seguito della crescente complessità del governo imperiale. In repubblicana le magistrature erano state sempre ricoperte a titolo gratuito. In particolare la Repubblica aveva provveduto a rimborsare i costi delle emissioni di magistrati e legati romani fuori di Roma, con cifre forfettarie indicate come viaticum, oltre a sopportarli con un formidabile sistema di comunicazioni via terra, organizzato essenzialmente con finalità strategico-militari. Di questo cursus publicum anche i senatori potevano fruire, oltre a tutte le persone in missione ufficiale. Tale assistenza sarebbe stato ulteriormente sviluppate in età imperiale, mediante l'ulteriore potenziamento sia del reticolo viario che del sistema di assistenza del cursus, assicurando tempi di percorrenza incredibilmente brevi anche per lunghissime distanze. Mutò invece nettamente il sistema degli indennizzi e soprattutto, sin da Augusto, si introdusse un sistema generale di retribuzioni fisse per tutti magistrati e funzionari. 5. Il fondamento sociale del principato Il ridimensionamento dei vecchi organi da pubblica nell'interno del nuovo disegno istituzionale, nel complesso, appare il risultato pressoché inevitabile del dualismo cui già si è fatto riferimento e che si sono stanziò, accanto alla persistenza di un vertice di governo affidato al centro senatorio, nella complessiva riorganizzazione del sistema di governo della Repubblica, con la formazione di un apparato burocratico alle dirette dipendenze del principe, in cui venne progressivamente integrato il ceto equestre. La novità del principato augusteo consiste nel progressivo ampliamento della composizione di questi due gruppi sociali e in particolare dell'ordine equestre, con l'ingresso dell'elite italica prima e provinciale poi. Quest'ultimo aspetto è particolarmente importante giacché si associa all'altra precoce tendenza degli equites a divenire lo strumento privilegiato dell'azione di governo del principe. Questa tendenza si consolidò tutti i successori di Augusto, in particolare con Nerone e poi con Vespasiano e Adriano. Il fatto che tale gruppo fosse privo di consolidate radici politiche ne faceva uno strumento particolarmente docile e affidabile nelle mani del principe, da lui dipendente ogni possibilità di ulteriore carriera e promozione sociale. E dunque legati di Augusto, posti al governo delle province di sua diretta competenza, appartenevano all'ordine senatorio, non diversamente dai governatori delle province sanatorie, le alte cariche dell'amministrazione centrale erano invece quasi tutte riservate ai membri dell'ordine equestre: era ad esempio la figura più elevata e incisiva dell'apparato militare e di governo il prefetto pretorio, gli altri prefetti, al vertice amministrativo dello Stato, con l'eccezione del prefetto urbi, erano anche, insieme responsabili di molti uffici minori, i procuratori di Augusto, titolari di molteplici competenze, anche in ambito finanziario. Tutta l'ossatura della nuova burocrazia dell'organizzazione imperiale si fondò così sulla nuova classe dei cavalieri. Nella lunga stagione del principato di Augusto l'apparato amministrativo della Repubblica aveva conservato quelle singolari caratteristiche di leggerezza che lo avevano configurato sin dall'origine. Si trattava di un insieme di magistrature di funzioni assolte da un ceto di notabili coadiuvati da un limite circoscritto di esecutori che in nessun modo possiamo assimilare a dei moderni funzionari o impiegati. Molti di essi infatti erano servi pubblici o liberti e il tipo di organizzazione cui facevano capo non aveva niente a che fare con la nostra idea di una burocrazia. È proprio qui che Augusto avviò un cambiamento di vasta portata. Si moltiplicano infatti le figure di pubblici amministratori nominati dal princeps. Il impiego stabile in una serie di uffici e funzioni permise loro di acquisire nel corso del tempo un insieme di specifiche competenze. Ecco le premesse per un sapere burocratico. Questo corpo fu caratterizzato da mali da quell'aspetto tipico di ogni burocrazia che era la gerarchia