Scarica Storia greca - Erodoto e Tucidide e più Appunti in PDF di Storia dell'Antica Grecia solo su Docsity! APPUNTI DI STORIA GRECA
(ERODOTO E TUCIDIDE)
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Giada Mancini
Anno accademico 2023/2024
Appunti Storia greca (Erodoto e Tucidide) - Indice Introduzione p. 2 La storiografia greca: Erodoto e Tucidide 2 - Introduzione alla storiografia Erodoto e il VII libro delle Storie 3 - La vita - Le Storie - Erodoto oggi - Il VII libro delle Storie (Polimnia) Tucidide e il I libro della Guerra del Peloponneso 14 - Introduzione - La vita - La Guerra del Peloponneso e la “questione tucididea” - Tucidide oggi - Il I libro della Guerra del Peloponneso 1 Giad a M an cin i Atene: che viene associata a Erodoto sulla base di una serie di notizie (ad esempio la sua amicizia con Sofocle) che ci permettono di inserire lo storico tra i molti intellettuali che affluirono da ogni parte del mondo greco nell’Atene periclea. Le date di nascita e di morte non sono note: per quanto riguarda la prima, già nell’antichità, si faceva perno su l'unica data conosciuta, ovvero quella della fondazione di Turi, che corrisponderebbe al momento dell’akmé, cioè con il momento di maggiore maturità della vita di una persona, collocato generalmente intorno ai 40 anni, quindi la sua nascita sarebbe da collocare al 484 a.C. Per quanto riguarda la data (e il luogo) di morte, abbiamo ancora meno notizie, tutte provenienti dalla sua opera, Erodoto fa infatti riferimento più volte ad avvenimenti dei primi anni della guerra del Peloponneso (ad esempio in VII 137 e 233) e la citazione più recente (VI 98, sembra infatti parlare del re persiano Artaserse come se fosse già morto) risalirebbe al 424, possibile data di morte del nostro autore. Per quanto riguarda la sua personalità, abbiamo poche e sparse notizie. La sua famiglia era di origine aristocratica, probabilmente con qualche connessione con l'elemento cario che popolava la regione di Alicarnasso: così farebbe pensare il nome del padre, Lyxes, e la parentela con il poeta epico Paniassi. La famiglia inoltre fu costretta all’esilio dopo essersi opposta al tiranno di Alicarnasso, Ligdami, un punto che lo accomuna alle vicende di tanti storici greci, costretti ad allontanarsi dalla propria patria. Un punto nodale della sua biografia sono i moltissimi viaggi compiuti, di cui l’autore ci parla negli excursus presenti nell’opera, in tutto il mondo greco, in Oriente, in Egitto, in Scizia… Erodoto (484 a.C. - 424 a.C.) Le Storie Le Storie (così viene comunemente chiamata l’opera dato che i testi antichi non avevano un vero e proprio titolo) sono di straordinarie dimensioni per l’epoca in cui vennero redatte. Sono scritte in dialetto ionico (con frequenti atticismi), in uno stile limpido, molto vario, che risulta adatto a mettere in risalto le eccezionali doti narrative dello scrittore. I filologi alessandrini, in età ellenistica, divisero l’opera in nove libri, attribuendo a ciascuno di essi il nome di una delle Muse (Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania e Calliope), tale divisione è quella che manteniamo ancora oggi. Trattiamo, in breve, dei contenuti affrontati nelle Storie. Dopo il Proemio, nel quale Erodoto pone le premesse metodologiche del suo lavoro e accenna al tema generale dell’opera, lo scontro Europa - Asia il conflitto che da sempre oppone i Greci ai barbari, individuandone le premesse nell’età mitica, il I libro passa a trattare di colui che per primo tra i barbari conquistò le città greche d’Asia Minore: Creso. Il lògos incentrato sulla figura dell’ultimo re dei Mermnadi occupa la prima parte del libro, segue poi quello su Ciro il Grande e le vicende di formazione del regno medo - persiano. Il nesso logico è dato dalla circostanza che fu Ciro, nel 546, a porre fine al regno di Creso, impossessandosi al contempo delle città greche della costa asiatica. Il II libro si 4 Giad a M an cin i apre con il regno di Cambise, successore di Ciro sul trono persiano. La più grande impresa del suo breve e tormentato regno fu la conquista, nel 525, dell’Egitto (è questo l’excursus etnografico che occupa un intero libro). Dopo un’introduzione di taglio geografico - geologico, Erodoto passa in rassegna gli usi e i costumi del paese del Nilo, per poi ripercorrere per sommi capi la millenaria storia. Il III libro si apre con la narrazione della conquista dell’Egitto da parte di Cambise e con altre vicende relative a questo re. Segue poi il primo dei logoi dedicato all’isola di Samo, ben conosciuta dallo storico, che torna poi alle vicende dell’impero persiano, dedicandosi al turbolento periodo susseguente alla morte di Cambise e conclusosi con l’ascesa al trono di Dario. Il IV libro è occupato da due logoi su due grandi regioni che furono oggetto delle mire espansionistiche di Dario: la Scizia e la Libia, al cui interno troviamo anche la storia della colonia di Cirene. Il V libro è stato visto come una sorta di cerniera, seguendo la storia dell'impero persiano e delle sue province, Erodoto affronta quella che da una parte non fu che una delle tante rivolte di uno dei popoli del grande impero, ma che dall’altra costituì l’evento epocale nei rapporti tra Greci e Persiani, in quanto fu la causa delle successive guerre: ovviamente si fa riferimento alla rivolta ionica del 500 - 494. Con il VI libro entriamo decisamente nella seconda parte dell’opera, dedicata alla narrazione delle spedizioni persiane in Grecia. Gran parte del libro è occupato dalle vicende relative alla spedizione di Dati e Artaferne del 490, culminata nella battaglia di Maratona. Gli ultimi tre libri adottano un impianto cronologico più tradizionale: Erodoto segue il grande scontro tra Greci e Persiani, che ebbe inizio con i preparativi da parte del nuovo re Serse, e si concentra, com’è naturale, sui due anni di scontri che determinarono la grande vittoria dei Greci, un’epopea che segnò profondamente le vicende successive del mondo ellenico. Il grande affresco si chiude con la presa di Sesto da parte delle forze coalizzate dei Greci, dopo la battaglia di Micale del 479. Alcuni elementi dell’opera di riportano all’ambiente culturale dell’età arcaica: un ambiente in cui l’oralità era dominante come mezzo di trasmissione e fruizione della conoscenza e per la conservazione della memoria storica. Tali tracce sono, ad esempio: la composizione “anulare”, per cui il racconto degli avvenimenti segue un andamento circolare, ritornando alla fine al punto dal quale aveva preso le mosse; l’associazione periferica, per cui i nessi tra i vari argomenti sono simili a quelli propri della conversazione; lo stile paratattico, povero di subordinate, dovuto anche all’aspetto sopracitato data l’impressione di una certa casualità nella successione dei vari temi e di una narrazione frammentata. Si tratta di caratteristiche formali di grande importanza, che contribuiscono in larga misura al fascino che il testo conserva, inoltre Erodoto utilizzò, al pari degli storici che lo seguiranno, fonti orali, e si affidò, per la divulgazione della sua opera, a pubbliche e fortunate recitazioni di passi, ben più che alla diffusione del suo testo scritto. È stimolante, in effetti, sviluppare queste considerazioni, immaginando un Erodoto lògios (un dotto): una figura presente nelle città greche e nei paesi barbari di età arcaica che era depositario, a livello locale, della memoria storica della comunità. In effetti, non è pensabile ricostruire la figura di Erodoto senza sottolineare i suoi profondi rapporti con la redazione culturale dell’arcaismo: egli può essere considerato colui che tradusse per la prima volta nel medium della scrittura un vasto patrimonio di tradizioni, racconti, storie, interagendo con esso, trasformandolo e superando la sua inevitabile frammentarietà con la 5 Giad M an ci i sua scelta di un argomento unificante, quello delle guerre persiane, capace di coinvolgere e interessare l’intero mondo greco. Questo è l’aspetto più promettente degli studi erodotei, ma bisogna riflettere anche sulla profonda interazione con i movimenti intellettuali a lui contemporanei (ad esempio la sofistica). Pensiamo ad esempio al rapporto tra gli indubbi residui di oralità presenti nelle Storie, le recitazioni pubbliche e la circostanza che quello che noi abbiamo di fronte è un testo scritto, consapevole della sua natura. Erodoto ha ben presenti la struttura d’insieme del testo e la sua organizzazione interna, che solo all’apparenza risulta confusa e che invece, più la si analizza più risulta raffinata e sapiente. Questo esclude la subordinazione alle letture pubbliche per cui Erodoto è uno scrittore e sa di esserlo. Che poi, per un testo di tali dimensioni, fosse impossibile raggiungere una diffusione significativa, non fosse altro per motivi di costo, e che di conseguenza le performance orali siano state decisive per la fama dell’autore, è un altro discorso. La domanda che va posta è: qual è il rapporto tra il testo delle pubbliche recitazioni e quello a noi pervenuto? Il dibattito sulla risposta a questa domanda ha dato origine a una vera e propria “questione erodotea” per cui alcuni studiosi sostengono che Erodoto abbia maturato la consapevolezza del suo ruolo di storico attraverso un lungo processo (da etnografo, a geografo e solo infine a storico delle guerre persiane), mentre altri separano un primo Erodoto, viaggiatore, da un secondo Erodoto, determinato a mettere per scritto quanto aveva appreso nel corso della sua vita. In altre parola: la frattura non andrebbe individuata tra due diverse “ispirazioni” alla redazione di opere scritte, ma semmai tra l’Erodoto che accumula conoscenze e le trasmette oralmente e il redattore delle Storie, somma della sua esperienza. Se si cerca di determinare il motivo unificatore più evidente nell’opera, esso andrà individuato nell’impero persiano e nella sua progressiva espansione nel corso della seconda metà del VI secolo, a queste vicende si sovrappongono le vicende del mondo greco. Non sappiamo come Erodoto lavorava, come prendeva appunti e come rielaborava quell’enorme massa di informazioni da lui raccolta per poi dettarla a un suo copista. Nel tentare di ricostruire il suo metodo di lavoro dobbiamo sempre tenere presente che Erodoto è uno storico in un periodo che ancora non conosce la storia, quindi i suoi fini e i suoi metodi saranno sicuramente diversi da quelli di uno storico moderno. Innanzi tutto dobbiamo riflettere sulla scelta dello storico di limitare le sue ricerche a un periodo relativamente breve: per quanto riguarda il mondo greco esso corrisponde al periodo di tre generazioni che precede le guerre persiane, costituendo quel “passato prossimo” in qualche modo ricostruibile attraverso coloro che hanno un ricordo diretto degli avvenimenti. Una scelta di storia quasi contemporanea che da una parte sarà resa più rigorosa da Tucidide, dall’altra rimane comunque una delle opzioni fondamentali della storiografia greca. La fonte di gran lunga più impiegata nelle Storie è quindi la testimonianza orale, raccolta e poi trascritta. In generale si tratta di una scelta comune agli storici dell’antichità che preferivano l’informazione raccolta oralmente rispetta a quella rinvenuta in uno scritto. Erodoto, così facendo, non può garantire l’attendibilità di tutti i suoi informatori, senza contare che spesso è costretto a servirsi di interpreti, non conoscendo altra lingua oltre al greco, ma è parzialmente cosciente dei limiti della sua ricerca (come notiamo in VII 152 - 153), il compito dello storico è infatti quello di registrare tutto, ma separando il vero dal falso e dando un senso agli eventi. A volte se ne incarica lo stesso Erodoto, che non manca in vari casi di esprimere la propria opinione, a volte, invece, il compito di giudicare viene lasciato agli ascoltatori, ai lettori o ai posteri. Date queste premesse metodologiche, non dobbiamo dimenticare quanto differiscano dagli scopi che si prefigge un’opera storica moderna, il livello di affidabilità delle Storie è molto alto, Erodoto fornisce un quadro della storia persiana coerente e 6 Giad a M an cin i nemico comune) e Artabano, zio di Serse, che invece era contrario perché temeva l’ira di Zeus (il concetto del phthonos theon, la gelosia degli dèi verso gli uomini, è un concetto molto presente nelle Storie) dopo la creazione del ponte sull’Ellesponto (la trasformazione del mare in terra portava Serse ad equipararsi al dio, che poteva dunque punirlo per questa sua superbia, dimostrata anche dal voler raggiungere i confini del mondo). Secondo Erodoto Serse decise quindi di punire Artabano non facendolo partecipare alla spedizione, in realtà sappiamo che lo zio rimase in Persia perché il Gran Re gli affidò il regno. Serse