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STORIA DI ROMA TRA DIRITTO E POTERE, Riassunto del corso Storia Del Diritto Romano (Capogrossi), Sintesi del corso di Storia del Diritto Romano

Riassunto degli argomenti d'esame di storia del diritto romano. Testo di riferimento: fino pag.381 del manuale di "Storia di roma tra diritto e potere" di Capogrossi per l'esame di Storia Del Diritto Romano

Tipologia: Sintesi del corso

2010/2011

Caricato il 27/11/2011

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4.5

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Scarica STORIA DI ROMA TRA DIRITTO E POTERE, Riassunto del corso Storia Del Diritto Romano (Capogrossi) e più Sintesi del corso in PDF di Storia del Diritto Romano solo su Docsity! STORIA DI ROMA TRA DIRITTO E POTERE CAPITOLO PRIMO LA GENESI DELLA NUOVA COMUNITA’ POLITICA 1 Le condizioni materiali nel Lazio arcaico Agli inizi dell’ultimo millennio a.C. il paesaggio fisico in cui si situavano gli insediamenti umani che avrebbero dato origine a Roma e alle altre città del Latium vetus non doveva essere molto diverso da quello odierno, solo più scosceso e segnato da maggiori e improvvisi dislivelli. Soprattutto la presenza di aree boschive e di vasti acquitrini, negli avvallamenti, contribuiva all’isolamento delle comunità umane ivi stanziate. Il territorio era limitato a Nord dal Tevere , a Ovest dal mare, a Est dai primi altipiani che segnano il confine fra i Latini e le popolazioni sabelliche e a Sud , infine , dagli ultimi contrafforti dei colli Albani che si sporgono sulla grande pianura che si apre verso Cisterna, Circeo e Terracina. Nella primitiva economia delle popolazioni laziali un ruolo importante era rappresentato dall’allevamento, dove, accanto alla pecora, ebbe per molto tempo fondamentale importanza il maiale. Era però già praticata anche una forma primitiva di agricoltura , legata anzitutto alla coltivazione di farro. Abbastanza antico appare anche lo sfruttamento di certi alberi da frutto , come il fico e , l’ulivo mentre la vite avrebbe assunto maggiore rilevanza in età successiva. Sin dagli inizi dell’ultimo millennio a. C venero sviluppandosi , con l’incremento dei livelli economici delle popolazioni laziali, forme di circolazione di uomini e cose. Le principali rotte commerciali , attraversando verticalmente la pianura laziale, univano l’Etruria alla Campania : due aree di più precoce sviluppo economico. Uno dei pochi punti di passaggio, dove era facile il guado del Tevere , è costituito dall’area su cui sorgerà Roma. Non meno importanti erano anche le vie di comunicazione del mare verso l’interno : allora , infatti, il Tirreno era già coperto da una fitta rete di traffici marittimi che contribuivano all’intenso flusso di beni tra la zona costiera degli scambi e l’entroterra , attraversando la pianura controllata dai colli Albani da un lato, dal Palatino e dal Campidoglio Quirinale dall’altro. Il nome della Via Salaria , a Roma , ricorda appunto uno di questi percorsi commerciali, relativo a un bene di fondamentale importanza nell’alimentazione umana : il sale. Quest’area , sin dagli inizi dell’ultimo millennio a.C. , era caratterizzata dalla presenza di numerosi villaggi vicini gli uni agli altri e costituiti da poche capanne. La loro aggregazione interna, e conseguentemente la reciproca differenziazione, si fondava sulla presenza di forme familiari o pseudo parentali, legate alla memoria di una più o meno leggendaria discendenza comune. Queste numerose comunità non sempre e non tutte erano destinate a evolvere verso forme cittadine, talora piuttosto ristagnando o regredendo in frammenti sparsi nella campagna. Contro ogni accelerazione della loro crescita materiale giocava la persistente difficoltà di assicurarsi lo sfruttamento di zone adeguate di territorio. Ciò infatti non implicava solo la capacità di difesa contro l’esterno, ma soprattutto presupponeva un adeguato controllo dell’uomo sulla natura, né facile né rapido. Cosicché non possono meravigliare le piccole dimensioni dei numerosi centri che, ancora tra IX e VIII secolo a.C. , appaiono disseminati nell’area laziale. L’elevata quantità degli insediamenti in un’area territoriale relativamente circoscritta non solo è confermata dalle continue e importanti scoperte archeologiche degli ultimi decenni , ma anche dalla memoria storica che ne avevano gli antichi. Sembra echeggiare questa situazione un suggestivo testo di Plinio in cui si afferma che , in un tempo remoto , in Latio vi furono, accanto a piccole cittadine ( clara appida ), dei populi, uniti da un vincolo religioso costituito dal culto di Iupiter Latiaris che si svolgeva in monte Albano , l’odierno Monte Cavo , nel cuore dei Castelli romani. Questi populi, designati unitariamente come Albanes , sono menzionati in numero di trenta e richiamati al plurale. Sia questi che gli appidia sarebbero stati tutti destinati < a dissolversi in età storica senza lasciar traccia > . E ‘attestato la PAGE 166 presenza sin dalla più remota antichità di un tessuto unitario atto ad agevolare quei processi di fusione e saldatura che avrebbero portato alla formazione di unità più ampie e consolidate. 2 Villaggi , distretti rurali e leghe religiose Nelle tombe d’epoca arcaica, scavate nelle varie località laziali, vediamo la presenza di antiche forme culturali , attestate dal trattamento del cadavere, dalle suppellettili che lo attorniano, legate alla vita quotidiana : recipienti con cibo, ornamenti , le armi per gli uomini , e gli strumenti di tessitura per le donne. Ciò fa pensare che fosse già diffusa la credenza in una vita ultraterrena. Un altro aspetto importante è costituito dalla grande omogeneità di questi ritrovamenti , a testimoniare una notevole uniformità di condizioni economiche. I vincoli parentali o pseudo parentali fattore di coagulo di queste varie comunità , non dovevano necessariamente coincidere con singole unità familiari, mentre invece erano rafforzati dal culto degli antenati e dalla presenza di più o meno circoscritte unità sepolcrali . Le elementari funzioni di guida del gruppo dovevano poi associarsi all’età e al ruolo militare. Accanto agli anziani, ai patres, detentori della saggezza e della capacità di ben guidare la comunità , è verosimile che, nei momenti di pericolo e di crisi , i poteri di decisione e di comando venissero deferiti ad alcuni guerrieri di particolare valore e capacità. Dobbiamo immaginare un ruolo permanente dell’assemblea degli uomini in arme, che restava, insieme al parere degli anziani , dei patres del gruppo , competente per le decisioni relative alla vita della comunità . E’ probabile che questi stessi patres, o alcuni di essi, assolvessero anche a particolari funzioni religiose, non solo all’interno della singola famiglia, ma anche in un ambito più ampio , essendosi già affermata , in questo campo, una competenza particolare di singoli individui, assunti quindi a una posizioni di prestigio all’interno della comunità. La grande quantità di questi piccoli villaggi, situati in un’area relativamente circoscritta, sovente a poche centinaia di metri gli uni dagli altri, contribuiva ad accentuare un ininterrotto e fitto sistema di relazioni tra di essi. Era un mondo magmatico caratterizzato da una < cultura > comune , consistente anzitutto nella comunanza della lingua latina e nella partecipazione a riti e culti. Alla vitalità di questo tessuto unitario dovette inoltre contribuire notevolmente un insieme d’interessi più direttamente economici. La gestione in comune o la spartizione dei pascoli, il controllo dei sistemi di comunicazione e dei traffici commerciali, la circolazione e lo sviluppo delle pur rudimentali tecniche agricole, la ripartizione o l’uso in comune delle terre, nonché le possibili forme di circolazione del bestiame nel corso dell’anno dai pascoli più alti alla pianura, a seconda delle stagioni , e la diffusione dei prodotti metallurgici sono fattori di coagulo tra più comunità. La celebrazione dei sacrifici in comune, come nel caso dei trigenta populi Albenses costituisce un momento importante nel sistema di comunicazioni e di scambio tra le varie comunità , assumendo anche un valore più propriamente < politico >. Come anche latamente < politico > appare la figura arcaica del rex Nemorensis, il grande e solitario sacerdote del bosco sacro presso Nemi ( risalente a un’epoca in cui il < sacro > non era costituito dagli uomini con i loro templi , ma si identificava con la dimensione naturale del bosco o dello spazio ai margini di esso e delle culture , oppure con il mistero vitale dell’acqua che sgorgava dalla terra ) . Esso era il luogo di un culto collettivo e di aggregazione di più comunità , non meno di altri centri religiosi. Intorno agli anni in cui la tradizione colloca la fondazione di Roma , verso la metà del VIII secolo, precisamente nel 753 a.C. , profonde trasformazioni sembrerebbero verificarsi nell’organizzazione economico – sociale del Lazio primitivo. Si tratta anzitutto di un processo di differenziazione, documentato dalla presenza di tombe con arredi funerari di crescente opulenza, nettamente distinte da quelle tuttora più diffuse , assai più modeste. Esse attestano , con l’affermata egemonia dei gruppi economicamente e socialmente più forti , una chiara ideologia aristocratica. Lo sforzo anche funerario si ricollega all’affermazione di una gerarchia sociale e di una distinzione di ruoli legata alla ricchezza. Un processo del genere fu reso possibile da un primo sviluppo economico delle società da esso interessate, con l’avvio dei primi fenomeni di accumulazione della ricchezza e con la parallela PAGE 166 Nella familia proprio iure convivevano , sottoposti all’ampia e forte potestas del padre, la moglie , i figli e le figlie non sposate e i successivi discendenti per linea maschile , nonché le loro mogli. E a tale potere essi restavano sottoposti, salvo successivi temperamenti introdotti dai giuristi romani, sino alla morte del loro titolare. Le figlie e le nipoti ne uscivano invece nel momento in cui, sposandosi , entravano a far parte della famiglia del marito ( sottoposte quindi a un analogo potere da parte del pater di questa famiglia ). Il sistema familiare più antico era fondato sul matrimonium com manum che comportava la totale integrazione della moglie nella famiglia del marito, attraverso la finzione che la poneva in condizione di figlia del proprio marito . Al contrario la gens in epoca storica non è un gruppo parentale. Essa costituisce un’aggregazione, talora assai ampia di famiglie che portano lo stesso nomen. Secondo Cicerone : < i gentili sono coloro che portano lo stesso nome, che discendono da ingenui ( cioè cittadini nati liberi ) e che nei loro antenati non abbiano che ingenui che non abbiano subito alcuna capitis deminuti > . Quest’ultimo riferimento esclude dalla gens qualsiasi situazione di degradazione legale: perdita della libertà , della cittadinanza, ma anche il carattere illegittimo della nascita. L’appartenenza al gruppo gentilizio era immediatamente indicata dal nomen, che insieme al prenome individuale , anch’esso scelto per il nuovo nato all’interno di un gruppo di nomi tipici di quella particolare gens, era l’attributo di ciascun cittadino, almeno per l’origine, appartenente agli strati più elevati. Solo in seguito , e anche qui in origine solo per le genti patrizie, al nomen, si venne aggiungendo un cognomen a distinguere singoli individui e lignaggi, realizzandosi allora l’onomastica tipica dei Romani costituita di tria nomina: prenome personale, nome gentilizio e cognome del lignaggio . Va sottolineato che la presenza di una generalizzata forma onomastica come i tria nomina, nella società romana non postula necessariamente che tutta la cittadinanza romana fosse organizzata nella forma delle gentes. La formazione della nuova comunità aveva assorbito i minori villaggi, fondendo insieme i loro territori e i loro abitanti. Le strutture sociali che li avevano precedentemente organizzati non vennero meno con la costituzione della città : si dovettero però ridefinire. Di qui la duplice loro esigenza , da un lato di conservare per quanto possibile i loro propri elementi identitari : dal riferimento alle origini e al sepolcro comuni, ai riti e ai culti ancestrali e ai richiami al loro stesso territorio d’origine. Dall’altro tali gruppi dovevano anche riaffermare la loro fisionomia individuale , tuttavia, ora all’interno del quadro unitario introdotto dalla città. Ciò che avvenne uniformando i sistemi di auto definizione con l’uso uniforme del nomen, secondo lo schema che sarà proprio quello delle gentes in epoca storica. I gruppi che si erano fusi, i villaggi, i lignaggi lungi dal dissolversi , dovettero infatti conservare la loro autonoma struttura all’interno dei nuovi e omogenei contenitori costituiti dalle curie. Egualmente dovettero persistere le gerarchie antiche, seppure organizzate intorno al rex, secondo una logica numerica già presente nei preistorici trigenta populi Albenses che intaccava poco la loro interna struttura organizzativa, restata autosufficiente. Tali fenomeni contribuirono a fissare , se non ad accentuare, la struttura piramidale della società primitiva, rendendo più evidente il dualismo interno che forse era già affiorato nei villaggi precivici. Cioè la presenza delle gentes detentrici di risorse e di terre, in seguito identificate con la primitiva aristocrazia, e ad un insieme di individui relativamente al margine , sovente da quelle dipendenti come < clienti>. Questo vertice aristocratico fu indicato con il termine < patrizi> o , addirittura, con lo stesso termine che connota il capo famiglia : patres e, attribuito dagli antichi all’atto fondativo di Romolo. E’ invece abbastanza incerta l’ipotesi, a più riprese e in vario modo sostenuta dai moderni, che le gentes patrizie fondassero la loro supremazia economica sullo sfruttamento di terre lavorate esclusivamente dai loro clienti Si esclude inoltre che siffatta polarità esaurisse l’organico cittadino. Sin dai primi tempi dovette in esso confluire anche una realtà più eterogenea, per condizioni economiche, svincolata tuttavia da ogni legame di clientela. L’identificazione dei vertici politici cittadini con i gruppi gentilizi sanciva una distinzione di ruoli tra essi e il resto dei cittadini, in termini sia politici che sociali ,legati in buona parte al controllo della ricchezza fondiaria. PAGE 166 La preminenza delle forme di allevamento, in alternativa allo sfruttamento agrario del territorio romano, rende quanto meno legittima l’ipotesi che a esse si debba associare la supremazia della primitiva aristocrazia. Di qui anche l’ipotesi di un diverso tipo di signoria sulla terra : giacché diversa era la forma di relazione con le terre a pascolo ( forse di diretta pertinenza dei grandi gruppi gentilizi ), di dimensioni assai più estese, della minuta frammentazione delle piccole unità fondiarie conquistate all’agricoltura. A differenziare i vari gruppi sociali dovette contribuire anche il fatto che fossero soprattutto le genti più antiche a conservare il controllo dei loro territori d’origine , in una condizione ambigua , ormai , non essendo essi parte del nuovo demanio distribuito per heredia ( forse l’unico in proprietà secondo il nuovo diritto cittadino ). I due iugeri degli heredia romulei, non meno della sacertà delle pietre di confine, tutelata con la morte del loro eventuale violatore, corrispondono a questo mondo di piccoli proprietari – agricoltori, non alla gestione di mandrie e greggi e agli spazi legati all’allevamento. 5 La città delle origini come sistema aperto La legenda del ratto delle Sabine evoca il ricordo di un confronto – scontro tra la comunità latina del Palatino e quella sabina del Quirinale. Esso si concluse con la loro fusione , sino addirittura alla duplicazione della regalità con le due figure di Romolo e del sabino Tito Tazio, e segna il primo grande balzo in avanti nella storia di Roma. Un carattere proprio della storia di Roma è che essa lungi dall’apparire in forma monolitica , viene costruendosi con elementi eterogenei, se non contraddittori. Latini e Sabini , poi Etruschi sono componenti diverse che, fondendosi nel nuovo organismo politico della città , contribuirono a staccarla da uniformi radici etnico culturali e a < modernizzarla > , trasformandola in una realtà nuova. Tali fusioni appaiono dunque riproporre e accentuare il carattere di Roma come < ponte > , vincolo strategico e punto di controllo dei collegamenti e delle comunicazioni di più ampio respiro . Ma per ciò stesso, come momento d’incontro tra storie e radici etnico – culturali diverse ed eterogenee. Come in ogni gruppo chiuso , le forme pur inevitabili di circolazione e di integrazione individuale, al loro interno, avvenivano mediante meccanismi assimilativi fondati sulla finzione di un vincolo di sangue, di fatto inesistente. Una circolazione ristretta, dunque, e processi di crescita e di integrazione che incontravano un limite fortissimo in questo carattere familiare : il gruppo sociale presupponeva un < padre > , un comune antenato ed era circoscritto ai soli suoi discendenti , veri o fittizi. Qui è la differenza radicale di questa più fluida fisionomia che caratterizza molte società arcaiche con la città : che ha un < fondatore > , non un < padre > e che pertanto può unire insieme soggetti diversi senza necessariamente inglobarli in un vincolo parentale. Ed è qui che < la politica > opera tendenzialmente in modo eversivo verso la predominanza del sangue e dell’apparato familiare. Mentre insomma, nelle strutture precedenti, l’insediamento del nuovo individuo avviene nella sua trasformazione in < partente > nella città essa avviene con la sua integrazione nelle istituzioni : come < cittadino> , membro del populus. Il successore di Romolo, Numa non era membro della città , provenendo dalla città sabina di Cures . Per l’intera età monarchica, vi è un esito particolare con cui si conclusero molti degli scontro di Roma con altre città. La lotta tra la Roma del Palatino e la conquista sabina del Quirinale risoltasi nella loro fusione è un processo che si ripete nel corso dei successivi conflitti: la vittoria dell’una comunità sull’altra significava infatti la scomparsa della città vinta e l’assorbimento della sua popolazione da parte della città vincitrice. In tal modo le guerre di Roma appaiono, nel complesso, come una forma accelerata di successi sinecismi, con uno spostamento degli insediamenti sottomessi ed il loro totale assorbimento nella città vincitrice. Il risultato del processo di conquista e assorbimento di comunità da parte dei romani fu un’accelerazione della crescita quantitativa e quindi politico militare dei centri che si erano più rapidamente consolidati. Con un evidente meccanismo accumulativo , giacché ogni successo militare, accrescendo gli organici di popolazione e gli spazi territoriali della città vincitrice, alimentava nuovi successi. E’ allora che gli antichi appida, i populi , i castelli isolati come anche PAGE 166 molte città ancora non consolidare < scomparvero senza lasciare traccia> , alimentando la forza di quelle comunità destinate invece quasi tutte a persistere nel corso di tutta l’antichità e oltre ancora. Ma accanto a queste forme di < cannibalizzazione > dei centri più forti nei riguardi dei vicini più deboli , è da segnalare anche un altro tipo di mobilità rappresentato dalla facilità con cui gruppi minori, clan gentilizi o singole famiglie e addirittura individui, si staccarono dalle loro comunità di appartenenza , emigrando in Roma. In effetti essa appare, sin dall’inizio , un’importante polo d’attrazione, anche a causa della particolare posizione strategica e del suo ruolo di snodo delle comunicazioni . Si tratta di fenomeni importanti non sol per l’evidente crescita quantitativa e il conseguente rafforzamento della città da essi ingenerato. Accelerando le forme di circolazione culturale, tali processi dovettero contribuire in modo determinante allo sviluppo degli assetti sociali e politici romani. Si trattò di fenomeni che a loro volta indebolirono la stretta relazione , forse in origine pressoché totalizzante, dell’ordinamento con le strutture gentilizie. Da un lato infatti le possibili migrazioni di interi gruppi gentilizi, esaltavano indubbiamente l’autonomia di tali strutture. Ma dovette essere ancor più numerosa una forma capillare di spostamenti individuali o di nuclei familiari, non riconducibile all’interno delle gentes, che contribuirono invece a rompere le logiche di schiatta e di sangue. Si tratta di un processo che, alla lunga, avrebbe disarticolato la natura confederale della società primitiva , rafforzando ulteriormente il ruolo di supremo mediatore del rex. CAPITOLO SECONDO LE STRUTTURE DELLA CITTA’ 1 La chiave di volta delle istituzioni cittadine : il <rex> Dovette essere il rex a costituire il fattore propulsivo dell’ordinamento cittadino. Egli ne esaltava infatti l’interno dinamismo rispetto ai vecchi meccanismi parentali e alle logiche di lignaggio, affermando, con il suo potere, la funzione unificante della città. Certo , in tale figura sono ben presenti le radici preistoriche che cogliamo anzitutto nel suo carattere carismatico e nella forte accentuazione religiosa derivata dall’arcaica immagine dei re – sacerdoti. Fu questo un aspetto destinato a influenzare anche la successiva fisionomia del potere istituzionale romano addirittura oltre la repubblica. Il rex tuttavia si colloca egli stesso in un quadro nuovo, dove anzitutto è assente ogni logica dinastica . Non è il figlio che succede al padre in questa monarchia, mai. Al contrario, è troppo insistita la vicenda di morte che segna la fine del monarca, a partire dall’eroe eponimo, per non cogliere traccia di logiche molto arcaiche, pur conservatesi a lungo nel paesaggio laziale . La volontà divina aveva un ruolo fondamentale nella designazione del nuovo re. Se Romolo , il leggendario fondatore della città , consulta direttamente gli dei, interpretando i segni favorevoli, il successore, anch’egli forse una figura convenzionale Numa Pompilio ascende alla carica attraverso la solenne cerimonia dell’inauguratio. L’auguare, operando in relazione a uno spazio sacro appositamente determinato ( il templum ), tocca con la destra il capo di Numa e chiede a Giove di manifestargli, con segni sicuri, la volontà che Numa sia re di Roma, Rex innaguratus, dunque, perché carico di una dimensione sacrale, supremo sacerdote e tramite della comunità con i suoi dei. Ma non solo quello, e non solo in virtù di un volere divino: giacché nell’avvento del nuovo re intervengono sia il senato che il popolo. L’inauguratio infatti è effettuata nei riguardi del nuovo re, già individuato e < creato > ad opera del senato , attraverso un suo membro specificamente qualificato per la sua funzione di interrex. Dopo la sua creatio e la successiva inauguratio il nuovo rex si sarebbe presentato al popolo riunito nella forma dei comizi curiati da lui stesso convocati, al fine di assumere di fronte a loro il supremo comando. L’incontro tra il rex e i suoi governati , anzitutto il suo esercito era carico di valore , esprimendo solidarietà e consenso. Tant’è che sarebbe poi sopravvissuto al regnum in quella lex curiata de imperio che PAGE 166 dovette anche intervenire, in tal senso, la sovrapposizione di nuove forme religiose comuni, atte a obliterare o , almeno, a emarginare la connessione fra le singole curie e specifiche aree territoriali. Nella primitiva costituzione romulea l’organico dell’esercito romano era dato dalla somma dei contingenti fissi che ciascuna curia doveva fornire. Proprio questa rilevanza delle curie e, attraverso di esse, delle strutture gentilizie ha favorito l’idea che il primitivo esercito romano si organizzasse secondo forme tipiche delle aristocrazie, in un sistema essenzialmente < cavalleresco>. Il popolo riunito nel comizio curiato ( cioè tutti e solo i maschi adulti ), partecipava all’investitura del nuovo rex inauguratus, come anche a tutte le sue enunciazioni solenni tenute , appunto , nel comizio. Dionigi annovera poi tra le competenze dell’assemblea popolare anche la designazione dei magistrati ausiliare del rex. Anche in questo caso il popolo appare più atto a ricevere la notizia di delibere , che non ad approvare , con un voto , i provvedimenti proposti. Ma la competenza dei comizi si estendeva anche a una serie di atti di carattere, diciamo così, più < privato > e che tuttavia avevano diretta rilevanza rispetto alle organizzazioni familiari e gentilizie, incidendo sulla composizione interna di tali strutture. Ancora per tutta l’età repubblicana una parvenza degli antichi comizi si riuniva a presenziare e ad approvare l’adrogatio con cui un pater familias si assoggettava volontariamente alla potestas di un altro padre assumendo, a tutti gli effetti, nei riguardi di costui , la condizione di figlio . In tal modo si assicurava artificialmente la sopravvivenza di una famiglia che, altrimenti si sarebbe estinta: tale atto infatti era possibile solo nel caso in cui mancassero discendenti diretti dell’arrogante. Collegata in origine all’adrogatio appare a prima vista una forma arcaica di testamento. Nel testamentus calatis comitiss la designazione di un erede era il risultato indiretto della sua adozione come filius. Un risultato deliberatamente perseguito dalle parti e per cui si era escogitato che questa particolare adozione a differenza dell’adrogatio, avesse effetto solo alla morte del pater familias adottante , privo di figli legittimi, comportando come conseguenza la successione nella posizione del defunto da parte del designato. Ed infine sempre rientranti in questa categoria vanno ricordati tutti quei provvedimenti che modificano la condizione delle gentes o all’ammissione di uno straniero o di un intero gruppo . Tra di essi risalta la detestatio sacrorum, con la quale il membro di una gens scindeva il suo vincolo familiare e religioso con il gruppo di origine. E’ di notevole rilievo il fatto che le attività che incidevano sulla vita delle curie o che riguardavano , mediamente l’inauguratio dei sacerdoti maggiori, il rapporto del populus Romanus, con la divinità, non potessero prescindere dalla presenza solenne del comizio. Ciò comportava già una prima forma di controllo. Certo con dei forti limiti, giacché tali assemblee non dovevano avere il potere di esprimere esse stesse la volontà della città e neppure quello di modificare o di paralizzare decisioni prese dagli organi del governo cittadino : rex e patres. Anche se, proprio nelle delibere di interesse generale ( la pace e la guerra anzitutto ) il peso dell’assemblea dovette accentuarsi. Chiamata semplicemente a esprimere rumorosamente la sua approvazione o il dissenso senza tuttavia che si addivenisse ancora a un voto formale. Era la sede d’espressione e di verifica di quel consenso su cui si fondava , in ultima istanza la persistente legittimità e la forza del rex. La partecipazione dei comizi all’insieme degli atti che investivano la vita della città e il suo governo attesta comunque la presenza, sin dall’inizio , di una comunità politica, mai semplice accozzaglia di sudditi soggetti a un volere superiore ed estraneo. In una fase più avanzata di vita della città, verso la fine della monarchia è possibile che i comizi curiati siano giunti a esprimere formalmente un loro voto, almeno per alcuni aspetti specifici. In tal caso la decisione dovette essere presa dalla maggioranza delle trenta curie . 4 I collegi sacerdotali L’altra componente essenziale della città , il suo patrimonio culturale ha un carattere di continuità con il mondo precivico . E questo vale anzitutto per la sfera religiosa dove , si può cogliere in modo affatto peculiare un’accentuata mistura di conservatorismo e d’innovazione. Ma vale egualmente per ciò che concerne la varia e ricca presenza di collegi sacerdotali, sin dalla prima età monarchica. Essi costituiscono , uno degli aspetti che meglio ci fa capire la natura complessa e stratificata PAGE 166 dell’organizzazione e dell’identità cittadina. Da un lato perché lo stesso governo della comunità non si esaurisce nelle istituzioni politiche , essendo per molti aspetti determinante, con il fattore religioso , l’opera di questi stessi collegi. D’altro perché molti di essi si saldano alle radici preciche ( alcuni addirittura in un diretto e circoscritto rapporto con singole gentes ) , seppure nel quadro di un non facile processo di adattamento che ne ha permesso una configurazione relativamente unitaria. E’ in questo contesto che le forme e tradizioni più arcaiche sopravvissero a lungo, nella tradizione repubblicana quando non rinverdite addirittura dalla grande scenografia arcaicizzata di Augusto. Si deve ricordare la presenza, nella società romana arcaica, di una molteplicità di filoni in essa confluenti. Anzitutto , importantissimi , i culti dei Penati e dei Lari propri di ciascuna famiglia, di competenza di ciascun pater familias, poi culti e riti delle gentes, delle curiae o di aggregazioni più ampie e infine i culti della città. In essi confluisce una molteplicità di elementi che ci riporta a epoca preistorica, con l’innumerevole serie di divinità che accompagnano i Romani in ogni aspetto della vita e in ogni periodo. A ciò si collega la vasta stratigrafia di collegi e consorterie religiose, di pertinenza sia di singoli gruppi, che dell’intera comunità . Spiccano, tra i molti , i Luperci Quinctiani e i Luperci Fabiani, che presiedevano all’importante rito dei lupercali, quel percorso rituale, evocativo degli arcaici legami territoriali di alcune comunità preciviche. Ma non meno antico appare il collegio dei Salii, una specie di sacerdoti – guerrieri impegnati in singolari rituali di tipo magico – animistico, e dei Fratres Arvales che sovrintendevano al culto dell’antichissima dea Dia. Mentre poi i singoli luoghi della città restano legati a memorie di non meno arcaiche divinità : come quella di Semo Sancus, di origine sabina, sul Quirinale, o di Fauno sul Palatino. Nella fase successiva di piena espansione della vita cittadina appare conservare una rilevanza maggiore il collegio dei flamines, anch’esso tuttavia appartenente al più antico patrimonio religioso romano e con una fisionomia tutta particolare. Ciò è particolarmente evidente nei tre flamines maiores : Dialis , Martialis e Quirinalis, dove il culto di arcaiche divinità si saldava a quello delle nuove figure del Pantheon cittadino. Ma tali caratteri arcaici appaiono anche, se non maggiormente, nella serie di limitazioni rituali, stabilite in particolare nei riguardi del flames Dialis che sembrano risalire all’età del bronzo. Vi è un punto chiave, che evidenzia il carattere precivico di tali figure : la loro sostanziale estraneità al rex. Si tratta di realtà che la città stenta a fare proprie e che conservano un loro spazio arcano, ai margini del nuovo sistema. Il nucleo centrale della religione cittadina fu infatti rapidamente occupato da una originale fusione di elementi arcaici con forme decisamente innovatrici. Un processo che ha un momento di particolare evidenza nella significativa modifica intervenuta al vertice dell’intero sistema. Cioè la sostituzione delle tre supreme divinità arcaiche, Giove , Marte e Quirino, con quelle della religione olimpica che ruota intorno alla cosiddetta < triade capitolina > : Giove , Giunone e Minerva il cui culto , appunto si svolge sulla < roccaforte > della città : il Campidoglio, in un grande tempio appositamente edificato. Rientra in questa nuova sfera, pur conservando molti dei suoi caratteri arcaici, il culto di Vesta affidato ad apposite sacerdotesse che godevano ancora in età tardo repubblicana e imperiale di una condizione sociale elevatissima. Il compito delle Vestali, oltre alla partecipazione ad alcune importanti festività , è la custodia del fuoco sacro, che deve restare acceso permanentemente e, accanto a questo, dell’acqua. Vi è il diretto simbolismo di questi compiti relativi agli elementi fondamentali della vita umana, centrali nella concezione della natura propria degli antichi. Se questi aspetti ci riportano anch’essi a età precivica , l’integrazione nella città di questo culto è però attestata dalla dipendenza delle vestali dal rex : in un rapporto di dipendenza di tipo familiare sostituito poi , in epoca repubblicana, dal rapporto della vestale maggiore con il pontefice massimo. Così come non minore ambivalenza tra le radici preistoriche e la nuova funzionalità cittadina si può cogliere in altri collegi religiosi che assolsero un ruolo di grande rilievo anche oltre l’età regia. Anzitutto il collegio dei feziali i cui compiti erano essenzialmente circoscritti alle relazioni internazionali. Si tratta di un sacerdozio atto a costituire il sistema di comunicazione formale tra Roma e le altre comunità. Il collegio , di venti membri nominati a vita, non sembra presieduto da un supremo sacerdote, anche se al suo interno si distingue per la preminenza di funzioni il pater patratus . PAGE 166 Ogni richiesta rivolta a popoli stranieri o da questi a Roma doveva avvenire mediante questo canale, che puntualmente Varrone indicava come il garante del rispetto della lealtà internazionale. E’ solo attraverso i feziali che poteva dichiararsi una guerra < giusta > e, una volta terminata , stringersi la pace legittima. Si tratta, di un sistema di comunicazioni che non incideva direttamente sulla sostanza dei rapporti internazionali di pertinenza del rex e dei detentori del potere di guerra e di pace. I feziali e il pater patratus semplicemente dovevano tradurre le decisioni politiche nella forma richiesta dall’ordinamento romano per la validità degli atti internazionali. Non deve però sfuggire il significato, sul piano sostanziale , del rigido formalismo di cui i feziali erano custodi. Esso infatti comporta la possibilità di rendere < giusta > ogni guerra dichiarata nel rispetto di certe regole, prescindendo dalla validità sostanziale delle pretese originarie, la cui affermazione fosse stata anch’essa affidata ai feziali secondo regole rituali . Entrava così in gioco il rispetto delle forme rituali, non la < giustizia > sostanziale della pretesa. Lo sviluppo delle regole formali contutelate, dette luogo alla formazione di una procedura che è alla base di quel primo nucleo di un diritto internazionale costituito dal ius fetiale. Estendendosi anche ai rapporti di diritto privato tra Romani e stranieri, il ius fetiale era destinato a contribuire al complesso processo di arricchimento dell’esperienza giuridica romana arcaica. Quanto poi al collegio degli auguri. Che gli antichi Romani si interrogassero costantemente sulla volontà degli dei al fine di regolare la vita sociale e di prendere decisioni importanti , non è certo fatto singolare. Questa interpretazione dei segni della volontà divina fini nell’esperienza romana, col dar luogo a due sistemi diversi. I Romani distinguevano gli auguria dagli auspicia, secondo un criterio che non doveva concernere tanto il tipo di manifestazioni divine da interpretare ( i segni celesti, le viscere degli animali sacrificati ecc. ) , derivando piuttosto dalla categoria di persone legittimate a interrogare la volontà degli dei : il rex e poi i