Scarica Storia di Roma tra diritto e potere, Luigi Capogrossi Colognesi e più Appunti in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! STORIA DEL DIRITTO ROMANO Le condizioni materiali nel Lazio arcaico Il paesaggio fisico in cui sorsero Roma e le altre città del Latium Vetus era un territorio molto simile a quello odierno, semplicemente più scosceso e con più dislivelli. Ricco di aree boschive ed acquitrini, il territorio era di dimensioni modeste, in quanto limitato: a Nord dal Tevere, a Ovest dal mare, a Est da dei rilievi e a Sud dagli ultimi contrafforti dei colli Albani. La popolazione praticava l’allevamento (pecore e maiali), l’agricoltura (con la coltivazione di farro e orzo), ma vi era anche la presenza di alberi da frutto (fico e ulivo). Pian piano andò sviluppandosi la presenza di forme di circolazione di cose e uomini e importanti furono le vie di comunicazione dal mare verso l’interno (i beni che arrivavano presso la zona costiera degli scambi venivano trasportati nell’entroterra). In questo territorio vi erano numerosi villaggi costituiti da poche capanne, che spesso non ebbero un rapido sviluppo a causa della difficoltà di difesa del territorio (Plinio il Vecchio nella naturalis historia parla della presenza di circa trenta popolazioni conosciute sotto il nome di Albenses). Villaggi, distretti rurali e leghe religiose. Non è facile individuare forme culturali e strutture univoche per quanto riguarda i primi insediamenti. Dallo studio dei reperti archeologici è emersa chiaramente la credenza comune in una vita ultraterrena, in quanto nelle tombe sono stati trovati, accanto ai defunti, oggetti della vita quotidiana. Da queste tombe è risultata ben visibile un’uniformità di condizioni economiche. I vincoli parentali erano rafforzati dal culto degli antenati. Una posizione preminente era quella occupata dai Patres, anziani, anziani, saggi, in grado di guidare la comunità e forse anche implicati nell’assolvimento di funzioni religiose. Un ruolo fondamentale era rivestito anche dall’assemblea degli uomini in arme i quali, insieme ai Patres, prendevano decisioni riguardanti la comunità. Tuttavia è probabile che nei momenti di pericolo il potere venisse assegnato a guerrieri di particolare valore. Questi piccoli insediamenti, viste anche le dimensioni modeste del luogo, erano caratterizzati da un fitto sistema di relazioni: usavano la stessa lingua, celebravano alcuni culti insieme e condividevano interessi di carattere economico (controllo degli scambi commerciali, spartizione di pascoli e terre agricole…). Tuttavia a ridosso della fondazione di Roma assistiamo a delle profonde trasformazioni, riguardanti in particolare la differenziazione di condizioni e economiche, visibile per la presenza di una maggiore opulenza nelle tombe e soprattutto dovuta ad una maggiore accumulazione della ricchezza e ad uno strumento di distribuzione ineguale della ricchezza: la guerra (in essa infatti degli individui riescono ad assumere delle posizioni di prestigio). Pian piano si passa da una produzione domestica (principalmente oggetti in terracotta) ad una produzione specializzata (oggetti metallici, che necessitano l’utilizzo di strumenti più complessi), ma soprattutto si arriva ad uno scambio tra prodotti agropastorali e manufatti. Iniziano inoltre le prime appropriazioni di beni mobili, capanne e campi coltivati, cosa che differenzia ulteriormente i diversi gruppi. Spesso si giunge alla presenza di fenomeni di sinecismo (vivere insieme). La fondazione di Roma Pian piano si creano dei centri insediativi di un certo rilievo; troviamo un sinecismo dei vari villaggi situati sul Palatino, che si protendeva anche ai colli vicini (Esquilino, Celio, Quirinale e Campidoglio), che avevano una fondamentale importanza strategica in quanto costituivano una fortificazione naturale. Pian piano si sviluppano nuovi centri, tra cui spicca la nascita di Roma il 21 Aprile del 753 a.C, in quanto Roma si distingue per la sua affermazione come realtà nuova. Ci sono infatti forme aggregative che seguono un percorso alternativo, ma che si dissolvono di fronte alla forma storicamente vincente della polis. La città d’altro canto prenderà consistenza pian piano, ma questo non vuol dire che non esistesse sin dalla metà dell’VIII secolo a.C. Essa risulta infatti essere un nuovo centro di funzionamento, diverso dagli antichi villaggi e non mera somma confederale di questi (pur consentendo uno sviluppo dei processi sociali ed economici). Romolo portò a delle grandi novità organizzative (creò una costituzione come espressione di qualcosa che non esisteva prima). Vi fu infatti la distribuzione della cittadinanza in tre tribù: 1. Ramnes; 2. Tities; 3. Luceres. Ognuna di esse era divisa in dieci curie a loro volta suddivise in dieci decurie. Organizzarono un sistema piramidale di distribuzione per lo più finalizzato alla guerra perché ognuna avrebbe dovuto fornire: cento uomini armati e dieci cavalieri, dando così luogo alla primitiva legione di tremila fanti e assicurando trecento cavalieri. Da una parte questa nuova nascita porta ad una rottura rispetto alla fase precedente, dall’altra raccoglie, fonde e organizza realtà preesistenti (fusione dei villaggi preistorici del Palatino e del Quirinale con le relative tradizioni). All’inizio vi era anche una divisione di carattere urbano in montes, ed in strutture periferiche costituite da un insieme di pagi. Le strutture familiari e le più ampie aggregazioni sociali Secondo molti la città sarebbe il punto di arrivo di un processo di crescita della società umana il cui inizio sarebbe da identificarsi nella famiglia naturale, cioè il padre ed i suoi discendenti. Due strutture centrali nel corso di tutta la storia di Roma sono famiglia e gens: 1. Familia proprio iure-> è l’unità elementare di un sistema fondato sul matrimonio monogamico che vede una coppia di sposi e i relativi discendenti, che vivono tendenzialmente nella stessa casa (anche se il vincolo di parentela è stabilito attraverso la linea maschile-> i figli di una sorella e di un fratello non sono agnati tra di loro). Nella famiglia proprio iure sono sottoposti alla potestas del padre la moglie, i figli e le figlie non sposate, i successivi discendenti per linea maschile e le loro mogli. Le figlie e le nipoti, una volta sposate, entreranno a far parte della famiglia del marito (matrimonio cum manu, in cui la moglie era perfettamente integrata nella famiglia del marito, con la finzione che fosse figlia del proprio marito. I rapporti giuridici e i diritti (soprattutto economici), erano gestiti dai patres. Il sistema era infatti un sistema patriarcale dove i singoli individui venivano imprigionati in vincoli di sangue. In realtà però la famiglia romana era transitoria, perché l’unità familiare si dissolveva con il passaggio di ogni generazione (alla morte del pater familias, i figli di questo diventano tutti pater familias, e i loro figli sono sotto la potestas del padre), tale che la famiglia romana non poteva assumere una forte valenza politica; 2. Gens/gentes-> la gens non è un gruppo parentale, ma un’aggregazione di famiglie che portano lo stesso nomen. Non fanno parte della gens individui che hanno subito una degradazione legale (perdita della libertà, della cittadinanza e di nascita illegittima). L’appartenenza al gruppo gentilizio era immediatamente indicata dal nomen che insieme al prenome individuale (scelto tra quelli tipici di ciascuna gens) indicava l’individuo. Solo in seguito venne aggiunto un cognomen venendo così a creare l’onomastica costituita dai tria nomina: prenome personale, nome gentilizio e cognome del lignaggio. L’origine dell’organizzazione gentilizia si può ricercare nella fusione delle comunità appartenenti a quei piccoli villaggi riuniti in unità più vaste, che dovettero ridefinire le loro strutture sociali pur senza abbandonarle. Vennero così a crearsi due ceti: i patrizi (da patres) nonché la futura aristocrazia e i plebei che mantenevano con i patrizi dei rapporti di clientela. Prime forme di proprietà sono portate da Romolo che dà ad ognuno un heredium (cioè due iugeri di terra). La città delle origini come sistema aperto 6. Auguri-> si occupano della scienza dei segni per comprendere la volontà degli dei; è necessario operare una distinzione tra auguria e auspicia, distinzione che non è dovuta a diversi tipi di manifestazioni a a diverse categorie di persone: rex e poi magistrati per gli auspicia e auguri per gli auguria. Gli auspicia si occupano di situazioni immediate (il magistrato interpella gli dei e magari non svolge un rito perché il dio è contrario, ma potrà svolgerlo all’indomani), mentre gli auguria si occupano di situazioni lontane nel tempo (anche del destino di Roma) e contemplano, con un chiaro riferimento al verbo latino augere, una crescita di potenza sulla figura dell’uomo. Vennero creati una scienza augurale e un diritto augurale, e tradizioni e interpretazioni vennero raccolte in testi. Per molti secoli a questi collegi appartennero solo elementi patrizi, ma soprattutto erano pochi i ruoli che richiedevano una totale consacrazione del sacerdote alla divinità con conseguente distacco dalla vita pubblica. La società non è più infatti una società teocratica in senso stretto perché si affermano in fretta un’aristocrazia guerriera e un esercito cittadino. Questo non vuol dire che però la religione non abbia importanza, in quanto si trasferisce da un livello più familiare a livelli nuovi. I pontefici Il collegio pontificale ebbe un ruolo fondamentale nella formazione e nello sviluppo delle forme giuridiche, in quanto il campo privilegiato della sua azione è la sfera giuridica. Esso svolge un’attività di innovazione e conservazione, perché applica le prime tecniche analitiche ad un insieme di pratiche giuridiche e religiose. Nasce così la scienza giuridica romana, in grado di gestire il passato in funzione del futuro, in grado di usare il materiale antico per costruire nuove realtà. Il collegio era presieduto dal pontifex maximus (ruolo di grande prestigio) e da cinque membri, tra cui i flamines maggiori, destinati a restare in carica tutta la vita come il pontifex maximus. Il pontefice massimo aveva il controllo su tutte le forme della vita religiosa romana, inoltre aveva anche una funzione di consulenza nei confronti del rex e presiedeva i comizi calati. Soprattutto grazie alla sua funzione di consulenza nei confronti del rex si può dire che esso garantiva la pacifica convivenza tra i singoli cittadini e i vari gruppi familiari e gentilizi, portando alla repressione criminale e ad un diritto privato e uno processuale. Il ruolo del pontefice si intreccia ancora maggiormente a quello del rex se prendiamo in considerazione le leges regiae, in quanto primario era il ruolo pontificale nella loro elaborazione e conservazione. Queste leggi innovavano e modificavano un tessuto istituzionale preesistente. Le radici arcaiche del diritto cittadino L’area dei fenomeni giuridici è un processo si cui possiamo solo immaginare le origini. Il termine ius è lungi dal corrispondere alla nostra idea di diritto (e sono due i termini che si riferiscono ad una regola: ius e fas, però fas è riferito alla sfera religiosa). Vi è stata nella Roma antica, una fusione nel blocco unitario della città della grande moltitudine di riti e tradizioni, vi è stato quindi un vero e proprio travaso delle forme preciviche nelle istituzioni cittadine (e la sfera religiosa è riuscita a resistere alla forza devastante del tempo e all’antinomica struttura politica cittadina), che ha portato ad un corpo omogeneo di istituzioni che regolavano la vita della comunità. Queste pratiche sociali caratterizzate da un intreccio di: legami di sangue, subordinazione alle potenze ultraterrene e presenza di norme giuridiche. Quindi l’antico patrimonio è divenuto cemento istituzionale della civitas e le tradizioni antiche sono sopravvissute nella misura in cui esse non contraddicessero il sistema unificato di valori condivisi. Infine a Roma il diritto è concepito come preesistente al legislatore, che interviene solo a modificare i singoli punti; il fondamento del diritto sono infatti i mores e sebbene vi siano delle modifiche, le strutture fondanti dell’ordinamento sono solo assai raramente modificate. L’importanza dei pontefici e del rex consiste nel passaggio da una pluralità di istituzioni locali ad un corpo unitario. Le basi sociali delle riforme del VI secolo In questo periodo vi fu una grande rottura, determinata dall’avvento al potere di una serie di re di origine etrusca, sotto cui si assistette ad una forte modernizzazione dell’apparato politico- istituzionale. Tali trasformazioni furono rese possibili dalla crescita politica e sociale di Roma, che divenne una delle più importanti città del Lazio, sia per dimensioni sia per popolazione. Inoltre vi fu un’espansione delle attività artigianali e mercantili e iniziò ad esservi la circolazione monetaria (l’aes signatum-> cioè il bronzo marcato con cui si intende il peso e la qualità del bronzo come bene di scambio risale al regno di Servio). Vi fu inoltre un grande incremento delle opere pubbliche, che portò una massa crescente di popolazione a concentrarsi nella città. Questo clima portò allo sviluppo di nuovi gruppi sociali e di nuovi ceti, non più facenti parte delle gentes (molte delle quali si erano erose o erano scomparse), che aspiravano ad uno status sociale proprio. Molto importante in questo ambito fu anche la famiglia proprio iure, che, a differenza delle gentes, era caratterizzata da una grande compattezza dovuta al numero più ristretto di componenti che essi aveva; nell’ambito di queste famiglie c’era la cooperazione di più individui sotto la potestas dell’avus, con la conseguente possibilità della trasmissione di un sapere tecnico. Tuttavia questo crescente sviluppo economico non attenuò le distanze tra i vari strati sociali, ma al contrario finì per accentuarle, creando una distinzione tra il mondo aristocratico delle gentes e il resto della popolazione (distinzione che però risulta essere diversa da quella di patrizi e plebei, dove i patrizi erano qualcosa di ben definito, mentre i plebei erano non patrizi). La fisionomia della nuova città L’avvento dei re etruschi (che avevano anche un maggiore livello culturale) coincide con un generale avvicinamento di Roma alle potenti città etrusche (non in un rapporto di subordinazione, ma per la necessità di un appoggio vista l’intenzione di espandersi in Campania. Il potere dei nuovi re si accentuò, ma fu anche caratterizzato da un aspetto particolare: la sua connotazione irregolare, in quanto: vi furono ascese al regnum in modo irregolare (si racconta che Servio Tullio fosse un militare che dopo essersi impadronito del Celio conquistò il regnum spodestando Tarquinio Prisco; oppure Tarquinio il Superbo che fece cadere dalle scale Servio, finito dalla figlia Tullia Minore che lo schiacciò con un cocchio, negandogli anche la sepoltura), mancarono l’inauguratio o l’interregnum o la presentazione ai comizi curiati. Un carattere comune a tutti questi governi fu quello della spinta militare e del carattere autoritario, che permise di ottenere un appoggio del popolo grazie anche all’adozione di una politica filopopolare (che ricorda quella dei tiranni greci). Vennero anche introdotte le insegne della sovranità e del comando (corona d’oro, toga purpurea, corona d’alloro…) e venne adottata un’intensa politica di riforme, che fece si che l’ordinamento curiato e le strutture gentilizie fossero sostituite dalla ricchezza individuale e dalla proprietà privata. Il concetto romano di proprietà privata è molto diverso da quello attuale, in quanto esso non riguardava tutti i cittadini, ma solo i pater familias, che erano gli unici ad avere un potere giuridico- economico. Le prime riforme A Tarquinio Prisco si devono delle importanti riforme: 1. L’ampliamento del senato; 2. L’ampliamento dell’organico della cavalleria (allargando così la compagine aristocratica); 3. Incremento del numero dei patres (da duecento a trecento)-> porta ad un rafforzamento quantitativo dei gruppi al vertice della società romana. A rendere memorabile la vicenda non fu la nomina di nuovi membri del senato, ma la quantità. Viene quindi a crearsi un nuovo gruppo sociale che è quello delle minores gentes. Inoltre il meccanismo delle curie avevano trasformato gruppi familiari in nuove genti; era tuttavia difficile stabilire ed evidenziare il punto di non ritorno da un raggruppamento familiare a una gens; i fattori economici infatti non risultano sufficienti per determinare ciò, mentre potrebbe essere considerato punto di non ritorno il l’inserimento, da parte del rex, di un membro della nuova gens nei ranghi del senato. Questo portò non ad una crescita graduale, ma ad un’elevazione in blocco del gruppo sociale. Tarquinio ampliò la cavalleria aggiungendo una nuova centuria di celeres alle tre già esistenti, in modo da rafforzare la potenza romana (Atto Navio, un augure, cercò di impedirglielo per motivi religiosi, ma lui raggirò il problema e raddoppiò le tre antiche centurie di celeres. Procedette inoltre ad un potenziamento di un’altra struttura base dell’esercito: la fanteria. Vennero infatti utilizzate le ricchezze individuali per ottenere un armamento uniforme e potenziato di tutto l’organico (ricordiamo che i cittadini dovevano armarsi a loro spese). L’ordinamento centuriato Al centro della sua riforma si impone una nuova organizzazione militare: la primitiva legione venne così sostituita da uno schieramento oplitico: la parola oplita deriva dalla parola greca oplites, che significa armato, cosa che indica la presenza di guerrieri che possedevano un armamento pesante e che andavano a sostituire gli antichi soldati che avevano solo armi offensive e non scudo e corazza. Queste trasformazioni furono dovute a: 1. Accresciuti livelli di ricchezza; 2. Sviluppi tecnologici. Questo sistema fece entrare in crisi il predominio gentilizio. Infatti precedentemente c’era un solo guerriero che era aiutato da numerosi subalterni, armati alla leggera, invece con l’esercito oplitico cresceva l’organico dei combattenti con pieno armamento, mentre gli ausiliari restavano al margine. La nuova composizione dell’esercito prevedeva una selezione fondata sulla ricchezza (fondamento timocratico) individuale, cosa che rendeva necessario avere una conoscenza della distribuzione di questa ricchezza. Un cittadino era cittadino in quanto guerriero: gli individui vennero suddivisi in un certo numero di distretti, chiamati centurie (che sostituirono le antiche curie). Queste centurie furono poi suddivise in cinque classi, sulla base dei diversi livelli di ricchezza della cittadinanza. In totale si contarono 193 centurie. Inizialmente la distribuzione dei cittadini per classe era basata sul calcolo della ricchezza fondiaria, mentre in seguito si fece riferimento alla moneta romana: l’asse (100.000 assi per la prima classe e 10.000 per la quinta). La prima classe (di cui facevano parte non solo i patrizi, ma anche quelle famiglie dotate di una ricchezza importante) forniva all’esercito 18 centurie di cavalieri -18 per la presenza degli equo pubblico cioè quelli forniti dalla città- 40 centurie di iuniores –dai 18 ai 46 anni- e 40 di seniores –anziani tenuti di riserva-. La seconda, la terza e la quarta classe fornivano 10 centurie iuniores e 10 seniores. A queste 188 centurie se ne devono aggiungere 5: 2 di soldati del genio (tecnici), 2 centurie di musici e una di capite censi, cioè dove c’erano tutti i cittadini privi di capitali. Quando poi l’ordinamento centuriato si estese dalla sfera militare alla dimensione politica, il voto degli appartenenti alla prima classe si fece più pesante e importante rispetto a quello degli altri (infatti il rapporto tra sfera politica e sfera militare sarebbe sempre stato strettissimo –i comizi furono convocati sempre nel pomerium, cioè al di fuori della cinta sacra di Roma all’interno di cui non poteva esplicarsi il comando militare-). In un primo momento l’ordinamento centuriato ebbe forse solo una funzione militare, e questo spiegherebbe la logica seguita da Servio che avrebbe voluto raddoppiare l’iniziale legione di tremila fanti. Secondo Livio e Dionigi solo gli appartenenti alle centurie delle prime tre classo erano forniti di un armamento pesante adeguato alla fanteria oplitica, gli altri erano solo ausiliari dei primi. Tutto ciò permise una distinzione all’interno della popolazione tra quelli che erano: 1. Elementi costitutivi della classis, cioè l’esercito; 2. Elementi infra classem, cioè al di fuori dell’esercito. Ciascuna legione continuò a comporsi di sessanta centurie (ridotte dai cento ai sessanta ai trenta uomini se si volevano ottenere unità militari più agili-> si verificò quando il supremo comando passò dal rex alla coppia di consoli, età in cui si riscontra anche un aumento degli organici della cavalleria). diritto di veto, contro qualsiasi atto o delibera dei magistrati o dello stesso senato. Questi magistrati avevano poi un carattere sacrosanto, affermato con una lex sacrata (giuramento assunto collettivamente dalla plebe, ma vincolante tutta la comunità per il suo fondamento religioso). Venne poi creata un’assemblea (il concilium plebis) che votava sulla base della distribuzione delle tribù territoriali, che votava proprie delibere: i plebisciti ed eleggeva magistrati propri, come i tribuni e gli edili. Tuttavia non era ancora stato rimosso il monopolio delle cariche magistraturali e non erano state soddisfatte le pretese economiche; il mondo plebeo restava quindi una realtà sociale autonoma, con tradizioni e templi propri e avente una sua sfera territoriale: l’Aventino. Nella metà del V secolo a.C. si ebbero i primi passi in avanti. Tuttavia bisogna ricordare che lo spazio per i civis era limitato dagli interessi della città. Importante fu una legge introdotta nel 449 a.C., una legge Valeria Orazia, che vietava di mettere a morte un cittadino romano colpevole di una colpa capitale senza prima consultare il popolo riunito nei comizi. Questo vietava anche di istituire una magistratura sottratta a tale tipo di provocatio-> interesse plebeo per tale garanzia, in quanto le magistrature con queste limitazioni erano allora solo patrizie. Le XII tavole Furono un punto di svolta nelle vicende del V secolo a.C. in quanto rappresentarono il successo plebeo nell’ottenere la redazione scritta delle regole che presiedevano la vita della città; veniva così meno il monopolio della conoscenza e dell’interpretazione del diritto cittadino, fino a quel momento esercitato dal corpo dei pontefici. Questo avvenne anche perché un patrizio, Appio Claudio, si schierò a favore di questa richiesta. Per l’anno 451-450 a.C. si deliberò di istituire rispetto alla coppia consolare un collegio di dieci membri, i decemviri legibus scribundis, che avevano il compito di leges scribere, cioè di redigere per iscritto le leggi della comunità cittadina. Questo per raggiungere la certezza che solo la norma scritta può dare, arrivando così a ridefinire la concezione romana del diritto. Alla preminenza originaria dei mores quindi, andò a sostituirsi la centralità della legge scritta approvata dalla comunità politica, creando così l’idea di una legge uguale per tutti, cosa nuova per i romani (ma simile al mondo greco). Ai dieci membri vennero dati poteri assoluti (sottratti alla provocatio che limitava l’imperium); si pensa infatti che il decemvirato si affermasse come organo generale do governo della città e delle sue leggi, determinando quindi un mutamento della forma della città, portando così ad una rifondazione della città e ad un’integrazione sociale più radicale, dove c’era il desiderio di: una conoscenza pubblica delle norme, la sperimentazione di una forma di governo, e la realizzazione di un nuovo modo di formazione del diritto. Sappiamo che il secondo anno, per completare la redazione delle dodici tavole, il collegio integrò anche elementi plebei: ed è quindi incomprensibile la fisionomia tirannica attribuita ai decemviri. Vi fu infatti una crisi del decemvirato dovuta alla violenza arrecata ad una fanciulla plebea di nome Virginia; tuttavia la violenza celava in realtà una crisi politica. La verità che si cela dietro la caduta di Claudio è legata al concetto di libertas, libertas che non ha né carattere democratico, né eguaglianza politica. Tutti coloro che venivano meno alla compattezza del sistema aristocratico vengono definiti tiranni e vengono accusati della massima colpa verso la libertas: l’adfectatio regni, cioè l’aspirazione al regno (ciò accadde per Spurio Cassio, Appio Claudio, i Gracchi e Giulio Cesare), in quanto il desiderio era di colpire tutti coloro che avrebbero indebolito i suoi interessi. Forse la riforma sarebbe stata accettata se tutto il diritto non fosse stato sotto la sovranità del demos: questo durò per poco in quanto la fine di Claudio fece rientrare il sistema giuridico nel suo alveolo tradizionale; l’unica differenza presente fu l’approvazione (finita nel 449 a.C.) delle dodici tavole, che costituirono la nuova realtà istituzionale. Queste furono la base dello ius civile, sebbene in esse non fosse contenuto tutto il diritto vigente (per questo non possono essere definite un codice); esse presuppongono infatti un tessuto di regole e di meccanismi esistenti su cui innestarsi (in questo tessuto si sostanziano i mores ancestrali); nonostante ciò non verrà mai meno la loro importanza. Iniziarono quindi ad essere più evidenti i limiti imposti ai pontefici nel controllo e nella modifica delle antiche tradizioni, a fronte di un diritto scritto, noto e controllato da tutta la comunità. Le XII leggi si concentrano soprattutto sul sistema dei diritti privati e dei rapporti tra i cittadini, mentre il diritto pubblico rimane al margine. Esse inoltre risultano essere uno spartiacque tra vecchio e nuovo: tra il serbatoio di mores raccolti dai decemviri e le nuove regole da essi introdotte. Per esempio: 1. Il debitore è sottoposto anche personalmente al potere del creditore; 2. Nel caso di azioni dannose e illegittime vi è la possibilità di giungere ad un accordo privato, il pacisci, da cui deriva il pactum, che supera lo stadio della vendetta. Tuttavia appare ancora poco evidente l’intervento della comunità a reprimere i comportamenti illeciti dei singoli; 3. Prima dei decemviri il pater familias era l’unico titolare dei diritti; con i decemviri vengono introdotti dei fattori di elasticità riguardo alla sua autorità. Vi è per esempio il superamento del matrimonio cum manu, che assimilava la moglie alla condizione di una figlia di famiglia sottoposta completamente all’autorità del pater familias. 