Scarica Storia romana di Geraci - Marcone e più Dispense in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Alessandro CR 1 Giovanni Geraci – Arnaldo Marcone Storia romana Parte prima. I popoli dell’Italia antica e le origini di Roma Capitolo 1. L’Italia preromana L’Italia dell’età del bronzo e dell’età del ferro Nella penisola italiana si assiste dal III al I millennio a.C. a uno sviluppo di notevoli proporzioni. Il numero degli insediamenti si riduce, mentre quelli che sopravvivono si estendono in misura notevole, cosa che implica uno sfruttamento più intensivo delle risorse disponibili. Questo fenomeno è particolarmente evidente nella cultura «terramaricola1», che diede vita a insediamenti di capanne che poggiavano su una sorta di impalcatura di legno, che aveva lo scopo di creare una sorta di difesa naturale dagli attacchi di animali selvatici e, soprattutto, di isolarle dal terreno acquitrinoso circostante. Nel corso dell’età del bronzo è documentata un’intensa circolazione di prodotti e anche di persone. Tali contatti favorirono direttamente o indirettamente, il formarsi, tra le popolazioni indigene, di aggregazioni più consistenti, con differenziazioni al loro interno e poteri politi più forti. Con l’inizio dell’età del ferro l’Italia presenta un quadro differenziato di culture locali. Un primo criterio di differenziazione concerne le modalità di sepoltura: la cremazione (Italia settentrionale, lungo la costa tirrenica sino alla Campania) e l’inumazione (nelle restanti regioni). Tra le culture che assumono caratteri distintivi si segnalano i «Golasecca» (laghi del Piemonte e della Lombardia), «cultura di Este» (Padova), «Villanoviana» (Etruria ed Emilia). La diversità delle culture presenti in Italia all’inizio del primo millennio a.C. ha un riscontro importante in un quadro linguistico assai variegato, indoeuropeo (latino, falisco, umbro-sabino, osco, un altro meno noto riferito agli Enotri e ai Siculi, il celtico e il messapico) e non indoeuropeo (etrusco, ligure, retico, sardo). Un posto di eccezionale rilievo tra le culture dell’Italia preromana è rivestito dalle colonie della Magna Grecia fondate nell’Italia meridionale, a partire dalla metà dell’VIII secolo a.C. Un posto a parte nel composito quadro delle culture italiche ha la civiltà dei Sardi (nuragica), che si sviluppò in Sardegna tra l’età del bronzo e quella del ferro. I primi frequentatori dell’Italia meridionale Le fonti letterarie e storiografiche ci forniscono alcune notizie sulle origini dei popoli italici. Queste notizie, che contengono elementi leggendari, si devono soprattutto a storici greci che però iniziano a scrivere dell’Italia meridionale solo nel V secolo a.C. (es. Dionigi di Alicarnasso). In realtà, all’origine di questo riassetto del territorio e del suo popolamento, tuttavia, difficilmente può esserci stato l’arrivo di una popolazione dall’Arcadia (Grecia), come suggerisce Dionigi. I dati archeologici lasciano presupporre una cultura del meridione della penisola italica dai tratti indigeni. Nel racconto c’è tuttavia un residuo di verità storica: i rapporti intercorsi tra le popolazioni 1 È il termine col quale si definiscono i grossi tumuli di terra grassa e scura formati dai depositi dei primitivi insediamenti. Alessandro CR 2 indigene dell’Italia meridionale e i Micenei non erano semplicemente “commerciali”, ma erano anche più complessi. Dopo un’interruzione di quasi quattro secoli, legata alla crisi del mondo miceneo, le importazioni di ceramiche prodotte in Grecia riprendono sulle coste calabresi nella prima età del ferro, verso l’VIII secolo a.C. Questa ripresa preannuncia una svolta nell’interesse dei Greci per l’Italia meridionale che si tradurrà in una grande impresa di colonizzare. Nel frattempo la società indigena si è trasformata: gli insediamenti hanno conosciuto un processo di selezione che ha dato origine a comunità più popolose (forse fino a 20.000 abitanti). Le trasformazioni dell’Italia centrale Tra l’VIII e il V secolo a.C. si assiste a un grande fenomeno espansivo delle popolazioni dell’Appenino centro-meridionale. È un fenomeno che conosciamo meglio per quanto riguarda il versante tirrenico, con i Sabini che si intromettono nella Roma dei Latini e gli altri gruppi etnici di lingua non latina (Equi, Ernici e Volsci). Questo movimento ha il suo apice tra il V e il IV secolo a.C. con l’espansionismo dei Sanniti. Sul versante adriatico una civiltà importante, quella picena, comincia a configurarsi nella prima età del ferro (IX-VII secolo a.C.). Capitolo 2. Gli Etruschi Origine ed espansione degli Etruschi Gli Etruschi (noti ai Greci come «Tirreni») sono la più importante popolazione dell’Italia preromana. L’origine della civiltà etrusca sembra riconducibile ad uno sviluppo autonomo realizzatosi nella regione compresa tra i corsi dell’Arno e del Tevere. Anche se nella fase della loro massima espansione (VII-VI secolo a.C.) gli Etruschi controllavano gran parte dell’Italia centro-occidentale e competevano con i Greci e i Cartaginesi per il controllo delle principali rotte marittime, questo popolo non diede mai vita ad uno Stato unitario. Gli Etruschi si organizzarono fin dalle origini in città indipendenti governate da sovrani, detti «lucumoni», che furono poi sostituiti da magistrati eletti annualmente, gli «zilath». L’unica forma di aggregazione delle comunità etrusche che ci sia nota è quella rappresentata dalla lega delle 12 città principali (Veio, Cere, Tarquinia, Vulci, Roselle, Vetulonia, Volterra, Chiusi, Cortona, Perugia, Arezzo e Fiesole), una unione che aveva però scopi essenzialmente religiosi. La società etrusca si distinse per un carattere profondamente aristocratico; il governo delle città era infatti nelle mani di un gruppo ristretto di proprietari terrieri e di ricchi commercianti. Religione e cultura La sfera religiosa etrusca comprende una ricchezza di culti e di scritti sacri ben codificati, accanto a tecniche specifiche con componenti magiche. Le divinità del pantheon etrusco sono in gran parte assimilabili a quelle greche (Hercle = Eracle, Apulu = Apollo, Artumes = Artemide). Altri dèi hanno nomi che rivelano un’origine indigena (come Selvans = Silvano). In un sistema simile a quello dell’Olimpo ellenico dove, al di sopra dello stesso Zeus, dominava il Fato, anche presso gli Etruschi la divinità suprema, Tinia, dispensatrice di folgori, appare subordinata al Fato. Tutte le altre divinità erano ordinate secondo gerarchie e distribuite in collegi che si suddividevano le competenze nelle sfere di giudizio (come gli Dei Superiori) e nei regni di supremazia, come quello dei mortali e quello degli inferi. Alessandro CR 5 La fondazione di Roma La nascita della città di Roma dovette essere piuttosto il risultato di un processo formativo lento e graduale, per il quale si deve presupporre una sorta di federazione di comunità separate che già vivevano sparse sui singoli colli. Alcuni villaggi situati sullo stesso colle Palatino possono essere considerati come il nucleo originario della futura Roma, la cui storia in senso stretto iniziò attorno all’VIII secolo a.C. Le vicende delle origini di Roma si comprendono meglio se si tiene conto che essa sorgeva a ridosso del basso corso del Tevere, in una posizione di confine tra due aree etnicamente differenti, che erano separate proprio dal corso di quel fiume: la zona etrusca e il Lazio antico (Latium vetus) formavano allora una regione molto più piccola di quella del Lazio attuale. Nel periodo in cui si colloca la formazione di Roma come città (VIII-VII secolo), la differenza etnica, culturale e linguistica dei popoli abitanti tali aree, cioè gli Etruschi e i Latini, era già nettamente definita. Sembra improbabile che Roma abbia preso nome da un fondatore Romolo: se mai è più probabile il contrario, cioè che l’esistenza di una città chiamata Roma fece immaginare che fosse stata fondata da Romolo, l’eroe eponimo, come era accaduto per le città della storia greca. In realtà, non siamo in grado di stabilire con sicurezza quale sia l’origine del nome «Roma». Tra le possibilità, c’è quella che derivi dalla parola ruma (“mammella”, nel senso di collina), oppure da Rumon, il termine latino arcaico che designava il fiume Tevere. Il «muro di Romolo» Il racconto tradizionale risulterebbe allora sostanzialmente confermato: verso la metà dell’VIII secolo a.C. un re sacerdote eponimo (Romolo, appunto) avrebbe celebrato un vero e proprio rito di fondazione tracciando i limiti della città (il «muro di Romolo»). Il pomerio e i riti di fondazione Nella fondazione di una città un’importanza fondamentale dal punto di vista religioso era rivestita dal pomerio (“che si trova al di là del muro”). Il pomerio era in origine la linea sacra che ne delimitava il perimetro in corrispondenza con le mura. In un secondo tempo il nome servì a designare anche una zona di rispetto che separava le case dalle mura stesse, dove non era permesso fabbricare né seppellire, né piantare alberi. Il pomerio però non sempre coincideva con le mura, in quanto esso era tracciato secondo la procedura religiosa, cioè secondo gli auspici che avevano preso gli àuguri. Le mura invece rispondevano ad esigenze di difesa in rapporto al territorio. Poteva così capitare che fra le due linee ci fosse una notevole distanza. Questo spiega perché l’ampliamento del pomerio potesse avvenire solo in circostanze molto particolari. La coincidenza tra mura e pomerio in realtà non sembra sussistere neppure nella primitiva città edificata sul Palatino. Le mura, infatti, giravano a mezza costa della collina mentre il pomerio girava attorno alla sua base con un perimetro notevolmente più esteso. L’area del pomerio era limitata da cippi infissi nel terreno a seguito di una cerimonia religiosa presieduta dal pontefice massimo. In caso di ampliamento di tale area, i vecchi cippi, in quanto oggetti sacri, venivano conservati. Alessandro CR 6 Lo Stato romano arcaico Alla base dell’organizzazione dei Latini ci fu una struttura in famiglie, alla cui testa stava il pater, la figura depositaria di un potere assoluto su tutti i suoi componenti, ivi compresi gli schiavi e i clienti, cioè quanti si trovavano in una condizione di inferiorità ed avevano bisogno del sostegno di un capo autorevole. Tutte le famiglie che riconoscevano di avere un antenato comune costituivano la gens, un gruppo organizzato politicamente e religiosamente. La popolazione dello Stato romano arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari, detti «curie»: le curie comprendevano tutti gli abitanti del territorio, ad esclusione degli schiavi. Non conosciamo la loro funzione in età arcaica e neppure sappiamo se fossero organizzate su base territoriale (se quindi funzionassero come sorta di distretti) o su base gentilizia (dal momento che le gentes avevano anch’esse una loro base territoriale). In epoca più tarda ai comizi curiati rimasero attribuite determinate funzioni inerenti il diritto civile, per esempio in relazione ad adozioni ed a testamenti; ai comizi spettava inoltre il compito di votare la cosiddetta lex de imperio che conferiva il potere al