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Storia moderna, Carlo Capra, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto del manuale di Carlo Capra per l'esame di storia moderna

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 04/07/2022

michellesottocasa
michellesottocasa 🇮🇹

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Scarica Storia moderna, Carlo Capra e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! STORIA MODERNA (1492-1848), Carlo Capra Parte prima: La lunga durata CAPITOLO 1: LA POPOLAZIONE E LE STRUTTURE FAMILIARI 1. Fonti e metodi Thomas Robert Malthus diede voce con il suo Saggio sul principio di popolazione (1798) a una diffusa preoccupazione per lo squilibrio tra popolazione e risorse alimentari. Infatti, la popolazione cresce in progressione geometrica, mentre le risorse necessarie alla sopravvivenza in progressione aritmetica. A frenare l’aumento incontrollato della popolazione intervengono inesorabilmente i freni “repressivi”, che ristabiliscono temporaneamente l’equilibrio alterato. L’unica alternativa a questi periodici salassi è l’adozione di freni “preventivi”. Un contributo significato al progresso degli studi demografici venne in Inghilterra dai cosiddetti “aritmetici politici” (uso della statistica). Al XVIII secolo o agli inizi del XIX secolo risalgono i primi censimenti modernamente impostati. In precedenza si hanno numerazioni di fuochi, o nuclei familiari, compiute a scopi fiscali (es: Domesday Book in Inghilterra per l’approvvigionamento e il reclutamento). Un’altra importantissima miniera di dati è rappresentata per l’Europa preindustriale dalle fonti ecclesiastiche, distinguibili in fonti relative allo stato e in fonte relative al movimento della popolazione. Le prime consistono principalmente negli “stati delle anime”, gli elenchi degli abitanti di una parrocchia redatti al fine di controllare l’adempimento del precetto pasquale. Per il movimento della popolazione la documentazione di base è costituita dai libri in cui erano registrati gli eventi fondamentali della vita dei parrocchiani. I registri parrocchiali ci permettono di ricostruire l’andamento dei diversi eventi (nascite, matrimoni, decessi) nel corso degli anni, sia di studiarne la stagionalità. Tali registri sono divenuti una fonte privilegiata per lo studio della popolazione a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, con il metodo della “ricostruzione nominativa delle famiglie”. Questo metodo però richiede un lungo lavoro e solo raramente porta a delle schede di famiglia complete. I demografi hanno perciò elaborato tecniche diverse. Tra queste la costruzione di piramidi delle età e la costruzione di tavole di mortalità. 2. La popolazione europea nell’età moderna Molto più della metà della popolazione mondiale viveva nel continente asiatico. Le cifre evidenziano la vera e propria catastrofe demografica che colpì il continente americano con l’avvio della colonizzazione europea, e l’arresto dello sviluppo dell’Africa in larga misura collegato a questo evento. La popolazione europea cresce allo stesso ritmo di quella asiatica tra il 1400 e il 1800. Si delineano tre grandi fasi: 1) una crescita demografica generale tra la metà del Quattrocento e gli inizi del Seicento; 2) un forte rallentamento nel XVII secolo; 3) una rinnovata tendenza espansiva nel Settecento, che si prolunga e anzi si rafforza nel XIX secolo. I tassi medi di incremento annuo raramente toccano o superano lo 0,5% fino alla seconda metà del Settecento. La lentezza della crescita della popolazione è dovuta all’alta mortalità, i cui indici medi sono pericolosamente vicini a quelli della natalità. Nell’età moderna erano pressoché sconosciute le tecniche di contraccezione (regime di fecondità “naturale”). In queste condizioni ci si aspetterebbe che ogni coppia di coniugi mettesse al mondo un gran numero di figli. In realtà così non avveniva, per tre principali ragioni: 1) età avanzata delle spose (24-26 anni); 2) lunghi intervalli tra i parti a causa soprattutto della sterilità temporanea causata dall’allattamento prolungato; 3) morte di uno dei due coniugi. Inoltre, un quarto circa dei nati moriva nel primo anno di vita, e un altro quarto scompariva prima di aver raggiunto l’età adulta. Un aumento della natalità e una diminuzione della mortalità furono le cause principali dell’aumento demografico del XVIII secolo. 3. La storia della famiglia Molta fortuna ha avuto la classificazione elaborata dal gruppo di Cambridge per lo studio della popolazione, che ha distinto cinque tipi di aggregati: la famiglia detta “nucleare” (coniugi e figli); la famiglia “estesa” (nucleare + altro convivente); la famiglia “multipla” (almeno due nuclei); famiglie “senza struttura” (non c’è un rapporto matrimoniale alla base) e i “solitari”. Laslett avanzò la tesi che nell’Antico Regime fosse assolutamente predominante il tipo della famiglia nucleare; ma via via che si accumulavano i risultati delle ricerche compiute in altri Paesi il quadro si fece assai più complesso. Laslett e Hajnal distinsero due diversi modelli matrimoniali e famigliari. “Il primo si basava su tre regole. Donne e uomini si sposavano abbastanza tardi. Gli sposi seguivano la regola di residenza neolocale dopo le nozze. Prima delle nozze un’alta quantità di giovani passava alcuni anni fuori casa ”. Il secondo modello prevedeva invece il matrimonio precoce e la residenza patrilocale ed escludeva il servizio prenuziale presso altre famiglie. La famiglia non rappresentava, dal punto di vista economico, solo un’unità di consumo, ma prima di tutto un’unità di produzione. La conservazione della ricchezza, incentrata per lo più sulla proprietà fondiaria, è una preoccupazione dominante per le famiglie aristocratiche europee, che tra il XVI e il XVIII secolo adottano largamente strumenti giuridici adatti allo scopo, come i fedecommessi e le primogeniture. Il fedecommesso era una disposizione per cui chi fa testamento vincola l’erede o gli eredi a trasmettere una serie di beni sottoposti a vincolo agli ulteriori chiamati. La primogenitura si riferisce all’uso di concentrare nel primogenito il grosso dell’eredità. Anche quando il fedecommesso non operava in congiunzione con la primogenitura, lo scopo era ugualmente raggiunto con la limitazione del matrimonio a un solo maschio per ogni generazione. Per le femmine la dote fungeva da eredità anticipata. CAPITOLO 2: L’ECONOMIA DELL’EUROPA PREINDUSTRIALE 1. L’agricoltura: risposta estensiva e risposta intensiva i secoli che seguono l’anno Mille furono caratterizzati da una serie di innovazioni in campo agricolo: l’aratro pesante, la ferratura degli zoccoli, la larga diffusione della rotazione triennale. Tutto ciò aveva consentito di estendere le colture anche a terreni umidi e argillosi prima incolti. Nel periodo compreso tra il 1450 e il 1750 non si verificarono grandi innovazioni nell’organizzazione produttiva delle campagne europee. La domanda di derrate alimentari, tuttavia, aumentò. Teoricamente erano possibili due tipi di risposte: la risposta “estensiva”, cioè l’allargamento della superficie coltivata, e la risposta “intensiva”, consistente nell’adozione di tecniche atte ad accrescere la produttività. Nel Cinquecento fu di gran lunga prevalente la prima soluzione. Spesso però questi nuovi terreni non erano di prima qualità. Inoltre, l’estensione della superficie coltivata portò ad una contrazione delle aree adibite al pascolo, e quindi ad una maggiore scarsità di concime. Anche l’andamento del clima sembra aver influito negativamente sui raccolti, giacché verso la metà del Quattrocento si aprì quella fase di diminuzione delle temperature medie nota come “piccola glaciazione”. Non sorprende che i rendimenti dei cereali ristagnassero o addirittura diminuissero. Nella maggior parte d’Europa il rapporto tra raccolto e semente per i cereali panificabili oscillava tra 3:1 e 5:1. La fertilità dei campi è in funzione di due fattori: della disponibilità di acqua e del concime. Le piante foraggere oltre a restituire alla terra l’azoto sottrattole dalle colture cerealicole rendono possibile il mantenimento all’interno delle aziende di abbondante bestiame bovino, che da un lato aumenta una fiorente industria casearia, dall’altro, con il proprio letame, garantisce un ulteriore apporto di fertilità al suolo. La stretta associazione di agricoltura e allevamento e l’adozione di sofisticate rotazioni, che eliminano la necessità del riposo periodico dei terreni, sono l’essenza della cosiddetta rivoluzione agricola. 2. Il regime fondiario dell’Europa centro-occidentale I secoli del basso Medioevo videro in gran parte dell’Europa non solo la disgregazione della feudalità come sistema di governo, ma anche l’erosione dei poteri signorili nelle campagne. La feudalità non scomparve nel corso di tutta l’età moderna, pur conoscendo una diversa ampiezza e consistenza a seconda del grado di sviluppo economico delle varie zone. Rimaneva l’obbligo, per i proprietari di terre comprese nel feudo, di pagare al signore un censo annuo; localmente, al censo si aggiungeva una quota parte del raccolto, una sorte di decima feudale. Altri diritti spettavano al signore in occasione della vendita o della trasmissione ereditaria di beni fondiari. Alle prestazioni dovute per legge o per tradizione si aggiungevano gli “abusi” feudali. Le corvées erano limitate a poche giornate l’anno per La visione dominante della società in Europa era corporativa e gerarchica. L’individuo non contava per sé, contava in quanto membro di un “corpo”. Vi erano numerose societates particolari di cui si componeva la società. A questi corpi e comunità si riferivano le “libertà”. A caratterizzare l’intera storia dell’età moderna è una consistente dialettica tra poteri. Tra questi schemi, uno dei più antichi e radicati era quello che concepiva la società come divisa in tre grandi ordini: gli oratores, i bellatores e i laboratores. All’interno del Terzo Stato vi erano molteplici divisioni e suddivisioni. Il termine più idoneo a distinguere questi gruppi è “ceto”. L’essenziale era che questi diversi ceti si disponessero in una scala gerarchica ben ordinata, dalla base al vertice della società. Loyseau giustificava queste disuguaglianze con l’idea di una gerarchia naturale tra tutte le creature. La società dell’Europa pre- industriale era tutt’altro che statica, e la sua stratificazione sociale non si presta facilmente né a una lettura dicotomica né a una interpretazione organicistica come quella che tendevano a divulgare molti scrittori coevi. 2. Nobili e “civili” Clero e nobiltà erano i due ceti più chiaramente definiti dal punto di vista giuridico. Ciascuno dei due comprendeva al suo interno una vasta gamma di sottogruppi differenziati per ricchezza, prestigio e potere. Dovunque nobiltà significa in primo luogo ricchezza. Una ricchezza basata fondamentalmente sulla proprietà della terra, alla quale si associano in misura variabile anche funzioni di giustizia e polizia e un potere esercitato sugli uomini all’interno della signoria. Nell’età moderna si crea una netta differenziazione tra l’Europa centro-occidentale e l’Europa orientale. Sia a est che a ovest, tuttavia, i proventi della terra sono spesso integrati da entrate di altra natura. Per tutelare i patrimoni dall’eventualità di un erede scialacquatore si diffondono nell’età moderna i meccanismi giuridici come il fedecommesso e la primogenitura. La figura del nobile povero è più frequente là dove la nobiltà è più numerosa (polonia, Ungheria, Spagna). In Polonia era normale che i nobili poveri andassero al servizio nelle case dei magnati. Nel resto dell’Europa la nobiltà restava al di sotto o poco al di sopra dell’1% della popolazione. In Inghilterra la nobiltà titolata contava ancora nel XVIII secolo appena duecento persone, mentre 25-30.000 erano gli appartenenti alla gentry. Altrove taluni privilegi di carattere onorifico erano comuni a tutti coloro che erano riconosciuti nobili, e proprio questo elemento acuiva il desiderio in chi ammassava molto denaro di entrare a far parte dell’elite sociale. La nobiltà comprendeva dovunque diversi livelli di ricchezza e prestigio. Alla collocazione prevalente rurale dei ceti nobiliari, delle aree dove più forte era l’impronta feudale, si contrapponeva infine la spiccata fisionomia cittadina dei patriziati propri dell’Italia settentrionale, dei Paesi Bassi, della Svizzera e della Germania occidentale. Ugualmente vario era il rapporto tra i ceti nobiliari e il potere politico. Il rafforzamento degli apparati statali tra la fine del XV secolo e gli inizi del XVII secolo fu in parecchi casi all’origine di una sorta di crisi d’identità dei ceti nobiliari. A questa sensazione di insicurezza e di frustrazione sono da ricondurre quell’ossessiva ricerca di una legittimazione del primato nobiliare e quello slittamento della virtù e del valore militare, come motivi fondanti della nobiltà, al sangue e alla stirpe. Da un lato l’estinzione di molte antiche casate, dall’altro la continua immissioni di nuove famiglie fecero sì che, nella Francia del Settecento, solo una piccola minoranza dei nobili potesse vantare un blasone risalente più indietro del XVI secolo. Come si diventa nobili? I patriziati dell’Italia centro-settentrionale avevano elaborato un sistema di cooptazione basato sull’antica residenza in città, sulla ricchezza e sull’astensione per più generazione dalle “arti meccaniche” e dai “lucri sordidi”. Altrove si affermò il principio che era nobile solo chi era riconosciuto come tale dal monarca. Tra Sei e Settecento le aristocrazie europee, non più minacciate nel loro primato economico-sociale e ormai pronte a integrarsi nelle strutture dello Stato monarchico e a trarne i maggiori benefici, rinsanguate e ringiovanite con l’assorbimento di elementi borghesi e in alcuni casi con massicci trasferimenti di beni e di titoli, vivono una loro età dell’oro, offrono alle altre classi lo spettacolo invidiato di un’eleganza e di uno stile destinati a durare come modelli sociali ben oltre la fine dell’Ancien Regime. Solo la diffusione degli ideali razionalistici e ugualitari dell’Illuminismo maturo comincerà a scuoterne il predominio. Il termine “borghesia” non è il più idoneo per designare i ceti intermedi tra nobiltà e plebe nell’Europa pre-industriale, perché esso sembra postulare una coscienza di classe. Anche i più ricchi mercanti, banchieri, imprenditori aspiravano a uscire dalla propria condizione, a vivere di rendita e non più solo di profitto. Un denominatore comune di queste categorie sociale è senza dubbio la dominante connotazione urbana, per questo vengono indicati con i termini di “ceto civile” o “cittadinesco”. Questo ceto godeva di un riconoscimento giuridico, ma dovunque esso era ben distinto nella considerazione generale dagli strati inferiori da due tratti: il rifiuto del lavoro manuale e il possesso di risorse. 3. Poveri e marginali Per l’analisi degli strati inferiori della società, può essere utile seguire la distinzione tra povertà “strutturale” e povertà “congiunturale”. I poveri “strutturali” sono dipendenti del tutto, o almeno in parte, da forme di elemosina per la loro sopravvivenza. I poveri “congiunturali” erano soggetti a cadere nell’indigenza qualora fossero colpiti da un’infermità, dalla disoccupazione, dalla vecchiaia o da catastrofi naturali. Mentre nel Medioevo il povero era circondato da un’aura sacrale, nell’età moderna è percepito come una minaccia all’ordine costituito e alla salute pubblica. Questa evoluzione è in parte da ricondurre al più generale mutamento di valori e di prospettive proprio dell’età del Rinascimento e della Riforma protestante, alla laicizzazione della società, alla condanna dell’ozio e all’accento posto sulla vita attiva. Prima le città, poi addirittura gli Stati prendono provvedimenti di crescente severità che comprendono l’espulsione dei poveri forestieri, il divieto dell’accattonaggio e l’obbligo del lavoro per i poveri validi, l’utopia della “grande reclusione” dei poveri continuò anche nel Settecento. Né le misure repressive, né le iniziative assistenziali riuscirono a venire a capo di un problema di tali dimensioni. A ingrossare le schiere degli indigenti e degli accattoni erano in realtà i processi di proletarizzazione che tra il XVI e il XVIII secolo furono quasi costantemente all’opera così nelle campagne come nelle città. 4. La condizione femminile La donna è stata a lungo identificata con la condizione con le funzioni di sposa e di madre, al punto da sacrificare ogni altra aspirazione e potenzialità e da metterne perfino in dubbio il possesso di un’anima. La loro inferiorità e subalternità rispetto all’altro sesso era argomentata da teologi, medici e scienziati in base a molti passi biblici, alla debolezza e imperfezione del loro organismo e alla fragilità della loro psicologia. Il modello supremo e ineguagliabile era la Madonna. Tale condizione di inferiorità era sancita dal diritto vigente, che considerava le donne come dei minori. Il loro tempo era in gran parte assorbito dai lavori domestici. Nelle attività protoindustriali la manodopera femminile era largamente presente e spesso predominante. Nella vita pubblica e nelle attività culturali e artistiche si incontrano personalità femminili dotate di particolari talenti. Alcune sovrane misero in luce notevoli capacità di governo (Elisabetta I d’Inghilterra, Caterina II, Maria Teresa). Altre donne, pur senza titolo regio, esercitarono una grande influenza politica nei loro Paesi (Caterina de’ Medici, Maria de’ Medici). Condizioni meno favorevoli al protagonismo femminile si crearono con la Controriforma: per l’Italia e per la Spagna si parlò addirittura di una “grande segregazione”. In Francia fin dalla seconda metà del secolo XVII si inaugurò la moda dei salons, salotti tenuti da dame di alta condizione che riunivano attorno a sé letterati e uomini politici. A partire dagli strati superiori della società, si assiste nel secolo XVIII a un graduale miglioramento delle condizioni di vita delle donne. CAPITOLO 4: LE FORME DI ORGANIZZAZIONE DEL POTERE 1. Stato e Stato moderno: problemi di definizione L’esercizio del potere inteso come facoltà di impartire ordini e di imporne l’esecuzione preesiste ai moderni organismi politici. La novità, nell’Europa tra XIII e XIX secolo, sarebbe rappresentata dalla progressiva affermazione di un potere che si proclama superiore a tutti gli altri, il potere dello Stato. Fin dal XV e XVI secolo il monarca si emancipa e al tempo stesso si impone all’interno come suprema istanza nei confronti degli individui e dei corpi che rientrano nella sua sfera di influenza. I giuristi tedeschi posthegeliani elaborarono un’autorevole definizione dello Stato moderno che comprende “1) un territorio, come esclusivo ambito di dominio; 2) un popolo, come stabile unione di persone legate da un solido sentimento di appartenenza; 3) un potere sovrano che a) all’interno significa monopolio legittimo della forza fisica, b) all’esterno significa indipendenza giuridica da altre istanze”. Gran parte della storiografia recente ha polemizzato contro una visione totalizzante della Stato “come nucleo di sovranità piena”, e alle istituzioni statali ha contrapposto la persistenza di poteri diffusi nella società che di quelle sono in grado di contrastare o condizionare dall’interno il funzionamento. “Potestà assoluta” non significa potestà illimitata. Un primo limite è costituito dal dovere del sovrano di rispettare la legge divina, e quindi le leggi naturali che ne sono emanazione. La seconda limitazione deriva dall’esistenza di “leggi fondamentali” del regno. Standestaat, o Stato per ceti, è il termine solitamente impiegato per definire quelle formazioni politiche in cui all’autorità del principe si contrappongono assemblee dette variamente Diete, Stati generali, Cortes, Parlamenti, …, composte per lo più di tre camere rappresentati il clero, la nobiltà e le città, ma talvolta di due oppure di quattro. Solo in Inghilterra e in Svezia i Parlamenti riuscirono a trasformarsi tra il XVII e il XIX secolo da istanza cetuali in vere rappresentazioni nazionali. Anche dove non esistevano Parlamenti non si può parlare di un rapporto diretto tra principe e sudditi, ma di un rapporto mediato da corpi, tra i quali un peso dominante lo hanno le città. Molte sono le formule che sono state proposte, come Stato rinascimentale, Stato d’Antico Regime, Stato o monarchia giurisdizionale. Maggiore cautela si impone anche nel ricorso ai termini di “monarchia assoluta” e “assolutismo”. È lecito parlare di “Stati nazionali. Ma in Francia o in Inghilterra lo Stato precede storicamente la nazione. Se in Gran Bretagna un processo di affermazione di una coscienza nazionale può dirsi già avviato nel XVIII secolo, sul continente europeo saranno in sostanza la Rivoluzione francese e il movimento romantico a porre all’ordine del giorno la costruzione degli Stati nazionali. 2. L’evoluzione dei criteri di legittimazione: dalla monarchia di diritto divino allo Stato di diritto Rimase in auge almeno fino al XVIII secolo l’idea di un’origine provvidenziale dell’autorità politica. Una precoce affermazione dell’assolutismo monarchico fu opera della Chiesa di Roma. La simbiosi tra autorità religiosa e potere secolare rimase salda anche dopo la Riforma protestante, anzi si trasformò in una vera e propria subordinazione della Chiesa allo Stato nei principati tedeschi e nei regimi scandinavi. La laicizzazione machiavelliana della politica non poteva trovare accoglienza favorevole in un’Europa trasformata in campo di battaglia tra fedi contrapposte. Fu solo nel XVII secolo che i fondamenti religiosi della sovranità cominciarono a vacillare, ad opera soprattutto degli sviluppi della dottrina contrattualista, poggiante a sua volta sul postulato dell’esistenza di un diritto di natura universale. Il passaggio dall’originario “stato di natura” alla vita associata, in cui gli uomini si riconoscono reciprocamente diritti e doveri, deve essere avvenuto sulla base di un patto comune, e la stessa origine contrattuale deve avere la delega dei poteri a un monarca. In base a queste premesse era possibile giustificare sia l’autorità assoluta del monarca, sia postulare l’esistenza di limiti e vincoli alla sua volontà: Thomas Hobbes. Baruch Spinoza interpretava la concessione del monopolio della forza al monarca come una garanzia per il godimento della tranquillità e della libertà di coscienza. John Locke sosteneva che la tutela dei diritti fondamentali deve essere l’obiettivo principale del contratto che i sudditi stipulano con il sovrano. Per Jean-Jacques Rousseau, Montesquieu e Voltaire, la concentrazione di tutti i poteri in un monarca saggio e illuminato si giustificava con l’esigenza di combattere i particolarismi e i privilegi dei territori e dei ceti. 3. Funzioni e articolazioni del potere statale Ai governi erano riconosciuti il diritto-dovere della difesa del territorio e quello del mantenimento dell’ordine e della pace al suo interno. Il luogo dove la potenza del re si rende più manifesta è la corte. Una delle funzioni principali di questo apparato era raccogliere intorno alla persona del re la nobiltà più ricca e prestigiosa, separandola così dai propri territori e garantendone la fedeltà attraverso una distribuzione di favori accuratamente graduata. Ma la corte è anche il centro di elaborazione di una raffinata cultura artistica e letteraria. Uno dei maggiori problemi per i regnanti e per i loro 1. La rivoluzione culturale: Illuminismo, Romanticismo, idealismo A partire dalla metà del secolo XVIII questo insieme di tratti permanenti o in lenta evoluzione, cui i rivoluzionari francesi daranno il nome di Ancien Regime, cominciò a essere oggetto di una contestazione radicale. In realtà le basi della “civiltà dei Lumi” erano già state gettate nel XVII secolo, con la rivoluzione scientifica e filosofica. Ma si trattava allora di posizioni solate. Fu solo quando queste idee vennero fatte proprie da un numero crescente di scrittori e giornalisti e divulgati con strumenti come l’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, che poté sorgere un vero e proprio movimento d’opinione ispirato al culto della ragione e della libertà di critica. Dalla Francia questi orientamenti si diffusero rapidamente negli altri Paesi europei. L’Aufklarung tedesca è largamente influenzata dal giusnaturalismo e dal cameralismo, e l’Illuminismo italiano guarda più alle riforme concrete da attuare in campo giudiziario, economico, scolastico. La maggior parte degli studiosi sembra oggi non condividere lo scetticismo di quanti negano che si possa parlare di un carattere unitario dell’Illuminismo. Fin dagli ultimi decenni del Settecento alle idee dell’Illuminismo maturo vennero intrecciandosi, soprattutto nella cultura tedesca e inglese, orientamenti che esaltavano il sentimento e la fantasia sopra la fredda ragione, l’amore di patria e la nazione contro il cosmopolitismo. Uomini come Joseph de Maistre condannavano la Costituzione del 1791 in nome della continuità con il passato. Il Romanticismo non fu tuttavia un movimento solo conservatore o reazionario, anzi soprattutto nell’Europa occidentale si caratterizzò per l’opposizione al cesarismo napoleonico e per l’adozione delle idee politiche liberali. In campo filosofico la svolta parallela tra Illuminismo e idealismo fu soprattutto annunciata dal pensiero del tedesco Immanuel Kant. Le premesse kantiane furono svolte da Hegel. Lo sviluppo dell’economia e i progressi della scienza e della tecnica rimasero invece il principale punto di riferimento per molti intellettuali di altri Paesi (Ricardo, Bentham, Stuart Mill, Comte). 2. L’industrializzazione e la “questione sociale” Gli anni intorno al 1780 segnarono il decollo vero e proprio dell’industrializzazione in Gran Bretagna con la quale sono in un rapporto di causa/effetto una serie di altre trasformazioni più settoriali: rivoluzione demografica, rivoluzione agricola, rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni. La precocità della crescita industriale inglese rispetto a quella degli altri Paesi europei si spiega agevolmente con una serie di vantaggi. La Gran Bretagna era diventata l’”officina del mondo” e aveva aperto la strada lungo la quale le altre maggiori nazioni si sarebbero necessariamente inoltrate. L’importanza crescente dell’industria, del commercio interno e internazionale, della finanza e del credito si rifletterono nell’ascesa di una nuova classe dominante formata da imprenditori, banchieri e detentori di capitali. Più controversi sono gli effetti sul tenore di vita delle masse lavoratrici, dato che agli aumenti registrati nelle entrate complessive delle famiglie si contrapponeva un peggioramento netto delle condizioni abitative e ambientali. Questi mali stimolarono da un lato gli sforzi di autoorganizzazione e di autodifesa da parte degli stessi operai, che sperimentarono varie forme di resistenza come, in Inghilterra, il luddismo e più tardi il cartismo, il boicottaggio e lo sciopero; dall’altro lato stimolarono il sorgere di un pensiero socialista. I decenni centrali del secolo videro il sorgere delle prime associazioni di mutuo soccorso e dei sindacati moderni, e l’avvio di una legislazione intesa a regolamentare le condizioni di lavoro e a combattere le peggiori forme di sfruttamento. 3. L’età delle rivoluzioni e le trasformazioni del quadro politico e giuridico Non meno profondo furono le trasformazioni del quadro politico e istituzionale determinate oltre oceano dalla guerra d’Indipendenza americana (1775-1783), in Francia e poi in gran parte dell’Europa continentale dalla grande Rivoluzione iniziata nel 1789. Questa costituì l’atto di nascita di una nuova forma di Stato, che molto più delle monarchie dei secoli XVI-XVIII merita il nome di Stato moderno. Le nuove strutture politiche, amministrative e giudiziarie per effetto delle vittorie della Convenzione, del Direttorio e poi delle armate di Napoleone Bonaparte si estesero ben presto ai Paesi Bassi, all’Italia peninsulare e alla Germania centro-occidentale. La modernizzazione delle istituzioni e degli ordinamenti sopravvisse in larga misura al crollo della dominazione napoleonica e rimase per i territori che l’avevano sperimentata un’acquisizione duratura. Questa evoluzione fu anche il frutto di una reazione contro la ferrea disciplina imposta da Napoleone e dai suoi rappresentati e collaboratori. È significativo che il tema della Costituzione diventasse nella tarda età napoleonica un’arma di propaganda ideologica non più dei governi rivoluzionari, ma degli avversari della Francia e in particolare degli agenti inglesi. Il Congresso riunito a Vienna nel 1814-15 per dare un nuovo assetto all’Europa sconvolta dall’avventura napoleonica adottò in linea generale il principio di legittimità, che comportava la restaurazione dei governi prerivoluzionari. Le sue disposizioni non tennero in alcun conto le nascenti aspirazioni alla libertà e all’indipendenza dei popoli europei, creando così le condizioni per i moti rivoluzionari che esplosero in diverse aree del continente tra il 1820-21 e il 1848-49. 