4. Le XII tavole descrivono inoltre una società agraria relativamente stabile, dove il singolo proprietario non viene isolato, ma inserito in un assetto territoriale (per procurare maggiori vantaggi per i fondi interessati); 5. Riorganizzazione territoriale fondata sulla centuriatio, volta ad assicurare un sistema di viabilità locale e di controllo delle acque; 6. Distinzione di rec mancipi e nec mancipi, che hanno due diversi sistemi di circolazione; per le res mancipi (immobili, animali da lavoro e schiavi) c’era una sola forma di trasferimento della proprietà: la mancipatio, una forma negoziale solenne (importante è la presenza dell’usus, per cui una situazione di fatto, durata due o tre anni si trasformava in un vero e proprio diritto). Le res nec mancipi (elefante e cammello) erano beni individuali senza importanza sociale e senza valore economico-sociale; la loro circolazione era meno rigorosa e bastava usare il semplice negozio giuridico non formale della traditio (consegna), con cui la traslazione della proprietà era immediata; 7. Il sistema della successione dei familiari nel patrimonio del defunto era ben disciplinato, in quanto il defunto poteva disporre del suo patrimonio mediante testamento. Pian piano vi fu un’applicazione sempre più ampia delle regole dei decemviri, con un adattamento alla società in continua trasformazione. Questa è una fase molto importante da considerare in quanto una società del genere richiedeva un tale processo di sperimentazione. La conclusione di un percorso Numerose furono le tappe: l’istituzione dei tribuni e la loro elezione da parte dei comizi tributi con la Lex Publilia, la legislazione decemvirale, le leggi Valerie Orazie e la Lex Canuleia. In seguito per evitare di dover escludere i plebei dal consolato e forse anche per esigenze consolari, venne sospesa la nomina di tali magistrati e venne introdotto un numero di magistrati cum imperio maggiore. Così, dal 444 al 368 a.C., venne attribuito l’imperium consulare agli ufficiali delle legioni, i tribuni militum, eletti in un numero che varia da 3 a 6 (essi potevano convocare il senato solo in casi eccezionali, in seguito avevano un rango inferiore rispetto agli ex-consoli e non potevano partecipare al trionfo. Tra essi c’erano anche elementi plebei. Venne poi creata una nuova magistratura: la censura, dove i censori avevano la funzione di censimento della città. Vi erano dunque stati numerosi progressi nell’equiparazione politica dei due ordini, anche se rimaneva: il monopolio patrizio sulle terre pubbliche e l’indebitamento della plebe. Tuttavia vi furono diverse conquiste militari (prima Veio e quindi espansione verso Nord e poi espansione verso il Lazio meridionale), che permisero di raddoppiare l’Ager Romanus. Questo comportò che a tutti i cittadini venisse dato un appezzamento di terra pari a sette iugeri, cosicchè le famiglie numerose ebbero un cospicuo appezzamento di terra-> ciò alleggerì anche l’indebitamento, fece espandere la proprietà agraria e dei meccanismi finanziari e mercantili che avrebbero in seguito permesso opere militari e opere pubbliche (su ciò non vi furono ripercussioni negativi a causa del sacco dei Galli avvenuto nel 390 a.C.). I tempi erano ormai maturi per un compromesso politico. Vennero emanate nel 367 a.C le leggi Licinie Sestie che permisero alla plebe di raggiungere tutti gli obbiettivi che si era prefissata (nuove strutture politico-sociali e dissoluzione delle strutture gentilizie): 1. La prima prevedeva che uno dei due consoli potesse essere plebeo (partecipazione della plebe alla vita politica); 2. La seconda poneva un limite al possesso individuale di terra (per tutta la terra, non solo ager publicus), per un massimo di 500 iugeri (125 ettari)-> le restanti terre sarebbero poi state frammentate e date ad altri; 3. La terza regolava i debiti: gli interessi già pagati dovevano computarsi come parte del capitale da restituire; in seguito, nel 326 a.C. ci sarà la lex Poetelia Papiria, che faceva si che l’indebitato fosse sottratto all’asservimento personale da parte del creditore, rimanendo così vincolato solo sul piano giuridico e sul piano economico. La lex Manlia del 357 a.C., riferita alla schiavitù, prevedeva una tassa del 5% sulle manomissioni in modo da avere introito fiscale. Il tutto determinò una spinta espansionistica: tra il 387 e il 332 8 nuove tribù si aggiunsero alle 17 rustiche e poi nel 241 a.C. si giunse al numero definitivo di 31. Inoltre si definì l’architettura costituzionale, in cui i censori avevano un ruolo ben definito e dovevano inserire nel rango del senato gli ex magistrati sia patrizi sia plebei. Venne inoltre creata una nuova figura: quella del pretore. Il consolato e il governo della città Vi era una totale assenza di una costituzione scritta e vi erano una serie di leggi (che per il loro essere ellittiche sono di difficile interpretazione) che avevano man mano introdotto figure nuove di governo e nuove regole per le magistrature già esistenti. Per questo ebbero una grande importanza l’interpretazione e le pratiche applicative che regolavano interi settori dell’apparato politico, e spesso furono messi in discussione criteri già seguiti e ci si allontanò dalle consuetudini. Questo è un modo di essere dell’ordinamento romano non sempre interpretato correttamente dai moderni: essi hanno infatti interpretato l’ordinamento romano come un disegno unitario, come un insieme complesso di competenze e di reciproci confini tra le varie figure e organi della repubblica-> questa tradizione di studi non ha potuto fare a meno di cogliere una serie di lacune e contraddizioni in questa realtà dove si evidenziava di volta in volta il mancato rispetto dell’una o dell’altra regola ed è perciò risultato impossibile giungere ad un disegno costituzionale di Roma tanto solido quanto coerente. Il rex aveva un ruolo politico-militare e uno religioso che si esprimeva nella sua inauguratio e nella legittimazione a interrogare la volontà degli dei mediante gli auspicia. Con la sua scomparsa i romani ne preservarono i principali aspetti religiosi con il rex sacrorum, che aveva una posizione eminente nel collegio pontificale. L’arcaica dimensione del rex inauguratus fu così fu svincolata dalle cariche repubblicane, arrivando così ad una laicizzazione del governo cittadino-> tuttavia ci sarà un aspetto della sfera religiosa che non potrà mai essere disgiunto dalla vita politica e militare e cioè il potere e il dovere di interrogare gli dei prima di intraprendere ogni azione pubblica (mediante gli auspicia). Analizzando le diverse figure possiamo evidenziare quella dei consoli: riaffermati compiutamente solo nel 367 a.C. essi avevano il supremo potere di comando, indicato come imperium; questa carica aveva carattere collegiale e la sua durata era annuale-> essi erano magistrati eponimi (che danno il nome all’anno). L’imperium consolare era poi diviso a seconda che fosse esercitato all’interno della città (imperium domi) o che si sostanziasse in un comando militare (imperium militiae). Una serie di limitazioni potevano essere applicate all’imperium domi ma non così facilmente potevano essere applicate all’imperium militiae; questo per il fatto che il popolo poteva opporsi alla repressione esercitata dai magistrati e anche per la presenza del diritto di veto esercitato dai tribuni della plebe. 3. Agris dandis adsignandis et coloniae deducendae-> preposti alle attività per la fondazione di una colonia, con la complessa procedura di divisione e redistribuzione delle terre coloniali mediante la centuriazione. Il senato Inizialmente composto solo da patrizi era indicato con il nome di patres (sia capo famiglia sia patrizi). Solo quando i plebei iniziarono ad avere le magistrature superiori cum imperio, come pretori e consoli iniziarono ad inserirsi nel rango del senato con il nome di conscripti. Il senato inizialmente aveva il potere di approvare le delibere dei comizi in tema di leggi. In seguito questa approvazione senatoria non confermava la delibera dei comizi, ma interveniva preventivamente autorizzando i vari magistrati a presentare una proposta ai comizi (avevano così solo un filtro preventivo e un’importanza indiretta). Il senato ebbe inoltre il ruolo di assistenza e consulenza per l’azione dei magistrati superiori, consulenza non facoltativa visto che il magistrato doveva chiedere il consultum del senato e poi rivolgerne l’orientamento. Il monopolio del senato era dovuto al carattere strettamente temporale delle cariche magistraturali: in un anno non si poteva stabilire una stabile politica interna e un’efficiente politica estera. Il senato si occupava inoltre dell’aerarium populi romani, delle spese ordinarie ed eccezionali, delle entrate mediante il tributo ordinario (commisurato alla ricchezza soprattutto fondiaria), i diritti di dogana e gli appalti per i beni pubblici. Quando si concluse la lotta tra patrizi e plebei il senato si fece più compatto e diresse la politica senza opposizioni. Vi fu una connessione tra senato e magistrature perché alla fine della loro carica i magistrati sarebbero entrati a far parte dei ranghi consolari, oppure già vi facevano parte. Questo creò una grande omogeneità, che è una delle caratteristiche principali insieme all’indipendenza, presente per il fatto che la nomina dei senatori non era a termine e questo ne consolidava ampiamente la forza. Il senato non poteva autoconvocarsi e la sua organizzazione interna era gerarchica: la presidenza era affidata al censore più anziano. In seguito esso ebbe anche il ruolo di inviare ambascerie, con i cosiddetti legati, i cui compiti erano predeterminati da un senato consulto. In conclusione il carattere principale delle magistrature romane era quello consociativo, in quanto vi era la presenza dei veti e anche quella del tribuno della plebe. L’ordinamento romano mancò del criterio della maggioranza (anche se esso era presente in alcuni ambiti come l’orientamento dei comizi e il consenso comune aveva rilevanza per il fatto che in caso contrario vi sarebbe stato il veto e la conseguente paralisi dell’organizzazione) e della divisione del potere, perché il governo richiese sempre una compartecipazione di tutti i titolari dei singoli centri del potere politico. Questo sistema creò una grande compattezza. Il popolo e le leggi I magistrati erano eletti dalla comunità cittadina mediante un voto del popolo riunito in assemblea (i comizi centuriati ebbero tale funzione); in essi il peso dei cittadini era diseguale sia in relazione al censo sia in relazione all’età, in quanto era maggiore il peso del ricco rispetto al povero e dell’anziano rispetto al giovane. Le 193 centurie infatti non votavano contemporaneamente ma secondo un ordine progressivo (prima il voto era orale e poi divenne scritto); così spesso le 18 centurie dei cavalieri e le 80 della prima classe realizzassero da sole la maggioranza, tagliando fuori dalla votazione il resto della popolazione, in quanto una volta raggiunta la maggioranza la votazione era chiusa e i ceti più bassi non potevano esprimere il proprio voto. Erano di competenza di tali comizi le delibere riguardanti la vita della comunità e gli atti vincolanti per la città stessa-> quello dei comizi non era un meccanismo sofisticato. Il magistrato legittimato a radunare i comizi doveva annunciarne la convocazione con anticipo rendendo pubblica la sua proposta di legge: davanti al comizio si svolgeva un dibattito per poi passare alla votazione. L’assemblea poteva accettarla o respingerla perché non potevano essere fatte modifiche sul testo proposto. Invece per l’elezione dei magistrati veniva presentata una lista molto ristretta di nomi. Il monopolio dei comizi centuriati si modificò grazie alle nuove forme organizzative raggiunte con le lotte plebee-> infatti era stato dato un ruolo maggiore ai concilia plebis (convocati sul criterio territoriale delle tribù) che avevano il compito di eleggere i magistrati plebei: tribuni ed edili. In seguito alla parificazione dei due ordini vennero creati i comizi tributi (costituiti per lo più da piccoli e medi proprietari fondiari che portarono ad una componente conservatrice, ad un’esaltazione degli interessi del ceto dei proprietari terrieri e solo in seguito ad un’esaltazione degli interessi mercantili), modellati sui vecchi concilia plebis: con la presenza dei patrizi venivano infatti eletti i magistrati minori, sine imperio. I comizi centuriati mantennero un ruolo più marginale, legato alla nomina dei magistrati cum imperio. Con la parificazione aveva assunto un ruolo importante il plebiscito: alcuni fanno risalire addirittura alle leggi Valerie Orazie la parificazione dei plebisciti alle leggi comiziali, anche se secondo alcuni questo deve farsi risalire alle leggi Publilie. Pian piano il tribunato della plebe divenne non più un organo di antagonismo ma un elemento di un sistema politico unitario (il senato utilizzò l’azione di qualche tribuno per paralizzare la condotta politica troppo indipendente di qualche magistrato). Nelle XII tavole l’autonomia del processo legislativo è associata al popolo. La centralità della legge e il potere sovrano dei comizi parrebbero intaccare il carattere consuetudinario del diritto romano e il ruolo dell’interpretazione pontificale e dei giuristi. In realtà però lo strumento legislativo intervenne in modo episodico a modificare il diritto civile dei Romani e quando ciò avvenne fu per una particolare rilevanza sociale o politica dell’argomento trattato o per qualche specifica esigenza. Vi furono alcune tendenze nella legislazione: provvedimenti relativi alle singole magistrature (ampliate o modificate le competenze e posti limiti ai poteri magistratuali), leggi relative alla disciplina dei comizi, organizzazione delle varie figure sacerdotali, dichiarazioni di guerra, accordi internazionali, fondazione delle colonie, statuti municipali, concessione della cittadinanza (a singoli o a comunità). Oltre che nel diritto pubblico vi furono delle leggi nel diritto privato: leggi in tema di debiti per ridurre il peso sul debitore ed evitare l’usura, legislazione agraria e distribuzione di grano alla plebe gratis/prezzi ridotti. Poi altre riguardarono manutenzione delle strade e coniazione delle monete. Furono quindi modificate o abrogate moltissime regole sia nell’ambito del diritto pubblico sia nell’ambito del diritto privato, anche se solo raramente l’innovazione legislativa che introduceva un nuovo divieto legislativo comportava la nullità dell’atto vietato. Queste erano chiamate leges perfectae, mentre le altre leggi (quam minus perfectae) conseguivano questo risultato rendendo impossibile o dannoso per i privati perseguire le antiche forme giuridiche ancora valide. Lo ius civile venne modificato ma non perse mai l’autonoma esistenza. La sovranità del legislatore e i suoi limiti Sin dalla metà del IV secolo a.C. ci sono una pluralità di organismi autonomi gli uni rispetto agli altri in una nuova unità politica. Non è per noi facile comprendere la fisionomia dell’ordinamento romano: basti solo pensare che per noi il termine res publica è pressoché intraducibile (non può essere tradotto come stato perché si deformerebbe l’idea di integrazione collettiva nella vita della città che caratterizzava Roma). Infatti a Roma non era così accentuata la separazione tra il cittadino e il governo della comunità. Ci sono concezioni contradditorie riguardo alla natura della res publica (vedi diversi termini per indicare l’ordinamento politico) ed è anche ambiguo il rapporto tra l’entità politica e il suo diritto: c’è da una parte l’idea che alcune strutture fondanti preesistano ad essa consistendo nel patrimonio ancestrale dei mores: Cicerone dice che nel “consenso fondato sul diritto” c’è la base della stessa comunità politica. Dall’altra è la città a produrre il suo diritto e la sua forma istituzionale. Con la res publica si crea un nuovo concetto di legalità che consiste nell’eguaglianza dei cittadini di fronte alle norme della città e nella consapevolezza che la res publica poneva limiti a tutti gli organi della città. C’erano dei principi connaturati all’esistenza stessa della res publica, tra cui la libertà individuale. Era inoltre espressamente vietato di legiferare a danno di specifiche persone vietando così i privilegia negativi e ogni norma di diritto particolare-> la legge non può stravolgere i principi fondanti della città (non può togliere la cittadinanza ad alcuni)-> limite della legge (delibere popolari schiacciate da un superiore principio di legalità). Si creò quindi un nucleo di principi che non potevano essere eliminati senza modificare l’essenza della res publica: ciò trova riscontro nel carattere autonomo del diritto della città, lo ius civile, la cui natura era inviolabile. Questi principi non sono predeterminati e conoscibili ex ante, ma sono incorporati nella storia della costruzione repubblicana (per esempio il potere del senato e dei tribuni non potrebbe essere messo in discussione perché da tutti condiviso). Questo nucleo di principi è affiancato da un sistema di regole che possono variare nel tempo e che spesso sono prive di una formale evidenze, finché un comportamento sembra intaccarne l’esistenza: solo allora se ne coglie l’esistenza-> sembra quasi che la violazione crei la norma stessa. È quindi incompatibile l’idea di una carta e di un disegno predeterminato di regole fondanti e ancora meno l’esistenza di un organo che ne valuti la possibile violazione. Questo aspetto indeterminato è un carattere di fondo dell’esperienza giuridica romana. Anche il sistema dei diritti privati romani è non compiuto, soggetto a molteplici interpretazioni, anche a causa delle numerose e radicali trasformazioni che questo patto sociale ha dovuto subire, trasformazioni che hanno permesso si di modificare la sua fisionomia istituzionale, creando un disegno istituzionale in continuo divenire-> concezione opposta alla nostra. Cittadini e stranieri Nel giro di pochi anni Roma ampliò i suoi territori (di circa nove volte) e anche la sua popolazione. Andò quindi ad accentuarsi la separatezza tra la comunità cittadina e ciò che c’è fuori: questa idea è diversa da quella degli ordinamenti statali moderni dove vige la territorialità del diritto (il diritto dello stato si applica a tutti coloro che si trovano nel territorio indipendentemente dalla loro cittadinanza); nel mondo antico invece l’individuo era legato alla sua patria d’appartenenza e quindi al diritto proprio di questa-> si parla di personalità del diritto. Chi era estraneo non godeva della protezione legale e per questo erano importanti i templi aperti a tutti, anche se vennero poi creati meccanismi più efficaci per una tutela adeguata: 1. Hospitium-> ospitalità da parte di privati o della città; essa creava tra chi aveva concesso l’hospitium e il beneficiario un vincolo volto a garantire al secondo protezione adeguata. Inizialmente l’hospitium era solo privato e solo in seguito intervenne un hospitium pubblico, grazie al quale gli stranieri potevano rivolgersi ai tribunali locali per avere protezione legale; essi divennero sempre più numerosi tanto da estendersi ad intere città; 2. Trattati-> fu lo strumento primario; erano già incorsi numerosi accordi tra Roma e i suoi vicini durante il periodo monarchico, vista la presenza dei feziali che erano adibiti alla loro stipula; questi non erano volti alla tutela legale dei singoli cittadini, ma soprattutto concernevano gli interessi politici della città stessa. Il campo privilegiato di questi accordi fu innanzitutto il Lazio (dove c’erano forme consociative caratterizzate da comunanza etnica); Roma in essi affermò la sua superiorità che non si esaurì nelle forme d’incorporazione ma portò alla conclusione di numerosi foedera (spesso non distinguibili dalle leghe religiose che avevano significato anche politico). La supremazia di Roma nel Lazio è visibile con il trattato tra Romani e Cartaginesi, firmato l’anno successivo rispetto alla cacciata di Tarquinio il Superbo; evidentemente i cartaginesi volevano essere certi dell’alleanza con Roma ora che la sua permanenza nell’ambito di influenza etrusco non era più certo. Questo trattato mostra le pretese egemoniche di Roma, in quanto in esso sono stabiliti i limiti a possibili aggressioni da parte dei cartaginesi, limiti estesi a tutte le città del Lazio (divise in non soggette e alleate dipendenti) a dimostrare che Roma non aveva il controllo di tutto il Lazio ma mirava ad averlo. In esso erano contenuta anche la reciproca tutela ai propri cittadini che si fossero trovati nell’ambito di influenza della controparte. Non sappiamo quali regole e istituti fossero applicati agli stranieri nei loro rapporti d’affari con i Romani: c’erano delle pratiche consolidate con il tempo che dovettero giocare più che giuridici personali, la cui coesistenza superava la logica della città antica, dove popolazione residente e diritti di cittadinanza si identificavano. Dal 338 a.C, Roma poté disporre di un nuovo statuto giuridico: quello latino, tanto da poter trasformare un romano in un latino o poteva disporre di questa condizione giuridica cambiandone il contenuto. Vennero differenziati i latini Prisci e i latini coloniari all’interno della più vasta categoria dei peregrini: fino a quel momento il peregrino era il cittadino di una comunità sovrana esterna a Roma, mentre poi iniziò ad identificare solo uno dei possibili statuti giuridici all’interno dell’ordinamento sovrano romano. L’accesso facilitato alla tutela del diritto romano dei prisci latini, consacrato dal commercio e dal conubium non aveva comportato la dissoluzione degli ordinamenti propri delle varie città latine, che continuarono a regolare la vita interna e le relazioni legali tra i loro cittadini. Le colonie latine ebbero un proprio statuto: godevano di una condizione di estraneità rispetto a Roma sebbene questa le avesse fondate e conservasse un controllo politico su di esse-> il regime giuridico delle loro terre di appartenenza non era identificabile con il dominium del diritto romano. Ius latii-> termine usato per indicare la particolare posizione giuridica nei rapporti con Roma assicurata ai membri delle comunità del Latium Vetus e ai membri delle colonie più recenti. Se per le colonie latine la situazione era immutata rispetto al 338 a.C., le colonie romane e le città con cittadinanza romana dovevano vivere secondo le leggi di Roma, pur conservando in parte la loro organizzazione (invece i municipi sine suffragio mantennero le loro tradizioni giuridiche-> il diritto di proprietà sulla terra non era retto dal diritto romano). Per quanto riguarda ius commercii e ius conubii coloro che ne godevano erano assimilati ai cittdini romani per quanto riguarda il diritto privato-> 2 punti di vista: ammissione del latino allo ius civile romano e partecipazione al diritto locale del Romano ubicato in territorio straniero. Tuttavia la reciprocità si blocca e lascia spazio ad un meccanismo centripeto-> nei rapporti tra colonie latine, colonie romane, municipes optimo iure e sine suffragio scompare ogni dimensione di reciprocità, in quanto vi era sempre l’applicazione del diritto romano dove vi fossero negozi tra vecchi e nuovi cittadini. L’esclusivo utilizzo del diritto romano costituì un grande collante e insieme all’espansione del latino fu uno dei fattori determinanti della romanizzazione d’Italia. Pian piano l’organizzazione di governo e le forme istituzionali si sono avvicinate con l’affermarsi progressivo di magistrature uniformi e dei senati locali-> ciò è confermato dall’introduzione di un’autorità incaricata di amministrare la giustizia in ambito locale-> si tratta dei prefetti, magistrati delegati dal pretore, preposti alla giurisdizione in ambito territoriale anzitutto dei cittadini romani (dopo una prova si trovarono i praefecti iure dicundo). Sebbene vi fosse una persistenza parziale delle forme giuridiche locali non si capisce come esse potessero persistere in una zona d’influenza del diritto romano. Un vincolo all’espansione del diritto romano fu l’uso