magistrato eletto. Eguale incertezza regna a proposito di un altro importante raggruppamento, le tribù, la cui creazione fu attribuita, senza fondamento, allo stesso Romolo. Esse originariamente erano tre: i loro nomi, Tities, Ramnes e Luceres, fecero pensare agli stessi antichi che la loro origine fosse etrusca. In effetti riconducibili all’onomastica etrusca sono i nomi delle ultime due tribù; più incerto è il caso della prima, che, forse a torto, è stata invece collegata alla componente di origine sabina e al nome di Tito Tazio. In un’epoca relativamente tarda, che dovette coincidere grosso modo con il periodo del predominio etrusco, lo Stato romano si organizzò secondo criteri più precisi: ogni tribù fu divisa in dieci curie e da ogni tribù furono scelti cento senatori (trecento in tutto erano quelli che costituivano la prima assemblea degli anziani). Tale struttura di base è molto importante, perché su questo modello si fondò anche l’organizzazione militare: ogni tribù era infatti tenuta a fornire un contingente di cavalleria e uno di fanteria rispettivamente di cento e mille uomini. La componente fondamentale dell’esercito, la legione, risultava quindi composta da tremila fanti e da trecento cavalieri (detti celeres). La monarchia romana La caratteristica principale della monarchia romana era quella di essere elettiva: l’elezione del re era infatti demandata all’assemblea dei rappresentanti delle famiglie più in vista. Originariamente il re doveva essere affiancato nelle sue funzioni da un consiglio di anziani composto dai capi di quelle più nobili e più ricche (chiamati i patres); questi uomini rappresentavano il nucleo di quello che poi sarebbe stato il senato. Della realtà storica di una fase monarchica a Roma rimangono, in età successiva, due testimonianze fondamentali: la prima è data dall’esistenza di un sacerdote che portava il nome di rex sacrorum e che aveva il compito di dare realizzazione ai riti prima eseguiti dal re; la seconda è che col termine interrex veniva definito il magistrato che subentrava nel caso di indisponibilità di entrambi i consoli. Il potere del re, in assenza ovviamente di qualsiasi forma di costituzione, doveva trovare una limitazione di fatto in quello detenuto dai capi delle gentes principali. Il re era anche il supremo capo religioso e nella celebrazione del culto veniva affiancato dai collegi dei sacerdoti. Tra questi, particolarmente importante fu quello dei pontefici: costoro, infatti, erano i depositari e gli interpreti delle norme giuridiche, prima che si giungesse alla redazione di un corpus di leggi scritte. Alessandro CR 7 Il collegio degli àuguri aveva invece il compito di interpretare la volontà divina allo scopo di propiziarsela, così da garantire il felice esito di un’impresa; quello delle vestali era composto da donne votate ad una castità trentennale, il cui compito era di custodire il fuoco sacro che ardeva perpetuamente nel tempio della dea Vesta. Patrizi e plebei La massima incertezza regna anche sull’origine della divisione sociale che è alla base di Roma arcaica e che rimarrà viva per quasi tutta la storia della Repubblica, quella tra patrizi e plebei. Per la tradizione i patrizi erano semplicemente i discendenti dei primi senatori (i patres), la cui nomina si faceva risalire a Romolo. L’influenza etrusca Roma conobbe uno sviluppo notevole nel corso del VI secolo a.C., nel periodo in cui si trovò sotto il controllo etrusco. Il predominio etrusco sulla città ha lasciato segni importanti nella stessa tradizione letteraria, che è suffragata dalla documentazione archeologica e da altre prove. La realtà di tale supremazia etrusca traspare anche nella vicenda relativa all’ascesa al potere di Tarquinio Prisco. Secondo il racconto della tradizione, Tarquinio è il figlio di un greco originario di Corinto, Demarato, che, arrivato a Tarquinia, sposa una giovane appartenente all’aristocrazia locale; alla morte del padre ne eredita le ingenti ricchezze, ma la sua origine straniera gli impedisce di accedere al governo della città. Il giovane decide allora di trasferirsi a Roma, la città che godeva fama di accogliere generosamente gli stranieri; giunto a Roma il Lucumone (così si chiamò originariamente Tarquinio) si guadagnò il favore di Anco Marcio e, cambiato il suo nome in quello di Lucio Tarquinio, alla morte del re venne eletto suo successore. Una versione simile, che avvalora una prospettiva “latina” della nascita di una monarchia etrusca a Roma, conserva il ricordo di un’epoca in cui Roma era inserita in un contesto più ampio di quello delle sue origini, contesto che vedeva l’Italia centromeridionale sede di relazioni molto intense in particolare tra Greci ed Etruschi. Nella tomba François a Vulci (la tomba è così chiamata dal nome del suo scopritore) sono raffigurati i fratelli Vibenna che lottano insieme ad un personaggio chiamato Mastarna contro un certo Gneo Tarquinio, di Roma. Anche l’episodio del signore di Chiusi, di nome Porsenna, che riuscì probabilmente ad impadronirsi per qualche tempo di Roma dopo aver scacciato i Tarquini, è una storia che si inserisce bene in questa situazione di equilibri incerti. L’interpretazione più verosimile è che Porsenna, dopo essersi impadronito della città, ne sia stato a sua volta allontanato a seguito dell’intervento di Aristodemo di Cuma e dei Latini intervenuti in soccorso dei Tarquini. Servio Tullio e Tarquinio il Superbo Il nome di Mastarna è strettamente connesso a quello di Servio Tullio, con il quale viene talvolta identificato. La figura di questo sovrano, la cui fama si mantenne viva nel tempo, è circondata nella tradizione latina di elementi eroici. Nato da una schiava di nome Ocresia, e da un Tullio signore di Cornicoli, Servio, molto caro a Tanaquilla, la moglie di Tarquinio, fu educato alla corte del re, del quale sposò una delle figlie. Quando Tarquinio fu assassinato dai figli di Anco Marcio, Servio assunse i poteri regi senza però che la sua successione fosse pienamente legittima in mancanza della nomina da parte dell’interrex. L’aspetto notevole di questa tradizione è che lascia intravedere una fase della monarchia romana nella quale evidentemente il principio della monarchia elettiva, Alessandro CR 10 discendenza: adottare figli di altri serviva anche per realizzare precise scelte patrimoniali, o addirittura per concretizzare delle strategie politiche. Poteva valer la pena, per esempio, adottare un orfano, se erede di un ricco patrimonio, e promettergli in cambio l’appoggio per la carriera politica. Esistevano forme diverse per contrarre un matrimonio: soprattutto in origine era diffusa la cosiddetta confarreatio (cioè la divisione di una focaccia di farro tra i due sposi), oppure la mancipatio (una sorta di atto di compravendita). Il sistema più comune per sposarsi a Roma era però quello chiamato usus, cioè l’ininterrotta convivenza dei coniugi per un anno. In mancanza di un atto che sancisse formalmente la nuova unione, il problema era di stabilire quando una convivenza fosse di tipo matrimoniale. Proprio per questo il ruolo dei testimoni era fondamentale in caso di contestazioni. Il divorzio era un atto altrettanto informale. Il ripudio, invece, era un atto semplicissimo e consisteva nella separazione di fatto dei coniugi; di norma, tuttavia, avveniva a seguito di una decisione unilaterale dell’uomo. Al divorzio consensuale, per il quale l’iniziativa poteva essere presa anche dalla moglie, si arrivò solo nel corso del tempo. Agricoltura ed alimentazione Il Tevere costituiva nell’antichità la linea di demarcazione tra due aree con caratteristiche diverse, quella etrusca a nord del fiume e quella propriamente laziale a sud. Tale differenziazione, in realtà, sembra manifestarsi in modo percepibile solo a partire dal IX-VIII secolo a.C., mentre l’importanza del sito della futura Roma, come punto di incontro di vie che andavano in più direzioni (dal mare all’interno e lungo la costa), resta in tutta la sua evidenza. Un prodotto importante come il sale, proveniente dalle saline situate alla foce del Tevere, passava di lì per essere trasportato verso l’interno, nel territorio sabino lungo il percorso della futura via Salaria (= via del sale). L’agricoltura di Roma arcaica era limitata dalle condizioni poco favorevoli del terreno, cui si aggiungeva negativamente la bassa qualità delle tecniche agricole. Nel Lazio arcaico, in particolare, è attestata la situazione tipica di economie povere o di sussistenza. La documentazione paleobotanica mostra come varie specie di cereali, soprattutto farro e orzo, fossero associate tra loro anche con leguminose, come la veccia: è quella che i Latini chiamavano farrago. La proprietà della terra in Roma arcaica Controversa è la questione della prima forma di proprietà agraria a Roma. Rispetto a un’originaria proprietà collettiva della terra, la tradizione relativa alla prima assegnazione di lotti in proprietà privata, che risalirebbe addirittura a Romolo, se accettata, implica una ricostruzione, sul piano storico, delle vicende della proprietà terriera in Roma arcaica di questo tipo: rispetto a un’originaria proprietà collettiva, la prima forma di proprietà era limitata solo alla casa e all’orto circostante (heredium in latino arcaico significa appunto “orto”), mentre da essa era esclusa la terra arabile e quella a pascolo. Oltre al termine heredium nelle fonti ne compare anche un altro, sors. Questo si applica altrettanto bene alla nozione di proprietà trasmissibile per via ereditaria che a quella di lotto assegnato per sorteggio, come sarà nel caso delle assegnazioni di terra data ai coloni romani in età repubblicana. L’ideologia “indoeuropea” nei racconti sulle origini di Roma «Indoeuropei» è una denominazione convenzionale di una popolazione vissuta in un’epoca remota (III-IV millennio a.C.), in una regione che in genere si colloca nella grande pianura russa. Tra il III e il Alessandro CR 11 II millennio a.C. gli Indoeuropei si spostarono in varie direzioni (Anatolia, Grecia e Italia). In genere imposero la loro lingua ai popoli conquistati, ma ne adottarono la scrittura. Nel caso della storia di Roma arcaica, lo studioso francese Georges Dumézil, ha creduto di potervi rintracciare un’importante eredità indoeuropea in una notevole serie di episodi. Per esempio ha accertato che la vicenda del ratto delle Sabine, che secondo la tradizione sarebbe avvenuto all’epoca di Romolo quando Roma rischiava l’estinzione per mancanza di donne, è costruito secondo uno schema di origine indoeuropea, come prova un racconto della mitologia scandinava. La scoperta del Lapis Niger Un grande scalpore suscitò la scoperta, avvenuta nel gennaio 1899, nell’angolo settentrionale del Foro, di una pavimentazione in marmo nero distinta dalla restante pavimentazione in travertino. La scoperta fu subito associata a una fonte letteraria che accennava all’esistenza di una «pietra nera nel Comizio», che contrassegnava un luogo funesto, forse la tomba di Romolo. Al di sotto del pavimento fu scoperto un complesso monumentale arcaico, comprendente una piattaforma sulla quale sorgeva un altare. Vicino ad esso