4. Il mondo extraeuropeo: un avvio di globalizzazione? Fino alla metà del XVIII secolo non si può parlare di una supremazia dell’Europa sugli altri continenti. La bilancia commerciale tra l’Europa e le grandi civiltà asiatiche era nettamente favorevole alle seconde. La moda dell’orientalismo si estendeva anche alle strutture politiche e sociali. L’esotismo tipico del secolo dei Lumi gettò una luce nuova anche sulle altre parti del mondo, rivalutate sia sotto il profilo naturalistico e paesaggistico, sia anche nelle loro componenti umano (mito del buon selvaggio). I principali indicatori economici, quali la densità di popolazione, la produzione agricola e protoindustriale, la penetrazione dell’economia monetaria, i livelli di consumo e la speranza di vita fino alla metà del Settecento non dimostrino affatto una superiorità delle aree europee più sviluppate rispetto alle aree più progredite dall’Asia, e come il divario tra le prime e le seconde si creò e si accrebbe invece nel secolo successivo. L’ascesa del capitalismo industriale in Europa fu dovuta a fattori contingenti. La combinazione di tali fattori avrebbe permesso il superamento di quei freni malthusiani che invece produssero un’involuzione dei Paesi asiatici; questi, infatti, nei decenni successivi registrarono un incremento demografico eccedente le soglie di sostenibilità in relazione alle risorse disponibili. Viene così smentita anche una radicata visione dell’eccezionalismo europeo. Su questo sfondo vanno collocati il crescente vantaggio acquisito nel secolo XIX dall’Occidente europeo e nordamericano sul resto del mondo, la crescita del colonialismo e dello sfruttamento economico soprattutto britannico e francese e danno delle nuove nazioni sudamericane e dei Paesi africani e asiatici non più in grado di competere con l’Europa. Ma i rapporti tra l’Europa e gli altri continenti nel corso del secolo XIX non si possono ridurre allo sfruttamento coloniale. Gli Stati Uniti assunsero a modello di libertà repubblicana e di democrazia politica, e furono ben presto in grado di competere con le maggiori nazioni europee per la supremazia economica. Gli scambi di prodotti e di materie prima, di pratiche sociali e di stili di vita tra i diversi continenti divennero sempre più frequenti nel corso del secolo XIX. Parte seconda: Gli avvenimenti e i problemi CAPITOLO 7: MONARCHIE E IMPERI TRA XV E XVI SECOLO 1. I Regni di Francia, Spagna, Inghilterra e l’Impero germanico FRANCIA. Sotto Carlo VIII (1483-98) e i suoi successori Luigi XII (1498-1515) e Francesco I (1515-47) continuò nella monarchia francese la tendenza all’accentramento del potere nelle mani del re e dei collaboratori da lui scelti. Si rafforzò l’amministrazione finanziaria, imperniata sull’esazione della taglia e sulla suddivisione del Paese in circoscrizione fiscali dette generalites; gli Stati generali si riunirono con sempre minor frequenza; si affermarono in ambito giudiziario l’azione del Gran Consiglio e quella dei Parlamenti. Questi funzionari e magistrati regi vennero reclutati in misura crescente attraverso il meccanismo della vendita delle cariche pubbliche (nobiltà di toga vs. nobiltà di spada). Nei confronti del papato furono fatti valere i privilegi della Chiesa gallicana già sanciti dalla Prammatica sanzione del 1438. Nel 1516 Francesco I stipulò con papa Leone X un concordato a Bologna: veniva lasciata cadere l’affermazione della superiorità del Concilio sul pontefice, ma in cambio il re di Francia si vedeva riconoscere il diritto di nomina a tutti i vescovi e gli arcivescovi, alle abbazie e ai priorati nel proprio territorio. I grandi feudatari mantenevano un considerevole potere locale. Le province di recente annessione, dette Pays d’états, avevano le loro assemblee di “stati” che contrattavano direttamente con la corona. SPAGNA. Il matrimonio di Isabella di Castiglia con Ferdinando d’Aragona (1469) preparò il regno congiunto dei due sovrani. L’anarchia feudale e il banditismo vennero efficacemente repressi con la riorganizzazione della Santa Hermandad. L’amministrazione delle città venne posta sotto tutela con la nomina di funzionari regi detti corregidores . Le Cortes vennero convocate di rado e progressivamente essere videro la partecipazione delle sole rappresentanze del Terzo Stato. La sottomissione della nobiltà fu agevolata dalla politica di concessione e di favori fatta da Ferdinando. Sul piano economico la corporazione degli allevatori di pecore, la Mesta, controllata dalla grande aristocrazia, godette della protezione regia. Nel Consiglio reale furono nominati soprattutto giuristi di origine borghese (letrados). Le tre province componenti del Regno di Aragona mantennero inalterati i propri privilegi e le proprie autonomie. In Aragona venne nominato un viceré, e nel 1494 venne istituito anche un Consiglio d’Aragona. Il principale elemento in comune tra i due regni era la tradizione della Reconquista, la guerra contro i mori. La tradizione spagnola di militante sostegno alla fede cattolica fu confermata nel 1492 con la conquista del Regno di Granada e con l’espulsione degli ebrei; poco dopo anche i mori che rifiutavano la conversione al cristianesimo furono costretti a emigrare. La morte di Isabella aprì in Castiglia una crisi dinastica: il trono sarebbe dovuto andare alla figlia dei “re cattolici”, Giovanna che aveva sposato Filippo d’Asburgo. Ma la precoce scomparsa di quest’ultimo e la conseguente pazzia di Giovanna permisero a Ferdinando di restare al potere. È da ricordare l’annessione del Regno pirenaico di Navarra (1512). INGHILTERRA. Enrico VII Tudor, uscito vincitore dalla guerra delle Due Rose tra York e Lancaster (1455-85), consolidò gradualmente il proprio potere stroncando varie congiure e ribellione nobiliari, amministrando oculatamente le finanze e rafforzando gli organi centrali del governo regio: il Consiglio della corona, i Consigli del nord e del Galles, il Tribunale della camera stellata. Il Parlamento fu convocato sempre più raramente. Questo indirizzo assolutistico venne proseguito dal figlio e successore Enrico VIII (1509-47). Nel suo primo ventennio di regno questi pose in primo piano la politica estera, lasciando l’amministrazione interna nelle mani del suo cancelliere, il cardinale Thomas Wolsey. Il distacco da Roma della Chiesa d’Inghilterra e l’Atto di supremazia del 1534 coincideranno con un rafforzamento ulteriore delle strutture di governo, ma anche con una riaffermazione del ruolo del Parlamento quale interprete della volontà del regno. IMPERO GERMANICO. Alla morte di Federico III d’Asburgo (1493), l’Impero rimaneva un coacervo ingovernabile. A complicare la situazione si aggiungeva la duplice qualità del sovrano, che reggeva a titolo ereditario gli Stati della casa d’Asburgo, mentre doveva la dignità imperiale alla designazione della Dieta ristretta, composta dai sette grandi elettori. A questo nucleo ristretto si contrapponeva la Dieta allargata a tutti gli “ordini” dell’impero. Il regno di Massimiliano I (1493-1519) si aprì con un notevole successo diplomatico: la pace di Senlis con la Francia riconosceva infatti agli Asburgo il possesso dei Paesi Bassi, dell’Artois e della Franca Contea. Il tentativo compiuto alla Dieta imperiale di Worms (1495) di dare maggiore compattezza all’Impero germanico e di estrarne regolari risorse finanziare ebbe un successo molto parziale. Il compromesso raggiunto prevedeva la creazione di un tribunale imperiale e di un consiglio composti di 17 membri; il versamento all’imperato di un “soldo comune” sarebbe stato subordinato all’approvazione annuale della Dieta. La volontà di Massimiliano di opporsi alle mire italiane dei re di Francia rimase puramente velleitaria, e il suo tentativo di ridurre all’obbedienza i cantoni elvetici naufragò nel 1499 con la disfatta di Dornach. 2. Guerre ed eserciti tra Medioevo ed età moderna: una rivoluzione militare Borgogna. Già nel maggio 1526 era stipulata a Cognac una lega difensiva tra la Francia, il nuovo papa Clemente VII, Firenze e la Repubblica di Venezia; intanto i turchi, alleati di Francesco I, avanzavano in Ungheria. I francesi, però, tardarono ad intervenire in Italia, e nei primi mese del 1527 circa 12.000 lanzichenecchi al servizio di Carlo V discesero la penisola senza incontrare resistenza (sacco di Roma). I fiorentini approfittarono della disgrazia del pontefice per sollevarsi contro la signoria dei Medici e ristabilire un governo repubblicano. Né le cose andarono meglio per la Lega l’anno seguente, quando un esercito francese mosse contro Napoli, occupando al passaggio Genova: qui l’armatore Andrea Doria passò con le sue galere dalla parte dell’imperatore e impose ai suoi concittadini una riforma costituzionale in senso oligarchico. L’esercito francese dovette ritirarsi dal Mezzogiorno senza aver nulla concluso. Nel giugno 1529 Carlo V firmò con il pontefice la pace di Barcellona e un mese dopo, a Cambrai, si riconciliò anche con Francesco I. L’inverno successivo avvenne l’incontro di Carlo V e di Clemente VII a Bologna. A Milano fu insediato Francesco II Sforza, col patto che alla sua morte il Ducato sarebbe stato riunito ai domini imperiali; Carlo V venne incoronato imperatore in San Petronio. In cambio Clemente VII ebbe l’appoggio delle armi imperiali per riportare i Medici a Firenze (lui era un Medici). Delle difficoltà dell’imperatore cercò di approfittare il suo avversario Francesco I per riaccendere la guerra in Italia e nei Paesi Bassi; una prima volta nel 1535-37, una seconda volta nel 1542-44. Ma in entrambi i casi le ostilità ebbero termine con la riconferma della situazione esistente. 6. L’espansione della potenza ottomana L’impero ottomano prese il nome dalla dinastia degli Ottomani, fondata al principio del XIV secolo da Osman I. Il territorio di questo impero si ampliò sotto i successori; finché nel 1453 la stessa Costantinopoli cadde in potere di Maometto II, che ne fece la capitale, ribattezzata Istanbul, dell’Impero ottomano. L’espansione ottomana venne contrastata fin dagli inizi del XVI secolo dalla ricostituzione dell’impero persiano a opera della dinastia safawide, che aveva abbracciato la fede sciita. Preoccupato da questi successi, il sultano ottomano Selim I fece massacrare a migliaia i propri sudditi sciiti e mosse contro Ismail con un grande esercito; a Cialdiran (1514) riportò una schiacciante vittoria, che gli fruttò l’annessione dell’Armenia e del Curdistan. Selim I rivolse la sua attenzione al Mediterraneo e nel giro di due anni (1516- 17) sottomise la Siria e l’Egitto. Il sultano di Costantinopoli diveniva così il capo riconosciuto di tutto l’Islam sunnita. L’avanzata dei turchi nei Balcani riprese nel 1526, quando un potente esercito agli ordini di Solimano il Magnifico risalì il corso del Danubio, penetrando in profondità nel territorio ungherese. Entrato a Buda il 10 settembre, Solimano decise di fare dell’Ungheria uno Stato vassallo, sotto la sovranità del principe di Transilvania Giovanni Szapolyai. Ma la successione era rivendicata dall’arciduca Ferdinando. Nel conflitto che seguì, i turchi giunsero fin sotto le mura di Vienna (1529). Ma i ducati austriaci erano troppo lontani dalle basi ottomane: il fallimento di una nuova offensiva, lanciata nel 1532, convinse Solimano a concludere la pace con Ferdinando. Non meno grave appariva la minaccia turca nel Mediterraneo, teatro delle audaci scorrerie dei pirati barbareschi e in particolare di Barbarossa. Quando anche Tunisi cadde nelle mani di quest’ultimo (1534), Carlo V guidò una spedizione che portò alla sua riconquista. Già negli anni successivi l’iniziativa nelle acque del Mediterraneo fu ripresa dagli ottomani, che nel 1538 sconfissero a Preversa le flotte riunite di Spagna e Venezia. Solimano il Magnifico estese ancora i propri domini a sud fino allo Yemen e ad Aden. La pacifica convivenza di razze e di religioni diverse era una caratteristica della civiltà islamica. Accanto ai giannizzeri (cristiani combattenti) e auna progredita artiglieria, un altro elemento costitutivo del formidabile esercito ottomano erano i sipahi, cavalieri che in cambio del servizio militare ricevevano concessioni di terre. Nell’Impero ottomano tutta la terra, tranne quella adibita al servizio religioso, era in linea di principio di proprietà del sultano, che esercitava un’autorità assoluta e dispotica sugli uomini e le cose. Gli aspetti arbitrari e dispotici del sistema di governo ottomano non incidevano però sulla vita della massa dei sudditi, le cui condizioni erano per certi aspetti migliori di quelle dei loro omologhi europei. CAPITOLO 8: I NUOVI ORIZZONTI GEOGRAFICI 1. Le conoscenze geografiche alla fine del Medioevo: l’Africa nera Alla fine del Medioevo i rapporti diretti degli europei con gli altri continenti erano sostanzialmente limitati agli scambi economici e culturali tra le varie sponde del Mediterraneo. I viaggi verso oriente, tra il XII e il XIV secolo, si erano fatti molto più difficili dopo l’avvento della dinastia Ming in Cina e con l’espansione della potenza ottomana nel Mediterraneo orientale e nei Balcani. Le nozioni geografiche del primo Rinascimento erano, per quanto riguardava gli altri continenti, assai vaghe e imprecise: il continente africano era creduto molto più corto di quanto non sia in realtà; il blocco formato dai tre continenti noti era collocato tutto nell’emisfero settentrionale e dell’esistenza delle Americhe o dell’Oceania non si aveva alcuna idea. Nell’Africa nera la popolazione era molto irregolarmente distribuita tra zone a notevole densità e aree quasi disabitate. Assai vario era anche lo sviluppo dell’economia: se molte popolazioni del centro-sud vivevano ancora di caccia e raccolta dei frutti, altrove erano praticati non solo l’allevamento e l’agricoltura, ma la produzione di tessuti, di ceramiche, di utensili di legno e di metallo. La penetrazione araba aveva portato con sé l’espansione dei traffici. A tale processo appare legata la fioritura, tra il XIV e il XVI secolo, di formazioni statali complesse quali il Mali, il Songhai, il Kanem-Borno, oltre all’Impero etiopico. Un eccezionale sviluppo dell’artigianato e delle arti figurative caratterizzava il Regno del Benin. Più a sud grande importanza avevano il Regno del Congo e i regni bantu dello Zimbabwe e del Monomotapa. Lungo tutta la costa orientale si era sviluppata una serie di città-stato di impronta araba, la cui prosperità era legata ai traffici con tutti i Paesi dell’Asia meridionale. 2. Le civiltà precolombiane in America Nel continente americano le civiltà più evolute si svilupparono negli altopiani dell’America centrale e lungo la catena delle Ande nell’America meridionale. Era praticata un’agricoltura sedentaria. Varie erano le attività artigianali, benché fosse sconosciuto l’uso del ferro e della ruota. Caratteristica delle civiltà centro- americane e andine era poi l’imponenza delle opere pubbliche, destinate sia fini di comunità utilità sia a scopi cerimoniali e di culto. Quando gli spagnoli giunsero in America, era ormai da tempo in declino la grande civiltà maya. Ma la sua eredità spirituale era stata raccolta da nuove popolazioni guerriere provenienti da nord: prima i toltechi, poi i mexica (aztechi) che fondarono la loro capitale a Mexico- Tenochtitlan. Tra il XV e gli inizi del XVI secolo gli aztechi estesero il proprio potere da un oceano all’altro e da nord a sud, fino alle propaggini occidentali dello Yucatan. Per loro la guerra era necessaria soprattutto per catturare prigionieri, sacrificati agli dei nel corso di grandi cerimonie pubbliche. La religione degli aztechi era imperniata sull’idea della precarietà dell’ordine cosmico, continuamente minacciata da catastrofi naturali e dalla collera delle divinità. La religione permeava in tutti i suoi aspetti la vita degli aztechi e giustificava un ordine sociale caratterizzato da rigide divisioni di ceto. Anche l’impero inca era rigidamente stratificato: al suo vertice era l’inca, il sovrano, circondato da un0aristocrazia composta sia dall’originaria nobiltà inca, sua dai figli dei capi delle tribù sottomesse; alla sua base era l’ ayllu, la comunità contadina. Accanto alla divinità solare, gli incas adoravano Viracocha, il creatore del mondo, di cui attendevano il ritorno e con cui identificheranno gli spagnoli di Pizarro. L’impero inca era riuscito a darsi una salda organizzazione statale grazia anche all’invio di governatori in goni provincia e alla deportazione delle popolazioni più indocili. 3. I viaggi di esplorazione e di scoperta Il primo Paese a intraprendere, nel XV secolo, l’esplorazione dei nuovi mondi fu il Portogallo. Agli impulsi del principe Enrico il Navigatore, oltreché all’abilità e all’esperienza dei marinari portoghesi, si dovettero i perfezionamenti che fecero della caravella lo strumento ideale per la navigazione oceanica. Ai progressi compiuti nella costruzione delle navi e nella tecnica della navigazione, mediante l’uso della bussola e di strumenti per misurare la latitudine, doveva però aggiungersi l’esperienza di capitani e marinai nel calcolare le distanze percorse e nello sfruttare il regime dei venti. L’espansione marittima portoghese ebbe inizio con la presa di Ceuta nel 1415, e proseguì nel XV secolo con l’occupazione dell’isola di Madera e delle Azzorre, la scoperta delle isole di Capo Verde e del Golfo di Guinea. Fin dagli anni Quarata le loro caravelle cominciarono a tornare in patria cariche di schiavi neri, e più tardi anche di oro. Il re del Portogallo Giovanni II si pose con chiarezza il duplice obiettivo di circumnavigare l’Africa in direzione dell’oriente e di ottenere informazioni più precise circa i porti e la navigazione nell’oceano Indiano. Il primo traguardo fu raggiunto dalla spedizione di Bartolomeo Diaz, che alla fine del 1487 doppiò l’estremità meridionale del continente nero, da lui battezzata capo di Buona Speranza. A Giovanni II si era rivolto un genovese, Cristoforo Colombo: è in Portogallo che maturò il suo progetto di raggiungere l’Oriente circumnavigando la terra verso occidente. Poiché la corte portoghese si era dimostrata scettica, Colombo finì con il concentrare le proprie speranze nella monarchia spagnola. Nel clima di esaltazione creato dalla caduta dell’ultimo regno moro nella penisola iberica vennero firmate dai “re cattolici” le capitolazioni di Santa Fè (17 aprile 1492). Il 3 agosto 1492 tre velieri presero il largo dal piccolo porto atlantico di Palos. Dopo una sosta di un mese alle Canarie, la piccola flotta puntò dritta verso ponente: la mattina del 12 ottobre una terra si delineò all’orizzonte. Era San Salvador. Ma l’ammiraglio era convinto di essere giunto nelle propaggini dell’Asia. Il 14 marzo 1493 l’ammiraglio fece un trionfale ritorno in patria portando alcuni “indiani”, alcuni pappagalli e un po’ d’oro ottenuti dagli indigeni. Il secondo viaggio di Colombo invece delle ricchezze sperate produsse solo un carico di schiavi e accuse di malgoverno contro l’ammiraglio. Contemporaneamente l’eco della scoperta di Colombo aveva stimolato nuove iniziative, quali le due spedizioni del veneziano Giovanni Caboto (1497 e 1498) a Terranova per conto della corona inglese, e la ricognizione di quasi tutta la costa atlantica dell’America meridionale compiuta dal fiorentino Amerigo Vespucci. Proprio Vespucci fu tra i primi a comprendere che non dell’Asia si trattava, ma di un nuovo continente. Giovanni II stipulò con la corte spagnola il trattato di Tordesillas (1494): la linea divisoria tra l’area portoghese e quella spagnola era fissata 370 leghe a ovest delle isole di Capo Verde, il che renderà possibile al Portogallo rivendicare la proprietà del Brasile, scoperto da Cabral nel 1500. La rivalità con la Spagna affrettò i preparativi portoghesi per la decisiva spedizione alle Indie orientali. Il cui comando venne affidato a Vasco da Gama. Doppiato il Capo di Buona Speranza la piccola squadra risalì la costa orientale dell’Africa fino a Malindi. La spedizione il 20 maggio 1948 gettò le ancore nei pressi di Calicut. Vasco da Gama riuscì a caricare le sue navi di spezie e pietre preziose e a ripartire ai primi di ottobre. Subito una nuova e più agguerrita flotta venne allestita e affidata a Pedro Alvares Cabral. Fu lui a prendere possesso del Brasile. La squadra di Cabral raggiunse poi l’India. Nei primi anni del nuovo secolo l’obiettivo principale perseguito dai navigatori fu quello di trovare un passaggio, a sud o a nord, che permettesse di andare oltre l’America e di trovare finalmente la rotta marittima per l’Asia. Ferdinando Magellano, un portoghese postosi al servizio del re di Spagna, partì da Siviglia e trovò in fondo alla Patagonia lo stretto destinato a prendere il suo nome. A questo punto Magellano affrontò la traversata del Pacifico, e dopo oltre tre mesi di navigazione sbarcò nelle Filippine e ne prese possesso in nome del re di Spagna. Perito Magellano il comando della spedizione fu assunto da Juan Sebastian Elcano, che riuscì a raggiungere le coste spagnole, dopo aver circumnavigato l’Africa, nel settembre 1522. 4. Spezie e cannoni: l’impero marittimo dei portoghesi In un primo tempo tutti gli sforzi del Portogallo furono concentrati nello sfruttamento a fini commerciali della via marittima verso le Indie orientali (carreira da India). Il numero dei portoghesi in Oriente nel XVI secolo non superò mai i sei o sette mila. In queste condizioni era impensabile la conquista e la colonizzazione di vasti territori. Nell’Africa orientale e nell’Asia meridionale fu ripetuto lo stesso modello già sperimentato con successo nel Golfo di Guinea: la costruzione di fortezze e di feritorias, gli accordi con i sovrani locali per la fornitura di spezie o altri prodotti a condizioni di monopolio o di favore, la lotta senza quartiere contro i concorrenti. Il tentativo più serio do bloccare l’espansione portoghese fu compiuto dal sovrano mamelucco dell’Egitto; esso venne stroncato con la grande vittoria della flotta portoghese a Diu nel febbraio del 1509. Nei decenni successivi, alle basi e ai territori controllati dal Portogallo attraverso propri viceré si aggiunsero le nuove conquiste nell’isola di Ceylon e nelle Molucche; la Cina concesse l’apertura di un emporio a Macao. Tranne che nell’Estremo Oriente, il commercio era strettamente controllato dalla più significativi di questi indirizzi si può ricordare l’inglese Tommaso Moro. Ma il rappresentante più autorevole dell’umanesimo cristiano fu l’olandese Erasmo da Rotterdam. Egli dovunque strinse relazione con i circoli colti e si acquistò un prestigio ineguagliato per la sua conoscenza dei classici e per l’eleganza del suo stile latino. Erasmo delineò il quadro di una morale che conciliava le influenze del mondo classico con l’insegnamento di Cristo. Il contributo maggiore di Erasmo a questo ritorno alle fonti del cristianesimo fu la sua edizione critica del testo greco e latino del Nuovo Testamento. Le sue opere verranno messe all’Indice dalla Chiesa di Roma. 3. La Riforma luterana Martin Lutero era nato in una cittadina della Turingia, una realtà dove dominava una religiosità ancora medievale. Nel luglio 1505 scelse di farsi monaco. Ciò che lo tormentava era la sensazione della propria inadeguatezza di fronte ai comandamenti divini, la paura del peccato e della dannazione eterna. Lutero cercò la risposta ai propri dubbi negli studi teologici. Nel 151-16 tenne un corso sull’Epistola ai Romani di san Paolo, e fu proprio l’interpretazione di un passo del testo paolino a fornirgli la chiave per la soluzione dell’angoscioso problema della salvezza, quella che sarebbe poi diventata la dottrina della giustificazione per fede. La giustizia divina andava intesa non come giudizio e punizione, ma come giustificazione, come il dono della grazia offerto al peccatore che riconosca la propria indegnità e si affidi alla sua misericordia. Per Lutero la natura umana è intrinsecamente malvagia. Il giusto farà naturalmente il bene, per amore di Dio e del prossimo, ma ciò sarà una semplice conseguenza e non una causa del suo stato di grazia. Tutta la Sacra Scrittura acquistava un nuovo significato; doveva essere letta e spiegata senza tenere alcun conto delle interpretazioni ufficiali. Sola fide e sola scriptura. L’autorità esclusiva attribuita alla Rivelazione contenuta nei testi sacri cancellava di colpo il magistero della Chiesa in materia teologica, così come la dottrina della giustificazione per fese ne annullava la funzione di intermediaria tra l’uomo e Dio. Dei sette sacramenti tradizionalmente ammessi dalla Chiesa cattolica, solo due a detta di Lutero erano realmente fondati sui testi sacri: il battesimo e l’eucarestia. Di particolare rilievo era la soppressione del sacramento dell’ordine: nel conseguiva il cosiddetto sacerdozio universale dei credenti. 4. La rottura con Roma e le ripercussioni in Germania Alberto di Hohenzollern, fratello del margravio di Brandeburgo e già titolare di due vescovati, aspirava anche a diventare arcivescovo di Magonza. Papa Leone X accettò di conferirgli la nomina dietro pagamento di 10.000 ducati. Per metterlo in grado di raccogliere l’ingente somma, il pontefice gli concesse l’appalto di una vendita di indulgenze. La teoria delle indulgenze era basata sul presupposto dell’esistenza di un tesoro di meriti accumulati dalla Vergine e dai santi, al quale la Chiesa poteva attingere per rimettere le pene ai peccatori pentiti e anche per abbreviare le pene del Purgatorio. Il 31 ottobre 1517 Lutero inviò ad Alberto di Hohenzollern 95 tesi. Non solo vi era stigmatizzato il traffico delle indulgenze, ma vi era negata la facoltà del pontefice di rimettere le pene. Le tesi furono stampate e riscossero grande successo in tutta la Germania. A Roma solo nel giugno 1520 fu emanata da Leone X la bolla Exsurge Domine , che lasciava a Lutero sessanta giorni per ritrarre prima che contro di lui fosse scagliata la scomunica. Per tutta risposta, Lutero bruciò pubblicamente la bolla insieme ai libri del diritto canonico. La scomunica giunse nei primi giorni del 1521. Ma il nuovo imperatore Carlo V aveva promesso a Federico il Saggio, elettore di Sassonia e protettore di Lutero, che avrebbe consentito a quest’ultimo di giustificarsi alla sua presenza. Il memorabile incontro avvenne alla Dieta imperiale di Worms (17-18 aprile 1521). L’editto di Worms dichiarava Lutero al bando dall’impero; il che significava che chiunque avrebbe potuto ucciderlo impunemente. La battaglia di Lutero aveva suscitato in tutta la Germani un’immensa eco. Il suo messaggio faceva appello ad un anticlericalismo diffuso in tutti i ceti e a un nascente proto-nazionalismo germanico; e vasti consensi suscitava il richiamo al Vangelo come unica norma di vita. Molti principi territoriali colsero l’occasione per mettere le mani sugli estesi beni della Chiesa e per rafforzare la propria posizione nei confronti dell’autorità imperiale. Alberto di Brandeburgo, grande maestro dell’ordine teutonico, decise di secolarizzare i beni dell’ordine e di assumere il titolo di duca di Prussia. I cosiddetti “cavalieri” vedevano al contrario nella Riforma luterana la leva per una generale rivolta contro Roma. Nelle città l’iniziativa delle riforme liturgiche contribuì al rafforzamento di uno spirito di indipendenza e di una tradizione di autogoverno tipici di questi centri. 5. Le correnti radicali della Riforma. La guerra dei contadini Nelle campagne furono soprattutto i motivi evangelici dell’uguaglianza tra gli uomini e della polemica contro i ricchi e i grandi della terra a fare colpo e a rafforzare il movimento di resistenza contro i gravami feudali e di difesa dell’autonomia delle comunità di villaggio. Fin dal 1520 alcuni seguaci di Lutero cominciarono ad aizzare le folle anche contro tutte le ingiustizie e tutte le forma di oppressione. Tra questi vi era Thomas Muntzer. Già da parecchi mesi infuriava in varie regioni della Germania uno stato di ribellione noto come guerra dei Contadini. Gli insorti non erano spinti tanto dalla miseria quanto dalla volontà di ristabilire gli “antichi diritti” contro le recenti usurpazioni dei signori, di difendere l’autonomia della comunità di villaggio, di realizzare la morale evangelica. Le violenze e i saccheggi perpetrati dai rivoltosi e il pericolo di un sovvertimento delle gerarchie sociali indussero i principi, i prelati, la nobiltà e i ceti urbani superiori a serrare le file e ad armarsi per stroncare il movimento. Decisiva fu la sconfitta subita dagli insorti a Frankenhausen il 15 maggio 1525; Muntzer venne catturato e messo a morte. La repressione fu durissima. Lo stesso Lutero aveva esortato i principi e i signori a “colpire, scannare, massacrare in pubblico o in segreto” i sediziosi. La condanna della ribellione era coerente con la visione ancora medievale che Lutero aveva dell’autorità di principi e magistrati, istituita da Dio per mantenere l’ordine e reprimere i malvagi, e con la netta distinzione che egli operava tra la libertà interiore del cristiano e il suo dovere esteriore di obbedienza ai superiori e alle leggi. La corrente più radicale della Riforma sopravvisse alla disfatta dei contadini di Muntzer soprattutto grazie all’azione dei gruppi anabattisti. Secondo costoro solo l’adesione consapevole del soggetto rendeva valido il sacramento. Caratterizzavano i gruppi anabattisti la separazione dei veri credenti dal resto dell’umanità, la tendenza a formare comunità basate sulla fratellanza e sull’aiuto reciproco, il disconoscimento delle autorità terrene e sull’aiuto reciproco, il disconoscimento delle autorità terrene e la fede nell’illuminazione diretta da parte dello Spirito Santo. Nel febbraio 1534 gli anabattisti provenienti dall’Olanda che si erano stanziati a Munster si impadronirono del governo della città e vi imposero con la forza le proprie regole. Per sedici mesi resistettero all’assedio del principe vescovo. La capitolazione fu seguita anche in questo caso da uno spaventoso massacro. Gli anabattisti (mennoniti) sopravvissero in mezzo alle persecuzioni cattoliche e protestanti. Le varie confessioni anabattiste si diffusero nell’Est Europa e sbarcarono nelle colonie inglesi del Nord America. 