della lingua latina che, essendo il diritto romano un diritto romano con carattere formalistico e orale che prevedeva l’uso di formule ben determinate per porre in essere alcuni atti, fu molto presente; questo impediva a chi non parlava latino di accedere al diritto romano-> infatti i Romani non solo non imponevano la loro lingua ma vietavano di usarla negli atti ufficiali senza la loro autorizzazione. Così i municipi sine suffragio continuarono ad usare lingue autoctone anche se vi fu un processo di romanizzazione graduale dovuto soprattutto alle elitès che erano spinte ad usare maggiormente il diritto romano. I municipes potevano imitare gli usi, la lingua e il diritto dei Romani ma l’introduzione di questi fattori spesso avveniva dal basso e in maniera disordinata (dato che a Roma compariva anche lo ius honorarium). Alle città del Lazio a cui era stata inizialmente data la cittadinanza senza diritti politici era stata poi data la civitas optimus iure per l’omogeneità culturale e linguistica era maggiore-> perciò niente scossoni. Negli altri territori più lontani il passaggio fu più graduale e vi fu uno status intermedio più lungo. Pian piano i linguaggi, le tradizioni e le culture tramontarono permettendo l’espansione del diritto romano. Città, fora, conciliabula, pagi e vici. Importante è il carattere cittadino della società romana, evidente anche nel fatto che, nella sua progressiva espansione politica costante fu il riferimento a questo modello; l’importanza data al modello cittadino è evidente in quanto la massima sanzione ad una comunità è la sua cancellazione come città (a Capua dopo la sua defezione ad Annibale vennero tolte le magistrature, il senato e l’assemblea pubblica oltre che ogni imaginem rei publicae, cioè l’idea e i simboli della comunità cittadina). Anche tra una serie di villaggi essi cercavano di trovare il più promettente da trasformare in una città. Per quanto riguarda la specifica organizzazione del paesaggio agrario, sia la grande villa schiavistica di età imperiale, sia la piccola proprietà contadina in organico rapporto con la centuriatio ripetono sul territorio gli schemi urbani connessi alla città e ad essa funzionali. Sebbene poi il sistema coloniario e quello municipale siano le strutture portanti c’erano anche nuclei minori, soprattutto nelle aree in qui i processi di urbanizzazione erano più lenti o addirittura incosistenti. In questi luoghi si ricordano i fora, i conciliabula, i pagi e gli stessi villaggi (vici), quali località in cui popolazioni rurali venivano ad incontrarsi per mercati stagionali e si saldavano in comuni luoghi di culto. Erano strutture con una loro più o meno accentuata autonomia situate all’interno dell’Ager Romanus, rispetto alle quali intervenivano, con funzioni di controllo e coordinamento i magistrati romani. La giurisdizione sui loro cittadini fu di pertinenza dei praefecti iure dicundo (in particolare i fora e i conciliabula s’identificavano con quei minori insediamenti di cives romani beneficiari di distribuzioni di terre in piena proprietà quiritaria, effettuate viritim anche esse nella forma della centuriatio). Non si capisce perché i romani abbiano preferito in queste sistema nelle aree interne alla penisola, circoscrivendo in generale le colonie romane alle sole aree costiere. (Queste figure inoltre non erano realtà residuali ma Roma favoriva e rispettava le strutture insediative minori, mediante distribuzioni individuali di terra ai cittadini romani). Nel corso della rapida estensione gli antichi alleati vennero assorbiti nell’ordinamento romano, mentre moltissimi nuovi rapporti di alleanza furono stretti dai Romani con le varie popolazioni e città italiche. Il foedus continuava ad essere stretto tra soggetti sovrani sancendo o una subalternità politica o mantenendo solo il carattere formale di un’alleanza tra pari. In queste alleanze vi era un obbligo, cioè quello di aiutare l’alleato in caso di guerra: queste piccole popolazioni non avrebbero mai potuto dichiarare guerra da sole, mentre Roma avrebbe potuto servirsi del loro aiuto (decidendo cosa avrebbero dovuto fornire). Nella sua politica estera Roma fu impegnata a sostenere continuamente i gruppi aristocratici all’interno di ciascuna città alleata a danno delle forze popolari: questo per il carattere conservatore delle classi dirigenti romane, che avevano una comunanza di interessi con le aristocrazie locali (era più facile controllare un ceto interessato alla conservazione della legge e dell’ordine rispetto a gruppi più estesi e più fortemente legati alle loro radici autoctone. Il risultato di questa politica fu la crescita degli organici cittadini. La nuova direzione politica patrizio-plebeo Il compromesso patrizio-plebeo del 367 a.C. aveva sanato un punto dell’assetto aristocratico: il suo esclusivismo, che alle lunghe avrebbe portato ad un forte indebolimento. La nuova aristocrazia di governo era costituita da ex magistrati ascesi ai ranghi del senato e ai loro discendenti. Questo rango era stato tuttavia allargato al di là del ristretto gruppo dei patrizi e questo porterà ad una storia di successo raggiunta grazie ad una grande abilità politica e diplomatica, una storia in cui tradizione e innovazione si combinarono perfettamente. Come funzionava la carriera di un ragazzo destinato ad arrivare al senato? Innanzitutto solo un cittadino ingenuus, cioè nato da padre libero poteva aspirare ad una carica magistratuale, a cui tendenzialmente potevano accedere solo i figli di patrizi ma anche altri, chi e come? Innanzitutto dovevano essere soldati e uomini che partecipavano alla vita politica cittadina senza dedicarsi all’attività economica: il sostentamento suo e della famiglia era ricavato da una proprietà fondiaria lavorata da altri soggetti (schiavi, contadini pagati a giornata o con parte del prodotto del fomdo); necessitavano poi di amicizie e protezioni altolocate. In seguito al servizio militare prolungato (circa un decennio, il giovane poteva presentare la sua candidatura ai comizi (ovviamente essere nello stato maggiore del generale agevolava il giovane ufficiale che poteva distinguersi e se gli andava bene era anche eletto come tribuno militare); finito ciò poteva candidarsi alle cariche minori: quella di questore e quella di edile. Poi lì gli servivano di nuovo amicizie e protezioni, perché si sceglieva tra una rosa di candidati e bisognava poi attuare una campagna elettorale, per cui spesso dovevano indebitarsi. Colui che veniva eletto veniva inserito in una rete di protezione e di alleanze. Gli uomini nuovi vennero coinvolti nelle logiche dell’oligarchia romana. Essi erano immediatamente al di sotto della nobilitas senatoria e appartenevano al rango dei cittadini equestri (così chiamati in base all’ordinamento centuriato), e il fondamento della loro ricchezza era la proprietà fondiaria e la ricchezza agraria, anche se poi si erano formati sottogruppi con una fisionomia imprenditoriale e commerciale più marcata (opere pubbliche). La selezione era basata sulla nascita e sulle qualità personali-> esito era senato. I quadri di governo accrebbero poi le loro esperienze militari (e infatti le legioni furono guidate da uomini in grado di guidarle. L’aspetto militare era poi molto importante e ciò è ben visibile considerando l’importanza data ai trionfi (in cui il magistrato vittorioso, indossando le insegne vittoriose sfilava per la città), che erano un riconoscimento ambitissimo. Il cursus honorum È la carriera pubblica dei cittadini romani: aveva inizio con l’elezione alle magistrature minori, per poi passare alle cariche superiori e infine giungere al vertice della repubblica diventando console o censore. Non poteva esservi l’immediata rielezione alla stessa carica in modo da evitare un’eccessiva concentrazione di potere. La vita politica continuò a essere controllata dalle consorterie nobiliari e con le gentes, che costituivano un potente legame sociale e un sistema di alleanze naturali entro cui l’individuo si trovava ad operare; le gentes (anche gli strati superiori della plebe inziarono ad organizzarsi in gentes) erano un sicuro punto di riferimento, in quanto la loro condotta politica si ispirava alla tradizione familiare (durante i funerali di un importante personaggio della repubblica la famiglia sfilava con le effigi degli antenati che avevano servito gloriosamente la repubblica) e si rafforzava anche la memoria dei personaggi di queste famiglie. I rapporti di parentela e i legami di amicizia erano i collanti su cui si fondava il consenso sociale. Queste famiglie erano in grado di riscrivere la loro storia familiare per gli interessi del presente. La durata di tali lignaggi gentilizi fu dovuta alla pratica dell’adozione (che limitava gli effetti dell’alta mortalità e della bassa durata della vita. Il popolo minuto aveva una funzione di mero controllo o di semplice comparsa. Importante è anche la clientela, relazione molto diffusa nell’antichità, che è diversa dalla clientela arcaica, in quanto crea un reticolo di alleanze e di rapporti di dipendenza di natura più complessa; consisteva innanzitutto nel largir protezione ai ceti più deboli. Questa clientela creò un reticolo di forme di lealtà subalterna che permettevano di sostenere le ambizioni dei grandi (anche gli uomini nuovi avevano dei chiari legami di protezione forniti dai gruppi nobiliari), in quanto la gente del popolo doveva procurarsi un protettore. Su una logica simile si fondò anche la costruzione dell’egemonia di Roma: quando un magistrato romano aveva ottenuto la resa di una città, ne assumeva la protezione, facendosi intermediario tra gli interessi di questa comunità e il volere del senato, potendo anche diventare referente delle richieste che tale popolazione dovesse fare ai Romani. Questo sistema varrà poi anche per intere province. Gli sviluppi sociali tra il IV e il III secolo a.C. Grazie anche al ricompattamento politico-sociale iniziò una grande spinta espansionista, che permise a Roma di giungere prima ad un’unità regionale e in seguito ad una espansione anche verso le pianure campane. I maggiori conflitti in questo periodo si riscontrarono con la popolazione dei Sanniti. Importante fu però anche la sconfitta di Pirro (macedone chiamato da grandi trasformazioni furono opera dell’interpretatio giurisprudenziale e del pretore-> da allora le leggi votate nei comizi servirono solo a perfezionare o a completare l’edificio già esistente. I giuristi e il diritto privato In età imperiale i giureconsulti teorizzeranno il diritto da essi sviluppato, che consiste “nelle leggi, nei plebisciti, nei senatoconsulti, nelle constituzioni imperiali, negli editti di coloro che hanno ius edicendi e nel parere degli esperti: responsa prudentium” (Gaio nelle Institutiones). Infatti gli antichi mores erano ormai assorbiti nelle leggi della città e nell’interpretatio dei giuristi (attraverso la giurisprudenza-> conoscenza dello ius civile). Conclusasi la stagione di un sapere monopolizzato dai pontefici i giuristi laici porteranno un livello maggiore di razionalità, con il costante controllo dei processi argomentativi e delle soluzioni prospettate da una più vasta comunità costituita da tutti i conoscitori del diritto, che crearono così la scienza del diritto. Importante fu la figura di Tiberio Coruncanio: permettendo la pubblicità delle sedute dei pontefici aveva reso possibile la conoscenza delle regole e dei metodi usati dai pontefici nel loro lavoro interpretativo (in modo che anche coloro che erano estranei a tale collegio potessero conoscere la tradizione giuridica romana). Si imposero quindi grandi giuristi che avviarono una riflessione sistematica sulle norme, sugli istituti e sulle forme processuali-> era un lavoro teorico e pratico e consisteva: nel consigliare gli atti giuridici da porre in essere (cavere), aiutare nell’interpretare situazioni giuridiche legali oscure e incerte (respondere) e assistere negli eventuali litigi (agere). I giuristi ricevevano nelle proprie abitazioni amici e clienti, così intorno a loro si creò presto un pubblico di auditores che diventavano a loro volta giuristi. A contribuire al tramonto del collegio pontificale fu anche la diffusione della scrittura. Sebbene le XII tavole fossero già scritte era data una grande importanza all’oralità più he alla circolazione di documenti scritti (anche le soluzioni adottate dal pontefice rimanevano nella memoria del gruppo), che divenne invece più importante nel III secolo a.C. (in quanto presupposto della creazione di una letteratura latina); la nobilitas laica iniziò quindi a scrivere testi in cui si conservavano i casi e le soluzioni già discusse, testi che iniziarono a circolare. L’utilizzo della forma scritta permise di giungere, grazie all’articolazione del pensiero, a ragionamenti più complessi (si passò quindi da un carattere oracolare alla discussione e al ragionamento). I pontefici erano stati i soli depositari e quindi la loro autorità nell’interpretare era assoluta. Invece, per quanto riguarda i laici, il punto di partenza del loro lavoro era la determinazione della portata delle antiche formule legislative e negoziali, per cui era importante innanzitutto la comprensione e spiegazione letterale delle parole in esse impiegate: ciò non era facile perché spesso il latino arcaico era difficilmente comprensibile, ma anche perché attraverso le diverse possibili interpretazioni poteva essere completamente modificato il significato della norma. Già il controllo pontificale aveva innovato il contenuto ed esteso l’ambito di applicazione (le norme stesse delle XII tavole furono innovate)-> strumenti essenziali in questa fase furono l’utilizzo delle finzioni giuridiche e dell’analogia, usando quindi anche la distorsione della primitiva finalità per giungere a risultati affatto nuovi (divieto del potere di abusare della vendita del figlio per creare il nuovo istituto dell’emancipazione che erano una serie di vendite fittizie mediante le quali il padre liberava il figlio dalla sua potestà; oppure l’utilizzo di falsi processi per giungere a diversi risultati: adozione di un figlio, liberazione di uno schiavo; assenza della moglie per scindere un legittimo matrimonio dal pesante potere patriarcale del marito; vendere in modo fittizio un patrimonio quando lo si voleva lasciare ad un erede a titolo gratuito). In altri casi si trattava di utilizzare uno schema già esistente per estenderne l’efficacia rispetto a situazioni similari anche se non originariamente previste. Con la laicizzazione i pareri non giungevano più da un’unica autorità, ma da una molteplicità di individui-> questo creò lo ius controversum, un diritto in cui il significato delle regole derivava da un continuo e rinnovato dibattito tra gli specialisti, dibattito in cui venivano accettate le interpretazioni più convincenti e quelle derivate dai personaggi più autorevoli. Questo comportava però delle incertezze circa la soluzione di ciascun caso pratico, ma anche incertezze nel comportamento da mantenere, in quanto spesso ci si doveva orientare secondo opinioni contraddittorie e mai uniformi-> veniva quindi sacrificata l’idea di certezza. Certi casi furono anche delle palestre per nuove elaborazioni o per verificare la validità delle soluzioni già adottate. Questo lavoro distoglieva i giuristi dalla formulazione di regole e teorie di carattere generale e sistematico, ma al contrario prevedeva una grande forza creativa, mediante la quale i giuristi laici crearono nuovi istituiti e nuovi diritti estranei alle regole delle XII tavole (limitare l’antico diritto di proprietà, usufrutto, servitù prediali, tutelate mediante strumenti analoghi a quelli utilizzati a difesa della proprietà). Lo sforzo teorico permise di distinguere il concetto di possesso da quello di proprietà e si sforzò anche di creare un nuovo sistema processuale volto a cancellare le legis actiones (fu allora che vi fu l’autonomia legale della donna visto il nuovo tipo di matrimonio che escludeva la pienezza dei poteri del marito sulla sposa, o il contratto che, in qualità di accordo, assunse il carattere di una situazione giuridicamente protetta e generatrice di obblighi specifici-> diversa dalla stipulatio e dal mutuo contratti mediante l’utilizzo di fatti o parole tra debitore e creditore). Quindi per descrivere questa attività è inopportuna la dizione moderna di interpretazione, che non è in grado di farci capire la forza creatrice di questo lavoro. In questo ambito non tutti i pareri avevano la stessa forza, ma al contrario una soluzione si imponeva non solo per la sua intrinseca validità ma spesso anche per l’autorità che l’aveva formulata, senza a volte nemmeno considerare le giustificazioni razionali che avevano permesso di considerarla valida (per avere autorità bisognava essere legittimati dal solo gruppo dei giuristi). Pian piano i responsa prudentes saranno considerati come una delle fonti del diritto romano (iura populi romani). Il pretore e l’innovazione del processo civile romano Il pretore aveva una forte autonomia rispetto all’ordinamento esistente. Tuttavia a causa delle legis actiones il suo ruolo era sottoposto ad un serio limite: l’esistenza di circoscritti schemi verbali bloccava l’ampliamento delle possibili pretese dei litiganti a situazioni non previste dalle forme arcaiche. A rendere più difficile la sua emancipazione fu anche la consulenza dei pontefici. Tuttavia con l’intervento del nuovo ceto di giuristi si riscontrarono notevoli innovazioni, dovute anche alla crescita politico-militare e economico-culturale che si conobbe a Roma nel III secolo a.C., che portarono numerosi stranieri a Roma. Tuttavia la maggior parte di questi stranieri non aveva il diritto di ius commercii con i romani e necessitava quindi di una protezione giuridica, che doveva essere fornita al di fuori delle regole e delle forme dello ius civile dal quale erano esclusi (ed erano esclusi ovviamente anche dalle legis actiones). Tutto ciò si ottenne grazie al pretore, il quale con la sua iurisdictio investì una serie sempre più ampia di questioni e litigi che dovevano prescindere dagli schemi dello ius civile e che erano ispirati a una logica più equitativa (perché dovevano essere più semplici e accessibili a culture giuridiche lontane dalla lingua latina). Fu per questo che nel 242 a.C. fu creato il praetor peregrinus, cosa che accentuò lo sviluppo di quelle forme di litigio sottratte alla logica delle legis actiones a tutela di situazioni nate dalla pratica commerciale e fondate sulla buona fede delle parti; si andò oltre la rigidità di atti o frasi che dovevano essere rispettate perché certi effetti legali avessero luogo e che divenivano vincolanti. Questi rapporti furono infatti tutelati con forme processuali meno rigide delle legis actiones (e che vennero poi estese anche ai rapporti riguardanti i Romani), cosa che insieme alle forme di protezione giuridica offerta del praetor peregrinus portò al definitivo tramonto delle legis actiones. Questo nuovo processo prende il nome di processo formulare in quanto fondato su formule predeterminate in modo circostanziato che il pretore rilasciava alla fine delle discussioni preliminari; queste formule fornivano al giudice i criteri da seguire nel decidere la controversia accertando la verità materiale dei fatti adottati dalle parti: la loro struttura e il loro contenuto prescrittivo potevano variare all’infinito, adeguando l’astrattezza delle antiche regole alla varietà dei casi pratici-> il pretore poteva attribuire un peso adeguato ad elementi di fatto rilevanti sotto il profilo della giustizia sostanziale che la rigidità delle legis actiones aveva impedito. C’era quindi la libertà d’azione del pretore che comportava il superamento del patrimonio giuridico ancestrale e la sua rigidità, creando invece la necessità di un’equitas, cioè una necessità di eguaglianza tra le parti che la soluzione adottata doveva rispettare. L’editto del pretore: il ius gentiume il ius honorarium. I criteri sostanziali a cui il pretore si atteneva si coagularono in regole e prescrizione generali, mediante l’emanazione di editti, in cui essi rendevano noto quali situazioni avrebbero trovato tutela da parte loro e in quale modo. Le previsioni introdotte dal pretore peregrino erano una serie di situazioni giuridiche nuove e diverse dai diritti riconosciuti dal diritto civile-> essendo aperta a tutti gli stranieri essa fu considerata come espressione di un diritto di tutti gli uomini (ius gentium), che fu esteso a tutti i cittadini per i vantaggi che comportava-> arricchimento del patrimonio giuridico (secondo alcuni lo ius gentium è la parte comune dei diritti positivi dei vari popoli). Incidenza ancora maggiore sulla storia del diritto romano ebbe l’introduzione del processo formulare, che permise al pretore di esplorare i grandi spazi che il suo imperium/iurisdictio gli apriva e dove egli era veramente il sovrano (i suoi atti potevano essere bloccati solo dall’intercessio di un console): il pretore non era servo della legge e perciò poteva evitare di applicarla o poteva intervenire a condannare o ad assolvere anche in casi che la legge non prevedeva se ciò era necessario. Quindi si creò un nuovo diritto che correggeva, integrandolo, lo ius civile (gli ordini del pretore erano per esempio gli interdetti e nelle stipulationes e nelle cautiones-> poteva obbligare i litiganti ad assumere specifiche obbligazioni processuali per conseguire risultati lontani dal diritto civile ma conformi a criteri di giustizia; essi potevano poi imporre ai giudici di tenere conto di fatti di per sé irrilevanti). Questa vasta gamma di interventi era ormai però previsto, in quanto anche il successore di un pretore che aveva ben amministrato la giustizia aveva interesse ad azzerare il già fatto e al massimo modificava qualcosa. La giustizia non era caso per caso ma l’editto rese conoscibili ex ante i vari criteri seguiti dal pretore: questo creò quindi un nuovo diritto che innovava nella sostanza e prevaleva rispetto allo ius civile, tanto che creò un nuovo sistema di regole che si sovrapponevano in modo autonomo: il diritto pretorio, che permise uno sviluppo del sistema del diritto romano in funzione delle grandi trasformazioni economico sociali. Altri magistrati minori oltre ai pretori potevano emanare editti (come gli edili curuli e i provinciali). Si crearono quindi due logiche parallele: il diritto in senso stretto e il diritto onorario (fondato sul potere magistratuale e illustrato dall’editto pretorio). Tra i due si creò un grande punto di sutura, in quanto senza la sanzione processuale assicurata dal pretore l’interpretazione delle regole dello ius civile avrebbe difficilmente portato le innovazioni portate; dall’altro l’elaborazione del contenuto dell’editto fu assistita dai giuristi. Una caratteristica dell’ordinamento romano fu il suo orientamento verso gli aspetti processuali: il diritto romano non si costruisce sui precedenti giudiziali ma compone una serie di soluzioni secondo logiche coerenti che dovranno fornire le linee guida dei casi futuri (i giuristi creavano anche casi immaginati). La scienza giuridica romana come sapere aristocratico Nell’ambito del diritto privato romano l’intervento della comunità politica è secondario, in quanto le leggi che disciplinano la vita dei cittadini nella sfera giuridica non dipendono da una legge votata dall’assemblea cittadina, ma viene data una delega prima ad un collegio religioso e poi ad una comunità di sapienti, che avevano il potere di enunciare ciò che è il diritto della città. Il diritto non si identifica quindi con la legge (cosa per noi inconcepibile), ma la legge è si vincolante per la comunità ma ad avere un ruolo ancora maggiore è l’interpretatio dei giuristi senza cui la norma avrebbe avuto applicazioni più circoscritte. Il problema è che se a noi oggi basta aprire un codice civile, i Romani dovevano far fronte all’oscurità e alla generalità delle XII tavole, oggetto solo di un sapere specialistico: pontefici e poi giuristi laici. Toynbee parla dell’eredità di Annibale, che viene definita da De Sanctis mediante un’immagine efficace: il frutto velenoso, che porterà alla lunga ad erodere il trionfo dei vincitori. Infatti questa guerra, proprio per il fatto che aveva come posta in gioco il tutto aveva inciso profondamente sulla società e sulle istituzioni romane (anche sul territorio-> crisi del meridione ricondotta alla terra bruciata per Annibale); innanzitutto perché vi fu l’affermazione di eccezionali personalità non riconducibili negli equilibri della sfera senatoria, in quanto, per esempio, con Publio Cornelio Scipione era stato stravolto l’antico principium secondo cui l’imperium militare doveva essere dato ai magistrati superiori (cioè magistrati ordinari cum imperium) dopo la scadenza del loro mandato fino a che essi non sarebbero stati rilevati dal comando del successore. Con Scipione non si tratta di una proroga ma dell’attribuzione di un potere non prima ricoperto come magistrato ordinario (sine imperio), staccando così l’imperium dalle magistrature ordinarie (cum imperio) a cui era indissolubilmente collegato. In seguito alla sconfitta di Annibale il prestigio di Publio Cornelio Scipione l’Africano crebbe notevolmente, in quanto andò oltre il suo ruolo di princeps senatus (a lui facevano capo anche le tendenze favorevoli al coinvolgimento di Roma in Oriente). Contro questi suoi