aveva ancora dei dubbi su questa spedizione e decise di annullarla il giorno successivo, nonostante il sogno che fece nel quale un dio gli diceva combattere contro i Greci. La divinità, adirata, gli si presentò nuovamente in sogno, minacciandolo di perdere tutto il suo potere. Serse decise quindi di confidarsi a Artabano ed escogitò un piano: se anche lo zio, dopo aver indossato i suoi vestiti ed essersi addormentato nel suo letto, avesse avuto la stessa visione, allora si sarebbe decisamente trattato di un segno divino e i persiani avrebbero dichiarato guerra ai Greci. Questo accadde e Serse decise così di far partire la spedizione. Mentre si apprestava a guidarla ebbe una terza visione, interpretata dai Magi come l’incoronazione di Serse a re dell’intero mondo. Erodoto poi si sofferma sulla seconda spedizione, quella durante la quale trasformò la terra in mare tagliando l’istmo e creando un canale laddove si trovava il monte Athos. Dopo aver descritto il lavoro compiuto dalle popolazioni dell’Asia, Erodoto critica la tracotanza di Serse, che fece compiere quest’opera solo per orgoglio. Mentre si svolgevano i lavori per la creazione del corso d’acqua, i Fenici e gli Egiziani stavano creando funi di papiro e di leucolino (lino bianco) per legare tra loro i ponti necessari ad attraversare le rive dell’Ellesponto. Intanto Serse assieme alla fanteria, cominciò la sua marcia da Critalla (in Cappadocia) verso Sardi, per raggiungere il resto del suo esercito. Dalla Cappadocia, l’esercito, superò il fiume Halys e giunse in Frigia fino a Celene (dove Serse ottenne grandi doni da Pizio figlio di Atys, forse un nipote di Creso, che donò a Dario il platano e la vite d’oro, opere famosissime di Teodoro di Samo che vennero però fuse nel 316 a.C. per ordine di Antigono I), giunse poi a Anaua, Colosse, Cidrara (che non sappiamo identificare) e infine arrivò a Sardi. Qui mandò subito degli araldi a chiedere acqua e terra (la sottomissione) alle città greche tranne che ad Atene e a Sparta e si preparò per raggiungere Abido (oggi Nagara, sulla riva dell’Ellesponto). È in questo luogo che Egiziani e Fenici costruirono i ponti lunghi sette stadi per far passare l’esercito, ponti che però vennero distrutti da una tempesta. Venuto a sapere ciò Serse, a causa della sua superbia, decise di punire non solo i costruttori decapitandoli, ma anche lo stesso mare, che frustò per ben trecento volte (Erodoto ci dice che mandò anche dei marchiatori per imprimere un marchio all’Ellesponto e che insultò l’acqua mentre la frustava). Il Gran Re non si arrese e decise di creare un ponte di barche, una volta completato sia questo progetto sia quello della creazione del canale, in primavera, mosse per Abido. Mentre si metteva in marcia però ci fu un'eclissi (481 a.C) che sarebbe dovuta apparire sfavorevole per i Persiani, adoratori del sole, ma i Magi danno un’interpretazione favorevole (l’abbandono delle città da parte dei Greci) per compiacere il re. Dopo questa eclissi furono molti ad esprimere la propria preoccupazione, tra questi il lido Pizio, che gli chiese di sciogliere dall’obbligo militare lui e il figlio maggiore; ovviamente la richiesta non venne approvata da Serse, che decise invece di far tagliare a metà il figlio di Pizio e di appendere le due metà una a destra e una a sinistra della strada che doveva percorrere l’esercito. Dopo una breve descrizione dell’esercito di Serse, Erodoto, torna a parlare della marcia che finalmente giunse ad Abido dove il re, che si era fatto costruire un trono di marmo bianco, 9 Gia a M a cin i contemplò il ponte di barche e assistette a una gara di navi. Dopo questo episodio che portò Serse al riso e poi alle lacrime per la brevità della vita umana, Artabano lo conforta ma gli spiega anche la sua preoccupazione per quanto riguarda la grandezza della sua flotta, che non troverà mai un porto così grande da portela contenere, e la fame che il suo esercito che dovrà affrontare dato il lungo viaggio. Artabano poi consiglia a Serse di fare attenzioni agli Ioni, dato che i loro progenitori sono gli Ateniesi e potrebbero quindi aiutare la città, ma Serse è sicuro che la presenza delle loro famiglie nell’Impero li possa distogliere dal compiere l’azione giusta. Artabano si ritirò a Susa e Serse fece preparare l’esercito per la traversata il giorno seguente, che durò sette giorni e sette notti ininterrottamente. Cominciò con la preghiera del re al sole e il dono di una coppa, un cratere d’oro e una spada persiana (Erodoto dice di non sapere se questo è un dono che fa al sole o al mare, pentendosi di averlo punito), il Gran Re passò dopo fanteria, cavalleria, bestie da soma, Persiani, cavalieri e i cavalli sacri, oppure per ultimo. Passato in Europa contemplò il suo esercito e Erodoto riporta le parole di un Ellespontiaco che crede che Serse sia in realtà Zeus data la trasformazione del mare in terra. Ricomincia così la marcia dell’esercito fino alla pianura di Dorisco, dove fece la rassegna dell’esercito. Comincia così la descrizione dell’esercito composto da 1.700.000 uomini (Erodoto sicuramente confonde le unità di mille con quelle di diecimila, si tratterebbe quindi di un esercito di 170.000 uomini). Erodoto ci parla quindi degli abiti e delle armi di queste popolazioni, ad esempio: i Persiani indossavano delle tiare (dei copricapi orientali di feltro floscio, solo il re lo portava di feltro rigido), delle vesti variopinte e avevano il gherron e non l’aspis (il gherron è lo scudo persiano fatto da vimini intrecciati ricoperti di cuoio, mentre l’aspis è il comune scudo fatto di cuoio con rinforzi in metallo); Medi che sono vestiti nello stesso modo; i Cissei portano mitre al posto delle tiare; gli Ircani, equipaggiati come i Persiani; gli Assiiri che indossavano elmi di bronzo e avevano scudi e lance simili a quelle egiziane e clave di legno munite di chiodi di ferro; i Battri che erano vestiti in modo simile ai Medi ma portavano con sé archi di canna e corte lance; e gli Arabi indossavano ampie sopravvesti e portavano lunghi archi con doppia curvatura; e gli Etiopi vestiti di pelli di pantera e leone avevano archi fatti di rami di palma. Erodoto poi specifica che tutti i comandanti nominati sono solo i chiliarchi e i miliarchi, che a loro volta designavano ecatontarchi e decacarchi (rispettivamente a capo di mille, diecimila, cento e dieci soldati), mentre il