6. La conclusione dei conflitti in Germania L’imperatore Carlo V si dimostrò piuttosto restio ad impiegare la forza nella risoluzione del conflitto con i protestanti. Egli rimase a lungo fiducioso nella possibilità che un Concilio universale appianasse le divergenze in materia di fede: a tale scopo convocò nel 1530 una Dieta nella città imperiale di Augusta . Ogni possibile accordo fu frenato dall’intransigenza dei teologici cattolici. Carlo V intimò ai protestanti di sottomettersi; per tutta risposta essi stipularono un’alleanza difensiva, la Lega di Smalcada. L’ultimo tentativo di conciliazione ebbe luogo nel 1541 a Ratisbona, dopodiché i negoziati lasciarono posto allo scontro armato. Neppure la schiacciante vittoria riportata da Carlo V sulla Lega a Muhlberg nel 1547 riuscì a porre termine al conflitto. Nell’autunno del 1551 fu stipulato un accordo segreto in base al quale Enrico II avrebbe garantito il suo appoggio diplomatico e militare ai principi protestanti in cambio dell’acquisto dei vescovati di Metz, Toul e Verdun. Carlo V fu colto alla sprovvista dalla ripresa delle ostilità. Dopo questi inizi la guerra non ebbe tuttavia sviluppi di rilievo, anche perché ai principi tedeschi stava a cuore un’intesa con l’imperatore che salvaguardasse la loro autonomia politica e religiosa. Le trattative in merito furono condotte dal fratello di Carlo V, Ferdinando, e sfociarono nella pace di Augusta (1555). Con essa venne riconosciuta l’esistenza in Germania di due diverse fedi religiose, quella cattolica e quella luterana: mentre nelle città imperiali era ammessa la loro convivenza, i principi territoriali potevano imporre il proprio credo ai sudditi. La pace di Augusta sanciva al tempo stesso la scissione religiosa della Germania e un grave indebolimento dell’autorità imperiale. I veri vincitori erano i principi. La decisione di Carlo V di spartire il suo immenso impero tra il fratello Ferdinando e il figlio Filippo II divenne effettiva tra il 1555 e il 1556 con la sua abdicazione a tutti i titoli. Mentre Ferdinando diveniva imperatore del Sacro Romano Impero ed ereditava le corone di Boemia e di Ungheria e i ducati austriaci, a Filippo II toccavano la Spagna e le sue colonie, i Paesi Bassi, la Franca Contea, i Regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, oltre al Ducato di Milano. 7. Da Zwingli a Calvino: “il governo dei santi” Chiamato nel 1518 a ricoprire l’ufficio di cappellano presso la cattedrale di Zurigo, Zwingli si staccò progressivamente dalla fede tradizionale e tra il 1523 e il 1525 riuscì a convincere il Consiglio cittadino ad abolire la messa, a riformare la liturgia e a imporre la Bibbia come unica fonte di autorità in campo religioso. La Riforma non riuscì a far breccia a Lucerna e nei cantoni cosiddetti “originari”. In vista dello scontro che si delineava, gli zwingliani cercarono l’appoggio dei luterani tedeschi, ma nell’incontro di Marburgo (1529), cui parteciparono da un lato Zwingli, dall’altro lato Lutero, fu impossibile raggiungere un accordo sul problema teologica dell’eucarestia. Nel 1531 un esercito cattolico mosse contro Zurigo: a Kappel i protestanti ebbero la peggio, e lo stesso Zwingli morì in battaglia. L’eredità di Zwingli fu raccolta da Giovanni Calvino e dal calvinismo. Molti punti essenziali della dottrina luterana sono condivisi da Calvino, a cominciare dall’autorità esclusiva della Sacra Scrittura e dalla giustificazione per fede. Il Dio di Calvino è più il Dio del Vecchio Testamento. La dottrina della predestinazione non elimina la responsabilità del peccatore. Il concetto di “vocazione” era applicato a qualunque professione e mestiere e non alle carriere ecclesiastiche. Il calvinismo ha una forte impronta attivistica, che è accresciuta proprio dall’insondabilità della mente divina e dal bisogno psicologico del fedele di uscire dall’angoscioso dubbio circa il proprio destino ultraterreno. Se infatti la certezza di appartenere al novero degli eletti non si può mai raggiungere, vi sono indizi sui quali si può fondare una ragionevole speranza: e questi sono la fede, la partecipazione ai sacramenti e la rettitudine della condotta di vita. Quest’ultimo elemento contribuisce a una rivalutazione delle opere. Su queste basi, lo storico e sociologo Max Weber ha formulato ai primi del Novecento la sua celebre tesi circa il rapporto tra etica protestante e spirito del calvinismo. Il calvinismo penetrò largamente in aree caratterizzate nel XVII e XVIII secolo da un precoce e intenso sviluppo economico. Rispetto alla “Chiesa invisibile”, composta dall’insieme degli eletti di tutta l’umanità, assume importanza crescente nel pensiero di Calvino la “chiesa visibile”, la congregazione dei fedeli legati dalla comune pratica del culto e dalla comune appartenenza a uno Stato o a una città. L’autorità civile non deve limitarsi a mantenere l’ordine in un mondo sottoposto al peccato, ma deve promuovere il bene spirituale dei sudditi in accordo con la Chiesa visibile. Calvino soggiornò a Ginevra e con la sua autorità morale forgiò quella che sempre più doveva apparire come una “repubblica di santi”. La Chiesa ginevrina venne riorganizzata con una suddivisione dei compiti tra pastori, dottori, diaconi e anziani o presbiteri. L’organo supremo della Chiesa era il Concistoro. Nella città così riformata venne introdotta una disciplina ferrea. 8. La diffusione europea del protestantesimo. La Riforma in Inghilterra, in Scozia e nei Paesi scandinavi L’istituzione di un’Accademia per la formazione dei pastori contribuì a fare di Ginevra il centro d’irradiazione di una fede intransigente ed eroica. Le principali aree europee di diffusione del calvinismo furono la Francia, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e l’Europa orientale. Nel 1528 il re d’Inghilterra Enrico VIII Tudor chiese al pontefice l’annullamento del suo matrimonio con Caterina d’Aragona. Clemente VII non si sentì di accogliere la domanda e allora Enrico decise di fare da sé. Nel 1529 convocò un Parlamento da cui ottenne non solo l’annullamento del matrimonio, ma anche la rottura di tutti i vincoli di dipendenza da Roma e l’approvazione nel 1534 dell’Atto di supremazia, che lo dichiarava “capo supremo” della Chiesa d’Inghilterra. Gli ordini regolari furono sciolti e i loro ingenti bene fondiari incamerati dalla corona, che li mise in vendita favorendo così la nascita della gentry. Artefice principale dello “scisma anglicano” era stato il primo segretario di Enrico VIII, Thomas Cromwell. Caduto in disgrazia, Cromwell fu accusato di tradimento a giustiziato nel 1540. Dal punto di vista religioso, la vera riforma ebbe luogo durante il breve regno di grande stile della Chiesa cattolica, l’affermazione di una volontà di dominio non solo in campo spirituale, ma anche nella sfera politica e sociale. Gli effetti furono subito evidenti nel pontificato di Pio V; oltre a dare un grande contributo alla vittoria cristiana di Lepanto contro i turchi (1571), Pio V non esitò a ripubblicare nel 1668 la medievale bolla In Coena Domini, affermazione della supremazia del papa sui sovrani temporali, e a scomunicare nel 1570 la regina d’Inghilterra Elisabetta I. questi indirizzi furono proseguiti da Gregorio XIII. Ma il papato della Controriforma raggiunse il suo apogeo con Sisto V. Non solo egli diede nuovo impulso all’attività missionaria e alla controffensiva cattolica nell’Europa centro-settentrionale, ma attuò una profonda riorganizzazione della curia romana. Venne condotta sotto Sisto V e sotto Clemente VIII la lotta contro il brigantaggio che infestava le province; furono ulteriormente ridotte le autonomie delle città suddite e, all’estensione della discendenza legittima degli Este (1598), Ferrara venne annessa allo Stato della Chiesa. In molte diocesi si registra nella seconda metà del Cinquecento l’avvento di vescovi e arcivescovi animati da grande zelo pastorale e da una forte critica riformatrice, il cui modello apparve già ai contemporanei Carlo Borromeo. Il suo ventennale episcopato fu contrassegnato dalla forte suggestione che emanava la sua austerità di vita e la sua pietà. L’abnegazione e lo spirito di carità dimostrati dall’arcivescovo in occasione della peste che imperversò nel 1576-77 valsero ad accrescere il prestigio e la fama di santità, ma la sua insofferenza di limiti e controlli nell’esercizio della propria autorità lo pose a più riprese in contrasto sia con la frazione dello stesso clero, sia con il Senato e con il governatore spagnolo. In realtà, la concezione borromaica di una Chiesa incardinata sulla figura del vescovo e del parroco doveva rivelarsi a lungo andare incompatibile anche con il centralismo romano. I nuovi ordini regolari organizzavano delle vere e proprie missioni nelle campagne e nelle borgate per indottrinare e “convertire” plebi spesso assai superficialmente cristianizzate. Le masse popolari italiane si avviavano a afre propria una religiosità spesso intensa e sincera, ma povera di sostanza mortale, intrisa di superstizione e di fede ingenua nell’irruzione del soprannaturale in questo mondo. 6. L’egemonia spagnola in Italia La pace di Cateau-Cambresis, stipulata tra Francia e Spagna nel 1559, sancì un’egemonia spagnola destinata a durare fino agli inizi del XVIII secolo. La Spagna controllava i Regni di Napoli, Sicilia e Sardegna, il Ducato di Milano, oltre al minuscolo Stato dei Presidi. Degli altri Stati, solo Venezia poteva considerarsi veramente indipendente, giacché i sovrani di Savoia e di Toscana dovevano a Carlo V e a Filippo II i loro titoli e il loro ingrandimento, Genova era legata a Madrid, mentre i Ducati padani erano troppo piccoli per contare sulla scena politica; quanto allo Stato pontificio, la sua subordinazione alla funzione universale della Chiesa ne rendeva inevitabile l’alleanza con la monarchia spagnola. È troppo semplicistico, tuttavia, ridurre la storia italiana del pieno e tardo Cinquecento all’egemonia culturale della Chiesa e all’egemonia politica della Spagna. Alle difficoltà e alle crisi dei primi decenni del secolo XVI seguì un periodo abbastanza lungo di ripresa demografica ed economica. La stabilizzazione dell’assetto politico-territoriale favorì un’opera di rafforzamento e ammodernamento delle strutture istituzionali e di ricomposizione delle classi dirigenti. Ciò vale anche per i possedimenti diretti della Spagna. L’Autorità sovrana era qui rappresentata da un viceré o da un governatore e dai comandanti dell’esercito. Ma le magistrature giudiziarie e finanziarie erano in misura preponderante formate da elementi indigeni. Al monarca si riconoscevano la suprema autorità legislativa e giurisdizionale e il diritto-dovere della difesa; ma la facoltà di applicare e interpretare le leggi e di ripartire e riscuotere le imposte era considerata prerogativa degli organi di governo locali. A Napoli grande autorità e prestigio aveva il Consiglio collaterale. A Milano era il tribunale supremo, il Senato, a svolgere il ruolo di interlocutore principale dell’autorità sovrana. Erano composti da “togati”, cioè da laureati in giurisprudenza. Se nelle campagne meridionali assai grave rimaneva il peso economico e sociale della feudalità, il governo spagnolo nel Cinquecento riuscì tuttavia a spezzarne la forza politica e a limitarne i peggiori abusi con l’intervento sia pur lento e macchinoso della giustizia regia. Nello Stato di Milano il predominio delle città fu attenuato dall’attuazione del catasto ordinato nel 1545 da Carlo V, e con la formazione della Congregazione dello Stato. Più accentuata fu l’evoluzione verso un modello di governo assolutistico in Toscana e in Piemonte. Ai Medici venne riconosciuto nel 1530 il titolo ducale e nel 1569 quello di granduchi di Toscana. Già nel 1532 fu attuata una riforma costituzionale che, pur mantenendo in vita le antiche magistrature repubblicane, sovrapponeva ad esse due consiglio: il Consiglio dei duecento e il Consiglio dei quarantotto. Fu soprattutto Cosimo I a sviluppare il regime in senso assolutistico. Un considerevole successo del Principato mediceo fu l’annessione di Siena, e del suo territorio, che mantennero tuttavia le proprie leggi e le proprie istituzioni. Lo Stato sabaudo venne ricostituito sotto il duca Emanuele Filiberto dopo la pace di Cateau-Cambresis. Egli trasferì la capitale a Torino; soppresse o limitò molte autonomie locali e centralizzò il controllo finanziario in una Camera dei conti. Il successore Carlo Emanuele I cercò di sfruttare questa nuova compattezza del Ducato per una serie di iniziative espansionistiche. Fallì nel tentativo di sottomettere Ginevra, ma riuscì nel 1601 a ottenere dalla Francia il Marchesato di Salluzzo in cambio della cessione di alcuni territori in Savoia. A Genova i tradizionali contrasti tra le fazioni nobiliari sfociarono nel 1575 in gravi disordini, che indussero i nobili vecchi ad abbandonare la città e portarono in primo piano gli strati popolari che esigevano sgravi fiscali e provvidenze a favore delle arti. Infine nel 1576 si giunse ad un accordo che modificava i meccanismi di elezione e sorteggio all’interno del complicato sistema di governo genovese. Questa evoluzione andò di pari passo con la definitiva affermazione della grande finanza, legata alla Spagna, come elemento trainante dell’economia genovese. Qualche parallelo con la situazione genovese si può scorgere nella contrapposizione tra i due partiti dei “vecchi” e dei “giovani” all’interno del patriziato veneziano. L’incremento numerico del patriziato si era accompagnato ad una crescente differenziazione economica tra le famiglie più ricche e la nobiltà povera. La concentrazione del potere nelle mani delle prime si manifestò soprattutto con il progressivo rafforzamento del Consiglio dei dieci. Nel 1583n l’opposizione dei “giovani” a un ulteriore rafforzamento dell’oligarchia portò non solo alla restituzione al Senato dei poteri usurpati dal Consiglio dei dieci, ma anche all’adozione di una politica estera più energica e indipendente sia dalla potenza spagnola, sia dalla Chiesa della Controriforma. Dovunque gli interlocutori principali del potere sovrano erano i ceti nobiliari. Mentre nel Mezzogiorno e nelle isole spadroneggiava un’aristocrazia di tipo feudale, nelle aree centro-settentrionali erano invece i patriziati a dare il tono alla vita sociale: si trattava di ceti urbani. Tra Cinque e Seicento anche questi gruppi si allontanarono sempre più dai traffici e dalle attività produttive e acquisirono una mentalità aristocratica di stampo spagnolesco che li accomunava alla più antica nobiltà. CAPITOLO 11: L’EUROPA NELL’ETA’ DI FILIPPO II 1. Filippo II e i regni iberici Tra il 1555 e il 1556 Carlo V abdicò. Mentre il fratello Ferdinando diveniva imperatore con il titolo di Ferdinando I ed ereditava con gli Stati ereditari asburgici le due corone di Boemia e Ungheria, al figlio Filippo II toccava la corona di Spagna. Il nuovo re di Francia Enrico II volle tentare una volta ancora la sorte delle armi: sconfitto a San Quintino dovette rassegnarsi a firmare la pace di Cateau-Cambresis (1559), che assicurava alla Spagna una schiacciante supremazia in Italia e il possesso della Franca Contea e dei Paesi Bassi. Se il disegno di ricondurre l’Inghilterra sotto l’obbedienza cattolica e di farne una componente del sistema asburgico venne frustrato dalla prematura scomparsa di Maria Tudor, seconda moglie di Filippo, in compenso la monarchia francese venne duramente indebolita dalle divisioni religiose interne e da una successione di re minori o incapaci dopo la morte accidentale di Enrico II. Filippo II aveva ereditato dal padre la totale dedizione al mestiere di re. Ma, a differenza del padre, il figlio si sentiva ed era intimamente spagnolo. A imporre l’ortodossia religiosa furono rivolte le prime misure di rilievo del suo regno. Tra il 1558 e il 1560 fu rafforzata in Spagna l’Inquisizione, furono proibiti i viaggi all’estero degli studenti e l’introduzione di libri stranieri, vennero disperse e colpite da condanne a morte alcune comunità protestanti. Dieci anni dopo la repressione si abbatté sui moriscos dell’Andalucia. Con una vera e propria campagna militare la loro resistenza fu vinta e i sopravvissuti furono deportati nelle regioni settentrionali della Castiglia, preludio della loro definitiva espulsione dal regno nel 1609. Era convinzione corrente a quell’epoca che l’unità religiosa fosse la condizione e il presupposto dell’unità politica e la migliore salvaguardia contro disordini civili. Filippo II si mostrò in più occasioni tutt’altro che docile verso la Santa Sede. Le restrizioni alla libertà di pensiero e di espressione non ebbero in Spagna gli effetti soffocanti sulla vita intellettuale che si registrarono in Italia; il periodo che va dalla metà del Cinquecento alla metà del Seicento è noto come il “Secolo d’oro”. Tornato dai Paesi Bassi nel 1559, Filippo II non si mosse quasi più dalla Castiglia. La sede della corte e del governo venne trasferita a Madrid. Tale accentramento del potere decisionale nella persona del monarca non deve essere confuso con il centralismo politico e istituzionale al quale tenderanno le monarchie assolute dei secoli XVII e XVIII. Filippo II rimase sempre fedele alla concezione secondo cui ogni singolo Paese doveva mantenere la propria individualità e i propri ordinamenti ed essere unito agli altri solo nella persona del sovrano. Venne esteso e perfezionato durante il suo regno il sistema dei Consigli. Oltre al Consiglio di Stato, al Consiglio dell’Inquisizione e al Consiglio di Azienda, vi erano Consigli preposti ai diversi complessi territoriali in cui sedevano rappresentati dei Paesi interessati. Nei vari territori all’autorità dei rappresentanti diretti del sovrano, si contrapponeva quella delle magistrature locali, che godevano di una larga autonomia. In seguito all’estinzione della dinastia regnante del Portogallo, Filippo II riuscì ad essere riconosciuto come erede della corona lusitana. Il Portogallo entrò così a far parte dei territori controllati dalla corte di Madrid, mantenendo tuttavia inalterate le sue leggi e la sua forma di governo. Così pure, rimase del tutto separata l’amministrazione dell’Aragona. Il separatismo aragonese e soprattutto catalano rimarrà sempre una spina nel fianco della potenza spagnola. Nella stessa Castiglia, l’indubbia popolarità del “re prudente” fu messa a dura prova dai sacrifici sempre più gravosi richiesti al Paese in termini di uomini e denaro. Il sistema tributario era congegnato in modo da penalizzare i ceti produttivi e da privilegiare le rendite parassitarie. A ciò si aggiunga che i denari così prelevati erano spesi in gran parte altrove e andavano così ad arricchire altri Paesi. Infine, la stessa mentalità imperiale rafforzava la tendenza a importare manufatti e persino derrate agricole dall’estero. Non ci sorprenderemo di rilevare già in quest’epoca la decadenza di alcune attività industriali prima fiorenti in Castiglia. Ma la stessa agricoltura doveva cedere enormi spazi all’allevamento transumante delle pecore. L’ultimo decennio del Cinquecento fu segnate da terribili carestie e pestilenze, che avviarono un secolare declino della popolazione e dell’economia iberica e in particolare castigliana. 2. La battaglia di Lepanto e i conflitti nel Mediterraneo L’ormai indiscussa egemonia spagnola in Italia e il possesso diretto del Regno di Napoli, della Sicilia e della Sardegna garantivano a Filippo II una posizione dominante nel Mediterraneo occidentale ma lo rendevano al tempo stesso più esposto agli attacchi dei corsari barbareschi e della potenza ottomana. Dopo un tentativo fallito di prendere Malta (1565), Selim II sferrò nel 1570 un improvviso attacco contro l’isola di Cipro, mentre Tunisi cadeva nelle mani del bey di Algeri. Per iniziativa dell’energico papa Pio V si costituì allora una nuova “Lega santa”, in cui entrarono, oltre a Venezia e alla Spagna, la Repubblica di Genova, il duca di Savoia e l’ordine di Malta. Il 7 ottobre 1571, la flotta cristiana al comando di don Giovanni d’Austria e quella ottomana si affrontarono nei pressi di Lepanto. Alla fine della giornata si delineò schiacciante la vittoria delle forze cristiane. La vittoria cristiana apparve come una sanzione divina degli ideali della Controriforma e fu esaltata da letterati, poeti e artisti. Ma assai più modesti furono i risultati sul piano politico e militare, anche per i dissidi cubito insorti tra gli alleati. Venezia preferì firmare una pace separata, rinunciando a Cipro e tornando alla sua tradizionale politica di buon vicinato con Istanbul. Negli anni successivi il re di Spagna e il sultano, dovettero rivolgere la loro attenzione l’uno alle vicende nord-europee, l’altro al rinnovato conflitto con la Persia. Il Mediterraneo rimase per tutto il Cinquecento un crocevia di scambi e di traffici. Proprio questa perdurante prosperità rendeva più aggressiva e più intensa l’attività piratesca. La guerra di corsa era esercitata non soltanto dagli Stati barbareschi, ma da navigli maltesi, genovesi, toscani; essa metteva il bottino al di sopra dell’ideologia religiosa; a queste azioni si aggiungevano quelle degli uscocchi, pirati di etnia slava che operavano lungo la costa dalmata. Nell’ultimo ventennio del XVI secolo si registra la penetrazione in forze nel Mediterraneo degli olandesi e soprattutto degli inglesi. attirò con un tranello il duca di Guisa e il cardinale di Lorena e li fece assassinare. Non gli restava a questo punto che l’alleanza col Borbone, insieme al quale strinse d’assedio Parigi nel luglio 1589; ma un mese dopo lo stesso re Enrico III moriva. Prima di morire, fece in tempo a designare suo successore Enrico di Borbone, che divenne così Enrico IV. Egli non venne riconosciuto dai leghisti, che gli contrapposero la candidatura di una figlia di Filippo II di Spagna, Isabella. Truppe spagnole penetrarono in Francia dai Paesi Bassi e dai Pirenei per imporla sul trono. Proprio questo fatto permise a Enrico IV di presentarsi come il campione dell’unità e dell’indipendenza del Regno e di trasformare a guerra civile in una guerra contro lo straniero e contro i suoi alleati interni. A favore di Enrico giocavano pure la generale stanchezza per le guerre e le stragi e l’apprensione suscitata per gli eccessi della plebe parigina e dai movimenti insurrezionali a carattere anarchico. Con la pubblica conversione di Enrico IV, con il suo ingresso trionfale a Parigi e con l’assoluzione pronunciata l’anno seguente da papa Clemente VIII si può dire che le sorti della lotta fossero ormai segnate. Filippo II riconobbe la propria sconfitta firmando la pace di Vernis (1598). L’editto di Nantes promulgato da Enrico IV sanciva la pace religiosa mantenendo al cattolicesimo il carattere di religione di Stato ma riconoscendo agli ugonotti il diritto di praticare il loro culto. 6. L’Europa orientale: Polonia e Russia L’immenso territorio si estendeva tra il Baltico occidentale e i mar Nero era quasi tutto diviso tra il Regno polacco-lituano e la Russia moscovita. Oltre che un crogiolo di popoli, la Polonia era un crogiolo di fedi religiose. Il principio della libertà religiosa venne ribadito nel 1573, facendo della Polonia una sorta di oasi in un’Europa dominata dall’intolleranza. Questa complessità etnica e religiosa rendeva difficile l’affermazione in Polonia di una forte autorità statale. Ma un ostacolo ancora maggiore era costituito dalla presenza di una nobiltà eccezionalmente numerosa e fieramente attaccata ai propri privilegi e alle proprie trazioni militari. Questo ceto fu protagonista della notevole fioritura intellettuale e artistica dell’età rinascimentale e del forte aumento della produzione cerealicola. Ma tali progressi furono pagati da un lato con un asservimento durissimo dei contadini, dall’altro con un indebolimento crescente della monarchia, i cui poteri erano limitati dalla presenza di un Senato e di una Camera dei deputati, entrambi espressione esclusiva della nobiltà. Nel 1572 venne definitivamente affermato il carattere elettivo e non ereditario della corona. Dietro la facciata monarchica, la confederazione polacco-lituana era in realtà una repubblica aristocratica. Nella Russia moscovita le condizioni economico-sociali erano per molti versi simili a quelle del Regno polacco-lituano. L’evoluzione politico, però, andò verso la concentrazione di tutti i poteri nelle mani del monarca, nei cui confronti gli stessi nobili erano in uno stato di soggezione servile. La Moscovia scosse definitivamente il gioco mongolo e fu protagonista di una grande espansione territoriale con Ivan III il Grande (1462-1505) e con Basilio III (1505-1533); questi sovrani posero le basi della stretta associazione tra Chiesa e Stato e della creazione di una nuova nobiltà. Tale processo raggiunse il punto più alto con Ivan IV che, dopo essersi fatto incoronare zar nel 1547, diede inizio a una politica di rafforzamento del potere monarchico e di alleanza con i ceti inferiori in funzione antinobiliare. All’esterno Ivan intrecciò rapporti commerciali con le potenze occidentali, specialmente con l’Inghilterra; condusse vittoriose campagne militari contro i tatari, impadronendosi nel 1552 da Kazan e nel 1556 di Astrakhan. Ma partire dal 1560 circa, Ivan IV cominciò a dare segni di squilibrio mentale e ad abbandonarsi ad atti di gratuita ferocia. Stragi e confische indiscriminate colpirono non solo i boiari e le loro famiglie, ma tutti quanti fossero a torto o a ragione sospetti di ostilità verso lo zar. Il terrore raggiunse il culmine nel 1579 con il massacro della popolazione di Novgorod. A Ivan IV succedette il figlio Fedor, debole e infermo di mente: il potere effettivo fu esercitato dal cognato di questi, Boris Godunov, che riuscì poi a farsi riconoscere zar; egli continuò la politica antinobiliare di Ivan IV, diede impulso all’esplorazione e alla colonizzazione della Siberia e consentì ai proprietari di riprendere i contadini fuggiaschi. Ma gravi carestie e pestilenze funestarono gli ultimi anni del suo regno. Alla sua morte la Russia sprofondò in uno stato di totale anarchia, la cosiddetta “epoca dei torbidi”, che ebbe fine solo nel 1613 quando un nuovo Zemmskij Sobor elesse zar Michele Romanov, la cui dinastia era destinata a regnare fino al 1917. CAPITOLO 12: L’EUROPA NELLA GUERRA DEI TRENT’ANNI 1. Il Seicento: un secolo di crisi? Il dibattito storiografico sulla “crisi generale del Seicento” prese le mosse dalla constatazione della simultaneità di una serie di movimenti rivoluzionari e di crisi politiche che si manifestarono in diverse parti dell’Europa nei decenni centrali del secolo. La tesi proposta vedeva in queste scosse il riflesso di una fase acuta di transizione dal feudalesimo al capitalismo. Vi fu chi negò la possibilità stessa di assegnare cause comuni a fenomeni così eterogenei, e chi mise in campo spiegazioni di diversa natura. In Europa l’incremento demografico che aveva caratterizzato il “lungo Cinquecento” si arrestò tra il 1620 e il 1650, e alcune aree registrarono gravi perdite di popolazione. In questi anni si arresta o si inverte la tendenza all’aumento dei prezzi che aveva caratterizzato il “lungo Cinquecento”. Questo fenomeno è naturalmente in rapporto con l’attenuarsi della pressione della domanda. Un’altra spiegazione può essere cercata nella drastica diminuzione dei quantitativi di argento importati dalle Americhe. Per quanto riguarda l’industria e il commercio, non mancano i segnali di difficoltà o di recessione. Ma a essi è possibile contrapporre indicatori di diverso segno. Più che di crisi si può parlare di una redistribuzione delle risorse a vantaggio dei Paesi affacciati sull’Atlantico e a danno dell’Europa mediterranea e dell’area germanica. Dal punto di vista delle tecniche agricole, non si registrarono nel XVII secolo grandi novità. Proseguì la tendenza all’esproprio dei coltivatori diretti e si aggravò ulteriormente il peso della rendita fondiaria. Alla rendita feudale e al prelievo signorile ed ecclesiastico si aggiungeva poi il crescente peso delle imposte statali. Solo nei Paesi più favoriti, l’Olanda e l’Inghilterra, poté costituirsi almeno un embrione di mercato di massa, mentre altrove il potere di acquisto delle classi popolari rimase limitatissimo. La crescita economica dell’Europa nord- occidentale conobbe fasi di rallentamento ma anche di ripresa e di accelerazione. Sotto il profilo culturale, mentre in Spagna tramontava il siglo de oro, la Francia entrava nel proprio grand siècle e si verificava quella che si può chiamare senza pericolo di esagerazione una rivoluzione scientifica e filosofica. 