orientamenti verso l’Oriente vi fu Catone il censore il quale avviò dei processi contro il fratello dell’Africano, per dei fondi neri e per delle connivenze con il nemico: non furono portati a termine ma incisero molto sulla reputazione dell’Africano, dando inizio al suo declino politico. L’ostilità di Catone nei confronti dell’Africano dimostra alla perfezione lo scontro tra gli orientamenti dei conservatori e quello degli innovatori: mentre si capisce che essi erano contro il filoellenismo non è evidente se vi fossero delle visioni strategiche davvero differenti nell’ambito della politica adottata in Oriente. Fatto sta che la posizione di Catone portò ad irrigidire ulteriormente l’aggressività romana in Oriente e rese impossibile un governo indiretto. Nonostante la rapida e indolore conquista del mondo ellenistico, il germe dei poteri personali darà i suoi frutti velenosi. Verranno perciò adottate ulteriori restrizioni nella carriera politica (lex villia annalis) e oltre al terzo consolato di seguito di Marcello non vi furono più casi in cui no si rispettasse l’intervallo decennale tra un consolato e il successivo. Il governo provinciale Roma ottenne presto il controllo sulla Sicilia e sulla Sardegna, territori che furono indicati con il termine provincia: essa era di competenza dei magistrati cum imperio ed indicava il territorio conquistato e le sue popolazioni. Era un sistema di governo nuovo che in teoria non era volto a ripetere l’esperienza assimilatrice che avrebbe caratterizzato il processo di romanizzazione dell’Italia: gli Italici erano infatti fondamentali perché fornivano contingenti militari e supporti materiali ed economici. Le realtà provinciali furono considerate in maniera diverse in quanto considerate realtà da sfruttare economicamente. In Sicilia i romani derivarono parte del loro sistema organizzativo dai modelli ellenistici preesistenti: nel caso di Siracusa, ricordando il suo tiranno Gerone, chiamarono lo statuto applicato Lex Hieronica, che prevedeva che il monarca fosse proprietario dell’intero territorio: perciò i piccoli agricoltori erano considerati affittuari e dovevano quindi pagare una quota di affitto con parte del prodotto: la decima del raccolto. Gli agricoltori dovevano essere inseriti in un apposito registro in cui venivano segnati il nome e la quantità di terra coltivata; la raccolta della decima era gestita con il sistema degli appalti. La popolazione era considerata come stranieri senza un proprio ordinamento alla mercé dei romani. Sarebbero nel tempo state individuate diverse tipologie di terra: 1. Terre stipendiarie-> -> per la fruizione di agri stipendiari si pagava una tassa (stipendiarium); 2. Terre decumane; 3. Terre pubbliche del popolo romano-> gestite direttamente da Roma attraverso intermediari che pagavano un canone per affittarne grandi appezzamenti. Dove i romani si trovarono di fronte a città ben sviluppate le potenziarono e adottarono schemi tra loro differenti: 1. Città alleate (civitates foederatae); 2. Libere non in base ad un trattato (civitates sine foederae liberae)-> erano in genere sottoposte ad un’imposizione tributaria (stipendium) e a specifichi obblighi (frumento a prezzo politico per le città siciliane); 3. Città esonerate da tali oneri tributari (civitates liberae et immunes)-> conservarono la loro autonomia e le loro leggi. Il governator e aveva però in realtà anche una funzione di supervisione su di esse. I governatori spesso facevano sfociare il loro potere in oppressione degli abitanti locali (Verre), in quanto spesso vi fu un’alleanza tra i governatori militari e i pubblicani (appaltatori delle imposte in Sicilia chiamati decumani per la decima) generò una pressione fiscale eccessiva; infatti i publcicani tendevano ad aumentare a dismisura la percentuale dei tributi commisurata alla produzione agricola, stabilita da Roma e che i publicani avrebbero dovuto rispettare in quanto controllati dai governatori (che non controllavano e perciò avevano un guadagno). Le due prime province furono affidate al governo di due nuovi magistrati perché per esse era necessaria la presenza di un presidio militare che consolidasse le acquisizioni militari mediante l’esercizio dell’imperium: perciò il governo fu affidato a due nuovi pretori. Con il moltiplicarsi delle province e quindi con l’aumentare dei governatori richiesti si rinunciò a moltiplicare il numero dei magistrati e ci si basò sullo schema della prorogatio imperii-> nessun magistrato poteva abbandonare le proprie funzioni fino a che non fosse stato rilevato dal suo successore e perciò al termine del suo anno di carica ciascun console e ciascun pretore veniva mandato in una provincia dove esercitava la funzione di proconsole o propretore. Il problema è che c’erano province più ricche e meno ricche, più facili o più difficili da gestire e per evitare che il senato desse le prime ai suoi amici e le seconde ai nemici, venne usata la sortitio, cioè venivano assegnate già al momento dell’assunzione della carica magistratuale. Ogni provincia era perciò retta da un particolare statuto elaborato da dieci cittadini su incarico del senato; una volta che veniva ratificato il loro operato il governatore emanava lo statuto come lex data in virtù del suo imperium ed in seguito il territorio provinciale veniva diviso in distretti. Queste prevedevano un coerente schema di amministrazione provinciale: un gruppo di legati inviati direttamente dal senato (collaboratori del governatore) e poi un questore con funzioni militari e finanziarie. Vi fu però una grande debolezza nel sistema burocratico (ad alcune città deferite molte competenze). Il governatore era preposto anche al controllo del sistema giudiziario (popolazioni fuori dall’ordinamento erano prive di diritto a cui fare riferimento): le tradizioni locali furono tutelate ma anche spesso assorbite nel diritto romano, ma l’imperium militiae del governatore non si arrestava di fronte alla repressione criminale, anche se le città alleate continuarono a mantenere un’autonomia giurisdizionale. Il fine del governo del governare le province era quello di arricchirsi e perciò vennero emanate una serie di leggi contro concussione ed estorsione: le de repetundis, volte a reprimere questo tipo di reati: esse furono in realtà teoriche e non incisive fino a che le giurie dei tribunali furono composte da persone di rango senatorio. L’innesto della cultura ellenistica Dopo la sconfitta Annibale si recò in Oriente cercando di creare un’alleanza antiromana in quei territori, cosa che avrebbe provocato un grande problema per Roma vista la presenza di popoli che, se si fossero uniti, non avrebbero lasciato scampo a Roma. Tuttavia Roma riuscì ad esasperare le tradizionali divisioni, stringendo alleanze con alcuni e escludendo invece altri. Essa sconfiggerà la Siria nel 188 a.C. ad Apamea e la Macedonia nel 168 a.C. a Pidna. Nel conquistare questi territori Roma non era impregnata dei pregiudizi religiosi e culturali che caratterizzano il colonialismo moderno; anzi, la continua importazione di idee, valori e tecniche nuove portò ad un vero bilinguismo culturale della classe dirigente, mediante un processo che fu inarrestabile. La classe dirigente imparò il greco e si acculturò nei campi del sapere dove Atene era stata maestra, andando a scuola da filosofi e oratori greci. Da una parte c’è un arricchimento culturale e spirituale dall’altro una brutalità cinica, che porterà a distruggere intere città e a renderne schiavi i suoi abitanti non appena ci sarà una minima violazione alla fides (lealtà) romana. Vennero anche meno i valori costitutivi della res publica: all’idea della civitas e del senso di appartenenza che essa comportava vi furono più generali interessi e preoccupazioni. Si creò inoltre una tendenza di tipo universalistico (dignità umana scissa da gerarchie e statuti sociali). Tuttavia si diffuse la paura che Roma seguisse il destino di ogni storia umana: nascita, sviluppo, grandezza massima, decadenza e morte. Questa paura si vide nello sforzo di ripristinare le antiche tradizioni (condanna di Catone a Roma per il comportamento con Rodi-> Roma abuso di potere perché sanzioni perché loro non avevano aiutato Roma in guerra anche se non era previsto dai trattati). Si creò una nuova paura con la fine metus punicum e cioè la paura dell’arrivo di nuovi pericoli per Roma a causa di quel senso di onnipotenza per cui nessuna forza sembrava in grado di opporsi ad essa. L’espansione imperialistica e la trasformazione della società romana La Roma uscita dagli scontri con Annibale era diversa e destinata a mutare ulteriormente nel profilo dell’accumulazione di ricchezze e nella trasformazione dei rapporti sociali. L’aristocrazia romana e il ceto equestre avevano portato alla concentrazione di grandi capitali nelle mani di pochi privilegiati anche grazie allo sfruttamento provinciale. Iniziò da parte del ceto equestre un controllo dei flussi di ricchezza grazie al commercio, anche marittimo; la nobilitas ebbe sì a lucrare ma era vincolata alla politica cittadina e non poteva quindi dedicarsi al lavoro di gestione: grazie però alla cooperazione di banchieri e finanzieri degli equites i patrimoni della nobilitas vennero investiti in attività finanziarie e mercantili, ma anche in investimenti immobiliari (erano proprietari delle case a più piani: le insulae), e soprattutto in investimenti agrari: nelle aree agricole si creò un sistema produttivo volto a soddisfare le esigenze dei mercati cittadini (grandi tenute in cui lavoravano contadini liberi e schiavi)-> pian piano queste proprietà si ampliarono (le terre private erano alla base delle villae a cui vennero poi aggiunte nuove aree di terre pubbliche). Nonostante ciò non si assistette, contrariamente a ciò che si pensava, ad una grande attività di spopolamento delle campagne; vi furono certo coloro che abbandonarono le campagne per le leve militari e i processi di urbanizzazione, ma questo ridusse semplicemente il sovrappopolamento. In questi terreni vennero utilizzati gli schiavi; da una parte vi fu uno sfruttamento brutale di questa forza lavoro, non solo nell’agricoltura, ma anche nelle miniere e sulle navi come rematori; dall’altro vi fu l’utilizzazione delle capacità tecniche di alcuni schiavi o ex-schiavi (pedagoghi, scribi, segretari e medici), che venivano comprati a prezzi più elevati e lavoravano a stretto contatto con il padrone. Il padrone aveva la facoltà di concedere loro la libertà e anche la cittadinanza romana-> questo favorì il processo di ellenizzazione facendo penetrare nuovi elementi portatori di culture molto lontane da quella romana e che con la cittadinanza acquistarono uno statuto permanente. Questo permise a Roma di superare l’esclusivismo giuridico che aveva rovinato le poleis greche e sebbene vi fossero altri gradi di cittadinanze (peregrinus, latina) da dare agli schiavi, venne utilizzata proprio quella romana. Questo comportò un arricchimento di Roma e fu una delle ragioni del suo durevole successo: divenuti liberi gli schiavi crearono un nuovo gruppo sociale, ricco di energie, conoscenze e saperi (se eri figlio di un liberto già libero al momento della tua nascita eri un ingenuo e potevi salire la scala sociale). Si verificò quindi un ampliamento di orizzonti e un mutamento di costumi. La teoria della costituzione mista Polibio nel sesto libro delle sue Storie si interrogò sul motivo dello straordinario successo politico di Roma, osservando il tutto da una prospettiva privilegiata essendo stato egli al seguito di Scipione Emiliano (vince terza punica e Pidna). Egli ritiene che il grande vantaggio di Roma stia nell’equilibrio mutevole e sempre più difficile delle tre forme di governo: governo monarchico (potere monarchico nei consoli), aristocratico (potere aristocratico nel senato) e democratico (potere democratico nei comizi). In realtà però un romano non avrebbe compreso questa tripartizione, in quanto più che la divisione dei poteri vi era una confusione dei poteri nello stesso soggetto e la scissione di uno stesso tipo 5. Lex Sempronia de provincibus consolaribus-> obbligava il senato a sorteggiare quali province sarebbero state assegnate ai consoli prima delle elezioni; 6. Lex Sempronia de capitate civis Romani-> riafferma il ruolo di controllo per tutti i casi d’applicazione della pena capitale-> veniva così esclusa la repressione di casi non definiti; 7. Lex Sempronia militaris-> spettava allo stato pagare le vesti e l’equipaggiamento dei soldati; 8. Lex Sempronia de Popilio Lenate-> per il processo instaurato contro i seguaci di Tiberio senza autorizzazione dei comizi; 9. Lex Sempronia de sicariis et veneficiis-> repressione criminale a nuove fattispecie; 10. Lex Sempronia viaria; 11. Lex Sempronia de novis portoris-> politica doganale e al controllo dei conti pubblicani; 12. Lex Sempronia frumentaria-> assegnava a ciascun cittadino romano una certa quantità di grano a prezzi politici; 13. Rogatio marciam de tribunis militum e lex Papiria de tresviris capitalibus-> repressione penale; 14. Lex acilia repetundarum-> leggi relative alla composizione dei comizi centuriati e al sistema processuale; 15. Legittimità formale della rielezione di un tribuno in carica; 16. Nuova modalità di votazione-> per evitare che gli economicamente più deboli fossero irrilevanti si creò il sorteggio dell’ordine di voto delle centurie; 17. Lex Sempronia iudiciaria-> si modificò la composizione dei tribunali ed in particolare quelli della quaestio de repetundis: non più dal ceto del senato ma dal ceto equestre. Il suo era un progetto politico molto ambizioso che permetteva di spostare gli assetti verso una più radicale forma di partecipazione popolare, cosa che era testimoniata dal fatto che un tribuno della plebe fosse promotore di un tale progetto politico-> così la res publica veniva svincolata dall’auctoritas e dal cursus honorum. Un nuovo modello di res publica? L’attività legislativa dei comizi tributi divenne il vero centro istituzionale dello stato cittadino; questo faceva però affiorare l’idea di una deriva in senso ateniese con un primato della democrazia assembleare, cosa dimostrata con il fatto che i due fratelli avessero fondato tutto sulla figura del tribunato-> cosa che spiega la violenza senatoria. La partita che si era aperta investiva la natura stessa della res publica e l’architettura politica su cui si era basata: perciò quando Gaio non fu rieletto tribuno della plebe per la terza volta, approfittando del tumulto, venne organizzato l’assassinio di Gaio. La sconfitta di gaio è dovuta alla precarietà del blocco politico sociale da lui costituito: infatti l’alleanza tra nobilitas senatoria e cavalieri era per i cavalieri più vantaggiosa di un’alleanza con Gracco. Inoltre la riforma graccana aveva le sue radici nella tradizione agraria e nello spirito conservatore che era contro l’espansionismo imperialistico, ma nel senso che voleva evitarne gli aspetti più patologici ma condivideva l’idea di potenza (da una parte Gaio favorisce la fondazione di colonie e la distribuzione di terre, dall’altra però si occupa della distribuzione di grano a prezzo politico-> si ricongiunge così alla politica imperialistica perciò era un ulteriore onere per le province). Perché la sua politica avesse risultato avrebbe dovuto esserci un’alleanza forte tra l’assemblea popolare e il ceto degli equites, alleanza che avrebbe dovuto completamente emarginare il senato (mentre la politica imperiale rafforzava e conservava le funzioni militari e di governo dell’aristocrazia)-> una soluzione del genere era comunque inadeguata per il dilatarsi spaziale di un potere che restava ristretto nella sua base politica. Vi è poi il problema degli italici: una volta a questi bastavano i vantaggi derivanti dalla crescita di un blocco politico come Roma, invece a quel punto essi volevano l’ampliamento della cittadinanza, per godere dei vantaggi derivanti da essa: potere e ricchezza. Tuttavia mentre era aumentato l’interesse di questi ad avere la cittadinanza era diminuita la concessione di tale privilegio da parte di Roma. Gaio aveva perciò previsto di dare ai latini la cittadinanza e agli altri italici i vantaggi di cui godevano i latini: Druso, altro tribuno, gli scagliò contro il veto. La linea politica graccana scomparve con la lex agraria epigraphica del 111 a.C. che consolidava i terreni dell’ager publicus trasformati in proprietà privata e riduceva invece l’importanza delle terre pubbliche-> singoli provvedimenti misero fine all’acquisizione dell’ager publicus. Le violazioni delle regole, l’assassinio politico e le persecuzioni mortali diedero il via ad una lotta politica che durerà un secolo. Le riforme militari di Mario e la crisi italica Le crescenti tensioni tra Romani e Italici erano diventate perniciose; inoltre non si arrestavano la crisi demografica, i fenomeni d’inurbamento e la proprietà schiavistica. Vi erano inoltre nuove esigenze militari di grande rilevanza: Roma si trovò a difendersi dalle invasioni delle popolazioni germaniche; i Galli avevano già conquistato e incendiato Roma nel IV secolo a.C., ma episodi del genere non si erano più verificati grazie alla presenza di Roma nell’Italia settentrionale. La vittoriosa difesa fu guidata da un generale plebeo: Gaio Mario, a cui venne in seguito affidata un’altra importante guerra: quella contro Giugurta, re di Numidia. Le difficoltà della leva per questa guerra furono superate arruolando volontari dai proletarii, cioè i nullatenenti, che si arruolarono nella speranza di ottenere vantaggi economici grazie al bottino di guerra. Si tagliavano così le radici di un ordinamento militare fondato sulla costituzione centuriata avviandosi così alla formazione di un esercito di mestiere: dalla fedeltà dei piccoli proprietari terrieri alla res publica nel combattere si passò alla fedeltà dei veterani verso il loro generale-> questa è la premessa per un potere personale dei grandi comandanti militari, che non erano più disposti ad essere considerati solo come semplici membri dell’aristocrazia senatoria (sarà un grave problema). Dopo le campagne il prestigio di Mario aumentò determinando una svolta in senso popolare; la guida effettiva restava però quella di Saturnino e Glaucia che si rivelarono i due veri cervelli del partito popolare; i loro obbiettivi erano: 1. Distribuzione di grano alla plebe a prezzi irrisori; 2. Fondazione di colonie oltremare; 3. La distribuzione di terre ai veterani di Mario; 4. Una nuova legge giudiziaria; 5. Lex Appuleia de maiestate minuta-> più pericolosa perché ampliava la figura del crimen maiestatis con cui si colpivano i reati di carattere politico. Tale imputazione, per l’indeterminatezza dei comportamenti annoverabili come un attentato alla maiestas populi romani era facilmente utilizzabile in una lotta politica grave. I disordini aumentarono quando vi fu l’approvazione della legge relativa alla redistribuzione delle terre della Gallia Cisalpina conquistate da Mario contro i cimbri. La crisi si aggravò ulteriormente quando Saturnino e Glaucia per farsi rieleggere al tribunato compirono l’assassinio del candiato avversario-> venne proclamato un senatus consultum ultimum che incaricò Mario di intervenire contro i suoi antichi alleati: egli non fu in grado di intervenire contro l’uccisione di Glaucia e Saturnino e questo determinò il tramonto politico di Mario, bravo generale ma politico incerto e poco abile: era infatti inviso sia ai popolari per la repressione condotta, sia all’aristocrazia per la sua precedente condotta-> si allontana da Roma. La guida dei popolari venne affidata a Cinna, anche egli tribuno della plebe (carica che valorizzava lo strumento legislativo). Venne inoltre modificata la carica del consolato, divenendo di fatto lecita la rielezione della stessa persona per più anni di seguito. Negli stessi anni il figlio di Druso arrivò al centro della politica romana, avviando una politica contraria a quella paterna (che era opposta ai gracchi)e rifacendosi alle linee riformatrici del partito avversario: 1. Lex Livia Agraria-> riprendeva il contenuto delle riforme graccane; 2. Restituiva al senato le competenze giudiziarie togliendole ai cavalieri; 3. Avviò la duplicazione dell’organico dei senatori: diventarono 600 e fu possibile quindi l’ingresso in esso dei membri del ceto equestre; 4. Aveva previsto la progressiva concessione della cittadinanza romana agli italici- >l’oligarchia senatoria bloccò l’approvazione della legge e assassinò Druso-> questo portò alla ribellione degli italici. Iniziò così la guerra sociale che si configura come una grande alleanza di popoli tra cui principalmente i Sanniti. Tuttavia sono contraddittorie le aspirazioni degli Italici: 1. Piena assimilazione e parità con Roma (Latini); 2. Radicale orientamento anti-romano-> per riconquistare la piena libertà (Sanniti). Viene inoltre dichiarato che lo strato propulsivo di ciò furono gli strati più popolari delle varie comunità e non le aristocrazie locali che erano in teoria le più interessate alla cittadinanza (vantaggi economici e circolazione giuridica), perché di fatto ai contadini non cambiava molto avere o meno la cittadinanza romana. È però vero che l’arroccamento romano abbia fatto provare il desiderio di parificazione politica oppure nostalgia per l’antica libertà-> per questo molte comunità, avendo la possibilità di trasformarsi in municipi, di vivere secondo le leggi o accettare la cittadinanza romana. Si rese sempre più evidente che i ceti dirigenti di Roma non erano stati in grado di conservare l’impero acquistato: non riuscirono a piegare gli alleati italici solo con le armi-> perciò venne stabilito e accordato di concedere quei benefici prima negati a coloro che avessero deposto le armi: così la lotta si placò tra l’89 e l’88 a.C., in quanto la Lex Iulia de civitate latinis et sociis danda, insieme ad altre due leggi sancì la concessione della cittadinanza romana ai Latini e agli alleati italici rimasti fedeli o che avevano subito deposto le armi. La conseguenza era la trasformazione in municipi che avrebbe comportato la perdita delle istituzioni giuridiche e quindi motle furono incerte se acquistare questa lex de civitate romana. La partecipazione nel sistema comiziale romano fu molto complessa: le riunioni comiziali si svolgevano a Roma e perciò solo i ricchi e solo per decisioni importanti poterono qui recarsi a votare, non determinando di fatto degli squilibri. Le nuove popolazioni furono divise in tribù ma non ne conosciamo il numero preciso e non sappiamo né se esse si aggiungessero alle antiche 35 tribù oppure se si inserissero in una parte delle antiche tribù. I tempi erano maturi e ciò fu visibile con la svolta linguistica a favore del latino e la vasta assimilazione culturale che mostrò il deperimento delle tradizioni autoctone innanzitutto giuridiche. Le guerre in Oriente e l’affermazione del nuovo potere personale: Silla. Vi fu una situazione di crisi anche nell’Oriente ellenistico, a causa di un gravissimo episodio: il re del Ponto, Mitridate, provocato da un’avventurosa spedizione di una popolazione locale aiutata dai Romani, dette alle piccole città e ai luoghi il clamoroso segnale di sollevazione romana contro il suo dominio-> massacro dei commercianti romani e italici per molteplici speculazioni-> si vide l’odio antiromano. Roma si occupò di ciò solo dopo aver pacificato la penisola: l’oriente era ricco sia di popolazione sia di mezzi economici. Lucio Cornelio Silla guidò ciò in quanto si era già messo in vista nella guerra sociale-> fu un’assegnazione estorta con la forza alla testa delle legioni da lui arruolate per tali guerre d’oltremare (episodio di prevaricazione del senato e dei comizi). Tuttavia vi era sempre stato un carattere illusorio delle vittorie via via conseguite con provvedimenti legislativi destinate a durare solo il breve momento della vittoria; c’era sempre però un ossessivo richiamo alle leggi, come a far capire che c’era una la necessità di una forma giuridica senza la quale non poteva esserci alcun successo politico. Vi furono quindi continue delibere e leggi comiziale, emanate in gran disordine (liberalizzazione dell’iscrizione degli italici nelle tribù territoriali, rafforzandone il ruolo nei comizi cittadini. Iniziarono inoltre i processi criminali: 1. De maiestate-> avviati dalla parte popolare per eliminare esponenti dell’aristocrazia; 2. Senatus consultum ultimum per spezzare la forza dei populares. A questi si aggiungeva spesso il delitto politico. Questa guerra civile assunse particolare evidenza durante la prolungata assenza da Roma di Silla (in Asia contro Mitridate); il partito popolare (prima Mario e poi Cinna) iniziò forti persecuzioni ed assassinii nei confronti dei membri del partito senatorio compresi gli stessi familiari di Silla-> tornato in Italia nell’82 a.C. marciò militarmente contro Roma, debellando l’armata dei capi In seguito (II secolo a.C.) il controllo del processo penale passò al senato; questa competenza senatoria si fondò su delibere di tale organismo o vere e proprie leggi con cui si istituivano appositi tribunali: composti da un corpo di giurati, presieduti da un console o da un pretore, tali quaestiones furono chiamati a giudicare crimini di rilevanza politica, di attentato alla sicurezza della res publica o crimini di particolare gravità. Il tribunale più importante fu quello chiamato a reprimere il crimen