era un tronco di una colonna, o una base di una statua, recante il testo mutilo di un’iscrizione, scritta in un latino molto arcaico. Dalle poche parole leggibili si deduce che si tratta di una dedica fatta a un re e che si minacciano pene terribili a chi avesse violato questo luogo. È interessante che il re in questione doveva essere un vero monarca, il che riconduce questo complesso a un’età molto arcaica. Naturalmente, quand’anche si trattasse davvero di un luogo di culto di Romolo, la cosa non deve essere necessariamente intesa come una prova dell’esistenza storica del primo re di Roma ma, semplicemente, dell’antichità della tradizione che ne faceva il fondatore della città. Le origini di Roma secondo un imperatore romano Nel 48 d.C. Claudio pronunciò un discorso in senato a favore dell’ammissione nell’assemblea di alcuni illustri rappresentanti della provincia della Gallia Comata. Per dimostrare la tradizionale apertura di Roma nei confronti degli stranieri egli prende spunto dalle vicende delle origini della città. Fornisce così delle informazioni desunte dalla tradizione antiquaria romana ed etrusca. Il testo del discorso fu inciso su una tavola di bronzo collocata nel santuario dedicato al culto imperiale nei pressi di Lione. La grande Roma dei Tarquini Il secolo che intercorre tra l’accessione al regno di Tarquinio Prisco e la cacciata di Tarquinio il Superbo (esattamente 107 anni secondo la tradizione, dalla fine del VII alla fine del VI secolo a.C.), con le conseguenze che interessarono l’organizzazione e l’assetto urbano delle comunità insediate nel Lazio, ha un riscontro in un documento eccezionale, risalente addirittura al 508 a.C., che lo storico greco Polibio (II secolo a.C.) asserisce di aver visto nell’archivio pubblico di Roma, dove esso era conservato, e si deduce che la crescita della potenza romanza nel secolo dei Tarquini sarebbe stata molto rilevante. Alessandro CR 12 Parte seconda. La repubblica di Roma dalle origini ai Gracchi Capitolo 1. La nascita della Repubblica La tradizione storiografica sulla nascita della Repubblica La storiografia antica sulla nascita della Repubblica, rappresentata per noi essenzialmente da Tito Livio e Dionigi di Alicarnasso, ci presenta un quadro chiaro: Sesto Tarquinio, figlio dell’ultimo re etrusco di Roma, respinto dall’aristocratica Lucrezia, violenta la giovane. Lucrezia, prima di suicidarsi, narra il misfatto al padre, Spurio Lucrezio, al marito Lucio Tarquinio Collatino e ai loro amici Lucio Giunio Bruto e Publio Valerio Publicola. Guidata da questi aristocratici, scoppia una rivolta che porta alla caduta della monarchia, un evento canonicamente fissato al 510 a.C. Tarquinio il Superbo, in quel momento impegnato in operazioni militari attorno ad Ardea, non è in grado di rispondere con prontezza. Nell’anno successivo, il 509 a.C., primo della Repubblica, i poteri del re passano a due magistrati eletti dal popolo, i consoli, uno dei quali è lo stesso Bruto. Il tentativo intrapreso da Porsenna, re della città etrusca di Chiusi, di restaurare il potere di Tarquinio su Roma viene frustrato dall’eroismo della neonata Repubblica. Talune incoerenze nella narrazione e le numerose incertezze ammesse dagli stessi autori antichi hanno portato gli storici moderni a sottoporre la tradizione sulla fine della monarchia e la nascita della Repubblica ad una critica più o meno radicale: vale la pena soffermarsi preliminarmente sulle liste dei supremi magistrati della Repubblica, dalla cui credibilità dipendono essenzialmente le soluzioni che si sono date ai molti interrogativi su questa fase della storia di Roma. I Fasti I Fasti sono liste dei magistrati eponimi della Repubblica, di quei magistrati cioè che davano il nome all’anno in corso, secondo il computo cronologico dei Romani. I Fasti ci sono giunti attraverso la tradizione letteraria (Livio e Diodoro Siculo), sia attraverso documenti epigrafici (Fasti Capitolini). Le incongruenze tra le diverse versioni dei Fasti, l’inserimento di alcuni anni di anarchia in cui non vennero eletti magistrati o nei quali la funzione eponima venne assolta da un dittatore e non, come di consueto, dai due consoli, e soprattutto la comparsa fra i consoli eponimi della prima metà del V secolo a.C. di diversi personaggi con nomi di gentes plebee (mentre dalle fonti letterarie sappiamo che la massima magistratura repubblicana fino al 367 a.C. era riservata ai patrizi) hanno suscitato diversi dubbi sull’attendibilità delle liste di magistrati, almeno per la fase più antica, tuttavia nessuno di questi elementi consente di rigettare in blocco la credibilità dei Fasti: riguardo la comparsa di presunti plebei fra i consoli del V secolo a.C., si potrebbe pensare che i consoli della prima fase della Repubblica appartenessero ad un ramo patrizio, poi estintosi. La fine della monarchia e la creazione della Repubblica: evento traumatico o passaggio graduale? La storia della violenza subita da Lucrezia, sia essa autentica o frutto della fantasia, non spiega i motivi profondi della caduta del regime monarchico a Roma. Alcuni elementi lasciano piuttosto pensare che alla cacciata di Tarquinio il Superbo sia succeduto un breve, ma confuso periodo, in cui Roma appare in balìa di re e condottieri, come Porsenna di Chiusi (che secondo una tradizione riportata da Plinio il Vecchio e da Tacito avrebbe effettivamente controllato Roma per qualche tempo) o come Mastarna e i fratelli Vibenna. Alessandro CR 15 Il principale strumento istituzionale in possesso del senato per influire sulla vita politica della Repubblica era costituito dalla auctoritas patrum (diritto di sanzione). A fronte di magistrati la cui carica durava generalmente un solo anno, quella di senatore era vitalizia. Essi avevano dunque la possibilità di dispiegare la loro politica con continuità d’azione. Dal momento poi che il senato era composto da ex magistrati, questi non avevano alcun interesse ad agire in contrasto con l’assemblea di cui stavano per entrare a far parte. La cittadinanza e le assemblee popolari Il terzo pilastro, oltre alle magistrature e al senato, sul quale si resse l’edificio istituzionale della Roma repubblicana è costituito dalle assemblee popolari. Non tutta la popolazione dello Stato romano poteva far parte di questi organismi, che erano riservati ai maschi adulti di libera condizione e in possesso del diritto di cittadinanza. Si diveniva cittadini romani essenzialmente per diritto di nascita, in quanto figli legittimi di padre in possesso della piena cittadinanza. Durante l’età repubblicana, parallelamente all’accrescersi delle competenze delle altre assemblee popolari, i comitia curiata (comizi curiati) persero progressivamente di significato. Nella prima età repubblicana l’assemblea più importante di Roma è costituita dai comizi centuriati, fondati su di una ripartizione della cittadinanza in classi di censo e, all’interno di queste, in centurie, che la tradizione faceva risalire già al re Servio Tullio, ma che nell’articolazione a noi nota appartengono certamente ad un periodo posteriore. Il meccanismo dei comizi centuriati prevede che le risoluzioni siano prese non a maggioranza dei voti individuali, ma a maggioranza delle unità di voto costituite dalle centurie, assicurando così un consistente vantaggio all’elemento più facoltoso e più anziano della cittadinanza. Le centurie infatti non avevano tutte un eguale numero di componenti, dal momento che le persone dotate del censo più alto e iscritte nelle classi di età dai 46 ai 60 anni (i seniores) erano molte di meno rispetto ai cittadini meno ricchi e iscritti nelle classi di età tra i 17 e 45 anni (gli iuniores). In particolare si può osservare che se le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della I classe avessero votato compatte, come spesso avvenne, avrebbero potuto raggiungere da sole la maggioranza assoluta nei comizi: 98 unità di voto su di un totale di 193. La funzione più importante dell’assemblea centuriata era quella elettorale: spettava infatti ai comitia centuriata l’elezione dei consoli e degli altri magistrati superiori. Ultimi per data di creazione tra le assemblee in cui si riunivano i cittadini di Roma sono i comizi tributi, ricordati per la prima volta nel 447 a.C., quando venne affidata loro l’elezione dei questori. In questa assemblea il popolo votava per tribù, cioè a seconda dell’iscrizione in una di quelle tribù territoriali che, secondo la tradizione, erano state istituite già da Servio Tullio. Ad un primo sguardo il meccanismo di voto dell’assemblea tributa potrebbe apparire più democratico rispetto a quello vigente nei comizi centuriati, dove i ricchi e gli anziani avevano una posizione di vantaggio. Di fatto, tuttavia, anche nei comitia tributa venne creandosi una forma di disuguaglianza: il numero delle tribù urbane, nonostante il forte aumento della popolazione della città di Roma, rimase sempre fissato al numero di 4, stabilito secondo la tradizione da Servio Tullio, mentre il numero delle tribù rustiche si accrebbe dalle 16 di età regia fino a raggiungere le 31 nel 241 a.C. In tal modo la popolazione delle campagne si trovò ad avere nei comizi tributi un peso maggiore rispetto alla popolazione urbana. Anche l’assemblea tributa aveva funzione elettorale, scegliendo i magistrati minori, e soprattutto legislativa, tranne per quelle poche materie che erano competenza dei comizi centuriati. Alessandro CR 16 I poteri delle assemblee popolari a Roma soggiacevano a diverse importanti limitazioni. Da un lato esse non potevano autoconvocarsi né assumere alcuna iniziativa autonoma. Spettava ai magistrati che le presiedevano indire l’adunanza, stabilire l’ordine del giorno e sottoporre al voto le proposte di legge, che l’assemblea poteva accettare o respingere, ma non modificare. La comparsa di un qualche presagio infausto consentiva poi ai consoli, su avviso degli àuguri, di interrompere a propria discrezione i lavori delle assemblee popolari: non può stupire che spesso si sia fatto un uso strumentale di questa prerogativa, al fine di bloccare risoluzioni indesiderate. D’altro lato ogni decisione dei comizi, prima di divenire vincolante, doveva ricevere la sanzione del senato. Capitolo 2. Il conflitto tra patrizi e plebei Il problema economico La caduta dei Tarquini e i mutamenti nel quadro internazionale della prima metà del V secolo a.C. ebbero pesanti ripercussioni nella situazione economica di Roma. La sconfitta subita dagli Etruschi ad opera di Ierone di Siracusa nella battaglia navale combattuta nelle acque davanti a Cuma, nel 474 a.C., portò al definitivo crollo del dominio etrusco in Campania, causando indirettamente un grave danno per la stessa Roma, che era prosperata anche grazie alla sua funzione di punto di passaggio sul Tevere lungo la via commerciale che conduceva dall’Etruria alle città etrusche della Campania. Lo stato quasi permanente di guerra tra Roma e i suoi vicini provocò continue razzie e devastazioni dei campi. Al mutato quadro esterno fanno riscontro crescenti difficoltà interne: in particolare le annate di cattivo raccolto che, secondo le attendibili