interna e la carriera. La macchina, già impostato da Augusto, era destinata a svilupparsi con i suoi successori, che scende in dimensioni e complessità, costituendo la struttura di governo del principato. In tal modo diviene possibile per la prima volta nella storia di Roma, un controllo capillare del suo immenso dominio politico e dell'amministrazione dei cespiti finanziari necessari a far fronte alla crescente spesa pubblica: fu questo il potere nuovo del principe. Al di là delle magistrature repubblicane, tutti questi funzionari erano direttamente nominati dal principe e ne dipendevano integralmente, tra l'altro per la retribuzione, sebbene ciò sia lungi dal riflettere condotte veramente arbitrarie o improvvisate al centro. Il carattere gerarchico tipico del nuovo sistema burocratico si sarebbe in seguito accentuato, con l'affermazione di un sistema rigido di designazioni che, riflettendo il livello retributivo e lo stesso rango, andavano da sexagenarius a tricenarius. CAPITOLO XIV "Le strutture portanti del principato augusteo" 1. L'assetto istituzionale Il disegno istituzionale di Augusto non era stato definito, una volta per tutte, secondo precise linee di demarcazione. Al contrario si trattava di un processo sottoposto a continui aggiustamenti, dove riferimento all'antica architettura repubblicana e al suo punto di forza costituito dal Senato e la conservazione delle antiche stratificazioni sociali costituiscono il limite variabile e sempre superabile, ma non per questo inesistente, all'affermazione di un potere altrimenti assoluto. La concentrazione dei poteri nella persona di Augusto produsse lo svuotamento della centralità del Senato. Talché, la sua morte, egli lasciava un sistema politico-organizzativo ormai definito, destinato pur nel corso di non poche vicissitudini e crisi, sia interne che esterne, e con le inevitabili ulteriori modifiche, a funzionare efficacemente per secoli. Ecco i suoi tre aspetti caratterizzanti: la costruzione del sistema burocratico di gestione dell'immenso apparato politico e territoriale che costituiva l'impero di Roma, con un articolato sistema di rapporti tra centro e periferia; il riordino del sistema finanziario e tributario centrale e periferico; la riorganizzazione della macchina militare romana, con 1+ precisa definizione dei suoi compiti permanenti. Circa il primo punto bisogna dire come le funzioni imperiali e il ruolo cittadino, ancora in qualche misura si intrecciavano fra loro. La città dell'impero sono i due poli su cui essa venne realizzando e rispetto cui l'Italia restò qualcosa di intermedio e lievemente indeterminato. Non era proprio l’Urbs per antonomasia, ma neppure era identificabile con il mondo provinciale: la nuova realtà imperiale. Il suo governo finiva quindi col costituire quasi un'appendice del governo cittadino e conseguire le logiche di questo. mentre dall'altra l'azione delle vecchie istituzioni repubblicane, secondo la logica del dualismo squilibrato già detta. Grande e unica cabina di comando era essenzialmente la figura del principe. Così come ogni impulso direttiva, ogni decisione in merito alle varie richieste proveniva da lui. Di qui l'importanza degli uffici centrali, la rapida loro crescita di numero e di organici e infine la crescente formalizzazione ed uniformazione delle procedure da essi seguite. Il potenziale degli uffici centrali di governo e il loro maggior coordinamento con il sistema periferico si riflesse anche su un particolare, ma importante, aspetto organizzativo. Mi riferisco non solo al sistema di comunicazioni stradali, fluviali e marittime con il ricchissimo complesso di infrastrutture ad esse collegate e di cui gli apparati di governo avevano la responsabilità, solo in parte trasferite alle autorità locali. Non importante fu il funzionamento di quel cursus publicus, efficacissimo reticolo di supporti che permetteva a chi ne poteva fruire di percorrere grandi distanze in tempi eccezionalmente veloci. Adesso potevano accedere i messaggeri imperiali, e gli alti funzionari ed ufficiali missione, oltre