repetundarum: il tipico reato di concussione perpetrato a danno dei provinciali-> si instaurarono giudizi relativi alle repetundae e perciò il tribunale era composto dai reciperatores: tali giudizi si estesero poi alla repressione del reato. Le spoliazioni effettuate dai magistrati erano solo uno di un numeroso insieme di illeciti che l’antico sistema di giudizi popolari non era in grado di combattere-> moltiplicarsi delle quaestiones per giudicare i reati di ordine politico in cui erano coinvolti ex-magistrati. Sebbene lo strumento era più efficace dei iudicia populi è anche vero che l’istituzione dei tribunali caso per caso e l’assenza di una prassi non favoriva quelle certezze procedurali necessarie in un settore così delicato. C’era quindi l’esigenza di corti permanenti per giudicare una determinata tipologia di reati-> nel 149 a.C. una lex Calpurnia regolamentò in maniera circostanziata la quaestio de repetundis, sottoponendolo ad un tribunale permanente. Si passò quindi da un tipo di interventi caso per caso (le quaestiones extraordinarie-> indagini eccezionali) ad un sistema di repressione di tipi predeterminati di condotte criminose. Alcuni di questi procedimenti assunsero il nome di quaestiones perpetuae, cioè indagini permanenti: 1. Alto tradimento e comportamenti pericolosi per l’ordine cittadino (quaestio maiestatis); 2. Sottrazione di beni pubblici (peculatus); 3. Brogli elettoriali (de ambitu); 4. Uccisioni violenti e turbative per l’ordine pubblico (de sicariis et veneficiis; 5. Con Silla anche le aggressioni violente (de vi). Allora le quaestiones permanenti divvenero 7 a presiedere le qauestiones perpetuae c’erano 6 pretori accanto al pretore urbano e peregrino. L’importanza del de repetundis ci fa comprendere la rilevanza sociale ed economica di tale provvedimento, ma ci fa pensare che la repressione non fosse efficace, dal momento che Silla aveva dato il controllo di tale materia al senato, fondendo così controllori e controllati. Vigeva la logica privatistica-> non si era ancora affermato un dovere del magistrato romano di indagare sui possibili reati, ma era compito del singolo interessato contro un criminale presso un tribunale cittadino. Con questo procedimento è evidente l’intimo rapporto tra cittadino e singolo, perché condanna pecuniaria si univa l’interesse del singolo (il vincitore guadagna) e il bene pubblico (viene di fatto difesa la città). In questo tipo di provvedimenti la giuria aveva solo il compito di dichiarare la colpevolezza o innocenza dell’accusato, mentre era compito del magistrato l’irrogare la condanna eventuale. L’imputato poteva sottrarsi alla pena capitale mediante lo ius exilii cioè il diritto di andare in esilio- > era una pena vissuta come assai grave perché allontanarsi dalla città significava allontanarsi dalla libertà. L’esilio diventerà più drammatico man mano che aumenteranno i territori conquistati. Le riforme sillane incisero moltissimo nel precisare i singoli reati di competenza dei tribunali e permisero di separare più chiaramente le funzioni di polizia dal giudizio criminale, circoscrivendo i margini di arbitrio e aumentando la certezza della legge-> migliorò il rapporto tra norma e repressione criminale in quanto si stabilì che nessuno poteva essere perseguito penalmente se la condotta imputatagli non fosse stata precedentemente vietata dalla legislazione cittadina. Silla diede tanto spazio ai giudici dell’ordo senatorius e soppresse il diritto d’appello al popolo e portò ad una tecnicizzazione di questo settore del diritto. I signori della guerra Silla non aveva un progetto di potere personale: si ritira a vita personale e vede incrinarsi le strutture portanti dell’edificio da lui eretto (anche se altre resteranno), a causa della ripresa dei popolari e dei suoi stessi seguaci. Infatti i popolari reagirono subito alla riduzione del potere dei tribuni della plebe e volevano anche sopprimerne la separatezza del restante cursus honorum-> non riuscirono a dare l’antica forza al tribunato nemmeno nel 70 a.C. quando la potestà tribunizia venne restaurata. Tuttavia nessuno dei riformatori era stato in grado di dare una risposta al problema di fondo che stava erodendo dalle fondamenta l’antico edificio repubblicano, che era connesso alla politica imperialistica romana. I fattori della crisi rimasero dunque operanti saldandosi ai potenti interessi e ai fenomeni strutturali: in primo piano l’intreccio dei processi di arricchimento del ceto dirigente e l’accentuato sfruttamento del mondo provinciale, poi l’inurbamento della plebe urbana e il mutamento delle strutture economiche dell’agricoltura (dominate dalle ville schiavistiche e dal grande allevamento) e dal professionalizzarsi dell’esercito. La guerra era stato il maggiore investimento economico della società romana, in quanto l’edificio cittadino si era costruito in funzione della guerra. La novità è le convergenze tra i due gruppi al vertice della società romana, in quanto per entrambi c’erano grandi occasioni: di carriere per la nobiltà senatoria, di ricchezze per entrambi, e di affari per i cavalieri. A questa politica non era estranea nemmeno la politica del partito popolare (fondamento del potere di Scipione Emiliano e comando a Mario) e inoltre si era arrivati alla centralità dell’esercito e tendenza a sottrarsi al controllo ordinario degli organi della res publica-> potere sempre più eversivo dell’imperium militiae. La perdita di centralità del senato e i nuovi poteri personali La progressiva perdita di prestigio del senato riaccese la situazione di crisi e di guerra civile: questo organo aveva infatti avuto una grandissima importanza dalla costituzione repubblicana fino alla grande espansione romana nell’Oriente ellenistico. Inizialmente il senato aveva saputo guidare con energia la difesa e la riscossa romana, ma pian piano la perdita di autorità di tale organismo divenne palese e si evidenziava maggiormente quando le giuste politiche del senato venivano svalutate dall’opinione pubblica per i sospetti di debolezza e corruzione; inoltre essendosi ormai questo identificatosi con la parte conservatrice e aristocratica era venuta meno la sua funzione di stanza di compensazione dell’intero sistema politico. Lo scontro politico di aristocratici e populares si venne poi articolando nell’intreccio tumultuoso di gruppi personali, dominati dall’ambizione di alcune personalità: Pompeo (abile generale sillano), Crasso (un aristocratico forte delle sue ricchezze), Clodio (un patrizio privo di scrupoli) e Cesare. Vi fu poi inoltre la formazione di poteri personali a base militare agevolata dalla dicotomia tra sistema ordinario delle magistrature cum imperio e delle promagistrature, e dall’esigenza della prorogatio imperii (attribuzione a magistrati decaduti dalla carica il compito di portare a termine le campagne militari iniziate oppure l’amministrazione delle province conquistate). Pompeo era ormai il più chiaro esempio: essendo stato la chiave del successo di Silla aveva ottenuto diversi imperia pretori e il trionfo. Console nel 70 a.C. la sua ambizione e il sospetto del senato a concedere poteri straordinari spiegano la resistenza del senato ad attribuirgli il comando per combattere il dilagante flagello della pirateria nel Mediterraneo orientale e nell’Adriatico (che mettevano a repentaglio le comunicazioni marittime e le fonti di approvigionamento di Roma). Questi poteri gli furono poi attribuiti con una Lex Gabinia de piratis persequendis (67 a.C.): erano quindi stati attribuiti ad un privato, al di fuori degli schemi della prorogatio imperii e anche con il superamento dei limiti territoriali dello stesso imperium, oltre che di quelli temporali (oltre l’anno). Avendo egli così ottenuto il controllo di più province territoriali e dell’intera flotta, aveva ottenuto la signoria su tutta la parte orientale dell’impero, senza alcun limite posto da controllori esterni-> aveva così raggiunto il potere personale che Silla aveva cercato di emarginare. Inoltre egli era riuscito a strappare a Lucullo il controllo della guerra contro Mitridate aumentando così il suo potere personale: tuttavia si sarebbe scontrato con il senato per il suo progetto di creazione di nuove province, anche se di regola spettava allo stesso magistrato che aveva conquistato l’inquadramento nell’ambito dell’organizzazione provinciale romana, diventandone così aumentando così il prestigio politico. Se approvato questo progetto avrebbe dato un immenso potere a Pompeo che avrebbe ottenuto il controllo dell’area più ricca dell’impero. Lo sviluppo di questi poteri personali si rese ancora più evidente con un accordo personale che esautorò il ruolo del senato affermando nuovi equilibri: il triumvirato (60 a.C.). I tre esponenti erano due importanti seguaci di Silla: Marco Licinio Crasso e Pompeo, e l’altro era Cesare, appartenente alal famiglia aristocratica della gens Julia, ma legato con la tradizione popolare per il suo matrimonio (di grande valenza politica e non sciolto nemmeno su richiesta di Silla) con la figlia di Cinna, Cornelia. Cesare Cesare aveva già dato prova della sua influenza sui comizi mediante l’elezione a pontifex maximus, con cui aveva battuto numerosi membri dell’oligarchia senatoria. Pompeo e Crasso gli garantivano il loro appoggio nella sua candidatura come console: il consolato era infatti necessario per ottenere i comandi provinciali che gli avrebbero garantito il prestigio militare. Pompeo dal canto suo pensava di ottenere l’appoggio dei comizi per l’approvazione del suo progetto di sistemazione delle province d’Asia che il senato era restio a concedergli e voleva rompere il suo isolamento dovuto al fatto che fosse sospetto all’aristocrazia senatoria ed essendo inviso alla fazione popolare. L’obbiettivo di Crasso era quello di rinverdire il suo prestigio militare guidando una nuova guerra contro i Parti. Questo triumvirato sottolineò quindi la debolezza del sistema di governo. Era ormai evidente che il diritto si piegasse al fatto e ciò lo mostra la rilevanza assunta dal rinnovo in pubblico dell’accordo politico tra i 3 che si verificò a Lucca nel 56 a.C.-> qui si recarono a rendere omaggio numerosi senatori e magistrati cum imperio. Nel 53 a.C. Crasso venne a mancare per la morte durante una battaglia con i Parti e rimasero solo gli altri due. L’azione di Cesare era caratterizzata da una complessità di registri che trascendeva i circoscritti orizzonti della tradizione politica: 1. Legge agraria-> riprendeva il programma di parte popolare dell’età dei Gracchi; prevedeva una nuova distribuzione dell’ager publicus (sia in Italia sia nelle province) e una nuova disciplina per le terre restate pubbliche; 2. Lex Iulia de pecuniis repetundis-> volta a riorganizzare l’intera disciplina di questo reato ed il relativo processo; 3. Politica di alleanze e provvedimenti legislativi volti a favorire l’ordine equestre; 4. Presa sulla parte popolare-> ciò fu assicurato durante gli anni della sua assenza da Roma dall’azione dei tribuni della plebe; era nata infatti l’amicizia con Clodio che amministrò i suoi interessi mentre lui si trovava nella Gallia Cisalpina-> dopo la scomparsa violenta di Clodio i rapporti con Pompeo si incrinarono e dovette quindi avvalersi dell’azione di altri tribuni contro le varie iniziative legislative. La vittoria di Cesare (45 a.C.) portò ad una trasformazione inevitabile che mostrò: 1. La debolezza delle strutture politiche cittadine rispetto agli immani compiti che si ponevano per il governo e il controllo di un potere esercitato sul mondo mediterraneo; 2. La concessione della cittadinanza dimostrò l’inadeguatezza della forma di governo della res publica: molteplici civitates vennero raccolte in un’unica civitas; 3. Si dovette abbandonare la concezione per cui si identificava l’ordinamento politico e giuridico con la struttura materiale di una città e dei suoi abitanti-> si era già superata con l’esperienza municipale e coloniaria ma non aveva avuto riflessi sugli equilibri interni alla civitas; 4. L’intero sistema costituzionale romano si era fino ad allora identificato con la cittadinanza romana coincidente con gli spazi dell’Urbs-> qui era intervenuta una improvvisa dilatazione della cittadinanza, estesa a tutta la penisola con la conseguente scomparsa di quella gerarchia tra alleati italici e Romani consolidata da secoli; 5. Una volta ampliata la polis era impossibile pretendere di conservare gli stessi principi fondanti della libertas repubblicana. Infatti l’espressione della partecipazione popolare risiedeva in quei comizi che presupponevano non una delega ad altri organismi ma la diretta manomessi, di Latini che avevano fruito dello ius migrandi e nel caso di stranieri non c’erano né la proprietà fondiaria né l’origo, dato che la loro patria d’origine non era la civitas romana). Questa nuova distribuzione non ebbe rilevanza nel piano politico, in quanto era impossibile per coloro che non fossero di Roma recarsi ai comizi, ma soprattutto c’era stato un deperimento dei comizi. Così la fisionomia giuridico-amministrativa dell’Italia si era ormai risolta in una civitas che comprendeva l’intera Penisola e ogni centro cittadino moltiplicò in piccolo il sistema di governo romano: con il suo senato (i decurioni-> avevano la gestione finanziaria delle risorse necessarie alla vita della comunità), i suoi magistrati (quattuoviri, duoviri e questori), le loro assemblee, il Foro e il piccolo Campidoglio dove c’erano i templi per le divinità romane-> sistema di autogoverno fondato sulla consistenza di questi gruppi dirigenti locali. I quattuoviri erano divisi in due collegi: l’uno con funzioni giusdicenti (iure dicundo) e l’altro con funzioni amministrative e di polizia urbana (aedilicia potestate). Questi due magistrati erano competenti delle controversie civili di minor valore, ma anche per gli affari criminali, potendo presiedere processi pubblici atti a sfociare nella condanna di un imputato. Cesare creò dei modelli destinati ad espandersi in tutto il mondo ma non emanò una lex Iulia Municipalis, contenente lo statuto tipo delle nuove colonie. Vi era invece una lex Mamilia, Roscia, Peducacea del 59 a.C. volta a disciplinare l’ordinamento territoriale del sistema municipale-> con le leges Iuliae de civitate grandi passi in avanti. L’eredità di Cesare L’immenso potere unito al prestigio e alla popolarità aveva creato un’aura religiosa intorno a Cesare e la latenza monarchica presente nei suoi poteri si accentuava e proprio in questo clima maturò il complotto contro di lui. Il 15 marzo (famose idi di marzo) del 44 a.C. Cesare venne pugnalato in senato con 23 coltellate, il che ci fa comprendere che nell’ultimo periodo fosse isolato sulla scena politica e le sue accelerazioni erano forse state eccessive. Ad alimentare incertezze e sospetti furono anche i preparativi per la guerra contro i Parti, che fecero pensare ad un generale spostamento verso Oriente degli equilibri politici dell’impero e del suo sistema di governo, dubbio accentuato dalla sua relazione con Cleopatra, dalla dissoluzione del precedente matrimonio e dalla nascita del figlio avuto da Cleopatra (Cesarione), tutti aspetti che lo avvicinavano sempre più alla fisionomia di un monarca orientale. Tuttavia fu fin da subito evidente la fragilità del sistema politico alla base della congiura anticesariana, in quanto i congiurati, in seguito all’uccisione di Cesare, continuarono a rifarsi solo ed esclusivamente all’antica libertas repubblicana, che però non era più possibile dopo gli stravolgimenti apportati da Cesare: era perciò evidente che la precaria ripresa dell’aristocrazia poteva durare solo fino a quando i capi del partito popolare non fossero riusciti a formare un fronte compatto-> nel 43 a.C. si arrivò all’accordo tra Antonio e Ottaviano. Appunto per la debolezza del piano dei congiurati si imposero al centro della scena politica gli eredi e i continuatori di Cesare, i quali, grazie ad una specie di tregua armata poterono organizzarsi meglio e dopo aver trovato un accordo sulla spartizione dell’eredità politica di Cesare firmare il secondo triumvirato. Sancito dalla lex Titia trimuviris rei oublicae consituendae potestae creandis del 43 a.C. attribuiva grandissimi poteri di governo e costituenti supportati dal comando militare assicurato dall’imperium pronconsolare a: Marco Antonio (collaboratore e generale di Cesare), a Gaio Ottavio (pronipote di Cesare e da questo adottato) e a Marco Lepido. La carica era votata per un quinquennio e avrebbe dovuto durare fino al dicembre del 38 a.C. Questa fu poi anche una stagione di vendetta a causa della presenza delle liste di proscrizione in cui furono inseriti i congiurati, la nobiltà senatoria e il ceto equestre. Il fatto che alcuni uomini finirono in queste liste fu dovuto alla ricchezza dei proscritti perché i triumviri necessitavano dei mezzi finanziari per sostenere le spese di quelle armate su cui si fondava il loro potere e per prepararsi allo scontro finale con l’esercito che i cesaricidi erano riusciti a raccogliere ad Oriente-> si concluse nel 42 a.C. a Filippi dove le legioni di Ottaviano e Antonio sconfissero Bruto e Cassio. Questo non segnò la fine delle guerre civili, destinate a concludersi solo con la battaglia di Azio (31 a.C.). Lo scontro tra Ottaviano e Antonio Ottaviano condivideva con i suoi due soci una signoria sovrana, avendo il controllo dell’elemento militare e del governo civile: l’unico problema erano appunto i colleghi. Così tra i triumviri vi fu una divisione di competenze su base essenzialmente territoriale: 1. Antonio-> governo d’Oriente-> politiche degli ultimi anni di vita di Cesare che voleva sconfiggere i parti; 2. Ottaviano-> governo dell’Italia e delle province centrali-> Ottaviano credeva invece che il centro del potere fosse ancora situato in Italia; 3. Lepido-> governo dell’Africa. Iniziarono serie frizioni tra Antonio e Ottaviano, ma nel 37 a.C. vi fu il rinnovo del triumvirato per altri 5 anni, anche se Lepido ne venne sostanzialmente escluso mantenendo solo il ruolo di pontifex maximus. A indebolire la posizione di Antonio furono: 1. Il fallimento della spedizione contro i parti, che si concluse con il solo assoggettamento dell’Armenia, che sarebbe stata uno stato cuscinetto contro i Parti; 2. La creazione e il riconoscimento di piccoli stati e monarchie piuttosto che annetterli (in realtà questa tattica degli stati cuscinetto era sempre stata perseguita da Roma, ma la situazione era particolare); 3. ll dubbio che egli volesse spostare in Oriente il cuore politico, dubbio dovuto allo scioglimento del matrimonio con Ottavia (sorella di Ottaviano) e il matrimonio con Cleopatra; 4. La lettura del suo testamento da parte di Ottaviano, testamento in cui veniva espresso il suo desiderio di lasciare tanti piccoli stati orientali ai figli di Cleopatra, assumendosi così le prerogative di un vero sovrano orientale. Ottaviano aveva invece rafforzato la sua posizione: 1. Sconfiggendo Sesto, figlio di Pompeo, che aveva avviato una guerra sul mare contro i nemici del padre e bloccava con la sua flotta i commerci mediterranei e i porti italici; 2. Conquista della tribunicia potestas; 3. Difesa dell’antica centralità di Roma e dell’Italia rispetto alle tendenze orientalizzanti di Antonio; 4. Nonostante Antonio fosse un ottimo generale e rispettasse ciò che diceva, a differenza di Ottaviano che se poteva veniva meno e non aveva grandi abilità militari, egli prevalse per la sua superiore capacità politica: scelse grandi generali (Marco Vipsanio Agrippa)e soprattutto nei dieci anni successivi a Filippi non fece altro che accrescere la sua popolarità, mantenendo un atteggiamento cauto con l’aristocrazia senatoria e propugnandosi difensore degli interessi italici. Nonostante al momento dello scontro non avesse più poteri effettivi (non era più tribuno anche se Antonio si appellava per esempio alla finalità della carica rei publicae constituendae), egli aveva ottenuto un giuramento di fedeltà dell’Italia e delle province italiche per la difesa dell’unità e della sovranità dell’impero di Roma. Forte di ciò Ottaviano, alla fine del 32 a.C., entrò in guerra con Cleopatra: Antonio si vide quindi costretto ad entrare in guerra la fianco di Cleopatra, diventando così hostis rei publicae, essendo Cleopatra nemica di Roma. Antonio entrò in guerra nelle peggiori condizioni possibili, con un esercito demoralizzato: messa alle strette la sua flotta ad Azio non combatté preferendo invece raggiungere Cleopatra che si era subito sottratta allo scontro (lui perdeva così navi e soldati). Antonio e Cleopatra così si uccisero nel 31 a.C. determinando la fine delle guerre civili. Augusto e la costruzione di un nuovo modello politico-istituzionale La sperimentazione di una forma politica Tornato a Roma da padrone assoluto volle dar veste al nuovo sistema di potere destinato ad assicurare il suo ruolo: iniziò così la lunga creazione del nuovo ordine politico-istituzionale. Negli anni successivi alla vittoria mancò una chiarezza di fondo: a partire dal 31 a.C. si fece nominare console insieme ad Agrippa, carica che mantenne fino al 27 a.C., quando annunciò la rinuncia ai suoi poteri straordinaria a seguito dell’avvenuta restaurazione della repubblica ora in grado di funzionare regolarmente (lo dice anche nelle res gestae-> “sciolto la res publica del suo potere e d’averla restituita alla volontà del senato e del popolo romano”)-> il riferimento implicito è all’abrogazione delle disposizioni eccezionali assunte dai triumviri. Anche dopo questa restituzione rimase titolare del consolato (fino al 23 a.C.), mentre era già stato designato princeps senatus e manteneva i poteri della tribunicia potestas. A Roma si fece dunque sempre più evidente la progressiva ma sistematica trasformazione dell’organizzazione istituzionale romana con una combinazione delle antiche forme repubblicane e di un nuovo potere personale, basato sul controllo della componente militare-> gli venne così affidato un imperium che gli consentiva di avere il comando di tutte le province non pacificate (quelle strategicamente rilevanti in quanto lì erano acquartierate le legioni); questo fu accompagnato dalla omnium rerum potestas, cioè il diritto d’intervento per salvaguardare ogni interesse pubblico. Successivamente al 27 a.C. egli da princpes senatus divenne princeps universorum (di tutti); in seguito ottenne il titolo di Augustus, evocativo di un’autorità vaga e indistinta atta a collegarsi alla sfera religiosa (stesso etimo di augurium e inauguratio, ma forse anche da augere-> aumentare). Aveva inoltre assunto, per l’adozione di questo il suo praenomen: Imperator, a significare l’eredità politica del suo predecessore, ma anche a sottolineare il suo ruolo di preminenza nella res publica e il fondamento militare di tale potere. Nel 23 a.C. completò il percorso costituzionale rinunciando al consolato, carica che avrebbe ricoperto altre due volte cercando di evitare ogni magistratura repubblicana; ottenne così la pienezza dei poteri tribunizi, senza però la titolatura della carica, ottenendo così: potere di convocare i comizi, potere di veto e carattere sacrosanto della sua persona. Così il suo imperium da quell’anno divenne maius cioè superiore a quello degli altri magistrati titolari di imperium. Assunse anche lo ius agendi cum patribus che gli dava il potere di convocare e presiedere il senato e probabilmente si ampliarono i suoi poteri proconsolari avendo il controllo anche delle province senatorie. Avrebbe poi assunto l’imperium consulare e lo ius auxilii (diritto dei tribuni dellla plebe a difesa del singolo cittadino), esteso al pomerium-> aveva anche il diritto di modificare la decisione delle corti giudicanti nei processi criminali, aggiungendo il suo voto a quello dei componenti. Si andò quindi a sopprimere l’antica dicotomia tra ordinamento politico e potere militare, in quanto il comando andò a concentrarsi nelle mani del principe, che poteva: decidere sulla guerra e sulla pace, ma anche sulla stipula dei trattati internazionali e sulla definizione degli assetti amministrativi dei municipi, delle colonie e di tutte le altre comunità e popoli sottoposti alla sovranità di Roma. Rifiutò le cariche di: cura legum et morum, censor perpetuus e dictator rei publicae constituendae, non perché non volesse il potere, ma perché non voleva ricollegarsi alle antiche cariche magistratuali. Non esitò invece ad esercitare il potere censorio (censimenti e lectio senatus), anche se ripristinò una coppia di censori scelta tra due senatori. C’era un governo che conservava la forma della costituzione repubblicana ma si basava su un potere personale garantito dal controllo dell’esercito e di tutte le sfere della politica e dell’amministrazione-> egli fece quindi concentrare in sé le competenze proprie delle più importanti magistrature repubblicane. Le competenze che aveva lo sottraevano al controllo del senato, che aveva da sempre controllato l’attività dei magistrati, anzi poteva convocare e presiedere questo organo, di cui aveva preso il compito di orientare i magistrati nelle proprie cariche. Cesare Ottaviano era scomparso; rimaneva solo: Imperator Caesar Augustus, titolo che non conservava tutte le sue origini familiari e il vertice di capopopolo di una fazione macchiatasi di delitti, ma solo il legame con Cesare, ormai divinità. Nel 12 a.C divenne pontifex maximus, cioè