magistrati per gli auspicia , gli auguri per gli auguria. Un’altra differenza tra auguria e auspicia sembra associarsi al riferimento di questi ultimi essenzialmente a situazioni immediate nel tempo e di per sé bene individuate. La constatazione di infausti auspici da parte del magistrato riguardava l’atto da compiersi nel giorno in cui tali auspici erano stati resi. E questo atto, che non poteva allora essere effettuato per l’ostile atteggiamento divino, poteva essere però ripreso e portato a termine, ove non avessero ostato altri auspici sfavorevoli, nel giorno o nei giorni immediatamente successivi. L’augurium invece può riguardare una situazione lontana nel tempo e può investire anche un oggetto più ampio che non singole iniziative, sino a riferirsi al destino stesso di Roma. Dal verbo augere ( aumentare ) , deriva l’idea che augurium evochi non già la semplice manifestazione di una volontà divina , ma una crescita di potenza, un arricchimento della condizione e dell’azione umana a seguito di un richiesto intervento degli dei. Per questo sia un luogo che una persona possono essere oggetto di inauguratio. Il rex, appunto, è persona inaugurata per eccellenza concentrandosi su di lui la forza magico – religiosa del consenso divino . Il grande prestigio e il non minore potere di fatto del collegio degli auguri giustifica il numero ridotto dei suoi componenti . Come per i feziali , anche in questo campo si venne solidificando una scienza augurale e un < diritto > augurale. Le tradizioni e le interpretazioni seguite dal collegio degli auguri vennero raccolte in vari testi. A tali collegi in genere si era prescelti, per cooptazione e, per molti secoli, vi appartennero solo elementi patrizi . Il che getta indubbiamente una luce significativa sulla composizione del primitivo organico cittadino e sull’originario predominio aristocratico. Ma è soprattutto da sottolineare il fatto, fondamentale per la successiva storia di Roma, che solo pochissimi ruoli , tra quelli ora evocati, presuppongano una totale < consacrazione > del sacerdote alla divinità , con la conseguente sua separazione dalla vita corrente nella città . In questo caso, in genere nominati a vita, essi sono esclusi da ogni forma di gestione diretta di potere. Per il resto, invece, i ruoli sacerdotali sono assunti da ordinari cittadini che non dismettono i loro correnti interessi e la partecipazione alla vita ordinaria della comunità , non diventano una casta separata né portatori di valori diversi da quelli della polis. Si sfiora così un tema assai importante relativo alla precoce < laicità > dell’ordinamento romano. PAGE 166 latamente giuridiche , si presentavano come un intreccio indissolubile. D’altra parte, come gli aspetti religiosi, queste stesse regole spesso non erano esclusive di una sola gente, o di un solo villaggio, ma costituivano un comune tessuto che era venuto saldando insieme, in una struttura culturale omogenea , più villaggi e più gruppi originariamente distinti . Credenze , pratiche sepolcrali, riti , sistemi matrimoniali e forme familiari erano d’altra parte circolate già nel mondo precivico, talché il consolidarsi all’interno dell’unità cittadina, piuttosto che segnare una rottura o una radicale sovrapposizione di forme nuove, esprime il quasi inevitabile sviluppo di fattori già presenti nel mondo laziale. Ed è proprio questo antico patrimonio, divenuto il cemento istituzionale della civitas a definire l’identità politico – culturale : la sua lingua, le sue rappresentazioni ideali, i suoi sistemi di organizzazione sociale e le sue stesse gerarchie sociali, oltre che, soprattutto , la sua religione e il suo diritto. Dando altresì consistenza e contenuto a molti dei collegi sacerdotali cittadini , con il superamento delle molteplici radici preistoriche. Di contro le tradizioni rimaste di pertinenza di ciascun gruppo interno alla nuova comunità sopravvissero solo e nella misura in cui esse non contraddicessero e minacciassero il sistema unificato di valori condivisi. Nel riflettere sull’esperienza romana , si deve abbandonare la nostra mentalità , dominata dalla lunga presenza e azione dello stato moderno. Essa infatti è costruita secondo una prospettiva dove sovranità e diritto sono intimamente associati attraverso l’onnipresente azione della legge, di cui il giudice , almeno nell’Europa continentale in teoria è il < servo >. In Roma il diritto è concepito come preesistente al legislatore, che interviene solo a modificare e innovare singoli punti. Il suo fondamento sono i mores : il punto di partenza di tutta la storia del diritto romano. La comunità politica , l’archeologia di uno < stato > , si forma in parallelo, se non successivamente, a essi. Il re può intervenire a regolare o a limitare e modificare il ruolo del pater familias nell’ambito della repressione domestica, può circoscriverne alcuni eccessi, può controllare, attraverso le curie, le modifiche artificiali nella composizione dei gruppi familiari e lo spostamento di patrimoni ereditari. E ancor più il suo giudizio , con la consulenza determinante dei pontefici , può innovare in uno o altro specifico aspetto di pratiche tradizionali. Ma le strutture fondanti dell’ordinamento , organizzazioni familiari, forme di signoria sui beni, rapporti tra individui, da cui discendevano tutti i vincoli che gravavano sui consociati, appaiono saldamente fondate sui mores solo marginalmente ed episodicamente modificati da singole leges. L’importanza dei pontefici e il ruolo rivoluzionario del rex stanno : nell’essere stati i registi del passaggio dalla pluralità di istituzioni < locali > a un corpo unitario . senza che mai , dunque, si sia immaginata che l’esistenza di questo dipendesse dall’atto normativo del sovrano, concepito invece come il depositario e il garante di un patrimonio ancestrale. Capitolo terzo I re etruschi 1) Le basi sociali delle riforme del VI secolo Si ha l’avvento al potere di una serie di re di origine etrusca. Certamente si trattò di un momento di forte modernizzazione dell’apparato politico – istituzionale, tale da anticipare alcuni caratteri di quello che sarà l’impianto di fondo del successivo sistema repubblicano. Tali trasformazioni furono a loro volta rese possibili dalla crescita politica e sociale di Roma , nel corso del primo secolo e mezzo di vita. Non solo essa, alla fine del VII secolo era divenuta una delle principali città del Lazio sia per dimensioni territoriali che per popolazione . Essa , aveva PAGE 166 cessato ormai di essere la < sede già creata > di una popolazione di pastori e agricoltori , accingendosi a un nuovo salto in avanti nel suo sviluppo economico – sociale. In parallelo agli sviluppi politico – militari che avevano contribuito all’accentuato rafforzamento della struttura urbana di Roma è da registrarsi l’azione di altri fattori, dall’accresciuta importanza delle forme di proprietà individuale all’ancor più significativa espansione delle attività artigianali e mercantili. Ciò che, a sua volta, aveva coinciso, se non con i primi passi di un’economia monetaria, con l’accentuata circolazione del bronzo come unità di misura e valore di riferimento degli altri beni. L’accresciuto rilievo della città aveva poi reso possibile, sotto i nuovi e più dinamici re di stirpe etrusca , un notevole incremento delle grandi opere pubbliche facendo di essa quella che fu chiamata da Giorgio Pasquali < la grande Roma dei Tarquini >. Lo sviluppo di tutte le attività indotte da tali opere a sua volta postulava un accresciuto fabbisogno di manodopera urbana , a seguito di cui una massa crescente di popolazione, composta anche da stranieri, si dovette concentrare nella città. Ora queste molteplici attività urbane si dovettero inserire sempre più malamente nella logica chiusa del sistema delle curie. Rispetto alle consorterie gentilizie che le dominavano, nuovi gruppi sociali e nuovi ceti erano infatti i protagonisti di questa stagione, la cui organizzazione interna tendeva in generale a fondarsi sulla centralità delle minori unità familiari, se non dei singoli individui. La prorompente economia urbana era più congrua a mestieri e attività individuali che permettevano a singoli individui o unità familiari anche piccole, d’aspirare a uno status economico – sociale autonomo. Da un lato dovette così verificarsi una crescita complessiva degli strati sociali estranei al sistema gentilizio, e costituiti sia da un < popolo minuto > , ai margini o quasi dell’economia cittadina sia da strutture familiari abbastanza importanti per consistenza economia in grado di prendere uno spazio autonomo nella città. Dall’altro si verificò anche un processo d’erosione nella stessa compattezza delle gentes a seguito delle tendenze centrifughe di singole famiglie o lignaggi. Oltre al fatto che non di rado dovette intervenire la rottura dei vincoli di dipendenza dei clienti arcaici, sia per una loro emancipazione economica sia per l’estinzione di alcune gentes. Tutti elementi che portarono a un incremento degli organici cittadini estranei alle gentes. Le attività rurali potevano essere organizzate ancora in forme limitatamente comunitarie nell’ambito delle gentes e delle curiae. Ma le sempre più importanti attività artigianali e lo stesso commercio presupponevano una specializzazione del lavoro e un’articolazione delle forze produttive poco adatte a organizzarsi così ampi come le gentes. Sin dai tempi della monarchia latino – sabina la società romana disponeva di un’ organizzazione familiare straordinariamente funzionale a questo tipo di attività ( e anche a un’economia agraria fondata sulla piccola proprieta ). Si tratta della familia proprio iure , dove, al limitato numero dei partecipanti , corrispondeva una reale compattezza; e dove soprattutto, l’unità , più che su un piano < orizzontale > di tanti collaterali, si realizzava in senso < verticale > . In essa dunque più generazioni potevano essere saldate insieme, sotto la potestas dell’avus , dando luogo a un sistema particolarmente adatto alla trasmissione di un sapere < tecnico >. Questa diffusa e articolata crescita economica, lungi dall’eliminarli, aveva addirittura accentuato due aspetti dalla originaria fisionomia della città, destinati a influenzare in profondità gli sviluppi successivi. Il primo concerne il diverso carattere dei due poli su cui si era fondata la comunità politica : il mondo aristocratico delle gentes e la restante cittadinanza. In questo dualismo, infatti, è dato di cogliere uno schema che diverrà evidente poi in età etrusca e, soprattutto, nella prima età repubblicana. Esso anticipava quella distinzione tra patrizi e plebei . Arnaldo Modigliano fa un osservazione sul carattere < più aggregato > e meglio evidenziato dei clan patrizi, rispetto ai gruppi sociali che avrebbero dato origine alla plebe. Questi ultimi, infatti, in un primo momento, parrebbero privi di una loro specifica identità , potendosi piuttosto definire in termini negativi : come < non patrizi >. La crescita economica del VI secolo a.C. come spesso è avvenuto nella storia, lungi dall’attenuare i dislivelli sociali piuttosto li accentuò. 2 La fisionomia della nuova città PAGE 166 Nel corso del VI secolo a.C. fu protagonista una serie di re d’origine etrusca, portatori di un diverso e più elevato livello culturale rispetto alle società del Lazio primitivo che riflettevano la grande crescita economica e lo splendore culturale della loro civiltà . Questi mutamenti coincisero, d’altra parte , con un più generale avvicinamento di Roma alle potenti città etrusche che tuttavia in nessun modo significava una sua subordinazione politica. Al contrario, la sua amicizia era preziosa per gli Etruschi in una fase di forte espansione verso la Campagna , facendo di essa un punto d’appoggio d’importanza strategica nel contesto ostile delle città latine. Un antica tradizione verosimilmente d’origine etrusca , richiamata dall’imperatore Claudio, buon conoscitore di quella civiltà , identifica in Servio Tullio la figura di Mastarna, un capo militare venuto a Roma al seguito di Celio , si sarebbe impadronito del regnum spodestando Tarquinio Prisco. Tutto ciò corrisponde all’idea corrente sulla possibile presenza di bande armate con le quali arditi avventurieri etruschi avrebbero imposto la loro signoria sull’importante città latina. In effetti l’esistenza di molteplici capi – clan e < condottieri > di eserciti privati alla ricerca di fortuna trova anche riscontro nell’arcaica iscrizione relativa ai soldales di un Poplios Valesios , un personaggio appartenente a quella che sarà una gens importante nella prima vita repubblicana : Valerio Publicola. Più il capo di compagni d’avventura ( i soldales dell’iscrizione ) che una figura istituzionale della città . Del resto la stessa vicenda di un altro grande condottiero repubblicano Coriolano, che ruppe i suoi rapporti con Roma e guidò contro di essa l’esercito dei Volsci, conferma la fragilità dei rapporti di lealtà e la consistenza autonoma di questi singoli clan di guerrieri. Secondo l’indicazione pressoché unanime delle fonti, il potere dei nuovi re si accentuò sia nella sostanza che nella sua rappresentazione simbolica. Di contro, esso assume una singolare e interessante connotazione < irregolare > , secondo i vecchi canoni. Dalle indicazioni degli antichi tutti questi re parrebbero essere ascesi al regnum in forme difettose, per l’assenza dell’inauguratio, per la mancata procedura dell’interregum o della presentazione ai comizi curiati. Oltre alla mera violenza con cui l’ultimo Tarquinio, nell’esecrazione della leggenda, strappa il potere al grande Servio. L’altro aspetto che connota la fisionomia di questi sovrani , seppure in forme diverse, è la forte spinta militare che a sua volta, sottolinea il carattere autoritario del loro comando. Compensato , tuttavia, soprattutto per Tarquinio Prisco e Severio Tullio, da un diretto appoggio popolare. Anche quando , con Severio, la sua ascesa al regnum era avvenuta senza l’intervento di una regolare lex curiata, l’accento cade infatti sul sostegno popolare al nuovo rex. Le fonti antiche sono esplicite nell’attribuire a questi nuovi re una politica folopopolare e un potere parzialmente diverso da quello tradizionale : più forte e con una fisionomia più accentuatamente militare. L’innovazione appare sottolineata dalla nuova e ricca simbologia a esso relativa. Allora sono introdotte , quasi tutte dal mondo etrusco, le insegne della sovranità e del comando: la corona d’oro, la toga purpurea, le calzature rosse, il trono d’avorio , la corona d’alloro , lo scettro d’avorio e la guardia dei littori armati dei fasci e della scure . Simboli solenni che riappaiono in blocco , nel corso di tutta l’età repubblicana , in occasione della cerimonia del trionfo, con l’esaltazione del ruolo militare. Essi evidenziano quel potere supremo di governo che la repubblica erediterà dai re etruschi, indicato con il termine imperium, estraneo alla fisionomia dei primi re latino – sabani. Dall’altra parte il fondamento popolare dei re etruschi fu a sua volta la condizione per la realizzazione di una prolungata e incisiva politica di riforme. Le precedenti tradizioni latino – sabine appaiono così radicalmente superate e, con esse, l’equilibrio che, nell’età precedente, aveva connotato il rapporto tra rex e ordinamento gentilizio. L’intero assetto istituzionale preesistente, costituito dall’identificazione tra ordinamento curiato, organizzazione militare e struttura gentilizie, fu così travolto, sostituito dalla centralità della ricchezza individuale e dalla proprietà privata. Va spiegato cosa si intenda per < proprietà privata >, in riferimento alla società romana. Giacché , secondo i principi fondamenti del diritto romano validi ancora in età imperiale, questi diritti e poteri non concernevano tutti i cittadini che pur avevano pienezza di diritti pubblici e partecipavano a tutti i titoli alla vita politica cittadina. Nella sfera privatitica, dei diritti e delle ricchezza, persisteva infatti una rigida logica patriarcale in base a cui solo il pater familias era il titolare di tale insieme di facoltà . I filii familias, quale che fosse la loro età , rango e posizione pubblica, restavano privi di PAGE 166 quarta classe e infine un’unica centuria di capite censi , in cui erano inclusi tutti i cittadini privi di qualsiasi capitale ed estranei alla specializzazione ora ricordate. E’ indubbio che l’antico patriziato dovette in origine essere ben presente anche nelle classi più elevate delle centurie di fanteria. Certamente moltissime famiglie delle gentes patrizie disponevano della ricchezza fondiaria richiesta per l’appartenenza ai ranghi più alti dell’esercito centuriato. E tuttavia delle prime classi di centurie dovevano far parte, anche molti esponenti di famiglie non patrizie, anch’esse adeguatamente qualificate dalla loro ricchezza. L’egemonia patrizia, in questa nuova organizzazione militare, restava sempre forte , non era però assoluta, aprendosi così per più ampi gruppi sociali un ruolo significativo proprio in quell’aspetto così essenziale alla posizione del cittadino nelle società antiche costituito dal servizio militare. D’altra parte è anche evidente che il maggior peso finisse col gravare sui cittadini più ricchi , quelli appartenenti alle prime classi. Essi infatti, proporzionalmente meno numerosi dei cittadini delle altre classi, erano tenuti a fornire il numero maggiore di soldati. Il che, a sua volta, era perfettamente coerente alle nuove caratteristiche dell’esercito oplitico e del suo fondamento timocratico, legato cioè alla ricchezza individuale. La società serviana esprimeva un nuovo tipo di gerarchia. Talché quando l’ordinamento centuriato si estese dall’originaria sfera militare alla dimensione politica, il voto dei membri delle prime classi di centurie fu ben più < pesante > e importante di quello degli altri cittadini. Il rapporto tra la sfera politica e quella militare, a sua volta, sarebbe sempre restato strettissimo; non a caso la convocazione del popolo nei comizi , era indicato con l’espressione affatto significativa di exercitus imperare : < convocare l’esercito > e la stessa assemblea centuriata era designata come < esercito urbano> . Ma soprattutto, anche in età repubblicana , i comizi continuarono a esser convocati fuori del pomerium, la cinta sacra di Roma all’interno della quale non poteva esplicarsi il comando militare. La fisionomia dell’ordinamento centuriato rappresenta il punto di arrivo di un processo complesso. Restando all’età di Servio, è da presumersi che la svolta si esaurisse negli aspetti propriamente militari . E’ quindi possibile che l’innovazione fosse allora rappresentata dall’introduzione delle sole centurie di juniores : l’organico dell’esercito. Ciò che ci permetterebbe di meglio comprendere la logica di fondo che avrebbe ispirato l’azione del grande re riformatore. Concentrandoci infatti su queste sole centurie, direttamente riferite all’esercito oplitico, ci possiamo rendere conto che la somma delle prime tre classi corrisponde al numero di sessanta centurie. Ciò che a sua volta deve essere messo in relazione con quanto ci dicono soprattutto Livio e Dionigi circa il fatto che solo gli appartenenti alle prime tre classi erano forniti di un armamento pesante, adeguato alla fanteria oplitica . Gli armati delle centurie inferiori si presentavano semplicemente come ausiliari dei primi In effetti queste sessanta centurie corrispondono ai seimila armati cui era pervenuta quell’unica legione romana che, ai tempi della monarchia etrusca , costituiva tutto l’esercito della città. Appare dunque verosimile che l’originaria riforma militare di Servio sia consistita nella semplice duplicazione dell’antico organico della legione: da tremila uomini a seimila. L’accrescimento non solo nuerico , ma di potenzialità belliche legato al pieno armamento oplitico allora introdotto è evocato dalla distinzione di quella parte di popolazione destinata a costituire la classis, come l’esercito era allora chiamato, da quella restata, infra classem, ai margini dell’esercito , con funzioni ausiliarie. Solo in seguito questa legione originaria verrà sdoppiata , senza però che ciò comportasse l’ulteriore raddoppio dell’organico militare. Ciascuna legione avrebbe infatti continuato a comporsi di sessanta centurie , ridotte peraltro dai cento uomini originari a sessanta e talora addirittura a trenta , a seconda della qualità degli armati e della diminuita consistenza numerica delle legioni stesse, allorché si privilegiarono unità militari più numerose e agili. Ed emerse altresì l’epoca in cui ciò dovette verificarsi : quando il supremo comando passò dal rex alla coppia di consoli. Con il che si conferma indirettamente anche la datazione tradizionale delle stesse riforme serviane, riferite all’età immediatamente precedente. E’ anche probabile che l’ulteriore incremento degli organici della cavalleria , egualmente attribuito a Servio, sia ascrivibile all’età successiva, in corrispondenza allo sdoppiamento della legione. Ignoriamo quando l’organizzazione centuriata dell’esercito si sia tradotta anche in una vera e propria assemblea politica. Ciò che avrebbe anzitutto postulato l’integrazione delle centurie di juniores con quelle dei seniores. Anche se non è da escludersi che questa innovazione sia PAGE 166 intervenuta ancora sotto i re etruschi, è forse più plausibile che sia coeva all’inizio della repubblica, quando il popolo riunito per centurie, i comizi centuriati, fu chiamato a eleggere i magistrati cittadini. 5 Le tribù territoriali e il censimento dei cittadini Quale che fosse la dimensione originaria della riorganizzazione militare e della cittadinanza realizzata da Servio, sin da allora il nuovo sistema postulava una conoscenza analitica dei livelli di ricchezza dei singoli cittadini onde distribuirli nelle centurie delle diverse classi. E’ quanto effettivamente la tradizione unanimemente imputa allo stesso Servio, riferendogli sia l’introduzione del censimento, sia un’ulteriore distribuzione della popolazione per tribù territoriali. Due innovazioni tra loro collegate. Con il termine censimento si accertava in effetti la condizione economica di ogni gruppo familiare in funzione del nuovo sistema, di cui non sfuggiva agli antichi il significato gerarchico. Livio lo sottolinea chiaramente, allorchè attribuisce a Servio l’istituzione del < census >, cosa utilissima per la futura grandezza della città, secondo cui i compiti di pace e di guerra vennero assegnati non viritim ( cioè in modo uniforme a tutti i cittadini ) ma in proporzione della ricchezza . In astratto questo strumento sarebbe stato sufficiente a permettere la distribuzione dei cittadini tra le varie classi di centurie. Tuttavia il riordinamento della cittadinanza appare sin dall’inizio più articolato. Sempre allo stesso Servio è infatti attribuita l’introduzione di un altro sistema di distribuzione della cittadinanza per tribù territoriali, in sostituzione delle vecchie tre tribù dei Ramnes , Tities e Luceres. La loro funzione era quella di provvedere a un organico inquadramento di tutti i cittadini. Vere e proprie ripartizioni amministrative , esse dovevano fornire alle avarie centurie i contingenti militari, nonché il sostentamento a loro necessario. Gravava infatti sulle tribù l’onere di un tributo : già gli antichi associavano il termine tributum a tribus. Questa forma primitiva di tassazione , riscossa dai tribuni aerarii, antichi magistrati della tribù , era commisurata all’entità delle proprietà dei singoli cives e aveva precipui scopi bellici. Anche qui ci troviamo di fronte a quella che è la probabile concentrazione di un processo storico più complesso, giacché sembrano sovrapporsi addirittura due sistemi successivi. Il primo, fondato sulla distribuzione di tutti i cittadini in quattro tribù < urbane > che avrebbero ricompreso non solo la cinta urbana, ma anche il territorio circostante. Immediatamente di seguito , forse sotto lo stesso Servio, alle prime quattro tribù urbane , si sarebbero aggiunte le nuove tribù rustiche, realizzando una distribuzione più articolata della cittadinanza. Nelle tribù urbane sarebbero stati raggruppati gli individui privi di proprietà fondiaria, mentre nelle tribù rustiche ( che all’epoca della cacciata dei Tarquini ammontavano a quindici ) furono collocati i proprietari dei fondi in esse situati. In tal modo diventava immediatamente rilevabile la distribuzione della ricchezza fondiaria ( il criterio su cui era fondata la distribuzione dei cittadini nelle varie classi delle centurie ) che invece, sia nel sistema delle sole quattro tribù urbane che in quello precedente delle tre originarie tribù , non aveva rilevanza. Mentre poi la denominazione delle quattro tribù urbane si riferiva a entità territoriali ( Subarana , Esqquiliana, Collina e Palatina) , quella delle più antiche tribù rustiche derivava dall’onomastica gentilizia. Questo non significa naturalmente, che la struttura interna di codeste tribù fosse fondata sui legami gentilizi : al contrario, l’appartenenza a esse era data dalla proprietà individuale della terra. E’ però possibile che siffatti riferimenti onomastici attestino la persistenza, all’interno di queste tribù , in aree omogenee e con una loro identità territoriale , di gruppi compatti di proprietari appartenenti alla stessa gens.. Solo a partire dagli inizi del V secolo a.C. comincerà con la Clustumina la serie di tribù con nomi locali. Solo con le tribù rustiche poteva essere rilevata in modo adeguato la ripartizione della proprietà fondiaria : la base delle ricchezze individuali. Nell’ipotesi quindi in cui il nuove assetto centuriato si fosse esaurito nelle centurie di juniores, esso avrebbe tagliato fuori proprio quei patres più anziani , titolari di quella ricchezza familiare in base a cui i figli potevano essere inseriti in una adeguata classe di centurie. Solo distribuendo tutta la popolazione nelle diverse tribù territoriali si PAGE 166 poteva rendere trasparente l’organico cittadino, identificandone le varie unità familiari e i corrispondenti livelli sociali e di proprietà che costituivano la base dello stesso ordinamento centuriato. In tal modo assumeva tutta la sua rilevanza l’unità familiare , definità < l’unità economica di base > del sistema centuriato, in relazione a cui il singolo cittadino veniva collocato in una classe o in un’altra di centurie. In tal modo diveniva definitiva la distinzione tra il mondo dei proprietari fondiari e quello, forse ancor più numeroso, dei nullatenenti, ammucchiati tutti nelle sole quattro tribù urbane , degradate ora a strutture pressoché residuali. Alle diciannove tribù esistenti alla fine dell’età monarchica avrebbe fatto seguito immediatamente l’istituzione di due nuove tribù. Numero destinato a crescere nei cento cinquant’anni successivi , per raggiungere quello definitivo di trentacinque, trentuno rustiche e quattro, le più antiche, urbane. 6 Controllo sociale e repressione penale Una delle conseguenze della stratificazione economica formalizzata dal sistema centuriato fu la quasi subitanea scomparsa di quei comportamenti di singoli o di gruppi familiari volti ad affermare una gerarchia sociale in forme individuali. Ci si riferisce al lusso funerario, venuto totalmente meno nel corso del VI secolo. Non certo in ragione di un impoverimento della società romana : tutt’altro. Questo diminuito fasto delle tombe corrispose infatti a una fase di grandi spese pubbliche, con la costruzione di importanti templi e di imponenti opere urbane. Per questo tale svolta appare piuttosto il risultato di un intervento autoritario della città, interessata a impedire le forme più estreme di emulazione nello sfoggio di ricchezze che, alla lunga , avrebbero potuto indebolire la stessa forza economica dei ceti aristocratici. Le prime leggi volte a stabilire un limite alle spese funerarie dovettero essere allora introdotte venendo poi recepite nella successiva legislazione delle XII Tavole . Un altro e più iportante settore della vita sociale in cui dovette aversi un incisivo intervento del rex , già prima dell’epoca etrusca, fu quello costituito dalla repressione dei comportamenti individuali pericolosi per l’ordinamento cittadino. In questo ambito infatti la sua azione dovette essere più diretta e innovatrice che nel più vasto campo dei mores. Giacchè ora la stessa esistenza della comunità moltiplicava , con la vicinanza, le occasioni di conflitto e , quindi, postulava l’introduzione di forme regolate di litigio atte a evitare il confronto violento e governate da procedimenti razionali. E’ allora che si dovettero consolidare i primi meccanismi di una procedura civile e di regole che permettessero agli organi cittadini di distribuire ragioni e torti tra i privati litiganti. La città intervenne precocemente anche a reprimere le condotte criminali dei singoli individui. Ciò iniziò in forma molto limitata, giacchè sino ancora nella legislazione delle XII Tavole quella che noi chiameremo la repressione criminale in senso proprio era circoscritta solo ad alcune condotte particolarmente gravi. Il resto era lasciato all’ancor forte autonomia dei singoli gruppi familiari e gentilizi e alla loro capacità di autodifesa. Dove al massimo la comunità interveniva a regolare le forme e sancire limiti della vendetta e dell’autodifesa privata. L’autonoma presenza della città, a imporre il proprio ordine, anche nella sfera criminale, senza intervento degli interessi privati lesi, concerneva pertanto due tipi di comportamenti : l’uccisione violenta di un membro della comunità , da un lato, forme di tradimento o azioni dirette contro l’esistenza stessa della comunità politica dall’altro. Questi ultimi tipi di condotta sono richiamati sotto i due termini di perduellio, crimine contro l’ordine politico e della civitas e di proditio, il tradimento con il nemico e comportano la morte del colpevole. Per quanto discussa e incerta nel suo fondamento etimologico , tuttavia è assai verosimile, che la condanna a morte del parricidas, sancita dalle XII tavole, non riguardasse solo l’uccisione del proprio padre, ma anche chi avesse uscciso un qualsiasi cittadino avente autonoma rilevanza rispetto alla comunità . In questi casi il rex interveniva direttamente attraverso suoi magistrati, i quaestores parricidii e i duoviri perduellionis. La loro esistenza conferma la novità di questi reati rispetto al mondo precivico. Accanto a questi casi, va ricordata una molteplicità di procedimenti repressivi di condotte asociali e dannose, alcuni dei quali d’efficacia immediata, che potremmo chiamare < di polizia >, e altri PAGE 166 stessi motivi, sarebbe stato il ripristino dell’originaria figura del < re sacerdote >, vanificando il rafforzato imperium dei re etruschi. L’aristocrazia gentilizia, rinunciando quindi al semplice ritorno alle origini latino – sabine, puntò piuttosto sull’ulteriore modifica delle riforme serviane. Fu , a ben vedere, un meccanismo abbastanza semplice, anche se non privo di difficoltà, quello da essa messo in atto e che consisteva del circoscrivere , senza però depotenziarlo, il vertice del governo cittadino. La soppressione del carattere vitalizio della carica suprema di governo e il suo sdoppiamento , con i due consoli eletti annualmente, realizzarono perfettamente tale riequilibrio , salvaguardando nondimeno il forte carattere militare assunto dal comando supremo in età etrusca. In tal modo si realizzavano le premesse per un permanente spostamento del baricentro politico a favore dell’altro organo del governo cittadino : il senato. I primi 50 anni del nuovo assetto repubblicano sono forse il periodo più oscuro e ricco di interrogativi di tutta la storia di Roma. Non poche , ma contraddittorie e lacunose, sono le notizie che gli autori antichi forniscono in proposito. Addirittura fonte di incertezza sono quei pur così importanti elenchi di magistrati eponimi ( i cui nomi , elencati in serie successive, servivano cioè a indicare l’anno della loro carica ) che hanno inizio con la repubblica . Giacché in questi < Fasti > come sono chiamati dai Romani, compaiono sino al 486 a.C. circa, acanto a nomi di consoli patrizi, anche quelli di magistrati plebei. Poi , questi nomi cessano, a conferma delle unanimi indicazioni degli storici antichi relative all’esclusione dei plebei dal consolato e dalle altre magistrature, così come dagli stessi ranghi del senato. Una volta che un tempo si tendeva semplicemente ad annullare , negando autenticità alle liste con i nomi plebei. Esse infatti smentivano una rappresentazione storica in termini di flussi lineari di eventi tutti concordanti in direzione univoca e che leggeva la storia repubblicana arcaica come una costante linea di crescita della plebe e non come un regresso seguito poi da una ripresa. E’ abbastanza verosimile , al contrario, che proprio così sia avvenuto e che la scomparsa di nomi plebei dai Fasti consolari corrisponda al momento di massimo arretramento di questo gruppo sociale di fronte alla ripresa gentilizia. D’altra parte tale questione si intreccia al problema della possibile precoce presenza, nel consesso dei patres, accento a costoro, di un certo numero di conscripti, estranei alle gentes patrizie. In effetti per la fase iniziale della repubblica, in cui alla suprema magistratura potendo ancora accedere anche non patrizi, è ben possibile che essi potessero rientrare nel senato, pur restando questo una roccaforte patrizia. Del resto, già nel senato monarchico è ben possibile la presenza di questi membri non patrizi. Non solo dei conscripti in tale epoca parlano le fonti antiche, ma anche l’inserimento selettivo di nuovi membri da parte del rex. L’incertezza più grave concerne tuttavia la sequenza complessiva delle innovazioni istituzionali. Stando alle fonti si dovrebbe ammettere che, con la caduta dei re si fosse addivenuti in Roma alla nomina di un supremo collegio di due consoli sino alla metà del V secolo, quando per due anni di seguito essi sarebbero stati sostituiti da un collegio di dieci membri avente anche il compito di raccogliere e redigere il testo delle leggi romane : i decemviri legibus scribundis. D’altra parte , con la liquidazione di siffatto collegio, nel 449 , il ripristino dei due consoli non sarebbe stato costante , essendo questa carica frequentemente sostituita dalla nomina di più tribuni militum consulari potestate. Sino cioè al 367 a. C. quando si sarebbe raggiunta la definitiva parificazione politica dei patrizi e plebei ammettendosi che uno dei due consoli, tornati a essere questi la magistratura ordinaria , potesse ( o dovesse ) essere plebeo. In effetti tra questa prima fase del consolato e il definitivo assetto del 367 a.C. intercorre un periodo troppo lungo perché non sorgano consistenti sospetti in ordine al significato stesso di tale intervallo, potendosi quindi dubitare che i due consoli del 367 a.C. costituiscano la mera continuazione di una situazione < ordinaria >, esistente sin dall’inizio del V secolo. In verità le incerte indicazioni di cui disponiamo potrebbero farci immaginare un lungo periodo di una certa quale < sperimentazione istituzionale>. La durata stessa di questa fase conferma tuttavia la presenza, sin dall’inizio, di alcuni elementi di fondo del nuovo assetto politico come condizione per il funzionamento complessivo della macchina politica. Tra essi si elenca anzitutto il forte limite temporale nelle supreme cariche di governo, la PAGE 166 fisionomia militare, unita all’elevata concentrazione dell’imperium loro attribuito , nonché , nel governo della città , l’accresciuto ruolo dell’esercito oplitico, con il valore deliberatamente dei comizi , e l’accresciuta rilevanza del consesso dei patres. Per questa prima età non si può andare molto oltre , giacché lo stesso quadro istituzionale appare oscurato dall’intensità con cui nelle fonti antiche relative al V secolo a.C. , si impone in primo piano il conflitto tra i due ordini sociali : i patrizi e i plebei . Specie dopo l’esclusione di questi ultimi dalla suprema magistratura repubblicana. . L’accento degli antichi, in relazione al mutamento istituzionale intervenuto con la cacciata dei Tarquini, esalta la nuova libertas repubblicana. Avremo modo di vedere quanto di ideologico e di formato si annidi in questa prospettiva, anche perché non si deve dimenticare come gli spazi del civis, in Roma non meno che nelle altre città antiche, fossero sempre e comunque condizionati e limitati dal supremo valore costituito dalla salvezza e dagli interessi della città . Connaturato a tale libertas è comunque il fondamentale diritto riconosciuto a ciascun cittadino di appellarsi al popolo di fronte al potere di repressione criminale del magistrato , sino ad allora giudice ultimo sulle questioni di vita e di morte. E’ possibile che una prima legge in tal senso fosse approvata sin dall’inizio della repubblica, certo essa dovette essere ribadita e meglio formulata nel 449 a.C. , immediatamente di seguito alle XII Tavole, con una legge Valeria Orazia in cui si vietava ai magistrati competenti di mettere a morte un cittadino romano colpevole di una colpa capitale, senza previa consultazione del popolo riunito nei comizi ( provocatio ad polum ). Tale normativa avrebbe altresì vietato di istituire una qualsiasi magistratura sottratta a questo potere di provocatio, concepito come una suprema garanzia per tutti i cittadini. E’ chiaro il particolare interesse plebeo per tale garanzia, se si considera come le magistrature contro cui si introducevano queste limitazioni fossero ancora di esclusiva estrazione patrizia. Ciò non toglie che questa garanzia fosse largamente insufficiente ad attenuare il violento conflitto ancora in corso tra i due gruppi contrapposti. 