2. La prosperità dell’Olanda Già da alcuni decenni le Province Unite erano protagoniste di uno spettacolare sviluppo economico. I Paesi Bassi sono sempre stati una delle aree nevralgiche d’Europa per i traffici e gli scambi a causa dei fattori geografici. Il ruolo di grande emporio e di centro finanziario internazionale esercitato nel Cinquecento da Anversa passò ad Amsterdam. Fin dal XV secolo si era sviluppata nei Paesi Bassi del nord la pesca delle aringhe in alto mare, che alimentava una vivace corrente di esportazione non solo verso il Baltico, ma anche verso l’Europa meridionale. Questa attività diede grande impulso all’ industria cantieristica, che si specializzò poi anche nella costruzione di velieri veloci e manovrieri. Gli olandesi divennero i “carrettieri del mare”, i padroni dei trasporti per via d’acqua. Una delle rotte più frequentate era quella del Baltico. Ma già a fine Cinquecento li troviamo anche nel Mediterraneo e nei porti del Levante. Approfittando dello stato di guerra con la monarchia spagnola essi si impadronirono di Ceylon, dell’isola di Giava e delle Molucche in Asia, del territorio del Capo all’estremo sud del continente africano, e per quasi trent’anni si installarono anche sulle coste del Brasile. Un altro insediamento olandese oltre l’Atlantico fu Nuova Amsterdam, che gli inglesi ribattezzarono New York nel 1664. Alle Province Unite rimasero dopo quella data solo il Suriname e l’isola di Curacao nelle Antille. Protagoniste di questa espansione coloniale furono la Compagnia delle Indie orientali (1602) e la Compagnia delle Indie occidentali (1621). Entrambe aveva la forma della società per azioni. Rispetto ai portoghesi, gli olandesi compirono due importanti passi avanti: da un lato estesero il loro controllo alla produzione di alcune spezie; dall’altro praticarono su larga scala il commercio d’intermediazione tra le diverse aree dell’oceano Indiano. Nel corso di questi viaggi i navigatori olandesi scoprirono l’Australia e la Nuova Zelanda. Le rotazioni sofisticate e le tecniche avanzate in uso nei Paesi Bassi ebbero un notevole influsso sulla cosiddetta “rivoluzione agricola” inglese. Un ruolo importante come fattore della prosperità olandese ebbero anche le manifatture. Senza rivali in Europa erano le istituzioni finanziarie di Amsterdam: la Banca dei cambi accettava depositi dai mercati e agevolava i pagamenti mediante semplici trasferimenti di somme da un conto all’altro e mediante lo sconto di cambiali; la Borsa era il luogo deputato alle contrattazioni. Le Province Unite furono il primo Paese europeo in cui il numero degli addetti all’agricoltura scese al disotto della metà degli abitanti. Sebbene ufficialmente calviniste, le Province Unite ospitavano forti minoranze di cattolici, di anabattisti e di ebrei: il ceto mercantile riuscì quasi sempre a imporre il rispetto delle varie opinioni religiose. All’imposizione dell’uniformità religiosa si opponeva la stessa struttura confederale della Repubblica. Ciascuna delle sette province aveva i propri “Stati”, dominati dai rappresentanti delle città. Gli Stati generali, che si riunivano all’Aja e che comprendevano i deputati delle sette province, avevano poteri limitati e dovevano prendere le loro decisioni all’unanimità. La provincia d’Olanda da sola pagava più di metà delle imposte federali e il suo statolder rappresentava la massima autorità militare. In un’Europa dominata nel XVII secolo dalle monarchie assolute e dalle aristocrazie, le Province Unite rappresentavano una felice eccezione con la loro prosperità, con la loro civiltà essenzialmente cittadina e borghese, con la loro adesione ai valori della libertà e della tolleranza. In tale contesto si colloca l’eccezionale sviluppo della vita intellettuale e artistica. 3. La monarchia francese da Enrico IV a Richelieu La Francia sotto la ferma guida di Enrico IV di Borbone riguadagnò una posizione dominante sulla scena europea. Al rifiorire delle attività economiche contribuirono gli sgravi fiscali, la soppressione di molti dazi e il programma di costruzioni stradali. La grande nobiltà fu blandita con una politica di favori e di elargizioni finanziarie, ma anche intimidita con alcune condanne esemplari; e ai governatori delle province cominciarono ad essere affiancati per compiti specifici dei “commissari” straordinari. I detentori di uffici venali si videro riconoscere nel 1604, dietro il pagamento di una moderata tassa annua (paulette), il diritto di trasmettere ereditariamente la propria carica. Le più elevate cariche giudiziarie o finanziarie conferivano automaticamente la nobiltà (nobiltà di toga). Col trattato di Lione, Enrico IV ottenne la Bresse e il Bugey in cambio della cessione del Marchesato di Saluzzo. Negli anni seguenti non rinunciò a esercita la propria influenza in Germania e in Italia. Si accingeva a muovere guerra agli Asburgo d’Austria e di Spagna quando morì assassinato. L’erede al trono, Luigi XIII, era allora un bambino di nove anni. La reggenza fu assunta in suo nome da Maria de’ Medici, che inaugurò una politica filospagnola. La sudditanza alla Spagna suscitò il risentimento dei principi di sangue reale e delle grandi casate aristocratiche. Un punto centrale delle loro rivendicazioni fu la richiesta di una convocazione degli Stati generali del regno, che furono riuniti tra il 1614 e il 1625. Furono questi gli ultimi Stati generali nella storia di Francia prima del 1789. Si impose, come mediatore dei contrasti tra Luigi XIII e la madre, un giovane vescovo che si era messo in luce come portavoce del clero agli Stati generali: Armand-Jean du Plessis duca di Richelieu. Nel 1662 Luigi XIII ottenne per lui la nomina a cardinale: Richelieu assunse in pochi mesi una posizione dominante accentrando nelle proprie mani la direzione della politica francese interna ed esterna. Due erano le linee di condotta possibile. La prima consisteva nell’appoggio alla politica di restaurazione cattolica degli Asburgo di Spagna e d’Austria. La seconda linea considerava inevitabile una contrapposizione al disegno egemonico degli Asburgo. Fu quest’ultima la linea scelta e perseguita con inflessibile coerenza da Richelieu. Furono stroncate con implacabile energia le trame nobiliari e le manifestazioni d’anarchia feudale; e con una vera e propria guerra fu debellata l’organizzazione politico militare degli ugonotti. La campagna contro gli ugonotti e il progressivo coinvolgimento della Grancia nei teatri di guerra tedesco e italiano ebbero come conseguenza un rapido aumento della pressione fiscale. Fu questa la causa principale della grande ondata di rivolte popolari che scosse la Francia a partire dal 1625. Il bisogno di mantenere l’ordine, di garantire la riscossione delle imposte, di amministrare una pronta e severa giustizia e di assicurare all’esercito i necessari approvvigionamenti e i servizi logistici fu a sua volta all’origine della graduale estensione a tutto il Paese di intendenti di giustizia, polizia e finanza. A questo gigantesco sforzo di accentramento e rafforzamento del potere monarchico si possono ricondurre anche le benemerenze di Richelieu in campo culturale, così come loro devastazione in Germania, mentre l’esercito francese ottenne una grande vittoria su quello spagnolo nella battaglia di Rocroi. I negoziati di pace, avviati fin dal 1641, sfociarono nel 1648 in una serie di trattati collettivamente noti come pace di Vestfalia. La Spagna riconobbe l’indipendenza delle Province Unite. La Francia otteneva il possesso definitivo dei vescovati di Metz, Toul e Verdun, di gran parte dell’Alsazia e di altre piazzeforti sia sul Reno, sia in Piemonte. La Svezia rimaneva padrona della Pomerania occidentale e delle province di Haland e perfezionava il proprio dominio sul Baltico; la parte orientale della Pomerania e i vescovati di Magdeburgo, Minden e Halberstadt erano dati all’elettore del Brandeburgo, Federico Guglielmo. La situazione religiosa dell’Impero fu modificata in quanto venne ammesso anche il calvinismo. Dal punto di vista politico, i principi ottenevano il diritto di stringere allenaze e fare guerre per propeio conto, purchè non dirette contro l’imperatore. Restava accesa la guerra tra Francia e Spagna, conclusa solo nel 1659 della pace dei Pirenei, e restavano le conseguenze economiche e sociali del conflitto. CAPITOLO 13: RIVOLUZIONI E RIVOLTE 1. L’Inghilterra sotto la dinastia Stuart Giacomo I Stuart era già re di Scozia quando succedette sul trono inglese alla regina Elisabetta. L’unione nella stessa persona delle due corone non comportò la fusione dei due Paesi sotto il profilo politico e amministrativo. Diversi fattori dovevano rendere impopolare il nuovo sovrano presso gli inglesi. Fin dai primi anni del regno di Giacomo I si ripresentarono la questione religiosa e la questione finanziaria. La legislazione contro i cattolici venne inasprita dopo la scoperta di una congiura che mirava addirittura a far saltare in aria il primo Parlamento convocato da Giacomo I (Congiura delle polveri, 1605); non ebbero però soddisfazione le richieste dei puritani per una più radicale riforma della Chiesa d’Inghilterra. I protestanti inglesi dovettero constatare che la nuova dinastia cercava un’alleanza matrimoniale con le grandi corone cattoliche. Nel corso dei primi decenni del XVII secolo il puritanesimo si venne diffondendo sempre più largamente tra la gentry e tra i ceti mercantili e artigiani delle città. Non pochi furono coloro che decisero di emigrare nell’America settentrionale: tra questi i cosiddetti padri pellegrini che nel 1620, a bordo della nave Mayflower, attraversarono l’oceano e andarono a fondare la colonia del Massachusetts. I costi della guerra contro la Spagna avevano creato una difficile situazione finanziaria. Al centro del problema era l’insufficienza delle entrate a fronte di spese in continuo aumento. Ogni forma stabile di imposta fondiaria trovava un ostacolo insuperabile nel Parlamento. Ai problemi di natura religiosa e finanziaria di aggiunsero le ripercussioni di una congiuntura economica negativa. Da un lato la popolazione inglese continuò ad aumentare fin verso il 1650. Ma tra il 1620 e il 1650 l’incremento demografico non fu più accompagnato da un parallelo sviluppo delle attività produttive. Sotto il successore Carlo I gli effetti di una serie di cattive annate agricole accrebbero la miseria dei ceti inferiori. I quattro successivi Parlamenti convocati da Giacomo I si rifiutarono sempre di soddisfare le richieste finanziarie della corona e denunciarono invece con crescente energia i fenomeni di corruzione e gli sprechi presenti nella corte e nel governo. Il problema finanziario diventava così un problema politico. Non riuscendo ad ottenere l’approvazione legale da parte del Parlamento il monarco e i suoi ministri erano indotti a fare continuo ricorso a espedienti straordinari che gettavano sempre maggior discredito sulla corte. 2. Il regno di Carlo I e lo scontro tra corona e Parlamento Il generale malcontento fu accresciuto, negli ultimi anni di Giacomo I, dall’ascendente acquistato a corte dal giovane duca di Buckingham, e da una politica estera ritenuta tropo remissiva nei confronti della Spagna. Nel tentativo di guadagnare il sostegno dei puritani, Carlo I dichiarò guerra alla Spagna e organizzò una spedizione navale per soccorrere gli ugonotti di La Rochelle. Il disastroso fallimento di queste operazioni militari convinse i più che del nuovo re e del duca di Buckingham non c’era in alcun modo da fidarsi. Il Parlamento convocato nel 1628 condizionò ogni votazione di ulteriori sussidi all’accettazione da parte del re di un documento, denominato Petizione di diritto. Il re si piegò a sottoscrivere la petizione, ma subito aggiornò il Parlamento all’anno seguente. Nell’agosto 1628 il duca di Buckingham venne pugnalato a morte e quando le sedute ripresero Carlo I decise di scioglierlo definitivamente. Fino all’aprile 1640, Carlo I governò senza Parlamento, appoggiandosi al Consiglio privato della corona e all’azione dei tribunali regi che giudicavano i reati di lesa maestà. Due consiglieri soprattutto riscossero la sua fiducia in questo periodo: Thomas Wentworth e William Laud, nominato nel 1633 arcivescovo di Canterbury. Non mancarono negli anni di governo personale di Carlo utili riforme. Grazie a tali misure e alla pace frettolosamente conclusa con la Francia e con la Spagna alla fine degli anni Venti, le spese poterono essere finalmente contenute. Parallelamente, Laud procedeva a riorganizzare la Chiesa d’Inghilterra secondo linee gerarchiche e autoritarie. Erano sistematicamente preferite per i seggi vescovili i seguaci della dottrina arminiana, erano rimesse in onore pratiche di devozione e forma liturgiche proprie della Chiesa cattolica. Il sospetto che si volesse così preparare un ritorno al cattolicesimo rafforzava l’opposizione dei puritani. Alla fine degli anni Trenta poteva sembrare che anche l’Inghilterra degli Stuart si avviasse verso un regime di tipo assolutistico. Ma si opponeva a questo disegno la fragilità dell’apparato militare, burocratico e finanziario. Non esisteva in Inghilterra un esercito permanente; la burocrazia stipendiata dalla corona non superava il migliaio di individui sotto i primi due Stuart. Le novità religiose imposte da Laud, che cercò di imporre il modello anglicano alla Chiesa presbiteriana di Scozia, suscitarono qui nel 1638 una rivolta. Carlo I decise nell’aprile 1640 a convocare un nuovo Parlamento per ottenere i mezzi necessari a condurre la guerra contro gli scozzesi. Di fronte d un’opposizione risoluta lo sciolse dopo poche settimane (“Breve Parlamento”). Ma l’esercito messo insieme con grandi sforzi dal monarca fu messo in rotta dagli scozzesi. In questa situazione non rimase a Carlo I altra via che convocare nuovamente la rappresentazione del Regno. Il Parlamento che si aprì a Westminster il 3 novembre 1640 è passato alla storia come il “Lungo Parlamento” perché rimase in carica fino al 1653. I Comuni seppero intimidire e trascinare la Camera dei lord e procedettero in pochi mesi a smantellare tutti i capisaldi del potere regio: Strafford e Laud vennero accusati di tradimento e imprigionati; furono soppressi i tribunali sottoposti all’influenza diretta del monarca; furono dichiarate illegali e abolite la imposte introdotte nell’ultimo decennio; i vescovi vennero estromessi dalla Camera dei lord, e il re venne provato del diritto di sciogliere il Parlamento senza il consenso di quest’ultimo. Alla fine del 1641 lo scoppio di un’insurrezione cattolica in Irlanda pose il delicato problema di chi dovesse condurre la repressione: prima di votare i sussidi per la costituzione di un esercito, il Parlamento intendeva costringere il monarca a cedere il controllo delle forze armate. Lo Stuart il 5 gennaio 1642 si presentò in Parlamento con un drappello di armati per arrestare i capi dell’opposizione; ma il colpo andò a vuoto perché questi ultimi si erano messi in salvo. Il re lasciò la capitale, deciso ormai a risolvere con la forza la partita, e chiamò a raccolto i sudditi a lui fedeli. 3. La guerra civile. Cromwell e la vittoria del Parlamento La guerra civile vera e propria ebbe inizio nell’estate del 1642 e sembrò in un primo tempo volgere a favore del re. Ma il protrarsi delle ostilità doveva inevitabilmente far pendere la bilancia dalla parte del Parlamento. Il primo importante successo venne ottenuto il 2 luglio 1644 nel nord, grazie al valore dei reparti della cavalleria guidati da Oliver Cromwell (New Model Army). Le schiaccianti vittorie ottenute sui realisti a Naseby e a Langport posero praticamente fine alla guerra civile. Carlo I preferì un anno dopo arrendersi agli scozzesi, che lo consegnarono al Parlamento di Londra. Ben pochi erano coloro che ritenevano che si potesse fare a meno della monarchia: i più erano favorevoli a un accorso con il re sconfitto, che salvaguardasse le conquiste della rivoluzione. Sul nuovo assetto politico e soprattutto religioso da dare al Paese non vi era però unanimità di vedute. Nel Parlamento era dominante la corrente presbiteriana. A costoro si contrapponevano gli indipendenti, che erano sostenitori di una larga tolleranza delle opinioni religiose e dell’indipendenza delle singole congregazioni di fedeli. Il clima di effervescenza e di relativa libertà creato dallo scontro tra corona e Parlamento aveva favorito la proliferazione di sette religiose. Evidenti sono agli occhi degli storici i legami tra queste tendenza eterodosse in campo religioso e il radicalismo politico che si espresse soprattutto nel movimento dei livellatori (levellers). Il termine venne ad indicare quanti erano accusati di voler cancellare le distinzioni sociale e livellare le fortune. Pur non essendo contrati alla monarchia chiedevano la soppressione di tutti i privilegi, una semplificazione delle leggi e un’istruzione per tutti; e soprattutto esigevano l’allargamento del diritto di voto a tuti i maschi adulti. Dopo la vittoria sul re, la propaganda dei livellatori fece molti proseliti nell’”esercito di nuovo modello”. Nel giugno successivo questo occupò Londra e si impadronì con la forza della persona del re. Il dibattito che si svolse a Putney nell’ottobre 1647 mostra come l’ostacolo principale a una unificazione delle proposte fosse proprio la questione del suffragio. Le discussioni furono interrotte dalla fuga del re, che con l’appoggio degli scozzesi cercò di riaccendere la guerra civile. Ma le forze realiste vennero sconfitte in pochi mesi (->Rump Parliament). Carlo I venne condannato a morte e giustiziato il 30 gennaio 1649. Il gesto era troppo rivoluzionario per essere approvato dalla massa della popolazione inglese. Il successivo decennio doveva dimostrare tutta la difficoltà di governare con istituzioni repubblicane un Paese saldamente attaccato alla tradizione monarchica e auna concezione gerarchica della società. 4. Il decennio repubblicano: Cromwell al potere L’esecuzione del re fu seguita dalla creazione di un Consiglio di Stato, dalla soppressione della Camera dei lord, dalla proclamazione della Repubblica unita di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Non erano però affatto risolti i contrasti tra i moderati, i capi dell’esercito e i livellatori. Il primogenito di Carlo I, rifugiatosi nei Paesi Bassi, non aveva tardato ad assumere il titolo regio di Carlo II ed era stato riconosciuto sia dagli scozzesi sia dagli irlandesi. All’arresto dei capi del movimento livellatore fece seguito la repressione sanguinosa, a opera di Cromwell, dell’ammutinamento di alcuni reparti dell’esercito a Burford. Lo stesso Cromwell guidò personalmente nel 1649-50, la campagna contro gli insorti irlandesi. Fu una specie di genocidio. Ugualmente rapida e vittoriosa fu la successiva campagna di Cromwell in Scozia. La nuova potenza militare inglese non tardò a rivolgersi anche in altre direzioni: gli anni dell’interregno segnarono la ripresa in grande stile dell’espansione marittima e commerciale iniziata sotto Elisabetta e inaugurarono l’era dell’imperialismo britannico, nel settembre 1651 venne promulgato l’Atto di navigazione. Era un colpo diretto contro gli olandesi; e infatti scoppiò subito la prima delle tre guerre navali anglo-olandesi, che finiranno per sancire la superiorità marittima britannica. Alcuni anni dopo, l’Inghilterra di Cromwell entrò in guerra contro la Spagna (1655), e le strappò l’isola di Giamaica. Furono questi gli anni dei trattati commerciali stipulati con il Portogallo e con i Paesi baltici. Nel 1653 venne finalmente sciolto quanto restava del “Lungo Parlamento” e al suo posto venne insediata un’assemblea di 144 membri, il “Parlamento barebone”. Alla fine di quello stesso anno, una carta costituzionale stesa in fretta e furia proclamò Oliver Cromwell lord protettore del Commonwealth di Inghilterra, Scozia e Irlanda. Il potere militare si identificava così strettamente con il potere politico. Con il protettorato ebbe fine la relativa libertà di cui aveva fino ad allora goduto la stampa e anche il dissenso religioso cominciò a essere perseguitato. Il territorio inglese venne suddiviso in undici distretti, ciascuno dei quali fu sottoposto a un maggiore generale. La dittatura militare non rispondeva però ai desideri della gentry. Alla morte di Oliver Cromwell venne designato a succedergli il figlio Richard. Dopo l’abdicazione di Richard, l’unica soluzione possibile apparve il richiamo di Carlo II Stuart, che con la dichiarazione di Breda si impegnò a governare di concerto con il Parlamento. 5. La Francia a metà Seicento: il governo di Mazzarino e la Fronda Lo spietato aumento della pressione fiscale imposto ai francesi dal governo di Richelieu aveva provocato una serie di rivolte popolari. I disordini della “Fronda” videro protagoniste le classi dirigenti e interessarono contemporaneamente la capitale e la maggior parte del Paese. Alla morte di Luigi XII, preceduta di pochi mesi da quella di Richelieu, la reggenza venne assunta dalla vedova Anna d’Austria. Fin dai primi giorni questa affidò la direzione degli affari a una creatura di Richelieu, il cardinale Giulio Mazzarino. Egli si mantenne nel complesso fedele agli indirizzi politici di Richelieu. La minore età del sovrano e la reggenza da parte di una donna “straniera” risvegliarono le velleità dei principi del sangue e dei nobili. Allo stesso tempo gli officiers protestavano contro la continua creazione di nuove cariche, i rentiers lamentavano gli enormi ritardi con cui erano pagati gli interessi cui avevano diritto; tutti denunciavano gli scandalosi arricchimenti dei finanzieri e degli appaltatori delle imposte. La situazione divenne esplosiva nel 1648. Di fronte a un nuovo pacchetto di misure fiscali il Parlamento di Parigi prese la testa del movimento di opposizione e 3. I domini spagnoli: Milano, Napoli e le isole Gli inizi del governo spagnolo a Milano e a Napoli non erano stati privi di aspetti positivi. Ma a partire dal 1620 l’impegno della Spagna nella guerra dei Trent’anni portò a un forte aggravamento della pressione tributaria. Le classi dominanti ne approfittarono per riaffermare il proprio controllo sulle istituzioni locali. Tra il 1628 e il 1658 lo Stato di Milano fu più volte trasformato in campo di battaglia. Tuttavia la sua importanza strategica indusse la corte di Madrid a trattare questi suoi sudditi con un certo riguardo. Ingenti somme furono fatte affluire a più riprese dalla Spagna e dal Mezzogiorno per il mantenimento delle truppe. Tutto ciò contribuisce a spiegare la notevole ripresa demografica ed economica del Paese dopo la stipulazione della pace dei Pirenei tra Spagna e Francia (1659); e rende ragione anche della mancanza, nel Seicento lombardo, di rivolte e sommosse paragonabili a quelle esplose nell’Italia meridionale e insulare. Napoli era verso la metà del Seicento la metropoli più grande d’Europa. Non c’erano nel Regno altri centri di grandi dimensioni e soprattutto non c’era quel tradizionale rapporto di subordinazione della campagna alla città che era tipico dell’Italia centro-settentrionale. In questa situazione l’indebolimento dell’autorità centrale portò soprattutto negli anni Trenta e Quaranta del secolo, a un’estensione a macchia d’olio del potere feudale. I feudatari, detti “Baroni”, ottenere una sostanziale impunità per le estorsioni e le prepotenze commesse a danno dei vassalli. Il banditismo si trasformò così in questo periodo in una forma di terrore baronale. A Napoli l’egemonia della nobiltà era contrastata dalla presenza di un forte “ceto civile”, composto principalmente da laureati in giurisprudenza di origine borghese; alcuni esponenti di questo ceto non esitavano a fomentare il malcontento del popolo minuto al fine di spostare a proprio favore gli equilibri politici. Anche nel Regno di Sicilia la popolazione crebbe notevolmente fino a metà Seicento. Palermo era il naturale centro di raccolta della nobiltà feudale. L’interlocutore principale dell’autorità sovrana era in Sicilia il Parlamento, composto dai tre bracci: feudale, ecclesiastico e demaniale. Anche qui la congiuntura politica instauratasi dopo il 1620 condusse a un rafforzamento del baronaggio a spese delle masse contadine e degli strati artigiani. Molte analogie con l’evoluzione siciliana presentava infine la Sardegna, che era tuttavia assai più povera e meno popolata e caratterizzata dalla prevalenza della pastorizia sull’agricoltura. 4. Le rivolte nell’Italia meridionale e insulare Una grave carestia e il malcontento creato dal fiscalismo spagnolo furono all’origine del fermento popolare a Palermo, che si espresse nel maggio 1647 con saccheggi e incendi di case. Il viceré spagnolo fu costretto ad abolire le odiate gabelle e ad approvare una riforma dell’amministrazione municipale che assegnava alle maestranze il controllo dell’annona e della polizia. Anche a Napoli la causa immediata della rivolta, esplosa il 7 luglio 1647, fu una nuova gabella che colpiva la vendita della frutta. La direzione del movimento fu assunta da Tommaso Aniello detto Masaniello, dietro al quale tuttavia si muovevano elementi borghesi che puntavano a una modifica degli ordinamenti politici del Regno. Dopo solo dieci giorni Masaniello venne ucciso, ma l’organizzazione politico-militare creata dai rivoltosi gli sopravvisse. Nell’ottobre, gli insorti napoletani proclamarono la repubblica e invocarono la protezione del re di Francia. Ma il cardinale Mazzarino si limitò ad appoggiare tiepidamente l’iniziativa personale di un gentiluomo francese, Enrico duca di Guisa. I contrasti tra il Guisa e il partito popolare e l’arrivo di una flotta spagnola segnarono il destino della “Real Repubblica” napoletana, che capitolò ai primi di aprile del 1648. Il fallimento della rivolta antispagnola a Napoli determinò indubbiamente un aggravamento della crisi economica e sociale già in atto nel Mezzogiorno d’Italia. Grazie al ritorno della pace, i viceré spagnoli che si succedettero nella seconda metà del Seicento condussero un’azione di contenimento della prepotenza baronale, di repressione del banditismo e di promozione del ceto civile e ministeriale. In Sardegna lo scontro tra la nobiltà isolana e il potere viceregio culminò nel clamoroso episodio dell’omicidio del viceré marchese di Camarassa. Un ultimo tentativo rivoluzionario ebbe luogo a Messina negli anni Settanta. Gli insorti messinesi chiesero soccorso a Luigi XIV. Ma il resto dell’isola rimase fedele alla sovranità spagnola e alla conclusione della pace (1678) la guarnigione francese evacuò la Sicilia, lasciando Messina esposta alla dura repressione che seguì. 5. I principati indigeni: Ducato di Savoia e Granducato di Toscana Il lungo regno di Carlo Emanuele I fu contraddistinto da iniziative espansionistiche che contribuirono al rafforzamento interno dello Stato e alla costruzione di un apparato militare e fiscale tale da permettere al Piemonte di giocare una parte non trascurabile sulla scena internazionale tra Sei e Settecento. Col trattato di Lione del 1601 Carlo Emanuele cedette al re di Francia la Bresse, il Bugey e altri territori transalpini e ottenne in cambio il Marchesato di Saluzzo. Negli anni che seguirono egli rivolse le sue ambizioni soprattutto in direzione orientale. Sterile di risultati fu la prima guerra del Monferrato (1614-15). La seconda guerra del Monferrato (1628-30) vide invece i piemontesi alleati con gli spagnoli contro i francesi. Il trattato di Cherasco (1631) firmato dal nuovo duca Vittorio Amedeo I sancì l’acquisizione di un certo numero di terre del Monferrato, ma al prezzo assai pesante della cessione alla Francia della fortezza di Pinerolo. Le enormi spese provocate da questa ambiziosa politica estera, le devastazioni perpetrate dalle soldatesche e la pestilenza del 1630 gettarono anche il Piemonte in una grave crisi economico-sociale, cui si aggiunsero gli effetti di una crisi dinastica. Ne approfittò la feudalità. Ma un risollevamento dell’economia piemontese si verificò già durante il regno di Carlo Emanuele II. Nel Granducato di Toscana i progressi compiuti in direzione del rafforzamento dello Stato sotto Cosimo I e i suoi due figli si arrestarono sotto i successori. Mentre le arti cittadine subivano un lento declino, nelle campagne rimase dominante il rapporto mezzadrile. Quasi spopolata era poi la Maremma senese. Al clima conformista e bigotto che dominava nella corte medicea si sottraevano in parte l’Università di Pisa e il porto franco di Livorno. 6. Le repubbliche oligarchiche e lo Stato della Chiesa Gli indirizzi di politica estera e interna adottati alla fine del Cinquecento dalla Repubblica di Venezia sotto l’influenza del partito dei “giovani”, determinarono una tensione crescente con la Santa Sede. L’arresto di due religiosi colpevoli di reati comuni attirò sulla Repubblica i fulmini del nuovo papa Paolo V. Di fronte al rifiuto di consegnare i due rei, il pontefice non esitò a scomunicare i suoi governanti e quindi a scagliare l’interdetto (1606). Il clero veneto non ubbidì all’ingiunzione e la Repubblica trovò uno strenuo difensore nel suo consultore in jure, il frate servita Paolo Sarpi. L’intervento nella controversia delle maggiori potenze cattoliche, Francia e Spagna, portò a una soluzione di compromesso che permise a Venezia di uscirne a testa alta. Con la guerra di Gradisca si voleva raggiungere l’obiettivo di indurre gli Asburgo d’Austria a togliere il loro appoggio agli uscocchi, pirati slavi che infestavano le acque dell’Adriatico. Non fu per iniziativa della Repubblica che fu combattuta, tra il 1645 e il 1669, la lunga e costosa guerra di Candia contro l’impero ottomano. Nonostante il valore dimostrato dai veneziani, l’isola di Creta dovette alla fine essere evacuata; e di breve durata si rivelerà la conquista del Peloponneso sancita dalla pace di Carlowitz del 1699. Un’importante ripercussione interna della guerra di Candia fu l’aggregazione al patriziato veneziano di oltre un centinaio di famiglie della terraferma. La misura rimase un episodio isolato, giacché passata l’emergenza si tornò alla tradizionale chiusura. Ridotta alla dimensione di un porto regionale, colpita dalle crisi di mortalità e dal declino delle sue maggiori attività manifatturiere, Venezia conservava tuttavia un tessuto artigianale ricco e variegato e sempre più attirava visitatori da ogni parte d’Europa. Nello Stato pontificio all’annessione di Ferrara seguì nel 1631 quella del Ducato di Urbino. Ma il versante adriatico dello Stato e ancor più le legazioni di Bologna e Ferrara rimasero amministrativamente e anche economicamente separati dalle regioni sud-occidentali. Mentre a nord dell’Appennino dominava il sistema mezzadrile, nella maggior parte del Lazio si estendevano enormi latifondi. Con questa desolazione faceva contrasto lo splendore architettonico e artistico della capitale. Nella seconda metà del Seicento, il prestigio internazionale del papato cominciò a declinare e apparvero sempre più evidenti i difetti di un governo temporale caratterizzato al tempo stesso dall’accentramento del potere nel sovrano e dalla mancanza di continuità dinastica. CAPITOLO 15: IMPERI E CIVILTA’ DELL’ASIA TRA XVI E XVIII SECOLO 1. La Cina sotto le dinastie Ming e Manciù I popoli dell’Asia aveva dato vita a grandi e millenarie civiltà. La più antica e la più prestigiosa era quella del “Celeste Impero” cinese, che proprio nell’età moderna raggiunse la sua massima estensione. Tra il 1400 e il 1600 la popolazione cinese si era all’incirca raddoppiata. Un tale sviluppo era sto reso possibile essenzialmente dalla perfezione cui era stata portata la coltura del riso. La risicoltura esigeva l’impiego di una manodopera abbondante. Accanto al riso e alle piante alimentari notevole sviluppo aveva altre coltivazioni come quelle del tè e del cotone. La centralità dell’agricoltura nell’economia cinese non impedì l’accumulo di sofisticate conoscenze tecniche e artigianali. In Cina ebbero origine molte scoperte cruciali per l’evoluzione della civiltà materiale. I cinesi avevano raggiunto livelli ineguagliati in Europa nella fusione del ferro, nella manifattura di porcellane e nella tessitura serica. Il commercio conobbe tra il XIV e il XVI secolo un grande sviluppo. Le condizioni di pace e di stabilità necessarie a questa espansione furono a lungo assicurate dalla dinastia Ming. Il potere era teoricamente tutto concentrato nelle mani dell’imperatore e la dottrina di Confucio esaltava sopra ogni altra la virtù dell’obbedienza e della sottomissione gerarchica. In pratica l’esecuzione degli ordini imperiale nelle 15 province era affidata a una classe di letterati-burocrati che si reclutava per concorso. Enormi ricchezze erano accumulate dagli eunuchi di corte. Il crescente prelievo fiscale e l’incremento demografico portarono a un peggioramento delle condizioni di vita dei contadini: estese rivolte contadine scoppiarono nel terzo e quarto decennio del secolo, e di questa situazione di anarchia approfittarono i manciù. Aveva così inizio la dinastia Q’ing, destinata a regnare fino al crollo del “Celeste Impero” nel 1911. I mancù imposero inizialmente la propria superiorità di popolo conquistatore. Ma il loro numero era troppo scarso per mantenere a lungo una distinzione etnica. Gli esami di concorso vennero dunque ripristinati fin dal 1656 e anche la tradizione confuciana venne ristabilita con l’”editto sacro” promulgato nel 1669. La popolazione riprese a crescere. L’immagine di ordine, di prosperità e di potenza che la Cina offriva agli occhi pieni di ammirazione dell’Occidente nascondeva però un irrigidimento crescente delle strutture economiche e sociali, un esasperato tradizionalismo nella sfera intellettuale e in campo tecnologico. 