intermediario tra sfera umana e divina e nl 2 a.C. pater patriae, ricordando la dimensione arcaica e patriarcale. nomina dei magistrati fosse trasferita dai comizi al senato. Augusto diede però rilievo all’altra funzione dei comizi: la legislazione, mediante la creazione di un corpo di leggi-> con i suoi successori questa attività comiziale fu sostituita dai senatoconsulti e dalle costituzioni imperiali (nel I secolo d.C. persero importanza e non furono nemmeno convocati). Egli ridisegna anche le procedure di voto, ridisegnando un complesso sistema di precedenze tra le varie centurie in ordine dell’andamento della votazione-> questo perché Augusto poteva così perseguire il controllo dell’assemblea comiziale, in quanto sospettoso di essa come del senato. Della numerosa serie di leggi comiziali ricordiamo: 1. Lex Iulia iudiciorum privatorum-> comportava la definitiva scomparsa del processo per legis actiones; 2. Lex Iulia iudiciorum publicorum-> riforma del processo penale romano, intervenendo sulle quaestiones; 3. Leggi per il campo familiare-> dovute a delle preoccupazioni di carattere demografico: per il ruolo che la nobilitas e il ceto equestre continuavano a rivestire era necessario un incremento demografico di questi gruppi sociali (invece c’era stato un calo della natalità per le guerre civili prima e poi per l’inizio di una vita lussuosa e rilassata). Vengono quindi create le legis Iuliae de maritandis ordinibus, mediante le quali vi erano una serie di meccanismi incentivanti e sanzioni economiche per stimolare la natalità della nobilitas e per favorirne i matrimoni legittimi. Si creò quindi un sistema normativo organico, passato con il nome di Lex Iulia et Papia volto a disciplinare tutto il sistema familiare e i rapporti coniugali, mentre erano state introdotte regole di moralità e disciplina sociale all’interno dei vincoli matrimoniali, reprimendo le condotte scandalose e i disordini sessuali. Per quanto riguarda le altre magistrature c’era stata una generale decadenza, soprattutto per quanto riguarda i consoli, in quanto le loro funzioni politiche e militari erano state avocate dal principe-> oltre ai consoli ordinari vennero creati dei consoli suffecti, in modo da soddisfare un maggior numero di persone e in modo da ridurre l’effettiva rilevanza della carica. Questo non fece venir meno l’interesse per tale carica, anzi: essa garantiva infatti l’elevata posizione in senato per gli ex consoli e perché da essi provenivano i governatori provinciali, il praefectus urbi e coloro che erano impegnati nella macchina del governo imperiale. La stessa perdita di ruolo fu subita da: censori, tribuni ed edili. I censori in quanto, sebbene Augusto avesse cercato di ricostruire tale magistratura, il suo contenuto era divenuto elemento integrante del ruolo del principe (con Domiziano scomparve definitvamente). Lo stesso vale per il tribunato data la tribunicia potestas del principe, ma tale magistratura si dimostrò immutata con l’elezione di dieci tribuni all’anno. L’edilità-> ad essa furono sottratte le sue funzioni principali assunte dal principe con la cura annonae. Tutto questo trasferimento del nucleo centrale al princeps aveva comportato lo sviluppo di un sistema burocratico. La questura in un primo momento conservò le sue antiche funzioni giurisdizionali: all’importanza del pretore contribuiva l’istituzionalizzazione delle quaestiones perpetuae, tutte presiedute da un pretore (i quali erano massimo sedici). Quindi in realtà il numero dei magistrati con il governo imperiale aumentò; inoltre cambiò la gratuità delle cariche magistratuali: vennero create infatti retribuzioni fisse per magistrati e funzionari, mentre prima venivano sostenute le loro spese per missioni fuori da Roma con cifre forfettarie (viaticum) oltre a supportarli con un sistema di comunicazioni via terra: questo cursus publicum poteva essere fruito anche dai senatori-> venne poi potenziato sia il reticolo viario sia il cursus in modo da giungere a tempi di percorrenza brevi. Il fondamento sociale del principato Il ridimensionamento dei vecchi organi della repubblica era il risultato del dualismo che aveva portato alla coesistenza del vecchio sistema di governo nobiliare e del nuovo apparato burocratico creato dal princeps. Uno dei caratteri fondamentali della politica Augustea è l’ampliamento di ordine equestre e nobilitas senatoria, mediante l’ingresso delle elitè italiche prima e delle provinciali poi (crescita importanza equites visibile anche con Nerone, Vespasiano e Adriano); la crescente importanza degli equites era dovuta al fatto che questo gruppo non avesse consolidate radici politiche, cosa che lo faceva diventare uno strumento docile e affidabile nelle mani del princeps, in quanto da questo dipendeva ogni possibilità di carriera e promozione sociale, cosa che li portava ad una grande lealtà al principe. Dall’aristocrazia senatoria provenivano però quasi tutti i governatori provinciali: i legati di Augusto, posti al governo delle province di sua diretta competenza e i governatori delle province Populi romani, sottoposte al senato, nonché i quadri di governo delle legioni costituite da cittadini romani. Dell’ordo equestre facevano invece parte: praefecti (a parte praefectus urbi), i procuratores, i procuratores Augusti (titolari di competenze anche finanziarie insieme ad una molteplicità di curatores)-> c’era quindi una struttura con al vertice la classe dei cavalieri e poi i liberti imperiali. Tuttavia sorgeva un’ambiguità di fondo in questa figura, che parrebbe estendere all’amministrazione dell’intero apparato pubblico quelle logiche ben collaudate dell’oligarchia repubblicana nella gestione dei patrimoni privati, dove il confine tra gli interessi dell’impero e la domus del principe erano abbastanza evanescenti. In passato infatti della gestione delle proprietà fondiarie e dei grandi investimenti si erano occupati gli schiavi e i liberti. Augusto e i suoi successoti usarono le stesse logiche gestionali, affidando ai propri liberti e schiavi parte dell’organizzazione imperiale oltre che il proprio patrimonio personale (evidente nei procuratore- > termine che indica una persona incaricata da un altro soggetto di gestire per suo conto un settore dei suoi affari)-> solo in seguito i liberti verranno sostituiti da personaggi del rango equestre. Una grandissima trasformazione messa in atto da Augusto era quella riguardante l’assetto organizzativo di Roma; l’apparato amministrativo era stato infatti caratterizzato da leggerezza, mentre Augusto porterà ad un cambiamento creando un’embrionale burocrazia: si moltiplicarono le figure dei pubblici amministratori (nominati dal princeps), furono creati nuovi uffici e mansioni e vi fu la formazione di un sapere burocratico per la trasmissione di tecniche e criteri di gestione di carattere generale e quindi atti a sostanziarsi in vere e proprie regole atte a disciplinare il comportamento collettivo di un corpo di funzionari. La crescita di tale macchina con i suoi successori rafforzò l’efficacia del governo imperiale, rendendo possibile un controllo del dominio politico e dell’amministrazione delle entrate. I magistrati erano nominati dal princeps e ne dipendevano per la retribuzione, mentre le regole per definirne le nomine e le competenze furono collaudate nel tempo sulla base dell’esperienza pratica. I diversi livelli retributivi riflettevano l’importanza degli uffici ricoperti e del loro rango-> con il tempo venne a crearsi una struttura gerarchica: al vertice i tricenarii e sotto i sexagenarii, rispettivamente pagati trecentomila e sessantamila sesterzi-> si venne così creando una struttura burocratica governata da una gerarchia interna, in cui era possibile un abbozzo di carriera non solo per liberti e ceto equestre ma anche per l’ordo senatorio. Le fortune dei singoli dipendevano però innanzitutto dal benvolere del principe: così come in età repubblicana era stata fondamentale l’amicizia tra i diversi gruppi familiari, così un rapporto particolare di confidenza con il princeps permise canali privilegiati, cariche, onori e ricchezze. Questa amicitia era ormai quasi l’appartenenza ad un partito politico: Augusto era infatti stato circondato da un blocco politico che gli aveva permesso di ascendere al potere (moglie Livia, Mecenate per la cultura, il generale Agrippa), blocco di alleanze politiche in continuo riequilibrio, il che spiega la caduta in disgrazia di Mecenate. Il nucleo più ristretto di questo blocco politico si articolò poi in una cerchia di collaboratori civili e militari del principe e nella presenza in senato di un gruppo di suoi amici. Arcaicità e modernità del nuovo potere Un elemento fondamentale fu l’aspetto propagandistico-> anche qui si vede come il nuovo si combini con la tradizione. Molto complessa fu la strategia adottata da Augusto in ogni campo della vita sociale e culturale: controllo dei costumi, influenza sugli ordinamenti letterari e artistici con un forte recupero della classicità del passato (per conciliare la società romana con la nuova realtà). Mecenate provvide infatti ad arruolare artisti, poeti e letterati per esaltare il nuovo mito della Pax Augusta, in un’operazione che mirava a conciliare un patrimonio culturale e politico da recuperare e salvaguardare. Non fu facile gestire questo nuovo equilibrio a causa delle difficoltà oggettive per la gestione di una tale macchina colossale. Mommsen sostiene che il governo fosse diviso tra il principe e le antiche istituzioni repubblicane; tuttavia mentre Mommsen sosteneva che il potere del princeps fosse una magistratura, in realtà esso era tutt’altro che un magistrato, essendo un soggetto politico nuovo in un quadro costruito su antichi elementi di cui egli fu regista anche rispetto alla parte dell’edificio repubblicano destinata a sopravvivere. Tuttavia non bastano forme giuridico-istituzionali e nemmeno un vasto sistema di poteri, competenze e ruoli per la costruzione della società romana, servono meccanismi e processi assai più articolati che investono molteplici aspetti della realtà sociale e che mirano a costruire un diffuso sistema di partecipazione e consenso. Proprio in ciò gioca un ruolo fondamentale il fattore religioso-> le antiche tradizioni religiose subirono notevoli mutamenti, a causa di alcuni mutamenti (crescita del lusso, aperture culturali e disgregarsi degli assetti patriarcali); inoltre vi era l’influenza del pensiero filosofico greco e dei nuovi valori che agivano con effetto corrosivo sulle credenze ancestrali. Da Oriente provenivano poi nuove correnti religiose che si diffusero in particolare durante la crisi annibalica a testimoniare la crisi e l’angoscia di una generazione. C’erano inoltre nuove religioni di salvezza cariche di una spinta escatologica con una più forte accentuazione sulle speranze di una vita terrena. La religione antica era innanzitutto la religione della città e la sua vitalità si associa a questa forma della vita sociale: una forma che aveva subito profonde trasformazioni ma che era lungi dal dissolversi. L’obbiettivo di Augusto fu quello di cercare di recuperare il senso della tradizione e degli dei patrii, ma si trattava anche di creare una nuova dimensione consona alle esigenze ampliate e rese più eterogenee tra loro dalla moltitudine di popoli. Esemplare di ciò è la creazione, nel 17 a.C. dei Ludi Saeculares (giochi secolari), che sancivano la fine del saeculum, un periodo simbolico di 100 o 110 anni, giochi che volevano rafforzare l’idea di una nuova e più felice era per Roma-> l’insieme di cerimonie si riallacciava ad antiche tradizioni modificate in modo da esaltare l’ordine che creava un nuovo ponte tra la gloria del passato e le speranze del futuro. L’antico Pantheon venne ravvivato e vennero esaltate le figure di Apollo e di Giove Ottimo Massimo, supremo protettore della città-> ciò era volto a creare una nuova pratica cultuale in cui tradizioni aristocratiche e una nuova forma della politica si saldavano in modo singolare-> si trattava degli antichi culti gentilizi divenuti patrimonio comune, tale che anche le pratiche religiose private del principe e della sua famiglia divennero patrimonio e partecipazione collettiva, rafforzando il vincolo tra questa e la sua figura. La distanza incolmabile che nelle grandi religione monoteiste sussiste tra l’uomo e la divinità non coincide con l’esperienza religiosa dell’antichità pagana: la presenza di molte divinità, i diversi gradi ad esse attribuite e le figure intermedie della mitologia escludevano la totale separatezza e spiegavano la possibile divinizzazione degli imperatori (Tiberio istituirà un culto per le divinità della gens Iulia). Nel frattempo si creò un vero culto dell’imperatore, sia nelle città italiche sia nelle altre aree dell’impero. Si trattò di iniziative imposte dall’altro in Oriente e invece di iniziative locali in Oriente, in quanto qui da tempo regalità e divinità erano associate e Augusto, ancora vivente, era adorato come un dio-> egli si comportò come tale per cercare di creare un’aura sacra per accentuare la funzione unificante delle società e delle culture dell’impero. Significativa è la pubblicità alla sua carica di pontifex maximus ottenuta nel 12 a.C. Nella sua politica si combinarono la politica culturale del principe volta ad evocare il passato riallacciandolo al presente (passato con numerosi accenti religiosi) ma anche la monumentalizzazione di Roma-> questa scenografia trova il suo spazio simbolico nel sistema del Foro e del Palatino in modo da associare il culto degli dei alla presenza del principe. Incisiva fu anche la diffusione delle effigie di Augusto, sia sulle monete sia sulle statue (presenti in municipi ma anche in luoghi privati), cosa consuetudinaria anche con gli imperatori successivi. In un mondo stabilizzato erano però ancora presenti inquietudini di un tempo, il che portava a cercare certezze e valori diversi-> ciò porterà alla formazione della concezione di un dio unico e La macchina creata da Augusto continuò a funzionare fino a Marco Aurelio e portò ad un processo di stabilizzazione volto a riequilibrare il rapporto tra centro e periferia provinciale: Augusto aveva ottenuto il controllo unitario e costante esercitato dal potere centrale su tutti i governi provinciali-> fortissima integrazione delle elite locali-> ciò si vede nel discorso pronunciato da Claudio in senato, in quanto egli inserì nel senato alcuni esponenti provinciali e si impegnò anche in una politica di concessione della civitas romana a numerose comunità provinciali-> riprendevano così vigore i circuiti di integrazione che consentivano per i nuovi cittadini forme di ascesa sociale attraverso la carriera militare o al servizio del princeps (Vespasiano era di origine italica e Traiano di estrazione provinciale). Questo non portò a diminuire però la distanza tra centro e periferia ed è qui che interviene l’esercito, dove un bravo ufficiale poteva ascendere ai massimi livelli a fare un salto verso il potere supremo, entrano nel rango equestre o addirittura a volte nella nobilitas senatoria. Augusto riprese la distinzione tra province senatorie (populi romani), istituite da tempo e pacificate e le province imperiali, ancora sotto il controllo delle armate romane. Nelle province imperiali il principe nominava come governatori dei legati Augusti muniti in genere di imperium pro praetore (alcuni di rango consolare) e invece le province populi romani erano governate da proconsules di rango senatorio provenienti dalle fila degli ex consoli e degli ex pretori. Pur essendo formalmente designati dal senato su di essi vi era la sorveglianza del principe in ragione del suo imperium maius, gerarchicamente superiore agli imperia dei singoli governatori-> poteva infatti inviare istruzioni con contenuto analitico in forma di mandata; d’altro canto gli imperatori si orientano sempre di più ad informare il princeps su tutte le questioni di un certo rilievo. Vennero poi introdotti anche funzionari e magistrati inferiori, cosicché il governatore aveva ancora minore autonomia; venne poi introdotta una durata più circoscritta delle province senatorie, tale da ostacolare qualsiasi velleità di costruire poteri autonomi o dal far mettere radici in profondità. Ancora più complesso è il ruolo dei governatori nell’assetto amministrativo e in ciò che concerne gli aspetti finanziari essenziali per l’organizzazione imperiale. Sin dall’età augustea erano stati posti dei procuratori imperiali anche se non era chiaro il rapporto tra questi e il governatore provinciale (anche se a questo rimase un potere residuale). Vi fu inoltre la scomparsa delle forme d’appalto delle imposte e anche la scomparsa dello sfruttamento a cui si sostituì un sistema più stabile e più immediatamente sottoposto al controllo centrale-> vennero poi creati dei vincoli posti alla condotta anche privata del governatore in modo da impedire arricchimenti illeciti e prevaricazioni; le costituzioni imperiali introdussero limitazioni alla libertà negoziale, il divieto di contrarre matrimonio con una provinciale e non potevano gestire attività commerciali. Inoltre la politica di lavori pubblici faceva capo al governatore che si avvaleva di diretti collaboratori oltre a interagire con le amministrazioni delle varie civitates. Inoltre divenne sempre maggiore la supervisione sui bilanci cittadini al fine di scongiurare i pericoli di dissesto delle finanze locali. Il governatore era inoltre punto di riferimento nell’amministrazione della giustizia e la sua competenza si estendeva sia all’ambito privatistico sia a quello penale con un limite costituito dall’autonomia a favore dei centri cittadini, che potevano essere: civitates liberae, liberae et immunes o foederatae con un’autonomia quasi sovrana-> questo comportava un complesso intreccio di situazioni giuridiche. La condizione dell’Egitto era particolare per le ricchezze e la produzione granaria fondamentale per l’approvvigionamento di Roma-> Augusto agli occhi degli egiziani appariva come un erede dei faraoni che assumeva gli stessi onori divini e umani goduti dai Tolomei. L’Egitto era sottoposto ad un controllo diretto, attraverso un praefectus aegypti (carriera più elevata per coloro che erano di rango equestre)-> era vietato ai senatori e ai più importanti membri del ceto equestre recarsi in Egitto senza l’autorizzazione imperiale-> era infatti strategico e fondamentale per l’approvvigionamento. La situazione dell’Egitto non unica, ma c’erano altre province governate da praefecti o procuratores scelti da Augusto in quanto successore dei governatori locali: Alpes Cottiae e Poeninae, Rethia, Noricum, Tracia, Giudea e Epiro. Sebbene l’espansione territoriale si fosse conclusa si avviò un’opera di riorganizzazione interna, che portò le province da: 15 a 30 a 45 (II secolo d.C.), cosa che permise di rafforzare il controllo capillare del princeps. Una rete di governo La traduzione della res publica in impero universale fu un processo lungo e complesso. Il sistema sperimentale sviluppato da Augusto non era chiuso e definitivo, ma sarebbe stato poi perfezionato. Vi fu un vero e proprio salto di qualità accentuato dai meccanismi conoscitivi e decisionali posti in essere dal sistema-> la cancelleria imperiale, cioè lo strumento indispensabile per governare l’universo imperiale; in questo modo il sistema periferico era soggetto ad una costante opera di monitoraggio ed inoltre questa cancelleria comportava una specializzazione del personale reclutato dal principe. Il potenziato rapporto tra centro e periferia fu possibile perché fu messo in opera un complesso sistema di circolazione delle informazioni e delle direttive imperiali-> operazione complessa visto il mosaico di popoli e destinatari del potere imperiale. In questo sistema assume importanza l’ufficio ab epistulis, strumento di comunicazione con l’esterno del principe e diviso in due per la corrispondenza in latino e in greco (le due lingue dell’impero), sotto la direzione di due procuratores (prima anche liberti poi solo rango equestre), la cui retribuzione era molto alta (300.000 sesterzi). La comunicazione tra centro e periferia ha le sue radici nelle pratiche d’età repubblicana: Augusto era infatti titolare id uno ius edicendi inerente al suo imperium: 1. Edcita-> rivolti alla provincia o a singole comunità, ai municipi e alle colonie; i destinatari immediati erano i magistrati e i funzionari-> essi avevano in genere contenuto normativo che poteva avere portata generale, rivolto cioè a tutti i cittadini; 2. Mandata-> specifiche istruzioni ai governatori provinciali riguardavano anche aspetti della vita giuridica; in un primo momento la loro efficacia non andava oltre la vita del principe che li aveva emanati; 3. Decreta-> più strettamente riferiti alla sfera giuridica; in essa si sostanziava in una decisione giudiziale relativa a una questione giudiziale relativa a una questione sottoposta al principe, al di fuori del sistema ordinario del processo romano e che egli aveva ritenuto opportuno esaminare; talora la decisione si discostava dal diritto vigente; 4. Epistulae e rescripta-> l’imperatore dava risposte ai quesiti a lui rivolte da giudici o da privati cittadini. Anche essi concernevano problemi giuridici fornendo una soluzione per casi particolari talora l’enunciazione si ispirava ad un criterio generale che andava oltre la singola questione: in tal caso la decisione imperiale era destinata a tradursi in una regola generalizzata e fonte di diritto nuovo. Quando il quesito era rivolto ad un giudice o da un funzionario la risposta gli era inviata con un’epistula, mentre in caso fossero privati a mandarla la risposta era in calce al testo, in modo che il parere potesse esibire il parere vincolante del principe insieme al quesito a lui sottoposto: da qui la qualificazione come rescritto (è necessario agganciare la soluzione del caso alla specifica rappresentazione datane al richiedente). Sia le epistulae sia le rescriptiones rientrano nella figura dei rescritti. Le costituzioni assunsero poi valore normativo. Questi processi dovettero porre attenzione alle condizioni materiali in cui si svolgevano: si trattò di garantire e sviluppare il sistema di comunicazioni fluviali e marittime che i romani avevano realizzato nel corso del tempo. Gran parte delle incombenze restò di pertinenza del governo centrale, anche se molti aspetti furono riferiti alle autorità municipali. Non meno importante fu il cursus publicus, cioè un reticolo di supporti (stazioni di posta, tappe per il rifornimento) che consentì di coprire grandi distanze in tempi brevi: poteva essere utilizzato da messaggeri imperiali e da coloro dell’ordo senatorius. Tale cursus era già esistente in età repubblicana ed ora passò sotto la responsabilità dei curatores-> le comunicazioni erano essenziali per la politica. Claudio creò un ufficio a libellis, in cui venivano analizzate le suppliche rivolte dai privati all’imperatore relative a problemi legali (Papiniano e Ulpiano ricoprono l’incarico). Poi per le questioni giurisdizionali deferite al principe venne creato l’ufficio a cognitibus. Venne poi creato un ufficio per raccogliere gli atti ufficiali del principe, in mood da sviluppare percorsi razionali per il futuro (la classificazione degli atti ci permette di comprendere quanto essi fossero influenzati dalle logiche girudice). Il fisco Augusto modificò anche la politica monetaria e finanziaria dell’impero; era sempre stato di competenza del senato era stato di competenza del senato. Il dualismo tra principe e senato: Augusto monetazione d’oro e d’argento, mentre quella in bronzo restava di spettanza del senato-> squilibrio evidente dal momento che ormai l’equilibrio monetario si basava sulla monetazione d’oro e d’argento e la monetazione in bronzo restava subordinata. Il dualismo principe-senato si estese a tutta la politica finanziaria dell’impero: accanto all’aerarium populi romani, rimasto sotto il controllo senatorio (diretto da praefecti aerarii e praefecti aerarii saturni dopo Nerone, entrambi di rango senatorio) si delineò un sistema finanziario autonomo, il fisco imperiale, direttamente controllato dal principe-> questo permise una gestione del tesoro pubblico molto efficace. L’intervento del princeps e la confusione del suo patrimonio personale e il tesoro pubblico finì per ridurre l’importanza dell’aerarium populi romani rispetto al fisco imperiale (con cui si indicò poi l’insieme delle attività finanziarie di diretta competenza del principe, che già prima di Augusto avevano assorbito parte dell’intero sistema finanziario pubblico). Vi fu quindi un’essiccazione delle vecchie forme a favore delle nuove: queste furono determinate dall’introduzione di casse separate (rationes-> dà l’idea di bilancio e di fare i conti) riferite ai singoli settori di competenza, tra cui quello che comprendeva le voci di bilancio relative alla macchina militare e all’apparato amministrativo. È ovvio che la difesa dell’impero aggravava il bilancio imperiale e perciò dovevano essere reperiti grandi mezzi finanziari mediante la gestione diretta del sistema fiscale che aveva sostituito il vecchio sistema degli appalti; vi sopperì quindi l’insieme delle gestioni autonome. La più importante era l’aerarium militare gestito da tre praefecti di rango pretorio scelti con sorteggio. Nell’aerarium militare confluivano una serie di entrate derivanti dalle