notizie registrate nella tradizione storiografica, si successero numerose nel corso del V secolo a.C., provocando gravi carestie. La popolazione, indebolita dalla fame, venne ripetutamente colpita da epidemie. Gli effetti dei cattivi raccolti e delle malattie colpivano in particolare i piccoli agricoltori, che avevano minori possibilità di fronteggiare le temporanee difficoltà e spesso, per sopravvivere, si trovavano costretti ad indebitarsi nei confronti dei più ricchi proprietari terrieri. Accadeva di frequente che il debitore, incapace di estinguere il proprio debito, fosse costretto a porsi al servizio del creditore per ripagarlo del prestito e dei forti interessi maturati: è l’istituto del nexum, che riduceva coloro che ne erano vincolati ad una condizione non dissimile a quella di uno schiavo. Ma questa non era la sorte peggiore nella quale il debitore insolvente rischiava di incorrere: egli infatti poteva anche essere venduto in terra straniera o addirittura messo a morte. Davanti alla crisi economica, le richieste della plebe concernevano una mitigazione delle norme sui debiti, in particolare riguardanti il tasso massimo di interesse e la condizione dei debitori insolventi, e una più equa distribuzione dei terreni di proprietà dello Stato, l’ager publicus. Il problema politico Gli strati più ricchi della plebe erano meno interessati dalla crisi economica. Ciò che essi soprattutto rivendicavano era una parificazione dei diritti politici tra i due ordini: in effetti, se mai la massima magistratura era stata aperta ai plebei, progressivamente il patriziato ne aveva assunto il completo monopolio. Una seconda importante rivendicazione di ordine politico era quella di un codice scritto di leggi, che ponesse i cittadini al riparo delle arbitrarie applicazioni delle norme da parte di coloro che, fino a quel momento, erano stati depositari del sapere giuridico, i patrizi riuniti nel collegio dei pontefici. Alessandro CR 17 Le strutture militari e la coscienza della plebe Oltre ai problemi politici ed economici, vi è anche la progressiva presa di coscienza della propria importante da parte della plebe. Nella città antica l’esercizio dei diritti civici da parte del singolo è direttamente connesso alle sue capacità di difendere lo Stato con le armi. Si potrebbe anzi affermare che la relazione tra diritti politici e doveri militari ha un carattere strutturale. A Roma questa circostanza è dimostrata nel modo più chiaro dall’ordinamento centuriato: se le 18 centurie degli equites e le 80 centurie della I classe da sole potevano costituire una maggioranza politica, le stesse 98 centurie pagavano il tributo di sangue maggiore, mentre i capite censi, in pratica privi di ruolo nell’assemblea centuriata, di regola furono esentati dal servizio militare durante tutta la prima e media età repubblicana. In considerazione della strettissima correlazione esistente tra ordinamento politico e ordinamento militare è del tutto ovvio dunque che anche la presa di coscienza della plebe fosse il risultato di un mutamento nella struttura dell’esercito: proprio nel V secolo a.C. si afferma definitivamente un nuovo modello tattico, secondo il quale fanti con armatura pesante (gli opliti, per usare un termine greco) combattono l’uno a fianco dell’altro in una formazione chiusa, la falange. L’ordinamento oplitico-falangitico, che Roma eredita dal mondo greco attraverso l’intermediazione etrusca, eclissa progressivamente il modello di combattimento aristocratico, fondato su una cavalleria di nobili seguiti da una turba di clienti con armamento leggero. Il nerbo dell’esercito romano sarà d’ora in poi costituito dalla fanteria pesante, reclutata tra le classi di censo in grado di sostenere i costi dell’armamento oplitico, che rimase a lungo a carico dei singoli soldati e non dello Stato. La prima secessione e il tribunato della plebe Il conflitto tra i due ordini si apre nel 494 a.C. La plebe, esasperata dalla crisi economica, ricorse a una sorta di sciopero generale che lascia la città priva della sua forza lavoro e, soprattutto, indifesa contro le aggressioni esterne. In occasione della prima secessione la plebe si diede propri organismi: un’assemblea generale, che dapprima votava probabilmente per curie, poi, a partire forse dal 471 a.C., per tribù, nota col nome di concilia plebis tributa. Il meccanismo di voto assicurava nei concilia plebis la prevalenza dei proprietari terrieri iscritti nelle più numerose tribù rustiche. L’assemblea poteva emanare dei provvedimenti, che prendevano il nome di plebiscita (“decisioni della plebe”). Vennero poi scelti come rappresentanti ed esecutori della volontà dell’assemblea i tribuni della plebe, inizialmente forse in numero di due, anche se in seguito crebbero fino a raggiungere i dieci. Il nome dei capi della plebe deriva forse da quello dei tribuni militari che comandavano i reparti in cui era suddivisa la legione. Ai propri tribuni la plebe decise di riconoscere diversi poteri: fondamentale il diritto di venire in soccorso di un cittadino contro l’azione di un magistrato (ius auxilii), dal quale si sviluppò probabilmente il potere di porre il veto ad un qualsiasi provvedimento di un magistrato che sembrasse andare a scapito della plebe (ius intercessionis). Per dare forza concreta, e non solo formale, ai diritti dei tribuni della plebe e per proteggerli da un’eventuale reazione da parte dello Stato, la plebe accordò loro l’inviolabilità personale (sacrosanctitas). Chi avesse osato commettere violenza contro i rappresentanti della plebe sarebbe divenuto sacer, consacrato alla divinità; in altre parole, poteva essere messo a morte impunemente e le sue proprietà confiscate a favore del tempio di Cerere, Libero e Libera sull’Aventino, centro principale di culto della plebe. I procedimenti contro reati che possono rientrare nella categoria, piuttosto vaga, delle offese alla plebe, prevedevano una sanzione pecuniaria. I tribuni ebbero infine il potere di convocare e Alessandro CR 20 problema dei debiti, la distribuzione delle terre di proprietà statale e l’accesso dei plebei al consolato. I patrizi resistettero, riuscendo a guadagnarsi per più anni l’appoggio di un qualche tribuno della plebe, che sistematicamente opponeva il proprio veto alle proposte dei suoi stessi colleghi; d’altra parte Licinio e Sestio, regolarmente rieletti per diversi anni consecutivi al tribunato, non mostrarono alcuna intenzione di cedere. Dopo una fase di anarchia politica (nel senso letterale del termine per la tradizione letteraria, secondo la quale i tribuni della plebe avrebbero impedito per qualche anno l’elezione dei massimi magistrati della Repubblica), nel 367 a.C. il vecchio Marco Furio Camillo, eroe della guerra contro Veio e vendicatore del sacco gallico venne chiamato alla dittatura per sciogliere una situazione divenuta ormai insostenibile. Le proposte di Licinio e Sestio assunsero dunque valore di legge, secondo un iter non chiarito dalle fonti, in primo luogo la narrazione di Livio, ma che potrebbe ricalcare una delle modalità ricordate in precedenza a proposito del plebiscito Canuleio. Le leges Liciniae Sextiae prevedevano in particolare che gli interessi che i debitori avevano già pagato sulle somme avute in prestito potessero essere detratti dal totale del capitale dovuto e che il debito residuo fosse estinguibile in tre rate annuali. Stabilivano inoltre la massima estensione di terreno di proprietà statale che poteva essere occupato da un privato (la misura di 500 iugeri, equivalenti a circa 125 ettari, sembra inattendibile per la metà del IV secolo a.C., quando le porzioni di ager publicus in possesso di Roma dovevano ancora essere piuttosto limitate, ma questo non inficia la credibilità della sostanza del provvedimento). Infine sancivano l’abolizione del tribunato militare con potestà consolare e la completa reintegrazione alla testa dello Stato dei consoli, uno dei quali avrebbe dovuto essere sempre plebeo; in realtà, come vedremo, dai dati in nostro possesso sembra piuttosto che la legge consentisse che uno dei due consoli fosse plebeo, ma non escludesse la possibilità che entrambi i magistrati fossero patrizi. Il compromesso raggiunto fornì anche l’occasione per precisare il quadro delle magistrature repubblicane. Nel 366 a.C. vennero infatti create due nuove cariche, inizialmente riservate ai soli patrizi e dunque considerate dalle nostre fonti quasi come una sorta di compenso alla perdita del monopolio sul consolato: il pretore, che aveva il compito di amministrare la giustizia tra i cittadini romani (nel 242 a.C. questo praetor urbanus venne affiancato da un praetor peregrinus, incaricato di dirimere le controversie che potevano opporre un cittadino romano ad uno straniero); dotato di imperium, il pretore poteva, in caso di necessità, essere messo alla testa di un esercito, anche se i suoi poteri erano subordinati a quelli dei consoli. Nel medesimo anno vennero eletti due edili curuli, così chiamati dalla sella curulis, lo scranno sul quale sedevano i magistrati patrizi, che li distingueva dagli edili della plebe. Agli edili curuli venne inizialmente affidato il compito di organizzare i Ludi maximi. Verso un nuovo equilibrio Le leggi Licinie Sestie del 367 a.C. segnarono la fine della fase più acuta della contrapposizione tra patrizi e plebei. Il processo attraverso il quale si raggiunse quel nuovo equilibrio interno che contraddistingue l’età delle grandi conquiste di Roma in Italia e nel Mediterraneo fu tuttavia ancora lungo e faticoso. Se già nel 366 a.C. l’ex tribuno della plebe Sestio Laterano poté avvalersi della legge da lui stesso proposta per divenire il primo console plebeo, negli anni successivi spesso entrambi i consoli furono patrizi. Nel 342 a.C., secondo Livio, un plebiscito ammise la possibilità che ambedue fossero plebei. Da quell’anno vediamo però comparire regolarmente nei Fasti un console patrizio e uno plebeo; l’obbligo di scegliere uno dei due massimi magistrati dalla plebs Alessandro CR 21 risale dunque probabilmente solo al plebiscito del 342 a.C. La prima coppia di consoli entrambi plebei compare nelle liste dei magistrati solo nel 172 a.C. Nei decenni successivi i plebei ebbero progressivamente accesso a tutte le altre cariche dello Stato. Già nel 366 a.C. si decise che gli edili curuli sarebbero stati scelti ad anni alterni tra i patrizi e i plebei. Nel 326 a.C., secondo Livio, o nel 313 a.C., secondo un’altra tradizione registrata da Varrone, una legge Petelia aboliva la servitù per debiti. Ma la vera risposta ai problemi economici della plebe venne dalle conquiste, che misero a disposizione vaste estensioni di terre, divise ed assegnate individualmente, oppure sfruttate per la creazione di colonie. La censura di Appio Claudio Cieco Un tentativo di imprimere una decisa accelerazione al processo di riforma venne dalla censura di Appio Claudio Cieco, del 312-311 a.C. Nel compilare la lista dei senatori, vi avrebbe incluso persone abbienti, che tuttavia non avevano ancora rivestito alcuna magistratura. Una seconda misura riguardò la composizione delle tribù: il suo scopo era quello