2. Il Giappone nell’”era Tokugawa” Lo Stato giapponese si era costituito nel VII secolo sul modello di quello cinese. Dalla Cina era venuto anche il buddismo, che si fuse con lo scintoismo. Nel lungo “Medioevo giapponese” l’autorità dei funzionari regi venne a poco a poco eclissata da quella dei grandi signori fondiari (daimyo), che potevano contare sulla devozione e i servizi di una classe di guerrieri di professione, i samurai o bushi. A partire dalla fine del XII secolo accanto all’imperatore (mikado), troviamo la figura del generalissimo (shogun). Il XVI secolo fu caratterizzato dallo scontro tra vari clan, guerre intestine che portarono tuttavia alla progressiva riunificazione del Paese sotto la guida di figure carismatiche come Oda Nobunaga e, successivamente, del samurai Toyotomi Hideyoshi. Con l’assunzione nel 1603 del titolo di shogun da parte di Tokugawa, il Giappone entrò nel lungo periodo denominato “era Tokugawa”. Fu caratterizzata al tempo stesso dalla persistenza delle strutture feudali e da un forte accentramento del potere. Un ulteriore carattere dell’era Tokugawa fu la chiusura delle frontiere verso l’esterno. I missionari giunti dall’Europa nel corso del XVI secolo furono cacciati o messi a morte. Anche i rapporti commerciali vennero ridotti al minimo. Questo isolamento non impedì tuttavia all’economia giapponese di continuare a svilupparsi. Benché i mercanti occupassero l’ultimo posto della gerarchia sociale, le esigenze di beni e di credito delle sfarzose residenze dei daimyo e l’espansione nelle campagne di colture rivolte al mercato, favorirono la crescita di una borghesia degli affari e la diffusione delle attività manifatturiere. Parallelamente si accentuava nei villaggi il divario tra i coltivatori più facoltosi e le masse dei contadini poveri. Nel Giappone dell’era Tokugawa intorno alla persona del re. Anche la letteratura, l’arte e la vita musicale trovarono per un certo periodo il loro centro ispiratore nella corte. Il soggiorno a Versailles si trasformava per la nobiltà francese in una prigione dorata, che costringendola a vivere sotto gli occhi del re e allentando i suoi legami con le clientele e i territori d’origine ne riduceva l’indipendenza e la possibilità di azione politica. Fuori dal cerchio magico di Versailles si estendeva il Paese. Oltre l’80% della popolazione viveva sulla terra e della terra. Le tecniche agricole non erano granché variate dai secoli del basso Medioevo. La scarsa produttività dell’agricoltura era legata alla struttura della proprietà, alle forme di conduzione prevalenti e all’entità del prelievo che gravava sui coltivatori del suolo. Accanto agli estesi possessi del clero, dei nobili e dei borghesi di città vi era una diffusa proprietà contadina. Il feudatario del luogo, ecclesiastico o laico, esigeva dovunque un censo annuo su tutte le terre sotto la sua giurisdizione e localmente anche una quota parte del raccolto, prestazioni di lavoro gratuite, tasse di successione, percentuali sulla compravendita dei poderi. A questi diritti signorili si aggiungevano le decime riscosse dal clero. Veniva poi il prelievo statale sotto forma di imposte dirette o indirette. Non stupisce quindi che la grande maggioranza degli abitanti delle campagne vivesse ai limiti della pura sopravvivenza, alla mercé delle cattive annate e delle carestie. Assai tenui o addirittura nulli erano per la massa della popolazione i benefici dello sfarzo e della gloria da cui era circondato il Re Sole. 3. La direzione dell’economia Assumendo il controllo delle finanze, Colbert si propose due obiettivi essenziali: rimediare al grave dissesto dei conti pubblici e rilanciare la stagnante economia francese. Il primo dei due obiettivi fu perseguito mediante l’istituzione di una Camera di giustizia straordinaria per indagare sugli illeciti arricchimenti che finanzieri, appaltatori e ricevitori delle imposte avevano potuto ottenere sfruttando i lunghi anni di guerre che avevano caratterizzato i decenni centrali del XVII secolo. Fu possibile, a forza di multe e confische, diminuire quindi il debito pubblico. L’incremento delle entrate e la lotta contro gli sprechi e le malversazioni permisero di ridurre di circa un terzo il peso della taglia e di raggiungere un sostanziale pareggio fra entrate e uscite nel decennio 1662-71. All’agricoltura era assegnato il compito subalterno di produrre viveri a basso costo, in modo da mantenere bassi i salari della manodopera e rendere così competitivi i manufatti. Lo sforzo principale era concentrato sulle manifatture che lavoravano per l’esportazione e sul commercio con l’estero, al fine di accrescere la massa di denaro circolante all’interno del Paese. Colbert pose in atto una complessa strategia: 1) Controllo sulla qualità dei prodotti; 2) Controllo della manodopera attraverso l’imposizione di una rigorosa disciplina e la reclusione coatta dei mendicanti nelle case di lavoro; 3) Concessione di sovvenzioni e privilegi agli imprenditori disposti a introdurre nuovi rami d’industria, e addirittura creazione di imprese con capitale pubblico (manifatture regie); 4) Protezionismo doganale; 5) Costituzione di cmpagnie privilegiate per il commercio con le varie aree del globo e impulso dato alla colonizzazione del Canada, della Louisiana e delle Antille; 6) Sviluppo della marina mercantile e da guerra e potenziamenti delle infrastrutture. Molte delle iniziative di Colbert avrebbero fruttato a distanza di tempo, nel più favorevole clima politico ed economico del regno di Luigi XV. 4. La direzione delle coscienze Il regno di Luigi XIV è caratterizzato in ogni campo dallo sforzo di dettare regole valide per tutti, di imporre l’ordine e l’uniformità non solo nei comportamenti, ma anche nei gusti e nelle idee. A questa tendenza non poteva certo sottrarsi la vita religiosa. In questo settore Luigi XIV si trovò ad affrontare tre ordini di problemi: 1) la diffusione della corrente giansenista; 2) i contrasti con Roma; 3) la questione ugonotta. I giansenisti poneva l’accenti sull’interiorità della fede e svalutavano l’apparato delle devozioni esteriori tipico del cattolicesimo postridentino. Roccaforte del movimento giansenista a Parigi era diventato il monastero di Port-Royal. La condanna definitiva di tale movimento da parte della Santa Sede fu pronunciata solo nel 1711 con la bolla Unigenitus. Il giansenismo si era però nel frattempo largamente diffuso. Se il giansenismo poté godere di una tregua prolungata nella fase centrale del regno di Luigi XIV, fu anche perché esso si trovò oggettivamente schierato dalla parte della monarchia nel conflitto che oppose quest’ultima alla curia di Roma a proposito della cosiddetta régale. Si trattava del diritto regio di percepire le rendite dei seggi vescovili vacanti e di conferire i benefici ecclesiastici da essi dipendenti fino alla presa di possesso del successore. Nel 1673, Luigi XIV estese questo diritto a tutte le diocesi di nuovo acquisto, suscitando la dura reazione della Santa Sede. Inoltre nel 1682 un’assemblea straordinaria del clero francese approvò una dichiarazione in quattro articoli che affermava la superiorità del Concilio sul pontefice e negava l’infallibilità di quest’ultimo. Una questione ben più grave era il permanere nel Paese di una forte minoranza protestante. Nel 1685 venne emanato l’editto di Fontainebleau, che annullava di fatto l’editto di Nantes e faceva obbligo a tutti i francesi di riconoscere e praticare il culto cattolico. In Francia il calvinismo sopravvisse clandestinamente. 5. La gloria militare: le guerre di Luigi XIV Ingenti somme furono spese dagli ambasciatori e dagli agenti del Re Sole per assicurarsi l’alleanza dei principi tedeschi, degli Stati baltici e dello stesso re d’Inghilterra Carlo II, per corrompere e ricattare ministri e diplomatici stranieri, per suscitare rivolte nei Paesi nemici. L’esercito fu sistematicamente riorganizzato. Alle vecchie forme di reclutamento si aggiunse un embrione di coscrizione obbligatoria, la “milizia”. Grande sviluppo ebbero i corpi dell’artiglieria e del genio, e le piazzeforti vennero potentemente fortificate. Le linee direttrici della politica di espansione militare di Luigi XIV nei decenni finali del XVII furono concentrate in particolar modo contro le Fiandre e l’Olanda, e in direzione della Germania e dell’Italia del Nord. Ci fu poi la guerra di Devoluzione contro la Spagna. L’occupazione francese della parte meridionale dei Paesi Bassi (1667) preoccupò l’Olanda e l’Inghilterra che, insieme all’imperatore Leopoldo I, esercitarono forti pressioni su Luigi XIV perché interrompesse la sua avanzata. Con la pace di Acquisgrana (1668) furono riconosciuti al re di Francia i vantaggi territoriali fino allora acquisiti nelle Fiandre. Ma il risentimento del Re Sole nei confronti dell’Olanda portò di lì a pochi anni alla riapertura delle ostilità. Nel marzo 1672 la Francia e l’Inghilterra, con il re di Scozia, dichiararono guerra alle Province Unite. Gli Stati generali olandesi opposero allora la decisione disperata di aprire le dighe, trasformando così l’Olanda propriamente detta in un’isola difficilmente accessibile. Il ruolo di guisa assunto dello statolder Guglielmo III d’Orange, l’entrata in guerra di Spagna e Impero contro la Francia, la decisione dell’Inghilterra di firmare una pace separata con l’Olanda e la sconfitta dell’alleato svedese imposero infine a Luigi XIV la firma della pace di Nimega. Luigi XIV riprese quasi subito la sua politica di espansione occupando una serie di territori, tra cui Strasburgo e Casale nel Monferrato. Nel 1683-84 riaprì inoltre le ostilità contro la Spagna. Ma di fronte alla rinnovata politica d’aggressione del re francese, fu inevitabile il ricostituirsi di una nuova coalizione europea. Nel luglio 1686 venne stipulata ad Augusta una Lega difensiva tra Spagna, Impero, Svezia e Olanda. Il fattore scatenate fu costituito dall’invasione militare del Palatinato ordinata da Luigi XIV nell’autunno 1688. Nel corso del 1689 alla Lega d’Augusta aderirono anche l’Inghilterra e il duca di Savoia Vittorio Amedeo II. Sul mare la flotta francese venne distrutta da quella inglese a La Hougue nel maggio 1692; anche nei Paesi Bassi gli eserciti di Luigi XIV incontrarono un’accanita resistenza. Nel 1696 Luigi XIV stipulò una pace separata con il duca di Savoia, cui cedette la fortezza di Pinerolo. La pace generale, firmata a Ryswick nell’autunno 1697, ristabilì per il resto la situazione antecedente il conflitto e annullò parte delle annessioni francesi degli anni Ottanta. 6. Il tramonto del Re Sole Il peso diretto e indiretto della guerra divenne per i sudditi sempre più intollerabile. Al malessere generale determinato dalla miseria, dalla guerra, dalle tasse e dalle carestie fa riscontro un incupirsi della vita di corte a Versailles, dove il vecchio re, morta nel 1683 la prima moglie Maria Teresa d’Asburgo, era caduto sotto l’influenza della bigotta madame Francoise d’Aubigné de Maintenon (matrimonio morganatico). L’opposizione sorda, ma diffusa, contro l’assolutismo di Luigi XIV si manifestava in vari modi. Anche nella filosofia, nella vita religiosa, nella letteratura e nell’arte si affermavano nuovi indirizzi che sempre più apertamente ponevano in discussione i principi sostenuti e imposti dalla corte. Gli ultimi anni di Luigi XIV furono contristati da lutti famigliari. Il 1° settembre 1715 a Parigi e nei dintorni si accesero fuochi di gioia alla notizia della morte del vecchio despota. Il successore era un bambino, Luigi d’Angiò, il secondo figlio del duca di Borgogna: per la Francia si profilava dunque un’altra reggenza, la terza in poco più di cent’anni. CAPITOLO 17: I NUOVI EQUILIBRI EUROPEI TRA SEI E SETTECENTO 1. La Gloriosa rivoluzione e l’ascesa della potenza inglese Carlo II Stuart poté godere di una certa libertà di manovra da un lato grazie all’incremento naturale dell’entrate ordinarie e dall’altro per effetto del trattato stipulato nel 1670 a Dover con il re di Francia, che, in cambio della promessa dello Stuart di prestargli man forte contro l’Olanda e di adoperarsi a favore di una restaurazione del cattolicesimo oltremanica, si impegnava a versargli un consistente sussidio annuo. Le inclinazioni filocattoliche del monarca suscitarono ben presto i sospetti e l’ostilità di un’opinione pubblica sensibile al pericolo del papismo. Nel 1673 il Parlamento votò un Test Act, che subordinava l’assunzione di cariche civili o militari alla professione di una fede anglicana. Di fronte ai problemi religiosi e dinastici si crearono in questi anni due schieramenti politici. I tories, rappresentanti degli interessi agrari della gentry, erano fautori della monarchia di diritto divino, del legittimismo dinastico, della Chiesa anglicana; i whigs, che si identificavano con i ceti commerciali e urbani, erano sostenitori del Parlamento e di un più vasto fronte protestante. Dopo il 1680 la politica regia si sviluppò in senso chiaramente assolutistico. Giacomo II, salito al trono alla morte del fratello (1685), si adoperò subito per il rafforzamento dell’esercito. Le disposizioni del Test Act vennero annullate nel 1687 da una Dichiarazione di indulgenza. I maggiori esponenti whig e tory si accordarono per rivolgere un appello allo statolder d’Olanda Guglielmo III. Guglielmo organizzò una spedizione militare e il 15 novembre 1688 sbarcò a Torbay, mentre Giacomo II fuggì in Francia. Un “Parlamento di convenzione” convocato da Guglielmo dichiarò il trono vacante e offerse la corona congiuntamente a Guglielmo e a Maria, che si impegnarono a osservare una Dichiarazione dei Diritti da esso votata. Alla Dichiarazione dei diritti fece seguito quello stesso anno un Atto di tolleranza. Il Triennial Act del 1694, imponeva poi l’elezione di un Parlamento almeno ogni tre anni, l’abolizione della censura sulla stampa (1695) e l’Act of Settlement del 1701, che fissava l’ordine di successione al trono in modo da escludere i cattolici. La Gloriosa rivoluzione del 1688-89 fu una svolta che sbarrò per sempre la strada all’assolutismo e aprì la via verso la monarchia costituzionale. Il teorico più conseguente di questa svolta fu il filosofo John Locke: Due trattati sul governo . Il mutamento al vertice della monarchia inglese ebbe come conseguenza immediata il suo ingresso nella coalizione europea che nel 1689 aprì le ostilità contro la Francia. L’espansione senza precedenti delle spese militari contribuì a determinare una serie di importanti novità in capo fiscale e amministrativo. L’”accisa” venne estesa a nuovi generi di largo consumo e al suo fianco venne introdotta un’imposta fondiaria proporzionale al reddito presunto. Venne fondata nel 1694 la Banca d’Inghilterra, abilitata a emettere buoni che circondarono ben presto come carta moneta. L’amministrazione delle finanze, della flotta e dell’esercito richiese la costituzione di una burocrazia statale centrale e periferica. Il fatto che l’onere delle imposte gravasse in larga misura sui proprietari terrieri spiega l’ostilità della gentry di campagna, schierata su posizione tory, contro la politica estera aggressiva voluta dai whigs, sui quali la monarchia si appoggiò costantemente dal 1690 al 1710. L’economia inglese continuò a svilupparsi a ritmi sostenuti. 2. L’espansione della monarchia austriaca Nel corso della guerra dei Trent’anni era stato sconfitto il disegno di restaurazione cattolica e imperiale coltivato dagli Asburgo d’Austria; in compensi, però, gli Stati ereditari avevano una compattezza nuova, basata sulla fedeltà dinastica e sul sentimento religioso tipico della Controriforma. Questo nuovo senso di unità è percepibile anche nel rafforzamento degli organi centrali di governo e nella costituzione di un forte esercito permanente, riorganizzato dal grande stratega italiano Raimondo Montecuccoli. Da questa società russa doveva in realtà attuarsi in tempi molto più lunghi. Un risultato immediato del suo tempestoso regno fu invece l’ascesa della Russia al rango di grande potenza militare e il suo ingresso a pieno titolo nei giochi delle alleanze e nei calcoli delle diplomazie europee. 5. La nascita dello Stato prussiano Solo dopo lunghi negoziati l’elettore Federico Guglielmo di Hohenzollern ottenne dai nobili che dominavano nella Dieta del Brandeburgo i mezzi per la costituzione di un piccolo esercito permanente. Nel 1660, approfittando delle sconfitte inflitte alla Polonia dalla Svezia, egli acquisì con la pace di Oliva la piena sovranità sulla Prussia. Nelle campagne brandeburghesi e prussiane i grandi proprietari fondiari, detti Junker, esercitavano un dominio pressoché assoluto sui contadini. In cambio della disponibilità ad accettare un maggior accentramento dei poteri nella persona del sovrano, gli Junker viero salvaguardati e rafforzati i loro privilegi. Per mettere la propria forza militare al servizio della coalizione antifrancese nella guerra di Successione spagnola, il figlio di Federico Guglielmo chiese e ottenne dall’imperatore il titolo di re di Prussia come Federico I. le premesse per la spettacolare ascesa della potenza prussiana furono poste però soprattutto dal successore Federico Guglielmo I. Egli ridusse al minimo le spese per la corte e dedicò le sue migliori cure alla formazione di un forte esercito. I mezzi finanziari per il mantenimento dell’esercito furono forniti in buona parte dal demanio regio. Fu inoltre riorganizzata la percezione delle due imposte principali, la contribuzione e l’accisa. Nuovi commissari regi furono introdotti nelle città, mentre nelle campagne l’amministrazione rimase affidata a commissari rurali scelti tra le file degli Junker. Al vertice dell’edificio amministrativo venne istituito nel 1723 un Direttorio generale della guerra, delle finanze e del demanio. La burocrazia era reclutata per lo più tra la borghesia colta ed era sottoposta alla volontà dispotica del sovrano. Al fine supremo della potenza dello Stato fu subordinata anche l’azione del governo per promuovere le manifatture e gli scambi e per attirare nel Paese profughi per motivi religiosi. Alla sua morte, Federico Guglielmo I lasciava al figlio, oltre a un potente esercito e a un’amministrazione efficiente, un Paese in via di sviluppo, ingrandito nel 1721 con l’annessione della Pomerania svedese. CAPITOLO 18: UNA NUOVA EPOCA DI ESPANSIONE 1. L’aumento della popolazione europea A metà Settecento tutto il vecchio continente è trascinato in un moto espansivo che si manifesta in ogni settore. L’espansione settecentesca si differenzia da quella del “lungo Cinquecento” per il suo carattere irreversibile. L’Europa vide crescere il numero dei suoi abitanti del 63,5%. La stessa tendenza interessò in misura di poco inferiore anche l’Asia e le due Americhe. Non sembra esservi un nesso sicuro tra sviluppo economico e andamento demografico. L’aumento della popolazione appare in relazione inversa con la densità della stessa. L’aspettativa di vita media in Europa attorno al 1700 era di circa trent’anni. Fino a non molti anni fa, gli studiosi spiegavano generalmente la crescita demografica con un calo della mortalità. La peste fece le sue ultime apparizioni di rilievo. Rimanevano però altre malattie a carattere epidemico, contro le quali la medicina del tempo era del tutto impotente. La diminuita gravità delle carestie può essere a sua volta spiegata con la maggiore rapidità dei trasporti e con l’accresciuta efficacia degli interventi governativi nelle aree colpite. Le guerre combattute dopo il 1720 fecero meno danni e meno vittime tra la popolazione civile di quelle del Seicento e del primo Settecento. Di recente altri studiosi hanno posto l’accento sull’aumento della natalità come causa concomitante o addirittura prevalente dell’incremento demografico. L’aumento delle nascite trova spiegazione principalmente nel calo dell’età matrimoniale della donna e nella diminuzione percentuale del celibato; tali fenomeni sono legati alla diffusione del lavoro salariato. In Irlanda, l’elevatissimo ritmo di crescita si spiega essenzialmente con la diffusione della patata come alimento base degli irlandesi. Il fallimento per due anni consecutivi del raccolto delle patate condurrà negli anni 1846-47 a una catastrofe demografica senza precedenti. 2. L’evoluzione dell’agricoltura Ancor prima della patata furono il mais e il grano saraceno a integrare l’alimentazione delle classi popolari e consentire un balzo in avanti della popolazione. I rendimenti rimasero per lo più modesti. Generale era la scarsità del concime animale; ancora largamente predominanti la rotazione triennale e il sistema dei campi aperti, sui quali dopo il raccolto pascolavano le bestie di tutta la comunità di villaggio. Rispetto ai secoli precedenti si allargano nel Settecento le aree in cui si pratica un’agricoltura più intensiva e produttiva. L’abbondanza di concime animale e le proprietà fertilizzanti di piante come il trifoglio, l’erba medica, la lupinella, che restituiscono alla terra l’azoto sottratto dalle colture cerealicole, elevano d’altra parte i rendimenti di quest’ultime. Questo tipo di gestione, presuppone la costituzione di aziende compatte di ragguardevoli dimensioni e il loro affitto a media o lunga scadenza a veri e propri imprenditori agricoli, muniti di capitali per l’acquisto del bestiame, le anticipazioni ai proprietari e la remunerazione della manodopera salariata. Quanto si è detto del caso lombardo può applicarsi anche ad altre zone di agricoltura intensiva sparse in Europa tra Spagna, Francia, Paesi Bassi, Danimarca, Germania, e caratterizzate dall’eliminazione del maggese e dalla stretta associazione di agricoltura e allevamento. Il quadro della rivoluzione agricola inglese non è sostanzialmente diverso. Il fenomeno delle “recinzioni” conobbe il momento di maggiore intensità tra la metà del Settecento e il 1815. Sostituire le parcelle sparse con tenute compatte, che a differenza delle prime si prestavano a essere recintate e sfruttate con tecniche progredite, significava procedere a una complessa ricomposizione fondiaria, per la quale era teoricamente necessario l’accordo di tutti i proprietari del villaggio. Nel Settecento i maggiori proprietari di una comunità presentavano una domanda al Parlamento, che emetteva uno speciale “decreto di recinzione” e nominava un perito agrimensore per effettuare la redistribuzione delle terre. I piccoli proprietari erano spesso indotti a vendere e a trovare lavoro come fittavoli o salariati nelle grandi aziende. I benefici delle recinzioni furono raccolti soprattutto dai grandi proprietari. In queste grandi aziende compatte trovavano facile applicazione le nuove rotazioni sul tipo del famoso “ciclo del Norfolk”. Nell’Inghilterra settecentesca fecero progressi anche le tecniche di incrocio tra le razze animali, la selezione delle sementi e il perfezionamento degli attrezzi agricoli. Gli incrementi di produttività ottenuti per queste vie consentirono di mantenere una proporzione crescente di non addetti all’agricoltura. Fu questo forse il più rilevante contributo della rivoluzione agricola alla Rivoluzione Industriale. 3. Prezzi e salari, moneta, trasporti L’universale interesse per l’agricoltura che si manifesta nella seconda metà del Settecento si spiega in parte con la tendenza all’ascesa dei prezzi e quindi con l’aumento dei profitti e dei redditi legati alla commercializzazione delle derrate e al possesso della terra. Nella rincorsa tra prezzi e salari, questi ultimi rimasero nettamente indietro. All’origine del rialzo dei prezzi agricoli nel periodo considerato vi è l’aumento della domanda legato all’incremento demografico. Ad accentuare il fenomeno contribuì però indubbiamente un grande processo di inurbamento. L’incremento della popolazione di risolse in molte aree in un processo di impoverimento e di proletarizzazione di vasti strati sociali. Un altro fattore di inflazione fu rappresentato dall’aumento della massa di metalli preziosi in circolazione: la produzione delle miniere d’argento del Messico e la scoperta di ricchi giacimenti auriferi nel Brasile. La massa dei mezzi di pagamento a disposizione degli operatori economici fu inoltre accresciuta dal ricorso ormai universale alle cambiali e, in Inghilterra, delle banconote. La diffusione dell’economia monetaria e la maggiore disponibilità di capitali per i più diversi impieghi sono attestate dalla discesa dei saggi di interesse. Un altro fattore che portò alla più rapida e intensa circolazione del denaro, delle merci e degli uomini nell’Europa del Settecento fu il miglioramento dei trasporti. 4. Il boom del commercio e lo sviluppo dell’America Latina Tutti i fattori fin qui elencati contribuirono a fare del XVIII secolo un'età aurea per il commercio internazionale. Se Amsterdam restava un grande centro della finanza internazionale, la sua funzione di emporio mercantile fu ereditata in parte da Londra, in parte da Amburgo. Anche il Mediterraneo conobbe una notevole ripresa dei traffici. Il contributo maggiore allo sviluppo dei traffici venne tuttavia dell'oceano Indiano e dell'Atlantico, grazie soprattutto all'espansione del commercio inglese e francese con le colonie. La colonizzazione e lo sfruttamento del continente americano conobbero nel XVIII secolo una grande accelerazione. L'aumento della popolazione del Nuovo Mondo fu dovuto sia all'immigrazione di europei e alla tratta degli schiavi neri africani, sia a un tasso di riproduzione particolarmente elevato. La parte centro- meridionale del continente americano rimase divisa tra la Spagna e il Portogallo. Tra Sei e Settecento la colonizzazione spagnola si estese dal Messico verso nord, fino a comprendere gli attuali territori statunitensi dal Texas alla California, e dalla Cordigliera delle Ande verso l'interno. La concentrazione della proprietà terriera in poche mani favorì la formazione di enormi latifondi dove si praticavano un'agricoltura estensiva e un allevamento brado. La manodopera era costituita dagli indios sopravvissuti e dai meticci, non più schiavi, ma vincolati ai datori di lavoro da contratti iniqui e dall'indebitamento. Lo stesso modello seguirono gli insediamenti nelle pampas argentine. La presenza portoghese in Brasile gravitò a lungo intorno a Pernambuco e Bahia, dove si sviluppò a aprire da metà Cinquecento la produzione dello zucchero. Più a sud i coloni organizzavano spedizioni verso l'interno per catturare indios da vendere come schiavi. Fu nel corso di queste scorrerie che essi scoprirono grandi quantità di oro, e più tardi di diamanti. La coltivazione della canna da zucchero trovò il suo terreno di elezione nelle Grandi Antille e nelle Piccole Antille. Furono soprattutto i francesi e gli inglesi a sviluppare nel XVIII secolo la produzione dello zucchero in un vero e proprio sistema di monocultura che richiedeva continue importazioni di schiavi neri. 5. I caratteri originali della Rivoluzione industriale Il termine "Rivoluzione industriale" designa un complesso di trasformazioni nel modo di produrre manufatti, in cui sono compresi la diffusione su larga scala di macchine azionate da energia inanimato, la conseguente concentrazione del lavoro nelle fabbriche, il rapido e vistoso aumento della produttività, un corrispondente aumento del mercato di vendita, infine i mutamenti nei consumi, negli stili di vita, nei rapporti e nelle strutture sociali connessi a tali innovazioni. La maggior parte degli studiosi concorda nel collocare in Gran Bretagna tra il 1780 e il 1830 la fase del decollo vero e proprio della Rivoluzione industriale, le cui premesse stanno però nel peculiare sviluppo dell'economia inglese nei due secoli precedenti. I progressi dell'agricoltura furono nei secoli XVII e XVIII il motore dello sviluppo economico complessivo. In questo quadro apparivano giustificati i timori nutriti da economisti come Malthus per un possibile riprodursi di quello squilibrio tra popolazione e risorse alimentari già altre volte verificatosi nella storia. Eppure già nel XVII e XVIII secolo erano presenti alcuni elementi di quella svolta nell'organizzazione produttiva che era destinata a far saltare questi vincoli. Il principale di tali fattori era il ruolo crescente del carbon fossile non solo per il riscaldamento domestico, ma in molte lavorazioni industriali. Gli incrementi di produttività ottenuti con questi mezzi furono tali da consentire per la prima volta un aumento demografico autosostenuto e un progressivo miglioramento dei salari e nel tenore di vita. Naturalmente per il passaggio dalle antiche manifatture al sistema di fabbrica si richiedevano altre condizioni. In primo luogo sono da considerare i limiti che rendevano la manifattura poco adatta a una produzione di massa. Inoltre era molto difficile accelerare i ritmi produttivi. In secondo luogo occorrevano altri requisiti: una domanda in continua espansione; l'accesso a un mercato interno e internazionale molto vasto; l'esistenza di strozzature in certi fase del processo produttivo a causa della scarsità di manodopera; la capace tecnica e inventiva per la costruzione di congegni meccanici atti a risparmiare lavoro; la disponibilità di capitali e di energie imprenditoriali disposte a pericolosi investimenti; la fiducia nella stabilità del quadro politico e legislativo e in particolare nella tutela dei diritti di proprietà sia sulle merci, sia sulle innovazioni tecnologiche. 