imposte di successione e dai contributi diretti del principe; questo settore era fondamentale per la liquidazione dei veterani, mentre non si occupava delle spese correnti per l’esercito, in particolare il soldo delle truppe. Augusto affrontò le questioni lasciate aperte dall’età repubblicana, come la professionalizzazione dell’esercito avviata da Mario. Le legioni erano costituite da veterani impegnati per decenni nel mestiere delle armi, da cui avevano tratto il proprio sostentamento. Essi ricevevano un regolare stipendio e in seguito una liquidazione che consisteva in un appezzamento di terra. Questa politica aveva generato ulteriori squilibri con massicce espropriazioni. Augusto decise di sostituire la liquidazione in terre con somme di denaro dell’aerarium militare. Importante è anche il patrimonium personale del principe , in quanto esso è un elemento ambiguo; esso coincide con il fondamento privatistico delle ricchezze di Augusto, ma in realtà, dal momento che la sfera privata del principe cessava di essere tale per assumere rilevanza pubblica, nuovi flussi di ricchezza si concentravano nel suo patrimonio personale (attivo province imperiali, lasciti…), entrate finalizzate a ricoprire un insieme di spese di carattere pubblico. Secondo questa logica il patrimonio privato cessò di essere devoluto secondo le logiche che presiedevano alla successione ereditaria nel campo privatistico, per essere trasmesso al successore nel potere imperiale-> esso fu affidato alla gestione di un procurator a patrimonio. Questo comportò una grandissima concentrazione di proprietà fondiarie nelle mani dell’imperatore, elemento importante per la riorganizzazione di intere regioni. In generale questi latifondi vennero amministrati da procuratores imperiali e il processo si trasformazione in senso pubblico del patrimonium principis contribuì a far emergere un altro settore finanziario costituito da un patrimonio ancora più privato del principe, la res privata, di cui egli aveva piena e personale disponibilità-> si enucleò così una ratio privata riferita ad un segmento sottoposto ad una gestione più elastica e autonoma del patrimonium principis (a partire da Adriano supervisione ad un procurator rationis privatae, con rango elevato nella gerarchia imperiale). la prima persecuzione cristiana, persecuzioni poi destinate ad incidere sulla società romana e sulla sua forma imperii. Fine cruenta spettò a Caligola e Nerone, cioè quei personaggi che accentuarono eccessivamente il loro carattere autocratico isolandosi rispetto alle altre componenti istituzionali (Domiziano) o mostrandosi impari ai grandi compiti gravanti su di loro. C’erano quindi limiti che non potevano essere superati senza stimolare congiure e complotti di palazzo. Gli aspiranti per la successione di Nerone erano tutti di origine senatoria e appartenenti alla nobilitas romana-> invece Vespasiano era un homo novus appartenente ad una famiglia sabina della tipica borghesia italica. Il principato dei Flavi L’ascesa al potere di Vespasiano comportò una rottura con la precedente tradizione, in quanto essa derivava dall’acclamazione e dal sostegno delle truppe che comandava in Giudea (infatti data l’inizio dell’impero da quel giorno e non da quello successivo all’investitura del senato). Egli fu un grande amministratore e portò quei valori tradizionali del mondo municipale che consistevano in: sapienza contadina, risparmio e duro lavoro. Le origini di Vespasiano diedero una nuova fisionomia al governo imperiale in cui ormai il funzionamento della macchina imperiale prevalse sull’etica aristocratica. Egli aveva come obbiettivo il potenziare le finanze pubbliche e ciò fu testimoniato da una grande lotta per recuperare all’erario quelle parti di terre pubbliche restate indivise ma fruite dai privati. Questo comportò una ridefinizione delle strutture territoriali dell’impero e stimolando conseguentemente il lavoro degli agrimensori (riprendeva e sviluppava ciò che Augusto aveva già fatto-> sotto di lui sistemazione degli ordinamenti municipali e censimenti che avevano permesso di capire le rilevazioni materiali dell’Italia). Oltre alla piena integrazione italica sotto i successori, i figli Tito e Domiziano vi fu un processo di assimilazione delle popolazioni extraitaliche (romanizzazione più facile a occidente che nelle zone ellenistiche). Claudio aveva già previsto l’ascesa di alcuni provinciali nei ranghi del senato e questo processo ora si accelerò: dopo l’interregno di Nerva ci fu il primo imperatore provinciale: Traiano-> concessione dello Ius Latii a molte città provinciali e tutte le comunità della provincia iberica. L’ascesa delle élite provinciali nelle fila del senato comportò un processo di unificazione e arricchimento della società imperiale-> la nomina a senatore comportava un obbligo alle sedute del senato e vi erano numerosi incarichi di governo; vi era inoltre uno spostamento di ricchezza per l’obbligo dei senatori d’investire le ricchezze delle terre italiche. Cambiò anche le strategie difensive dell’impero: prima c’erano piccoli stati dipendenti ma autonomi ad ammortizzare le pressioni esterne, mentre egli inglobò tali staterelli (semplificazione linee difensive ma relativo irrigidimento, linee difensive che sfruttavano le barriere naturali)-> l’aumento della spesa venne sostenuto dalla sua politica finanziaria. Il collaudo di questa politica si effettuò sotto Domiziano in quanto vi fu la pressione sui confini delle popolazioni germaniche; Domiziano mostrò delle grandi capacità militari, ma anche delle grandi capacità amministrative-> tensioni con il senato, del cui complotto egli fu vittima-> in seguito fu dato spazio al senato con Nerva. Pian piano venne ad accentuarsi l’elemento militare-> la fedeltà dei legionari in quanto essi erano legati più che alla forma impersonale della res publica all’immagine forte e rassicurante dei loro comandanti e del principe che essi servivano, una fedeltà che si riversava sui discendenti. Per quanto riguarda l’elemento dinastico vi era una particolare posizione dei parenti del princeps per linea agnatizia-> pur cercando di evitare la superiorità formale rispetto ai membri dell’élite senatoria, vi erano onori tributati ai membri dei più eminenti personaggi (istituzionalizzazione pubblica del rispetto sociale). Il principio dinastico non fu mai totalmente determinante per il peso del senato-> pian piano si potenzierà il meccanismo dell’adozione sino a diventare la base del sistema di investitura del potere (alternativa alla libertas conciliando le virtù antiche alle esigenze del presente e riuscendo ad integrare i valori della tradizione senatoria). Il governo dei migliori La successione imperiale fu quindi sottratta ad un’immediata logica familiare, per realizzarsi in base alla designazione dei più meritevoli. Da Nerva (96-98) a Traiano (98-117) ad Adriano (117-138) ad Antonino Pio (138-161) a Marco Aurelio (161-180 d.C.) non intervenne un rapporto di parentela ma un meccanismo di adozione. In realtà in questa investitura dell’optimus princeps agli interessi privati della repubblica c’è molto di costruito (influenze e giochi che condizionarono e influenzarono le scelte del princeps-> questi fattori si dispiegarono all’interno del senato romano, dove trovarono riferimento molteplici forze e dove ricorrono nomi gentilizi di origini recenti ma destinati poi a riemergere al vertice dell’impero). Il prestigio di Traiano fu dovuto ai successi militari, anche se la conquista della Dacia fu incompiuta e non si riuscì a giungere ad una vittoria contro i Parti. Adriano preferì ritornare al consolidamento del limes romano; egli era un grande viaggiatore, amante della cultura ellenistica e percorse le province stimolandone lo sviluppo urbano e sociale. Egli inoltre sviluppò ulteriormente l’apparato di governo, definendo i diversi tipi di carriera e attribuendo ad essi quattro livelli stipendiari: 60, 100, 200 e 300 mila sesterzi annui. Vi fu inoltre una pubblicizzazione dell’apparato di governo che attenuò il carattere di burocrazia semi-personale del princeps in quanto vi fu un organico maggior e no liberti. Egli inoltre definì l’organico delle cariche che potevano essere aperte all’ordine equestre. Inoltre vi fu la presenza di giuristi adrianei nella burocrazia imperiale e vi fu anche la codificazione dell’editto del pretore ad opera di Salvio Giuliano (giuridizzazione della forma imperii grazie a giuristi nel consilium principis). Il governo centrale sotto Antonino Pio e Marco Aurelio non avrebbe conosciuto grandi innovazioni-> fu l’ultima fase alta dell’impero in quanto in seguito si svilupparono difficoltà interne ed esterne. In questo momento lo sviluppo della città urbana sembra allo zenit e la forza di questa stagione, raggiunta grazie all’equilibrio di centro e periferia, è visibile nei resti. Da Traiano a Marco Aurelio l’impero è una signoria pacifica e universale e secondo Gibbon è la stagione più felice non solo della storia di Roma ma di quella dell’intera umanità. Questo grazie alla presenza del bilinguismo, anche culturale, dove latino e greco erano le lingue ufficiali che assicuravano la conservazione di un enorme patrimonio intellettuale. In seguito vi fu l’indebolimento dell’attività municipale a causa della nuova guerra contro i Parti che dissanguò l’impero e portò ad una pestilenza destinata a far cambiare la faccia di numerosi territori. La crisi demografica e i dissesti portarono ad una grave crisi economica (che si espresse in un’inflazione dovuta per lo più alla perdita del valore intrinseco della moneta). Il calo demografico contribuisce a spiegare, con la mancanza di nuove leve, un parziale mutamento dei criteri di arruolamento. Il problema di Marco Aurelio fu l’investitura del figlio Commodo, completamente inadeguato per il compito; egli fu ucciso così come il successore da lui designato, Pertinace da parte dei pretoriani. Questo portò ad una grande crisi politica. La risposta fu in termini militari ad opera delle legioni impegnate nella difesa delle frontiere di Roma-> questo si vide con l’ascesa al potere di Settimio Severo, il quale forte del sostegno delle truppe, era un ottimo comandante militare appartenente alla nuova aristocrazia neopunica-> con lui e con i suoi successori divenne centrale il problema della difesa delle frontiere, difesa per cui furono investite le risorse disponibili in un contesto in cui né l’economia né le condizioni demografiche si erano riprese dalla peste Antonina, tanto che non verrà nemmeno notata l’estensione della cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero ad opera di Caracalla. Configurazione del potere imperiale Sia secondo Mommsen sia secondo Nicolet, a partire da Settimio Severo prese consistenza una sorta di stato, diverso dallo stato moderno, ma uno stato in cui sovranità e legalità si erano saldate nella figura di riferimento dell’imperatore; da lui discendeva quindi la legittimazione delle strutture di governo. C’è però da chiedersi se era venuto a crearsi uno strumento burocratico-> dal punto di vista quantitativo il fenomeno era ancora limitato (ancora peggio delle strutture precapitalistiche)m ma c’è un carattere di modernità dato dall’importanza dei giuristi, che avevano aiutato il principe ad identificare le funzioni svolte da ogni ufficio e a definire i criteri che dovevano ispirare il loro lavoro; a differenza di altre società a Roma il diritto aveva plasmato la grande architettura imperiale ed era proprio questo sue essere sempre attenta alle regole a renderla più moderna. A limitare l’effettivo sviluppo di una burocrazia furono: la limitatezza degli strumenti di governo e la mancata distinzione tra governo e amministrazione, oltre che il modo in cui si era formato l’apparato imperiale e cioè come dipendente dal principe (con la fides a lui dovuta dai liberi funzionari e l’obsequium dei suoi liberti), anche se fin da subito i giuristi limitarono l’enunciazione di Ulpiano “il principe è sciolto dalle regole”. Un’altra limitazione fu l’autonomia delle città dell’impero a cui vennero lasciate anche funzioni di carattere amministrativo, in quanto l’impero di città si fondava su un dualismo: una struttura centralizzata di governo per alcuni settori (sistema finanziario e controllo delle province oltre che strutture militari) e un sistema periferico affidato alle città-> questo limitò la razionalizzazione dell’amministrazione imperiale. Inoltre il percorso romano è molto diverso da quello che ha permesso di giungere alla distinzione tra stato e burocrazia in quanto a Roma c’era una tradizione politica in grado di assimilare i vinti e di trasformarli in una nuova componente di vincitori. Il percorso è tuttavia diverso dal percorso di sviluppo delle altre città antiche in quanto a Roma si poté assistere alla rottura dei vincoli di sangue e alla mancanza di particolarismo etnico; vi erano infatti gli stranieri che progredivano per statuti successivi, gli schiavi che potevano diventare liberi e i loro figli che potevano nascere ingenui; inoltre non vi era la presenza di preclusioni definitive date dalla nascita, dalla religione e dall’etnia. A Roma fu inoltre estraneo l’esclusivismo della città antica e la separatezza tra razza dominante e razza soggetta che poi avrebbe segnato il limite delle esperienze dell’Occidente moderno. Altra grande caratteristica del principe è la sua laicità, in quanto vi era una legittimazione di una forma di investitura religiosa, né egli diventa espressione di un potere ultraterreno; il suo potere è una delega della propria sovranità effettuata dal popolo al princeps, non un potere che deriva da un’investitura divina. Le strutture portanti dell’epoca erano le armate e i vertici dell’amministrazione che erano identificati con ceto senatorio ed equestre-> permetteva ai provinciali di saldarsi con le strutture sociali romano-italiche in quanto il lavoro negli uffici imperiali era con la carriera militare strumento di crescita sociale. La vecchia aristocrazia senatoria era stata pian pino tagliata fuori e dall’età di Settimio Severo si era formato un senato non più costituito dalle antiche famiglie patrizie o dai membri della nobilitas patrizio-plebea, ma da militari e burocratici-> quindi l’ascesa di nuovi gruppi sociali ed esponenti di aree periferiche era destinata a tradursi in un momento successivo nell’inserimento nell’ordo equestre o in quello senatorio-> per questo il senato mantiene influenza e non ha più ruolo di fonte del potere politico-militare ma è il punto d’arrivo delle carriere dei detentori di tale potere. Il paradosso dell’economia Il generale riequilibrio tra centro e periferia aveva permesso la razionalizzazione dei sistemi di governo con effetti positivi in ambito economico. In età repubblicana si era riscontrata una grande capacità d’esportazione sia di vino e olio sia di manufatti industriali (anfore) e vi era la presenza delle grandi villae. È da notare però la stretta dipendenza di tali fenomeni da fattori politico-militari-> i costi della manodopera erano abbassati dalle conquiste belliche e dall’afflusso di masse di schiavi; queste conquiste permettevano anche prelievi sfarzosi di beni e servizi dalle province; si creò così un flusso di ricchezze di beni provenienti dalla periferia, flusso che però era contro il mercato in quanto alterava le logiche di scambio: prevaleva la forza non l’utilità reciproca. Questi fenomeni riducevano i margini per la formazione di un grande mercato mediterraneo, in quanto vi erano squilibri politici generati da flussi unilaterali di beni verso il centro, cosa che dovette orientare la circolazione verso i mercati regionali. Il riequilibrio imposto da Augusto modificò in profondità i rapporti economici all’interno dell’area mediterranea e la fine o quasi delle acquisizioni forzose in favore del prelievo fiscale, cosa che migliorò notevolmente la situazione. I costi del governo centrale ebbero compensazione nei 2. Civitas stipendiariae-> i cittadini erano soggetti fiscalità romana ma avevano una loro identità istituzionale e un’autonomia amministrativa; 3. Peregrini delle civitates foederatae e delle sine foederae loberae-> vivevano secondo gli istituti cittadini (oltre agli abitanti delle città a cui era stato concesso lo stato di colonia o municipio). Le colonie romane si collocavano su un piano elevato; è in relazione ad esse che prese consistenza lo Ius Italicum, che indica la condizione generale di privilegio modellata sullo statuto giuridico degli italici e del suolo italico. Tuttavia non è ben chiaro quale fosse il regime giuridico e se il diritto romano si applicasse in tutta la sua estensione. All’interno della stessa comunità c’erano poi una stratificazione di più condizioni giuridiche personali-> in questa situazione si trovavano diversi cittadini romani stanziati nelle province, i quali continuavano a fruire del loro diritto, potendo, specialmente in campo criminale, rivolgersi alla giurisdizione centrale sottraendosi allo stesso potere di intervento del governatore. Ad essi si devono poi aggiungere altri cittadini romani in teoria uguali ai primi ma in pratica di più recente promozione: i membri dell’élite provinciale promossi alla cittadinanza romana a titolo individuale (tipo i veterani che al momento del congedo-> cittadinanza con i loro figli). È indubbio che questa miriade di concessioni della civitas romana a singoli individui costituisse un efficace meccanismo di integrazione delle province, ampliando il reclutamento dei vertici politici e sociali- > ciò comportò però alcune difficoltà pratiche: per quanto riguarda l’assetto interno delle civitates liberae, liberae et immunes, foederatae il fatto che ad alcuni dei cittadini fosse attribuita la civitas romana generò una situazione ambigua perché costoro non cessavano di far parte della vecchia comunità, né potevano costringere i loro concittadini a subordinarsi al nuovo diritto a cui essi avevano iniziato ad appartenere. L’autorità imperiale disciplinava in modo particolare questi nuovi cittadini romani, come membri di comunità semisovrane-> mentre nei loro rapporti con i romani avrebbero fruito del diritto romano e dei tribunali romani, nei loro rapporti con i concittadini dovevano restare soggetti al diritto locale ed essere giudicati dai tribunali locali. Questa particolare situazione portò in realtà ad un meccanismo di assimilazione, ma anche ad uno strumento di promozione sociale: potersi differenziare dalla comunità era un fattore di affermazione gruppi di questa comunità non si staccavano dalla loro comunità ma si sentivano integrati in virtù di queste gerarchie. Nello stesso tempo dipendevano da Roma che se ne era così assicurata la lealtà (questa circolazione culturale è testimoniata in modo evidente). Se le pratiche e le tradizioni locali sopravvivevano in una pluralità di situazioni e se all’interno delle varie civitates foederatae e liberae sussisteva una sicura autonomia giurisdizionale è pur vero che il garante ultimo dell’intero ordine legale era il governatore e a lui si ricorreva in ultima istanza. Egli aveva inoltre un potere di intervento sull’autonomia normativa delle varie città, oltre ad avere la competenza delle singole nell’amministrazione della giustizia per i sudditi non organizzati in forma cittadina-> sebbene il diritto applicato si rifacesse alle tradizioni locali i governatori pensavano in termini di diritto romano e questo finì per creare il medium di comunicazione tra governatori e governati, in loro terreno d’incontro (lo divenne più spesso dove vi era l’intreccio di comunità diverse e dove erano richiamate funzioni di arbitrato e mediazione dei governanti romani (ciò lo vediamo in documenti epigrafici relativi a interventi romani nel conflitto tra comunità e provinciali-> qui emergono schemi processuali romani applicati in contesti estranei al diritto romano). Il potere ha esercitato si un’attrazione culturale (adozione dei costumi romani, uso del sistema onomastico dei tria nomina) ma anche un’influenza nel campo giuridico: troviamo infatti documenti contrattuali stipulati tra i provinciali estranei al diritto romano anche se redatti nelle forme proprie dei negozi del diritto civile romano (eventualmente traducendo nelle lingue locali gli schemi propri del latino). Così il diritto romano si impose come punto di riferimento anche se spesso quello che si affermava non corrispondeva al modello culto della scienza dei giuristi ma a sistemi più elementari e semplificati rispetto alla vita giuridica di Roma (le forme del governo provinciale si presentarono in forme impoverite). Soprattutto nelle province orientali vi erano un insieme di tradizioni giuridiche sviluppate ed elementi diversi, che originarono una fusione tra esperienze diverse: le forme del diritto romano si confrontavano con tradizioni locali che rimanevano in vigore anche nei rapporti tra questa e i cittadini romani (per esempio nel diritto romano era prevalente l’aspetto orale in seguito, con l’influenza dell’Oriente, la scrittura assunse nuova rilevanza). Questa situazione diede quindi origine a situazioni giuridiche nuove rispetto allo ius civile-> l’editto provinciale dovette tutelare tali situazioni. Il diritto romano-ellenico (cioè quello delle aree orientali) ebbe efficacia sugli sviluppi della successiva riflessione giuridica in Roma. La certezza del diritto C’è una grande tensione tra gli alti livelli della riflessione condotta e il livello tecnologico su cui si fondava la circolazione delle idee e delle conoscenze. La circolazione di opere di commento e di responsa era limitata dalla costosa produzione manoscritta, ma raggiungeva sicuramente i gruppi sociali primariamente interessati ad un’adeguata conoscenza del diritto (giuristi e avvocati). Nella repubblica si era creata una raccolta di testi legislativi votati dai comizi con una generale funzione di certificazione del diritto. Un mutamento di questa situazione si ebbe quando un numero maggiore di persone si trovò a fruire del diritto romano. Allora lo strato sottile in cui circolavano i mores, gli scritti dei giuristi e le opere di interpretatio si ampliò notevolmente-> tuttavia nei lontani municipi non era semplice informarsi sulle modifiche annuali del pretore o sulla conoscenza della ricca produzione scientifica che definiva la soluzione partica dei casi, spesso innovandone la disciplina e incidendo sulla iurisdictio del pretore. La situazione dovette complicarsi nel corso del principato con l’espansione del diritto romano nel mondo provinciale, anche se già molte erano le zone che fruivano del diritto romano. Tuttavia in queste zone vi erano delle gravi lacune nella conoscenza e conoscevano probabilmente solo regole decemvirali, leggi repubblicane e senatoconsulti (conoscenze limitatissime su senatoconsulti e costituzioni imperiali oltre che interpretazioni dei giuristi). Quando le difficoltà si aggravarono vediamo emergere le prime linee di difesa che l’organizzazione giuridica eresse per assicurare un livello minimo di certezza del diritto. Infatti lo ius respondendi ex auctoritate principis è un criterio di orientamento per i privati e per i giudici-> esso assicurava una selezione delle opinioni diminuendo i margini pratici d’incertezza nella vita pratica del diritto. Anche il principe intervenne con rescripta, epistulae e decreta a dirimere le incertezze dei privati e dei giudici-> questo anche perché il principe voleva assicurare un orientamento vagamente unitario alla periferia dell’impero anche se in realtà un ostacolo nella corretta conoscenza del diritto era dato dal fatto che in ogni area non si poteva avere conoscenza di ciò che era il diritto nelle altre singole aree dell’impero. Tuttavia in realtà una sostanziale unità venne assicurata dai governi provinciali in quanto vi è un’aderenza delle regole e dei criteri in ambito provinciale rispetto ai modelli romani. La naturale conclusione di una lunga vicenda Ma quante copie potevano circolare, quante potevano raggiungere le comunità ammesse alla cittadinanza nel 212 d.C.? Fino a che punto erano già emerse scuole di diritto atte alla conservazione di una cultura giuridica omogenea? Numerosi sono i mutamenti intercorsi a partire dai Severi, ma l’oscurità è rotta da un evento: la Constitutio Antoniniana, che estendeva a tutti i sudditi o quasi dell’impero la cittadinanza romana. La legge aveva probabilmente motivi pratici, ma storici contrari, come Cassio Dione affermano che essa fosse finalizzata ad incrementare le entrate fiscali, estendendo a tutti coloro che non erano cives romani, e quindi ne erano esenti l’imposta sulle successioni. Essa inoltre non cancellò l’esperienza sincretistica alla base del diritto romano-ellenico, ma rese ancora più permeabili le forme romane alle pratiche locali, tanto che si parla di mores regionis come fattore normativo. Essa invece non diminuì le differenziazioni sociali, ma al contrario vi fu l’irrigidimento della gerarchia connaturata alla società romana-> vi fu infatti nel II secolo d.C. la distinzione in due categorie dell’intera popolazione dell’impero: gli honestiores e gli humiliores, il cui rango comportava notevoli diversità sotto il profilo giuridico, in ambito processuale e nell’ambito della repressione criminale: gli humiliores potevano essere sottoposti alla tortura nelle inchieste criminali. La constitutio antoniniana ha però dato nel tempo il riconoscimento del