2 Patrizi e plebei E’ del tutto verosimile che la fisionomia unitaria della plebe sia il risultato dell’azione politica patrizia dei primi annni della repubblica destinata a innescare il prolungato conflitto, sviluppatosi su più piani. Anzitutto quello politico : che concerneva , la radicale esclusione plebea dal governo della città : dalle supreme magistrature sino ai collegi sacerdotali. Il contenuto dello scontro è di per sé evidente, riguardando la pretesa equiparazione dei due ordini. Più articolato appare il confronto economico, che si sviluppò essenzialmente su due piani. Anzitutto vi è la richiesta di un alleggerimento dei debiti che opprimevano gli strati economicamente più deboli della città . In moltissime società precapitalistiche i ceti agricoli più poveri erano infatti i più esposti al flagello dei debiti: bastava un’annata o poche annate di cattivi raccolti e subito le riserve familiari e la stessa semente venivano consumate. A questo punto il processo d’indebitamento s’aggravava sia per il peso degli interessi che per le difficoltà di ricostituire il capitale d’esercizio, compreso il sostentamento della famiglia contadina. Di qui i rischi crescenti di perdita del campicello avito e di riduzione in totale povertà . A ciò , nella Roma arcaica, s’aggiungeva una forma di esecuzione personale particolarmente gravosa in cui il debitore finiva in condizione semiservile ( nexum ) o , addirittura, con la sua definitiva insolvenza, veniva venduto come schiavo in territorio straniero ( trans Tiberim) . Ma il contrasto appare ancora più grave, rischiando di portare a radicali lacerazioni della società romana fu, sin dal V secolo , lo sfruttamento della terra. Gli antichi ricordano infatti l’insistente richiesta plebea di distribuire in proprietà privata a tutti i cittadini i territori strappati ai nemici. Tale pretesa si scontrò con la decisa opposizione dei patrizi, interessati a conservare la maggior parte nella forma dell’ager publicus di pertinenza della città , ma sfruttato direttamente dai privati. Della gravità del conflitto dà la misura la crisi e la messa a morte , per opera patrizia, dello steso Spurio Cassio che aveva tentato di venire incontro alle aspirazioni dei plebei. PAGE 166 L’accusa rivolta da questi ai patrizi è che essi volessero di fatto mantenere il controllo di tali terre, a favore loro e dei loro clienti. Ciò che ha indotto la grande maggioranza degli storici a supporre un’originaria esclusione dei plebei di fatto almeno, se non di diritto , dal possesso e dallo sfruttamento dell’ager publicus. Non si capirebbe altrimenti l’interesse a trasformare questo ager in proprietà privata che sembra ispirare la politica plebea. Si crede che gli antichi,scrivendo alla fine della repubblica o in età imperiale, molti secoli dopo gli eventi da loro narrati e in un contesto assolutamente diverso, inevitabilmente utilizzassero le categorie dei loro giorni. Dove appunto tutto il territorio romano o era publicus o era in proprietà individuale dei cittadini. Essi pertanto qualificavano come < pubbliche > cioè della città , le terre che apparivano sottratte alla proprietà dei privati. Ma nelle terre introno a cui si dovette sviluppare la lotta patrizio – plebea, nel primo secolo della repubblica, dovevano essere ricomprese anche quelle aree, da sempre , quindi ancor prima dell’affermarsi della città, di pertinenza delle varie genti. Tra cui non si devono dimenticare i vasti pascoli ai quali era associata parte della ricchezza gentilizia. Contro questo monopoli gentilizio e soprattutto a bloccare un suo ulteriore incremento a seguito di nuove conquiste, si mosse dunque la richiesta plebea di distribuire tutte le terre in proprietà privata, rispetto a cui le famiglie plebee si sarebbero trovate sullo stesso piano delle famiglie appartenenti alle gentes patrizie. Per quanto concerne infine l’aspetto sociale della contrapposizione tra plebei e patrizi, il punto centrale è in genere indicato dall’assenza del connubio. Il che escludeva la possibilità di un rapporto matrimoniale valido fra un patrizio e una plebea o viceversa. Questo avrebbe comportato la degradazione sociale dei figli nati da tale matrimoni, esclusi comunque dai ranghi del patriziato, oltre alla perdita di rango della sposa , se essa era d’origine patrizia. Una sanzione che ribadiva formalmente l’inferiorità sociale dei plebei : i quali , infatti, contro di essa si batterono,sino a ottenerne il superamento con la lex Canuleia del 445 a.C. Il ricompattamento della plebe contro questo sistema di esclusioni fu talmente violento e consistente da minacciare la sopravvivenza stessa della comunità politica. La crisi fu superata solo con il riconoscimento alla plebe di un insieme di strumenti protettivi rispetto alle prevaricazioni delle magistrature patrizie. A guidare la secessione plebea si erano posti dei magistrati, ispirati alla figura dei tribuni militum, o addirittura alcuni tribuni militum dell’esercito centuriato schieratisi con la plebe, che avevano assunto il nome di tribuni della plebe. Il compromesso politico che ne seguì comportò il loro riconoscimento come organi della città : sancendo dunque il loro < diritto d’aiuto > ( ius auxilii ) a favore della plebe. Ma proprio questo carattere escluse per molto tempo la loro partecipazione all’effettivo governo della città, attribuendo a essi invece una generalizzata e sempre più penetrante funzione di controllo nei riguardi dell’azione degli altri magistrati repubblicani. Il loro potere d’intervento < negativo > s’estese, in effetti, all’intera vita politica cittadina, sostanziandosi nella possibilità loro riconosciuta d’interporre l’intercessio : un vero e proprio veto, contro qualsiasi atto o delibera dei magistrati o dello stesso senato. In tal modo l’autorità dei tribuni era lungi dall’essere subalterna alle strutture cittadine, potendo, in teoria , giungere a paralizzare nel suo complesso la vita stessa della comunità . A ben vedere, era lo stesso meccanismo della secessione, la minaccia di dissoluzione del patto che univa i cittadini all’interno della polis, a trasferirsi così all’interno delle strutture istituzionali romane. La posizione di questi magistrati era poi rafforzata dal carattere sacrosanto della loro persona, originariamente affermato con una lex sacrata e sempre in seguito confermato. Questa a sua volta , consisteva in un giuramento assunto collettivamente dalla plebe ma vincolante, per il suo fondamento religioso, l’intera comunità . Con tali leges la componente plebea si poneva come forza autonoma, in grado di ridisegnare l’intero impianto cittadino. Il suo punto di forza era l’assemblea , il concilium plebis, organizzata sulla base della distribuzione per tribù territoriali, che votava proprie delibere : i plebisciti , ed eleggeva propri magistrati : i tribuni e in seguito gli edili. Si trattava solo dei primi, sebbene fondamentali , passi verso un più vasto processo di equiparazione, ancora da realizzarsi , giacché né era stato rimosso il monopolio delle cariche magistratuali, nè si erano accolte le altre pretese plebee volte a riequilibrare i rapporti di carattere PAGE 166 primo aspetto , che ci riporta a epoca talvolta ben più antica delle XII Tavole, lo si può trovare in gran parte del sistema che regola le obbligazioni legali liberamente contratte tra i privati. Tali rapporti infatti si sostanziano in forme immediatamente o mediate di dipendenza personale : il debitore è < legato >, sottoposto anche personalmente al potere del creditore. La figura più importante è quella del nexum, dove il terme latino evoca appunto un legame materiale che vincola giuridicamente. La stessa logica arcaica la ritroviamo poi nell’insieme di vincoli personali derivanti dalle conseguenze di azioni dannose e illegittime. In essi infatti le forme primitive delle obbligazioni si saldano alle forme semiprivate delle sanzioni. Tuttavia, proprio in questo campo, già si introduce un elemento nuovo costituito dalla possibilità per le parti di un accordo privato e tra loro vincolante, un pacisci, da cui poi il pacrum come fonte di obbligazione , che supera lo stadio della vendetta ( peraltro egualmente sancita nelle XII Tavole con la cosiddetta < legge del taglione > ) per giungere , peraltro in un arco di tempo abbastanza lungo , alla nozione, capace di evolversi sino ai giorni nostri di < transazione >, di < accordo privato vincolante> e fonte , a sua volta , di un nuovo tipo di obbligazioni. Poco sviluppato appare ancora l’intervento diretto nella comunità a reprimere i comportamenti illeciti dei singoli, regolati, più attraverso la tutela fornita alla reazione delle parti lese che non autonomamente dagli organi cittadini. Predecemvirale appare anche la fisionomia che caratterizza la struttura base dell’organizzazione sociale : la famiglia nucleare dominata dalla centralità del pater familias, in pratica l’unico titolare di diritti, legittimato alla loro gestione. Un sistema , alternativo e disgregativo di un possibile ruolo delle gentes come soggetto collettivo di diritti e poteri all’interno della città . Di contro, fu il sistema decemvirale a introdurre in seguito più o meno ampi correttivi e fattori di elasticità alla pesante autorità del pater familias. Li cogliamo nel meccanismo ideato per rompere la patria potestà del pater, mediante una particolare applicazione della mancipatio. Ma ancor più importante, sotto tale profilo , appare il superamento del sistema oppressivo e rigidamente patriarcale costituito dal matrimonio com manu che necessariamente assimilava la moglie alla condizione di una figlia di famiglia sottomessa alla piena potestà del marito. In linea di massima il sistema giuridico adombrato dalle XII Tavole, per ciò che del loro contenuto è a noi pervenuto , corrisponde a una società agraria relativamente stabile. Al centro di esso si pone coerentemente la figura della proprietà fondiaria. Essa non appare isolata ma governata piuttosto da un insieme di regole che miravano a integrarla all’interno di un coerente assetto territoriale, volto a massimizzare i vantaggi a favore di tutti i fondi interessati. Esse da un lato vietavano per quanto possibile le turbative a danno dei vicini, e introducevano una più vasta regolamentazione territoriale, avviando quella successiva straordinaria esperienza romana rappresentata dalla centuratio. Dove appare centrale la duplice preoccupazione di assicurare una buona viabilità locale e un adeguato controllo delle acque, sin da allora, in certi periodi dell’anno, pericolose per le culture e la stessa preservazione dei campi agricoli. I beni in proprietà sono distinti poi in due categorie diverse , le res mancipi e necmancipi, sottoposte a un diverso regime di circolazione. Per le prime, in generale le cose più importanti in un’economia primitiva, anzitutto gli immobili il trasferimento della proprietà era possibile solo attraverso l’impiego di una forma negoziale particolarmente solenne e che coinvolgeva la presenza di una pluralità di testimoni : la mancipatio . Ma ancor più interessante è la presenza dell’usus a sanare gli eventuali vizi intervenuti negli atti di trasferimento della proprietà stessa e, in particolare, della mancipatio. E’ questo un esempio molto importante delle innovazioni che l’interpretatio pontificale aveva introdotto in funzione della massima certezza del diritto. Non può infine meravigliare , in una società piuttosto statica ed in cui lignaggi e appartenenze familiari e di clan erano ancora così importanti anche sotto il profilo istituzionale che il sistema della successione dei familiari nel patrimonio del defunto fosse ben disciplinato. Anche se la libertà del pater di disporre del suo patrimonio mediante testamento appare, dal punto di vista sociale, ancora più significativa e ricca di conseguenze. Sarà soprattutto nel secolo e mezzo successivo all’introduzione di questa legislazione, che l’interpretazione dei pontefici, oltre che dei magistrati competenti a regolare i processi tra i cittadini, avrebbe potentemente contribuito a sviluppare nella pratica un’applicazione sempre più PAGE 166 innovativa e ampia delle regole decemvirali, adattandole alle esigenze di una società in trasformazione. Spesso dagli storici questo lungo periodo di gestione di un sistema giuridico più moderno è stato trascurato, con il risultato di concentrare nell’età dei grandi mutamenti culturali e istituzionali, successiva alle guerre annibaliche, gli inizi di un < più moderno > sistema giuridico. In tal modo però si trascura la precedente, ricchissima fase di sperimentazione delle innovazioni che la stessa evoluzione di una società , come quella romana, già richiedeva. 4 La conclusione di un percorso Si è già accennato ad alcune delle tappe della lenta ripresa plebea : l’istituzione dei tribuni, tra il 494 e il 471 c. C. , quando la loro elezione fu deferita con una lex Publica ai comizi tributi, la legislazione decemvirale, intervenuta nella metà del secolo, le coeve leggi Valerie Orazie, a conferma del diritto di provocatio dei cittadini, sino infine alla lex Canulia di pochi anni successiva. Aveva così iniziato la lunga e abbastanza frammentaria sperimentazione istituzionale con la frequente sospensione della coppia consolare per l’accentuarsi della pressione per l’ammissione dei plebei a tale carica. Onde evitare d’irrigidirsi in una sempre più difficile esclusione dei plebei dal consolato, si preferì sospendere la nomina di tali magistrati, anche forse in ragione di esigenze militari che richiedevano un numero di magistrati com imperio maggiore della sola coppia consolare. Così , in molti degli anni che vanno dal 444 al 368 a. C. al posto della coppia consolare, si provvide ad attribuire l’imperium consulare agli ufficiali delle legioni : i tribuni militum. Questi , eletti in numero da tre a sei, sostituirono la coppia consolare, essendo titolari di un imperium di rango e forza minori di quello dei consoli , tant’è che costoro potevano convocare il senato solo in via eccezionale, non conservavano dopo la carica il prestigio e il ruolo particolare degli ex consoli ed erano esclusi dal trionfo. Che in tal modo si accentuasse l’erosione della supremazia patrizia, lo mostra il fatto che, verso la fine del secolo, a tale carica vennero eletti anche elementi plebei. D’altra parte questo meccanismo rispondeva anche all’esigenza di articolare maggiormente il governo cittadino. Un’esigenza oggettiva, come mostra un’ altra importante innovazione, costituita dall’introduzione, verso il 442 a. C. della censura. Si trattava di una nuova importante magistratura preposta alla delicatissima funzione di effettuare il censimento della città. Sin dall’inizio dovette definirsi la netta separazione tra le funzioni del censore e il ruolo di governo dei magistrati cum imperio, destinata a persistere nel corso di tutta la repubblica. Il secolo si chiudeva dunque con sostanziali progressi verso l’equiparazione politica dei due ordini, mentre restava immutato il monopolio patrizio sulle terre pubbliche e addirittura aggravato il problema dell’indebitamento degli strati più poveri della plebe. E’ qui, però, che negli anni immediatamente successivi intervenne la svolta destinata a far superare questi nodi che avevano avvelenato la vita della città sin dalla caduta dei Tarquini. Nel 396 a.C. si concluse infatti vittoriosamente l’annoso tentativo di Roma di conquistare militarmente la potente città etrusca di Veio, che bloccava la sua espansione verso il Nord. Questa vittoria, seguita rapidamente dall’acquisizione dei territori intermedi, e dall’accentuata espansione anche verso il Lazio meridionale, a seguito del durissimo confronto con la popolazioni ivi insediata, i Volsci , fece cadere in mano romana un enorme e ricco patrimonio fondiario, che portò in pratica a raddoppiare il precedente ager Romanus. Tutto ciò ebbe a riflettersi positivamente anche sul lungo stallo che aveva caratterizzato la lotta patrizio – plebea in ambito sociale ed economico. La distribuzione a tutti i cittadini romani di un apprezzamento di sette iugeri ricavati dalle terre strappate a Veio ( circa due ettari ) attenuò l’interesse plebeo per la redistribuzione dell’antico ager publicus, al centro della costante e quasi ossessiva rivendicazione che attraversa tutto il V secolo. Ma questa stessa redistribuzione di ricchezza alleggerì anche la pressione esercitata sugli strati più deboli dai processi d’indebitamento : l’altro punto centrale delle rivendicazioni plebee. Questa modalità di distribuzione della terra veiente comportò l’acquisizione per le varie famiglie di un multiplo dei sette iugeri assegnati a ciascun cittadino. In base al regime della proprietà vigente in Roma, che riconosceva tale diritto solo al pater familias, i vari lotti assegnati ai cittadini in età PAGE 166 adulta, ma ancora sotto la potestas del padre tuttora vivente, venivano a sommarsi nelle mani di quest’ultimo dando origine, nel caso di famiglie abbastanza numerose, a unità fondiarie di notevoli dimensioni. Il riassetto interno avviato con le distribuzioni di terra veiente aprì un processo destinato a concludersi circa trent’anni dopo, nel 367 , con il compromesso patrizio – plebeo. E’ in quell’epoca che le basi economiche della società romana si allargarono in misura consistente, innescando un rapido processo d’espansione della proprietà agraria, ma anche di quei meccanismi finanziari e mercantili che avrebbero reso possibile, a partire dalla fine del secolo, una nuova fase , sia in termini meramente militari, sia con una colossale politica di opere pubbliche. Nel 367 a. C. furono così approvate tre distinte proposte di legge che, dai magistrati proponenti sono ricordate come le Leggi Licine Sestie. Nella memoria storica dei Romani esse appaiono come un fondamentale punto di svolta nella lunga vicenda della lotta patrizio – plebea con il quale la plebe appare conseguire gran parte degli obiettivi principali che si era prefissi, sia sul piano politico che economico – sociale. Ciò non vuol dire che , in via legislativa, si fosse realizzata una rivoluzione che annullava dalla sera alla mattina la precedente realtà , cancellando integralmente i precedenti squilibri. Questo non solo non era possibile, data la consistente difesa degli interessi patrizi, ma non era neppure consono a una concezione della politica e della società così tradizionalista come quella romana. Con la legislazione del 367 a.C. si accelerò piuttosto un processo di trasformazione delle strutture politico – istituzionali e sociali di Roma che rese possibile un’intima saldatura tra i due ordini sociali. I patrizi e i plebei restarono distinti per tutta l’età repubblicana e oltre ancora, ma a livello politico essi vennero rapidamente fondandosi in un nuovo ceto di governo patrizio – plebeo , mentre la centralità della proprietà individuale della terra e lo stesso carattere individualistico delle terre pubbliche sfruttate dai privati completò la già avviata dissoluzione delle arcaiche strutture gentilizie che da allora persero ogni residuo ruolo economico. L’intera società romana veniva così riplasmata profondamente , distaccandosi definitivamente dall’involucro arcaicizzante e superando quel conflitto interno che ne aveva bloccato , o almeno limitato , i potenziali sviluppi. Quanto i processi di crescita già avviati avessero reso matura la situazione per il superamento degli antichi contrasti, lo mostra il fatto che la nuova legislazione introdotta nel 367 a. C. avviò quasi immediatamente l’unificazione politica della città, destinata a tradursi altrettanto rapidamente in una formidabile e durevole spinta espansionista. La prima delle tre Leggi Licinie Sestie prevedeva che uno dei due consoli potesse essere plebeo ( divenendo ciò un vincolo solo in seguito ). Si apriva così la strada per la piena partecipazione della plebe a tutte le cariche politiche e religiose romane. Con la seconda legge si introduceva un limite al possesso di terre pubbliche da parte di ciascun cittadino, cosicché , con la definitiva frantumazione delle terre dei patrizi, i possessi di minori lotti di terre pubbliche divennero effettivamente accessibili a un maggior numero di cittadini, ivi compresi i plebei. Per i debiti, l’ultima legge prevedeva infine una serie di provvedimenti volti a limitare il peso di questi, prevedendo che gli interessi già pagati dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Un insieme di norme di grandissima rilevanza sociale, limitava e poi sopprimeva definitivamente l’asservimento personale del debitore, rompendo le forme di dipendenza arcaiche. Il cittadino indebitato era così sottratto all’asservimento personale da parte del creditore, restando vincolato solo sul piano giuridico ed economico. E’ in quell’epoca che ormai l’unica vera forma di lavoro dipendente divenne la < moderna > schiavitù, destinata a rappresentare un elemento fondante dell’economia romana per tutta la sua storia successiva. La sequenza politico – sociale che si innesta a partire dal 396 è d’impressionante evidenza. Da un lato infatti, dopo un ristagno durato tutto il V secolo, in rapida successione tra il 387 e il 332, ben otto nuove tribù si aggiunsero al precedente nucleo delle 17 tribù rustiche , compeltatosi nel 495 a.C. nel successivo periodo conclusosi nel 241 a.C. si completò il numero complessivo delle tribù , giungendo al totale di 31 tribù rustiche non più destinato a mutare. D’altra parte con la svolta del 367 a.C. si era ormai pervenuti al completamento dell’architettura costituzionale della città. Con essa i censori, successivamente al compromesso patrizio – plebeo del 367 a.C. , assumevano una fisionomia più netta , precisandosi le loro competenze per quanto PAGE 166 perché significava che ciascuno dei due aveva il potere di paralizzare qualsiasi attività del collega con quel singolare strumento costituito dall’intercesso. Una facoltà che i consoli potevano esercitare anche verso qualsiasi altro magistrato cittadino , a eccezione del dittatore ( la cui presenza, comunque, in origine era alternativa alla loro persistenza in carica ). Un sistema del genere, indubbiamente, rendeva possibile l’esplosione di crisi non risolvibili all’interno della dinamica delle magistrature stesse. Crisi tanto più gravi ove fossero intervenute in tempo di guerra dove, in teoria, il comando militare era indiviso, rendendo così possibili interferenze ancora più gravi , sino a paralizzare la gestione efficace di una campagna militare. Solo in via empirica si cercò di ovviare a tali inconvenienti, sempre con la regia del senato, dividendo in pratica le competenze e lasciando ciascun console a gestire in modo relativamente autonomo certi settori della cosa pubblica. Ma nulla vietava che entrambi i consoli si ponessero alla testa della stessa armata romana, sino a dover governare , ad esempio, un giorno per uno : anche qui con ovvi ed evidenti inconvenienti pratici in termini di efficienza e certezza delle scelte intraprese. Nel corso del tempo l’ambito di competenze assegnate , con la regia del senato, a ciascuno dei due consoli si definì in modo più netto. Esso venne indicato con il termine provincia , che poi sarebbe passato indicare l’oggetto primario dell’imperium magistratuale, e cioè il territorio extraitalico su cui esso si esercitava. La titolarità dell’intercessio da parte dei consoli nei riguardi degli altri magistrati sanciva anche formalmente il carattere gerarchico dell’ordinamento delle magistrature repubblicane. Man mano che , nel tempo, aumentarono il numero e le figure di magistrati, si chiarirà il ruolo superiore e centrale dei consoli, rispetto a tutte le altre figure in posizione subordinata, a eccezione dei censori, eccentrici rispetto all’intero sistema magistratuale. Come l’imperium consulare derivava direttamente dal potere del rex, egualmente la simbologia ad esso relativa, introdotta dai re etruschi, si trasmise intatta ai consoli : il colore porpora dei bordi della loro tunica, il particolare seggio magistratuale e soprattutto i littori : le guardie del corpo munite dei fasci e delle scuri, evocatrici, del loro potere di repressione, sino alla condanna a morte del colpevole. Tuttavia , in considerazione della provocatio nella vita civile, la scure avrebbe accompagnato il console solo nelle campagne militari. I consoli sono inoltre magistrati eponimi : per individuare l’anno , i Romani richiamano il nome dei due consoli in carica. Altro aspetto fondamentale di questa figura, ma ciò si estenderà necessariamente a tutte le altre magistrature , è l’inviolabilità della persona del magistrato contro cui non può essere portata, durante l’anno di carica, alcuna azione materiale e neppure una pretesa legale. Sin dagli inizi della repubblica i Romani, sospendendo il funzionamento delle cariche ordinarie, potevano ricorrere, in situazioni di particolare pericolo, a una magistratura straordinaria : la dittatura. Il dittatore era unico, essendo titolare di un imperium che, almeno in origine, era più forte e concentrato di quello dei consoli, in ragione della eccezionalità del provvedimento e del suo carattere di emergenza. Il dictator, almeno sino alla fine del III secolo a.C. , non era eletto, ma nominato da uno dei consoli con l’accordo del collega e del senato. Egli non aveva in origine alcuna di quelle limitazioni che la libertas repubblicana aveva introdotto nei riguardi dei magistrati ordinari. La nomina del dittatore mirava dapprima a far fronte a gravi crisi di carattere militare e aveva essenzialmente funzioni di difesa da pericoli esterni. Lo prova non solo la sua derivazione dalla figura del magister populi, il comandante dell’esercito dell’età monarchica, non a caso chiamato a nomianre anch’egli un suo magister equitum , ma anche il fatto che la carica non durasse oltre sei mesi delle antiche campagne militari che si svolgevano essenzialmente nel periodo estivo. Questo carattere non verrà meno, anche se in seguito le competenze del dittatore s’ ampliarono , agli aspetti immediatamente militari del governo della res publica, a quelli religiosi e politici. 2 . Il pretore e le altre magistrature Accanto e sotto i consoli, sin dall’inizio, fu introdotta una serie di collaboratori civili e militari. La figura più rilevante è senz’altro rappresentata dal pretore, cui era deferita la giurisdizione sui processi tra i privati. Questi era, come i consoli, titolare del supremo potere di comando, PAGE 166 l’imperium, ma era gerarchicamente inferiore a essi: esposto quindi alla loro interessio, incapace però di interporre contro di loro la propria. Nondimeno anche il suo imperium lo legittimava, se necessario, a esercitare il comando militare, guidando gli eserciti romani fuori del confine sacro della città, cioè che avvenne abbastanza di frequente , dati i crescenti impegni militari di Roma e il moltiplicarsi degli scenari di guerra. La funzione primaria del pretore è tuttavia riferita essenzialmente alla sfera processuale e per questo è indicata con un termine specifico : iurisdictio , da ius dicere : < dire il diritto>. La iurisdictio del pretore si sostanziò essenzialmente nel controllo delle procedure e nella verifica della legittimità delle pretese in conformità a quello che era il diritto vigente. Nell’esercizio di questa sua competenza si dovette precocemente verificare un fenomeno gravido di conseguenze e che avrebbe reso possibile una straordinaria evoluzione e maturazione delle forme processuali e giuridiche romane : la separazione tra il ruolo del magistrato e la valutazione delle specifiche circostanze oggetto della controversia a lui sottoposta dai privati. Nel sistema processuale, diviso in due fasi, la sentenza che decideva della causa era lasciata ad un giudice privato, in base all’accertamento dei fatti materiali adotti dalle parti, il cui inquadramento nell’ambito degli schemi giuridici, tuttavia, non era di sua competenza. La scissione in due fasi del processo romano evidenziava infatti la presenza di due convergenti meccanismi : l’accertamento dei fatti materiali cui si riferiva il litigio processuale ed il loro inquadramento all’interno del sistema di regole proprie del diritto romano. Ora questo secondo e primario aspetto era di stretta competenza del pretore e dalla sua definizione prendevano significato i fatti stessi lasciati, all’accertamento del giudice privato. Tale scissione era destinata a facilitare una sempre più autonoma elaborazione delle categorie giuridiche di riferimento da parte del magistrato giusdicente. Ad una condizione, tuttavia, che si superasse la rigidità delle più arcaiche forme processuali per legis actiones. Con esse infatti lo stretto formalismo del comportamento dei litiganti, la rigida predeterminazione delle pretese adducibili in giudizio e la fissità delle formule ( e dei contenuti legali cui essi si riferivano ) che le parti e il magistrato dovevano recitare, lasciavano poco spazio al suo ruolo giurisdizionale . E’ qui dunque che intervenne , a partire dalla seconda metà del III secolo, un’innovazione di grande rilievo, allorché il pretore estese la forza del suo imperium all’interno del processo. Nel compiuto disegno istituzionale del 167 a.C. il sistema di governo della città è costituito da un gruppo di magistrature superiori, rappresentato dai censori , e dalle altre magistrature com imperio: i consoli, il pretore e da una magistratura straordinaria costituita dal dictator. Al di sotto di queste figure si collocano le magistrature minori , con funzioni più circoscritte e munite di una semplice potestas che ne legittimava l’azione. Ogni magistrato poteva e doveva poi interrogare gli dei per poter esperire le proprie funzioni in piena legittimità ; anche qui scattava la rigida gerarchia che separava i magistrati com imperio da quelli cum potestate. I primi erano infatti titolari degli auspicia maiora, i secondi invece degli auspicia minora. I magistrati com imperio , poi, si avvalevano , nell’espletamento delle loro funzioni , di un consilium di carattere privato , composto da amici e cittadini autorevoli , che contribuivano comunque a rafforzare l’autorità e l’efficacia della loro azione. Tra questi magistrati minori vi erano i duoviri perduellionis e i questores parricidii, competenti per la repressione dei maggiori crimini. Ma assai più importanti per l’articolarsi delle loro competenze furono altri magistrati creati in funzione di una diretta collaborazione con i consoli. Si tratta dei quaestores, introdotti in numero di due, alla fine del IV secolo elevati a quattro e , infine, nel 267 a.C. durante la Prima guerra punica, raddoppiati a otto. Non a caso questi nuovi quattro questori furono preposti al controllo delle coste e all’allestimento della flotta. La loro competenza principale riguardava gli affari civili e, anzitutto, l’amministrazione delle finanze statali, in collaborazione con i censori, e sotto le direttive del senato. Ma , questa figura fu utilizzata per una molteplicità di ulteriori incombenze, in seguito anche per collaborare con i governatori provinciali. Per il governo dell’esercito si ripropone la figura dei tribuni militum : alcuni di diretta nomina dei consoli, altri eletti anch’essi dai comizi. Questi magistrati, nominati annualmente, costituiscono il gruppo che potremmo chiamare di < ufficiali superiori> al comando dell’intero esercito. Questo, a PAGE 166 sua volta è organizzato per legioni che continuano a essere la struttura fondamentale dello schieramento militare romano. L’elevato numero di questi tribuni militum, 24, comportò il fato che non tutti, tutti gli anni, prestassero effettivamente servizio nelle legioni. Le nuove esigenze intervenute con il primo scontro con Cartagine, sono inoltre all’origine dei duoviri navales , preposti al comando della flotta allora creata. Si tratta però di una magistratura che non divenne permanente nel sistema romano. Una delle prime e più importanti acquisizioni dei plebei , per rompere la loro originale emarginazione dagli affari della repubblica, fu il riconoscimento e l’integrazione , nell’assetto repubblicano, di una loro magistratura : i tribuni della plebe. La loro fisionomia può essere definita in termini di un < contropotere> nei riguardi dello stesso sistema istituzionale costituito dai supremi magistrati e dal senato, in funzione della difesa degli interessi dei plebei ( auxilium praestare). Vari erano gli strumenti pratici di cui disponevano : oltre al potere d’intervento e di sanzionare contro gli autori di condotte dannose a carico dei plebei ( multae irrogatio), potevano interporre l’intercessio contro qualsiasi iniziativa magistratuale. Senza considerare una ancor più pericolosa facoltà consistente nella summa coercendi potestas, con cui il tribuno, pur privo di imperium , poteva giungere a