comando di tutta la fanteria era affidato ad altri uomini (come Mardonio e Tritantacme). Idarne figlio di Idarne comandava invece gli Immortali: diecimila Persiani che si chiamavano in questo modo perché se qualcuno di essi moriva per malattia o in guerra, veniva immediatamente sostituito in modo da far rimanere sempre il numero di combattenti stabile. Si distinguevano inoltre come i più grandi combattenti dell’esercito persiano. Non tutti però disponevano di cavalli, solo ottantamila uomini, mentre gli altri seguivano a piedi e gli Arabi, per ultimi in modo da non spaventare i cavalli con i loro animali, avevano dei cammelli. Lo storico si sofferma poi sulla flotta di 1207 triremi create dalle varie popolazioni che parteciparono alla spedizione, in particolar modo cinque navi vennero donate da una donna, Artemisia, che partecipò alla spedizione pur non essendone obbligata in quanto tale e le sue navi, assieme a quelle dei Sidonii (Fenici), erano tra le migliori dell’intera flotta. Serse, dopo aver passato in rassegna tutto l’esercito e la flotta, esprime nuovamente i suoi dubbi sulla vittoria contro i Greci e Demarato figlio di Aristone che lo accompagnava gli disse di temere solamente gli Spartani, perché combatteranno anche se in numero minore o in posizione 10 Giad a M an cin i comunque sfavorevole (rimanda al concetto di “vincere o morire” presente nel famoso epigramma di Simonide per i caduti alle Termopili). Erodoto parla poi di tutti governatori alleati persiani in Tracia che vennero scacciati dai Greci dopo la prima spedizione e si sofferma in particolar modo su Boge, governatore di Eione che, assediato dagli Ateniesi di Cimone figlio di Milziade, poteva salvarsi in seguito all’armistizio e tornare in Asia, ma non lo fece: decise di uccidere moglie, figli, concubine e servi, bruciare i loro cadaveri su una pira assieme a tutto l’oro e l’argento per poi gettarsi anch’esso sulla pira. Serse riprende quindi la sua marcia da Dorisco verso Maronea e poi ad Abdera, sottomettendo tutti i popoli presenti e costringendoli quindi ad unirsi al suo esercito, tutti tranne i Satri (famosi per l’oracolo di Dioniso) che non furono mai soggetti a nessuno da quanto ci dice Erodoto, visto che vivevano su alti monti coperti di neve ed erano eccellenti guerrieri. Arrivò poi a Eione, governata da Boge, dove i Magi sacrificarono dei cavalli bianchi sulle rive del fiume Strimone e, avanzando nelle Nove Strade seppellirono vivi ragazzi e ragazze. Erodoto ci dice che era una pratica molto diffusa nell’Impero persiano, dato che anche Amestri moglie di Serse offrì come dono alla divinità di sotterra quattordici fanciulli persiani. Avanzò poi verso Stagira e Acanto, dove apprese la notizia della morte di Artacheo, colui che sovraintendeva ai lavori di scavo, che godeva di grande considerazione presso Serse perché di stirpe Achemenide e un uomo altissimo (2.5m). La flotta, attraversando il canale scavato nel monte Athos, raggiunse poi Terme, attuale Salonicco, città dove più agevolmente poteva riunirsi con le forze di terra che attraversarono regioni interne affrontando il pericolo dei leoni (infatti uccisero dei cammelli che portavano viveri). Superato il fiume Acheloo e giunto a Terme fece accampare l’esercito e decise di vedere per mare la foce del Peneo, un fiume che scorre fra i monti della Tessaglia, per capire se fosse possibile deviarlo e farlo sboccare da qualche altra parte per permettergli il passaggio, ovviamente i Tessali, spaventati dalla possibile conquista (e secondo Serse anche dalla possibilità di rendere la Tessaglia un lago, come lo era stata un tempo secondo le leggende, dato che è circondata da montagne) risposero che l’unica via d’uscita del fiume era quella che stava osservando in questo momento. Nel frattempo tornarono gli araldi, alcuni con acqua e terra e alcuni a mani vuote. C’è quindi una digressione sull’uccisione degli araldi inviati da Dario ad Atene e Sparta, città nelle quali infatti il figlio non li inviò. Erodoto ci dice che non è in grado di raccontare cosa sia successo ad Atene dopo aver gettato nel baratro dietro l’acropoli gli araldi perché nessuno era in grado di dire altro se non che il paese e la città fu devastata, mentre sugli Spartani, che avevano gettato in un pozzo gli araldi dicendo di raccogliere acqua e terra per il loro sovrano, si abbattè l’ira di Taltibio, l’araldo di Agamennone il cui santuario si trova proprio nella città. Per placare quest’ira gli spartani mandarono come sacrifici ai Persiani due giovani volontari, Spertia figlio di Aneristo e Buli figlio di Nicolao, entrambi di nobile stirpe, ma Serse non li uccise e li fece tornare a Sparta, questo cessò l’ira di Taltibio, ma solo per un breve periodo: furono i figli di questi due poi a ereditare le colpe del padre (idea ancora molto diffusa nel V secolo a.C.) e ad essere uccisi durante la guerra del Peloponneso. Erodoto esprime poi un suo parere: se gli Ateniesi avessero abbandonato la loro terra o comunque si fossero consegnati a Serse, allora nessuno avrebbe difeso la Grecia, che sarebbe stata sicuramente conquistata dai Persiani. Dice addirittura che le mura sull’Istmo sarebbero state inutili, visto il controllo del Gran Re sul mare. Gli Ateniesi infatti, ci dice Erodoto, andarono persino contro quello che era l’oracolo delle pizia: «quando tutte le altre città siano state prese, quante il monte di Cecrope comprende, i recessi del divino Citerone, Zeus ampiveggente 11 Giad a M an cin i Il percorso fatto da Serse è in rosa. Tucidide e il I libro della Guerra del Peloponneso Introduzione Tucidide rappresenta il modello, l’archetipo, di un nuovo modo di intendere la scrittura storica: monografica, selettiva, incentrata sulle vicende politico - militari. Seppure si deve riconoscere un debito importante di Tucidide verso Erodoto, la natura intima delle sue Storie si contrappone a quella del grande predecessore. Si tratta infatti di due modelli antitetici di riferimento per la storiografia successiva: l’erudizione che trapela dalla narrazione erodotea, la vastità dell’orizzonte dei suoi interessi, la felicità espressiva e il gusto del meraviglioso sono in Tucidide abbandonati a favore di un’attenzione minuziosa per il dettaglio, alla precisione della ricostruzione, all’accuratezza e alla profondità di indagine. Se per gli antichi Erodoto rappresentava il “padre della