diritto romano come espressione universale. La normalizzazione dell’Italia avrà degli effetti maturati nella riorganizzazione del sistema imperiale affrontata da Diocleziano e Costantino-> allora si completò il processo di saldatura tra sovranità e legalità e la sfera politica e il sistema giuridico furono ricondotti a quell’unità di cui l’imperator è garante ultimo. I prodotti della scienza giuridica ebbero grande impatto al centro, nelle grandi città, ma man mano che ci si allontanava dal centro la vita del diritto romano si attenuava e si semplificava. La crisi del III secolo Già prima della crisi del regno di Marco Aurelio erano evidenti segni di crisi nel mondo municipale: grave indebitamento di alcune città e sottrazione da parte delle élite locali alle cariche municipali a causa delle liberalità che esse comportavano-> in seguito il governo iniziò a curare le politiche finanziarie delle varie città mediante il curator civitatis, posto al vertice delle gerarchie locali. L’indebolimento del fattore cittadino si aggravò con la pestilenza negli anni del governo di Marco Aurelio che imperversò nei centri urbani. C’era inoltre poi una debolezza dell’economia imperiale in quanto fenomeni inflazionari si erano verificati portando alla svalutazione della moneta d’argento (la retribuzione dei militari iniziò ad essere fondata su prelievi di natura). La crisis i aggravò nel cinquantennio che va dalla morte di Severo all’ascesa di Diocleziano sia sotto il profilo politico sia sotto il profilo militare: difficoltà nella difesa delle frontiere imperiali per la pressione delle popolazioni esterne e indebolimento del governo centrale per il susseguirsi di una serie di imperatori la cui caduta fu più rapida della nomina (venti titolari in 50 anni-> erano stati 27 da Severo ad Alessandro). Vi fu inoltre un mutamento del ruolo dell’imperatore in quanto aumentarono le esigenze militari che richiedevano la presenza del principe sui luoghi in cui gli eserciti erano impegnati nella difesa dell’impero. Una serie di imperatori soldati portarono alla riduzione di funzioni rispetto all’ampia sfera di governo dell’età precedente. Ma la moltiplicazione degli scenari di guerra stimolò le ambizioni personali nei comandanti delle armate-> quasi tutti gli imperatori passarono gran parte del tempo nelle zone più esposte alle pressioni barbariche. Un altro fattore erano le minacce centrifughe che minacciavano l’unità dell’impero, fenomen come la continua ribellione di armate romane che acclamavano nuovi imperatori-> ciò dette luogo a volte a regni separati. La persistente lontananza degli imperatori da Roma contribuì a far perdere a quello che era stato l’indiscusso centro il suo ruolo preminente-> la divisione del regno ad opera di Diocleziano fu solo lo sviluppo di tali tendenze. Le tensioni si estero a tutto il mondo provinciale-> le sconfitte misero a rischio popolazioni all’interno dei confini (la pressione di goti e poi della persia porta ad una grave crisi-> nel 290 d.C. l’imperatore Valeriano viene fatto prigioniero dai persiani). C’è poi la persecuzione del culto cristiano ad opera di Decio e Valeriano, culto che aveva travalicato le fasce più modeste della popolazione-> provoca avversione perché è estranea alle tradizioni.nel 270 d.C. l’imperatore Claudio il Gotico muore per la peste ponendo fine alla sua opera di restaurazione imperiale. Veniva ormai meno lo splendore dell’impero di città che erano sempre più dipendenti da una tutela centrale che comportò un processo di centralizzazione con una concentrazione dei poteri di governo che avrebbe trovato la sua massima espressione in Diocleziano e Costantino. Il diritto del principe Il ius respondendi e il nuovo ruolo della giurisprudenza La presa di Augusto ebbe grande applicazione nel governo della vita giuridica. Egli non riprese il disegno vagheggiato dal genitore adottivo cioè quello di riorganizzare in un sistema unitario tutto il diritto romano, ma scelse una forma più indiretta di intervento. Il fondamento dell’intero sistema era l’interpretatio dei giuristi associata all’editto dei pretori giusdicenti. In apparenza nulla sembrò mutare in quegli anni: il pretore entrando in carica emanava il suo editto e i giuristi continuavano il lavoro di interpretazione dando responsa. Già nell’età repubblicana e nell’età augustea si poté denotare un mutamento nella composizione sociale dei giuristi romani con la presenza di quadri di origine equestre accanto a quelli di tradizione nobiliare. Pian piano il ceto dei giuristi si aprì sempre di più al ceto equestre, ma iniziarono ad esserci elementi di estrazione più modesta o di origine provinciale. Nel I secolo d.C. si formarono due scuole: i proculiani (fondata da Labeone ma prende il nome dal suo successore Proculo) e i sabiniani (fondati da Masurio Sabino). La divisione vi fu per la maggiore indipendenza politica di Labeone, in quanto la scuola sabiniana si occupava di operazioni più speculative e astratte. Pian piano il lavoro del giurista iniziò a trasformarsi in un lavoro retribuito sia nell’insegnamento sia nella partecipazione al governo imperiale. Con Adriano, nel II secolo d.C., vi fu poi il consolidamento in un testo ben definito dell’editto del pretore, che l’imperatore affidò a Salvio Giuliano, oltre che al potenziamento del consilium principis con una maggiore presenza di giuristi. Questa nuova fisionomia del consilium legittimava il potere imperiale (che aveva già il suo fondamento militare), principe nella cui persona erano stati concentrati i processi di produzione e di amministrazione del diritto (il legiferare e il rendere giustizia integrarono quella funzione di governo politico e militare). L’introiezione della scienza giuridica spiega perché vi fosse il ridimensionamento dello ius respondendi. Ora la legittimazione e il coinvolgimento dei giuristi nel processo di formazione di nuovo diritto si erano fusi nel potere imperiale-> non impedisce la fioritura della scienza giuridica romana nell’età di Antonini e Severi (con cui si pone fine alla fase della giurisprudenza classica). Numerosi furono i giuristi che rivestirono numerosi ruoli nel governo imperiale (Cassio Longino, Giuvenzio Celso, Giavoleno Prisco, Pomponio, Papiniano, Paolo e Ulpiano)-> amministrazione provinciale, consilium del principe, prefetto del pretorio… Papiniano fu ucciso a causa di Caracalla e Ulpiano venne ucciso dai pretoriani sotto gli occhi si Severo Alessandro. Una lacuna dei giuristi romani? Il coinvolgimento nell’apparato di governo ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione delle categorie portanti della nuova amministrazione (sembrerebbe esserci un certo disinteresse nel modo di funzionare del diritto regolatore dei nuovi organi di governo dell’impero). I giuristi paiono infatti disinteressarsi del diritto amministrativo della macchina di governo del principato. Secondo Grelle infatti l’attenzione dei giuristi era rivolta alla rilevazione dei poteri propri delle varie figure magistratuali, in quanto in età repubblicana si erano solo delineata la sfera di competenza dei vari organi della repubblica, e così come era sfumato il gioco di competenze-doveri del magistrato repubblicano lo sarebbe poi stato anche per il funzionario imperiale. Già in età repubblicana la protezione del cittadino rispetto al magistrato era protetta da altri magistrati (tribuni della plebe) e non dai tribunali. Potrebbe anche essere che i silenzi della scienza giuridica potrebbero essere dovuti alla selezione della produzione scientifica dei giuristi romani, ma in realtà abbiamo molte notizie riguardo alle opere della giurisprudenza romana e sono rari i temi relativi al funzionamento degli uffici imperiali. Non solo sono scarsi gli argomenti riguardanti l’organizzazione della repubblica, ma ci si concentra sempre sul complesso di doveri e funzionari dei vari funzionari e magistrati (de officio proconsulis, de officio rectoris provinciae, de officio praefecti urbi). Abbiamo quindi, come dice Grelle, dei trattati di buon governo che restano però lontani da una scienza interessata a definire le relazioni tra gli organi della res publica e tra questi e i cittadini, e in particolare dei rapporti legali tra i portatori dell’autorità e i privati-> pensiamo all’amministrazione finanziaria, dove i procuratores provinciali cercavano di sottrarsi a tale tipo di rapporti per instaurare altri contenziosi con i privati facendo prevalere l’elemento pubblicistico da essi rappresentato-> (avrebbe potuto favorire una prima riflessione de iure fisci mettendo a fuoco la specificità del rapporto tra gli organi del potere con i cittadini). Era quindi oscura la tutela dei privati di fronte alle prevaricazioni dell’amministrazione (il nodo di un diritto amministrativo), quasi come se il principe fosse disinteressato a definire i rapporti tra uffici centrali e governo centrale e sistema periferico o a disciplinare la posizione dei vari funzionari rispetto ai privati-> anche nel corpus iuris, dove ci sono citazioni di diverse costituzioni imperiali, questo tema non sembra essere trattato. C’è quindi una lacuna di sapere che riguarda tutto il diritto relativo ai rapporti tra i privati-> ma perché non si erano interessati? Per dare una risposta si deve andare a riflettere sul rapporto di signoria del principe sull’apparato istituzionale da lui costruito che faceva riferimento esclusivamente alla sua figura-> questo ostacolò la spersonalizzazione dei ruoli; certo si stabilì chi faceva cosa ma sempre come regole interne ad un corpo che apparteneva al principe e che non poteva conformarsi alla sua volontà. Non era un caso che i privati si rivolgessero a questa volontà superiore del principe mediante suppliche e per disciplinare giudici e giudizi-> contrasti con i funzionari imperiali tra queste richieste. Di queste richieste abbiamo testimonianza nel Corpus Iuris, ma la cosa importante è che a queste richieste venivano date delle risposte che restavano come precedenti assumendo un valore precettivo che orientava sia i tribunali sia gli amministratori imperiali che le stesse successive decisioni del principe-> i giuristi avviarono un’opera di massimazione delle costituzioni imperiali, cioè cercarono di trarre delle massime generali applicabili ad ogni caso analogo-> primi embrioni di un diritto amministrativo. Sarebbe continuato a mancare un sistema arbitrale di giudizi tra il privato e l’amministrazione-> l’esperienza romana non giunse a ciò ma non vi furono neppure i tempi perché tutto ciò potesse svilupparsi-> quando tali processi avrebbero potuto svilupparsi vi fu infatti la crisi dell’apparato politico e della scienza giuridica romana. Ad ostacolare questo processo fu forse anche la modestia della sfera amministrativa romana, in quanto l’organico continuò ad essere poca cosa rispetto all’ordinamento statale moderno, e quindi fu ridotta la sfera delle relazioni e sociali su cui dovette intervenire l’azione di tali apparati, troppo poco per ingenerare quella quantità di relazioni pubblico-privato dalla cui pressione sarebbero sorti gli embrioni dei diritti amministrativi. Memoria e continuità del sapere giuridico L’ampiezza delle trattazioni scientifiche svolte dalle ultime generazioni di giuristi classici ci dimostrano l’accresciuta dimensione di una tradizione di sapere con cui dovevano confrontarsi-> essi dovettero fare i conti anche con le nuove costituzioni imperiali, anche se ciò non influì in modo immediato sul loro lavoro. Essi erano caratterizzati da una duplicità del loro ruolo: collaboratori del principe e custodi di una tradizione scientifica ormai vetusta che continuava però a fungere da collante per la società romana. La crescita dei testi della giurisprudenza romana dovette rendere sempre più difficile una conoscenza esaustiva di quel sapere che era alla base della scienza giuridica; sebbene le opere antiche fossero irreperibili esse potevano sopravvivere nelle citazioni e nelle discussioni da parte dei giuristi più recenti. Essendo discusso, accolto o rigettato il pensiero più antico venne tramandato; Ulpiano e Paolo fecero un inventario del passato e queste summae resero ancora più trascurati gli antichi testi. Ciò che invece non mutò è a latenza aristocratica che aveva ispirato l’autorità sociale su cui si era fondato il valore creativo della loro interpretatio e ne restò traccia anche nella formazione di nuovi quadri di questa tradizione scientifica-> per molti saperi tecnici erano state create delle scuole (retorica importante per pratica poltiica) in cui i professori avevano uno stipendio spesso pagato dall’erario. Il sapere giuridico non venne coltivato e trasmesso in questo modo, in quanto non vi furono nel principato scuole di questo tipo-> vi era una tradizione per cui vi era un rapporto del giurista con il suo allievo; le scuole si affermeranno solo con Costantino e Diocleziano che resero possibile una ripresa della vita giuridica seppure in condizioni completamente diverse da quelle precedenti, dovute alla divisione dell’impero-> la produzione normativa facente carico agli imperatori era destinata a ridefinirsi in funzione di questo dualismo che aveva reso Roma marginale. Con essi si potenziarono i centri di studio del diritto, specialmente nella Pars Orientis (Costantinopoli). Non si può capire fino a che punto il collasso politico e la crisi si siano riflesse sull’apparato burocratico-> essi continuò a funzionare finché non vi fu la restaurazione di Aureliano, Diocleziano e Costantino. La documentazione dell’attività legislativa imperiale fu fatta negli uffici centrali ma anche nelle scuole di diritto. La crisi si rifletté anche sul diritto in quanto diminuì la produzione legislativa e vi fu un indebolimento della genealogia del sapere-> era destinato a modificare un metodo che aveva rielaborato un patrimonio stratificato. Su tale mutamento dovette pesare la fisionomia del potere imperiale derivante dalla restaurazione di Diocleziano. Si giunse alla fine di quel processo di concentrazione del potere ed era quindi incompatibile con il nuovo assetto la persistenza di ogni altro protagonista autonomo della vita giuridica e del suo fattore si sviluppo: il libero dibattito delle élite. Ora non solo i processi normativi ma anche la sfera del diritto erano di esclusiva competenza del giurista, mero strumento di un potere superiore. Dopo Modestino sotto Severo Alessandro non abbiamo più importanti giuristi a parte Aurelio Arcadio Carisio (scrive sui munera gravanti sui privati a favore dello stato embrione della scienza dell’amministrazione e riflessione sul praefectus pretorio) e Aurelio Ermogeniano (raccolta di costituzioni imperiali e testi giuridici) sotto Diocleziano. Con Diocleziano e Costantino vi fu la ripresa della cancelleria e l’apparato burocratico fu centro di un nuovo diritto-> redazione sempre più numerosa di costituzioni degli imperatori. I cultori del sapere furono assorbiti nell’amministrazione imperiale e fu lasciato spazio solo agli avvocati e ai professori delle scuole di diritto. Si era conclusa la pluralità delle fonti giuridiche e quindi questo processo di centralizzazione fu favorito e necessitato dalla condizione di questo sapere giuridico. Per comprendere il lavoro delle nuove generazioni basta osservare che quello che nel IV e V secolo d.C. era diritto si trovava conservato nelle opere dei giuristi tardorepubblicani dell’età del principato. Crisi e trasformazione Diocleziano La crisi che vi fu non deve essere interpretata come un collasso, ma al contrario come l’inversione di tendenza sul piano militare e nel governo civile per far fronte alle cattive condizioni economiche. Questo rese possibile l’ascesa al trono di un comandante militare di umili origini: Valerio Diocle, detto Diocleziano-> egli diedi una svolta risanatrice che si configura come un’opera di restaurazione dell’edificio imperiale, resa possibile per la modifica delle strutture di potere e delle forme organizzative oltre che l’intero apparato amministrativo. Innanzitutto, come a voler recuperare il dualismo delle magistrature repubblicane venne istituito un collega minor del principe, che nel caso di Diocleziano fu Massiminiano; questo comportò una più netta ripartizione territoriale: Diocleziano si riservava il controllo della parte orientale e Massiminiano di quello della parte occidentale. L’impero conservava così la sua unità sotto i due Augusti. Sotto i due Augusti furono nominati due Cesari, legittimi successori, ciascuno del proprio Augusto-> questo portò ad un efficace governo degli eserciti e a garantire un sistema ordinato di successione che evitasse complotti. Fu anche creato un complesso sistema di matrimoni che però non funzionò, mentre funzionò la logica sottostante a tale costruzione: la divisione territoriale che permise la riorganizzazione dell’apparato imperiale e soprattutto un suo immediato coinvolgimento nella difesa dei confini-> tale esigenza spiega lo spostamento delle sedi imperiali da Roma ormai troppo lontana dalle aree strategiche: 1. Massiminiano-> s’insediò a Treviri, poi a Milano a Aquileia e infine a Ravenna; 2. Diocleziano-> Sirimione, Antiochia e poi Nicomedia. Vi furono quindi numerose modifiche dell’organizzazione statale sia nel campo militare che nell’organizzazione. Nell’ultimo vi fu la frammentazione delle antiche province che giunsero ad essere da 50 a 100 e che furono raggruppate in dodici diocesi. A capo di ogni diocesi fu posto un vicarius, delegato diretto del prefetto del pretorio, accanto a cui si trovavano ad operare delegati responsabili centrali del fisco e della res privata. La quadripartizione del potere imperiale si rifletté anche sul prefetto del pretorio, ormai anche essa suddivisa tra due funzionari. Tuttavia anche con Diocleziano questo sarebbe rimasto al vertice del governo conservando sia le supreme funzioni militari sia quelle di diretta collaborazione con alla caduta di quello d’Occidente ne agevolò la parziale trasfusione nelle legislazioni romano- barbariche connesse a tali regni. L’opera di Giustiniano Nel 527 d.C. Giustiniano ascese al trono della pars Orientis, in quanto la parte occidentale si era già da tempo dissolta-> egli pose una grande attenzione alle crisi della Chiesa Cristiana e la sua ambizione fu quella di restaurare l’unità imperiale: grazie ai suoi due grandi generali, Narsete e Belisario poté strappare l’Italia dal dominio dei Goti. La sua più grande peculiarità fu il recupero della tradizione giuridica romana con l’ausilio di numerosi giuristi-> se la sua opera di restaurazione politico-militare ebbe costi maggiori dei guadagni, senza la sua opera il materiale giuridico romano sarebbe andato perduto. Con la costituzione de novo codice componendo, egli enunciò il suo progetto di raccolta di tutte le costituzioni imperiali: si prevedeva un recupero dei codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano e dei testi legislativi. La commissione fu presieduta da Triboniano. Giustiniano aveva come scopo il dare un quadro concreto della legislazione imperiale ancora valida, facendo si che vi fossero modifiche per adeguare il testo delle antiche costituzioni al diritto vigente e in modo che si potesse estrarre da esse la norma. Il testo venne pubblicato il 7 aprile del 529 d.C. accompagnato dalla Costituzione summa rei publicae con cui si sanciva la sua entrata in vigore come testo legislativo unitario. Ma questo testo non fece altro che stimolare Giustiniano il quale, il 15 dicembre 530 d.C. con la costituzione Deo auctore indirizzata a Triboniano che poteva scegliersi i suoi collaboratori, il compito di redigere la nuova opera, che doveva consistere in una raccolta di tutti i testi degli antichi giuristi romani, modificando i loro scritti per uniformarli al diritto vigente. Nel 533 d.C. con la costituzione bilingue tanta o dedoken pubblicava il Digesto-> i 16 commissari inclusero testo dei giuristi dell’età del principato (in teoria solo quelli con ius edicendi) e dell’età repubblicana, selezionandone gli aspetti significativi e copiandoli secondo un ordine logico. Il testo è costituito da 50 libri divisi in titoli che concernevano uno specifico argomento- > oltre a modificarli per adeguarli alle norme vigenti, vennero modificati per renderli congruenti tra loro sopprimendo le incogruenze tipiche dello ius controversum. I frammenti del digesto ammontano a più di 9.000, i giuristi presi in considerazione furono 39, i libri consultati circa 2000 in 200 opere. In testa a ciascun frammento vi era il nome dell’autore e l’indicazione dell’opera e del libro da cui era stato ricavato. Egli volle in seguito redigere un’opera didattica che introducesse allo studio del diritto nelle varie scuole giuridiche; il compito venne affidato a Triboniano, in parallelo alla realizzazione del Digesto, in quanto con la costituzione imperatoriam Giustiniano poté rivolgersi nel 533 d.C. alla cupida legum iuventus, presentando le sue nuove Institutiones in quattro libri, dove le istituzioni vigenti erano esposte in forma semplificata. Essi si rifecero alle istituzioni gaiane ma anche ad altro materiale classico (Paolo, Ulpiano, Marciano). Ciascun libro è diviso in titoli in base alla materia: 1. Diritto delle persone; 2. Proprietà e diritti reali; 3. Contratti ed obbligazioni; 4. Obbligazioni per fatto illecito e procedure giudiziali. Nonostante l’intento pedagogico c’era un valore legislativo. Prima di tutto ciò Giustiniano aveva orientato il lavoro dei compilatori mediante costituzione che dovevano incidere o chiarire diversi aspetti (quinquaginta decisiones). Dal momento che la raccolta del vecchio Codex era ormai obsoleta egli si rivolse a Triboniano per aggiornare il codice-> il codice repetitae selectiones fu promulgato nel 534 d.C. rendendo così completo il Corpus iuris civilis. Il nuovo codex era diviso in 12 libri ciascuno dei quali suddiviso in titoli; in essi si collocano i frammenti delle costituzioni imperiali con i nomi degli imperatori e i destinatari. L’opera fu molto complessa perché dovettero prendere il nucleo preciso del dettato normativo. Le opere furono scritte in latino: la lingua di Roma e dei giuristi dell’età del principato-> molti giuristi avevano un alto livello di cultura giuridica. Giustiniano sostenne di aver prodotto un’opera definitiva tanto da vietarne modifiche e ogni lavoro di interpretazione-> in realtà a smentire tale idea fu proprio il suo comportamento in quanto legiferò nuove costituzioni: le novellae constitutiones, molte di esse furono redatte in lingua greca; la raccolta più importante conta 158 novelle giustinianee e di imperatori successivi conservate nella loro lingua originale (greco o latino che fosse); c’è poi L’epitome Iuliani che contiene un riassunto latino di 124 novelle, nonché l’Authenticum in cui ci sono 134 novelle nel testo originale latino o le greche in traduzione latina. I testi latini non ebbero diffusione nel luogo in cui il latino si parlava perché qui c’era una coesistenza delle tradizioni romane con le realtà giuridiche del mondo germanico (circolarono solo Insitutiones e codex). Però ebbero una grande diffusione in oriente tanto che vi furono opere in greco che traducevano i testi giuridici e le costituzioni imperiali in greco (i Basilici dove tutti i testi del corpus iuris civilis sono stati raccolti e tradotti). La moderna civiltà europea ebbe come prima origine lo studio del corpus iuris civilis insieme alla vita intellettuale nelle unversitates. L’eredità salvata Si è tracciata una storia a partire dall’esperienza giuridica primitiva. Non c’è un’invenzione del diritto romano, in quanto il suo nucleo è considerato il fondamento su cui si innestava la vita cittadina. In seguito all’esperienza giuridica primitiva la nobilitas patrizio plebea si consolidò in: guerra, arte del governo e scienza del diritto, essenziale per l’esercizio del potere politico-> attraverso l’interpretatio dei prudentes sono create nuove istituzioni. È anche vero però che soprattutto con il passare del tempo lo spazio per la legge esisteva ma vi era un limite delle legislazioni comiziali che erano circoscritte alla sfera politica e poco operavano nella sfera giuridica caratterizzata dalla scienza dei giuristi. Il rapporto tra la vita giuridica e il vertice politico romano portò alla capacità di assorbimento di individui e gruppi rendendo assenti le barriere culturali: le distinzioni erano operate in base al diritto (manomissione degli schiavi). Con Augusto la produzione normativa e la giurisdizione vedono l’intervento del principe e la vita del diritto si concentra nella sua figura mediante la redazione di costituzioni imperiali ad opera dei giuristi. C’è quindi la centralità della legge conquistata mediante un percorso lungo e complesso (anche se il diritto per molto tempo mantenne connotazione aristocratica in quanto no scholae e solo rapporto diretto maestro allievo). Nel III secolo d.C. l’imperatore diventa unica fonte del diritto e i giuristi sono, pur non avendo più vita propria, gli strumenti essenziali della sua attività. Giustiniano volle che tutto fosse raccolto nel corpus iuris civilis, in cui c’erano opinioni dei giuristi che lasciavano in ombra senza però poterlo cancellare lo ius controversum. Tutto ciò divenne legge e permise la conservazione di un immenso patrimonio da cui avrebbe avuto origine un’altra storia: quella della civiltà giuridica dell’Europa medioevale e moderna.