uccidere il trasgressore delle leggi sacrate, compreso qualsiasi magistrato repubblicano , o comminargli la consacrazione dei beni senza l’ostacolo della provocatio. Essi potevano convocare la plebe in assemblea, organizzata per tribù territoriali, proponendo l’approvazione di delibere comuni ( plebei scita ). L’originaria natura rivoluzionaria della lotta da cui era scaturita l’istituzione dei tribuni si rifletteva sulla persistente loro estraneità al sistema dei magistrati preposti al governo della città e, conseguentemente, alla logica del cursus honorum. D’altra parte la stessa funzione di difesa della plebe a essi affidata, vincolava l’azione e persino la persona dei tribuni all’interno della sfera cittadina, essendo loro precluso di allontanarsi da Roma , anche solo per una notte. Va infine ricordato l’introduzione, accanto ai tribuni, degli edili della plebe con compiti organizzativi all’interno della città. Accanto a essi , in seguito , saranno introdotti gli edili curuli ( dal particolare tipo di sedile, la < sella curule> di spettanza dei magistrati romani), appartenenti invece alle magistrature cittadine. Questa figura avrà la funzione di sovrintendere alla vita materiale ed economica della città, dai mercati alla viabilità, dalla polizia all’igiene, alle cerimonie pubbliche e, in seguito , ai giochi pubblici. Il controllo dei mercati ebbe rilevanza particolare, giacché esso era finalizzato anzitutto a garantire un adeguato approvvigionamento dei beni di prima necessità, comportando anche una costante sorveglianza sull’andamento dei prezzi. A tal fine gli edili furono titolari di una limitata giurisdizione sui mercati e le transazioni cittadine, emanando loro editti cui si rivolse anche l’attuazione dei giuristi. Un’innovazione ancor più importante era stata, nel 442 a.C. , l’introduzione dei censori che riprendeva così una funzione già dei re etruschi e dei primi consoli. In effetti la redazione del censimento della popolazione era un compito quanto mai delicato giacché in base alle liste del censo, tutta la cittadinanza romana veniva a essere < fotografata> ( temine che non significa la passiva recezione di situazioni di fato, su cui i censori avevano effettivamente un potere di controllo, ma anche di modifica). In tal modo si distinguono anzitutto i cittadini dagli stranieri e dagli schiavi e, tra i cittadini , i nati liberi , gli < ingenui> , dagli schiavi manomessi : i < liberti>. Ciascun cittadino era così collocato nella sua famiglia , associato alla proprietà fondiaria di cui era titolare , radicato nelle varie tribù territoriali e, infine, inserito nelle classi di censo cui lo legittimava la sua ricchezza familiare. Non solo : questi magistrati , redigendo le liste del censo, enumeravano i membri del senato. Con la lectio senatus ( la redazione della lista dei vecchi e nuovi senatori) si inserivano nuovi nomi, tra i membri del senato, a riempire i vuoti verificatisi nel quinquennio precedente a seguito delle morti o di altri eventi. Non sappiamo bene come avvenisse, all’inizio, questa scelta dei nuovi senatori . Probabilmente dalla fine del IV secolo, in coincidenza col plebiscito Ovinio, la selezione venne definitivamente attribuita ai censori ed agganciata a criteri obiettivi. Venivano anzitutto PAGE 166 tensioni interne alla coppia consolare. Restava sì in tutta la sua originaria pienezza la forza del potere monarchico in capo ai consoli, ma transeunte e indebolita dalla loro collegialità. In questa prospettiva possiamo cogliere , sin dall’inizio, un carattere di fondo delle istituzioni politiche repubblicane, sino alla crisi che, dalla fine del II secolo a.C. , avvierà il tramonto della libera res publica. Si tratta di quello che potremmo definire il loro carattere < consociativo>. Tanto la facilità , almeno teorica, dei reciproci veti all’interno delle magistrature collegiali, che il ruolo potenzialmente paralizzante del tribuno corrispondono a una concezione secondo cui il potere politico e di governo non tendeva a costruirsi , almeno in modo esclusivo , sul criterio della maggioranza e sulla conseguente differenziazione di ruoli tra questa la minoranza. E neppure le reciproche garanzie a favore di tutti gli elementi costitutivi della comunità politica si realizzarono secondo lo schema fondante della moderna statualità : la divisione dei poteri. Al contrario, il governo della comunità ha sempre richiesto una compartecipazione di tutti i soggetti politici nella gestione dei singoli centri del potere politico. Certo, tale partecipazione interveniva quasi sempre a livelli diseguali fra tutte le forze politiche e sociali ; alle cariche magistratuali si veniva comunque eletti in base al gioco delle maggioranze comiziali, così come le delibere e gli orientamenti del senato erano presi in tale consesso secondo il principio della maggioranza. Tuttavia, all’interno di ogni azione di governo, di ogni scelta assunta secondo tali logiche, dovette poi verificarsi un minimo di consenso comune. Ove questo fosse mancato e il peso delle esigenze della parte soccombente fosse stato troppo sottovalutato nel gioco concreto della politica cittadina, scattava il potere di veto e di paralisi insito nella struttura istituzionale repubblicana. L’evolversi degli equilibri tra i gruppi sociali si espresse anzitutto nei continuamente modificati livelli di loro partecipazione e di controllo dei vari meccanismi di governo. E’ degno di rilievo il fatto che il sistema di governo della repubblica, malgrado questo singolare carattere, abbia funzionato a lungo e , nel complesso, in modo molto efficace. Non solo, esso ha mostrato sovente notevoli capacità in senso < decisionista> , come tempestività di scelte e di interventi, tali da non risentire, in apparenza, delle potenzialità negative. Il che probabilmente, si spiega con la forte compattezza e disciplina dell’intera comunità politica che dovette orientare la complessiva condotta dei ceti dirigenti e delle supreme magistrature. E’ essa infatti che ha rappresentato il vero presupposto di quella capacità di regia e di controllo mostrata dal senato romano nel corso dell’età d’oro della repubblica. E questo, per concludere, ci riporta al rapporto tra tale organo e i consoli : che va interpretato anche considerando la configurazione sociale dei magistrati romani e il loro destino politico – istituzionale. Giacché non si deve dimenticare che essi, scaduto il loro anno di carica, venivano a far parte, per tutto il resto dei loro anni di vita attiva, dei suoi ranghi. Il loro comportamento, nel corso della loro carica, restava quindi profondamente condizionato dal loro collegamento con il consenso senatorio di cui non di rado facevano già parte e in cui sarebbero comunque rientrati. Di qui l’omogeneità dell’organizzazione magistratuale romana con la politica e gli interesse senatori. Un’omogeneità destinata a persistere nel tempo e a plasmare la fisionomia politica della città , anche se non mancano eccezioni , e pur molto significative, e se poi, con l’aggravarsi di conflitti sempre più radicali nella compagine sociale cittadina, a partire dal II secolo a.C. , essa venne definitivamente meno. Quanto agli aspetti concreti del suo funzionamento, dobbiamo ricordare che tale potente consesso non si poteva autoconvocare, essendo questo compito affidato ai titolari del ius agendi com patri bus. La sua organizzazione interna funzionava secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex . magistrati. La sua presidenza conseguentemente era affidata all’ex. Censore più anziano. Con il consolidarsi delle sue competenze nella politica estera, il senato si arrogò il diritto d’inviare ambascerie presso i popoli e le nazioni straniere onde trattare accordi e ogni questione di rilevanza internazionale. I personaggi prescelti per compiere tali missioni furono indicati come legati, i cui compiti erano predeterminati da un apposito senatoconsulto. Nella tarda repubblica essi erano scelti esclusivamente tra i membri di questo consesso. 4. Il popolo e leggi le della città PAGE 166 Con l’avvento della repubblica si dovettero immediatamente definire le forma di designazione dei nuovi governanti. L’introduzione di magistrati annuali, non inaugurati, postulava la loro elezione da parte della comunità cittadina, con un voto del popolo riunito in assemblea. La versione civile dell’antica organizzazione militare costituita dai comizi centuriati, forse già esistente nell’ultima età monarchica, assolse tale funzione. In questa assemblea il peso dei cittadini era disuguale, sia in relazione al censo che all’età . Nel comizio centuriato le delibere infatti erano assunte dalla maggioranza delle centurie che costituivano ciascuna un’unità di voto. Le centurie delle prime classi e, all’interno di ciascuna classe, quelle dei seniores, erano meno affollate rispetto a quelle delle classi inferiori e a quelle degli juniores e pertanto i loro membri avevano un peso politico maggiore. Per ciascuna classe sussisteva infatti un eguale numero di centurie comprensive di cittadini più giovani ( dai 18 ai 45 anni d’età ) e di seniores ( dai 46 ai 60 anni). E’ ovvio che , data la durata media della vita, minore che ai nostri giorni e dato il numero inferiore di annate in essi ricomprese, il numero di seniores all’interno della stessa classe di centurie fosse minore che quello dei corrispondenti juniores. Di qui il peso ponderato maggiore dell’anziano rispetto al giovane, oltre che del ricco rispetto al povero. Le 193 centurie non votavano contemporaneamente, ma secondo un ordine progressivo ( ben presto comunque non iniziando più dalla prima classe) . In un primo momento il voto era orale ed era raccolto da appositi funzionari, poi si passò alla votazione scritta. D’altra parte , se ricordiamo come il numero complessivo delle centurie fosse 193, si capisce che sovente le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della prima classe , votando in modo uniforme , realizzassero da sole la maggioranza, tagliando fuori dalla decisione tutto il resto della popolazione. Poiché poi, una volta raggiunta la maggioranza la votazione finiva, le ultime centurie del comizio raramente riuscivano a esprimere il loro voto. Sin dall’inizio della repubblica, non solo la nomina dei magistrati superiori , ma anche le delibere che riguardavano la vita della comunità dovettero essere assunte da tali comizi. Non solo le grandi decisioni politiche , ma anche ogni atto che fosse vincolante per la città stessa : sin da allora concepito come la < legge > della città. Naturalmente uno strumento così ingombrante e complesso e la stessa logica di democrazia diretta che ne è alla base resero impossibile, anche in prosieguo di tempo, fare di codesta assemblea un sofisticato meccanismo atto a temperare il dispositivo delle singole leggi in funzione delle diverse esigenze e opinioni. Il magistrato legittimato a convocare i comizi, avendo individuato una data consentita dal calendario religioso e politico della città , con un certo anticipo doveva annunciarne la convocazione, rendendo pubblica la sua proposta di legge. Davanti al comizio convocato si svolgeva un dibattito su di essa per poi passare alla votazione ( eventualmente in una data successiva ) che riguardava la proposta nella sua interezza. L’assemblea poteva accettala o respingerla, non essendo possibile introdurre emendamenti e modifiche al testo originario. Egualmente questa forma di < democrazia limitata> operava nella elezione dei magistrati : poichè i comizi furono chiamati a scegliere i nuovi magistrati solo all’interno di una ristrettissima rosa di nomi, preselezionati dai magistrati uscenti col consenso del senato. L’autorganizzazione della plebe nella sua lotta politica e le sue secessioni erano avvenute nella forma di assemblee ( i concilia plebis ), convocate secondo il criterio territoriale delle tribù. Esse pertanto costituirono, sin dall’inizio, i distretti elettorali dei magistrati plebei : dei tribuni e degli edili. Quando poi la fase di più acuto conflitto tra patrizi e plebei fu superata, soprattutto dopo la piena parificazione dei due ordini, quest’ultimo strumento, assai più agile dei comizi centuriati, fu utilizzato , per quanto possibile , al posto di quelli. I nuovi comizi tributi, definiti secondo la logica degli antichi concilia plebis , furono così integrati con la presenza anche dei patrizi e chiamati a eleggere i magistrati minori, sine imperio, nonché ad assumere un ruolo sempre più importante nel processo legislativo romano. Il superamento del conflitto patrizio – plebeo, rese infatti possibile il riconoscimento del valore generale dei plebisciti . La tradizione fa risalire addirittura alla leggi Valerie Orazie del 449 a.C. la parificazione dei plebisciti alle leggi comiziali. E’ più verosimile invero che questo processo sia stato realizzato in un momento successivo, attraverso due delibere comiziali : una delle leggi Publilie del 339 a.C. e la legge Ortensia del 286 a.C. Così , tra la fine del IV secolo a.C. e gli inizi del secolo successivo, il più pesante apparato dei comizi centuriati limitò PAGE 166 le sue delibere agli aspetti più importanti della vita cittadina : in particolare l’elezione dei magistrati cum imperio. Nessuna meraviglia dunque che buona parte della legislazione romana, a partire dal III secolo derivasse da proposte dei tribuni. Il mezzo secolo che intercorre tra queste due leggi coincide, in effetti, con la piena integrazione dei due ordini e, conseguentemente, con il parziale mutamento di significato dello stesso tribunato della plebe , che da organo di parte e tendenzialmente antagonistico al sistema delle magistrature ordinarie e del senato, divenne elemento di un sistema politico unitario. Sovente il senato poté utilizzare l’azione di qualche tribuno proprio per osteggiare o paralizzare la condotta politica troppo indipendente, o considerata scorretta di qualche magistrato ordinario. D’altra parte la composizione dei comizi tributi, con la larga predominanza del ceto dei piccoli e medi proprietari fondiari, contribuì a dare all’elettorato romano una fisionomia abbastanza conservatrice ( seppure meno squilibrata dei comizi centuriati a favore delle grandi ricchezze). Fu quella la sede atta a esaltare gli interessi del ceto dei proprietari rurali, che furono una delle basi essenziali della politica di espansionismo territoriale, essenzialmente orientata ad acquisire nuove terre agrarie. Solo abbastanza lentamente gli interessi mercantilistici , legati alla ricchezza mobiliare, acquistarono peso in codesto consesso. In ciò fu importante il precoce ruolo di Appio Claudio Cieco, con la conseguente apertura a una più accentuata innovazione politica. S’impone, nelle XII Tavole, l’autonomia del processo legislativo il cui fondamento è direttamente riferito al < popolo> : conseguentemente ai comizi . Livio ricorda come in XII tabulas legem esse , : < qualsiasi cosa avesse stabilito il popolo, ciò divenisse diritto/ legge efficace>. Affiora qui un principio generale, poi temperato da altri criteri , con cui si esalta la centralità della legge e il potere sovrano dei comizi. Almeno potenzialmente , questa sovranità pote erodere l’altro aspetto fondante della comunità costituito dal carattere consuetudinario del sistema normativo romano e dal ruolo dell’interpretazione pontificale e dei giuristi. Di fatto però questa stessa legislazione intervenne, nei secoli della repubblica, solo molto limitatamente per modificare il diritto civile dei Romani , e quando ciò avvenne , fu quasi sempre per una particolare rilevanza sociale o politica dell’argomento trattato o qualche specifica esigenza e difficoltà della pratica legale, superabile efficacemente solo in via legislativa. Il settore privilegiato dall’azione legislativa dei comizi appare piuttosto il diritto pubblico, dove si intervenne continuamente a correggere e perfezionare il sistema di governo della res publica. Se consideriamo l’insieme delle leggi di cui si ha ricordo, sia attraverso le citazioni degli antichi, sia attraverso il fortunato ritrovamento di alcuni importanti testi redatti su materiale non deperibile, marmo, bronzo, noi possiamo individuare alcune tendenze di fondo della legislazione comiziale. Anzitutto, la larga prevalenze di leggi relative all’organizzazione cittadina : in particolare il vasto gruppo di provvedimenti relativi alle singole magistrature che ne ampliano o modificano le competenze e il funzionamento e quelli volti a stabilire limiti ulteriori alla originaria configurazione dei poteri magistratuali. Vanno ricordate poi numerose leggi relative alla disciplina dei comizi, che testimoniano la progressiva trasformazione dell’originario dominio patrizio della prima età repubblicana. Ad esse s’aggiunge, insieme a diverse leggi riferite all’organizzazione delle varie figure sacerdotali, un elevato numero di delibere relative alla dichiarazione di guerra e agli accordi internazionali, dove il popolo interveniva accanto al senato. In questo stesso ambito non meno importanti appaiono i provvedimenti relativi alla fondazione delle colonie, all’attribuzione degli statuti municipali, nonché alla concessione della cittadinanza romana a singoli stranieri o a intere comunità. Quanto alla cittadinanza sono menzionate anche altre norme volte a impedire l’acquisizione surrettizia della cittadinanza romana e gli abusi che possano aversi in questo settore. Un altro importante gruppo di leggi concerne invece aspetti che potremmo definire, di < politica sociale>, e che attengono essenzialmente alla sfera del diritto privato. Più precisamente, a metà strada tra questo e il diritto pubblico appaiono i numerosi interventi in tema di debiti, volti a limitare i pesi gravanti sui debitori e l’usura, i divieti legislativi di eccessive spese di lusso ( le cosiddette leggi < suntuarie > ) , e soprattutto la vasta e ripetuta legislazione agraria. Lo stesso carattere hanno poi le leggi , degli ultimi secoli della repubblica, che introducono e disciplinano le distribuzioni di grano alla plebe a prezzi ridotti o gratuitamente ( le cosiddette leggi frumentarie ). Altri interventi legislativi di grande rilievo e destinati ad avere notevole impatto sulla vita cittadina PAGE 166 per gli equilibri concreti tra gli organi, come ad esempio nel sovrapporsi di un potere dei comizi e del senato in molte decisioni assunte alternativamente dall’uno o dall’altro organismo. Sovente si tratta di principi incorporati nel complesso edificio istituzionale, addirittura privi di una loro formale evidenza, finché un comportamento o una norma di diritto positivo sembri intaccarne l’esistenza : solo allora se ne coglie l’esistenza. Insomma è la violazione che evidenzia e conseguentemente parrebbe < creare > per reazione, la norma stessa. Questa non conoscibilità a priori , a sua volta, è il risultato di un certo modo di essere di un determinato sistema, quello romano, appunto. Per questo, come non sussiste una < carta > e un disegno predeterminato di queste regole fondanti, egualmente non era neppure concepibile l’esistenza di un organo specificamente compente a valutarne la possibile violazione. Anche sotto questo profilo l’esperienza romana appare profondamente diversa, se non opposta, a quella che caratterizza la storia degli stati moderni dell’Europa continentale. In effetti , a ben vedere, questo aspetto < indeterminato> è un carattere di fondo dell’esperienza giuridica romana. La stessa costruzione del sistema dei diritti privati, il lascito più importante del sapere giuridico romano, presenta una caratteristica tendenza al < non compiuto> , al mai definitivamente stabilito, una volta per tutte. La portata effettiva delle norme e delle regole consuetudinarie, il funzionamento dei singoli istituti e il sistema di relazioni tra di essi, insomma il quadro prodotto dall’incessante lavorio di generazioni di giuristi, non trovano mai una rigida definizione. Al contrario, essi costituiscono il risultato di un processo dialettico in continuo divenire, caratterizzato quindi da quel margine di variabilità e di incertezza che esprime anche la creatività e l’elasticità del sistema. Per concludere questo discorso su quelli che oggi chiameremo i < fondamenti costituzionali > dell’ordinamento romano, è ovvio che la sua stessa indeterminatezza si presti, ancor più di una carta scritta, a varie interpretazioni e a varie sollecitazioni in senso diverso e talora opposto. Così come è ancora più ovvio che la colossale avventura in termini di potere e di conquista che caratterizza la storia di Roma dal IV secolo sino al I secolo a.C. comportasse trasformazioni profonde e radicali riletture di questo patto sociale, inespresso e tuttavia sempre presente nella coscienza collettiva. Trasformazioni che, appunto permisero a Roma di far fronte a situazioni assolutamente nuove, anzitutto modificando la sua stessa fisionomia istituzionale, rispetto alla logica propria della città come unità politica. Grandissimo fu il percorso effettuato e relativamente rapido , ma sempre con un qualcosa di provvisorio. Si trattò di un continuo ritorno sulle soluzioni già acquisite perfezionando e correggendo il disegno istituzionale romano : mai definitivamente compiuto, sempre in divenire. CAPITOLO SESTO : LA STRADA PER L’EGEMONIA ITALICA 1, Cittadini e stranieri Va ricordato come il territorio di Roma, in origine non superiore al centinaio di chilometri quadrati, verso la fine del VI secolo a.C. fosse aumentato di circa otto o nove volte. Né meno formidabile e rapido era stato l’incremento della popolazione cittadina, accelerato dall’assorbimento delle minori comunità investite della sua espansione. In poche parole Dionigi esprime puntualmente il significato di questa notevole crescita : < proprio dall’inizio , immediatamente dopo la sua fondazione essa cominciò ad attirare le nazioni vicine che erano numerose e atte alla guerra e crebbe continuamente soggiogando ogni avversario>. Inoltre vi è anche l’accentuarsi dei caratteri di separatezza tra la comunità cittadina e ciò che < ne è fuori> : tra Romani e stranieri. Nella fisionomia delle antiche città era presente una concezione del diritto abbastanza diversa da quella che caratterizza gli ordinamenti statali moderni. A eccezione dei diritti politici, riservati ovviamente ai propri cittadini, vige infati in questi ultimi il cosiddetto principio della < territorialità del diritto>. Il diritto dello stato si applica cioè a tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Costoro dovranno rispettare le PAGE 166 leggi civili e penali dello stato ospitante e automaticamente riceveranno una tutela analoga a quella dei suoi cittadini, in una condizione di sostanziale eguaglianza. Al contrario, nel mondo antico e particolarmente nel complesso paesaggio delle poleis greco – italiche , tendeva a prevalere un criterio opposto, fondato sulla < personalità > del diritto . Ogni individuo, cioè , era legato alla sua patria d’appartenenza e al diritto proprio di questa. Allorché si fosse trovato nell’ambito di un’altra comunità politica, egli sarebbe restato estraneo al diritto proprio di essa, non avendo quindi, almeno in teoria, la facoltà di utilizzarlo e di chiedere la protezione legale di cui fruivano i cittadini di quest’ultima. Soprattutto nella ricca tradizione letteraria greca si incontra sovente la richiesta di ospitalità e di protezione che lo straniero rivolge appellandosi agli dei. Se le leggi della città non estendono la loro tutela allo straniero, saranno gli dei a mostrarsi benevoli verso costui e a impegnare i loro seguaci a un atteggiamento di mitezza e ospitalità nei suoi riguardi. Le leggi degli dei si sovrappongono così e ampliano le dimensioni stesse e la portata delle leggi della città. In effetti, se l’ospite è < sacro>, è perché egli, in quanto < straniero>, non ha < diritti > , può solo appellarsi agli dei , a un obbligo morale e religioso che i cittadini hanno di rispettarlo. Di qui l’importanza del sistema di templi e di santuari istituzionalmente aperti a tutti i pellegrini e in grado di offrire protezione al viaggiatore. E’ però indubbio che, già in età molto risalente, si sperimentarono nuovi e più < giuridici> meccanismi per assicurare tutela adeguata ai membri delle varie comunità interessate. Uno dei primi strumenti fu la concessione a un singolo o a un gruppo di stranieri dell’hospitium da parte di privati o della città, senza che ciò postulasse un accordo con la città di questi stranieri. Le radici di tale istituto, , < l’ospitalità>, risalgono alle forme di circolazione gentilizia. In origine era il modo in cui si formalizzava la protezione che potenti clan privati assicuravano ai loro < amici> di altre comunità, una forma di protezione dentro il proprio ordinamento. Tra chi aveva concesso l’hospitium e il beneficiario di questo intercorreva un vero e proprio vincolo volto ad assicurare la tutela dello straniero. Presto , accanto a questo hospitium privato, intervenne un hospitium pubblico concesso dalla città stessa ad alcuni stranieri che permetteva a essi di rivolgersi ai tribunali locali per protezione legale. Questi casi di hospitium pubblico, senza l’intermediazione di privati cittadini, divennero sempre più numerosi col rafforzarsi delle strutture cittadine. Lo strumento generalizzato per fronteggiare le esigenze di tutela dei propri cittadini < all’estero>, fu però quello dei trattati internazionali. Essi furono utilizzati dai Romani sin da epoca molto risalente, come attestano i numerosi riferimenti agli accordi intercorsi tra Roma e i suoi vicini già durante i re e come è confermato dalla precoce presenza dei feziali , espressamente preposti alla loro stipula. Tali accordi, costituirono il fondamentale meccanismo per la costruzione di un tessuto entro cui la città stessa poteva sviluppare la sua azione. Solo in prosieguo il tempo e a seguito di una nuova e più vasta articolazione del loro sistema giuridico, sia sotto il profilo giudiziario che dei connessi processi di concettualizzazione, i Romani avrebbero realizzato un sistema generalizzato e sicuro di tutela degli stranieri, indipendentemente dall’esistenza di un trattato internazionale che li vincolasse a proteggere legalmente i cittadini della controparte. Ma , allora, non a caso, il loro sguardo era ormai proiettato su tutto il bacino mediterraneo, in termini d’interessi economici e culturali , oltre che di potere. E’ indubbio infatti., come le fonti attestano chiaramente, che il campo privilegiato della primitiva esperienza romana di carattere < internazionale>, fosse l’area caratterizzata, sin dall’origine, da una comunanza etico – culturale e linguistica : l’antico Lazio. Lungi dal rappresentarci la situazione originaria delle varie città del Lazio come l’esistenza di monadi isolate e ostili le une alle altre, siamo dunque indotti a inserire gli echi delle complesse vicende cui si è fatto cenno in un quadro sostanzialmente unitario. Che non è l’originario < stato – stirpe> da alcuni immaginato, ma la presenza di un persistente sentimento di comunanza, il rafforzarsi di una consapevolezza etnica ( il Nomen Latinum) che sin dall’inizio hanno agevolato i rapporti fra le varie comunità e le comunicazioni commerciale ed economiche fra di esse. Qui, soprattutto nell’ultima fase dei re, Roma affermò la sua superiorità. In effetti la politica romana d’incorporazione delle comunità minori, era restata circoscritta essenzialmente alle popolazioni più omogenee, concludendosi, comunque, con la fine del periodo monarchico. Ma anche in quella fase le relazioni di Roma con il mondo latino si erano venute PAGE 166 articolando anche attraverso la conclusione di molteplici foedera : veri e propri acordi internazionali. D’altra parte si è richiamato la molteplice valenza, come fattore di coagulo tra le comunità preciviche, delle leghe religiose e dei santuari comuni, di cui era sopravvissuta memoria anche quando moltissime delle entità che ne facevano parte si erano dissolte nelle superiori unità cittadine. Il significato politico di alcune di queste leghe religiose spiega la tendenza romana ad assorbire o , comunque, ad affermare un certo controllo su questi stessi culti. Così un momento assai importante dell’assunzione di un ruolo egemonico di Roma nel Lazio appare, nella prospettiva degli storici antichi, l’istituzione di un culto fedele di Diana con la costruzione sull’Aventino di un apposito tempo da parte di Servio , in alternativa ad altri centri di culto su cui Roma non aveva una posizione di superiorità . Agli ultimi anni della monarchia risale un’altra importante federazione, di carattere religioso e politico insieme, con un netto carattere antiromano. Si tratta del ripristinato culto di Diana presso Ariccia cui partecipano, oltre a questa, Tuscolo, Lanuvio, Laurento, Cori , Tivoli e Pomezia, essendone invece esclusa Roma . Non a caso sono gli anni del grande isolamento romano e dell’acuirsi del conflitto con i Latini. Va ancora ricordata in questa prospettiva, la successiva operazione che sembrerebbe messa in opera da Tarquinio il Superbo, volta a recuperare antichissime tradizioni religiose, addirittura dei pupuli Alnenses. Ci si riferisce al rinnovato culto di Giove Latiaris in Monte Albano e al ripristino delle connesse cerimonie religiose che univano i vari popoli latini : le Feria Latinae. La superiorità politica di Roma nel Lazio è attestata da uno dei più importanti documenti relativi alla prima fase della sua storia a noi pervenuto. Ci si riferisce al testo del primo trattato tra Romani e Cartaginesi che, secondo Polibio, sarebbe stato stretto proprio nell’anno immediatamente seguente alla cacciata di Tarquinio il Superbo da Roma e che quasi sicuramente riprendeva uno schema di relazioni già realizzato sotto la dominazione dei re etruschi, nel quadro della più generale alleanza tra Etruschi e Cartaginesi. Negli ultimi decenni l’autenticità del testo e della datazione proposta da Polibio ha trovato ulteriori conferme nella documentazione archeologica che attesta una consistente presenza dei navigati punici sulle coste italiche in questo periodo della storia di Roma. e’ del tutto ragionevole supporre che i Cartaginesi, al momento dell’espulsione di tarquini da Roma, avessero voluto ribadire i loro rapporti con questa importante città del Lazio , nel momento in cui poteva essere venuta meno la sua collocazione nell’ambito politico etrusco. Tra le molte notizia che questo trattato ci fornisce, vi è la conferma delle pretese egemoniche di Roma, nel quadro di un suo diversificato tipo di relazioni con le varie città laziali. I limiti stabiliti a possibili aggressioni da parte cartaginese riguardano infatti tutte le città del Lazio : vi è tuttavia una netta distinzione fra alcune città che sono considerato come < soggette > o forse più precisamente < alleate dipendenti> e altre città che invece sono espressamente indicate come non soggette. Sebbene dalla prima categoria siano ricordate nominativamente, e a buon motivo data la loro maggiore esposizione, solo città in prossimità del mare, da Ardea e Lavinio sino a Terracina, dal testo polibiano si desume che vi fossero anche altre città appartenenti a questa categoria, in un’area territoriale non irrilevante. E tuttavia l’egemonia di Roma, neppure a livello di mera enunciazione, si estendeva a tutto il Lazio. Nel trattato erano menzionate città del Lazio < non soggette > ai Romani , ma egualmente tutelate contro ogni invadenza cartaginese. 2. Latini e cittadini delle colonie Il testo di Polibio non ci offre solo una conoscenza di prima mano del quadro politico – geografico del Mediterraneo occidentale verso la fine del VI secolo a.C. Esso ci informa anche sull’insieme di meccanismi posti in essere dai due soggetti contraenti per assicurare reciproca tutela ai propri cittadini che possano trovarsi nell’ambito di influenza della controparte. D’altra parte le disposizioni introdotte in proposito nel trattato, di notevole complessità, evidenziano come solo in tal modo v’era la garanzia che i propri cittadini avrebbero goduto di adeguata tutela legale nell’ambito di altre comunità. Per questo tali meccanismi dovettero svolgere un ruolo fondamentale nel rafforzamento delle comunicazioni e del traffico commerciale, almeno all’interno di certe aree geografiche , attenuando PAGE 166 più numerose sopravvivenze delle antiche forme di divisione del territorio agrario, ormai incorporate in una paesaggio che, pure, ha profondamente mutato il suo aspetto fisico ed economico. 