di favorire i membri della plebe urbana, che costituivano la maggioranza dei votanti, consentendo loro di iscriversi in una qualsiasi delle unità esistenti, mentre in precedenza essi erano obbligati a registrarsi nelle sole quattro tribù urbane, con la conseguenza che il loro peso nei comizi tributi era assolutamente minoritario. Entrambe le riforme caddero, almeno per il momento, nel vuoto. La legge Ortensia Il 287 a.C. venne considerato il punto di arrivo della lunga lotta fra patrizi e plebei: dopo che per l’ultima volta si era fatto ricorso all’arma della secessione, una legge Ortensia stabilì che i plebisciti votati dall’assemblea della plebe avessero valore per tutta la cittadinanza di Roma. Provvedimenti del medesimo tenore sono noti per il 449 a.C. e per il 339 a.C. A partire dal 287 a.C. i comizi tributi e l’assemblea della plebe, i concilia plebis tributa, erano accomunati da un uguale sistema di voto per tribù e da uguali poteri. Sostanzialmente identica era anche la loro composizione, sebbene ai comizi tributi prendessero parte anche i patrizi, che ovviamente erano esclusi dai concilia plebis. Tutto questo spiega per quale motivo comitia tributa e concilia plebis siano talvolta confusi nelle fonti relative alla media e tarda Repubblica. Le due assemblee peraltro rimasero distinte dai magistrati che avevano il diritto di convocarle e presiederle: i consoli o i pretori per quanto concerne i comizi tributi, i tribuni o gli edili della plebe per quanto riguarda i concili plebei. La nobilitas patrizio-plebea Le leggi Licinie Sestie e le grandi conquiste della plebe tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. chiusero per sempre l’età del dominio esclusivo dei patrizi sullo Stato. Al posto del patriziato si venne formando progressivamente una nuova aristocrazia, formata dalle famiglie plebee più ricche e influenti e dalle stirpi patrizie che meglio avevano saputo adattarsi alla nuova situazione e unita da vincoli familiari, ideali e interessi comuni. A questa nuova élite si è soliti dare il nome di nobilitas (da nobilis, “illustre”). La nobiltà patrizio-plebea si rivelò progressivamente non meno gelosa delle proprie prerogative del vecchio patriziato: l’accesso alle magistrature superiori era riservato ai membri di poche famiglie, anche se questo monopolio non si basava su norme scritte ma sullo stretto controllo dell’opinione Alessandro CR 22 pubblica. Tanto esclusiva divenne la nobilitas che per i pochi personaggi che raggiunsero i vertici della carriera politica pur non avendo antenati nobili venne coniata una definizione specifica, quella di homines novi, anche se appartenevano a famiglie ricche e di un certo prestigio sociale. In effetti prima di intraprendere la carriera politica, un giovane romano doveva servire per almeno dieci anni nella cavalleria, che era reclutata nelle 18 centurie, dette appunto dei cavalieri, che costituivano il vertice dell’ordinamento centuriato. Inizialmente il censo minimo per farvi parte era pari a quello richiesto per la i classe, cioè 100.000 assi; in seguito tale limite venne elevato per gli equites a 1.000.000 di assi: per intraprendere la carriera politica a Roma dunque si doveva appartenere necessariamente ad una delle famiglie più facoltose. Ma il denaro da solo non era sufficiente: le assemblee elettorali erano controllate dai nobili attraverso i propri clienti: per avere successo nelle elezioni era quindi indispensabile ereditare la rete di clientele paterne o, nel caso degli homines novi, godere del patronato politico di un qualche nobile influente. Capitolo 3. La conquista dell’Italia La situazione del Lazio alla caduta della monarchia di Roma Alla caduta della monarchia etrusca Roma controllava nell’antico Lazio un territorio che si estendeva dal Tevere alla regione Pontina. Tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. questa lunga e faticosa realizzazione rischiò seriamente di crollare: buona parte delle città latine approfittarono delle difficoltà interne di Roma per affrancarsi dalla sua egemonia. Le città latine si strinsero in una lega i cui membri condividevano alcuni diritti: lo ius connubii, il diritto di contrarre matrimoni legittimi con cittadini di altre comunità latine, lo ius commercii, il diritto di siglare contratti aventi valore legale fra cittadini appartenenti a comunità diverse, utilizzando strumenti formali propri del diritto cittadini, e lo ius migrationis, grazie al quale un latino poteva assumere i pieni diritti civici in una comunità diversa da quella in cui era nato semplicemente prendendovi residenza. La battaglio del lago Regillo e il foedus Cassianum La lega latina tentò di affermarsi definitivamente attaccando Roma, con la speranza di ricollocare sul trono di Roma Tarquinio il Superbo. In una leggendaria battaglia combattuta nel 496 a.C. sul lago Regillo i Romani sconfissero le forze congiunte della Lega. Tra gli esiti dello scontro si ebbe l’uscita di scena di Tarquinio. Il trattato, siglato nel 493 a.C. da parte romana dal console di quell’anno Sp. Cassio e dunque noto come trattato Cassiano (foedus Cassianum), prevedeva un accordo bilaterale tra Roma e la Lega latina: le due parti si impegnavano non solo a mantenere tra di loro la pace e a comporre amichevolmente eventuali dispute commerciali, ma anche a prestarsi aiuto nel caso una delle due parti fosse stata attaccata; l’eventuale bottino delle campagne di guerra comuni sarebbe stato equamente suddiviso. Nel 486 a.C. Roma completò il suo sistema di alleanze stringendo un accordo con gli Ernici, una popolazione che abitava la valle del fiume Sacco, a sud-est di Roma, in un territorio incuneato tra i due popoli ostili degli Equi e dei Volsci. I termini dell’alleanza con gli Ernici sarebbero stati i medesimi del trattato Cassiano. Alessandro CR 25 città di Capua. Nonostante le affinità etniche, i contrasti politici tra Sanniti e Campani si vennero sempre più acuendo. La tensione sfociò in guerra aperta nel 343 a.C., quando i Sanniti attaccarono la città di Teano, occupata dai Sidicini. Costoro si rivolsero per aiuto alla Lega campana, la quale, a sua volta incapace di fronteggiare l’offensiva dei Sanniti, chiese l’aiuto di Roma. La prima guerra sannitica (343-341 a.C.) si risolse rapidamente con un parziale successo dei Romani, che già nel primo anno di guerra sconfissero il nemico a Capua, costringendolo a togliere l’assedio della città. Roma d’altra parte non fu in grado di proseguire energicamente l’offensiva a causa di una rivolta dell’esercito impegnato in Campania, dunque acconsentì alle richieste di pace avanzate dai Sanniti nel 341 a.C.: il trattato rinnovava l’alleanza del 354 a.C., riconoscendo a Roma la Campania e ai Sanniti Teano. La grande guerra latina L’accordo del 341 a.C. portò ad un sorprendente ribaltamento delle alleanze, costringendo Roma, sostenuta dai Sanniti, a fronteggiare i suoi vecchi alleati Latini, Campani e Sidicini, cui si aggiunsero gli eterni nemici, i Volsci, e una popolazione osco-sabellica, gli Aurunci, insediati sulla costa tra i Volsci stessi e i Campani. L’insoddisfazione di Campani e Sidicini per gli esiti della prima guerra sannitica, che aveva dato frutti minori di quelli sperati, si saldò alla volontà dei Latini di distaccarsi da un’alleanza con Roma che ormai era divenuta un abbraccio soffocante e al desiderio dei Volsci di prendersi una rivincita dopo le sconfitte subite. Quanto agli Aurunci, forse giocò un ruolo decisivo il timore di vedersi accerchiati dalla crescente potenza romana. Il conflitto (341-338 a.C.), noto come grande guerra latina, fu durissimo. La Lega latina venne disciolta: alcune delle città che ne avevano fatto parte vennero semplicemente incorporate nello Stato romano, in qualità di municipi. Altre conservarono la propria indipendenza formale e i consueti diritti di connubium, commercium e migratio con Roma, ma non poterono più intrattenere alcuna relazione tra di loro. Alle vecchie città latine ben presto si vennero ad aggiungere le nuove colonie latine, fondate su iniziativa di Roma e composte sia da cittadini romani sia da alleati, obbligati a fornire truppe a Roma in caso di necessità. La nuova concezione dello status latino è chiaramente dimostrata dal caso di due tra le città che si erano ribellate a Roma, Tivoli e Preneste: nonostante gli abitanti delle due città fossero di etnia latina, essi vennero privati dei privilegi di connubium, commercium e migratio e divennero semplici alleati (socii) di Roma, una categoria giuridica che si rivelò di particolare importanza nei decenni successivi. Il rapporto veniva creato da trattati che, pur lasciando alle comunità alleate una completa autonomia interna, le legavano strettamente alla potenza egemone per quanto concerneva la politica estera e le obbligavano a fornire un certo contingente di truppe in caso di guerra. Questi trattati consentirono a Roma di ampliare la propria egemonia e il proprio potenziale militare senza per questo costringerla ad assumersi i compiti di governo locale che le sue strutture politiche, rimaste sostanzialmente quelle di una città-stato con un territorio di pochi chilometri quadrati, non erano in grado di reggere. Dal momento che i socii dovevano impegnarsi a mantenere a proprie spese i contingenti di truppe che fornivano, Roma inoltre poté mantenere il suo impegno finanziario relativamente limitato, senza essere costretta a richiedere un tributo diretto che le avrebbe indubbiamente attirato l’odio degli alleati. Al di fuori dell’antico Lazio, in particolare nelle città dei Volsci e dei Campani, Roma attuò la concessione di una forma parziale di cittadinanza romana, la civitas sine suffragio. I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani, in particolare a prestare il servizio di leva e a pagare il tributum, ma non avevano diritto di Alessandro CR 26 voto nelle assemblee popolari di Roma, né potevano essere eletti alle magistrature dello Stato romano; per il resto potevano conservare un’ampia autonomia interna. Ad Anzio, infine, venne creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono la piena cittadinanza romana. Nei decenni seguenti verranno fondate altre colonie romane, sul modello di quella di Anzio, generalmente composte di soli 300 coloni e destinate a sorvegliare le coste. La seconda guerra sannitica La causa concreta della seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) è da ricercare nelle divisioni interne di Napoli, l’ultima città greca della Campania rimasta indipendente, dove si fronteggiavano le masse popolari, favorevoli ai Sanniti, e le classi più agiate, di sentimenti filoromani: una situazione che vedremo regolarmente ripresentarsi nelle città coinvolte nei conflitti seguenti tra Roma e i suoi avversari. I Romani riuscirono abbastanza rapidamente a sconfiggere la guarnigione che i Sanniti avevano installato a Napoli e a conquistare la città, ma il tentativo di penetrare a fondo nel Sannio si risolse in un fallimento: nel 321 a.C. gli eserciti romani vennero circondati al passo delle Forche Caudine e costretti alla resa. Dopo il disastro delle Forche Caudine per qualche