6. Dall’età del cotone all’età del ferro Nei primi decenni del Settecento, la manifattura di gran lunga più importante in Inghilterra rimaneva quella della lana. Contro i tessuti di cotone era stato perfino emanato un divieto nel 1721, proprio al fine di proteggere le industrie della lana e della seta. Il divieto venne successivamente attenuato (1753) e poi riempire. Chi più compiutamente elaborò l’empirismo di Locke nel sensismo fu Etienne Bonnot, abate di Condillac. Procedendo per questa via, alcuni filosofi si spinsero fino a un materialismo integrale, cioè alla riduzione di tutto ciò che esiste a pura materia. Altri ancora, tra cui David Hume, svilupparono l’empirismo lockiano in una direzione diversa, che portava alla negazione del concetto di sostanza e del concetto stesso di legge causale. In stretta correlazione con l’empirismo e il sensismo è un altro filone centrale del pensiero illuministico, l’utilitarismo. Il bene deve coincidere con il piacere soggettivo o con la cessazione del dolore. Il perseguimento anarchico del piacere da parte dei singoli individui distruggerebbe i presupposti stessi del vivere sociale. Molti scrittori settecenteschi si sforzavano così di costruire una morale individuale e sociale basata sull’utile rettamente inteso. Alcuni (Hume) presuppongono l’esistenza nell’uomo di un innato “senso morale”. Altri, come Helvétius e Bentham, riducono la morale a un calcolo matematico dei piaceri e dei dolori. La figura dominante nel panorama scientifico europeo è senza dubbio l’inglese Isaac Newton. Le sue opere imposero un metodo scientifico basato sul rifiuto delle ipotesi astratte e sulla sintesi tra indagine sperimentale e procedimento matematico; le sue teorie divenne ben presto il simbolo stesso dei Lumi. L’autorità di Newton rimase indiscussa per tutto il XVIII secolo, ma gli sforzi degli scienziati si vennero sempre più rivolgendo a settori diversi dalla meccanica e dalla fisica. La botanica e la zoologia fecero decisivi passi avanti con la classificazione delle specie operata da Linneo e con la monumentale opera del francese Leclerc de Buffon; in biologia uno dei principali terreni di dibattito fu quello relativo ai meccanismi della generazione (Lazzaro Spallanzani); la chimica fu rifondata da Lavoisier; i fenomeni elettrici furono per la prima volta studiati scientificamente dall’americano Benjamin Franklin e dagli italiani Luigi Galvani e Alessandro Volta. Nel Settecento la scienza e gli scienziati godettero di un prestigio senza precedenti sia all’interno delle istituzioni, sia agli occhi di un pubblico colto pronto a entusiasmarsi di fronte alle nuove scoperte, ai risultati dei viaggi di esplorazione, a invenzioni sorprendenti, e perfino di fronte a visionari e ciarlatani. 3. La “pubblica felicità” Anche in campo politico non si può parlare dell’Illuminismo come di un movimento unitario, pur se talune premesse sono generalmente condivise: tra queste il tramonto della ragion di Stato e della teoria del diritto divino dei re, l’idea che il potere deve essere esercitato nell’interesse comune dei sudditi, al fine di realizzare la “pubblica felicità”, la delimitazione di una sfera più o meno ampia di libertà privata. Montesquieu, in Lo spirito delle leggi (1748) dice: “Le leggi sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”. A Montesquieu non interessava fornire precetti universalmente validi per il governo dei popoli, ma scoprire i principi e i meccanismi che regolano i vari ordinamenti politici. Questi sistemi si riducono a tre tipi fondamentali: il dispotismo, la monarchia e la democrazia. Traspare la preferenza di Montesquieu per le monarchie temperate, il cui modello è l’Inghilterra. Qui la garanzia maggiore per le libertà individuali sta nella divisione dei poteri. La seconda corrente era quella dell’assolutismo o dispotismo “illuminato” che aveva il pregio di combattere i particolarismi e i privilegi locali e di ceto. Questa teoria ebbe i suoi principali centri di elaborazione nell’Europa centrale e mediterranea; tra le personalità più note si accostò a essa soprattutto Voltaire. Jean-Jacques Rousseau è il maggiore esponente di un terzo orientamento, quello democratico. Secondo Rousseau il passaggio dell’uomo dallo “stato di natura” allo “stato sociale” aveva dato inizio a un processo di degenerazione morale i cui sintomi erano le enormi diseguaglianze sociali, il lesso sfacciato dei ricchi, la corruzione imperante e la stessa raffinatezza delle arti e delle tecniche. Per uscire da questa situazione l’unica via era quella di una rifondazione della società, di un patto attraverso la cessione totale di tutti i propri diritti alla comunità. L’unione delle volontà particolari in una volontà generale potenzia la libertà degli individui. La sovranità, che risiede nel popolo, è per sua natura inalienabile e indivisibile e non può neppure essere delegata in permanenza. L’essenziale è che il governo si limiti a eseguire la volontà generale e che governanti e magistrati siano revocabili in qualsiasi momento. Il collante indispensabile è la virtù. L’Emilio e la Nouvelle Heloise furono gli scritti di Rousseau che riscossero il maggior successo presso i contemporanei. Questo successo fu dovuto all’ideale che vi era proposto di un vivere secondo natura, alla forza del sentimento contrapposto all’arida ragione, alla denuncia delle ipocrisie. 4. Correnti europee dell’Illuminismo Non sembra avere avuto successo il tentativo recente di scomporre l’Illuminismo in movimenti diversi a seconda dei contesti e dei caratteri nazionali. Nelle isole britanniche con l’avanzare del secolo XVIII alcuni dei contributi più originali provennero dalla Scozia. Hutcheson, Hume, Robertson e Adam Smith. La fioritura della narrativa fu invece opera di scrittori sostanzialmente inglesi: Daniel Defoe, Samuel Richardson, Oliver Goldsmith. Nei paesi di lingua tedesca rimase viva per tutto il Settecento la corrente del giusnaturalismo che sosteneva l’esistenza di un diritto naturale anteriore al costituirsi delle singole formazioni politiche e comune a tutti gli uomini (Pufendorf, Wolff). L’ossequio alla religione cristiana e al primato dello Stato si coloro di toni più arditi e spregiudicati in Lessing e Herder. L’incontro tra quest’ultimo e Goethe nel 1770 fu uno degli eventi da cui scaturì il movimento letterario detto Sturm und Drang, in cui si mescolarono motivi illuministici e tratti preromantici, rappresentati da Friedrich von Schiller. Nella figura di Goethe e nella costruzione filosofica di Immanuel Kant si compendia il grande contributo della cultura tedesca alla transizione tra la stagione dei Lumi e l’età del Romanticismo e dell’idealismo. Gli illuministi italiani si occuparono delle riforme da operare nei vari settori per ridurre i privilegi e i poteri della Chiesa, promuovere il progresso agricolo ed economico, razionalizzare e rendere più equo il prelievo fiscale, ammodernare il diritto e l’amministrazione della giustizia. Il trattatello Dei delitti e delle pene (1764) di Beccaria denunciava le assurdità e l’inumanità delle procedure giudiziarie in uso. Altri riformatori furono Pietro Verri, Pompeo Neri, Antonio Genovesi e Gaetano Filangeri. Dovunque, nella seconda metà del secolo XVIII, al linguaggio dei doveri tese ad affiancarsi e a sostituirsi il linguaggio dei diritti, ben presto rilanciato dall’insurrezione delle tredici colonie nordamericane e dalla Rivoluzione francese. 5. Una nuova scienza: l’economia Fino alla metà del Settecento, le idee economiche prevalenti si possono ricondurre generalmente al mercantilismo. Nella seconda metà del secolo presero forma, soprattutto in Francia e in Inghilterra, una nuova concezione della vita economica come un sistema di rapporti tra gli uomini e le classi sociali regolato da “leggi naturali” che i governi non possono impunemente violare. Tali idee furono affermate in Francia dalla scuola fisiocratica fondata da Quesnay. Due sono i presupposti fondamentali della dottrina fisiocratica: 1) la convinzione che solo l’agricoltura sia produttrice di nuova ricchezza; 2) il surplus derivato dall’attività agricola costituisce la rendita fondiaria che i fittavoli devono ai proprietari del suolo a titolo di compenso delle anticipazioni fondiarie. Su queste premesse si basa il Tableau économique, lo schema elaborato nel 1756 da Quesnay di circolazione delle ricchezze tra le tre classi economiche, la “classe proprietaria”, la “classe produttiva” e la “classe sterile”. Conseguenze della teoria fisiocratica sulla politica economica dei governi: 1) questi non dovevano danneggiare l’attività agricola con tasse e balzelli mal congegnati: l’unica imposta legittima è quella che preleva direttamente dai proprietari una parte del prodotto netto; 2) essi dovevano lasciare completamente libero il commercio delle derrate. Il vero modo di sconfiggere le carestie era di non intralciare il movimento dei grani e di promuovere al tempo stesso l’incremento della produzione. La tendenza liberista propria dei fisiocrati fu rielaborata in una visione più ampia dei fatti economici dallo scozzese Adam Smith. Il più importante fattore di progresso economico è, secondo lui, la divisione del lavoro: specializzandosi in un’unica operazione, l’operaio impara a eseguirla rapidamente e perfettamente. Nella determinazione del prezzo entrano però anche, insieme al salario dei lavoratori, la remunerazione del capitale investito dagli imprenditori e la rendita dovuta ai proprietari del suolo. Le tre classi “Naturali” di Smith non coincidono con quelle di Quesnay. In comune con i fisiocratici Smith ha invece la fede nell’esistenza di un ordine naturale benefico: ciascun operatore economico agisce per il proprio tornaconto, ma senza saperlo promuove al tempo stesso l’interesse generale della società, come se fosse guidato da una “Mano invisibile”. 6. La circolazione delle idee Due fenomeni tipici dell’età dei Lumi furono la circolazione delle idee e delle conoscenze in strati sociali molto più ampi e la formazione di un’opinione pubblica permeata dalla fede nella ragione e nel progresso. Largamente dominante dalla tradizione rimasero le istituzioni scolastiche e in particolare le università, dove si mantenne la vecchia tripartizione di Teologia, Giurisprudenza e Medicina; tuttavia qua e là si fondarono nuove cattedre e si ammodernarono i contenuti e i metodi dell’insegnamento. Più tardivo fu l’interessamento dello Stato per l’istruzione elementare e secondaria, lasciata alla Chiesa o alle scuole private. Tuttavia l’alfabetizzazione fece notevoli progressi nel XVIII secolo. Non bisogna comunque confondere il numero degli alfabetizzati con il numero dei lettori di libri. Grande fortuna ebbero le opere di divulgazione, tra le quali si può far rientrare l’ Enciclopedia diretta da d’Alambert e Diderot . Un posto di rilievo nell’editoria settecentesca spetta alla stampa periodica: accanto alle gazzette, si moltiplicarono i giornali letterali e la stampa di opinione. L’espressione più caratteristica della civiltà dei Lumi sono i nuovi centri di aggregazione sociale: i salotti, le accademie e le logge massoniche. La prima vera associazione massonica fu la Grande Loggia di Londra, fondata nel 1717 da due pastori protestanti; il nome e i simboli si richiamavano alla tradizione delle corporazioni medievali. Dall’Inghilterra la massoneria si diffuse negli anni Venti e Trenta sul continente, portando anche alla prima condanna da parte della Chiesa di Roma. Giuseppe Balsamo, detto Cagliostro, divenne ricco e celebre esercitando in tutta Europa arti di guaritore e di mago e fondando una massoneria di tipo egiziano. Tali deviazioni non devono far dimenticare che della massoneria fecero parte molti dei migliori ingegni del secolo e perfino sovrani, né l’esistenza di una vera e propria cultura massonica di alto livello. Le logge massoniche e le altre forma di socialità tipiche del secolo furono la migliore confutazione di una rigida definizione dell’Illuminismo come cultura borghese. In esse si mescolavano nobili, borghesi ed ecclesiastici. Attacchi contro i privilegi legati alla nascita e contro l’ozio e l’alterigia dei nobili certo non mancano nel Settecento e si fanno più frequenti nella seconda metà del secolo: ma pochi sono animati da un conseguente egualitarismo; per lo più si mira alla costituzione di una nuova élite sociale. CAPITOLO 20: FRANCIA E INGHILTERRA NEL SETTECENTO: UN DUELLO SECOLARE 1. La Francia dalla Reggenza al ministro Fleury Alcuni storici hanno parlato di “seconda guerra dei Cento anni” a proposito della serie di conflitti che opposero la monarchia francese e quella britannica tra il 1689 e il 1815. In verità lunghe parentesi di pace contrassegnarono i trentenni 1713-44 e 1763-93. Ma anche nel corso di questi periodi non vennero meno la tradizionale rivalità tra i due Paesi. La linea quasi costantemente seguita dall’Inghilterra fu quella di cercare alleati sul continente per tenere impegnata militarmente la Francia e allo stesso tempo di rafforzare e ampliare il proprio dominio dei mari e il proprio impero coloniale. La monarchia dei Borbone finì per avere la peggio nel confronto con la rivale. Alla morte di Luigi XIV si rese necessario l’istituzione di una reggenza. Il Parlamento di Parigi proclamò reggente unico il duca Filippo d’Orleans, che in compenso restituì ai Parlamenti la facoltà di avanzare rimostranze prima di registrare gli editti del re. Il periodo della Reggenza fu contrassegnato da una relativa libertà di opinione e di critica (Montesquieu e Voltaire). Il primo problema che il reggente dovette affrontare fu indubbiamente quello finanziario. Filippo si affidò alle geniali intuizioni di John Law. Alla base del cosiddetto “sistema di Law”, vi era l’idea che l’aumento della massa dei mezzi di pagamento avrebbe stimolato la circolazione del denaro e quindi il commercio e l’industria, consentendo al tempo stesso alla monarchia di pagare i suoi debiti. Tra il 1716 e il 1719 Law creò una banca, che ottenne il diritto esclusivo di emettere banconote, e una compagnia di commercio, la Compagnia delle Indie. Nel 1719 Law ottenne l’appalto delle imposte indirette e nel gennaio 1720 venne nominato controllore generale delle finanze. Ma l’intero “sistema di Law” poggiava sulla fiducia, e questa venne meno quando ci si accorse che la Compagnia delle Indie non distribuiva gli utili sperati. I possessori delle azioni cominciarono a venderle e ben presto si scatenò tra gli investitori un’ondata di panico. Law fu costretto a sospendere i pagamenti e nel dicembre del 1720 non gli restò che abbandonare il Parlamento. Spagna doveva cedere la Florida, ricevendo in compenso i territori sulla destra del Mississippi. La pace di Hubertusburg (febbraio 1763) confermò il dominio di Federico II sulla Slesia. 4. Il fallimento delle riforme in Francia Le riforme di cui la Francia avvertiva ormai il bisogno fallirono quasi sempre sotto il fuoco incrociato di ordini e corpi tenacemente legati ai loro privilegi, mentre un’opinione pubblica illuminata metteva in discussione le basi stesse dell’assolutismo. La Francia non poté sanare le ferite inferte all’orgoglio nazionale con la sola annessione della Lorena; né fu sufficiente l’acquisto della Corsica, ceduta nel 1768 dalla Repubblica di Genova. L’opposizione dei Parlamenti alle politiche del governo assunse un carattere cronico a partire dagli anni Sessanta. In campo religioso i Parlamenti presero la testa della campagna contro i gesuiti, ottenendo nel 1764 un editto di espulsione dell'ordine. Per quanto riguarda le finanze, netta e intransigente fu la loro ostilità a tutti disegni di riforma elaborati nelle sfere di governo fin dagli anni di guerra. E deboli e incerti furono i tentativi dei ministri di Luigi XV di applicare le dottrine fisiocratiche. In questa situazione di estrema tensione maturò il «colpo di Stato” del cancelliere René-Nicolas-Charles- Augustin de Maupeou. Il re decise di sopprimere il Parlamento di Parigi e di smembrarne la giurisdizione in sei circoscrizioni giudiziarie affidate a Consigli superiori di nomina regia (1771). Analoghe riforme furono decretate a carico di altri Parlamenti indocili. Il governo venne assunto da un «triumvirato» composto da Aiguillon, Maupeou e dal controllore generale delle finanze Terray. A Luigi XV succedette il nipote Luigi XVI. Il nuovo re decise il richiamo dei vecchi Parlamenti, pregiudicando così l'opera di riordinamento delle finanze e dell'amministrazione. Nominò controllore delle finanze un esponente di spicco del movimento illuminista, Anne-Robert-Jacques Turgot. Turgot ristabilì la libertà di commercio dei grani (ottobre 1774), ma l'applicazione di questo editto concise con un cattivo raccolto. Turgot proseguì comunque nella sua azione. Ma la pressione degli interessi colpiti o minacciati dalle riforme indusse Luigi XVI a ritirare il suo appoggio al ministro, che rassegnò le dimissioni. L’esperimento riformatore di Turgot coincise con una congiuntura economica negativa. In Francia le sconfitte militari subite dall'Inghilterra furono seguite da una fase di difficoltà economiche e di notevole conflittualità politica, preludio della crisi finale della monarchia assoluta e dell'Antico Regime. 5. L’Inghilterra nell’età di Giorgio III La Gran Bretagna era uscita molto rafforzata dalla guerra dei Sette anni: padrona dei mari, non aveva più rivali nell’America settentrionale e nel subcontinente indiano. Una grave battuta d’arresto fu però rappresentata dall’insurrezione delle tredici colonie nordamericane. Il nuovo re Giorgio III manifestò subito l’intenzione di esercitare un ruolo più attivo nella politica nazionale, suscitando l’opposizione del Parlamento e della pubblica opinione. Si ebbe poi la formazione di una corrente più radicale, che contestava lo stesso ordine politico uscito dalla Gloriosa rivoluzione. Il portavoce più popolare di questo schieramento fu il giornalista e deputato John Wilkes. L’impopolarità del governo di lord North e i timori suscitati dai disordini scoppiati a Londra nel 1780 convinsero alla fine Giorgio II ad affidare la formazione di un nuovo governo a William Pitt il Giovane. Pitt il Giovane profuse ogni sforzo in una notevole attività riformatrice: accolse in gran parte le richieste degli irlandesi, combatté la corruzione e gli sprechi e introdusse una nuova e più equa imposta proporzionale ai redditi di qualunque natura; Pitt fu il più tenace e implacabile nemico della Francia rivoluzionaria. CAPITOLO 21: ASSOLUTISMO ILLUMINATO E RIFORME 1. La Prussia di Federico II Fin dagli ultimi decenni del XVIII secolo si iniziò a definire con il termine di “ despoti illuminati” quei sovrani europei che dichiaravano di volersi servire del potere per il bene dei loro sudditi e che si professavano amici e discepoli dei philosophes. I philosophes furono i primi a riconoscere che la concentrazione del potere nelle mani del monarca si giustificava come l’unica arma capace di superare gli ostacoli che si frapponevano alle riforme, e di combattere con successo i particolarismi. Uno dei maggiori despoti illuminati fu il re di Prussia Federica II il Grande. Federico II si ispirava al “contratto sociale”. Tali convinzioni non gli impedirono di proseguire la politica paterna di rafforzamento militare e burocratico, di mantenere la servitù della gleba e di ricorrere ai nobili per l’esercizio di cariche militari e civili. Prima la guerra di Successione austriaca, poi la guerra dei Sette anni rivelarono il genio militare di Federico II. In seguito, Federico II non fu più costretto a impegnarsi in operazioni militari su vasta scala, pur continuando a incrementare il suo esercito e ottenendo un nuovo importante ingrandimento territoriale in occasione della prima spartizione della Polonia. L’incremento demografico era frutto sia delle annessioni territoriali sia di un’intelligente politica di popolamento delle terre orientali. L’immigrazione fu favorita dalla grande tolleranza religiosa instaurata da Federico II che rese la Prussia, sotto questo profilo, il Paese più avanzato d’Europa. In campo amministrativo, Federico II realizzò un’efficace politica di preparazione dei quadri burocratici, per l’ingresso nei quali divenne obbligatorio un titolo di studio e il superamento di regolari esami. Anche nel campo giudiziario vennero attuate riforma di grande rilievo: venne abolita la tortura e fortemente limitata la pena di morte; vennero inoltre gettate le basi del Codice civile prussiano. Vanno ascritti tra i meriti di Federico II anche la considerevole estensione della libertà di stampa e i progressi compiuti dall’istruzione elementare, resa obbligatoria per tutti. 2. La monarchia austriaca sotto Maria Teresa e Giuseppe II La guerra di Successione polacca e austriaca avevano segnato una grave crisi per la monarchia degli Asburgo. Proprio la durissima prova attraversata nei primi anni di regno convinse la giovane figlia di Carlo VI, Maria Teresa, che per mantenere all’Austria il rango di grande potenza europea erano necessari tanto un potenziamento dell’apparato militare quanto trasformazioni incisive nelle strutture amministrative e finanziarie dell’Impero. Nel 1748, Maria Teresa impose ai “ceti” di ciascun Land di votare le imposte non più ogni anno, ma per un intero decennio, lasciando a organi regi di nuova istituzione - i governatorati - il compito di effettuare il riparto e l’esenzione dei tributi. Nel 1749, le due cancellerie boema e austriaca vennero sostituite da un unico Direttorio. La nobiltà, esautorata sul piano politico e costretta a pagare l’imposta fondiaria da cui era in precedenza esente, fu compensata con la preferenza accordatale nel conferimento delle cariche civili e militari. I risultati finanziari delle riforme furono ben presto evidenti. Se nella prima parte del regno teresiano furono determinanti le esigenze di accentramento amministrativo e finanziario, nella seconda metà venne in primo piano il motivo della “pubblica felicità”. Il più autorevole rappresentante di tale concezione fu Wenzel Anton von Kaunitz-Rittberg, l’artefice del “rovesciamento delle alleanze”. Kaunitz approfittò dell’emergenza bellica per imporre l'istituzione di un Consiglio di Stato (1760) come suprema istanza di coordinamento tra i vari dicasteri. Nel 1765, alla morte improvvisa di Francesco Stefano il figlio primogenito Giuseppe II salì al trono imperiale e fu prontamente nominato dalla madre “coreggente”. Egli dedicò tutte le sue energie a un solo scopo: quello di rafforzare l'autorità e la compattezza dello Stato, del quale, al pari di Federico II il Grande, si considerava il primo servitore. Tra il 1780 e il 1790, quando Giuseppe II resse da solo le sorti della monarchia, a mutare furono lo stile di governo, ora più dispotico e intransigente, e il ritmo degli interventi, che si fece incalzante. All'imperatore deve il nome la politica religiosa nota come “giuseppinismo”: confluivano sia le istanze di riforma interne alla Chiesa cattolica sia la volontà di affermare l’autorità dello Stato sul clero nazionale. Nel 1781, Giuseppe II emanò la “patente di tolleranza”, che rendeva legittimo il culto per le confessioni protestanti e greco- ortodossa; furono altresì eliminate quasi tutte le discriminazioni di cui soffrivano gli ebrei. L'attenzione dell'imperatore si rivolse poi agli ordini regolari, detentori di enormi ricchezze che si giudicavano mal impiegate. Circa 700 fra monasteri e conventi furono soppressi: i loro beni vennero incamerati nello Stato e destinati a finanziare scuole e attività assistenziali. Per ciò che attiene il clero secolare, le cure maggiori vennero dedicate alla sua formazione. Anche le pratiche di culto vennero disciplinate, seguendo i canoni della “regolata devozione” di Ludovico Antonio Muratori. Dell'intensa attività riformatrice i provvedimenti più importanti riguardarono l'istruzione, l'economia e la giustizia. È del 1774 la legge che introduceva l'obbligo scolastico. Anche gli studi superiori furono riordinati, con ottimi risultati. In materia di industria e commerci, la politica asburgica tentò di unificare il mercato interno, sopprimendo i vari dazi e pedaggi che intralciavano gli scambi tra le province. Per quanto riguarda l'agricoltura, notevoli furono gli interventi diretti a regolare i rapporti tra i signori feudali e i contadini a loro soggetti. Giuseppe II abolì nel 1781 i residui della servitù personale e, tra il 1784 e il 1786, fece redigere un nuovo catasto dei beni fondiari, esteso anche all'Ungheria: misure che non entrarono, però, in vigore per la violenta opposizione della nobiltà e per la prematura morte dell'imperatore. Nel 1787 fu infine promulgato il celebre Codice penale giuseppino che, accoglieva i principi della legalità della pena e della parità di tutti i sudditi di fronte alla legge. Molte di queste riforme suscitarono malcontento e resistenze, soprattutto in territori come il Belgio e l’Ungheria. Si aggiunga a tutto ciò l’enorme costo finanziario e imano della guerra, scatena da Giuseppe II nel 1787 a fianco della Russia e contro la Turchia. I Paesi Bassi belgi insorsero nel 1787 e, in modo più violento, nel 1789, cacciando i rappresentanti austriaci e proclamando l’indipendenza. Anche l’Ungheria era sull’orlo della rivolta, quando Giuseppe II morì. Gli succedette con il nome di Leopoldo II il fratello minore, che fu costretto dalla gravità della situazione a fare concessioni ai ceti privilegiati e morì prima di aver potuto riprendere il cammino delle riforme. Con il regno di Francesco II si chiuderà per sempre in Austria l’era dell’assolutismo illuminato, lasciando il posto a quel clima di immobilismo e di sorveglianza poliziesca che ne farà nella prima metà dell’Ottocento la “prigione dei popoli”. Il bilancio di mezzo secolo di attività riformatrice era tuttavia largamente positivo per la monarchia asburgica. 