3. La svolta del 338 a.C. e i nuovi statuti giuridici di Roma Un aspetto fondamentale dell’espansionismo romano, già evidenziato nel corso del IV secolo a.C.: è che esso solo in parte è stato il frutto di fattori meramente militari, fondandosi piuttosto su una sempre più articolata politica di cui la regia restò essenzialmente nelle mani del senato. E’ indubbio che il nuovo quadro istituzionale che si delineò sin da allora fu reso possibile proprio dall’accorta e innovativa utilizzazione delle logiche giuridiche elaborate dal collegio pontificale che ne era il depositario e messe a disposizione del ceto di governo romano. L’aspetto più significativo dell’espansione romana nel Lazio e nelle aree immediatamente circostanti, sino alla metà del IV secolo a.C. è costituito dagli ampliamenti territoriali. Roma in effetti applicava in genere il criterio di < multare > le popolazioni sconfitte e sottomesse sottraendo a esse una parte del loro antico territorio. Era l’applicazione di una idea diffusa in tutto il mondo antico che il vincitore avesse ogni potere sui vinti e quindi anche sui loro beni. I nuovi territori così acquisiti, da una parte restarono nella disponibilità dello Stato cittadino e costituirono il demanio di ager publicus, lasciato in varie forme allo sfruttamento dei privati, in genere dietro pagamento di un canone, dall’altra furono ridistribuiti in proprietà privata ai cittadini romani , sia nelle forme di terre assegnate individualmente ( viritim ), sia mediante la fondazione di colonie. Ne era conseguito l’incremento numerico delle tribù territoriali e, indirettamente una naturale espansione demografica, ma nulla più . Diversamente che alle origini, le popolazioni delle città vinte non erano state assorbite all’interno della civitas Romana : erano restate piuttosto come entità più o meno subalterne, sovente vincolate formalmente da trattati di alleanza diseguale imposti da Roma. I limiti di questa politica si erano visti proprio in occasione della conquista di Veio . Di una città così importante e forte, Roma non aveva saputo far altro, una volta sconfitta, che distruggerla, disperdendone la popolazione, in parte sterminandola o riducendola in schiavitù ( solo in seguito riassorbendone alcuni frammenti al suo interno). Si trattava, in fondo , di una politica abbastanza generalizzata, nel mondo delle poleis greco – italiche : ma che, appunto, ne aveva segnato un forte limite. Che si può cogliere in modo particolarmente evidente proprio nelle vicende delle città greche, il cui espansionismo, non riuscì quasi mai a superare la radicale separatezza tra la città egemone e le comunità subalterne. Lo stesso successo di una politica del genere comportava un ampliamento dell’ambito geografico d’influenza politica e, conseguentemente, un crescente squilibrio tra l’organico della città egemone, incapace di crescere, e la dimensione dei suoi impegni. La drastica soluzione adottata da Roma per Veio, se pur giustifica dalla durata e dalla violenza dello scontro, appare abbastanza rozza. Sino a far trapelare una certa impreparazione della vincitrice ad affacciarsi in modo adeguato sulla scena di una politica di più ampio respiro. Ma fu un’impreparazione presto colmata : pochi anni dopo essa avrebbe mostrato una ben superiore capacità di governo delle molteplici comunità su cui, anche fuori dal Lazio, si sarebbe estesa la sua egemonia, comprese le ricche città campane. Una capacità di cui colpisce, anzitutto, la ricchezza e la varietà delle soluzioni di volta in volta dotate, secondo una logica singolare, che da un lato esaltava, dall’altro in qualche modo trascendeva la dimensione propria delle città – stato che la costituzione del 367 a. C. aveva appena completato. Il Foedus Cassianum , durato, seppure con alterne vicende per circa un secolo e mezzo, era venuto definitivamente meno nel 338 a.C. Allora infatti un’ultima e più pericolosa definizione dei Latini dall’alleanza, si era conclusa con la definitiva vittoria militare dei Romani. Conseguentemente il senato di Roma , in virtù del potere assoluto del vincitore , ridefinì allora, in modo affatto unilaterale, la situazione giuridica di ciascuna delle città vinte. Il carattere di questa delibera, anche se per diverse di essa lasciava sostanzialmente immutata la loro presistente parte di Roma, di un potere sovrano su tutte le antiche città della Lega. Tuttavia esse, pur derivando ormai la loro condizione dalle decisioni romane, continuarono a godere, sino alle radicali trasformazioni intervenute con la concessione della cittadinanza romana a tutti gli Italici, nel corso del I secolo PAGE 166 a.C. , di una autonomia organizzativa interna non diversa da quella che avevano come stati sovrani, prima del 338 a.C. Una sovranità , che si arrestava appunto alla sfera interna. Lo dimostra bene un altro particolare provvedimento assunto in quel contesto dal senato e riferito da Livio. Ci si riferisce alla situazione intercorrente tra le varie città laziali che proprio il Foedus Casianum invece presupponeva. Per tutte costoro, infatti, i Romani concilia commerciaque inter se ademerut : unilateralmente bloccarono tutti i rapporti giuridici e istituzionali tra queste città , evidentemente onde ostacolare qualsiasi ulteriores solidarietà che potesse nuovamente sfociare in un’alleanza antiromana. L’unilaterale elaborazione da parte del senato di una gamma di posizioni interne alla sfera politica romana ma che si articolavano poi nella moltiplicazione di centri dipendenti con diversi margini di autonomia ( sino all’impiego dello strumento tipicamente di carattere internazionale che è il foedus a definire il rapporto tra Roma e qualche sua colonia) ci fa capire che, almeno a partire da quel momento , la vecchia nozione della città sovrana, in cui il diritto della comunità e lo statuto politico si identificavano, era venuta meno. Roma si stava avviando a divenire un’entità politica nuova a cui facevano capo, in forma politicamente affatto subalterna, sia le città incorporate, pur grafitiate di una vasta autonomia interna semi – sovrana, che i vari tipi di colonie. Continuare ad applicare a essa lo stereotipo – formula di città – stato è così solo fonte di fraintendimenti. L’ordinamento romano, infatti, fondato tuttora su una struttura politica affatto < cittadina > , disponeva di un pluralità di statuti giuridici personali la cui convergenza unitaria appariva in sostanziale contrasto con il carattere proprio di ciò che, molto approssimativamente, s’intende per < città – stato>. Il che contribuì a dare a Roma una fisionomia affatto particolare e inedita. Fino al 338 a.C., possiamo dire che , in linea di massima , appartenessero a Roma, sottoposti alla sua sovranità solo i cittadini romani : a partire da allora invece Roma potè disporre anche di un altro statuto giuridico, quello di latino . Poteva trasformare un romano in latino, come nel caso della partecipazione di questi a una colonia latina, e poteva disporre unilateralmente delle condizioni giuridiche di questi stessi Latini, ormai sudditi, modificandone il contenuto. La pur differenziata condizione dei Latini prisci e coloniari, appare privilegiata all’interno della più vasta categoria dei peregrini. Del resto, a partire dal 338 a.C. , anche il valore di quest’ultimo riferimento venne a mutare : sinora infatti esso aveva indicato il cittadino di una comunità sovrana, estranea a Roma. Ora anch’esso, pur conservando anche tale significato, finì egualmente col designare uno dei possibili statuti giuridici interni all’ordinamento sovrano romano e quindi alla sfera del suo potere. L’accesso facilitato alle forme e alla tutela del diritto romano, nei rapporti dei Latini con i Romani , consacrato dal commercium e dal conubium, non significa che si fossero dissolti gli ordinamenti propri delle varie città latine. Questi continuarono a regolare la vita interna di tali comunità e le relazioni legali tra i loro cittadini. Così come di un loro proprio statuto continuarono a fruire le colonie latine, anch’esse in una condizione di formale estraneità rispetto a Roma, sebbene questa le avesse fondate e ne conservasse un effettivo controllo. Comunque, il termine ius Latii venne usato , non solo per tutta l’età repubblicana, ma anche in età imperiale, a indicare questa particolare posizione giuridica, compreso il ius migrandi, nei rapporti con Roma, assicurati ai membri delle comunità del Latium vetus e anche, seppure in seguito con qualche limitazione e con qualche gerarchia interna , ai membri delle colonie latine più recenti. 4. La genesi del sistema municipale Con il generale provvedimento assunto dal senato romano nel 338 a.C. , dopo la vittoria sui Latini e i loro alleati, i Romani, avevano anche concesso ad alcune città vinte la loro piena cittadinanza. In alcuni casi poi, invece di queste , avevano, attribuito a qualche comunità una cittadinanza romana < limitata > : senza diritti politici ( civitas sine suffragio). Nel primo caso i nuovi cittadini, iscritti in una delle antiche tribù territoriali romane divenivano cives, pienamente parificati sia sotto il profilo dei diritti privati che dei ruoli pubblici e istituzionali , quali il voto nei comizi e la partecipazione agli impegni militari. I cives sine suffragio PAGE 166 restavano invece esclusi dalla partecipazione politica e dalla pari dignità militare. Godendo solo della parificazione della sfera giuridica privata. In verità tra gli stranieri e gli alleati gratificati del semplce ius commerciii e del ius conubii , i Latini appartenenti alle città del Latium vetus, i membri delle nuove colonie latine, e i municipes sini suffragio od optimo iure sussistevano molteplici elementi comuni che avvicinavano queste posizioni, senza tuttavia renderle identiche. La loro persistente autonomia e, insieme , il loro diverso combinarsi all’interno del blocco di potere romano si compone in un disegno straordinariamente articolato che costituì il fondamento della potenza politico – militare di Roma destinata a dar luogo all’impero municipale. Attraverso la connessione del ius commercii e del ius conubii lo straniero titolare di tale condizione di privilegio, appare assimilato al cittadino per quanto concerne l’accesso e la fruizione al diritto privato cittadino. In genere questo meccanismo è visto dalla prospettiva romana, come ammissione del Latino e più in generale dello straniero agli istituti del ius civile romano, ma uno schema del genere, proprio perché fondato sulla reciprocità, può egualmente essere considerato dal punto di vista opposto : come assimilazione del Romano ubicato in territorio straniero al diritto locale. A ben vedere, se eliminiamo tutti gli aspetti concernenti il diritto pubblico, il contenuto della nuova figura introdotta dai Romani con la civitas sine suffragio, potrebbe quasi identificarsi con la duplice concessione del commercium e del conubium. Sarebbe variato solo un elemento , sebbene fondamentale : il carattere di reciprocità . Non a caso un criterio tipico di rapporti fondati sul riconoscimento bilaterale delle rispettive autonomie sovrane. Proprio ciò che ora era venuto meno nell’ambito , prima, dell’Italia centrale ( almeno a partire dalla seconda metà del IV secolo a.C.) , e poi per le altre comunità italiche così assimilate. Diversamente dunque dal caso del conubium e del commercium, la concessione della civitas sine suffragio avrebbe comportato sempre l’assimilazione dello straniero così gratificato al Romano : sia che le relazioni tra i due si svolgessero a Roma che nell’altra città. In tal modo, a partire dal III secolo a.C. , il diritto romano, non diversamente in fondo dalla lingua latina, divenne progressivamente l’unico medium della complessiva circolazione culturale e sociale nella penisola, assumendo la nuova funzione di generale < collante > nei rapporti tra i membri di più comunità legate a Roma. In questa nuova e ben più duratura fase di crescita, l’estensione della cittadinanza non comportava più l’inglobamento fisico dei nuovi cives Romani nella città di Roma : al contrario le varie città conservano pienamente la loro identità materiale, solo divenute una frazione del < popolo Romano>. Del resto per i municipi sine suffragio è da ritenersi che la loro estraneità alla sfera politica romana, comportasse necessariamente la persistenza dell’originaria identità istituzionale , non solo le proprie < leggi>, ma il proprio ordinamento cittadino , del tutto autonomi rispetto alla romana. Ma in tal modo, gli schemi costitutivi della < città – stato> vennero dilatati ben al di là della loro dimensione originaria, avviandosi a produrre qualcosa d’integralmente nuovo. Si disegnò così , nel corso del tempo, un mosaico di innumerevoli centri urbani o semi – urbani che vivevano di una loro vita autonoma ( seppure a livelli tra loro differenziati ) e, contemporaneamente, erano anche parte di una < città – superiore > enormemente dilatata : Roma. Era questo il mutamento rivoluzionario rispetto all’originaria identificazione dell’unità urbana con lo spazio politico che aveva qualificato l’appartenenza degli abitanti locali a un dato ordinamento. Aveva inizio, in modo frammentario e apparentemente causale, la sperimentazione di un nuovo assetto politico : l’organizzazione per municipi di Roma. Se , nel caso delle città e delle colonie latine, la loro autonomia, apparentemente immutata rispetto alla situazione precedente al 338 a.C. presentava aspetti che, per quanto concerne l’organizzazione interna sembrano sfiorare un’indipendenza semisovrana, così non è nel caso delle comunità costituite da cittadini romani : siano esse le colonie romane o le città gratificate della cittadinanza romana piena o sine suffragio. Questi cittadini optimo iure o semicittadini sine suffragio fanno parte infatti dell’ordinamento romano e vivono secondo le sue leggi. Qui però interviene la grande elasticità dei Romani, con l’originale creazione di un sistema notevolmente fluido e ricco di intimi contrasti, sino a rasentare l’indeterminatezza, epperò straordinariamente efficace e solido . PAGE 166 da territori romani, sarebbero state in grado di scatenare in modo autonomo una guerra, mentre, al contrario, le guerre le faceva in continuazione l’altro alleato, Roma. E a Roma gli innumerevoli alleati italici, che dal termine societas, utilizzato a indicare l’alleanza internazionale, prendevano il nome di socii dei Romani, dovevano quindi fornire supporto in termini di risorse materiali e di uomini. Così si moltiplicava la forza militare di Roma , per nuove conquiste, per nuove vittorie sancite da nuove alleanze subalterne Coerentemente del resto con le logiche che avevano ispirato la politica internazionale delle più importanti città greche, anche il senato romano, nel definire la politica estera di Roma, si è costantemente impegnato a favorire e sostenere i gruppi aristocratici all’interno di ciascuna città alleata, a danno delle forze popolari e contro ogni spinta in senso democratico. In ciò si rifletteva anzitutto la tendenza intimamente conservatrice delle classi dirigenti romane : il naturale senso di affinità e di comunanza di interessi della nobilitas repubblicana, pur con le sue diverse sfumature, con le aristocrazie locali. La dovevano giocare anche altri fattori : anzitutto la maggior facilità di controllare un ceto ristretto e interessato alla conservazione della < legge e ordine > e condizionato dai suoi stessi interessi economici, rispetto alle spinte meno calcolabili e tendenzialmente eversive di gruppi più estesi e, forse, più fortemente radicati alle loro radici autoctone. CAPITOLO SETTIMO : UN’ARISTOCRAZIA DI GOVERNO 1.La nuova direzione politica patrizio - plebea Il compromesso patrizio – plebeo del 367 a.C. aveva sanato un punto debole del precedente assetto costituito dal suo esclusivismo . Alla lunga , l’interruzione dei meccanismi di mobilità sociale, intervenuta agli inizi del V secolo, avrebbe infatti comportato l’indebolimento di un patriziato irrigidito e dissanguato, con esiti negativi sulla sua stessa capacità di governo. Ora il ruolo dell’antica aristocrazia gentilizia e la sua fisionomia guerriera sono ripresi appieno dalla nuova classe di governo della repubblica, la nobilitas patrizio – plebea, formatasi a seguito dell’accesso plebeo alle magistrature superiori. Questo blocco sociale, capace al contrario del patriziato , di un costante , anche se molto circoscritto rinnovamento, costruì e gestì , nel tempo, una sempre più complessa macchina istituzionale. Fu esso a guidare la più straordinaria e duratura < storia di successo> del mondo antico , realizzata con un esemplare impasto di abilità politica e diplomatica, di brutalità e competenza militare, di sapienza istituzionale e di governo. Una storia dove vecchio e nuovo si saldano felicemente, giacché la capacità di far fronte al nuovo di questa aristocrazia non attenua il suo attaccamento e il continuo riferimento al significato esemplare del passato. Come del resto sovente è avvenuto nei processi storici, le tradizioni e la mentalità dell’antico patriziato si erano trasmesse alla nobiltà patrizio – plebea. E’ vero che, in teoria, ciascun cittadino che fosse nato da padre libero, ingenuus, poteva aspirare ad una carica magistratuale. Ma nei fatti questa carriera era aperta a pochi e in genere predeterminati individui appartenenti a un ristretto gruppo sociale. Era aperta, come già prima del 367 a.C. , a chi appartenesse alla non molto numerosa aristocrazia di sangue : ai patrizi. Nell’antichità classica ma soprattutto in Roma, il buon cittadino, l’individuo che dà il suo contributo alla vita della città è anzitutto un potenziale soldato. E’ altresì una persona che partecipa attivamente alla vita politica cittadina. Il suo tempo non è dedicato all’attività economica : il sostentamento suo e della famiglia è ricavato in genere da una proprietà fondiaria lavorata da altri soggetti : gli schiavi, i contadini pagati a giornata o, come coloni, con parte del prodotto del fondo. Per questo solo il giovane appartenente a una famiglia di buoni proprietari fondiari poteva pensare a una sua ascesa politica, condizione per il suo inserimento nella nobilitas patrizio – plebea. Ma occorreva anche che egli godesse di amicizie e protezioni altolocate : la prima condizione per il suo successo era infatti distinguersi nel corso degli anni di servizio militare. Un servizio militare prolungato : non meno di dieci anni dovevano passare in tale condizione , prima che il cittadino, lasciate le armi, potesse presentarsi a una candidatura. Ovviamente una condizione del genere tagliava fuori da ogni possibile aspirazione tutti coloro che dovevano vivere PAGE 166 del loro lavoro, la gente minuta. D’altra parte non meno importante era il modo in cui questo prolungato impegno militare poteva essere assolto. Allora , come oggi, essere prescelto a servire direttamente nello stato maggiore del generale impegnato in una campagna militare agevolava notevolmente il giovane ufficiale, che avrebbe avuto modo così di distinguersi per abilità e coraggio, addestrarsi nel comando e imparare le strategie e le tecniche militari, elemento molto importante anche nelle successive tappe della sua carriera. Solo dopo gli anni non brevi di questa esperienza, avendo acquistato quindi un minimo di rilevanza in essa, e illustratosi per le sue capacità e il suo coraggio, magari nel corso di qualche azione particolare, egli avrebbe potuto presentarsi alle elezioni per le cariche minori: quella di questore e di edile. E lì , di nuovo, occorrevano amicizie, protezioni e alleanze. Giacché , occorreva essere prescelti in una rosa di candidati, ciò che tagliava fuori chI non avesse appoggi in senato o tra i magistrati proponenti. E occorreva impegnarsi poi in una campagna elettorale che, nel tempo, sarebbe divenuta sempre più dispendiosa, sino a costringere gli aspiranti, che non fossero eccezionalmente ricchi, a indebitarsi , sperando poi di saldare i creditori con i guadagni ricavati dalle campagne militari vittoriose o dall’amministrazione ( e spoliazione ) delle province. Colui che veniva eletto a una carica magistratuale usciva dunque da un prolungato collaudo , sperimentato anzitutto nella sua capacità militare, già inserito in una rete di protezioni e alleanze del ceto di governo romano, supportato da un minimo di redditi autonomi, in genere derivanti dalla proprietà agraria. Anche gli < uomini nuovi > che, nel corso di ogni generazione, rinsanguarono la vecchia nobiltà senatoria appartenevano in sostanza a un blocco sociale molto omogeneo e controllato. Essi erano quasi sempre inseriti, sin dall’inizio , seppure in forma subalterna, all’interno delle logiche e delle alleanze dell’oligarchia romana. Un curricolo del genere comportava evidentemente una forte selezione, superata solo dai migliori o più fortunati. Malgrado i privilegi che la nascita assicurava in partenza ad alcuni, giocavano in genere anche le qualità personali garantendo un’adeguata mobilità nella forte gerarchia sociale e politica romana ( anche nel senso dell’emarginazione di membri dei vecchi gruppi oligarchici troppo incapaci o , comunque, inadeguati alla difficile carriera della politica e del governo). Il collaudo così effettuato di questo insieme di competenze e di storie personali trovava il suo esito finale nel senato, dove infine esse si riversavano, assicurando la qualità di governo della repubblica. Sempre più, poi, man mano che aumentavano gli impegni militari di Roma, i quadri di governo , proprio attraverso il loro lungo curricolo militare anteriore al loro diretto impegno nella politica cittadina, accrebbero le loro competenze ed esperienze militari. Talché , mentre per i secoli le legioni romane furono costituite dai cittadini – proprietari, ispirati a un immediato e vitale patriottismo, i loro comandi assunsero nel tempo un carattere semi – professionale che li mise in grado di sostenere il confronto con le tecniche e le competenze delle armate di mestiere, da quella macedone e cartaginese, a quelle dei regni d’Oriente. Rispetto agli eserciti cittadini, le armate mercenarie avevano infatti il vantaggio di avvalersi di uomini più allenati ed esperti nel combattimento e di ufficiali e di comandi sperimentati e dotati di competenze e conoscenze che mancavano sovente ai quadri dirigenti degli eserciti cittadini. Quanto poi fosse rilevante l’aspetto militare nella storia individuale e nei ruoli sociali, lo mostra l’importanza che avrà , nel corso di tutta la repubblica, il solenne riconoscimento tributato ai singoli per il proprio valore in guerra e, soprattutto, ai comandanti militari in occasione di grandi successi, con il trionfo. Solenne cerimonia, decretata dal senato , con cui il magistrato, sfilava solennemente nella città, seguito dalle sue legioni, esibendo il bottino della vittoria, e i prigionieri , dove il grande fasto pubblico si associava alle arcaiche forme simboliche del ptoere. Col tempo si venne definendo un preciso insieme di regole volte a disciplinare la carriera pubblica dei cittadini romani. Questa aveva inizio con l’elezione alle magistrature minori, presupposto per aspirare alle cariche superiori, dopo un regolare intervallo di tempo tra l’una elezione e l’altra, giungendo infine al vertice della repubblica, con l’elezione a console e a censore. Tale disciplina escludeva altresì un’immediata rielezione alla stessa carica, sempre al fine di evitare un’eccessiva concentrazione di potere in singoli individui. Malgrado il costante, anche se controllato e circoscritto, rinnovamento del ceto dirigente romano di cui s’è detto , tutta la vita politica continuò a essere solidamente controllata dalle consorterie PAGE 166 nobiliari. E la lotta di potere, i rapporti di forza e le alterne vicende della politica passarono anzitutto attraverso la storia delle gentes. Pur non identificandosi più con il tramontato monopolio patrizio delle cariche pubbliche e del senato, esse infatti costituivano un potente legame sociale e un sistema di solidarietà e di alleanze naturali entro cui l’individuo si trovava a operare. Anzi , il fatto che ben presto gli strati superiori della plebe si venissero anch’essi organizzando per gentes, accanto alle antiche stirpi patrizie, contribuì a conservarne la rilevanza pubblica e sociale. In una società fortemente tradizionale e gerarchica come quella romana, dove il rango era determinato dall’appartenenza a un lignaggio e fondato sui meriti degli antenati , per i plebei come per i patrizi, l’appartenenza a una gens restava un sicuro punto di riferimento. In effetti la formazione e la condotta politica e sociale dei membri della nobilitas si ispirava anzitutto alle tradizioni familiari e al ricordo dell’opera delle generazioni precedenti. Ricorrono costantemente, nella vita politica in Roma, nel corso di molti secoli, i nomi delle grandi stirpi nobiliari portati dagli innumerevoli magistrati che si successero al governo della repubblica. Inframmezzati qua e là da qualche nome diverso : di nomine novi ascesi a rinsanguare l’aristocrazia repubblicana, che conservò il monopolio del potere sino all’età delle guerre civili, in un contesto fortemente gerarchico , dove il popolo minuto era chiamato a un ruolo di comparsa o poco più. Non esistevano dunque le condizioni perché si formasse un tipo di alleanze o raggruppamenti politici su progetti e programmi, come nell’esperienza moderna, del < partito> politico. Non che non esistessero divergenze anche molto profonde, all’interno dell’oligarchia romana in ordine alle scelte politiche, sia interne che internazionali, e che non esistessero strategie consolidate e contrapposte, delineatesi e persistenti nel corso delle generazioni. Ma tutto ciò era anzitutto affidato alla memoria familiare e di ceto : ancorati alla loro specifica tradizione, i diversi clan continuavano nel tempo a ispirarsi ai modelli aviti , a ripercorrere, in contesti politici nuovi, antiche strade, richiamandosi ai loro specifici valori. Rapporti di parentela e appartenenza gentilizia, legami di amicizia individuali e di gruppo e, soprattutto , vincoli clientelari costituivano in effetti, nel corso di tutta la storia romana quei collanti su cui si fondava la politica , e con cui si costruivano il consenso sociale e le fortune individuali. Di qui le tradizioni politiche a tutti note, come l’orientamento conservatore dei Fabi , sin dai tempi più antichi , legato ai valori agrari e cauto verso le nuove politiche imperialistiche, di contro il carattere avventuroso e capace di grandi aperture innovative dei Claudi. La storia di queste famiglie serve a educare le nuove generazioni e a orientarle , non meno, peraltro, di quanto gli interessi del presente inducessero poi queste ultime a riscrivere la loro stessa storia familiare. La coscienza di un’antica comunanza, i sui simboli, quali le pratiche tradizionali e il sepolcro gentilizio, i collegamenti più o meno tenui, ma reali tra i vari gruppi familiari legati a un originario comune lignaggio, sono infatti elementi che si accentuano man mano che si sale nella piramide sociale. Uno strumento fondamentale di questa persistente forma gerarchica e dei ruoli ora delineati è rappresentato dalla clientela che costituisce un tipo di relazione straordinariamente diffuso nell’antichità , anche fuori di Roma. Non si tratta più della clientela arcaica, dipendente dalle grandi signorie patrizie ormai scomparse, ma di un reticolo di alleanze e di rapporti di dipendenza di natura più complessa . Che corrisponde anzitutto a un sistema di ruoli : con la riaffermazione di forme di signoria aristocratica che si sostanzia nel < largir protezione> in tutte le forme ai ceti socialmente più deboli. Intorno alle grandi famiglie e con riferimento alle personalità più eminenti tra i vari patres, si venne costruendo così un reticolo di forme di lealtà subalterna destinate a riflettersi anche nel momento elettorale, a sostegno delle ambizioni e dei disegni dei grandi. E’ in questo quadro di relazioni reciproche di scambio che, si inseriscono anche le carriere degli < uomini nuovi >. Molti di essi infatti, lungi dal < farsi da soli> fruirono dei legami di protezione forniti loro dai vari gruppi nobiliari per muovere i primi passi della loro carriera. Quanto fosse importante lo schema clientelare in Roma, lo prova il fatto che questo sistema di relazioni squilibrate non restò circoscritto solo ai rapporti sociali e politici cittadini. Su una logica non dissimile , infatti, si fondò il tipo di relazioni funzionali alla costruzione dell’egemonia di Roma. Quando infatti un magistrato romano, con la sua vittoria militare, aveva ottenuto la resa di una città o di una popolazione, con il conseguente assoggettamento politico, egli ne assumeva la protezione. Anzitutto facendosi intermediario tra gli interessi di questa comunità e il supremo volere del senato, PAGE 166 Tutto ciò fu possibile grazie alla precoce affermazione, in Roma, di un gruppo sociale relativamente articolato, distinto dalla mobilità delle cariche, tutta orientata al governo della politica e agli impegni militari. Si trattava di individuare provvedimenti dagli strati più ricchi della popolazione : quelli che fornivano all’esercito i cavalieri , gli equites, in grado di provvedere a loro spese alla costosa cavalcatura. Non solo costoro erano i detentori dei capitali necessari a supportare le intraprese ora accennate, che sovente richiedevano forti anticipazioni finanziarie e un sistema di garanzie patrimoniali da fornire alle pubbliche autorità . Ma essi soprattutto avevano acquisito quelle competenze e quelle tecnologie finanziarie e imprenditoriali richieste per far fronte ai compiti ora richiamati. Si tratta insomma di una specializzazione e anche di una peculiare destinazione di flussi di ricchezza che identificava e circoscriveva i suoi titolari dando ad essi un ruolo sempre più importante nella società romana, ma , insieme segnava la separatezza dalla nobilitas patrizio – plebea, proposta alla politica e in grado di monopolizzare il governo cittadino. Un sottogruppo particolare di questo ceto di < cavalieri > e di appaltatori ( redemptores ) è rappresentato dagli appaltatori ( e riscossori) delle imposte, i publicani, così odiosamente richiamati in tante testimonianze antiche e addirittura nei Vangeli , per il loro ruolo negativo e insostituibile insieme nello sfruttamento dei popoli provinciali. In genere la formazione di questi nuovi gruppi sociali e l’affermarsi delle connesse attività economiche viene collocato in un periodo successivo a quello qui considerato. Ma se questo sistema non si fosse già avviato sin dalla fine del IV secolo, come sarebbe stata in grado Roma di affrontare l’imponente quantità di opere pubbliche che, se non altro a partire dalla censura di Appio Claudio , nel 312 a.C. , venne realizzata e, poi , di riconvertire in pochissimi anni la sua forza militare, attrezzando una potente flotta, nel corso della Prima guerra punica ? . E come avrebbe potuto mobilitare e coordinare le risorse della Magna Grecia nello scontro essenzialmente sul mare svoltosi nel corso della Prima guerra punica ? senza poi considerare i prolungati e pesanti sforzi organizzativi necessari al sostentamento delle stesse sue armate nella drammatica guerra contro Annibale e di cui abbiamo precise testimonianze in Livio. Ci si riferisce anzitutto all’assunzione da parte di alcune compagnie di pubblicani, nel 215 a.C. , dell’onere dei rifornimenti alle truppe romane in Spagna. Di fronte alle case pubbliche ormai vuote costoro furono in grado d’anticipare le somme colossali per tale operazione, senza previsione della data del rimborso delle spese da parte delle autorità cittadine , con il patto di poter recuperare i loro crediti solo con il miglioramento delle sorti della guerra. 3. Appio Claudio Cieco e gli inizi della modernizzazione Un esempio significativo della fedeltà alle tradizioni gentilizie e della conseguente continuità politica all’interno del ceto dirigente romano lo troviamo in Appio Claudio . Alla fine di quel IV secolo così ricco di mutamenti e di aperture , egli sembra emblematicamente segnare per più di un aspetto i nuovi orizzonti della scena politico – istituzionale romana. La sua preminenza politica, chiaramente echeggiata negli autori antichi, è attestata dalla sua rielezione al consolato nel 307 e nel 296 a.C. In sé nulla di più ovvio che il membro di uno dei grandi lignaggi romani, che sin dalla sua migrazione in Roma, agli inizi della repubblica, aveva continuato a illustrare la gloria , pervenisse ripetutamente alla massima carica magistratuale. E neppure può apparire singolare il fatto che egli , nella sua azione di governo, svolgesse un ruolo di innovazione e di < modernizzazione >, del tutto in linea con le tradizioni familiari. Colpisce piuttosto l’amplissimo spettro dei suoi interventi che vanno dalle strutture materiali della città sino al cuore dei suoi processi culturali e tecnici. Ha quasi un valore simbolico, in effetti, il fatto che la prima e più importante via di comunicazione costruita da Roma, la via Appia, chiamata dagli stessi Romani la < regina delle vie>, prenda il nome da questo personaggio che, nella sua censura, ne determinò la costruzione. Non si tratta solo di una grande opera pubblica e di comunicazione civile : essa corrisponde anzitutto a un progetto politico e militare di espansione verso la Magna Grecia, in un percorso che unisce Roma alla Campania, dirigendosi poi verso l’Apulia, sino al grande porto di Brindisi : la porta verso la Grecia e il Mediterraneo orientale. Progetto politico e militare, perché l’espansione verso l’Italia meridionale significava anche una PAGE 166 scelta tra due alternative possibili che si ponevano ai Romani. O la mera fedeltà alla tradizione politica di crescita territoriale e della ricchezza fondiaria, o una nuova apertura verso gli orizzonti e le possibilità che il contatto con il mondo mercantile della Magna Grecia rendeva possibile. A favore della prima alternativa erano orientati soprattutto i grandi più tradizionalisti, oltre al ceto dei medi e piccoli proprietari agrari, cui si associava quella < fame di terra > propria del mondo contadino. I loro interessi erano orientati verso le ricche terre dell’Italia centrale e settentrionale. D’altra parte si apriva la possibilità di nuove aperture verso un’economia dominata dagli interessi commerciali e orientata verso i grandi traffici mediterranei, associata piuttosto alle città e ai porti della Magna Grecia, fiorenti oltre che per i commerci e l’agricoltura, per un ricco artigianato di cui restano tante evidenze archeologiche. L’esito finale di questa seconda prospettiva era il mare : un grande mutamento di orizzonti per una potenza militare così < territoriale > come Roma. Lo spostamento degli orizzonti politici romani verso il Mezzogiorno significava in effetti un’alleanza più stretta con gli interessi mercantili e marinari delle città ivi situate. Appio Claudio è uno dei primi personaggi di rilievo che sembra trarre tutte le conseguenze dalla presenza romana in Campania. Egli infatti appare come uno dei precoci fautori di quella che, nel corso del secolo successivo, costituirà la grande svolta politica di Roma, gravida di conseguenze per tutto il mondo antico e che si sarebbe sostanziata anzitutto nel drammatico conflitto con Cartagine per il controllo del Mediterraneo occidentale. L’attenzione di Appio Claudio verso gli aspetti mercantili e finanziari e i ceti più direttamente a essi collegati è anche alla base della riforma della composizione delle tribù che comportava la valutazione, accanto ai beni immobili , anche della ricchezza mobiliare per la distribuzione della cittadinanza. Un criterio che si sarebbe riflesso altresì sulla stratigrafia sociale dei comizi centuriati. Questa radicale innovazione si associa ad un’altra novità introdotta con la sua censura : l’iscrizione tra i nuovi senatori di alcuni liberi. Fu un atto certo inaudito agli occhi dei Romani , sulla cui veridicità , del resto , si può nutrire qualche dubbio, che esprime tuttavia la tipica arditezza, sino all’arroganza , dei Claudi. Si trattò comunque di riforme troppo radicali destinate ad avere vita breve perché negli anni successivi, in un abbastanza ovvio riequilibrio di rapporti, si ebbe la revoca sia dell’iscrizione nelle tribù rustiche della turba dei non proprietari, ricondotti così all’interno delle sole quattro tribù urbane , sia la cancellazione degli ex schiavi fatti senatori. Quest’ultima vicenda comunque fa pensare ad una crescente importanza dei liberi nell’economia mercantile romana. Malgrado questi temperamenti, profonda e duratura appare l’azione di rinnovamento realizzata da Appio , della cui fortissima personalità risuona chiaramente l’eco negli storici antichi. E questo, a sua volta, evidenzia una linea di continuità ideale con l’antico decemviro : che si ritrova nel ruolo affatto particolare giocato dal Censore nel campo del diritto. Di nuovo venne in gioco , come al tempo delle XII Tavole , il monopolio del collegio pontificale, che anche Appio Claudio Cieco mirò a rodere , ma in modo meno radicale , più sapiente , e per ciò stesso , alla lunga, più efficace di quanto non avesse fatto il suo avo. A lui risale infatti un’iniziativa gravida di conseguenze intrapresa dal suo segretario e liberto Gneo Flavio ( giacché appare pressoché impossibile che questi non avesse avuto il consenso del patrono) . Flavio infatti, nel 304 a.C. , rese pubblici i calendari e i formulari delle azioni processuali, permettendo a tutti i concittadini di accedere direttamente alla conoscenza degli strumenti fondamentali per la tutela processuale dei loro diritti. Sino ad allora costoro erano dipesi dalla esclusiva e riservata conoscenza che ne aveva il collegio pontificale, al quale quindi dovevano rivolgersi per poter agire in giudizio. Si trattò di un formidabile salto in avanti nel processo di diffusione delle conoscenze giuridiche. E qui si saldano quelle aperture verso