che, in virtù del rango, i membri dell’ordo sentarius. Tale cursus era già esistente in età repubblicana ed ora passò sotto la responsabilità dei curatores e degli altri funzionari competenti. Ma la Repubblica era stata prassi costante che i magistrati superiori e i promagistrati in carica sia dall'estero, sia per la loro azione di governo che nell'attività giurisdizionale, di un consilium, fatto di amici e di esperti. Nulla di nuovo quindi salvo l'incomparabile posizione del princeps rispetto agli antichi magistrati repubblicani, che anch'egli si avvalesse di un organismo analogo. Il consilium principis sembra proiettare anche nei tempi nuovi questa tradizione è, con essa, l'antico impalpabile, ma reale elemento costituito dalla consorteria politica: alleanze personali, ma anche ereditarie, spirito di clan, dipendenza clientelare e scambio di benefici. Nei tempi Augusto si limitò a valorizzare questo strumento per garantire i suoi rapporti col Senato. Infatti si avvalse del consiglio di senatori per istruire e predisporre il materiale di particolare rilevanza politica che intendeva sottoporre al parere del Senato. Più incerta è la presenza, allora è anche degli imperatori successivi, di quel tipo di consilium che ai magistrati repubblicani avevano avuto, fatta di amici scelti in base alla loro competenze e alla loro lealtà politica, di carattere affatto privato e pertanto utilizzato nella misura e nelle forme che al principe parevano opportune. La grande opera di riorganizzazione di Adriano precisò la composizione di tale consilium, attraverso due fondamentali elementi: anzitutto gli esponenti autorevoli del vertice del sistema del governo imperiale, in secondo luogo i migliori giuristi dell'epoca. Anche in seguito esso non perse comunque la sua antica fisionomia di organo privato, composto da amici del princeps, benché fosse assai più evidente il suo ruolo generale di supporto e di coordinamento del governo imperiale. Ma non importante divenne anche l'assistenza adesso costantemente prestata al principe nella sua sempre più estesa attività giurisdizionale. Con Adriano l'appartenenza al consiglio non solo divenne formalizzata, ma anche retribuita, senza che tuttavia ciò comportasse l'esigenza che alle riunioni di tale organismo fossero chiamati sempre tutti i suoi componenti. Nel tempo, il membro più autorevole del consiglio, il prefetto al pretorio, fu chiamato a presiedere, in caso di assenza del principe. 3. Il fisco Un settore dove il ruolo di Augusto era destinato ad incidere in profondità, modificando radicalmente gli antichi assetti repubblicani, concernente la politica monetaria e finanziaria dell'impero. Ciò riguardò anzitutto il diritto di battere moneta. Anche qui si ribadisce formalmente il dualismo tra principesse nato: dal 15 a.C. le reciproche competenze verranno fissate da Augusto, che si riserverà la monetazione d'oro e d'argento, mentre quelle in bronzo resterà di spettanza del Senato. Lo squilibrio è esitante, giacché tutto il sistema monetario si fondava sulla doppia circolazione in oro e argento, rispetto a cui, la moneta in bronzo, molto importante per la complessiva quantità di circolante e per la sua rilevanza sociale come mezzo di pagamento di più largo uso quotidiano, restava subordinata. Il principe-Senato si estese in verità tutta la politica finanziaria dell'impero: accanto al vecchio aerarmi populi romani, rimasto senza grandi modifiche, sotto il controllo di quest'ultimo si delineò infatti un sistema finanziario autonomo sotto la supervisione del principe. L’ amministrazione del primo restò di competenza del praefectus aerari di rango senatorio e, in seguito ai pretori, tornando poi con Claudio, alla figura repubblicana dei questori, definitivamente sostituiti da Nerone, da due prefetti aerari Saturni. Nel rispetto formale della competenza senatoria, di fatto con essa confidava il potere di controllo del principe in base al suo diritto di informare e coinvolgere il Senato nelle sue decisioni. Esso, in effetti, mise in grado gli imperatori più attenti