anno vi fu un’interruzione nelle operazioni militari, anche se non è chiaro se fosse stata siglata una vera e propria pace o solamente una tregua momentanea. I Romani approfittarono di questo intervallo per compensare la perdita di Cales e Fregelle, avvenuta a seguito della sconfitta del 321 a.C., rinforzando le proprie posizioni in Campania, dove vennero create due nuove tribù, e allacciando una serie di rapporti con le comunità dell’Apulia e della Lucania, nella speranza di isolare e circondare la Lega sannitica. Le ostilità si riaccesero nel 316 a.C. per responsabilità dei Romani, che attaccarono la località di Saticula, ai confini tra la Campania e il Sannio: le prime operazioni furono nuovamente favorevoli ai Sanniti, che nell’anno seguente conseguirono un’importante vittoria a Lautulae, nei pressi di Terracina, interrompendo momentaneamente le comunicazioni tra Lazio e Campania. Negli anni successivi, tuttavia, Roma iniziò a recuperare il terreno perduto, con una tenacia e una strategia a lungo termine che un organismo dalle deboli strutture come la Lega sannitica non era in grado di sviluppare. Saticula fu conquistata nello stesso 315 a.C., Fregelle venne ripresa, le comunicazioni con la Campania ristabilite e migliorate grazie alla costruzione del primo tratto, tra Roma e Capua, della via Appia; una serie di colonie latine, tra le quali la più importante fu quella di Luceria, fondata nell’Apulia settentrionale nel 312 a.C., iniziò a cingere il Sannio in una sorta di assedio. In questi stessi anni Roma procedette a preparare il suo esercito al confronto finale con i Sanniti. Il compatto schieramento a falange, irresistibile in una pianura senza ostacoli, si era rivelato incapace di manovrare su di un terreno accidentato come quello del Sannio ed era incorso nel disastro delle Forche Caudine. La legione venne allora suddivisa in 30 reparti, detti manipoli, risultato della riunione di due centurie. In questo periodo la centuria aveva perso il suo significato etimologico di “unità di 100 uomini” e comprendeva di fatto circa 60 soldati; ogni manipolo comprendeva dunque intorno ai 120 uomini. La legione veniva schierata su tre linee, ciascuna delle quali era composta da 10 manipoli: i primi ad affrontare il nemico erano, come indica il loro stesso nome, i principes, venivano poi gli hastati e infine i triarii; nel corso del tempo, peraltro, l’ordine di schieramento delle tre linee era destinato a mutare. L’ordinamento manipolare era dunque in grado di assicurare una maggiore flessibilità all’esercito romano impegnato nelle regioni montuose dell’Italia centro-meridionale. Negli stessi anni cambiò anche l’equipaggiamento dei legionari, che adottarono lo scudo rettangolare e il giavellotto in uso presso gli stessi Sanniti. Le differenze nell’armamento dei soldati appartenenti alle diverse classi Alessandro CR 27 censitarie, sensibili nei primi eserciti della Roma repubblicana, andarono progressivamente diminuendo. Roma fu così in grado di affrontare una minaccia su due fronti: a sud contro i Sanniti, a nord contro una coalizione di Stati etruschi, tra i quali verosimilmente le maggiori città dell’Etruria interna, costrette peraltro a siglare una tregua nel 308 a.C. Scongiurato per il momento il pericolo etrusco, gli eserciti romani poterono concentrare il proprio sforzo contro il Sannio, coronato dalla conquista di Boviano, uno dei centri maggiori dei Sanniti, e dalla pace del 304 a.C. Il trattato di alleanza tra Roma e i Sanniti del 354 a.C. venne ancora una volta rinnovato e Roma tornò definitivamente in possesso di Fregelle e Cales. Ma i vantaggi territoriali più consistenti si ebbero nella regione degli Appennini centrali: gli Ernici, accusati di ribellione, vennero inglobati nello Stato romano come cittadini senza diritto di voto; gli Equi furono sterminati e nel loro territorio venne insediata una nuova tribù di cittadini romani; le popolazioni minori osco-sabelliche dei Marsi, dei Peligni, dei Marrucini, dei Frentani e dei Vestini furono rapidamente costrette a concludere trattati di alleanza con Roma. La terza guerra sannitica La sconfitta del 304 a.C. era stata grave, ma non aveva indebolito considerevolmente i Sanniti. Lo scontro decisivo con Roma si riaprì nel 298 a.C., quando i Sanniti attaccarono i Lucani, con i quali confinavano a meridione. Il comandante supremo dei Sanniti, Gellio Egnazio, era riuscito a mettere in piedi una potente coalizione antiromana che comprendeva anche gli Etruschi, i Galli e gli Umbri. Lo scontro decisivo avvenne nel 295 a.C. a Sentino (odierna Sassoferrato). Gli eserciti riuniti dei due consoli romani, Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure, riuscirono a prevalere su Sanniti e Galli, approfittando dell’assenza dal campo di battaglia dei reparti etruschi e umbri e potendo contare su contingenti di alleati superiori al numero stesso dei legionari romani. I Sanniti, battuti in un’altra battaglia campale ad Aquilonia (293 a.C.), incapaci di reagire alla fondazione della grande colonia latina di Venosa nella zona sud-orientale del loro territorio e costretti ad assistere impotenti alla devastazione del Sannio, si videro obbligati a chiedere la pace nel 290 a.C. Il tentativo dei Galli, alleati di alcune città etrusche, di penetrare nuovamente nell’Italia centrale fu bloccato nel 283 a.C. nella battaglia del lago Vadimone (Lazio settentrionale). La controffensiva romana colpì dapprima le città dell’Etruria meridionale (tra le quali Volsinii, Vulci e la vecchia alleata Cere), poi raggiunse anche l’Etruria settentrionale e la vicina Umbria. Nella marcia verso l’Adriatico, già nel 290 a.C. vennero sconfitti i Sabini e i Pretuzzi, una popolazione che abitava nella regione corrispondente all’Abruzzo settentrionale. Parte del loro territorio fu confiscato per dedurvi la colonia latina di Hadria (la moderna Atri); agli altri abitanti dell’ager Praetuttiorum venne concessa la cittadinanza senza diritto di voto, come del resto ai Sabini. Nell’Adriatico settentrionale venne annesso il territorio un tempo appartenuto alla tribù dei Senoni, la stessa alla quale appartenevano i conquistatori di Roma del 390 a.C. Nella parte settentrionale di questa regione, nota col nome di ager Gallicus, venne fondata nel 268 a.C. la colonia latina di Rimini, che portò Roma ad affacciarsi alla pianura Padana. Vistisi circondati da ogni parte, i Piceni, che abitavano nelle attuali Marche centro-meridionali, tentarono una disperata guerra contro Roma nel 269 a.C. Pochi anni dopo furono costretti alla resa: in parte vennero deportati nella regione di Salerno, in parte ricevettero la civitas sine suffragio. Conservarono la propria autonomia il centro principale della regione, Ascoli, e la città greca di Ancona; la conquista del Piceno venne consolidata con la creazione di una colonia latina a Fermo nel 264 a.C. Il risultato Alessandro CR 30 premiato nel 260 a.C. da una clamorosa vittoria del console Caio Duilio sulla flotta cartaginese nelle acque di Milazzo. A questo punto a Roma si pensò di poter assestare un colpo mortale a Cartagine attaccandola direttamente nei suoi possedimenti africani: l’invasione iniziò nel 256 a.C. e le prime operazioni furono favorevoli al console Marco Attilio Regolo, tuttavia, non seppe sfruttare i successi e nel 255 a.C. venne battuto da un esercito cartaginese comandato dal mercenario spartano Santippo. Nel 249 a.C., a seguito della sconfitta nella battaglia navale di Trapani e dell’ennesimo naufragio al largo di capo Pachino, Roma era ormai priva di forze navali e dei mezzi necessari per approntare una nuova flotta. D’altro canto i Cartaginesi, anch’essi esausti, non seppero sfruttare la loro superiorità sui mari, mentre sulla terra furono costretti a limitarsi ad azioni di disturbo degli eserciti romani che assediavano Trapani e Lilibeo, condotte dal loro nuovo generale, Amilcare Barca, che tuttavia non potevano dare una svolta decisiva alla guerra. Solo dopo qualche anno Roma fu in grado di costruire una nuova flotta, ricorrendo ad un prestito di guerra dai cittadini più facoltosi, che sarebbe stato restituito in caso di vittoria. Grazie a questo espediente, venne allestita una flotta di 200 quinquiremi, immediatamente inviata al comando del console Caio Lutazio Catulo a bloccare Trapani e Lilibeo. La flotta che i Cartaginesi avevano frettolosamente equipaggiato per spezzare il cerchio che si stringeva intorno alle loro basi nella Sicilia occidentale fu sconfitta alle isole Egadi nel 241 a.C. A Cartagine si comprese che non vi era più alcuna possibilità di resistere e si domandò la pace: le clausole del trattato che mise fine al conflitto prevedevano tra l’altro lo sgombero dell’intera Sicilia e delle isole che si trovavano tra la Sicilia e l’Italia (le Lipari e le Egadi) e il pagamento di un indennizzo di guerra. La prima provincia romana A seguito della prima guerra punica Roma per la prima volta era venuta in possesso di un ampio territorio al di fuori della penisola italiana costituito dalle regioni della Sicilia centro-occidentale, un tempo parte del dominio cartaginese, e incorporate nello Stato romano oppure legate da trattati che prevedevano l’invio di truppe in aiuto della potenza egemone ma non il pagamento di un’imposizione in denaro e lasciavano alle comunità sociae una larga autonomia interna. In Sicilia la strada intrapresa fu diversa: alle comunità un tempo soggette a Cartagine venne imposto il pagamento di un tributo annuale, consistente in una parte del raccolto di cereali, di cui la Sicilia era grande produttrice. Tra le due guerre Il periodo tra le due guerre puniche vide un consolidamento delle posizioni di Roma e Cartagine. Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta furono per la verità drammatici: la città, spossata dal punto di vista finanziario, non era in grado di assicurare il pagamento delle numerose truppe mercenarie che avevano combattuto contro i Romani. I mercenari, stanchi di attendere, si ribellarono, coinvolgendo alcune delle popolazioni dell’Africa settentrionale soggette a Cartagine (241-237 a.C.). La rivolta fu soffocata solo a caro prezzo da Amilcare Barca. Quando però i Cartaginesi allestirono una spedizione per recuperare la Sardegna, si dovettero scontrare con l’opposizione di Roma. Cartagine fu accusata di prepararsi ad aprire le ostilità contro Roma stessa, che si disse pronta a dichiarare guerra. I Cartaginesi, che non avevano alcuna possibilità di affrontare un nuovo conflitto, si piegarono, accettando di pagare un indennizzo supplementare e Alessandro CR 31 cedere la Sardegna, che insieme alla Corsica andò a formare la seconda provincia romana dopo la Sicilia (237 a.C.). Pochi anni dopo questa impresa nel Tirreno, Roma intervenne direttamente anche nell’Adriatico. Qui, approfittando del declino dell’Epiro dopo la sconfitta e la morte di Pirro, il regno di Illiria aveva esteso verso sud la sua influenza sulla costa dalmata. Le scorrerie dei pirati illiri, spesso frutto di iniziative personali, arrecavano danni considerevoli alle città greche della costa orientale dell’Adriatico e ai numerosi mercanti italici che frequentavano quei porti. In risposta alle loro richieste di aiuto, il senato inviò energiche proteste alla regina degli Illiri, Teuta, e, davanti al rifiuto della regina di far cessare le azioni ostili dei suoi sudditi, decise di dichiarare guerra (229 a.C.). La prima guerra illirica si risolse rapidamente a favore di Roma. Teuta fu costretta a cedere la reggenza che fino a quel momento aveva esercitato in nome dell’erede minorenne al trono, agli Illiri fu proibito di navigare con più di due navi, disarmate, a sud della località di Lissus (l’odierna Lezhë, nell’Albania settentrionale) e dovettero quindi rinunciare ad ogni pretesa sulle città greche della costa adriatica, che divennero una sorta di protettorato di Roma. Demetrio, un collaboratore di Teuta che era passato dalla parte di Roma, venne ricompensato con la concessione di possedimenti intorno alla sua patria, l’isola dalmata di Faro. Qualche anno dopo Roma intervenne nuovamente in Illiria, proprio a seguito degli atti ostili intrapresi da Demetrio di Faro, di cui si temeva anche l’alleanza con il re di Macedonia Filippo V. Anche la seconda guerra illirica dal punto di vista militare fu impresa di poco conto: Demetrio fuggì presso Filippo V, Faro entrò nel protettorato romano (219 a.C.). In tal modo però si gettarono le premesse per un’ostilità tra Roma e la Macedonia. Maggiori sforzi richiese la conquista dell’Italia settentrionale, avviata negli anni tra le due guerre puniche, ma portata a conclusione solo nel II secolo a.C. L’attenzione di Roma in questa zona venne richiamata da un’incursione di Galli, che si arrestò davanti alla colonia latina di Rimini nel 236 a.C. Quattro anni dopo, il tribuno della plebe Caio Flaminio propose di distribuire a singoli cittadini romani l’ager Gallicus, la regione strappata qualche decennio prima ai Senoni: il provvedimento, oltre ad avere un indubbio carattere politico e sociale, consentiva di fatto di sorvegliare meglio il corridoio adriatico attraverso il quale i Galli potevano penetrare nell’Italia centrale. Per questo motivo, secondo Polibio, la legge Flaminia destò l’allarme dei Galli Boi, che abitavano le regioni intorno all’attuale Bologna e fu una delle cause della guerra gallica che scoppiò poco dopo. Nello scontro le due principali popolazioni della Gallia Cisalpina, i Boi e gli Insubri (stanziati nella regione di Milano), ottennero l’appoggio di truppe provenienti dalla Transalpina, i cosiddetti Gesati, mentre i Galli Cenomani del territorio bresciano e i Veneti preferirono schierarsi dalla parte di Roma. I Galli riuscirono a penetrare in Etruria e ad ottenere qualche successo, ma nel 225 a.C. vennero annientati a Telamone. A questo punto, a Roma ci rese conto che la conquista della valle Padana era possibile e necessaria per allontanare definitivamente la minaccia delle incursioni galliche. La breve, ma violenta campagna fu coronata dalla vittoria sugli Insubri a Casteggio nel 222 a.C. e dalla conquista del loro centro principale, Mediolanum (attuale Milano). All’indomani della vittoria nella seconda guerra punica, Roma procedette alla definitiva sottomissione della pianura padana, che aprì un territorio vasto e fertile agli emigranti originari dell’Italia centrale e meridionale, con la fondazione di numerose colonie, tra le quali è da ricordare almeno quella di Aquileia, del 181 a.C., per la sua importanza strategica ai confini nord-orientali della pianura. Fondamentale per l’organizzazione e il consolidamento della conquista si rivelò la costruzione di una rete stradale: nel 220 a.C. la via Flaminia, da Roma a Rimini (la cui costruzione venne intrapresa da C. Flaminio, divenuto censore, per collegare i territori dell’ager Gallicus da lui Alessandro CR 32 recentemente fatti distribuire), nel 187 a.C. la via Emilia, da Rimini a Piacenza, nel 148 a.C. la via Postumia, da Genova ad Aquileia. Mentre Roma guadagnava posizioni nell’Adriatico e nell’Italia settentrionale, Cartagine, ripresasi dalla guerra dei mercenari, cercava di costruire una nuova base per la sua potenza in Spagna, dove la sua influenza politica era al momento limitata agli insediamenti fenici della costa sud-orientale, tra i quali è da ricordare Gades, l’odierna Cadice. La conquista della Spagna potrebbe apparire quasi un affare privato della famiglia Barca: in effetti le operazioni furono condotte prima da Amilcare, poi dal genero Asdrubale, infine dal figlio di Amilcare, il celebre Annibale; questo tuttavia non significa che i Barca agissero nella penisola iberica senza il consenso o addirittura in contrasto con il governo cartaginese. L’avanzata dei Barca destò l’allarme della città greca di Marsiglia, che nella Spagna settentrionale aveva interessi economici ed aveva impiantato alcuni insediamenti commerciali, e naturalmente di Roma, di cui Marsiglia era fedele alleata. Nel 226 a.C. un’ambasceria del senato concluse con Asdrubale un trattato secondo il quale, nella laconica formulazione di Polibio, gli eserciti cartaginesi non potevano oltrepassare a nord il fiume Ebro (mentre in Livio si afferma che il fiume venne riconosciuto come confine tra le zone di influenza dei due Stati, implicando dunque che anche i Romani si fossero impegnati a non superare l’Ebro verso sud); un potenziale elemento di contrasto tra Roma e Cartagine era tuttavia costituito dal trattato di alleanza, di carattere non meglio precisabile, stretto da Roma con la città iberica di Sagunto, che in effetti si trovava a sud dell’Ebro. La seconda guerra punica La sconfitta del 241 a.C. aveva creato a Cartagine un forte sentimento di rivincita contro Roma. Alle prime tracce di un attacco cartaginese, i Saguntini chiesero l’aiuto di Roma, ma concretamente Roma si preparò alla guerra solo quando Annibale aveva già espugnato Sagunto e si avviava a realizzare il suo disegno strategico (218 a.C.). Roma doveva la vittoria nella prima guerra punica all’immenso potenziale umano e Cartagine, dunque, doveva cercare di staccare da Roma i suoi alleati italici. Annibale partì nella primavera del 218 a.C. dalla base di Nova Carthago (Cartagena) con un imponente esercito e riuscì ad attraversare le alpi. Sul fiume Ticino le superiori forze di cavalleria cartaginese prevalsero su quelle romane, comandate da Publio Scipione. Il primo grande scontro si ebbe sul fiume Trebbia, dove Annibale sconfisse gli eserciti di Scipione e del suo collega nel consolato Tiberio Sempronio Longo. Nell’anno seguente il generale cartaginese riuscì ad annientare sul lago Trasimeno le truppe romane del console Caio Flaminio. A Roma iniziò farsi strada l’idea che fosse impossibile sconfiggere Annibale in campo aperto. Secondo la strategia dell’ex console Quinto Fabio Massimo, nominato poi dittatore, era necessario evitare le battaglie campali e limitarsi a controllare le mosse di Annibale e ad impedire che da Cartagine o dalla Spagna gli giungessero degli aiuti: prima o poi la scarsità di mezzi e di uomini a sua disposizione lo avrebbe costretto ad arrendersi alle superiori forze romane o ad abbandonare l’Italia. Per questo motivo Quinto Fabio Massimo fu detto Cunctator (“il temporeggiatore”), ma scaduti i sei mesi della dittatura di Fabio Massimo, a Roma si decise di passare nuovamente all’offensiva. Nel 216 a.C. Annibale riuscì ad annientare gli eserciti congiunti dei consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo nella piana di Canne (presso Canosa di Puglia). La guerra pareva ormai perduta per Roma e numerose comunità dell’Italia meridionale defezionarono. Nel 215 a.C. i Romani vennero a conoscenza di un patto di alleanza tra Annibale e Filippo V di Macedonia, le cui ambizioni nell’Adriatico meridionale, alimentate dal suo consigliere Alessandro CR 35 monarchia di Siria, Seleuco I, aveva strappato un secolo prima in occasione dei conflitti tra i successori di Alessandro. Le proteste di Roma, che chiedeva la cessazione degli attacchi contro le città autonome dell’Asia Minore e l’immediata evacuazione dell’Europa, furono sostanzialmente respinte da Antioco. L’esercito romano si era trattenuto fin troppo in Grecia, impegnato in una campagna contro Sparta, alimentando così la propaganda ostile della Lega etolica. Gli Etoli infatti, scontenti di quanto avevano ottenuto in cambio del loro importante aiuto militare nella lotta contro Filippo, andavano sostenendo che la Grecia aveva semplicemente cambiato padrone, dalla Macedonia a Roma. La guerra fredda tra Roma e la Siria si trascinò fino al 192 a.C., quando la Lega etolica invitò espressamente Antioco III a liberare la Grecia dai suoi falsi liberatori. Antioco decise di passare con un piccolo esercito a Demetriade, in Tessaglia, sopravvalutando il sostegno di cui avrebbe potuto godere: in realtà gli unici aiuti concreti gli vennero dagli Etoli. In grave inferiorità numerica, il re di Siria venne duramente battuto nell’anno seguente alle Termopili dai Romani e dovette fuggire in Asia Minore. La partita non era tuttavia chiusa per Roma, decisa ad allontanare una volta per tutte la minaccia siriaca dall’area dell’Egeo e dunque a colpire Antioco nel suo stesso regno. Nel 190 a.C. il console Lucio Cornelio Scipione, accompagnato in qualità di consigliere dal più famoso fratello Publio Cornelio Scipione Africano, si preparò ad invadere l’Asia Minore per la lunga via terrestre attraverso Grecia, Macedonia e Tracia, forte del leale sostegno di Filippo V di Macedonia. Nel frattempo la flotta romana, assistita dalle squadre di Pergamo e Rodi, sconfiggeva ripetutamente i Siriaci nell’Egeo, proteggendo la traversata dell’esercito sull’Ellesponto. Lo scontro decisivo si ebbe nei pressi della città di Magnesia sul Sipilo: l’esercito di Antioco, superiore dal punto di vista numerico ma male organizzato, venne completamente disfatto. La pace, siglata nella città siriaca di Apamea solo nel 188 a.C., confermò che Roma non aveva al momento intenzione di impegnarsi direttamente nel Mediterraneo orientale. Antioco dovette pagare un’enorme indennità di guerra, affondare tutta la sua flotta, tranne 10 navi, consegnare alcuni nemici inveterati di Roma che avevano trovato rifugio alla sua corte (tra i quali Annibale, che riuscì a fuggire nel vicino regno di Bitinia, dove si suicidò qualche anno dopo) e soprattutto sgombrare tutti i territori ad ovest e a nord del massiccio montuoso del Tauro, che sorge al centro dell’Asia Minore. I vasti territori strappati ad Antioco nell’Asia minore occidentale non vennero tuttavia inglobati nello Stato romano come provincia, ma spartiti tra i due più fedeli alleati di Roma, il re di Pergamo Eumene II (a nord del fiume Meandro) e la repubblica di Rodi (a sud del Meandro); furono escluse dalla spartizione le città greche della costa che si erano prontamente schierate dalla parte di Roma, le quali ottennero l’autonomia. Le trasformazioni politiche e sociali Il repentino ampliamento degli orizzonti di Roma a seguito delle grandi vittorie militari tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C. non poteva che portare una ventata di cambiamento anche nell’assetto politico e sociale interno. Il «processo degli Scipioni» mostra