nuovi orizzonti politico – geografici, a una più o meno consapevole intuizione delle nuove esigenze che le dimensioni più vaste della politica di potenza romana comportavano anche sul piano del diritto. Si ha una gamma di soluzioni straordinariamente innovative che, già nel 338 a.C. , furono introdotte nella sistemazione del Lazio e della Campania settentrionale. Questo è un punto abbastanza trascurato dagli studiosi moderni : come se fosse ovvio e affatto naturale quell’improvviso capovolgimento logico che, dall’esclusivismo proprio della città antica fece scaturire il suo opposto : la moltiplicazione della città stessa in tanti < micro – doppioni> ovvero i municipi. Che PAGE 166 svuotò l’essenza stessa della civitas, l’idea d’appartenenza al corpo cittadino, appena completatasi con il patto patrizio – plebeo, introducendo questa cittadinanza dimezzata : qualcosa che < è e non è > , costituita dalla civitas sine suffragio. I più intelligenti e consapevoli si dovettero rendere conto dell’utilità e forse della necessità urgente di rafforzare quegli strumenti logici e tecnici che sino ad allora erano stati tranquillamente affidati al lavorio separato e sicuro di una esperta consorteria quale il collegio pontificale, rinforzato, da pochi anni, dalla figura del pretore. Non solo si trattava di far fronte ai grandi processi istituzionali ingenerati dalla stessa espansione politica romana, or ora considerati, ma anche al rapido accrescersi di nuove esigenze nel campo dei rapporti privatistici. Qui infatti, al diritto delle persone e alla disciplina dei rapporti familiari e successori, si era venuto sostituendo , al centro della vita sociale, l’insieme dei rapporti negoziali, funzionali a un’accresciuta circolazione di beni. Chiamato a mediare e orientare questi processi, il vecchio consesso pontificale, forse, rischiava di non essere più adeguato rispetto alla loro dimensione quantitativa e alla complessità , ingenerata dall’accentuato processo evolutivo della società romana. Anche oggi lo possiamo constatare : quando interviene una forte accelerazione economico – sociale, sia in termini qualitativi ( nuove esigenze cui sempre meno agevolmente sopperiscono gli strumenti tradizionali ) che quantitativi ( maggiori transazioni, più numerosi soggetti a esse interessati e quindi indirettamente coinvolti in problemi legali ) le forme del diritto preesistenti e la cultura giuridica consolidata stentano a tenere il passo. E il risultato della storia contemporanea è sotto i nostri occhi : da una parte la tendenza al blocco e alla paralisi, dall’altra, sotto l’apparenza di uno spontaneismo o , almeno , di una casualità anarchica, nuove risposte che si vengono ingenerando all’interno della società, sovente dal basso, prescindendo dal formalismo statuale che prima o poi daranno luogo a nuove forme relativamente consolidate. E’ possibile che, di fronte a una posizione che poteva divenire di freno dei pontefici, il pretore da solo non fosse in grado di gestire e governare la trasformazione. Ed è egualmente ipotizzabile che tutto ciò, insieme alle ancora latenti tensioni tra gli ordini, si ricordi sempre che l’ultima e oscura sessione plebea era ancora da venire, agli inizi del III secolo a.C. , potesse ingenerare un malessere, non certo tra gli strati inferiori della plebe, ma proprio tra coloro che alla crescita erano più interessati e avevano necessità di forme giuridiche adeguate , soprattutto di un accesso a esse facilitato e semplificato. Certo, è solo un’ipotesi : che però permette d’inquadrare la spinta innovatrice di Appio e del suo scriba all’interno di una logica coerente. Si potrebbe dunque interpretare l’opera riformatrice di Claudio come destinata a ridisegnare ruoli e funzioni di governo ( giacché il diritto per i Romani era allora e restò sempre una funzione privilegiata di governo della società) all’interno del preesistente blocco sociale. Il che ci farebbe capire che la sua azione, diversamente da quella del predecessore in età decemvirale, fosse il contrario di una rottura istituzionale. Pur non meno incisiva, spostando anch’essa equilibri consolidati, senza tuttavia modificare la complessiva gerarchia dei ceti dirigenti romani, in nessun modo riprendeva l’idea di una legge della città che si sovrapponesse e si sostituisse come meccanismo di ammodernamento e di sviluppo, all’interpretatio. In modo più o meno consapevole, le sue aperture avviavano piuttosto il superamento dei tempi morti e del lento filtraggio tipici di un collegio chiuso, con le sue logiche di corporazione, indipendentemente dalla sua stessa composizione sociale, come erano i pontefici. Esse tendevano piuttosto ad avviare ed ampliare un < mercato > , non di cose , ma di giuristi. Che, tuttavia, come sempre in Roma, era un mercato controllato da una logica generale di tipo gerarchico, tale da escludere in partenza qualsiasi forma generalizzata di eguaglianza , secondo gli schemi delle democrazie antiche o moderne. La tradizione ci dice che lo stesso Censore fosse competente nel campo del diritto, sino a essere autore di opere giuridiche. Il ceto di governo romano, agli inizi della sua grande avventura imperiale, si impadronisse del diritte controllo del diritto, più o meno consapevole dell’enorme valore di esso : anzitutto come strumento di governo e di potere. Semmai colpisce la precoce comprensione di come la politica e le forme dell’organizzazione, quindi il diritto , fossero altrettanto essenziali di quanto non fosse la forza delle armi. PAGE 166 processo di parificazione dei due ordini, ammettendo i plebei ai collegi sacerdotali ). Questi infatti, nel 254 a. C. , rendendo pubbliche le sedute dei pontefici, permise che, anche al di fuori del ristretto numero dei membri di quel collegio, altri acquisissero la conoscenza dei contenuti e la comprensione dei metodi applicati dagli stessi pontefici. Divenne allora possibile anche per altri cittadini dedicarsi allo studio e all’interpretazione della tradizione giuridica romana. . Con la definitiva e sistematica affermazione di queste nuove tendenze, in età postannibalica, si imposero, al di fuori di esso, le prime grandi personalità di giuristi ( che solo in alcuni casi rivestirono anche la carica di pontefice ), iniziando una riflessione sistematica sulle norme, sugli istituti e sulle forme processuali. Si trattava di un lavoro a metà teorico e a metà pratico, che si aggiunse e poi si sostituì a quello dei pontefici nell’assistere e orientare i propri concittadini : consigliandoli sugli atti giuridici da stipulare ( cavere ), aiutandoli nell’interpretare situazioni legali oscure e incerte ( rispondere ) e assistendoli negli eventuali litigi ( agere ). I giuristi ricevevano nelle proprie abitazioni amici, clienti , ma anche estranei che necessitavano di un parere legale, largendo consigli e assistenza. Gli incontri erano un aspetto della vita sociale e ovviamente, pubblici : pubblici i consigli e le spiegazioni. Così intorno ai più brillanti e autorevoli tra questi specialisti, da cui si andava per un parere, ma anche per istruirsi , si costituì un pubblico di auditores. E tra costoro , nascevano interessi e vocazioni, si formavano allievi che imparavano il modo di ragionare del giurista già affermato , comprendevano il procedimento utilizzato per giungere a certi risultati, acquisivano la conoscenza di tradizioni legali consolidate e di leggi. Diventavano insomma, essi stessi , nuovi giuristi. Nel tramonto della scienza pontificale dovette giocare un ruolo non marginale la progressiva diffusione della scrittura. Certo , essa risale già alla Roma del VI secolo a.C. , com’è pacifica la redazione scritta delle XII tavole. Tuttavia la stessa formulazione delle norme in esse contenute, funzionale alla memorizzazione ( e Cicerono ci informa che, ancora ai suoi tempi i ragazzi dovevano imparare a memoria le intere XII Tavole ), insieme all’accentuato ritualismo di tutte le più antiche forme giuridiche romane e all’insistita presenza di testimoni fa pensare più a una durevole rilevanza dell’oralità che non all’uso di documenti scritti. E’ almeno verosimile che anche molti dei procedimenti e delle soluzioni perseguite dal pontefice, seppure schematicamente registrate in testi scritti, si fondassero, almeno in parte, sulla memoria del gruppo. Già nel III secolo a.C. , e più ancora nel successivo, intervenne tuttavia un notevole ampliamento delle forme scrittorie . E’ allora , in tale mutato contesto, che la nobilitas laica si impadronì di questa sfera del sapere pratico, iniziando a produrre testi scritti in cui si conservava memoria dei casi e delle soluzioni già discusse e delle proposte avanzate dall’uno o dall’altro giurista. La raccolta di questi testi iniziò così a circolare, contribuendo all’accumulazione di un sapere trasmesso nel corso delle generazioni , con le inevitabili selezioni, consolidamenti, e ulteriori innovazioni. D’altra parte lo scritto, invece della sola memoria, favoriva anche una nuova articolazione del pensiero, la stesura di ragionamenti più complessi. Al carattere oracolare e apodittico del parere pontificale si sostituì così la discussione e il ragionamento di cui restava ricordo scritto. Si aprì allora la lunga strada della costruzione intellettuale e di un sistema di governo dei rapporti sociali che ha impastato di sé la storia della civiltà europea. Questo lavoro di riflessione sul diritto romano da parte dei pontefici prima, della scienza giuridica laica in seguito significa che,fintanto che i primi erano stati i depositari anche della conoscenza delle norme, totale era stata la loro autorità nell’interpretarne il contenuto e la portata. Anche alla luce delle pratiche più tarde, pur presenti ancora nei giuristi tardo repubblicani , è verosimile che il punto di partenza del loro lavoro consistesse nella determinazione precisa della portata delle antiche formule legislative e negoziali. Anzitutto la comprensione e spiegazione del significato letterale delle parole in esse impiegate : interpretazione non facile, per l’oscurità della lingua arcaica di molte delle antiche norme, ma , soprattutto, non neutrale perché , in molti casi, attraverso nuovi e modificati valori attribuiti al singolo vocabolo o alla frase , si poteva innovare e modificare il valore immediato e l’originaria portata delle norme. Da questo punto di partenza il controllo pontificale si spinse più in là di quest’ambito allorché , molto liberamente e con PAGE 166 intelligenza creativa, innovò il contenuto ed estese o mutò l’ambito di applicazione dei singoli negozi e dei vari istituti giuridici. Non vi è praticamente norma nelle XII Tavole che non richiedesse e non rendesse possibile un insieme di interpretazioni sempre più complesse e innovative man mano che le arcaiche forme del diritto antico si rivelavano di per sé insufficienti a disciplinare una realtà sociale ed economica in rapido sviluppo. Strumenti essenziali di questa prima fase dell’esperienza giuridica romana furono anzitutto l’utilizzazione su vasta scala delle finzioni giuridiche e dell’analogia. Nuovi risultati si realizzavano appunto modificando consapevolmente il significato e la portata di un istituto per giungere a conseguenze del tutto diverse da quelle ordinarie. Nella stratificazione del sistema giuridico romano incontriamo così, in modo pressoché sistematico, la distorsione consapevole dell’originaria finalità di antichi istituti per giungere a risultati affatto nuovi. Ad esempio utilizzando il divieto di abusare del potere di vendita del figlio sancito dalle XII Tavole ( che stabilivano un limite al numero di vendite effettuate da parte del pater , superato il quale costui perdeva la sua potestas sul figlio ), per creare il nuovo istituto dell’emancipazione : una serie di vendite fittizie con cui il padre liberava volontariamente il figlio dalla sua potestà. Ma si pensi ancora alla molteplice applicazione, sicuramente gestita dai pontefici , di falsi processi, concordati tra le parti, per giungere a conseguire una pluralità di risultati : dal trasferimento della proprietà, all’adozione di un figlio o alla liberazione di uno schiavo. E il collegio pontificale egualmente deve anche essere intervenuto a progettare la norma decemvirale che ammetteva la temporanea assenza della moglie dalla casa maritale, in modo da scindere un legittimo matrimonio, valido secondo il diritto civile, dal pesante potere patriarcale del marito, in origine indissolubile dal matrimonio stesso. Egualmente si finse di < vendere > un patrimonio, quando in verità si voleva lasciare il medesimo, dopo la propria morte, ovviamente a titolo gratuito, a un successore : l’erede. In altri casi invece si trattava di utilizzare uno schema già esistente nell’esperienza giuridica romana per estendere l’efficacia rispetto a situazioni similari, anche se non originariamente previste. Con la < laicizzazione > della scienza giuridica venne meno l’originaria forza cogente del sapere pontificale che scioglieva difficoltà e dubbi, esprimendosi con soluzioni univoche e in forma definitiva. Proprio perché i pareri non provenivano più da un’autorità unica ma da una molteplicità di individui appartenenti al ceto dei giuristi, prese forma una nuova fisionomia del diritto , concepito come ius controversum. Un diritto in cui l’effettiva portata e significato stesso delle regole, il suo modo di funzionamento, non tendevano a sostanziarsi in forma chiara e conclusiva, ma derivavano da un continuo e sempre rinnovato dibattito tra gli specialisti. Prevalevano di volta in volta le idee e interpretazioni più convincenti , le soluzioni proposte dalle personalità più autorevoli. Autorevolezza, del resto, determinata essenzialmente dal consenso degli altri giuristi e dall’opinione pubblica, secondo una logica destinata a persistere per tutta la restante età repubblicana e durante il principato. Certo , in tal modo, sussistevano margini relativamente ampi d’incertezza circa le soluzioni di ciascun caso pratico e conseguentemente, circa i criteri di comportamento che doveva assumere il cittadino sia in ordine a possibili accordi e nuovi affari giuridici, sia intorno alla legittimità di una pretesa avanzata da lui o contro di lui, sia intorno alla sfera di poteri che i vari diritti di sua pertinenza gli potevano assicurare. In verità ciascuno, ma anche lo stesso magistrato nella sua azione giurisdizionale, doveva orientarsi rispetto a un insieme di opinioni, talora piuttosto contraddittorie e quasi mai uniformi, sostenute dai giuristi in relazione alle varie questioni loro sottoposte. Ma questo è appunto il carattere < controverso > del diritto romano identificabile in un corpo di soluzioni adottate dai vari giuristi, in relazione a un’infinità di casi , e nel corso di più generazioni. Certo , un’idea semplificata di < certezza > veniva così sacrificata a favore di una dialettica in incessante sviluppo. Questo, lungi dall’indebolire, accentuò il prestigio dei giureconsulti, fondato sulla loro continua attenzione alla coerenza logica delle soluzioni adottate rispetto alle premesse, sul rigoroso rapporto tra la < regola > astratta e la portata precisa del caso da risolvere e soprattutto sull’ininterrotta verifica dei risultati di volta in volta conseguiti. Un meccanismo del genere sorse e si sviluppò essenzialmente sotto lo stimolo di nuovi casi continuamente sottoposti all’attenzione e alla PAGE 166 valutazione dei giuristi. Questi, a loro volta, furono poi da essi utilizzati in via autonoma come palestra per nuove elaborazioni ; talora i casi stessi furono inventati, onde verificare la validità e la portata delle soluzioni già adottate o addivenire ad altre alterntive. Questo modo di lavorare riguardava essenzialmente problemi specifici, impegnandosi raramente in enunciazioni di carattere generale sulla base di presupposti teorici esplicitamente individuati. Sin dalla prima età di questa nuova fioritura scientifica possiamo cogliere gli indizi di una forza creativa che, probabilmente, non era stata così evidente , forse neppure così presente, nella fase precedente. Basti pensare che le prime generazioni di giuristi laici ( così si indicano questi nuovi cultori del diritto estranei al collegio pontificale ) vennero a creare , con la loro riflessione, nuovi istituti del diritto civile, nuove categorie di diritti e nuove relazioni, completamente al di fuori di ogni normativa legale e assolutamente estranei all’insieme di regole introdotte dalle XII Tavole. Questo ad esempio è stato il caso del rivoluzionario riconoscimento di situazioni giuridiche destinate a limitare l’antico diritto di proprietà e il cui contenuto consisteva in un insieme di facoltà per l’appunto inerenti a questa stessa proprietà . Ci si riferisce all’usufrutto e alle servitù prediali, introdotte sicuramente tra la fine del III e la prima metà del II secolo a.C.e tutelate mediante actione in rem. Ma ancor più innovativo appare il riconoscimento intervenuto , sulla base di un formidabile sforzo teorico, con la netta distinzione della nozione del possesso da quella del diritto corrispondente, la proprietà. Un’operazione che molte altre esperienze giuridiche non hanno mai realizzato appieno e che, giù nel III secolo a.C. era acquisita dai giuristi romani. Si pensi infine al ruolo che questi giuristi dovettero giocare, insieme al pretore, nell’elaborare il nuovo sistema processuale destinato a obliterare le antiche e rigide legis actiones . Ma non meno importante fu l’attività interpretativa dispiegata nel campo degli illeciti extracontrattuali e , successivamente, il ruolo dei giuristi nella creazione dei contratti consensuali. Praticamente non vi è un campo in cui l’intervento dell’interpretazione della giurisprudenza laica non abbi innovato radicalmente, introducendo nuove regole e istituti fondati appunto su null’altra autorità che il proprio prestigio. Per questo dobbiamo ricordare che, quando parliamo dell’< interpretazione > dei giuristi romani, usiamo un termine che, nel suo significato corrente , è ampiamente inadeguato a farci cogliere appieno la forza creatrice di questo lavoro. D’altra parte non tutti i pareri e le soluzioni già date e ricordate dalla ristretta cerchia di giuristi erano d’egual valore e avevano un analogo peso nell’orientare privati , magistrati e giudici nella pratica legale. Giacché il parere dell’uno pesava più di quello dell’altro giurista, la soluzione proposta da quello si imponeva non solo per la sua intrinseca validità , ma anche per l’indefinibile e impalpabile, ma efficace , autorità del suo autore. Come in tutte le aristocrazie era un modo di pari, quello dei giuristi, dove non esistevano gerarchie formali, non vi erano carriere interne , né valutazioni < oggettive > , concorsi, esami , punteggi e quant’altro. Ma proprio per questo, quanto più indefinita era la dimensione dell’autorità intellettuale che disegnava e ridisegnava in continuazione gerarchie e spazi d’influenza , tanto più incisivo era l’effetto di questa autorità. Si primeggiava perché si era legittimati solo ed esclusivamente dai membri di questo gruppo ristretto , auto selezionato e volontariamente coeso. E più il procedimento seguito dall’uno dava luogo a risultati utili e convincenti, più le sue successive soluzioni finivano con l’essere recepite per la mera autorità già conseguita , non di rado senza che di esse si rendessero esplicitamente neppure le giustificazioni razionali che pur le avevano ispirate. 2. Il pretore e l’innovazione del processo civile romano Sin dalla sua istituzione, il pretore, come del resto gli altri magistrati com imperio , era caratterizzato da una forte autonomia rispetto all’ordinamento esistente. Caratere che si accentuò notevolmente allorché si modificarono i meccanismi che avevano presieduto sin dall’origine all’interpretazione e all’applicazione del diritto vigente. Per diverso tempo si era posto un serio limite tuttavia a questo processo innovativo : esso era rappresentato dalla rigidità e dal formalismo dell’antico processo romano per legis arcione. L’esistenza di circoscritti e predeterminati schemi verbali con cui si dovevano esprimere le pretese processuali bloccava l’ampliamento delle possibili pretese dei litiganti a situazioni non previste dalle forme arcaiche , vincolando la capacità innovativa della PAGE 166 romano, di cui il ius gentium venne a far parte a tutti gli effetti. Più tardi la riflessione filosofeggiante di qualche giurista romano identificò questo ius gentium con la parte comune ai diritti positivi delle varie società. Ma codesta specie di comparazione giuridica ante litteram è sicuramente una costruzione tardiva e posticcia, giacché la genesi di questo settore del diritto romano è interna all’esperienza romana. Certo, essa derivava dall’esigenza di fornire tutela a uomini appartenenti a esperienze giuridiche diverse, adeguandosi alla loro cultura e talora recependo anche pratiche mercantili diffuse nel bacino mediterraneo o comuni ai popoli italici, di cui molti elementi potevano essere presenti in Roma. Necessità elementare di tutti gli ordinamenti cittadini, in un quadro dove circolavano ampiamente uomini e cose, era quella di tutelare il valore degli accordi pacificamente stipulati, garantirne i risultati privilegiando la buona fede ed evitando ogni formalismo, del resto impossibile proprio per il carattere < promiscuo > ( sotto il profilo dei diritti d’appartenenza ) delle parti negoziali. Del resto le origini di questo sistema risalgono alla prima età repubblicana. Malgrado l’importanza di tali sviluppi, è però indubbio che incidenza ancora maggiore, sulla storia del diritto romano , ebbe l’ulteriore innovazione dell’introduzione del processo formulare. Questo infatti fu lo strumento fondamentale che permise al pretore di esplorare precocemente i grandi spazi che il suo imperium / iurisdictio magistratuale gli apriva. Dove egli era veramente il < sovrano > ( solo soggetto a un controllo equitativo o politico dei suoi consociati, eventualmente paralizzabile nella sua azione dall’intercessio di un console, di un collega o di un tribuno, oppure chiamato a rispondere delle sue azioni successivamente alla fine della sua carica ). Il pretore, non era il < servo della legge >, e pertanto poteva evitare di applicarla o poteva intervenire a condannare o ad assolvere anche in casi che la legge non prevedeva, se il senso comune di equità e le esigenze materiali di fronte a cui si fosse trovato avessero consigliato tali soluzioni. Di fatto, seppure sul piano eminentemente processuale, era un nuovo diritto che si sovrapponeva e correggeva, integrandolo, l’antico ius civile. Anche attraverso nuovi strumenti che il pretore veniva forgiando. Ad esempio un tipo di litigio che , già prima del processo formualre a partire dal III secolo a.C. , venne introdotto mediante una scommessa che i litiganti erano costretti a stipulare tra loro dal pretore onde accertare la verità di una loro pretesa giudiziale ( ager per sponsionem), superando così i vincoli e le rigidità delle stesse legis actiones. Vanno inoltre ricordati gli ordini del pretore contenuti negli interdetti ( una specie di procedimento sommario e di urgenza, anch’esso già definito nel II secolo a.C. e volto a tutelare situazioni non configurabili come diritti individuali ), nonché le stipulationes e le cautione. Con queste egli poteva costringere i litiganti, in via pregiudiziale, a fornire garanzie e ad assumere specifiche obbligazioni processuali per conseguire risultati lontani dal diritto civile, ma conformi a criteri di giustizia sostanziale. Così come formidabile mezzo d’innovazione era il potere di non ammettere una pretesa processuale pur legittima secondo lo stretto diritto civile ove ostassero motivi d’equità sostanziale o , addirittura di imporre al giudice di utilizzare, come se fossero intervenuti , di fatti non veramente esistenti ( actiones ficticiae) o di giudicare a favore dell’attore sulla base di fatti di per sé irrilevanti per il diritto civile ( actiones in factum). Questa vasta gamma d’interventi, se derivava dalla sfera di sovranità del magistrato, non esprimeva certo un suo arbitrio personale ; una sua privata alzata d’ingegno . Era qualcosa che, dopo i primi tempi, era previsto e atteso. Né il successore di un pretore che aveva bene amministrato la giustizia, ricevendo consenso dalla comunità , aveva interesse ad azzerare il già fatto : lo recepiva integralmente , modificando qualcosa che non andava, introducendo qualche altra novità che sembrava utile e necessaria. Così l’editto del pretore di anno in anno , veniva ripubblicato dal nuovo magistrato , conservandosi e completandosi nel tempo. Certo potevano, porsi al pretore, nel corso del suo anno di carica, nuovi problemi non preventivamente previsti nel suo stesso editto e non regolati dall’antico ius civile. In tal caso egli poteva assumere qualche nuovo provvedimento con un decreto appositamente assunto. Questo, a sua volta, se si fosse rivelato efficace, poteva successivamente essere inglobato organicamente nel nuovo editto emanato dal suo successore. La rivoluzione introdotta dalla giurisdizione del pretore urbano come di quello peregrino, non avvenne seguendo la logica di una giustizia < caso per caso> e incapace quindi di assurgere a regola generale di condotta del magistrato, conoscibile sin da prima da tutti gli interessati. Ciò sarebbe PAGE 166 stato contrario , non solo al persistente formalismo dei Romani, ma anche alle stesse generali esigenze di equità e di giustizia che si voleva privilegiare. Gli editti emanati da tali magistrati , le cui previsioni sempre più articolate e sempre più numerose, divennero nei fatti un nuovo corpo normativo. Romani e stranieri sapevano che, anche rispetto al diritto civile, l’editto del pretore innovava nella sostanza e prevaleva, giacché , senza protezione processuale, il diritto , in sé , valeva poco, potendo realizzarsi solo per il buon cuore della controparte, non per la forza di una sentenza. Accanto al sistema del diritto civile si venne così affermando un nuovo sistema di regole , che non potevano abrogare quello, ma che con quello coesistevano in modo sostanzialmente autonomo : il < diritto pretorio>, il ius honorarium ( e del resto , nella logica romana, neppure la sovranità della legge abrogava formalmente il vecchio ius ) . Fu questa singolare articolazione dei processi normativi a rendere possibile l’enorme e relativamente rapido sviluppo del sistema del diritto romano in funzione delle grandi trasformazioni economico – sociale iniziate all’epoca delle guerre puniche. Va ricordato che, oltre al pretore, anche altri magistrati aventi competenze giurisdizionali hanno emanato editti di un certo rilievo, anche se minori rispetto a quello pretorio, nell’evoluzione giuridica romana. Si tratta anzitutto degli edili curuli, che, erano preposti al controllo dei mercati cittadini e, in quell’ambito, erano titolari di una limitata giurisdizione. In secondo luogo, dei governatori provinciali, chiamati ad amministrare la giustizia nelle loro province, e che nel loro editto fissavano i criteri cui si sarebbero attenuti nel corso della loro carica. A partire dal II secolo a.C. sono ormai evidenti due logiche parallele su cui si struttura l’intero ordinamento giuridico romano : da una parte il < diritto > in senso stretto : le norme del diritto civile, esclusive dei cittadini romani, dall’altra il < diritto onorario> , non meno efficace , ai fini pratici, delle regole del diritto civile, ma fondato esclusivamente sul potere magistratuale e illustrato dall’editto pretorio. Questa dictonomia resterà , seppure in condizioni profondamente mutate , per tutto il corso della vita del diritto romano, sia nella tarda repubblica che nell’età del principato. E’ indubbio che essa avrebbe potuto ingenerare più di una difficoltà se , in concreto, tali processi non fossero stati governati in modo profondamente unitario dalla cooperazione tra magistratura giusdicente e scienza giuridica laica. In questa fase nuova, infatti, se ormai è del tutto obliterato l’antico rapporto di dipendenza del pretore dal sapere autoritario ed esclusivo dei pontefici, il suo ruolo è nondimeno profondamente intrecciato al lavoro dei giuristi. E’ in questa oggettiva convergenza di funzioni apparentemente molto diverse e di ruoli distinti che si è realizzato il punto di sutura tra i due sistemi del ius civile e del ius honorarium.Senza la sanzione processuale assicurata dal pretore l’interpretazione giurisprudenziale delle regole del ius civile, elaborata dai giuristi difficilmente avrebbe portato alle profonde innovazioni effettivamente verificatesi. A lui infatti incombeva l’onere di concedere una formula processuale atta a recepire o a non escludere la soluzione del problema giuridico proposta dai giuristi. D’altra parte, non solo nella stessa elaborazione del contenuto dell’editto e nella concreta condotta processuale, l’azione dei magistrati, talora del tutto incompetenti in materia legale, fu assistita dai giuristi. Costoro vennero anche, se non soprattutto , operando nei riguardi del corpo normativo costituito dalle previsioni edittali, relative alle fattispecie variamente tutelate, lo stesso insieme d’interpretazioni che già in relazione al ius civile era divenuto il medium tra la domanda di giustizia della società e < il > diritto romano. 4. La scienza giuridica romana come sapere aristocratico L’evoluzione del diritto privato romano era sottratto al diretto intervento della comunità politica. Ciò significa che la maggior parte delle regole che disciplinavano la vita dei cittadini nella sfera giuridica privata non derivava da una delibera dell’assemblea cittadina. E’ questo uno degli aspetti dove si può cogliere con la massima evidenza la singolare natura della società romana. In essa infatti vediamo operare nel corso dei secoli e malgrado tutti i rivolgimenti politici e le lotte di ceto, una delega mai discussa, priva a un collegio religioso , e poi a una comunità di sapienti , di un grandissimo potere : quello di enunciare ciò che è < il diritto > della città nella sua applicazione concreta. PAGE 166 La legge , sia quella generale e fondante identificata nelle XII Tavole, sia la singola norma particolare era senz’altro fonte del diritto , concepita come vincolante per l’intera comunità. Ma accanto, quasi a dire , < sopra > di essa, si poneva l’interpretatio dei giuristi: senza di essa la norma, sovente nel suo arcaismo anche linguistico, nella sua povertà strutturale e definitoria, sarebbe restata inoperante, o avrebbe avuto ben altre e più circoscritte applicazioni. Gran parte del diritto vigente nelle varie società europee era redatto in testi scritti in latino, lingua estranea alle lingue correnti e in nessun modo ancora < codificato> in testi unitari. Ancor meno questo vale per Roma : giacché il diritto di fronte all’oscurità e genericità delle norme delle XII Tavole che lo interessava, di fronte allo schematismo di una legge successivamente votata dai comizi, dipendeva subito dalla mediazione autoritaria di un sapere specialistico : quello dei pontefici, prima, quello dei giuristi < laici >, in seguito. In effetti la iurisdictio magistratuale e la legge comiziale intervenivano più < in parallelo> che con una funzione esplicitamente abrogativa del vecchio ordinamento .Ne conseguiva che l’unico fattore che poteva incidere direttamente sulla portata delle regole del ius civile era l’interpretatio dei giuristi. Interpretatio che, non a caso, abbiamo visto indicare come fonte autonoma di diritto. Essa era pertanto l’unico strumento capace di penetrare più a fondo nel corpo duro dell’antica tradizione consolidatasi nella sacralità del ius civile. Un potere dunque assai grande, che non era nelle mani del popolo adunato in comizio né affidato al potere sovrano del magistrato elettivo, ma delegato a un corpo di sapienti. D’altra parte, a guidare la nostra comprensione dell’intima fisionomia di questo sistema e il suo vero carattere, non si deve dimenticare una cosa. E cioè che i saperi e i poteri istituzionali che servivano a gestire e controllare questi fondamentali aspetti della vita sociale e politica restarono per secoli eslcusivamente nelle mani dell’aristocrazia romana. Sulla selezione delle magistrature repubblicane, in buona parte monopolizzate dalla nuova nobilitas . A ciò fu riscontrato il fatto che, sino alla prima età del principato, la scienza giuridica si si sa anch’essa identificata integralmente con questa stessa nobilitas. Come d’abitudine per questo tipo di aristocratici, l’attività da essa svolta al servizio dei cittadini, consigliarli negli affari legali, assisterli nel’impostare le possibili controversie e risolvere i loro dubbi, che i Romani riassumevano con i tre verbi, cavere, agere e respondeer, era effettuata gratuitamente. Per allargare la cerchia di amici, alleati e clienti chiamata poi in ausilio, al momento del voto elettorale, a supporto dei propri ruoli nella politica cittadina. Era questo un lavoro che non disonorava il cittadino di rango , anzi gli permetteva di eccellere tra i suoi pari, contribuendo a ridefinire gerarchie sociali e supremazie anche politiche. Bretone giustamente insiste sullo stretto rapporto tra questa scienza aristocratica della tarda repubblica e quel servizio dello stato che era la vocazione propria di tale nobilitas. Del resto questo riferimento all’idea di lavori onorevoli o disonorevoli per il buon cittadino , ci rimanda a una caratteristica di fondo della società romana, come di molte società antiche. Si tratta del carattere schiavistico da essa già precocemente assunto e ora , alle soglie delle guerre puniche ormai dominante. Esso divenne a sua volta un fattore di selezione sociale e di rafforzamento di quelle logiche gerarchiche che si è visto come connessione alle forme politico – sociali romane. Che deve lavorare, come piccolo mercante , come artigiano o quant’altro , per assicurare il proprio sostentamento è in partenza escluso dagli happy few chiamati a reggere la città, a guidare gli eserciti, a far parte della nobilitas. Del resto questo riferimento all’idea di lavori onorevoli o disonorevoli per il buon cittadino, ci rimanda a una caratteristica di fondo della società romana, come di molte società antiche. Si tratta del carattere schiavistico da essa già precocemente assunto e ora, alle soglie delle guerre puniche ormai dominante . Esso divenne a sua volta un fattore di selezione sociale e di rafforzamento di quelle logiche gerarchiche che abbiamo visto come coessenziale alle forme politico – sociali romane. Chi deve lavorar, come piccolo mercante, come artigiano o quant’altro, per assicurare il proprio sostentamento è in partenza escluso dagli happy few chiamati a reggere la città , a guidare gli eserciti , a far parte della nobilitas. D’altra parte si preparava , nel corso del III secolo a. C. , a contatto con la Magna Grecia e poi direttamente con il mondo ellenistico, una rivoluzione negli orizzonte intellettuali: nuovi spazi si PAGE 166 A questa fase fondatrice fece seguito una stagione più matura , dove già la ricca messe di risultati conseguiti iniziò a essere organizzata e sistemata: fu il momento straordinariamente creatico che coincide con l’età tragica ma vitale delle guerre