all'equilibrio complessivo del bilancio romano di impastare e realizzare una politica di gestione del tesoro pubblico molto efficace. L'impero del principe la confusione tra il suo patrimonio personale e tesoro pubblico finì col ridurre l'importanza dell’aerarium populi romani rispetto al fisco imperiale. Con questo riferimento, già in uso all'età di Tiberio, si indicavano infatti l'insieme delle attività finanziarie di diretta pertinenza del principe, chiarendosi un processo che, già con Augusto, aveva concentrato nelle sue mani buona parte del sistema finanziario pubblico. Anche in questo campo si evidenzia l'abile saldatura tra vecchio e nuovo effettuata da Augusto, dove le antiche forme non vennero cancellate, ma in parte sostituite o integrate dall'interno con altre strutture le cui leve restarono invece direttamente nelle mani del nuovo centro di potere. Questo processo si sviluppò in parte attraverso la costituzione di casse separate, indicate come rationes, riferite ai singoli settori di competenza. In particolare vi rientrarono vasti settori della spesa pubblica, come le pesanti voci di bilancio relative alla macchina militare e le spese dell'apparato burocratico. In quale misura i flussi finanziari furono dirottati verso una gestione autonoma, direttamente controllata dal principe, di cui la più importante era l'erario militare. Esso era gestito da tre prefetti di rango pretorio, scelti con sorteggio ma che rispondevano al principe in quanto capo dell'esercito e titolare quindi delle spese adesso relative. Tale settore del Tesoro costituì anche lo strumento indispensabile per assicurare la liquidazione dei veterani al momento del congedo. Mentre su questa cassa non gravava anche l'onere delle spese correnti per l'esercito, in particolare il soldo delle truppe. Tra le conseguenze di quella professionalizzazione dell'esercito romano avviata sin dall'età di Mario, si verificò che le legioni, che avevano seguito è garantito le sorti dei grandi capi militari, sin da Cesare e Pompeo, erano costituite da veterani impegnati per decenni nel mestiere delle armi. Si trattava di una fedeltà personale legata ad un'adeguata remunerazione economica, costituita anzitutto dagli stipendi e poi dalla liquidazione, essenzialmente interne, ai veterani stessi al momento del loro congedo. Una pratica quest'ultima che, soprattutto nel corso delle guerre civili, aveva contribuito ad un ulteriore squilibrio nelle campagne italiche, con massicce espropriazioni di terre per sopperire a tali esigenze. Augusto impresse una svolta orientandosi a sostituire tali terre con somme in denaro concessi al momento del congedo e prelevate appunto dall’erario militare. E infine si deve ricordare la sempre più dilatata sfera del patrimonio personale di Augusto e poi del principe in quanto tale. La progressiva istituzionalizzazione della sua figura faceva sì che la sua sfera privata cessasse di essere esclusivamente tale per assumere rilevanza pubblica. Non si coglie nel fatto che in questo suo patrimonio personale si concentrassero nuovi flussi di ricchezza (le acquisizioni forzate per condanne criminali, i proventi provenienti dall'attivo delle province imperiali…). Pressoché naturale sviluppo di tale processo di pubblicizzazione fu l'affermazione di un nuovo criterio secondo cui questo stesso patrimonio privato cessò di essere devoluto secondo le logiche che precedevano la successione ereditaria nel campo privatistico per essere trasmesso al successore del potere imperiale. Esso fu affidato alla gestione di un procurator a patrimonio, carica ricoperta anche da liberti. E non di proprietà fondiaria si concentravano inoltre nelle mani del principe. Tali latifondi, raggruppati tra loro in regiones, vennero amministrati da procuratori imperiali che provvedevano ad affidarli in gestione a conduttori che li dividevano poi in gestioni dirette affidate a singoli coloni. Il privatistico fra conduttori e coloni restò sempre sottoposto superiore controllo e alla responsabilità dei procuratori imperiali. Il processo di trasformazione in