storia”, Tucidide ne era il legislatore, il codificatore delle regole fondamentali. Sulla sua scia si muoveranno gli storici del “filone alto” della storiografia greca, da Senofonte a Polibio, e a lui si ispireranno gli autori romani come Sallustio e Tacito. La vita Delle vicende biografiche di Tucidide sappiamo ben poco. Le notizie sulla sua vita derivano da una tradizione tarda e scarsamente verificabile, spesso sospetta. La fonte principale delle compilazioni biografiche era l’erudito alessandrino Didimo, che compose Hypomnèmata a Tucidide, mentre i principali riferimenti che possediamo sono: un testo di critica stilistica di Dionigi di Alicarnasso (I secolo d.C.), la biografia dedicata allo storico da Marcellino (V secolo d.C.) e infine un’anonima biografia premessa ai manoscritti. Il punto di partenza per le tradizioni antiche era comunque rappresentato dai riferimenti autobiografici presenti nella sua opera.Tutto ruota attorno a un episodio della guerra del Peloponneso che lo vide protagonista e che lo stesso autore ci racconta in IV 104 - 108: mentre era di stanza a Taso come strategòs, nel 424, fu chiamato dal collega Eucle in difesa della colonia di Anfipoli, minacciata dall’avanzata dello spartano Brasida. Giunse tuttavia in ritardo per salvare la città e non poté far altro che difendere il porto di Eione. Da questa vicenda ricaviamo dati importanti per una ricostruzione cronologica di massima. Tucidide, cittadino ateniese del demo di Alimunte, in qualità di stratego doveva avere 14 Giad a M ncin i nel 425 / 424 non meno di trent’anni e dunque doveva essere nato attorno al 455 / 460, si può dunque affermare che appartenga alla generazione successiva a Erodoto. Il padre, secondo un’informazione dello stesso Tucidide (in IV 104.4), si chiamava Oloro, omonimo di un re trace vissuto nella seconda metà del V secolo, la cui figlia, Egesipile, sposò Milziade, il vincitore di Maratona. Secondo alcune ipotesi, dunque, Tucidide avrebbe avuto dei legami diretti con due famiglie della più alta aristocrazia ateniese (i Filadi e il ghénos dell’omonimo Tucidide di Melesia) e, alla lontana, con una dinastia regnante tracia. Effettivamente Tucidide aveva dei possedimenti in Tracia e ottenne il diritto di sfruttamento delle miniere d’oro dell’area del Pangeo, fu probabilmente grazie a tali relazioni personali nel territorio che venne assegnato a Taso, di fronte alla costa tracia, durante la sua strategia. Lo storico afferma poi di aver assistito alla peste d’Atene del 430 / 429 e di esserne stato contagiato. Cosa successe a Tucidide dopo Anfipoli è più complesso da comprendere: in un passo della sua opera, nel “secondo proemio” (V 25 - 26), egli afferma di essere stato costretto a un esilio ventennale, che si sarebbe dunque protratto fino alla fine della guerra da lui narrata. L’esilio si sarebbe consumato, secondo lo storico, tra i Peloponnesiaci, ma altre tradizioni biografiche parlano di Tracia, Macedonia e persino Italia. A guerra finita Tucidide sarebbe rientrato in patria, dove avrebbe trovato la morte, ucciso da mano sconosciuta: una tradizione alternativa, riportata da Plutarco, lo vuole morto in Tracia, mentre, secondo Pausania, sarebbe stato ucciso sulla via del rientro ad Atene. Entrambi riferiscono comunque che il corpo sarebbe stato trasferito ad Atene per esservi sepolto e ne indicano la tomba. La tradizione antica dunque riporta molte varianti inconciliabili e difficilmente controllabili, ma non mette mai in discussione la data dell’esilio, evento invece negato con decisione da Luciano Canfora, che ha voluto riferirlo a Senofonte, editore del testo tucidideo dopo la morte dell’autore, cui andrebbero ascritte la paternità del “secondo prologo” e le indicazioni biografiche contenute. Una possibile indicazione sulla data di morte si ricava da un’iscrizione del 398 / 397 trovata a Taso, in cui compare come arconte un Lica, omonimo dello spartano di cui Tucidide menziona la morte in VIII 84.5. Se si identificano i due personaggi, il 397 sarebbe terminus post quem per la morte dell’autore. I dati biografici più attendibili sull'autore si fermano qui, per il resto la tradizione riporta una serie di aneddoti poco credibili e comunque non verificabili. Tucidide (460 a.C. ca. - 404 a.C. ca.) Seppur nei limiti dei dati in nostro possesso, è possibile tentare di evidenziare i principali elementi che hanno concorso alla formazione culturale e all’impegno politico di Tucidide e come essi si siano riversati nel suo fare storico, partendo dall’educazione che ricevette. Tucidide ricevette un’educazione accurata, di altissimo livello, conosceva bene e utilizzò in modo magistrale i sussidi della retorica, assimilandone le tecniche di presentazione e di argomentazione e non restò insensibile di fronte all’approfondimento delle potenzialità del linguaggio della sofistica. Inoltre lo storico conobbe e utilizzò l’elaborazione della metodologica della medicina ippocratica e il relativo lessico (in entrambi si coglie infatti il travaglio di edificare nuovi paesaggi 15 Giad a M an cin i culturali seguiti a una frattura decisiva nella fondazione di nuove scienze e discipline, ovviamente facendo riferimento alla medicina e alla ricerca storica). Tucidide era, politicamente, un aristocratico conservatore, ma culturalmente si mostrava permeabile alle più avanzate elaborazioni intellettuali dell’Atene del tempo, città alla quale l'autore è legato culturalmente, ma anche politicamente (abbiamo già detto che fu strategòs nel 424 / 425). Questo introduce un elemento nuovo nella caratterizzazione dello storico: l’aver preso parte direttamente alle vicende che vuole raccontare, principio che diventerà una rivendicazione di quanti, dopo Tucidide, si rifaranno al suo modo di fare storia. Tucidide si muoveva nella democrazia ateniese con un atteggiamento inusuale per gli aristocratici dell’epoca: critico verso le forme più radicali dell’esperienza democratica, egli tuttavia non si sottrasse mai all’impegno politico attivo. La sua visione degli eventi storici non lasciava margine all’intervento divino, non certo per una forma di ateismo, ma semplicemente per l’individuazione di un campo d’indagine dello storico: la natura umana e le forze che ne muovono l’agire, nella loro dimensione politica, sociale, economica ma anche psicologica. La Guerra del Peloponneso e la “questione tucididea” L’opera