civili, dominato da due personalità : Quinto Mucio Scevola e Servio Sulpicio Rufo. Nella coscienza dei contemporanei e nel ripiegarsi sulla storia del proprio sapere che vennero facendo le generazioni successive, Quinto Murcio si staglia come l’autore di una prima generale organizzazione del sistema giuridico. Cicerono, ci dice che egli fu il primo a organizzare il diritto generatim . Il grande giurista , che si colloca agli inizi dell’ultimo secolo della repubblica, per molti versi presenta un aspetto ambivalente : pontefice e cultore del diritto sacro insieme a quello civile, egli presenta la tipica fisionomia aristocratica che, nel caso particolare, giungeva a sostanziarsi in una tradizione di studi e di specialisti trasmessa di padre in figlio. Ma di Quinto va soprattutto ricordata l’importanza delle sue opere scritte : un libro di < definizioni > ( con il termine greco oron ), così popolare e autorevole da sopravvivere sino a Giustiniano, e soprattutto i diciotti libri ius civilis. Ivi tutta la materia del diritto civile romano trovava una prima importante sistemazione, tant’è che la sua opera, a sua volta, fu l’oggetto di numerosi commentari di altri giuristi successivi che, in tal modo , approfondirono lo studio di questo settore del diritto : Lelio Felice, Pomponio e Gaio. Cicerono era amico di Servio ed esprime , a più riprese, nelle sue opere la grande amministrazione nutrita per questo giurista. Per lui questi, di una generazione più giovane di Mucio, gli era senz’altro superiore, essendo merito suo quello di avere per la prima volta elevato lo studio del diritto al rando di scienza. In questo autore l’organizzazione di categorie appare fondarsi su una tecnica più matura e collaudata di quella del suo grande predecessore , segnando il vero punto di partenza per i successivi percorsi giurisprudenziali. Si può affermare che con Servio la struttura sostanziale dei problemi di fondo relativi alle grandi categorie giuridiche e alla disciplina specifica di molteplici istituti del diritto privato romano sia stata posta in termini che non sarebbero stati modificati granché dalla giurisprudenza dei secoli successivi. Non solo, ma in certi passaggi parrebbe addirittura affiorare in Servio il tentativo di riorganizzare l’intera materia giuridica all’interno di un quadro logico sistematico nuovo, ispirato a una coerenza < dogmatica > che non sarà dato di ritrovare poi neppure nei più grandi giuristi imperiali : da Labeone a Giuliano e che solo nelle grandi sistemazioni dell’ultima stagione della scienza giuridica < classica > riemergerà , secondo logiche tuttavia assai meno innovative. Sarà la numerosa schiera degli allievi diretti e indiretti di Servio , gli auditore Servii, che ci lascerà raccolta dei suoi pareri, i responsa, relativi soprattutto alla soluzione di casi pratici. Egli fu il primo giurista del cui pensiero resti consistente documentazione : la rilevanza degli echi che ancora ci giungono è la prova della grande influenza da lui esercitata su più di una generazione, negli anni del definitivo tramonto della repubblica. Resta infine un’ultima grande figura di giurista che si staglia già sui nuovi orizzonti del principato augusteo e tuttavia per valori, propensioni e stile segna piuttosto il momento finale della grande tradizione repubblicana. Di spiriti antimonarchici, Marco Antistio Labeone, tenacemente si sottrasse alle insistenti blandizie di Augusto per attrarlo nella sua orbita di collaboratori e amici. La sua chiara adesione ai valori dell’antica nobilitas l’indusse ad appartarsi dalla vita politica dominata ormai dalla grande ombra del principe, rinunciando così alla prospettiva di quel cursus honorum, ormai possibile solo con il favore del nuovo potere. Dedicatosi soprattutto alla riflessione scientifica, oltre che all’insegnamento e ai responsa, egli fu l’autore di un numero elevatissimo di opere nelle quali dovette rifulgere la sua autonomia e peculiare creatività , che ancor oggi si riflette nelle numerose citazioni del suo pensiero effettuate dai giuristi successivi, oltre che in non molti passi a lui direttamente attribuiti. Capitolo nono: i nuovi orizzonti del III secolo a.C: e l’egemonia romana nel Mediterraneo PAGE 166 1. Le guerre puniche e l’eredità di Annibale Il controllo romano dei grandi centri mercantili e marittimi della Magna Greci , conclusosi con la conquista di Taranto era destinato ad ampliare la spinta espansionista romana verso una realtà sino ad allora estranea : il mare. La svolta precipitò in occasione dell’aiuto fornito dagli stessi Romani ai Mamertini, mercenari che si erano impadroniti della città di Messina, in Sicilia, sottraendola ai consistenti interessi cartaginesi nell’isola. Si trattava di una scelta politica molto grave, giacché inevitabilmente li poneva in diretto contrasto con l’antica alleanza , dando luogo al primo conflitto militare tra Cartagine e Roma. Iniziava una nuova e drammatica stagione per la politica romana, destinata a concludersi solo alla fine del secolo , nel 202 a.C. , con la definitiva vittoria sull’avversaria e sul più grande nemico che Roma abbia mai avuto : Annibale. Nel 265 iniziò la Prima guerra punica che si protrarrà sino al 241 a.C: ; nel 238 – 237 s’ebbe l’occupazione da parte dei Romani della Sardegna e della Corsica, sottratte ai Cartaginesi ; nel 238 si realizzò la conquista della Liguria e della Gallia Cisalpina ; nel 231 si strinse l’alleanza dei Romani con Sagunto contro l’espansione cartaginese in Spagna ; nel 218 – 2020 si svolse infine la Seconda guerra punica. Le dimensioni stesse degli avvenimenti e la drammaticità dei problemi che si posero, in quegli anni, alla classe dirigente romana contribuirono ad accentuare divergenze già esistenti al suo interno, tra i fautori di un più cauto e tradizionale espansionismo territoriale, e i gruppi più avventurosi, interessati a valorizzare il recente dominio romano sulla Magna Grecia. E’ certo che esse furono presenti sin dai primi anni del primo conflitto con Cartagine e destinate a persistere , seppure in forme alterne, nella successiva vicenda repubblicana. Sin da prima dell’inizio della guerra, del resto, non erano state poche le opposizioni, tra i notabili repubblicani, all’accentuarsi di una politica ostile a Cartagine. Anche in seguito, durante le due guerre, si ricordano, da parte dei gruppi politici più cauti , sia in Roma che in Cartagine, diversi tentativi di arrestare lo scontro con un ragionevole compromesso. Alla prova dei fatti prevalsero comunque i gruppi più radicali che vollero condurre la vicenda sino alla sua estrema conclusione. Nel caso romano, ciò non impedì che, in quello stesso lasso di tempo, i dirigenti del partito < agrario > ottenessero un parziale successo, imponendo anche un’espansione territoriale verso il Nord. In questo senso vanno ricordate le campagne militari nell’Italia centro – settentrionale che avrebbero portato all’acquisizione delle ricche terre del Piceno e della pianura padana. In particolare la conquista del Piceno e le campagne contro i Galli , guidate da un grande dirigente plebeo, Caio Flaminio. Emblematica appare in tal senso la costruzione della via Flaminia nel 220 a.C. , sotto la censura dello stesso Flaminio. Diretta a Nord verso l’Adriatico , sotto Rimini, essa andava in direzione opposta a quella, più antica , della via Appia. Quasi a simboleggiare una alternativa nella politica espansionista romana, legata ai tradizionali aspetti agrari di cui il Piceno costituiva l’esito quasi naturale. Quanto alla eredità politica di Appio Claudio , è sufficiente ricordare come, tra i magistrati che fecero pendere la bilancia a favore della guerra contro Cartagine, sia da annoverarsi un altro Claudio , appartenente alla stessa gens : Appius Claudius Caudex. Una conseguenza di grande rilievo dello scontro con Cartagine fu il formidabile collaudo della costruzione politica romana in Italia. Se infatti già nel corso della Prima guerra punica la società romana aveva mostrato una grande capacità di mobilitazione di risorse, riconvertendosi, con i propri eserciti territoriali, in una potenza marinara , fu la Seconda guerra punica , con la discesa di Annibale in Italia a dare la misura della compattezza del blocco politico costruito da Roma. In effetti Annibale, portando il suo esercito in Italia, perseguiva un disegno strategico che andava oltre il mero confronto militare con i Romani, mirando alla disgregazione di quel sistema con cui si era venuto costruendo , tra IV e III secolo, il blocco politico – militare dei popoli italici sotto il diretto controllo di Roma. Sebbene il suo genio militare gli facesse vincere tutti gli scontri diretti che i Romani si illusero di potere affrontare con lui, Annibale non sarebbe riuscito a realizzare appieno il suo progetto. Solo le PAGE 166 popolazioni più recentemente sottomesse dai Romani come i galli e gli Etruschi, o alcune città della Magna Grecia, anzitutto Capua, defezionarono dalla loro fedeltà ai Romani. La persistenza del blocco di alleanze romano – italico riuscì a impedire che un disastro militare come Canne segnasse la fine politica di Roma. E’ quello che Annibale aveva ben chiaro, rinunciando a espugnare l’appartenente indifesa Roma dopo questa sua clamorosa vittoria. Il messaggio della classe dirigente romana, anzitutto del senato , allora, non fu quello di < tutti a casa > ma di mobilitare ulteriormente una cittadinanza stremata e impaurita , mandando l’inequivocabile segnale , ad amici e nemici, di una lotta a oltranza. Anche se, con il consueto complesso gioco di equilibri, la direzione delle operazioni militari passò dalle mani del partito < oltranzista > che le aveva guidate sino ad allora, ostinandosi in disastrosi scontri diretti con il grande generale cartaginese, a quelle del capo della fazione più prudente e meno entusiasta della guerra con Cartagine : Quinto Fabio Massaio. La rinuncia da parte sua agli scontri diretti a favore di una strategia di logoramento, con la tattica della terra bruciata, mutarono le sorti della Seconda guerra punica, preparando la successiva riscossa. Che, a sua volta, fu guidata dall’esponente giovane e brillante della linea < guerrafondaia > : Pubblico Cornelio Scipione che, dalla vittoria su Annibale, avrebbe preso il nome di < Africano>. Profonde e durature furono le conseguenze della totale vittoria militare conseguita da Roma alla fine di questo durissimo scontro. Era infatti pressoché inevitabile che, con essa, si rafforzassero potentemente gli orientamenti espansionistici del gruppo dirigente romano, finendo con l’assumere una fisionomia decisamente imperialistica. Ed è proprio nella prima metà del 2° secolo avanti cristo che essa s’affermò con straordinaria efficacia, allorché Roma acquisì il controllo diretto e indiretto dei regni ellenistici, impadronendosi di tutto il Mediterraneo orientale e del mondo < civilizzato>. Sebbene sin dall’epoca arcaica non vada sottovalutato l’aspetto economico delle continue guerricciole e scorribande locali intercorse tra le popolazioni finitime , è indubbio che il tipo di operazioni militari intervenute in Italia e nel Mediterraneo occidentale nel corso del III secolo a. C. avesse assunto una dimensione incommensurabilmente maggiore. Questo fatto ci fa capire meglio come, per l’età precedente, la guerra fosse il maggiore investimento non solo politico ma economico di Roma : un affare straordinariamente redditizio. E non solo per la res publica , ma ormai , anche per i capi militari e i soldati che vi partecipavano. Ciò che , a sua volta , contribuì a un ulteriore e più accentuato processo di concentrazione di ricchezza nelle mani dei ceti dirigenti romani. La politica espansionista s’associava ormai a colossali interessi economici che coinvolgevano tutto il ceto di governo e, seppure più indirettamente, l’intera società romana. Il che portò , tra l’altro, alla rapida dissoluzione delle tradizioni patriarcali, e di quella militaresca e contadina austerità che sino ad allora avevano retto la repubblica. Arnold Toynbee ha intitolato una sua monumentale ricerca all’< eredità di Annibale>, ispirandosi a una bellissima immagine di un altro grande studioso , Gaetano de Sanctis. Questi aveva infatti ritratto Annibale che si allontanava sconfitto dall’Italia, lasciando però dietro di sé , come sua < eredità>, il frutto velenoso della disperata lotta da lui condotta contro i Romani. Esso era destinato a intaccare ed erodere alla lunga il trionfo dei vincitori, ormai senza più limiti imposti da poteri esterni a loro. Quasi che la straordinaria violenza di uno scontro in cui la posta in gioco era tutto, un immenso potere, destinato a investire il mondo di allora e a modificarlo in profondità , per il vincitore, la fine dell’esistenza stessa di una comunità politica, della libertà e spesso della vita, per gli sconfitti, non avesse inciso su ogni aspetto della società e delle istituzioni romani. Del resto la percezione del carattere cruciale di quegli anni per la storia del mondo antico fu comune a tutti i popoli del Meditterraneo e si riflette ancor oggi nel profondo della nostra visuale. Non è poi un caso che nel dibattito che s’aprì verso la fine dell’800, in cui intervennero anche storici del mondo antico, su cui ha richiamato l’attenzione Andrea Giardina, la stessa storia dell’Italia moderna , o meglio la desolazione del latifondo meridionale, ancora ben presente allora, venisse fatta risalire alle devastazioni della guerra annibalica , così a lungo guerreggiata soprattutto nell’Italia meridionale, aggravata dalla pratica della < terra bruciata>. PAGE 166 corrotto e devastante governatore della Sicilia, risulta chiaro come codesto sistema potesse sfociare facilmente in una forma di sistematica oppressione per gli abitanti locali. L’alleanza tra l’avidità dei governatori romani e gli appaltatori delle imposte , i publicani ( che nel caso siciliano presero il nome particolare di decumani , da < decima > ) comportò una pressione fiscale eccessiva, tale da incidere negativamente sulle condizioni economiche di tali territori, soprattutto delle aree meno redditizie. I publicani infatti tendevano ad aumentare a dismisura la percentuale dei tributi commisurata alla produzione agricola, andando molto al di là di quelli che erano i criteri generali stabiliti da Roma e a cui, in teoria , gli stessi governatori avrebbero dovuto far riferimento. Costoro però, invece di controllare il comportamento fraudolento e illegale di questi intermediari, si associarono sovente a essi nel taglieggiare le popolazioni sottoposte. Le due prime province, la Sicilia e la Sardegna, furono affidate al governo di nuovi magistrati creati appositamente. Poiché per esse era necessaria la presenza di un presidio militare che consolidasse le acquisizioni romane, si affidò il governo di queste province a due nuovi pretori appositamente creati, richiedendosi l’esercizio dell’imperium. In seguito, col moltiplicarsi dei nuovi territori provinciali e con le ulteriori necessità di disporre annualmente di un numero crescente di governatori legittimati a guidare le legioni romane in territori d’occupazione, i Romani rinunciarono a moltiplicare in misura crescente il numero dei magistrati ordinari. Si trattò dunque di aumentare il numero dei titolari dell’imperium militiae, senza accrescere il numero di magistrati eletti annualmente dai comizi. La prorogatio imperii fu lo strumento utilizzato a tal fine. Quello che sino ad allora era stato un provvedimento di emergenza, a garantire la continuità del comando militare, divenne quindi un nuovo meccanismo per moltiplicare i governatori provinciali con pieni poteri. Al termine del suo anno di carica, ciascun console e ciascun pretore veniva inviato ad assumere il comando di una provincia, conservando l’imperium non più come magistrato ancora in carica, ma come pro – console o pro – pretore, sino a che lui stesso sarebbe stato rilevato da tale condizione dal suo successore inviato dal senato. La determinazione dei diversi magistrati destinati al governo delle varie province divenne in effetti uno degli oggetti di maggior contesa e competizione tra gli interessi e uno strumento di ulteriore potere nelle mani del senato. Vi erano infatti province ricche e meno ricche , aree dove erano più facili le occasioni di arricchimento o di ulteriori glorie militari, magari a buon mercato , e zone difficili da controllare e in cui l’impegno militare avrebbe sicuramente superato i vantaggi di facili vittorie e buoni bottini. Di qui la necessità di stabilire le destinazioni dei vari magistrati in modo relativamente imparziale : il che avvenne con l’assegnazione di queste già al momento dell’assunzione della carica magistratuale , mediante sortitio , un sistema che sottraeva al senato l’arbitiro e il potere di favorire gli amici e svantaggiare i nemici. In linea di massima ogni provincia era retta da un particolare statuto, elaborato, su incarico del senato e in base alle sue istruzioni, da dieci cittadini ( decem legati ) a ciò preposti all’atto di costituzione della provincia stesa. Una volta ratificato il loro operato dallo stesso senato, il governatore provinciale emanava il suddetto statuto come lex data in virtù del suo imperium. Soppresse le preesistenti istituzioni politiche, e stralciando la posizione delle civitates cui Roma avesse concesso l’autonomia e la libertà , in questo statuto si provvedeva a dividere il territorio provinciale in diversi distretti. Dato il modo empirico con cui i Romani si impegnavano a risolvere i problemi man mano che si ponevano, si capisce come, solo molto lentamente, il sistema dell’amministrazione provinciale sia venuto disegnandosi in forma coerente e razionale. Lo schema generale del governo provinciale prevedeva la presenza, accanto al governatore , di un gruppo di legati di rango senatorio inviati direttamente dal senato, un po’ come collaboratori del governatore stesso e un po’ come suoi controllori, e , sotto di lui, di un questore con funzioni militari e finanziarie, ma a cui verranno affidati i più diversi incarichi. A questo vertice di governo si associava però la debolezza dell’apparato burocratico che avrebbe dovuto supportarne l’azione. Il che , tra l’altro, spiega due fenomeni di segno opposto : da una parte la persistente importanza dei centri urbani presenti nella provincia cui venivano deferite molte competenze, ad esempio PAGE 166 nell’amministrazione della giustizia, in una forma lata di autogoverno o di autonoma organizzazione della vita locale. D’altra la dilagante e pericolosa presenza degli intermediari privati romani : i publicani . Il governatore era preposto anche al controllo del sistema giudiziario, con una competenza che si estendeva soprattutto a tutte quelle comunità al di fuori degli ordinamenti cittadini e, in teoria , ormai prive di un loro proprio diritto cui fare riferimento. Di fatto le tradizioni locali continuarono a essere praticate e tutelate dai Romani, ma la superiore titolarità del governatore avviò un processo di trasformazione verso un sistema in cui esse vennero integrandosi e confondendosi con le forme più elementari e immediate del diritto romano. La repressione criminale discendeva invece dall’imperium militiae del governatore ( perché di potere militare si trattava, situandosi il suo comando in territorio non romano ), che in questo caso , almeno in linea generale , non s’arrestava neppure di fronte alle città autonome, mentre le città alleate in base a un trattato conservavano la loro autonomia giurisdizionale anche in questo settore. L’occasione di arricchimento personale che il governo provinciale offriva venne a far parte delle prospettive inerenti alla carriera politica e , in ultima analisi, appare ai più uno dei principali risultati da conseguire con essa. Relativamente poche e ricordate quasi come eccezioni sono le figure di governatori distintisi per l’onesta amministrazione e per la cura dei governati. Sebbene le malefatte di Verre in Sicilia fossero forse unpò fur del comune, si deve ricordare che il suo guaio non fu la generalizzata e amara protesta dei siciliani, alla scadenza della sua carica, né la possibile disapprovazione dell’aristocrazia politica romana, ma l’ambizione di un giovane oratore che voleva affermarsi in Roma e che trovò l’occasione di acquistare notorietà e successo. Senza Cicerone, gli amici di Verre avrebbero sicuramente evitato che il suo processo avesse luogo o finisse con una condanna. D’altra parte che la conclusione e l’estorsione dei provinciali fosse molto diffusa lo prova la precoce approvazione, nel corso del II secolo, delle leggi de repetundis volte a reprimere questo tipo di reati. Leggi forse , per un certo tempo, restate più sul piano delle buone intenzioni e delle minacce che effettivamente incise sul comportamento degli interessati. Almeno sino a quando le giurie dei tribunali giudicati furono composte da cittadini di rango senatorio : appartenenti cioè al gruppo sociale più coinvolto in siffatto tipo di reati .i comandati militari e quei governatori provinciali istituzionalmente più di ogni altro in grado di effettuare tali reati provenivano infatti quasi tutti da questo ceto. 3. L’innesto della cultura ellenistica Gli anni in cui la vita politica e la società romana furono dominate dalla personalità di Publio Cornelio Scipione l’Africano coincisero con un’accentuata tendenza a impegnare la potenza romana nel mondo ellenistico. Proprio sotto il forte influsso di Scipione e dei suoi amici prese allora definitiva consistenza in Roma, quella fisionomia imperialistica della politica estera romana. Di fatto, verso la metà del II secolo a.C. , Roma era pervenuta a controllare l’intero bacino mediterraneo e l’insieme di quei regni ellenistici che, sino ad allora avevano rappresentato il punto più elevato della civiltà antica e la massima concentrazione di ricchezze e di popoli. Il problema di fondo , che Annibale ancora una volta aveva ben visto, fuggendo dalla patria sconfitta e recandosi in Oriente per cercare di ricostruire una vasta alleanza antiromana tra gli ancora potenti e ricchi regni di quell’area, per Roma era rappresentato dallo squilibrio a lei sfavorevole in termini di forza rappresentato dall’insieme dei regni asiatici rispetto alla sue pur grandi potenzialità , consolidate dalla clamorosa vittoria su Cartagine. Macedonia, Siria , Egitto, il regno del Ponto, l’Asia Minore e la stessa Grecia, unite insieme , costituivano infatti un concentrato di ricchezze, di popoli e una tradizione militare tali da rendere assolutamente impari il confronto di Roma con una loro ipotetica alleanza : essa ne sarebbe uscita sicuramente soccombente. Il capolavoro politico romano , tra il 200 e il 167 a.C: , fu di perseguire sistematicamente la divisione tra questi stati, stringendo alleanze con gli uni e isolando l’altro, affrontando così separatamente, prima la Macedonia, poi la Siria, definitivamente sconfitta già nel 188 a.C. , ad Apamea, e infine liquidando gli ultimi sussulti macedoni con la conclusiva vittoria di Pidna nel 168 a.C. La graduale PAGE 166 trasformazione di queste grandi realtà in nuove province, la riduzione della stessa Grecia a realtà provinciale sono solo ulteriori conseguenze di un gioco già definitosi. Salvo alcuni casi in cui il senato romano preferì mantenere una parvenza di autonomia di tali stati, queste vaste acquisizioni si sostanziarono in un continuo incremento del numero di province direttamente governate dai magistrati romani. Seppure codeste trasformazioni non avessero diretta influenza sulle strutture istituzionali della città, esse erano destinate a incidere in profondità sulla realtà dei rapporti e il tessuto connettivo della società romana. Come sovente è dato riscontrare nella storia, i circoli più accentuatamente imperialistici erano stati anche più spiccatamente filo ellenistici : aperti e interessati alla cultura e ai valori del mondo che essi si apprestavano a sottomettere. Tra l’altro i Romani , a differenza di altre grandi esperienze imperiali proprie dell’età moderna, non erano distorti nel loro approccio alla civiltà ellenistica da quei pregiudizi religiosi e culturali che avrebbero progressivamente scavato fossati insuperabili tra governati e governanti, minando tutta l’esperienza coloniaria moderna, ivi compresa quella probabilmente di maggior successo, costituita dall’impero britannico. La continua importazione di idee, valori e tecniche nuove, che ampliavano a dismisura i ristretti orizzonti della società romana, contribuì alla formazione di un vero bilinguismo culturale ( oltre che linguistico ) dell’intera sua classe dirigente. Il fenomeno , già avviato sin dalla seconda metà del III secolo a.C. , conobbe un’ulteriore dilatazione e accelerazione nel secolo successivo. Malgrado l’opposizione degli abitanti più tradizionalisti, timorosi degli effetti a lungo termine di siffatti mutamenti e i temporanei successi di Catone che, anzitutto con la sua censura , tentò di ripristinare gli austeri costumi del buon tempo andato, questo processo si rivelò inarrestabile. D’altra parte sia le culture che gli uomini conquistati o alla periferia del nuovo impero erano attirati inevitabilmente dal centro del potere mondiale ormai rappresentato da Roma. E’ allora infatti che la classe dirigente, non solo imparò il greco come sua seconda lingua , ma soprattutto , andò a scuola dai filosofi e dagli oratori, utilizzando questo nuovo sapere nell’oratoria politica e giudiziaria, nonché nella scienza giuridica. Fu un fenomeno di enorme rilievo che, ovviamente , allargò a dismisura gli orizzonti dei Romani del II secolo a . C. Ma , proprio per questo contribuì a indebolire quelle semplici e forti idealità della repubblica antica, inducendo questa comunità di agricoltori e guerrieri a una riflessione critica sugli stessi valori costitutivi della res publia. Inafferrabili nella loro specifica identità e tuttavia presenti nella consapevolezza collettiva essi rischiavano infatti di essere oscurati e dissolversi sotto la pressione di nuove idee. All’orizzonte ristretto della civitas e al forte senso di identità che l’appartenenza a essa comportava, con tutte le conseguenze in termini di omogeneità politica e di partecipazione condivisa ai valori comuni, venivano sostituendosi , nella coscienza di alcuni cittadini, più sensibili o colti, nuove preoccupazioni, altri e più generali interessi. Affiorava l’idea di una comunità di individui più ampia di quella ristretta ai propri concittadini e che, pur tuttavia, al destino e agli interessi di Roma era indissolubilmente associata : gli Italici ormai pressoché totalmente assimilati, ai nuovi popoli delle province , anch’essi governati e dipendenti da Roma e fondamento di gran parte del suo benessere. Maturava una tendenza di tipo universalistico e un nuovo riconoscimento di una dignità umana indipendente da gerarchie e statuti sociali e scissa dallo stesso così radicato senso di appartenenza dato dalla cittadinanza. Sull’azione e sulle idealità dei Gracchi, seppure in misura difficile a stabilirsi, agirono influenze di questo tipo attraverso l’insegnamento di Blossio, un filosofo stoico di Cuma. E , di contro, giocava anche, seppure in vario modo, nella coscienza della classe dirigente romana, in questa età di grandi cambiamenti, la volontà di sottrarre il destino di Roma al destino proprio di ogni storia umana , la nascita, la maturità e grandezza massima e infine la decadenza e la morte. Rappresentazione questa tanto più pregnante in quanto diretta espressione della generale concezione della storia nell’antichità classica, affatto estranea all’idea di un progresso unilineare ( che invece è alla base, anche per le sue antiche radici cristiane, di tanta parte della nostra visione del mondo) e fondava invece sull’ipotesi di un inseguirsi di vicende cicliche. Per un Romano di quell’epoca, la grandezza del presente non poteva non far sorgere il timore che si fosse già PAGE 166 rematori nelle grandi navi da trasporto e da guerra. E tuttavia, dal lato opposto, tale istituto venne utilizzato, in modo straordinariamente efficace, in una molteplicità di impieghi e di attività che moltiplicarono la capacità d’azione e di gestione della classe dirigente romana attraverso l’utilizzazione sistematica di peculiari ed elevate capacità tecniche di alcuni schiavi o di ex schiavi . ciò che ha reso possibile incrementare e articolare in misura eccezionale e rapidissima le originarie potenzialità della società romana con la conseguenza di un formidabile sviluppo dell’intera organizzazione economico – sociale tardo repubblicana. In questa relativamente sofisticata utilizzazione vennero infatti valorizzate una vasta gamma di competenze, specializzazioni professionali, saperi e conoscenze tecniche nuove per gli orizzonti romani. Questo avvenne attraverso figure di schiavi ben diverse da quelli destinati a lavorare nei latifondi : si tratta di artisti, letterati formatisi alla grande tradizione ellenistica, specialisti in ogni campo, dalla professione medica alle tecniche commerciali e bancarie, così sviluppate in Oriente, ai vari settori artigianali, oltre a tutta la sfera delle attività letterarie e pedagogiche. Questo tipo di schiavi era acquistato a prezzi sovente molto elevati e quasi sempre destinato a lavorare a stretto contatto con i loro padroni. In questo modo, attraverso la disponibilità di questa vasta gamma di competenze, la stessa capacità di gestione delle imprese agrarie, commerciali e delle attività finanziarie facenti capo al pater familias venne fortemente potenziata. Un aspetto centrale che dobbiamo avere ben presente è rappresentato dalla facoltà riconosciuta dall’ordinamento romano a ciascun proprietario di concedere al proprio schiavo, insieme alla libertà , anche la cittadinanza romana. E’ chiaro che i beneficiari di questo straordinario potere furono soprattutto quegli schiavi più a contatto con i loro padroni e meglio in grado di conquistarsene la benevolenza. Divenuti liberi, essi e i loro discendenti costituirono un nuovo e importante gruppo sociale la cui diversa fisionomia e la cui differenziazione culturale , contribuì ad arricchire ulteriormente la società romana. E’ di grande interesse il fatto che, malgrado le resistenze al processo di ellenizzazione della società romana , non si registri alcun serio tentativo di arrestare il potente meccanismo di mobilità sociale rappresentato dalle manomissioni degli schiavi. Era questo infatti, forse più della spontanea immigrazione in Roma dei sudditi liberi provenienti da ogni parte dell’impero di recente acquisito, che nella Roma tardo repubblicana assicurava una inevitabile penetrazione di nuovi elementi portatori di culture anche molto lontane da quella romana che, con la cittadinanza , acquistarono in essa uno strumento permanente. Sarebbe stato sufficiente rompere l’originario principio che associava strettamente libertà e cittadinanza perché ciò divenisse impossibile. In effetti il sistema romano delle manomissioni evidenzia la rigida consequenziarietà delle logiche giuridiche che le ispiravano. In Roma la libertà individuale era garantita al cittadino : di questa o di un’altra città con cui si fosse in relazione reciproca. Ma questo stretto collegamento tra libertà e cittadinanza poneva un problema nel caso della liberazione di uno schiavo , dovendosi configurarlo anche come < cittadino>. Per questo, in origine, fu pressoché inevitabile che allo schiavo di un Romano, che aveva perso la sua cittadinanza originaria, la concessione della libertà s’accompagnasse contestualmente all’acquisizione dell’unica cittadinanza di cui Roma disponeva : quella romana, appunto. Così s’ebbe il paradosso che ciascun privato cittadino di Roma , proprietario di uno schiavo, potendolo trasformare in un uomo libero con la manomissione, disponesse anche di un potere squisitamente sovrano come quello di concedere la cittadinanza. A partire dal III secolo a. C. e sempre più nel tempo , Roma disponeva anche di altre < città - dinanze > la lantina e lo stesso statutto di peregiunus < straniero>, come appunto di sudditi delle province . Ai liberti dunque si sarebbe potuto dare questo più basso statuto personale , invece della sempre più pregiata cittadinanza romana. Ma, salvo casi particolari e relativamente circoscritti, non fu questa la strada battuta e la saldatura tra libertà e cittadinanza romana restò ferma. E’ stato questo, alla lunga , un formidabile elemento di arricchimento della società romana , una delle società più < aperte > del mondo antico, e conseguentemente anche una ragione del suo durevole successo, speculare alla parabola delle città greche. Ciò di cui, del resto, avevano chiara consapevolezza i contemporanei e gli stessi nemici di Roma, direttamente interessati a valutarne la forza. Divenuta la grande metropoli dell’intero Mediterraneo, Roma da tutti i popoli attrasse PAGE 166 energie, conoscenze, saperi rifondendo e riplasmando questa realtà e con essa rinnovando la sua composizione sociale, le sue competenze e la sua popolazione. Non si deve dimenticare infatti, nel sistema stratificato della società romana, non solo questa costante forma d’arruolamento di nuovi cittadini < dal basso >, ma anche la loro ulteriore mobilità . Giacché i figli di ex schiavi , se nati quando il padre era già divenuto < libero >, avevano lo statuto di < ingenui> potendo ulteriormente ascendere nella scala sociale. E’ ovvio che questo stesso arricchimento si associasse a quell’ampliamento d’orizzonti e al mutamento di costumi derivante anche dall’innesto di nuove tradizioni e sensibilità . Anche sotto questo profilo, la compattezza e l’omogeneità culturale di quella relativamente piccola città di contadini e guerrieri che aveva conquistato l’Orbe antico, stanno ora diventando un ricordo del passato. 