3. La Russia di Caterina II Elisabetta, figlia di Pietro il Grande raccolse l’eredità paterna con l’intento di perseguire i medesimi indirizzi di modernizzazione culturale del Paese, di rafforzamento militare e di una più incisiva presenza nella politica europea. Il successore Pietro III venne deposto nel 1762 in seguito a un colpo di Stato organizzato dalla giovane moglie Caterina II. Al pari di Federico II di Prussia, la zarina era amica e corrispondente dei philosophes, e fece il possibile per aprire la Russia all’influenza della cultura europea. I nobili non furono più rigorosamente obbligati al servizio dello Stato e poterono liberamente viaggiare e recarsi all’estero. Il primo bersaglio della politica riformatrice di Caterina fu la Chiesa ortodossa. Nel 1764 venne decretata la confisca di tutte le proprietà ecclesiastiche, le cui rendite servirono in parte a risanare le finanze, in parte a finanziare gli istituti di istruzione. Ai ministri del culto venne assegnato uno stipendio, e la maggior parte dei conventi fu soppressa. L’iniziativa più clamorosa realizzata della zarina fu senz'altro la convocazione, per il 1767, di una commissione legislativa composta da rappresentanti dei nobili, dei cittadini dei contadini liberi e anche delle nazionalità non russe, con il compito di elaborare un nuovo codice di leggi. L'” Istruzione” era in gran parte ricalcata sulle opere degli illuministi e indicava come obiettivi della legislazione la “pubblica felicità”, la tolleranza, la libertà, l'umanizzazione delle pene e delle procedure giudiziarie. All'interno della commissione insorsero aspre dispute, e alla fine del 1768 Caterina la sciolse, col pretesto della guerra scoppiata contro l'impero ottomano. Gli inasprimenti fiscali provocati dalla guerra, la penuria di viveri dovuta a un cattivo raccolto e una pestilenza acuirono il malcontento nelle campagne. Nel settembre 1773 Emel’jan Pugacèv, cominciò a raccogliere seguaci spacciandosi per il redivivo zar Pietro III e denunciando l'oppressione dei nobili. L'insurrezione venne domata soltanto nell'estate del 1774. Pugacev fu processato e venne giustiziato il 10 gennaio 1775. Il timore dell'anarchia indusse la zarina e i suoi consiglieri ad abbandonare qualsiasi velleità di intervento a favore delle masse rurali; le condizioni dei contadini servi furono anzi rese più dure. Venne comunque realizzata una meritoria riforma delle amministrazioni locali. Molto fu fatto anche per l’istruzione pubblica. Infine, furono registrati notevoli progressi nei settori delle manifatture, dell’estrazione mineraria e del commercio con l’estero. In politica estera, Caterina II ottenne considerevoli successi. Nel 1768 iniziò la guerra contro l’Impero ottomano. Il conflitto si concluse con il trattato del 1774 che consentì alla Russia di ottenere condizioni vantaggiose quali l’accesso al mar Nero e il libero passaggio per il canale del Bosforo. Nel frattempo, la prima spartizione della Polonia aveva fruttato l’annessione della Bielorussa; mentre con le successive spartizioni, la Russia acquisì tutta la metà orientale del territorio rimasto alla Polonia. Venne proclamata unilateralmente l’annessione della Crimea nel 1783. riforma degli studi nell’Università di Napoli, all’avvio di una catastazione delle terre e dei beni. Molto vivace e ricca rimase la vita intellettuale a Napoli. A partire dalla metà del secolo si registra l’emergere in primo piano delle scienze naturali, dell’economia, della statistica (Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Giuseppe Maria Galanti, Gaetano Filangieri). Assai maggiore che per il passato era ora l’attenzione della classe intellettuale alla realtà delle province. Quando Carlo di Borbone divenne re di Spagna col titolo di Carlo III (1759), il toscano Bernardo Tanucci divenne la figura più autorevole del “Consiglio di reggenza” istituito in considerazione della minore età del successore Ferdinando IV. Intransigente difensore dei diritti dello Stato nei confronti della Chiesa, Tanucci era però alieno da riforme radicali sul piano economico e sociale: la gravissima carestia del 1763-65 venne così affrontata coi rimedi di tipo tradizionale. Il giovane Ferdinando IV sposò Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d’Austria: l’orientamento filoaustriaco impresso al governa dalla regina, portò in un primo tempo alla ripresa dell’azione riformatrice. A misure liberalizzatrici in campo commerciale e all’istituzione di un “Monte frumentario”, si accompagnarono la fondazione di manifatture regie e l’erezione di una “Cassa sacra” per la Calabria, dopo il terremoto. In Sicilia il periodo di viceregno di Domenico Caracciolo fu contrassegnato da importanti iniziative, come l’abolizione dell’Inquisizione e l’avvio di un catasto, poi fallito per l’opposizione della nobiltà. Né in Sicilia né nel Mezzogiorno continentale le riforme giunsero tuttavia a mettere in discussione il permanere delle strutture feudali nelle campagne. 3. Illuminismo e riforme nella Lombardia austriaca Dopo la pace di Aquisgrana del 1748 la monarchia austriaca rimaneva in possesso dello Stato di Milano e del Ducato di Mantova. Nell’orbita asburgica rientrava però anche il Granducato di Toscana. Un accordo stipulato col duca di Modena Francesco III d’Este inserì anche i Ducati di Modena e Reggio nella sfera di influenza austriaca. Una prima ondata di riforme investì lo Stato di Milano tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta. Nel 1749 fu riordinata l’amministrazione delle finanze e abolita la vendita delle cariche. Al risanamento finanziario contribuirono sia la “Ferma generale”, sia l’istituzione di un banco, il “Monte di Sante Teresa”. Il risultato più importante fu il compimento del nuovo catasto a opera di una Giunta regia presieduta dal celebre giurista toscano Pompeo Neri. I risultati principali furono la redistribuzione dell'imposta fondiaria, resa e la riduzione dell'imposta personale dovuta dai contadini a una somma moderata e fissa. Al governo delle comunità furono preposti i rappresentanti degli “estimati” sotto il controllo di funzionari regi detti “cancellieri delegati”. Un contributo notevole alla diffusione dei Lumi venne negli anni seguenti dalla cosiddetta Accademia dei Pugni che a partire dal 1761-1762 si raccolse intorno a Pietro Verri. Nacque l'esperienza giornalistica del “Caffè” e apparve, nel 1764, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, al cui successo europeo già si è avuto modo di accennare. È innegabile però che l'impulso al cambiamento venne soprattutto da Vienna, da dove nel 1759 venne inviato a Milano un uomo di idee avanzate e di vasta e raffinata cultura, il conte trentino Carlo di Firmian. La ristrutturazione delle magistrature avviata nei decenni centrali del secolo culminò nel 1771 con la separazione degli affari giudiziari, riservati al Senato, da quelli amministrativi e finanziari, affidati a un “Magistrato camerale”. Sotto Giuseppe II si giunse nel 1786 alla soppressione del Senato e all’istituzione di un moderno sistema giudiziario articolato in tre istanze; parallelamente vennero insediati in ogni provincia gli intendenti politici. Negli stessi anni giungeva alle conseguenze estreme anche il controllo dello Stato sulla vita religiosa. Le scuole superiori di Milano e l’Università di Pavia furono dotate di nuova cattedre, di biblioteche, di strumenti scientifici e di laboratori. Più tradiva fu la diffusione, dal 1786, di scuole elementari per il popolo, dette “scuole normali”. L’economia della regione trasse vantaggio dal miglioramento delle vie di comunicazione e dall’accesso privilegiato al mercato austriaco. 4. La Toscana dalla Reggenza a Pietro Leopoldo Il nuovo Granduca di Toscana Francesco Stefano risedeva a Vienna e si faceva rappresentare a Firenze da un Consiglio di reggenza composto in parte da funzionari lorenesi. Gli interventi di maggior rilievo riguardarono nei primi anni il settore finanziario. Una linea di fermezza venne seguita nei rapporti con la Chiesa. Gli ultimi anni della Reggenza lorenese in Toscana furono contristati da una grave carestia. Pompeo Neri sostenne che il vero rimedio contro la scarsità dei raccolti stava nel favorire la libera circolazione delle derrate. Questo orientamento liberista si affermò pienamente sotto il governo di Pietro Leopoldo. Il nuovo granduca aderì a tali istanze e con una legge del 1767 dichiaro libera la compravendita dei cereali all’interno dello Stato e anche l'esportazione, finché i prezzi fossero rimasti al di sotto di un livello prefissato. Allo stesso indirizzo liberista vanno anche ricondotte la soppressione delle corporazioni di arti e mestieri (1771) e l'eliminazione di tutte le dogane interne (1781). Altre iniziative di Pietro Leopoldo e dei suoi collaboratori furono le bonifiche avviate in Valdichiana e nella Maremma senese e la decisione (1769) di “allivellare” le terre appartenenti alla corona e alle manimorte. L'operazione non diede però i risultati sperati, giacché la maggior parte dei poderi così “allivellati” finì per essere acquistata da grossi proprietari nobili o borghesi. Il documento più celebre fu il Codice penale del 1786 che eliminava del tutto la tortura e cancellava la pena di morte. Il progetto di una Carta costituzionale volta a limitare i poteri del sovrano venne messo definitivamente da parte nel 1790, quando Pietro Leopoldo lasciò Firenze per succedere al fratello Giuseppe II nella direzione della monarchia austriaca e nella dignità imperiale. Negli anni Ottanta Pietro Leopoldo fece proprio il programma di riordinamento della Chiesa toscana elaborato dal vescovo giansenista di Prato e Pistoia, Scipione de’ Ricci. Se attuato, questo programma avrebbe portato a uno scisma della Chiesa toscana da Roma: ma un'assemblea di vescovi convocata a Firenze nel 1787 si dichiarò nella sua maggior parte contraria alle riforme proposte da Ricci. Nel suo complesso la legislazione leopoldina rappresenta uno dei più coerenti e organici programmi di riforma posti in atto nell’Europa settecentesca. 5. La società italiana alla fine del Settecento Solo marginalmente furono taccati dal movimento delle riforme lo Stato pontificio e le Repubbliche oligarchiche di Venezia, Genova e Lucca. Sotto il pontificato di Pio VI (1775-99) si affermarono anche qui i nuovi indirizzi di politica economica, con l'eliminazione dei dazi interni e il tentativo di prosciugamento delle paludi Pontine. Venezia fu per tutto il secolo il maggiore centro editoriale italiano e la sede di una raffinata vita letteraria e artistica. L’azione riformatrice dei governi e l'ampia diffusione delle nuove correnti di pensiero e dei nuovi modelli di gusto e di comportamento modificarono sensibilmente la cultura e lo stile di vita dei ceti medio-alti della società italiana. Il generale moto di laicizzazione della seconda metà del secolo si tradusse da un lato in una contrazione numerica del clero; dall'altro nel diminuito ossequio per l'autorità della Chiesa. Va di pari passo con questi orientamenti culturali un costume sociale e familiare più libero e sciolto, che si esprime tra l'altro nel “cicisbeismo”. La nobiltà si pone il problema di giustificare i propri privilegi con una vita operosa, al pubblico servizio o negli studi. Appare in netto declino l'uso di destinare al chiostro le figlie nubi e di sacrificare i cadetti al primogenito nella trasmissione dell’eredità. Se la nobiltà si “imborghesisce”, un “medio ceto” viene acquistando una maggiore coscienza di sé e contribuisce all’affermazione dei nuovi valori dell’operosità, della competenza, del merito individuale. Da questa evoluzione della cultura e del costume rimasero quasi del tutto escluse le masse popolari, urbane e soprattutto rurali. Le plebi italiane rimanevano tenacemente attaccate alla fede degli avi e ai suoi riti propiziatori e consolatori. È il secolo di sant’Alfonso de’ Liguori, fondatore delle “cappelle”. Anche in Italia si registra nel XVIII secolo un cospicuo aumento della popolazione. Difficilmente l'incremento demografico può essere considerato l'effetto di un progresso economico generalizzato. Tipica di questi “progressi della miseria”, è la grande diffusione del mais. Non mancano nell'Italia del Settecento isole di specializzazione e di elevata produttività. Ma il quadro generale è contrassegnato dall'arretratezza tecnica e dall’accresciuto sfruttamento del lavoro contadino. Del precario e equilibrio tra popolazione e risorse sono d’altronde testimonianza le gravi carestie del 1763-65 e dei primi anni Settanta. La forte ascesa dei prezzi che si verificò a partire dalla metà del secolo andò a tutto beneficio dei proprietari terrieri e di quei pochi fittavoli o “massari” che avevano eccedenza da vendere. I contadini poveri ne furono colpiti in due modi: perché i salari restavano fermi mentre i prezzi salivano e perché il desiderio di sfruttare la congiuntura favorevole spinse i padroni a inasprire i patti agrari. CAPITOLO 23: NASCITA DI UNA NAZIONE: GLI STATI UNITI D’AMERICA 1. Gli inizi della colonizzazione inglese e francese nel Nord America Le colonie inglesi del Nord America non rappresentavano una realtà uniforme. Le colonie del Nord (Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New Hampshire) furono caratterizzate da un’iniziale immigrazione di minoranze religiose puritane (padri pellegrini Mayflower). La loro economia era fortemente legata ai circuiti commerciali atlantici e si basava su una produzione agricola non limitata solamente all’autoconsumo e su attività di tipo artigianale, navale e mercantile. Nel XVIII secolo in queste colonie si assistette alla formazione di élites sociali e politiche. Le colonie centrali (New York, New Jersey e Pennsylvania) erano maggiormente urbanizzate e diversificate sotto il profilo linguistico e culturale. Mostravano un maggiore sviluppo delle attività finanziarie e commerciali. Le colonie meridionali (Delaware, Maryland, Virginia, le due Caroline Georgia) dal punto di vista religioso erano molto più variegate, mentre da quello economico erano soprattutto votate a una produzione agricola di tipo latifondistico e basata sull’istituzione della schiavitù. I grandi proprietari terrieri costituivano una sorta di aristocrazia non troppo dissimile dalla gentry inglese. L’economia di queste colonie era quella che meglio si integrava con le esigenze della madrepatria. Le colonie del centro e del nord, invece, commerciavano soprattutto con le Indie occidentali. Meno sviluppata era il commercio con la Gran Bretagna. La popolazione complessiva delle tredici colonie nel 1775 era arrivata a due milioni e mezzo sia a causa della forte eccedenza delle nascite sui decessi, sia e soprattutto per via del costante flusso immigratorio. Gli schiavi neri nel 1775 superavano il mezzo milione, ed erano quasi tutti concentrati nelle colonie meridionali. Agli inizi del Settecento le colonie avevano istituzioni politico-giudiziarie abbastanza simili. In quasi tutte vi era un governatore che nominava i giudici e aveva diritto di veto sulle decisioni prese dal potere legislativo. Ampie erano le autonomie di cui godevano le città e le comunità di villaggio. Di gran lunga inferiore era la popolazione della Nuova Francia, dove nella prima metà del Seicento erano state fondate le città di Quebec e Montreal. La Nuova Francia ebbe istituzioni simili a quelle di una provincia francese, con un governatore e un intendente; solo il culto cattolico era ammesso. La popolazione viveva di agricoltura, di caccia e di pesca e del commercio delle pellicce. Dalla regione dei Grandi Laghi gli esploratori e i missionari francesi si erano spinti verso sud e fondarono nel 1720 New Orleans. La presenza francese in questi immensi territori era limitata a una catena di forti posti in posizione strategica. 2. I contrasti tra le tredici colonie e la madrepatria Durante la guerra dei Sette anni gli abitanti delle tredici colonie britanniche parteciparono a fianco delle truppe inviate dall’Europa alle operazioni militari contro i francesi. I coloni ebbero modo di prendere coscienza della propria forza; la vittoria britannica, che portò all’eliminazione completa della presenza francese nel Nord America, era destinata a far loro apparire meno indispensabile il sostegno politico- militare della madrepatria. Altri motivi di malcontento erano la pretesa del Parlamento inglese di vietare il commercio diretto tra le colonie e i Paesi terzi, di imporre dazi molto elevati sull’importazione di alcuni prodotti, di proibire la produzione e l’esportazione di manufatti che potessero entrare in concorrenza con quelli della Gran Bretagna. Sotto il profilo politico, le assemblee legislative sentivano come oppressivi i poteri di veto e di intervento esercitati dai governatori e dai loro consigli, per esempio per quanto riguardava i rapporti con gli indiani. “Nel corso delle due generazioni di crescita e di espansione che precedettero l’ascesa di Giorgio III, gli americani acquisirono gradualmente la coscienza di se stessi come popolo distinto […] per carattere e cultura”. Alla fine della guerra dei Sette anni era convinzione del governo inglese che l’enorme indebitamento dello Stato, la riorganizzazione e la difesa dell’Impero richiedessero un favorevole. Non si possono trascurare, le reazioni soggettive a tutto quanto pareva minacciare la stessa sopravvivenza delle masse rurali. Tra queste: il ripristino dei diritti feudali, l'aumento delle imposte e la parziale attuazione di misure invocate dalla dottrina fisiocratica, come la privatizzazione dei beni comunali, l'abolizione degli usi collettivi, l'accorpamento degli appezzamenti in grandi aziende. A questo persistente tradizionalismo delle masse si mescolano però gli echi di idee forza del secolo dei Lumi, quali l’eguaglianza dei diritti o la sovranità popolare. Insieme a un incremento notevole dell'alfabetizzazione ci fu una “scristianizzazione strisciante”. Si indebolirono così in molte regioni della Francia il rispetto per le gerarchie sociali e la rassegnazione alle ingiustizie di questo mondo. Non esisteva nella Francia del Settecento una netta contrapposizione di classe tra nobiltà e borghesia: quest'ultima era una categoria troppo eterogenea per poter essere considerata una classe sociale. Fino al termine dell'Antico Regime rimane viva l'aspirazione del borghese a nobilitarsi. Lo stesso incremento numerico degli strati definibili come “borghesi” rende più arduo il passaggio nelle file della nobiltà e il senso di frustrazione che ne deriva predispone molti ad accogliere i suggerimenti più radicali dell’Illuminismo. La società francese ci appare alla viglia del 1789 attraversata da molteplici linee di tensione che la crisi politica era destinata ad aggravare e a far esplodere. 2. La crisi finanziaria e politica della monarchia Tra il 1754 e il 1789 si succedettero in Francia ben 19 controllori o direttori delle finanze. Questa instabilità è di per sé un sintomo della gravità dei problemi: l’insufficienza cronica delle entrate, l’impossibilità di accrescere il carico fiscale senza modificarne la distribuzione; l'inefficienza del sistema tributario. Schematicamente, furono due le strategie poste in opera dai responsabili delle finanze. La prima consisteva nello spostare il peso maggiore delle imposte sulla proprietà terriera e nel puntare su un incremento delle entrate che sarebbe stato il naturale effetto dello sviluppo economico. La seconda, che mirava a una riduzione delle spese e degli sprechi, fu la via imboccata da Jacques Necker. Nei cinque anni del suo mandato Necker abolì molti uffici superflui, ridusse le spese della corte, unificò varie casse, riformò e rese più redditizia l'amministrazione del demanio regio, richiamò alla gestione diretta dello Stato le imposte sui consumi. Per coprire le forti spese legate all'intervento nella guerra d'Indipendenza americana, Necker evitò di inasprire le tasse e ricorse al credito. Il suo licenziamento (1781) fu conseguenza dell'ardita iniziativa del ministro di rendere pubblico il bilancio della monarchia. Di fronte all’aggravarsi del dissesto e ai sintomi di crisi affioranti nel settore agricolo il nuovo controllore generale, Charles-Alexandre de Calonne, decise nell'estate del 1786 di porre il re di fronte alla realtà. L'unica soluzione era l'adozione di radicali riforme, che prevedevano l'istituzione di una nuova imposta fondiaria, la “sovvenzione territoriale”, proporzionale alla rendita e gravante senza eccezioni su tutti i proprietari, la liberalizzazione del commercio dei cereali, l'eliminazione delle dogane interne. Il ministro suggerì al re di convocare un'assemblea dei notabili per ottenere il consenso alle misure proposte e di risollevare così il credito vacillante della monarchia. I 144 notabili convocati a Versailles nel febbraio 1787 manifestarono subito invece la loro opposizione ai progetti di riforma. Il re decise allora la sostituzione del Calonne l'arcivescovo di Tolosa Etienne-Charles de Loménie de Brienne. Questi mantenne la proposta di “sovvenzione territoriale”, pur trasformandola in un tributo dall'ammontare annuo prefissato; ciò non bastò a disarmare l'opposizione dell'assemblea, che venne sciolta il 25 maggio 1787. L'intransigenza dei notabili trova spiegazione nell'evoluzione della pubblica opinione, divenuta ormai una forza con la quale lo stesso governo monarchico doveva fare i conti. Sciolta l'assemblea dei notabili, fu il Parlamento di Parigi a prendere la guida dell’opposizione, rifiutandosi di registrare le leggi proposte da Loménie de Brienne. Ormai nell’opinione pubblica costante era il riferimento agli Stati generali. Così nell'agosto 1788 il responsabile delle finanze, prima di rassegnare le dimissioni, dichiarò a nome del monarca che gli Stati generali si sarebbero riuniti il 1° maggio dell’anno seguente. Al suo posto il re richiamò Necker, che si mostrò deciso a non prendere alcuna iniziativa di rilievo fino alla convocazione della rappresentanza nazionale. Il 25 settembre il Parlamento di Parigi dichiarò che dovevano essere rispettate le modalità del 1614: i tre ordini avrebbero cioè dovuto sedere e deliberare separatamente, il che avrebbe dato maggior peso alle rivendicazioni dei primi due ordini. Un'efficace campagna di stampa prese a denunciare l'egoismo dei ceti privilegiati e a richiedere con forza la riunione dei tre ordini in un'unica assemblea dove le votazioni sarebbero avvenute a maggioranza. Chi espresse con maggior efficacia queste rivendicazioni fu l’abate Emmanuel-Joseph Sieyès, in un pamphlet pubblicato nel gennaio 1789 e intitolato Che cos'è il Terzo Stato? 3. La Rivoluzione in marcia: il 1789 Molti ormai affermavano apertamente che gli Stati generali dovevano assumersi il compito di dare alla Francia una nuova Costituzione. Il regolamento elettorale emanato il 24 gennaio 1789 disponeva il raddoppio della rappresentanza del Terzo Stato. Tutti i francesi dovevano comunque far pervenire al trono le loro richieste e le loro doglianze redigendone degli elenchi, detti cahiers de doléances, da affidare ai deputati dei rispettivi ordini. Questa capillare consultazione popolare venne a coincidere con una grave carestia sopraggiunta in una situazione economica già assai difficile. Sommosse contro il carovita e contro le tasse si verificarono in molte località e nella stessa Parigi. In questo clima di eccitazione e di attesa di cambiamenti epocali si riunirono a Versailles gli Stati generali, il 5 maggio 1789. I deputati erano divisi quasi a metà tra il Terzo Stato e gli altri due ordini sommati insieme. I deputati del Terzo Stato proposero agli altri due ordini di riunirsi in una sola assemblea per la verifica dei poteri. La nobiltà e il clero dapprima rifiutarono; ma nella rappresentanza del clero ottenne successivamente la maggioranza una mozione favorevole alla riunione. Il re, solidale con la nobiltà, ordinò allora la chiusura della sala dove si tenevano le adunanze. Ma i deputati del Terzo Stato che avevano assunto il nome di Assemblea nazionale, si radunarono in un altro locale, destinato al gioco della pallacorda, e qui il 20 giugno giurarono solennemente “di non separarsi più e di riunirsi dovunque lo richiedessero le circostanze finché la Costituzione non fosse stata stabilita” (giuramento della pallacorda). Alla fine di giugno il clero e la frazione più illuminata della nobiltà si erano uniti al Terzo Stato, e il 9 luglio l'Assemblea nazionale si intitolò anche “costituente”. Nei primi giorni di luglio furono fatti affluire intorno a Parigi reggimenti composti da mercenari stranieri. Necker venne congedato e sostituito dal barone di Breteuil. Di fronte al pericolo si formò una milizia borghese. Ma il popolo minuto si mosse per proprio conto. La mattina del 14 luglio una folla si presentò di fronte alla cupa fortezza della Bastiglia. Il governatore della fortezza de Launay ordinò ai suoi uomini di aprire il fuoco: un centinaio furono i morti e i feriti. Ma nel pomeriggio giunsero rinforzi e alcuni cannoni; de Launay si arrese e fu massacrato insieme ad alcuni suoi ufficiali e soldati dalla folla inferocita. Luigi XVI ordinò la ritirata dei reggimenti stranieri e il 16 luglio richiamò Necker al governo. In tutta la Francia si costituirono spontaneamente nuovi organismi municipali fedeli alle direttive dell'Assemblea nazionale e si armarono milizie che presero il nome di “Guardia nazionale”. A questa “rivoluzione municipale” vennero ad aggiungersi una serie di disordini nelle campagne, cui si è dato il nome collettivo di “Grande Paura”. L’agitazione delle campagne assumeva un chiaro significato antifeudale; l'Assemblea nazionale si vide così costretta ad affrontare lo spinoso problema dei diritti signorili. Nella notte del 4 agosto i deputati decisero la distruzione di quanto rimaneva del regime feudale e l'abolizione di ogni privilegio che si opponeva all'eguaglianza dei diritti. Nei giorni seguenti, però, venne precisato che i diritti “reali” sarebbero stati aboliti solo dietro pagamento di un rimborso ai titolari. Ma i piccoli coltivatori reagirono col rifiuto in massa di pagare decime e censi. L'Assemblea nazionale passò a elaborare una “Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino”, che fu approvata il 26 agosto 1789. Per il momento, tali diritti erano riservati ai soli cittadini maschi. Per acquistare vigore di legge, i decreti di agosto avevano bisogno della sanzione del re, che non era affatto disposto a concederla. Tanto meno probabile era la sua adesione a una delibera adottata il 10- 11 settembre dall’Assemblea nazionale, che assegnava al monarca un veto puramente sospensivo sulla legislazione. I patrioti si convinsero che un'altra prova di forza era inevitabile e che era necessario costringere la corte a trasferirsi a Parigi. Le giornate del 5-6 ottobre furono un misto di organizzazione e di spontaneità. Una folla composta in prevalenza di donne si mise in marcia per Versailles, seguita dalla Guardia nazionale parigina, comandata da La Fayette. Luigi XVI si decise allora a dare la sua approvazione ai decreti di agosto e settembre, ma esitava ancora di fronte alla prospettiva di un trasferimento a Parigi. La mattina del 6 gli appartamenti reali furono invasi. Luigi XVI si convinse allora a prendere la via della capitale. Dopo la famiglia reale anche l’Assemblea nazionale trasferì la sua sede a Parigi. 4. La ricostruzione dell’unità nazionale Luigi XVI teneva di fronte alle richieste dell'Assemblea un comportamento ambiguo e sempre più confidava nell'intervento armato delle potenze straniere per ristabilire la propria autorità. Assai scarsa era di conseguenza nell'Assemblea nazionale l'influenza degli “aristocratici”. Nell'Assemblea prevalse invece per tutto il 1790 l'influenza dei nobili “liberali” e del cosiddetto “triumvirato”. Alla sinistra di questo schieramento si collocavano alcuni elementi più radicali e più sensibili alle rivendicazioni popolari, tra i quali un notevole prestigio si andò conquistando Maximilien Robespierre. Le questioni del giorno erano dibattute anche nei numerosi circoli o “club” sorti con la Rivoluzione. Tra gli altri si andò affermando la Società degli amici della Costituzione, che dal luogo dove si riuniva, un convento di domenicani (o jacobins), prese poi il nome di “club dei giacobini”. Più popolare nel reclutamento e più radicale nelle opinioni era il club detto “dei cordiglieri”; tra i cordiglieri si misero in luce Camille Desmoulins, e Georges Danton. Un grande ruolo nello scontro politico ebbe anche la stampa periodica. L'effervescenza della vita pubblica portò a una rapida politicizzazione delle masse parigine. Nel maggio 1790 la capitale venne divisa in quarantotto “sezioni”. Prendeva forma così la figura del “sanculotto”: il popolano di Parigi, ferocemente attaccato all'eguaglianza dei diritti e alla solidarietà tra i lavoratori, ostile ai nobili, pronto all'insurrezione e alla violenza rivoluzionaria. Non meno vivace fu la vita politica in molti centri provinciali, nei nuovi quadri amministrativi stabiliti dalla Costituente nel gennaio 1790: il territorio nazionale fu suddiviso in 83 dipartimenti che comprendevano ciascuno vari distretti, ripartiti a loro volta in cantoni e in comuni. A ogni livello vi erano consigli elettivi e autorità esecutive più ristrette, e vi era la Guardia nazionale composta da borghesi. Da rinnovamento delle municipalità prese l'avvio in molte regioni il movimento della “federazione”. Sbocco di questo movimento fu la grande festa della federazione che si celebrò nel primo anniversario della presa della Bastiglia. Dopo la soppressione degli aspetti più inumani e irrazionali della procedura penale d’”Antico Regime” e lo scioglimento dei Parlamenti, le nuove regole per l'amministrazione della giustizia vennero dettate dalla legge organica dell'agosto 1790. Il popolo doveva eleggere un giudice di pace in ogni cantone, e un tribunale civile e criminale in ogni distretto. Il giudizio di appello sarebbe stato pronunciato da un altro tribunale distrettuale. Nei processi penali il giudizio di colpevolezza era affidato a una giuria di dodici cittadini tirati a sorte su speciali liste. Rimaneva irrisolto il problema finanziario. Fin dal 2 novembre 1789 l'Assemblea nazionale aveva decretato la confisca dei beni della Chiesa e deciso l'emissione di “assegnati”, buoni del tesoro fruttiferi utilizzabili per il loro acquisto. Ma gli assegnati mutarono la loro natura fino a essere considerati in tutto e per tutto una cartamoneta. L'inflazione che ne derivò andò a danno soprattutto delle classi lavoratrici. Chi ne trasse vantaggio furono invece gli speculatori che si servivano degli assegnati, al valore nominale, per l'acquisto dei beni nazionali messi in vendita dallo Stato. Alle vecchie imposte furono sostituite una contribuzione fondiaria proporzionale al valore delle proprietà, un'imposta sulla ricchezza mobile e una patente per l'esercizio di professioni, arti e mestieri. In campo economico gli orientamenti liberisti dominanti all'interno dell'Assemblea si espressero con la soppressione delle corporazioni di mestiere, con la proclamazione della libertà d'iniziativa e con la legge che proibiva le associazioni operaie. Al problema finanziario era strettamente connesso il problema religioso. Le diocesi episcopali furono ridisegnate in mode da corrispondere agli 83 dipartimenti; i vescovi dovevano essere eletti dai cittadini come le altre autorità dipartimentali, mentre i parroci erano designati dalle assemblee elettorali dei distretti. Nel dicembre 1790 fu imposto a tutto il clero un giuramento di fedeltà alla Rivoluzione: quasi tutti i vescovi e una metà circa dei parroci rifiutarono di prestarlo e vennero perciò sostituiti. La presenza di un prete “costituzionale” e di un prete “refrattario” e la perdurante fedeltà dei parrocchiani a quest’ultimo saranno un importante fattore di inquietudine e di spinte controrivoluzionarie. 