di Tucidide è un monumento fra i più solidi mai prodotti dalla cultura greca. Le Storie di Tucidide si compongono di otto libri (che possiamo dividere tra: l’arcaiologìa nel I libro, la narrazione della guerra archidamica nel II, dal III al V la fragile pace tra 421 e 416, la spedizione ateniese in Sicilia nei libri VI e VII e, infine, le vicende degli anni 412 e 411 e il colpo di stato dei Quattrocento ad Atene nell’VIII libro), il cui oggetto di narrazione è la guerra del Peloponneso, concepita come un evento unitario dal suo scoppio nel 431 fino alla disfatta ateniese del 404. La narrazione è organizzata secondo la successione diacronica degli anni della guerra, nell’alternanza di estati e inverni che creano segmenti cronologici a scandire il racconto. Alla fine di ogni anno appare una sorta di firma dell’autore che sembra ribadire la paternità del testo. La narrazione si interrompe bruscamente nel 411, dopo la battaglia di Cinossema, la circostanza sembrerebbe spiegarsi con la sua morte violenta e improvvisa, sopraggiunta evidentemente prima che potesse concludere l’opera. Tucidide afferma che il suo interesse si accese fin dallo scoppio della guerra e che gli iniziò fin da subito il suo lavoro storiografico, che dunque, se prendiamo alla lettera tale affermazione, prese avvio nel 431 / 430 o forse già nel 435 / 434, anno dello scontro tra Corinto e Corcira per Epidamno. A partire dalla metà del XIX secolo sulle vicende della composizione delle Storie si è posta una “questione tucididea”: se il testo che leggiamo è frutto di una stesura protrattasi nel tempo, con sezioni più recenti, rivisitate e ricorrette, e altre ferme a uno stato originario, come distinguere e precisare all’interno dell’opera i diversi stadi? Secondo Wolfgang Ullrich, il padre di tale dibattito, ci furono due fasi di composizione: la prima dopo la pace di Nicia del 421, che sembra aver posto fine al conflitto, e la seconda dopo la conclusione effettiva della guerra nel 404. Alla base di questa ipotesi ci sono l’affermazione proemiale con cui Tucidide sostiene di aver scritto «iniziando subito fin dallo scoppio della guerra» e al significato dell’espressione “questa guerra”, la presenza di passi in cui è chiaro che l’autore sa come andrà a finire il conflitto. A complicare questo quadro è l’ipotesi che, seguendo le consuetudini dell’epoca, Tucidide abbia reso pubbliche singole sezioni del suo lavoro attraverso letture pubbliche, parti che evidentemente si presentavano come complete e pronte ad affrontare il pubblico, nonostante la sua opera, nel complesso, non fosse terminata. In conclusione, se non si fa sforzo ad ammettere uno stadio di composizione diseguale per diverse sezioni dell’opera, la 16 Giad M an cin i presenta come inevitabile. La trattazione delle cause della guerra indica già un tema guida nella prospettiva tucididea: la nozione di sviluppo, rintracciata nell’accumularsi di risorse economiche, potenziale bellico, influenza politica. Tutta la digressione dell’archaiologìa è incentrata su questo tema: il grado di sviluppo è il parametro per giudicare della grandezza bellica dell’evento che Tucidide sta per narrare. La scelta tucididea si afferma come selettiva, quasi monografica, che privilegia lo scavo in profondità di una nozione rispetto a un ampio affresco che catturi più caratteri, anche nei confronti dei fili tematici che intessono la trama del racconto. Lo sviluppo ateniese è il fenomeno che caratterizza il V secolo, a partire dal periodo successivo alle guerre persiane, e proprio nel racconto della pentecontaetìa Tucidide ripercorre le tappe che portano Atene ad assumere questa egemonia. Una delle conseguenze di questa centralità della nozione di sviluppo è che le relazioni politiche sono intese principalmente come rapporti di forza. L’esempio più celebre è il dialogo fra Ateniesi e Meli (V 84 - 116): i Meli sono dorici e chiedono di potersi mantenere neutrali, ma gli Ateniesi negano loro tale facoltà e pretendono la loro alleanza. I Meli sanno che l’unica alternativa reale è cedere e farsi schiavi degli Ateniesi o resistere e affrontare la guerra, per loro destinata a sconfitta sicura. Il tentativo di motivare le loro ragioni su un piano di equità non può sortire alcun effetto a fronte della logica imposta dalla necessità delle parti (altra nozione chiave in Tucidide). Per gli Ateniesi è dunque impossibile accettare un rapporto di philìa con i Meli, perché sarebbe letto come un atto di debolezza. Alla fine i Meli rifiuteranno di sottostare alle condizioni ateniesi e, dopo un lungo assedio, la città verrà conquistata e distrutta. Oltre alla forza, altri motori vengono evocati dallo storico, in un’analisi degli eventi capace di intrecciare al piano politico - militare quello sociologico e anche psicologico: paura, avidità e ambizione concorrono a determinare i comportamenti e condizionano le scelte, in particolare in situazioni estreme, ad esempio durante la peste quando mancano ormai motivazioni per sperare nel futuro, o dopo la morte di Pericle, quando gli interessi dei singoli finiscono con il prevalere sulla considerazione del vantaggio comune. A tal proposito, Pericle riscuote la più chiara e vistosa ammirazione da parte dello storico in quanto guida capace di governare il popolo, di usare la ragione nel suo dialogo con il dèmos e convincerlo ad accettare anche le più dolorose decisioni. Non mancano però anche le più significative rappresentazioni che esaltano il ruolo di altri protagonisti come Cleone, Nicia e Brasida. Tucidide oggi Fino a non molti anni fa Tucidide era considerato il modello di una storiografia rigorosa e oggettiva, una posizione di assoluta preminenza che faceva dello storico ateniese un monumento indiscutibile, con la conseguenza di assurgere a paradigma anche per la moderna pratica storiografica. Una decisa reazione a questa posizione si è manifestata nell’ultimo quarantennio, guidata dall’articolo Thucydide n’est pas un collègue di Nicole Loraux, nel quale si metteva a nudo la distanza incolmabile tra il fare storico tucidideo e le esigenze metodologiche contemporanee. Questo ha permesso di introdurre una maggior distanza critica nella valutazione della storia di Tucidide e di recuperare, solo in tempi recenti, la contestualizzazione dell’autore all’interno delle pratiche del suo tempo. La struttura complessiva delle Storie segue, come