5. La teoria della < costituzione mista > Polibio, s’interrogò a fondo sui motivi dello straordinario successo politico di Roma. Il grande vantaggio di Roma consisterebbe, secondo Polibio , in un equilibrio difficile e sempre mutevole fra le tre forme di governo proprie delle società umane , già identificate dai filosofi greci : il governo monarchico, quello aristocratico e , infine quello democratico. L’avere, diciamo così < selezionato > il meglio di questi tre meccanismi di governo e averli fusi in un disegno unitario sarebbe dunque la ragione ultima del successo romano : il potere monarchico , identificabile nella forza dei consoli, quello aristocratico, nel ruolo del senato e quello democratico nei comizi. L’enorme peso che tale schema ha avuto nella formazione degli stati moderni ha finito quasi col L’esperienza romana appare ispirata a una logica , in cui più che la < divisione dei poteri >, parrebbe giocare la confusione di più poteri nello stesso soggetto e, contemporaneamente, la scissione di uno stesso tipo di potere tra soggetti diversi , chiamati a operare insieme. Sia la collegialità dei magistrati , sia l’autoritas del senato nei riguardi dei comizi , sia l’interazione tra magistrati e senato con i suoi consulta, sembrano elementi di un’architettura costruita per funzionare attraverso la cooperazione e l’integrazione, con il conseguente equilibrio derivante da tutto ciò. L’equilibrio repubblicano parrebbe derivato dal coinvolgimento di più titolari nell’attuaizone dello stesso potere e dalla presenza di meccanismi che necessitavano la costante presenza di un sufficiente livello di consenso tra tutti i soggetti istituzionalmente rilevanti. Nell’esperienza romana su cui Polibio veniva riflettendo, ciascun portatore di un potere originario finiva dunque col partecipare a ogni fondamentale espressione della sovranità, giacché era proprio questa condivisione del potere che impediva la degenerazione in senso unilaterale della < costruzione mista>. Tuttavia, quando Polibio veniva riflettendo su questo modello , elaborando la sua particolare interpretazione, gli equilibri che avevano retto per secoli la complessa impalcatura repubblicana erano avviati ormai a una crisi profonda e, per certi versi irreversibile. PARTE TERZA : UN’AMBIGUA RIVOLUZIONE Capitolo decimo : la prospettiva delle grandi riforme e la crisi della classe dirigente romana 1. La rottura del patto Verso la metà del II secolo erano ormai evidenti taluni fattori di crisi ingenerati dall’evoluzione della politica romana e dalle sue dimensioni imperiali, dove aspetti politici e problemi istituzionali si intrecciavano in modo indissolubile. Si evidenzia allora l’impressionante e sempre più accentuato PAGE 166 squilibrio tra le dimensioni di Roma e del suo territorio e il resto del mondo da essa dominato. Paradossalmente erano proprio i successi della politica romana a pesare negativamente sul destino di questa città. Perché Roma, ancora alla fine del II secolo, aveva conservato la struttura e le istituzioni della tipica < città – stato > dell’antichità classica. Ma ormai i limiti di questa forma organizzativa apparivano incompatibili con la dimensione dei compiti derivanti dalla sua espansione. Il latino s’avviava ad essere ormai l’unico medium linguistico della penisola ( anche se ancora ben persistevano le varie lingue italiche ), l’omogeneità politica e culturale un fatto pressoché compiuto , gli interessi economici anche molto stretti, mentre poi il diritto romano era ormai divenuto lo strumento di comunicazione delle élites locali. Il punto centrale dell’insieme di tensioni e di contraddizioni ingenerate dal successo della politica romana appare , in ultima analisi, lo squilibrio tra una gigantesca concentrazione di privilegi in un gruppo sociale sempre più ristretto , e l’accumularsi di costi crescenti gravanti su una base sociale sempre più ampia , in parte costituita dagli stessi cittadini romani e da tutti gli alleati italici. Era reale il pericolo di rottura di quel patto su cui si era fondata la stessa costituzione repubblicana, non solo infatti, mancava , e sarebbe mancata a lungo una risposta condivisa ai problemi nuovi che la società e il ceto dirigente romano si trovava ad affrontare. Era anche impossibile che la soluzione potesse scaturire da quelle consolidate tecniche di governo e da quel sapere istituzionale che la classe dirigente romana s’era forgiata. Il problema di fondo era costituito dallo scardinamento dell’architettura istituzionale del suo necessario fondamento in termini di potere e di consenso politico : e questo non poteva essere risolto solo in termini istituzionali. Di qui l’inarrestabile divaricarsi di tendenze politiche sempre meno capaci di mediazioni : da parte di alcuni infatti appariva possibile solo la fedeltà e la difesa delle vecchie tradizioni e di antiche gerarchie. Per altri il sistema tradizionale non solo non reggeva più, ma era esso stesso divenuto , con l’attaccamento a un modello politico – istituzionale costruito sull’arcaico universo cittadino, un fattore di cresi e di squilibri. E tutti i gruppi e le varie tendenze poi erano attraversati orizzontalmente da una contraddizione ancora più di fondo. Il carattere pressoché insolubile della contraddizione che ne emergeva aggravò le tradizionali divergenze all’interno del gruppo dirigente romano. Al termine della conquista del Mediterraneo occidentale, a partire dalla seconda metà del II secolo, esse esplosero canalizzandosi verso soluzioni diametralmente opposte. Da un lato, le antiche sollecitudini per le conservazioni del fondamento rurale della società romana si caricavano allora di un’accentuata coloritura filo popolare. Mentre , all’opposto , la roccaforte aristocratica costituita dal senato cercò di accentuare il suo potere arbitrale, sino a ledere a più riprese l’intangibilità della libertas repubblicana. La stessa urgenza di dare rapide e definitive risposte ai problemi che venivano premendo rese poi impossibile quel tipo di compromessi fondati sulle complesse mediazioni realizzate per molto tempo all’interno del senato. Di qui l’esplosione di un conflitto insanabile tra l’aspirazione a una democrazia più radicale e la difesa di un principio aristocratico ancora forte, che rivendicava al senato l’antica , ma non più indiscussa centralità. Le fazioni e i gruppi politici che avevano caratterizzato la vita della repubblica si coagularono così in due grandi e contrastanti linee di tendenza : gli < ottimati > e i populares. Allora la lotta politica , almeno per quanto concerne il carattere di queste foze antagoniste si avvicinò maggiormente alla nostra idea di < partito > come libera consociazione di individui legati da una comune e simile visione della politica e degli obiettivi da conseguire. Sarà poi il potere specifico della magistratura suprema , l’imperium legittimante al comando militare, l’altro elemento che entrerà in gioco. Ecco dunque tutti i presupposti per il sedimentarsi dell’impasto esplosivo che finì col tradurre in termini di forza bruta , sino all’impiego delle armate romane, quella che sinora era stata una lotta politica svoltasi entro una variabile ma reale cornice di legalità. Tali processi ebbero altresì l’effetto d’irrigidire pericolosamente antiche pratiche di governo , e d’indurre i vari partiti ad approntare meccanismi più o meno improvvisati che finivano con ledere, in modo talora assai grave, i delicati equilibri su cui si era fondato l’edificio repubblicano. Meccanismi a loro volta consolidati più attraverso pratiche continuamente ricalibrate e delicati compromessi che non fondati su disegni definiti una volta per tutte. Questo è il caso del nuovo PAGE 166 potere monarchico. Accusa senza fondamento, ma atta ad accrescere i sospetti nei gruppi dell’oligarchia romana. Fu pertanto contro l’immediata rielezione di Tiberio al tribunato per l’anno successivo che si scatenò la violentissima opposizione dei suoi avversari politici. Nei tumulti che seguirono lui stesso e alcuni suoi seguaci vennero assaliti e uccisi da un gruppo di senatori, nei pressi della curia dove si riuniva il senato. Questa fine cruenta era destinata ad avviare una vera e propria persecuzione che tentò di coprirsi a sua volta con forme legali , attraverso l’emanazione di un senatusconsultum ultimum per la < salvezza suprema > della repubblica. Tale tentativo del partito antigraccano fu vanificato dalla ferma opposizione di Publio Mucio Scevola, il console in carica per il 133 – 132 a.C. La sua opposizione , tuttavia, non fece che rinviare la persecuzione dei seguaci di Graco a opera dei suoi immediati successori : i consoli Popilio Lena e Publio Rupilio. I sostenitori di Tiberio furono quindi dichiarati < nemici della repubblica > e rinviati al giudizio di tribunali eccezionali senza che potessero appellarsi al popolo con la provocatio. Tuttavia il progetto di riforma ideato da Tiberio non si dissolse con le fortune politiche del suo autore. Gli interessi e gli appoggi che avevano superato il tribuno erano sufficientemente forti da impedire che la legge fatta votare da Tiberio fosse abrogata o totalmente disapplicata. Pochi anni dopo, nel 129 a.C. , per iniziativa di Scipione Emiliano, fu comunque votato un senatoconsulto che mirava a ostacolare, se non bloccare l’attività dei triumviri preposti al recupero e all’assegnazione delle terre. Malgrado tali ostacoli, la politica di distribuzione graccana dovette durare abbastanza a lungo e mettere radici , se ancor oggi troviamo, nell’Italia meridionale, dove l’azione di recupero delle terre pubbliche fu particolarmente incisiva , cippi, detti < graccani> , che segnavano i confini dei territori recuperati dai privati possessori e assegnati ai piccoli coltivatori in base alla legge agraria. E’ possibile che l’ostilità di Scipione, tradizionale protettore degli alleati italici, verso le leggi graccane sia da ricondursi alla lesione degli interessi dei numerosi possessori italici i quali assai verosimilmente, ma di ciò non siamo certi, non erano stati ammessi a partecipare alle distribuzioni di terra. In effetti il partito popolare aveva cercato di ovviare a questo svantaggio degli Italici favorendo per altri e più sostanziosi aspetti gli interessi di costoro. Va ricordato come già nel 125 a.C. fosse stata proposta da Fulvio Flacco la concessione della cittadinanza romana ai sosi Italici, e che, caduta questa per la decisa opposizione della nobilitas lo stesso magistrato avesse avanzato una proposta più limitata , anch’essa bocciata, volta ad assicurare anche ai socii il privilegio della provocatio al popolo. 3. L’eredità politica di Tiberio e il programma di Gaio Gracco Gaio eletto tribuno della plebe nel 123 a.C. , e rieletto nell’anno successivo, egli fece approvare un complesso intreccio di leggi che appaiono corrispondere a un progetto politico ormai ben più ampio e ambizioso di quelle limitate riforme a suo tempo propugnate dal fratello Tiberio. Anche le leggi agrarie furono riprese e ribadite da Gaio, benché di ciò non abbiamo una chiara e precisa conoscenza. E’ probabile che la nuova legislazione recuperasse e insieme sostituisse integralmente quella di Tiberio . In essa si dovette rivitalizzare, tra l’altro, il lavoro dei triumviri agris dandis , restituendo ai commissari gli originari poteri giusdicenti loro attribuiti. Inoltre le terre assegnate furono sottoposte al pagamento di un vectigal , di un canone, e verosimilmente, ma non vi sono certezze su questo punto, fu diminuito il tetto dei cinquecento iugeri di terre pubbliche lasciate agli originari possessores. Colpisce soprattutto , nell’azione di Gaio, la quantità e la complessità dei campi toccati dalle riforme . Con una fitta serie di leggi si riprendevano infatti tutte le linee tradizionali del < partito agrario > e dell’antica politica filo – plebea , con un forte rilancio della colonizzazione romana. Un’altra lex Sempronia accentuava la linea antisenatoria, con la fondazione di una colonia a Taranto e il progetto di un’altra colonia a Capua che avrebbe recuperato parte delle fertilissime terre campane restate di pertinenza di Roma, dopo la severa punizione inflitta a tale città per la sua defezione da Annibale. Terre che , di fatto, erano state sfruttate per quasi un secolo esclusivamente PAGE 166 dalla nobilitas senatoria. Egualmente un’altra legge stabili la fondazione di una colona a Cartagine, sottraendo al senato la competenza esclusiva , sino ad allora gelosamente conservata, sulla condizione delle province romane. Sempre nell’ambito della politica agraria vanno ancora ricordati altri provvedimenti come la costituzione di grandi magazzini pubblici per il deposito del grano e di nuove strade volte a favorire la complessiva politica di ripopolamento delle campagne. L’iniziativa legislativa di Gaio andava tuttavia oltre, toccando una molteplicità di altri punti nodali della vita della repubblica, in modo da modificare i complessivi equilibri politici . Evidente appare nella sua azione l’obiettivo strategico da lui perseguito che mirava anzitutto all’annullamento o , quanto meno, ad un forte ridimensionamento del senato attraverso la costruzione di un diverso blocco sociale. Va ricordata in questa direzione la lex Sempronia de provincia Asia che sottraeva al controllo del senato gli appalti per le imposte nelle ricchissime province d’Asia : fonte di favoritismi clientelari e di grande potere per tale organismo. In questo contesto una lex Sempronia de provinciis consularibus che obbligava il senato a sorteggiare quali province fossero assegnate ai futuri consoli, prima delle elezioni. Tale procedura consentiva così di sottrarre all’arbitrio di questo consesso uno strumento importante per premiare gli amici e penalizzare gli avversari. Nei provvedimenti normativi volti a perseguire questa strategia si iscrivono a giusto titolo una serie di leggi miranti a precisare e irrigidire i criteri di legalità e le tutele di libertà dei cittadini, così ampiamente minacciati nel corso dei tumultuosi eventi che avevano portato alla morte di Tiberio. Va anzitutto ricordato la legge che impediva la repressione di reati non previamente definiti mediante leggi comiziali e la lex Sempronia de capite civis Romani che riaffermava con forza e in modo sistematico il ruolo di controllo dei comizi per tutti i casi d’applicazione della pena capitale nelle quaestiones. Esse miravano a rendere impossibile, per il futuro, qualsiasi tipo di operazione come quella a suo tempo messa in atto contro i seguaci di Tiberio. Di contro un altro principio normativo veniva fatto valere, a chiudere la questione apertasi in età di Tiberio , con cui si sanciva la legittimità formale della rielezione di un tribuno in carica ( anche se di questo plebiscito è incerta la data, che potrebbe essere anteriore al 123 a. C. ) . Infine da parte di Gaio si interveniva anche sui comizi centuriati, proponendosi la soppressione dell’antico sistema di voto per classi di centurie, con cui i ceti economicamente più deboli erano stati ridotti in pratica all’irrilevanza . La proposta di Gaio prevedeva il sorteggio dell’ordine di voto delle varie centurie, mettendole , almeno formalmente , sul piano di parità . Un intervento più pericoloso per il senato appare la modificata composizione dei tribunali de repetundis, competenti per i reati di corruziozione e concussione di cui spesso si macchiavano i titolari degli uffici di amministrazione e di governo provinciale, appartenenti quasi tutti all’aristocrazia senatoria. A patire da una lex Sempronia iudiciaria ( ma forse si trattò di due successive leggi, intervenute nei due anni in cui Gaio ricoperse il tribunato ) , si mirò a modificare la composizione dei tribunali giudicanti e in particolare quella della questio de repetundis composta da membri del ceto senatorio, ovviamente più indulgenti verso i loro pari rango. A seguito della nuova legislazione l’organico dei giudici veniva a essere fornito dai cavalieri , portatori di interessi in parte diversi, e che disponevano in questo modo di un efficace mezzo di pressione nei confronti del ceto senatorio. E qui emerge con chiarezza l’intento di saldare gli interessi del potente ceto equestre alla politica del partito popolare. A questo gruppo, così rilevante economicamente , ma restato sostanzialmente estraneo, o comunque ai margini , della vita politica cittadina, si offriva ora un prezioso strumento di controllo proprio sui membri del senato , creando con esso un elemento di contrasto. D’altra parte l’organicità delle iniziative legislative e politiche di Gaio ci fa pensare che la sua azione mirasse a qualcosa di più della semplice resa di conti con il senato, o del riequilibrio nel gioco dei ruoli e delle influenze tra i vari gruppi che costituivano il tessuto complessivo della città e dell’ordinamento politico romano. Certo , questi sono gli aspetti più evidenti ; ma dietro l’articolata serie di iniziative volte ad assicurare tali obiettivi, si intravede tuttavia una strategia ancora più ambiziosa che si spingeva a delineare come risultato ultimo la trasformazione della stessa res publica. Sino ad allora infatti mai era stato messo in discussione il suo stesso fondamento di carattere aristocratico, intimamente collegato ai ruoli militari e alle cariche politiche. Si delineava ora per la prima volta la possibilità di spostare tali assetti verso una più radicale forma di PAGE 166 democrazia, quale forse solo l’esperienza greca aveva conosciuto. Di qui , ad esempio, l’insistenza figura del tribuno e sulla legge quali strumenti pressoché esclusivi per attuare questo cambiamento radicale del sistema politico. La legge votata dal popolo e il diverso ruolo assunto dal tribuno, che cessava di essere titolare di un potere prevalentemente di controllo sul governo altrui per diventare invece il promotore di un proprio progetto, nel suo disegno , venivano posti al centro dell’intera scena politica. La sovranità popolare tendeva così a svincolarsi da quel costante riequilibrio costituito dall’auctoritas del senato e dallo stesso cursus honorum per divenire autonomo fondamento della politica e della legittimità repubblicana. Che questo fosse il vero nocciolo della politica graccana, sembrerebbe confermarlo la grande quantità di leggi fatte votare direttamente da Gaio o da lui ispirate : di gran lunga eccedenti, per un arco di tempo così breve, il numero relativamente ridotto di leggi ordinariamente votate dai comizi. A quelle che si è già ricordato, infatti , vanno aggiunte ancora, per quel che sappiamo, una lex Sempronia militaris che mise a carico dello stato le spese per le vesti dei soldati e introdusse un limite d’età per l’arruolamento, una lex Sempronia de Popilio Lenate senza autorizzazione dei comizi, una lex Sempronia de siariis et veneficiis , con cui si estendeva la repressione criminale a nuove fattispecie, una lex Sempronia viaria e una lex Sempronia de coloniss Tarentum deducendam, con cui si destinavano ricchi territori a una politica di ripopolamento agrario , una Runovius portoris, relativa alla politica doganale e al controllo dei conti dei pubblicani, una rogatio Marcia de tribunis militum, una lex Papiria de tresviris capitali bus, anch’essa relativa alla repressione penale, e infine , oltre all’importantissima lex Acilia repentundarum , di cui di sono pervenuti frammenti epigrafici, le due leggi relative alla composizione dei comizi centuriati e al sistema processuale. 4. Un nuovo modello di < rex publica >? Sembra dunque delinearsi una res publica direttamente governata dal popolo e dai suoi magistrati e soprattutto da quel tribunato della plebe che, dopo tanti secoli ritrovava l’originario significato rivoluzionario. Affiorava infatti, più nettamente di quanto non fosse emerso nelle lontane vicende del decemvirato legislativo , la potenziale emarginazione dei magistrati dalla repubblica e dello stesso senato. La legge votata dai comizi, svincolava in pratica da ogni interferenza di tali organi, diveniva, nel modello abbozzato dall’azione dei Gracchi, il vero centro istituzionale dello stato cittadino. Affiorava così la possibilità di una deriva in senso < ateniese>, con un primato della democrazia assembleare sul costante temperamento dei poteri attraverso le mediazioni necessarie ad assicurare quelle convergenze postulate dalla costituzione romana. In tal senso deponeva anche il fatto che i due frattelli, per la loro lotta, scartassero gli strumenti tradizionali che, comunque, per essere utilizzati, richiedevano quel minimo di consenso tra organi e ordini. Sottraendosi al controllo e alla < normalizzazione > che il cursus honorum comunque comportava, essi appaiono fondare tutta la loro azione sulla figura ambigua del tribunato. E’ comprensibile che agli occhi di molti membri del ceto dirigente romano, non solo tra i più conservatori degli aristocratici ma tra i < moderati>, istintivamente rispettosi dei tradizionali equilibri della resp publica, il tentativo graccano assumesse la coloritura di un’avventura eversiva. E la percezione, vera o falsa che essa fosse, della posta in gioco spiega pertanto la violenza della reazione senatoria. La partita apertasi ora, più chiaramente di dieci anni prima, andava al di là degli aspetti particolari della distribuzione e del controllo delle risorse pubbliche o dell’organizzazione politica romana, investendo la natura stessa della res publica e l’intera architettura politica su cui essa si era venuta costruendo. E, ancora una volta , lo scontro ebbe un esito mortale. Nel momento infatti in cui gli equilibri vennero modificandosi, con una parziale erosione del consenso popolare di cui Gaio Gracco godeva, i suoi avversari non esitarono, nei giorni di tumulto che seguirono la mancata rielezione di Gaio al tribunato della plebe per la terza volta consecutiva , a organizzarne l’assassinio. E’ importante riflettere sulla parabola politica di Gaio. La sua sconfitta infatti appare legata anzitutto PAGE 166 La radicale sconfitta dei Gracchi e delle forze che li sostenevano non aveva risolto i problemi che le loro proposte avevano cercato di superare , al contrario. Soprattutto la crescente pressione degli Italici, che in nessun modo avevano trovato udienza nella dirigenza romana, alla lunga si sarebbe rivelata pernicosa. Ma neppure la crisi demografica delle campagne italiche, cui pure le riforme agrarie avevano tentato di far fronte, poteva considerarsi risolta : sia i fenomeni d’inurbameto del resto favoriti dalle stesse frumentazione introdotte dalla legislazione graccana, sia la concorrenza della grande proprietà schiavistica avevano continuato a incidere negativamente sull’organico dei piccoli proprietari – contadini, un tempo il nerbo delle legioni romane. Quest’ultimo aspetto apparve quanto mai evidente nella successiva stagione politica, allorché nuove e gravi esigenze militari assunsero improvvisa rilevanza per Roma. Si trattò anzitutto della difficile campagna militare contro una nuova invasione della penisola da parte di bellicose popolazioni celtiche e germaniche. In effetti , nel corso dei secoli, queste ondate si erano ripetute, e talora, con esiti abbastanza catastrofici, se ricordiamo la stessa conquista e incendio di Roma da parte dei Galli all’inizio del IV secolo a.C. Da tempo esse però non si erano più verificate anche per la rafforzata presenza militare romana nell’Italia del Nord. Di qui l’emozione suscitata dalla rinnovata minaccia, tanto più che gravi difficoltà si riscontrarono allora nell’assicurare la leva per approntare un esercito adeguato. Apparivano ormai evidenti gli effetti già da tempo paventati, dell’assottigliamento del ceto di piccoli proprietari sull’organico delle legioni romane. La vittoriosa difesa contro l’invasione fu comunque assicurata ad opera di un generale di origine plebea e la cui personalità avrebbe dominato le vicende romane a cavallo del secolo : Gaio Mario. Ben si comprende come , in ragione della popolarità così conseguita , anche per concludere un’ancora più difficile guerra avviata dai Romani in Nord Africa, contro Giugurta , re della Numidia, lo steso Mario fosse chiamato a guidare la conclusione di tale impresa, su fortissima pressione popolare e di fronte a un senato incerto e profondamente isolato nell’opinione pubblica. La soluzione adottata da Mario fu di colmare i vuoti , arruolando volontari provenienti da vasti strati di cittadini nullatenenti, attirati dal solo e dalla speranza di ulteriori vantaggi economici con la divisione del bottino di guerra. In questo modo si tagliavano però definitivamente le antiche radici cittadine dell’ordinamento militare romano , fondato sulla costituzione centuriata, avviandosi così la sua progressiva trasformazione in un esercito di mestiere. Alla fedeltà verso un entità imperiale come la res publica, naturale in un cittadino che solo per qualche anno era chiamato a effettuare il suo servizio militare, e che invece da sempre partecipava alla vita della città e alle sue vicende politiche, sarebbe subentrata nei veterani, arruolati per lunghi periodi di tempo, una più immediata ed esclusiva fedeltà al proprio comandante. Questo appannarsi del carattere dell’antico esercito cittadino costituì pertanto la premessa per l’affermazione di forme sempre più accentate di poteri personali in capo ai grandi comandanti militari. I quali , alla fine del loro comando, si mostravano sempre meno disposti a rientrare nei ranghi come semplici, anche se autorevoli membri dell’aristocrazia senatoria. Questo aspetto era destinato a divenire il principale fattore di crisi, destinato infine a travolgere le istituzione repubblicane. Dopo le campagne contro le invasioni barbariche e contro Giugurta , il prestigio di Mario, rieletto ripetutamente al consolato, dominò l’orizzonte politico romano, determinando una forte spinta in senso democratico. La guida effettiva, tuttavia , finì con l’essere assunta da due personalià più rozze e di orientamento più radicale, Saturnio e Glaucia, che si rivelarono i due veri cervelli politici del partito popolare. I loro orizzonti non andavano comunque al di là degli obiettivi ormai tradizionali di tale partito. E’ quanto si può cogliere abbastanza bene nella pur ricca serie di proposte legislative elaborate da Saturnio e votate verso la fine del secolo. Erano le strade consuete : distribuzione di grano alla plebe a prezzi irrisori, fondazione di colonie trasmarine, distribuzione di terre ai veterani di Mario e infine una nuova legge giudiziaria proposta da Glaucia. Più pericolosa era invece una lex Appuleia de maiestate minuta che precisava e ampliava la figura del crimen maiestatis con cui si colpivano i reati di carattere politico. Tale imputazione, per l’indeterminatezza dei comportamenti PAGE 166 annoverabili come un attestato alla maiestas populi Romani, era infatti facilmente utilizzabile in una lotta politica ormai senza esclusione di colpi. La radicalizzazione dello scontro imposta dai due demagoghi potrò a nuovi grandissimi torbidi che si evidenziarono , soprattutto, nei disordini che accompagnarono l’approvazione della legge agraria relativa alla distribuzione delle terre della Gallia Cisalpina conquistate da Mario contro i Cimbri. Le continue forme d’illegalità culminarono infine, nel 100 a.C. , allorché Saturnio e Glaucia cercando di farsi rieleggere al tribunato, giunsero all’assassinio del candidato avversario. Ciò legittimò il senato a emanare il sempre temuto senatus consultum ultimum, incaricando lo stesso consolo in carica , Mario , di intervenire contro i suoi antichi alleati. Malgrado il tentativo di Mario di evitare le conseguenze ultime dell’incarico affidatogli , ad opera della nobilitas si perpetrò l’uccisione di Glaucia e Saturnio e di molti loro seguaci, dopo che erano stati disarmati e imprigionati dallo stesso console. Tutto ciò segnò non solo una nuova catastrofe per il partito popolare, ma anche il tramonto politico di Mario , un bravo e fortunato comandante militare, ma un politico incerto e poco abile. Ormai egualmente inviso ai popolari per la repressione da lui condotta e all’aristocrazia senatoria per tutta la sua precedente storia politica, egli ritenne opportuno allontanarsi da Roma con un pretesto. La guida dei popolari venne di fatto assunta da un altro politico radicale come Cinna . E’ degno di rilievo il fatto che negli anni dei ripetuti consolati di Mario, il punto di forza della spinta in senso democratico della politica romana sia stato rappresentato, ancora una volta, dal tribunato della plebe. Anche in questa fase sembra riprendere vita la tendenza già evidente al tempo dei Gracchi , a svuotare buona parte del potere e delle competenze tradizionali del senato mediante una serie d’iniziative legislative sottoposte dai tribuni ai comizi. Non meno significativa, per i successivi sviluppi del quadro politico – istituzionale romano, appare la parziale modifica della fisionomia della più alta magistratura di Roma , il consolato. Si ammise allora infatti, sovvertendo le regole tradizionali , la rielezione della stessa persona a tale carica per più anni di seguito , favorendo una pericolosa concentrazione di potere civile e militare. Quasi negli stessi anni, con il figlio del vecchio avversario di gaio gracco, Livio Druso , la questione degli Italici, la cui soluzione appariva ormai sempre più urgente, tornò al centro della scena politica romana. Questi infatti, ricoprendo come il padre la carica di tribuno , si distaccò tuttavia dalla linea paterna , antigraccana e filo senatoria, riprendendo piuttosto molte delle linee riformatrici del partito avversario. Si trattò invero di una politica piuttosto equilibrata : mentre una sua lex Livia agraria riprendeva , insieme a una legge frumentaria, il contenuto delle riforme graccane, di contro Druso restituiva le competenze giudiziarie al senato, togliendole ai cavalieri , a loro volta favoriti invece dalla duplicazione dell’organico dei senatori , egualmente proposta da Druso. L’accresciuto numero di senatori, portato a 600, facilitò infatti l’inserimento nei loro ranghi di molti esponenti del ceto equestre. In questo quadro di ragionevole redistribuzione del potere e di contemperamento degli interessi era pressoché inevitabile che il tribuno si impegnasse a risolvere quello che ormai, per la forza delle cose, era divenuto il nodo centrale della politica romana, costituito dall’insistente richiesta degli Italici di accedere alla cittadinanza romana. A tal proposito Druso presentò una proposta di legge relativamente moderata che prevedeva una progressiva concentrazione della cittadinanza romana agli alleati italici. L’oligarchia senatoria tuttavia, alleata con gran parte dei cavalieri, rifiutò ogni soluzione di compromesso, come l’ipotesi di concessioni miste della latinità e della cittadinanza romana , bloccando , con mezzi talora ai confini della legalità, l’approvazione della legge . Non solo i più oltranzisti del partito senatorio si spinsero sino ad assassinare lo steso Druso , nella notte seguente alla caduta della sua proposta. Allora, di fronte a questa ulteriore violenta chiusura, le tensione accumulatesi esplosero con violenza portando a una generalizzata ribellione antiromana da parte degli Italici. La < guerra sociale > ( dal termine socius a indicare gli alleati italici di Roma ), si impose con una grande alleanza italica, di cui il nucleo più forte era costituito dalle popolazioni sannite. E’ probabile che sin dall’inizio confluissero in essa diverse e addirittura contraddittorie aspirazioni, sul cui contenuto non vi è pieno accordo tra gli studiosi moderni. La maggior parte di costoro tende a identificarne il fondamento nella diffusa aspirazione degli Italici, anzitutto dei Latini, alla piena PAGE 166 assimilazione e parità di condizioni con i Romani. Ma vi è chi , tende piuttosto a valorizzare la presenza di un più radicale orientamento antiromano. Tra i soci italici, infatti, non dovettero essere pochi coloro che videro, in questo frangente, l’occasione per riconquistare una piena libertà del giogo romano, abbattendone la soverchiante potenza. Certamente nei Latini, attratti anch’essi nell’alleanza antiromana era prevalente il primo aspetto, nei Sanniti, forse il secondo. In effetti , un dato poco coerente con l’interpretazione tradizionale, fondata peraltro sulla versione più diffusa delle testimonianze antiche , è il fatto che la forza propulsiva della rivolta antiromana sia stata quasi sempre rappresentata dagli strati più popolari delle varie comunità , mentre assai più incerta e contraddittoria appare sovente la condotta delle aristocrazie locali, tradizionalmente più legate all’alleanza con Roma. si noti che proprio queste ultime erano le più interessate alla cittadinanza, sia per le possibilità che apriva , sia per la loro già esistente partecipazione a quelle forme di circolazione giuridica dove essa era effettivamente rilevante. Che la mancata acquisizione della civita Romana fosse invece di qualche danno effettivo al piccolo contadino osco o sanità è cosa tutta da dimostrarsi. E’ almeno possibile immaginare che l’arruolamento romano abbia fortemente contribuito a far saldare tra loro diversi e contraddittori elementi : aspirazione a una parificazione politica da un lato , nostalgia per l’antica libertà ed esasperazione per l’arroganza romana dall’altro , tentazione infine di liberarsi una volta per tute da un’alleanza divenuta un giogo oppressivo. Quello che sembra sia comunque confermato in modo abbastanza chiaro da questa vicenda è che il senato, il popolo e l’esercito di Roma, che avevano saputo in modo così straordinariamente efficace conquistare un impero , si mostravano sempre più incapaci di conservarlo. Questo è il punto per noi più importante che ci permette d’intuire il progressivo accumularsi di tensioni molto pericolose, potenzialmente in grado di usare una potenza che rischiava di doversi affidare alla sola forza materiale. Fatto si è che l’esplosione della lotta armata coincise con un gravissimo isolamento politico – militare romano. Il sostanziale insuccesso del tentativo di piegare gli alleati italici con la sola forza delle armi fece maturare ben presto una svolta politica . Roma si ridusse ora ad offrire , a chi avesse sospeso le ostilità belliche , quei benefici precedentemente esclusi per il naufragio dei ragionevoli progetti di ampliamento della cittadinanza romana. Tra l’89 e l’88 a.C. la guerra si spense lentamente dopo che la lex lulia de civitate Latini et sociis danda, del 90 a.C. , successivamente integrata da altre due leggi , sancì la concessione della cittadinanza romana ai Latini e gli antichi alleati italici restati fedeli o che avessero immediatamente deposto le armi contro Roma. anche se queste concessioni potevano essere estranee agli obiettivi perseguiti da alcune componenti degli insorti Italici, esse contribuirono comunque a disarticolarne la compattezza, facendo emergere opposte tendenze e priorità . Che vi fosse questa diversità di orientamenti sembra stia a provarlo il fatto che , quando in seguito a questi provvedimenti , le varie città italiche poterono trasformarsi in municipi romani, alcune di esse, come narra Livio, furono incerte se continuare a < vivere secondo le loro leggi> , come comunità indipendenti , o accettare la cittadinanza romana. Conseguenza necessaria e prevista di tale legislazione era la trasformazione delle numerose comunità italiche in municipi romani e conseguentemente la perdita , da parte loro, delle proprie istituzioni giuridiche e politiche. Si deve segnalare un problema importante che derivò da questo improvviso allargamento della cittadinanza e che assunse un elevato significato politico. Si tratta delle modalità in cui i nuovi cittadini romani vennero inquadrati all’interno del sistema comiziale romano. Nei primi tempi infatti, l’ovvia tendenza romana a limitare gli effetti di questo drastico mutamento degli organici cittadini fece sì che i nuovi cives, pur così numerosi ( proprio per questo) venissero inquadrati in un numero molto limitato di tribù. Pertanto i mutamenti furono piuttosto graduali, anche perché non si deve dimenticare come restasse assolutamente immutato il principio per cui le riunioni comiziali si svolgevano in Roma , il che richiedeva spostamenti più o meno gravosi, con giorni di viaggio, ai nuovi cittadini che avessero voluto partecipare al voto. Di fatto solo i più ricchi tra costoro e solo per quelle votazioni che avessero avuto maggiore importanza parteciparono ai comizi , con un effetto relativamente limitato sul loro esito. Resta una grande incertezza nelle fonti antiche circa il numero preciso delle tribù in cui i nuovi cittadini vennero inquadrati, da due a otto PAGE 166