5. La caduta della monarchia Da tempo la famiglia reale aveva preso contatti segreti con le corti straniere in vista di un espatrio. La notte tra il 20 e il 21 giugno 1791 Luigi XVI lasciò le Tuileries per una porta segreta e si diresse verso la frontiera orientale. Bloccata a Varennes, la comitiva fu obbligata a tornare indietro sotto scorta. Mentre Robespierre, per il cattivo funzionamento del calmiere. Il 4 e il 5 settembre la Convenzione venne di nuovo invasa dai manifestanti. Questa volta, però, Robespierre e gli altri leader montagnardi riuscirono a canalizzare il movimento, facendo votare la costituzione di un “esercito rivoluzionario” di sanculotti per la requisizione dei grani nelle campagne, la legge che consentiva l'arresto dei sospetti e il maximum generale . Il Tribunale rivoluzionario prese a funzionare a pieno ritmo. Il logico corollario del Terrore e dell'economia regolata era l'accentramento del potere nel Comitato di salute pubblica, e in sottordine nel Comitato di sicurezza generale. Dai gruppi hebertisti era partita anche la campagna di scristianizzazione. Anche il calendario venne riformato: suddividendo l'anno in dodici mesi tutti di trenta giorni e sostituendo alla domenica il “decadì”. La nuova era si faceva cominciare dalla proclamazione della Repubblica. Un carattere assai meno ideologico e più utilitario ebbe l'introduzione del sistema metrico decimale. L'autunno 1793 portò a un sensibile miglioramento della situazione militare. Marsiglia fu conquistata dalle truppe fedeli alla Convenzione fin dall'agosto. Lione cadde. Tolone fu ripresa il 19 dicembre, grazie anche ai piani d'attacco disposti da un giovanissimo capitano di nome Napoleone Bonaparte. Si consumava nello stesso periodo anche la tragedia della Vandea, dove i resti dell'Armata cattolica e reale furono massacrati. Sarebbe continuata una guerriglia controrivoluzionari detta chouannerie. Anche alle frontiere cominciava a dare i suoi frutti la riorganizzazione dell'esercito promossa dal Comitato di salute pubblica e dai rappresentanti in missione. Gli austriaci furono respinti lungo il Reno, i piemontesi e gli spagnoli ricacciati al di là delle Alpi e dei Pirenei. All'interno del Comitato di salute pubblica cresceva intanto l'ascendente di Maximilien Robespierre, che meritò di essere soprannominato l’”incorruttibile”. Molto diversa la personalità del suo rivale in popolarità, Georges Danton. Nei primi mesi del 1794 Robespierre si sentì abbastanza forte per lanciare un attacco in due direzioni: contro la sinistra di Hébert e contro gli “indulgenti”. Il 13 marzo Hébert venne arrestato con alcuni soci: gli hebertisti vennero ghigliottinati il 24 marzo. La stessa sorte toccò il 5 aprile a Danton. Questo “taglio delle ali” rafforzò nell'immediato il Comitato di salute pubblica e il potere di Robespierre, ma portò a un'erosione del consenso sia tra le masse popolari, sia nella stessa Convenzione. Tra giugno e luglio, proprio mentre la situazione militare registrava un decisivo miglioramento grazie alla vittoria di Fleurus (26 giugno), si ebbe una drammatica intensificazione del Terrore. L’opposizione di alcuni degli stessi membri del Comitato di salute pubblica sfociò tra I'8 e il 9 termidoro (26-27 luglio 1794) in un complotto contro Robespierre. Robespierre venne arrestato insieme a Saint-Just e Couthon. Il 28 luglio Robespierre fu trascinato con gli altri alla ghigliottina. 3. Da termidoro a fruttidoro La caduta di Robespierre fu accolta da molti francesi come una liberazione. Nelle strade di Parigi prese a imperversare la “gioventù dorata” (persecuzione di sanculotti e giacobini). I responsabili del Terrore e i sanculotti divennero a loro volta bersaglio di un odio a lungo represso. Vi fu un'ondata di “Terrore bianco” che fece centinaia di vittime fra i giacobini locali. La Convenzione cercò invano di frenare questo movimento limitando all'essenziale i mutamenti in campo istituzionale. Il Tribunale rivoluzionario venne soppresso; i poteri del Comitato di salute pubblica furono drasticamente ridotti e vennero riammessi nella Convenzione i girondini superstiti. Il club dei giacobini venne chiuso (11 novembre 1794). In campo economico nel dicembre 1794 fu definitivamente abolito il maximum . I prezzi in assegnati aumentarono vertiginosamente, mentre i cattivi raccolti del 1794 e del 1795 e la riluttanza dei contadini a rifornire i mercati urbani aggravarono la miseria delle masse popolari. Ai primi di aprile e di nuovo il 20 maggio 1795 i sanculotti e le donne dei sobborghi invasero la Convenzione, invocando “pane e la Costituzione del '93”. Ma dovettero ritirarsi senza aver nulla ottenuto. Nell'aprile 1795 venne insediata una commissione incaricata di elaborare una nuova Costituzione. Nella Costituzione dell'anno III, approvata il 22 agosto 1795, alla Dichiarazione dei diritti era aggiunta una Dichiarazione dei doveri. Erano previste due camere, rinnovabili ogni anno per un terzo: il Consiglio dei cinquecento e il Consiglio degli anziani. Il potere esecutivo spettava a un Direttorio di cinque membri, eletti dagli Anziani tra 50 nomi indicati dai Cinquecento. Alla fine di agosto fu quindi approvato un decreto in base al quale due terzi dei componenti delle nuove camere dovevano obbligatoriamente essere eletti tra i membri della Convenzione. Le sezioni parigine di orientamento filomonarchico organizzarono allora una giornata insurrezionale il 5 ottobre; ma la Convenzione reagì con energia affidando la repressione al generale Bonaparte, che prese a cannonate gli insorti. Le elezioni per il terzo delle nuove camere furono largamente favorevoli ai monarchici. Ma gli ex “convenzionali” imposero per il Direttorio i nomi di cinque “regicidi”. Il Direttorio si trovò ad affrontare enormi problemi, quali la crisi finanziaria galoppante, la conduzione della guerra, la divisione religiosa del Paese, senza disporre della necessaria base di consenso. Un episodio circoscritto rimase la cosiddetta “congiura degli eguali”, organizzata nell'inverno 1795-1796 da François-Noël Babeuf. Il programma degli “eguali” prevedeva l'abolizione della proprietà privata e la messa in comune dei beni. Era quindi un “comunismo della distribuzione”. Di maggiore rilievo politico era l'aperta teorizzazione di una fase transitoria nel corso della quale sarebbe stata necessaria una dittatura rivoluzionaria. Babeuf e altri capi vennero condannati a morte. Si andava facendo catastrofico il deprezzamento dell'assegnato. Nel febbraio 1797 si ritornò alla moneta metallica. L'avventura finanziaria della Rivoluzione si concludeva con una gigantesca bancarotta. All'inflazione succedette una brutale deflazione, e il governo si trovò in difficoltà per pagare i suoi funzionari e i suoi creditori. Il marasma finanziario accrebbe la dipendenza del Direttorio dai banchieri, dai fornitori e dagli appaltatori per un verso, dai generali vittoriosi per l'altro. Le elezioni tenute nel marzo 1797 per il rinnovo di un terzo delle assemblee legislative si risolsero in un trionfo per la destra monarchica: il Direttorio si trovava di fronte all’alternativa tra il cedimento e il colpo di forza. A spingerlo in questa seconda direzione furono i quadri dell’esercito. Ai primi di settembre due dei direttori furono destituiti e le elezioni favorevoli ai monarchici furono dichiarate nulle (colpo di stato di fruttidoro). La Repubblica era salva, ma a prezzo della fine della legalità restaurata con la Costituzione dell’anno III e della soggezione del potere politico al potere militare. 4. La Rivoluzione francese e l’Europa Tra le classi colte europee la convocazione degli Stati generali e il preannuncio di un nuovo ordine monarchico-costituzionale furono accolti in un primo tempo con simpatia. Le prime perplessità sorsero con l’abolizione dei diritti feudali e con le giornate rivoluzionarie del 5-6 ottobre 1789. Alcuni, come Kant e Verri continuarono a esaltare la libertà e i diritti dell’uomo. Ma altri si trasformarono più o meno rapidamente da sostenitori in denigratori della Rivoluzione e delle sue idee (Alfieri e Burke). I governi assoluti temevano il contagio delle idee rivoluzionarie. Dovunque si strinsero le maglie della censura e furono perseguitati i gruppi filofrancesi, soprattutto dopo lo scoppio delle ostilità e l’appello lanciato dalla Convenzione alla liberazione di tutti i popoli oppressi. La capacità di resistenza mostrata dalla Francia rivoluzionaria e la svolta moderata di termidoro indussero alcune delle maggiori potenze a cessare le ostilità: così la Prussia, le Province Unite e la Spagna. Rimanevano però in armi, oltre ad alcuni Stati minori, l'Inghilterra e l'Austria. Per il governo francese le “frontiere naturali” erano diventate un dogma irrinunciabile e la guerra appariva non solo uno strumento per rinsaldare l'unità nazionale, ma una via quasi obbligata per supplire al dissesto finanziario con le contribuzioni dei territori invasi. Il Direttorio mise a punto per la primavera del 1796 una strategia basata su un attacco a fondo attraverso l'Europa centrale: all'armata d'Italia era assegnato il compito di creare un diversivo e tenere occupata parte delle truppe nemiche. Mentre in Germania gli eserciti francesi furono alla fine costretti a ripassare il Reno, le strepitose vittorie ottenute dal generale Bonaparte, posto il 2 marzo a capo dell'armata d'Italia, fecero di quest'area il centro nevralgico della guerra. Napoleone Bonaparte era nato ad Ajaccio. In Francia si mise in luce nella presa di Tolone. Nella primavera del 1794 ebbe il comando dell'artiglieria nell'armata d'Italia e contribuì all'occupazione francese di Oneglia. Era ritenuto allora un seguace di Robespierre, e la caduta di quest'ultimo portò alla sua destituzione e a un breve periodo di prigionia. A Parigi Bonaparte ebbe poi la fortuna di fare la conoscenza di Barras, che gli affidò la repressione della sommossa monarchica del 5 ottobre 1795. Campagna d’Italia (1796-97): valicato il passo di Cadibona e battuti ripetutamente i piemontesi e gli austriaci, il giovane generale corso stipulò con Vittorio Amedeo III l'armistizio di Cherasco e attuò poi nei confronti degli austriaci un'ampia manovra avvolgente. Il 10 maggio la retroguardia austriaca fu sbaragliata al ponte sull'Adda presso Lodi. Era così aperta la via per Milano, dove Napoleone fece il suo ingresso il 15 maggio. Napoleone costrinse i governi di Parma, Roma e Napoli a firmare tregue onerose. Il 2 febbraio 1797 capitolò Mantova; il 19 Pio VI per evitare l’occupazione di Roma fu costretto a firmare la pace di Tolentino, che sanciva la sua rinuncia a Bologna, a Ferrara e alla Romagna. Nel marzo 1797 Bonaparte attraversò le Alpi e puntò direttamente su Vienna. A Leoben i rappresentati austriaci firmarono i preliminari di una pace che garantiva le conquiste francesi in Italia. Contro il parere del Direttorio Napoleone decise di dar vita nell’Italia settentrionale a una repubblica formalmente indipendente. 5. Il triennio repubblicano in Italia (1796-1799) Nei primi mesi della conquista Napoleone aveva incoraggiato o almeno tollerato l'azione dei “patrioti” (partigiani della Rivoluzione). Milano era diventata il luogo di elaborazione di un programma democratico che prevedeva l'unità nazionale come sbocco di un profondo rinnovamento delle strutture politiche e sociali. Una parte dei nostri “patrioti” era vicina alle posizioni di un Robespierre e di un Saint-Just (democratici), anche se ripudiavano in generale i mezzi violenti del Terrore. Altri simpatizzanti delle idee francesi, di estrazione aristocratica o borghese, erano invece propensi a un progetto moderato di Costituzione repubblicana che limitasse la portata delle trasformazioni all'ambito degli ordinamenti politici e giuridici, lasciando inalterata la distribuzione delle ricchezze, e rifiutando ogni vincolo all'attività economica. A questi moderati andavano le simpatie dello stesso Bonaparte, che prese a favorirli quando si trattò di porre un termine ai governi provisori e di far funzionare le repubbliche da lui istituite. La prima di queste nuove formazioni fu la Repubblica Cispadana, proclamata il 27 dicembre 1796 dai deputati delle città di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, riuniti a congresso. Fu durante questo congresso che venne adottato il tricolore rosso, bianco e verde come vessillo della neonata repubblica. I territori in esso compresi furono aggregati alla Repubblica Cisalpina, creata a Milano nel maggio 1797. Nel giugno 1797 anche gli ordinamenti della Repubblica di Genova, ribattezzata Repubblica Ligure, vennero trasformati in senso democratico. Nelle province venete al di là del Mincio si erano insediate municipalità democratiche che avevano proclamato la propria indipendenza da Venezia. Qui il patriziato pose fine volontariamente al proprio plurisecolare dominio con la deposizione dell'ultimo doge. Napoleone Bonaparte firmò il 17 ottobre la pace di Campoformio con l'Austria, che in cambio del riconoscimento della Repubblica Cisalpina otteneva il Veneto, l'Istria e la Dalmazia. Di lì a poco Napoleone abbandonò l'Italia. Nel febbraio 1798 le truppe francesi occuparono lo Stato pontificio, espulsero il papa Pio VI e proclamarono la Repubblica Romana. Allo stesso periodo risale l'invasione militare della Svizzera neutrale e la costituzione di una Repubblica Elvetica sotto il protettorato francese. Nel novembre 1798 il re di Napoli Ferdinando IV e la regina Maria Carolina lanciarono un attacco contro l'esercito francese di stanza nel Lazio, il quale però mise in fuga i borbonici e nel gennaio 1799 entrò a Napoli: anche qui venne proclamata la Repubblica, che si disse Napoletana o Partenopea. Con l'annessione alla Francia del Piemonte (febbraio 1799) e con l'occupazione militare della Toscana (marzo 1799), tutta la penisola si trovò a essere sotto il controllo diretto o indiretto delle armi francesi, a eccezione del Veneto e del Ducato di Parma e Piacenza. La Sicilia e la Sardegna erano divenute rifugio la prima dei Borbone di Napoli, la seconda dei Savoia. A Milano, a Genova, a Roma, a Lucca e a Napoli furono promulgate Costituzioni ricalcate su quella francese del 1795. Dovunque furono aboliti i titoli nobiliari e i privilegi feudali, incamerati i beni della Chiesa, proclamate l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, la libertà di parola, di stampa e di associazione. Ma tali principi furono spesso contraddetti da un sistematico sfruttamento finanziario, da una serie di interventi autoritari e di colpi di Stato intesi a favorire le forze più docili ai voleri del governo di Parigi. Inoltre mancò una coerente politica volta a migliorare le dure condizioni di vita delle masse popolari. Se a questo si aggiungono la fedeltà agli antichi sovrani, l'attaccamento alle autonomie locali e soprattutto le offese vere o presunte al sentimento religioso, sarà agevole comprendere come mai le plebi rurali e urbane si sollevassero nel triennio rivoluzionario contro i francesi e contro i loro alleati, gli odiati giacobini. Nella primavera del 1799 moti legittimisti e “sanfedisti” scoppiarono in Piemonte, nelle Marche, nel Lazio, in Umbria, in Toscana. Delle varie repubbliche giacobine, che caddero tra la primavera e l'estate 1799, fu la Repubblica Napoletana ad avere il destino più tragico. Un'”Armata cristiana e reale” comandata dal cardinale Fabrizio Ruffo mosse dalla 3. Il blocco continentale, la guerra di Spagna e la quinta coalizione Dopo la pace di Tilsit l'unica potenza ancora in guerra con l'Impero francese era la Gran Bretagna. Napoleone aveva deciso di piegarne la resistenza con l'arma economica. Nel novembre 1806 egli aveva infatti dichiarato l'Inghilterra in “stato di blocco”. Al blocco aderirono successivamente la Russia, la Prussia, la Danimarca e la Spagna. Per essere veramente efficace il blocco richiedeva il controllo di tutte le coste europee. Il contrabbando era di fatto onnipresente. Lo stesso Napoleone fu costretto a concedere licenze d'importazione per alcuni generi. Infine il blocco non poteva essere applicato al Nuovo Mondo e al continente asiatico. L'economia britannica resistette e poté di nuovo respirare quando la penisola iberica insorse contro la Francia e quando i porti russi si riaprirono alle sue esportazioni. La guerra a oltranza contro la Francia trovò un nuovo campione nel ministro della Guerra Robert Stewart visconte Castlereagh. Napoleone riuscì a impadronirsi nei mesi successivi della Spagna, spodestando Carlo IV e proclamando re il fratello Giuseppe. Ma il popolo di Madrid si sollevò contro la presenza francese, e dalla capitale l'insurrezione dilagò rapidamente nelle province. Iniziava così contro “Bonaparte l'Anticristo”, una spietata guerriglia. Nel gennaio 1808 truppe francesi si erano impadronite dello Stato pontificio, che verrà annesso l'anno seguente all'Impero francese, mentre Pio VII, che aveva osato scomunicare Napoleone, verrà imprigionato a Savona. L'insorgenza spagnola continuò a costituire una spina nel fianco del sistema continentale napoleonico e a inghiottire ingenti risorse umane della Francia e dei Paesi alleati. L'Austria era ansiosa di vendicare l'umiliazione subita e nell'aprile 1809, annodata una nuova coalizione (quinta) con l'Inghilterra, invase la Baviera, alleata della Francia. Napoleone passò immediatamente alla controffensiva e entrò per la seconda volta a Vienna. Il 6 luglio 1809 l'arciduca Carlo subì una decisiva sconfitta a Wagram. Con la pace di Vienna, l'Austria perdeva la Galizia settentrionale, la Carinzia, la Carniola, Fiume e Trieste, che insieme all'Istria e alla Dalmazia, separate dal Regno d'Italia, entrarono a far parte dell'Impero francese col nome di Province Illiriche. Il nuovo cancelliere austriaco, Klemens Wenzel Lothar conte di Metternich offrì a Napoleone la mano di una figlia di Francesco I, Maria Luigia. Dal matrimonio nacque Napoleone Francesco Carlo Giuseppe, che ebbe il titolo di “re di Roma”. 4. La Società francese all’apogeo dell’Impero Con le annessioni del 1809 e del 1810 l’Impero francese raggiunse il suo massimo sviluppo. Al vertice della società era la corte imperiale. Alla istituzione della Legion d'onore fece seguito nel marzo 1808 la creazione di una nobiltà imperiale. Il conferimento della nobiltà era strettamente legato al censo. La proprietà fondiaria accanto alla funzione pubblica era il requisito fondamentale per l'appartenenza all' élite sociale. Napoleone continuò a esercitare personalmente il potere. Dopo la proclamazione dell'Impero scomparve ogni traccia di opposizione. Il Tribunato venne soppresso nel 1807 e il Corpo legislativo, così come il Senato, divenne una cassa di risonanza della volontà del padrone. Poco più che esecutori dei suoi ordini erano i ministri. Dai ministeri le direttive del regime si diramavano nelle province attraverso la rete dei prefetti, tutti di nomina governativa. L'asservimento della stampa divenne completo nel 1810 con la limitazione dei giornali a uno solo per dipartimento e l'istituzione della Direzione di stampa e libreria. All'organizzazione del consenso doveva servire l'istruzione, riorganizzata con le leggi del 1802 e del 1806: con la prima furono creati i licei; con la seconda venne istituita l'Università imperiale. La religione doveva essere negli intendimenti di Napoleone un pilastro del regime. Nel 1806 venne imposto al clero un “catechismo imperiale”. Ma l'annessione dello Stato pontificio (1809), la deportazione di Pio VII, il suo rifiuto di riconoscere e di consacrare i vescovi di nuova nomina turbarono le coscienze dei cattolici e recarono non poco danno alla popolarità dell'imperatore. Questa popolarità venne compromessa dalla grave crisi economica che attanagliò la Francia tra il 1810 e il 1812. La coincidenza di una depressione dell'industria tessile e di un cattivo raccolto portò a un aumento della disoccupazione e a un deterioramento nelle condizioni di vita delle masse lavoratrici. Anche le pubbliche finanze erano in una situazione critica, a causa del venir meno delle indennità di guerra a carico dei nemici sconfitti. Al malcontento si aggiungeva quello determinato dal continuo reclutamento di militari da gettare nella fornace spagnola e poi nella spedizione di Russia del 1812. 5. La riorganizzazione politico-territoriale della penisola italiana In seguito alle conquiste di Napoleone, i Paesi Bassi, l’Italia, la Spagna, la Germania, la Polonia entrarono a far parte di un “sistema continentale” che presentava tre situazioni diverse: i territori direttamente annessi all'Impero francese; gli Stati separati dalla Francia, ma sottoposti alla sovranità di Napoleone; gli Stati vassalli affidati a membri della sua famiglia o a sovrani amici. Gli strumenti della conquista furono dovunque l'imposizione dei codici e delle strutture amministrative centralizzate francesi, la subordinazione alla politica estera e agli interessi economici della Francia, la coscrizione militare e i contributi finanziari. Nella penisola italiana, al Regno d'Italia nel centro-nord si contrapponeva a sud il Regno di Napoli, mentre tutte le province non facenti parte di queste due formazioni erano state in momenti diversi aggregate all'Impero francese. Al di fuori del sistema napoleonico rimasero sempre la Sicilia e la Sardegna, rifugio la prima dei Borbone di Napoli, la seconda dei Savoia. La Repubblica Cisalpina fu trasformata in Repubblica Italiana, con una nuova Costituzione promulgata il 26 gennaio 1802 a Lione. “Organo primitivo della sovranità nazionale” erano dichiarati i tre collegi elettorali dei possidenti, dei commercianti e dei dotti, che dovevano eleggere i membri del Corpo legislativo; a questa assemblea era demandata l'approvazione delle leggi preparate da un Consiglio legislativo. La presidenza della Repubblica venne assunta dallo stesso Bonaparte, che nominò vicepresidente un patrizio milanese, Francesco Melzi d'Eril. Nella Repubblica Italiana furono introdotti istituti e ordinamenti analoghi a quelli francesi. Nel marzo 1805 la Repubblica Italiana venne trasformata in Regno d'Italia; Napoleone si fece rappresentare a Milano col titolo di viceré dal figliastro Eugenio di Beauharnais. Vennero creati nuovi organi di governo: un Consiglio di Stato e un Senato. Il Regno si distinse dalla Repubblica per una più decisa opera di ammodernamento e razionalizzazione nei vari settori. Furono adottati il Codice Napoleone e gli altri Codici francesi. Nel 1806 il Regno d'Italia venne ingrandito con l'aggregazione di tutto il Veneto, dell'Istria e della Dalmazia. Nel 1808 gli furono aggiunte le Marche. Nel 1809, allorché l'Istria e la Dalmazia entrarono a far parte del territorio delle Province Illiriche, il Regno d'Italia venne compensato col Trentino e l'Alto Adige. L'agricoltura soffrì in alcune regioni per la tassazione eccessiva e per la perdita degli sbocchi tradizionali, ma fu stimolata dalla richiesta di generi alimentari per l'esercito e di seta greggia per l'industria francese. Gli altri settori dell'economia presentavano pure ombre e luci, giacché alla rovina dei porti e al declino dell'industria serica bisogna contrapporre l'espansione della produzione laniera e dell'estrazione mineraria. Le condizioni di vita delle classi popolari non conobbero significativi mutamenti. Nei ceti medio-superiori, l'età napoleonica accelerò da un lato l'integrazione delle vecchie famiglie nobili e dei nuovi ricchi in un'unica classe di proprietari terrieri, dall'altro la promozione dei pubblici funzionari, dei professionisti, dei tecnici. Più forte fu l'incidenza della dominazione napoleonica nel Regno di Napoli. Giuseppe Bonaparte conferì i dicasteri più importanti a ministri francesi; ma fece largo posto a esponenti della nobiltà napoletana illuminata. Al posto di Giuseppe Bonaparte fu nominato il 31 luglio 1808 Gioacchino Murat. Re Gioacchino si adoperò per imprimere al proprio governo un carattere più nazionale e autonomo. Fu mantenuta nel decennio francese la tradizionale divisione del Regno in dodici province e in ciascuna di esse si insediò un intendente. Il nuovo sistema favorì lo sviluppo dei centri provinciali. Anche nel Mezzogiorno furono introdotti gli ordinamenti giudiziari e finanziari francesi; fu decretata la soppressione della feudalità. A essa seguì tra il 1807 e il 1810 l'opera di divisione dei demani feudali, che però non favorì nella distribuzione dei terreni i contadini poveri. Alle tensioni sociali presenti nel mondo rurale legato poi il fenomeno del brigantaggio, che imperversò soprattutto in Calabria. Per sottomettere la Calabria fu necessario un largo impiego dell'esercito francese, che ricorse a metodi spietati. Nel Mezzogiorno venne costituito, come nel Regno d'Italia, un forte esercito nazionale. 6. L’Europa centro-settentrionale Le regioni dell’area tedesca che più profondamente subirono l’influenza francese furono quelle poste sulla riva sinistra del Reno. Ma sotto Napoleone tale influenza si andò rapidamente estendendo ai territori della Germania centro-occidentale. Va innanzitutto ricordata la radicale riorganizzazione dell'assetto politico- territoriale dell'Impero germanico. Il Sacro Romano Impero venne ufficialmente disciolto nell'agosto 1806; il mese precedente si era costituita la Confederazione del Reno, una associazione di sedici Stati sotto la protezione dell'imperatore francese. Dopo la sconfitta della Prussia entrarono a far parte della Confederazione anche l'elettorato di Sassoni e il nuovo Regno di Vestfalia. Dopo il 1807 conservavano la propria indipendenza politica solo l'Impero austriaco e la Prussia. Il primo trovò nel principe di Metternich un abile ministro degli Esteri, che dal 1809 al 1813 si mantenne apparentemente fedele all'alleanza con la Francia. Ben diversa fu la reazione della Prussia al disastro di Jena (1806). Il re Federico Guglielmo III decise la ristrutturazione degli organi di governo centrali e delle amministrazioni locali, la soppressione della servitù della gleba anche nelle proprietà private, la formazione di poderi contadini autosufficienti, l'abbattimento dei vincoli all'iniziativa economica e alla libera compravendita delle terre. Persino l'esercito venne democratizzato. Alla rinascita della Prussia diedero un notevole impulso gli intellettuali (Johann Gottlieb Fichte e Wilhelm von Humboldt). Più effimera doveva rivelarsi la rinascita della Polonia sotto forma di Granducato di Varsavia. L'abolizione del servaggio rimase qui in buona parte sulla carta e più superficiale che nella Germania occidentale fu la modernizzazione delle istituzioni. Potente fu però l'impulso dato al sentimento nazionale polacco. L'enumerazione degli Stati vassalli della Francia deve essere completata con la Confederazione elvetica. Meno fortunata fu la Repubblica Batava: nel 1806 fu trasformata in Regno d'Olanda, la cui corona fu assunta da un fratello di Napoleone, Luigi; nel 1810 l'Olanda fu definitivamente annessa all'Impero. In questo periodo anche la Danimarca e la Svezia gravitavano nell'orbita politica della Francia. Ma questo “sistema continentale” dimostrerà tutta la sua fragilità non appena il mito dell'invincibilità del suo artefice e dominatore si infranse nel disastro della campagna di Russia. Se in Francia il dominio napoleonico significò soprattutto il ritorno alla stabilità e all'ordine dopo la bufera rivoluzionaria, profondamente diversi furono i suoi effetti sugli altri Paesi europei. I principi di uguaglianza giuridica, di riforma fiscale, di uniformità e razionalità delle leggi e degli ordinamenti si affermarono pienamente, in molti Paesi, solo come conseguenza dell'invasione napoleonica. Lo scarso riguardo mostrato dai conquistatori per le istituzioni, le tradizioni, la fede religiosa delle popolazioni soggette doveva suscitare inevitabilmente, reazioni di ostilità e di rivalsa. In gran parte d'Europa e perfino oltreoceano stimolarono la nascita di un sentimento nazionale e di un bisogno di indipendenza che sono all'origine dei movimenti di liberazione e di unificazione del XIX secolo. 7. Dalla campagna di Russia al crollo del Grande Impero Il giovane zar Alessandro I aveva dimostrato nei primi anni di regno tendenze riformatrici. Tuttavia i più ambiziosi propositi riformatori rimasero inattuati. Si ebbe invece a partire dal 1809, con la conquista della Finlandia una ripresa della politica d'espansione. Nel 1812 si conclusero le operazioni militari condotte a contro la Turchia e contro la Persia con l'annessione della Bessarabia, della Georgia e dell'Azerbaigian. L'espansionismo russo, accanto alla ripresa dei contatti commerciali con l'Inghilterra fu all'origine del raffreddamento di Napoleone nei confronti di Alessandro I, che nel marzo 1812 decise di firmare un trattato di alleanza con la Svezia. Di fronte al “tradimento” dello zar l'imperatore francese si risolse ancora una volta alla guerra. Nella tarda primavera del 1812 si concentrò tra l'Oder e la Vistola il più grande esercito mai visto. I generali russi si ritirarono distruggendo o portando via i raccolti nelle loro retrovie, in modo da privare il nemico dei rifornimenti. Questa tattica sfuggente e l'immensità degli spazi da attraversare misero in crisi la strategia di Napoleone. Solo il 7 settembre, a Borodino, i russi affrontarono la Grande Armata. I francesi ebbero la meglio e il 14 settembre si impadronirono della città. Qui Napoleone perse alcune settimane preziose nella vana attesa dei messaggeri di Alessandro, mentre un incendio scoppiato al Cremlino rendeva più precaria la sopravvivenza dell'esercito. Il 19 ottobre fu dato l'ordine della ritirata. Napoleone voleva piegare verso sud, ma i russi gli chiusero il passo, obbligandolo a ripercorrere il cammino dell'andata. La ritirata si trasformò in un calvario. Napoleone, tornato a Parigi di gran carriera, si