si è visto, uno schema diacronico, ma la narrazione non si presenta lineare, né sul piano dell’estensione data ai singoli eventi né su quello della continuità narrativa. Gli elementi che determinano il movimento complessivo della macchina narrativa tucididea sono diversi, ma ne segnaliamo tre: 19 Giad a M an cin i i fatti e i discorsi: una prima linea guida nell’organizzazione e soprattutto nell’esposizione del materiale è dichiarata dallo stesso autore nell’esplicitazione dei criteri che informano il diverso approccio seguito per l’esposizione dei fatti e per l'introduzione dei discorsi, ricostruiti sulla base dei criteri di plausibilità e di significato complessivo (I 22.1). L’alternanza di fatti e discorsi però non è una novità, già in Erodoto erano frequenti gli inserti dialogici. Tucidide però sente l’esigenza di chiarirne la forma e i limiti, segnalandone la rilevanza nel suo impianto narrativo. In effetti per lui i discorsi entrano a far parte della ricostruzione degli eventi, per questo si prefigge di rimanere il più vicino possibile alle parole pronunciate, ma anche allo stile di chi le pronuncia, fornendo così una caratterizzazione dei protagonisti della scena politica attraverso la loro rappresentazione diretta. Sarebbe tuttavia limitativo intendere l’inserimento dei discorsi come artificio letterario, perché arricchiscono in maniera decisiva il quadro della scena politica ce circonda le principali decisioni, gli eventi più significativi, mostrando motivazioni, interessi, obiettivi che la semplice descrizioni dei fatti non potrebbe testimoniare. Si è molto discusso sulla storicità dei discorsi inseriti dallo storico nella sua opera, per noi non è possibile trovare garanzie del fatto che essi furono effettivamente pronunciati e contenessero proprio i temi e gli argomenti che lo storico ha restituito. Se un’operazione di selezione e compendio era necessario per ragioni anzitutto pratiche, tale selezione era inevitabilmente già di per sé un’interpretazione. Non sempre inoltre il dibattito è riconsegnato in maniera simmetrica, spesso alle argomentazioni distese di una parte si affianca la sintesi della reazione della parte avversa o dell’uditorio (come avviene ad esempio nel I libro 140 - 144 quando Pericle spinge per la guerra contro sparta). Se è vero che dietro scorgiamo sempre la solida guida dell'autore nel fornirci le diverse posizioni, tuttavia è proprio grazie a esse che il racconto di Tucidide può recuperare un pluralismo di voci e posizioni che si agitano sulla scena e sarebbero escluse dalla semplice narrazione dei fatti; le narrazioni esemplari: il flusso continuo della narrazione dei fatti conosce in alcuni punti un rallentamento, per dedicarsi a un’esposizione più distesa e attenta di fatti che apparentemente non giocano un ruolo molto rilevante nella scansione degli avvenimenti. Pensiamo ad esempio alla peste di Atene dell’estate del 430, Tucidide le dedica una lunga descrizione in II 47 - 53, mentre altri casi simili che costellano gli anni della guerra ricevono poco più di una breve menzione; le digressioni: ultimo fattore che interrompe la linearità della narrazione. Al contrario di Erodoto, Tucidide vi ricorre in maniera limitata, ma , proprio per questo, risultano passi di enorme rilevanza nell’economia complessiva del testo. Il primo excursus è quello sullo sviluppo della Grecia antica (l’archaiologìa) che introduce il tema cardine della prospettiva tucididea, ovvero i caratteri della ricchezza che producono sviluppo e potere nelle diverse realtà del mondo greco. Con i capitoli sulla pentecontaetìa, Tucidide si riconnette implicitamente all’opera di Erodoto, iniziando proprio dall’avvenimento che chiude le Storie del predecessore, ovvero la presa di Sesto da parte di Atene. Al centro di questi passi è il rapporto con il passato, per lo più recente, ma anche remoto, come nel caso dell’archaiologìa.. Proprio alla fine di questa sezione sente di dover precisare come abbia compiuto il suo percorso inverso, alla ricerca di un passato tanto distante. Il passato infatti non è oggetto della storia tucididea, dove lo storico decide di affrontarlo, capovolge i suoi criteri e parametri di ricerca che in questo caso somigliano a una vera e propria indagine attraverso indizi, per cui lo storico si trasforma in un detective e avanza con lentezza nel decodificare le tracce. Questo metodo da un lato presenta una ricostruzione complessiva che 20 Giad a M an cin i fornisce un quadro più chiaro e affidabile, dall’altro non può che approdare a una realtà frammentaria e parziale. Tucidide ha lasciato, con le sue Storie, un’espressione letteraria di altissimo valore, ha ridefinito il campo d’azione dello storico e ha inventato la storia monografica. Da un lato ne cogliamo lo sforzo incentrato sulla concretezza degli eventi, mentre dall’altro venivamo continuamente sollecitati dalla capacità di astrazione che, a partire dai singoli fatti, ci proietta su un piano di universalità nella scoperta dei meccanismi che li determinano. Manca la capacità di valutare gli elementi di lunga durata nella storia, gli elementi statici, così descritti da Erodoto, infatti in Tucidide la storia è tutta nel dinamico e nel distruttivo succedersi delle tappe nella lotta per il potere. È una visione intimamente tragica delle vicende storiche, che conosce la fredda logica della sopraffazione ma anche l’improvviso emergere di fattori irrazionali, perché entrambi appartengono alla condizione umana. Il I libro della Guerra del Peloponneso Tucidide inizia la sua opera esponendo fin da subito l’oggetto: la guerra del Peloponneso, che secondo l’autore è stata la più grande guerra mai combattuta dai Greci, per dimostrare ciò fa un confronto con il passato remoto della Grecia nei primi 23 capitoli del libro, l’archeologia. Comincia questo viaggio a ritroso nel tempo con la descrizione delle prime popolazioni che non vivevano in un unico luogo, ma si spostavano a causa della mancanza di commerci sicuri fra popoli e dell’agricoltura basata sullo sfruttamento di piantagioni (tra queste regioni ricorda la Tessaglia e la Beozia). Gli unici a non aver mai abbandonato la loro terra sono stati gli Ateniesi, l’Attica, infatti, era una terra arida, difficile da coltivare e quindi rimasta senza lotte interne e abitata sempre dalle stesse persone, con l’aggiunta ovviamente delle persone fuggite