senso pubblico del patrimonio del principe contribuì ad inserire un altro settore finanziario costituito da un patrimonio ancora più privato del principe, la res privata, di cui egli aveva una più piena e personale disponibilità. In una relativamente più avanzata si è nucleo così una ratio privata riferita ad un segmento lasciato la più ampia disponibilità personale e alla gestione più elastica e autonoma di quanto non fosse il patrimonio del principe. A parte e da Adriano la supervisione di questo settore fu attribuita ad un procurator rationis privatae con un rango elevato nella gerarchia imperiale. Identifica nella fisionomia unitaria del fisco imperiale avvenne con il contributo dei giuristi che erano chiamati a sistemare e classificare le forme istituzionali del nuovo regime. In tal modo si formalizzò il coordinamento dei vari centri finanziari che facevano capo all'amministrazione centrale. Solo più tardi, con Adriano, si avrà poi l'istituzione di un advocatus fisci chiamato a rappresentare l'interesse dell'amministrazione finanziaria nei rapporti con i privati e da relativi contenziosi cui venne a collegarsi una più vasta rete di altri advocati fisci operanti in ambito provinciale. Si deve ricordare come tra i numerosi procuratori cui era stato deferito di fatto il controllo dell'intera gestione finanziaria dell'impero, si imponesse in primo piano, a partire da Claudio, il procurator a rationibus, in seguito indicato semplicemente come rationalis. A lui infatti venne affidato il compito di tracciare una specie di bilancio generale dello Stato, onde permettere ai poteri centrali, principe Senato, di avere il quadro complessivo della situazione finanziaria ed economica dell'impero. Il sistema fiscale vigente nelle province era diverso a seconda delle due categorie di queste: populi Romani o imperiali. In queste ultime tale settore dell'amministrazione fu affidato da procuratori, mentre nelle prime analoghe funzioni furono di competenza di questori. Il sistema fiscale, per le province imperiali, consisteva in un'imposizione personale gravante su tutti provinciali, tributum capitis, e non imposta fondiaria costituita dal tributum soli. Nel senatore invece vi era una responsabilità delle città per la riscossione degli stipendia dovuti al fisco in relazione ai patrimoni fondiari. Fondamentale infine è il passaggio a una gestione diretta del prelievo fiscale, con l'eliminazione del sistema degli appalti. 4. Il centro del potere e il governo provinciale Il rallentamento dell'espansionismo militare romano rese possibile un lungo periodo di pace all'interno dell'impero. Mentre ciò non sembra vero di superficie, giacché i complotti e i torbidi da un lato, le forme di repressione e persecuzione politica, gli omicidi e i delitti, dall'altro, non vennero certo meno. Anzi la fame imperiale fu teatro di grammi palesi e sanguinosi, macchinazioni celate che solo in parte trascese nel chiuso dei palazzi. Ed ancor più negli anni degli imperatori successivi (Caligola, Nerone,Domiziano…). Ma tutto ciò poco toccava l'infinità di individui al di fuori della ristretta cerchia della nobiltà senatoria, degli alti magistrati e funzionari, dei comandanti militari. Il flusso di del potere suscitavano pochi echi ancora più deboli nelle province. Avendo rallentato la spinta innovatrice di Cesare, Augusto aveva portato avanti in modo sistematico il profondo risanamento del governo provinciale, grazie al controllo unitario e costante nel tempo esercitato, direttamente o indirettamente, dal centro su tutti i governatori provinciali. Per questo anche riaffermato primato di Roma e dell'Italia non aveva impedito che già sotto Augusto e assai più con i suoi immediati successori, si attivasse una fortissima romanizzazione delle elitès locali. Claudio, oltre a inserire nel Senato esponenti provinciali, si impegnò anche in una sistematica politica di concessione della civitas romana e a numerose comunità provinciali, seguito poi dai Flavi nel processo di latinizzazione di intere province. Mi prendevano consistenza così i circuiti