dalle altre regioni (Tucidide ci dice che divennero così tante che Atene dovette fondare colonie in Ionia). Divide poi il passato in due parti: prima della guerra di Troia (l’unica altra grande guerra combattuta da tutti i Greci) e dopo e spiega come prima di questa nessuno si definiva un ellenico (in questo caso riporta la genealogia mitologica che rende tutti i Greci uniti da un legame di sangue in quanto discendenti di un unico uomo, Elleno), tanto che neanche Omero parla di hellenes, anzi la stessa Grecia probabilmente non aveva questo nome. Tucidide ci parla poi della pirateria, alla quale pose fine il re cretese Minosse e all’epoca molto pratica tanto che ad alcuni popoli è rimasta l’abitudine di partire armati, tra questi, i primi a smettere di farlo, furono gli Ateniesi. Parla poi della potenza di Agamennone, re dei Micenei, e fa un confronto con Sparta essendo entrambe piccole città: se Sparta venisse distrutta la gente in futuro non crederebbe al fatto che fu una grandissima potenza, perché organizzata in villaggi sparsi, mentre, se la stessa sorte toccasse a Atene allora gli uomini crederebbero di essere di fronte alla più grande potenza greca mai esistita. Fa questo confronto per ripetere nuovamente la grandezza della guerra che sta vivendo rispetto a quelle del passato, in questo caso di Troia, infatti, stando a Omero, non partirono molti uomini non tanto per mancanza di popolazione, ma per mancanza di denaro. Tucidide arriva così a parlare della fine della guerra di Troia, quando avvennero nuovamente migrazioni, come quella dei dori nel Peloponneso per riprendere le terre che spettavano di diritto agli eraclidi, e colonizzazioni (i Peloponnesiaci l’Italia e la Sicilia oltre che alcune parti della Grecia e gli Ateniesi la Ionia e le isole). L’autore accenna quindi alla nascita delle tirannidi, tutte poi abbattute dai Lacedemoni (Tucidide ci dice infatti che in Laconia non ci furono mai tirannidi perché gli spartani mantennero e rispettarono sempre la stessa costituzione), e allo sviluppo delle comunicazioni via mare, in particolar modo a Corinto dove sarebbero state 21 Giad a M a cin i barbari. Tucidide ci dice che all’interno di questa lega esistevano due tipi di alleati: chi partecipava direttamente in guerra, fornendo uomini e navi, e chi invece pagava un tributo (il phoros). Molti di questi alleati però si ribellarono alla polis, soprattutto a causa dei tributi, l’autore infatti dice che fu la pigrizia degli alleati, che non volevano più andare in guerra e allontanarsi da casa, a provocare l’aumento del phoros. Tra queste città la prima a ribellarsi fu Taso che chiamò in aiuto i Lacedemoni, ovviamente loro accettarono ma ben presto scoppiò la rivolta dei Messeni a seguito del terremoto del 464 e furono costretti ad annullare questo patto; i Tasi furono costretti a consegnare la flotta e a pagare il tributo. Per sedare questa rivolta gli spartani si rivolsero anche ad Atene e Cimone inviò una guarnigione di ben 4mila opliti, che però vennero cacciati poco dopo secondo Tucidide perché non presero con la forza questi territori ed erano preoccupati di una possibile alleanza con i rivoltosi. Tucidide narra ora gli eventi tra 462 e 446, anni di guerre tra le due poleis che portarono poi alla pace trentennale. È in questo momento, ci dice Tucidide, che gli Ateniesi iniziarono la costruzione delle lunghe mura e i Lacedemoni, come monito, invasero l’Attica per poi ritirarsi prima di arrivare ad Atene, fu questo che spinse alla tregua trentennale nel 446. Dopo 6 anni da questa tregua Atene instaurò, non senza problemi, un governo democratico a Samo. In queste pagine quindi l’autore ci parla della pentecontaetia, ovvero dei cinquant’anni circa che vanno dalla fine delle guerre persiane (479 a.C.) allo scoppio della guerra del Peloponneso (431 a.C.). Tucidide torna quindi a parlare della decisione presa nell’assemblea a Sparta per la guerra contro Atene e poi dell’invio di ambasciatori, che portarono questi ultimatum agli Ateniesi: purificare il sacrilegio commesso contro la dea: ovvero cacciare dalla città gli uccisori dei ciloniani che si erano rifugiati nei templi dell’acropoli, tra questi anche Pericle, coinvolto da parte di madre. Il piano dei Lacedemoni era dunque ovvio: se avesse accettato l’ultimatum Pericle si sarebbe esiliato da solo, altrimenti la guerra sarebbe scoppiata a causa sua. Gli Ateniesi risposero allora che anche i Lacedemoni dovevano purificarsi del sacrilegio del Tenaro perché anch’essi uccisero degli uomini, degli iloti, che si erano rifugiati al tempio di Poseidone, e anche del sacrilegio di Atena Calcieca, infatti Pausania, dopo aver medizzato (e lo si notava da vari comportamenti come il fatto che vestisse come un persiano e si facesse accompagnare da guardie babilonesi ed egiziane) incise sul tripode di Delfi un distico elegiaco in cui si definì «il condottiero che distrusse l’esercito dei Medi>> e dunque l’unico a offrire a Febo questo monumento. Pausania inoltre era in contatto con gli iloti, ai quali aveva promesso libertà e diritti politici, fu a questo punto (471) che gli spartani lo rinchiusero nel tempio nel quale si era rifugiato e, quando si accorsero che stava per morire di fame, lo fecero uscire per farlo morire fuori dal luogo sacro. Questo era stato un sacrilegio per i Lacedemoni, infatti Apollo chiese di restituire ad Atena Calcieca due corpi invece di uno e gli Spartani le offrirono due statue di bronzo. Gli ambasciatori replicarono che anche gli Ateniesi avevano un uomo legato ai Medi, Temistocle, che infatti, anche se era già stato ostracizzato, fuggì dal Peloponneso fino a Corcira e poi ancora a Molossi e infine in Persia; abbandonare Potidea e Egina; ritirare il decreto che impediva l’accesso alla città e ai porti dell’impero a Megara. Gli Ateniesi quindi tennero un’assemblea per decidere il da farsi e, anche in questo caso, alcuni erano favorevoli all’entrata in guerra, tra cui Pericle di Santippo che tenne un lungo discorso sulla potenza d’Atene e la perenne intenzione di Sparta di entrare in guerra, e altri no. Basandosi sulle 24 Giad a M an cin i parole di Pericle gli Ateniesi dissero agli ambasciatori che non avrebbero fatto niente per ordine altrui, ma che erano disposti a mettersi d’accordo su un piano di parità. Gli araldi partirono e gli Spartani non mandarono più ambascerie. 25 Giad a M an cin i