l’acuirsi del contrasto all’interno della stessa classe dirigente romana e i nuovi scenari di lotta politica che si andavano aprendo. Nel 187 a.C. alcuni tribuni della plebe accusarono L. Cornelio Scipione, il vincitore di Antioco III, di essersi impadronito di parte dell’indennità di guerra versata dal re di Siria, come se si fosse trattato di bottino. Nonostante l’intervento del fratello, il celebre Africano, che aveva servito come legato nella campagna contro Antioco, solo il veto di uno dei tribuni della plebe impedì che Lucio Scipione, nel 184 a.C., fosse condannato a pagare una pesantissima multa. Nel medesimo Alessandro CR 36 anno, tuttavia, l’attacco venne rinnovato, questa volta contro lo stesso Scipione Africano, forse per aver condotto trattative di carattere personale con il re di Siria. Scipione rifiutò sdegnosamente di rispondere alle accuse, limitandosi a ricordare i grandi servigi da lui resi allo Stato e a ritirarsi, in una sorta di esilio politico, nelle sue proprietà di Literno, nella Campania settentrionale. Qui morì l’anno successivo. In questa temperie politica trova spiegazione anche la legge Villia, promulgata nel 180 a.C., che introdusse un obbligo di età minima per rivestire le diverse magistrature e un intervallo di un biennio tra una carica e l’altra. Era un tentativo di regolare una competizione politica che stava divenendo sempre più accesa, e che peraltro riprendeva e si affiancava a numerose disposizioni e consuetudini precedenti, come per esempio quella che proibiva di rivestire un secondo consolato entro un decennio dalla prima elezione. Nei medesimi anni la straordinaria diffusione in tutta l’Italia del culto di Bacco, forse originario della Magna Grecia, è segno di una tensione in primo luogo religiosa e culturale, ma anche sociale, dal momento che i devoti di Bacco provenivano in buona parte, anche se non esclusivamente, dalle classi sociali inferiori. La reazione a questo movimento fu durissima: nel 186 a.C. il senato, da quanto apprendiamo tra l’altro da una celebre iscrizione che riporta il cosiddetto Senatus consultum de Bacchanalibus, diede mandato ai consoli di condurre una severissima inchiesta. i Baccanali, come venivano chiamate le conventicole dei seguaci di Bacco, dovevano essere stroncati in ogni modo, anche a costo di calpestare l’autonomia giurisdizionale delle comunità alleate dell’Italia. in effetti negli anni seguenti molti sacerdoti o semplici adepti del culto vennero imprigionati o addirittura messi a morte, mentre la devozione a Bacco fu sottoposta ad una rigida regolamentazione. L’atteggiamento del governo di Roma nei confronti di un movimento che era primariamente religioso potrebbe apparire sorprendente. Dalle disposizioni che vennero prese si comprende comunque che ciò che aveva indotto il senato ad adottare misure drastiche non era tanto la necessità di reprimere le pratiche orgiastiche e i supposti crimini che si attribuivano ai Baccanali. Preoccupava piuttosto il fatto che i devoti di Bacco si fossero dati un’organizzazione interna che poteva configurarsi come una sorta di Stato all’interno dello Stato romano, o meglio, contro lo Stato romano. La terza guerra macedonica Nel 179 a.C. la morte aveva messo fine al lunghissimo regno di Filippo V: gli era succeduto il figlio maggiore Perseo, che precedentemente era riuscito a sbarazzarsi del fratello, il filoromano Demetrio. L’elemento democratico e nazionalista all’interno di molte città greche, sempre più insofferente nei confronti delle ingerenze romane, cominciò a volgersi verso Perseo. In un crescendo polemico, spesso ingiustificato, ogni mossa diplomatica di Perseo, ogni sua azione militare, anche in aree in quel momento di importanza secondaria per Roma, come quella dei Balcani, vennero interpretate come gesti di sfida. I preparativi di guerra iniziarono in quello stesso anno, ma le prime operazioni si ebbero solo nel 171 a.C., dopo che le trattative per raggiungere un accordo fallirono. Nei primi anni di guerra i comandanti romani si distinsero, più che per il loro genio strategico, per le rapine commesse ai danni di molte città greche. Qualche modesto successo militare di Perseo venne dunque salutato con enorme entusiasmo dai democratici. Il re macedone, peraltro, ottenne un aiuto concreto solo dalla popolazione epirota dei Molossi e dal re d’Illiria Genzio. La svolta si ebbe nel 168 a.C.: Genzio venne sconfitto in una fulminea campagna, mentre Perseo fu costretto dal nuovo comandante romano, il console Lucio Emilio Paolo, ad accettare battaglia campale nella località macedone di Alessandro CR 37 Pidna, dove il suo esercito fu distrutto. Il re fu portato prigioniero in Italia e la monarchia abolita in Macedonia. La regione venne infatti suddivisa in quattro repubbliche, che non potevano intrattenere alcun rapporto tra loro, e dovevano versare un tributo a Roma. Simile fu la sorte dell’Illiria, divisa in tre Stati, anch’essi tributari di Roma. Negli altri Stati greci la moderazione di cui Roma aveva dato prova negli ultimi anni della guerra venne messa da parte: in particolare la Lega achea fu costretta a consegnare 1.000 persone di lealtà sospetta, che furono deportate in Italia. I Molossi, rei di essersi schierati con Perseo, furono puniti con la totale devastazione del loro territorio e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di abitanti. Rodi, per il solo torto di aver tentato una mediazione in extremis tra Roma e Perseo, fu privata della Caria e della Licia. Rodi venne inoltre colpita nella sua prosperità economica dalla creazione, nell’isola di Delo, di un porto franco, nel quale cioè le merci in entrata e in uscita erano esentate dai consueti dazi. Di conseguenza buona parte delle rotte commerciali vennero deviate su Delo e Rodi perse una quota significativa delle sue notevoli entrate doganali. La quarta guerra macedonica e la guerra acaica In appena venti anni divenne evidente che la sistemazione data da Roma all’area greca era inadeguata. Particolarmente tesi erano i rapporti con la Lega achea. La morte di Callicrate, fedele strumento della politica di Roma, e i tentativi di secessione di Sparta dalla Lega coincisero con una rivolta in Macedonia. Qui un tale Andrisco, facendosi passare per figlio di Perseo, riuscì a prevalere sulle deboli milizie repubblicane e a riunire per un’ultima volta le forze macedoni sotto la bandiera monarchica. Dopo qualche successo, Andrisco venne eliminato nel 148 a.C. dalle forze del pretore Quinto Cecilio Metello. Scongiurata la minaccia di Andrisco, il senato si occupò delle questioni concernenti gli Achei, ordinando che fosse staccata dalla Lega non solo la riottosa Sparta, ma anche altre importanti città, tra le quali Argo e Corinto. Ciò avrebbe significato in pratica la fine della Lega achea come organismo di una qualche rilevanza politica. L’assemblea della Lega, dominata dai nazionalisti ostili a Roma, decise la guerra, che fu brevissima. Corinto, principale città della Lega, venne saccheggiata e distrutta (146 a.C.). La Macedonia venne ridotta a provincia romana. Il suo governatore, nel caso, poteva intervenire per regolare le questioni della Grecia. Qui tutte le leghe vennero sciolte o ridotte all’impotenza, ovunque furono imposti regimi aristocratici di provata fedeltà. La terza guerra punica Dopo la rovinosa sconfitta nella seconda guerra punica, Cartagine si era ripresa con sorprendente rapidità, almeno dal punto di vista economico, riuscendo a saldare il pagamento della fortissima indennità di guerra e fornendo costantemente grandi quantità di cereali per gli eserciti romani e la stessa città di Roma. Il re numida Massinissa, approfittando del fatto che i limiti del suo Stato non erano stati fissati con precisione, o fingendo che non lo fossero, nel corso della prima metà del II secolo a.C. avanzò pretese sempre più ambiziose su territori appartenenti al vicino. Cartagine, che secondo i trattati non aveva il potere di dichiarare guerra senza il consenso di Roma, si rivolse alla potenza egemone per avere soddisfazione, rimanendo peraltro il più delle volte delusa. Nel 151 a.C., dopo che Massinissa aveva poco a poco inglobato alcuni dei territori più ricchi dello Stato cartaginese, a Alessandro CR 40 Gli optimates si autodefinivano boni (“gente dabbene”) che cercava di ottenere per la propria politica l’approvazione dei benpensanti, ispirata da buoni principi e sollecita del bene dello Stato, sostenitrice dell’autorità e delle prerogative del senato. I populares si consideravano difensori dei diritti del popolo e propugnavano la necessità di ampie riforme in campo politico e sociale. La questione dell’ager publicus e il tentativo della riforma agraria di Caio Lelio Le guerre di conquista avevano fatto crescere a dismisura l’ager publicus, terreno demaniale di proprietà collettiva dello Stato romano. Parti di esso erano abitualmente concesse in uso a privati (non solo cittadini, ma anche federati latini e italici) a titolo di occupatio: la proprietà restava sempre dello Stato, che si riservava la facoltà di revocare il possesso a sua discrezione. L’utilizzo era garantito ai detentori dietro pagamento di un canone (vectigal), del tutto irrisorio e che non sempre lo Stato si preoccupava di esigere. La crisi progressiva della piccola proprietà fondiaria tendeva a favorire la concentrazione della maggior parte dell’agro pubblico nelle mani dei proprietari terrieri più ricchi e potenti. Di qui la necessità di una serie di norme che mirassero a restringere l’estensione di agro pubblico che poteva essere legittimamente occupata da ciascuno. L’ultima di tali leggi era stata proposta nel 140 (o 145) a.C. da Caio Lelio. Il suo progetto aveva però attirato contro di lui l’opposizione concorde dei senatori (quelli che più beneficiavano dell’assenza di limiti nel possesso delle terre demaniali), tanto che egli preferì rinunziarvi e lo ritirò. Tiberio Gracco Tiberio Gracco nel 133 a.C. volle riprendere il tentativo di operare una riforma agraria tramite norme che limitassero la quantità di agro pubblico posseduto. Il progetto di legge fissava all’occupazione di agro pubblico un limite di 500 iugeri (125 ettari), con l’aggiunta di 250 iugeri per ogni figlio fino a forse un massimo di 1.000 iugeri (250 ettari) per famiglia. Un collegio di triumviri (tresviri agris dandis iudicandis adsignandis), eletto dal popolo e composto da Tiberio stesso, dal fratello Caio e dal suocero, Appio Claudio Pulcro, che era princeps (il presidente) del senato – e da molti ritenuto il vero ispiratore della proposta, insieme con i giuristi Publio Licinio Crasso Muciano, suocero di Caio, e Publio Mucio Scevola, console nello stesso 133 a.C. –, avrebbe poi avuto il compito di ripartire i lotti e recuperare i terreni in eccesso. Questi ultimi sarebbero stati distribuiti ai cittadini più poveri in piccoli lotti, forse di 30 iugeri (7,5 ettari) per persona e inalienabili. I fondi necessari all’applicazione della riforma (indennizzi, incentivi ai nullatenenti, ecc.) sarebbero infine stati ricavati utilizzando il tesoro del re di Pergamo Attalo III, che, morto in quell’anno senza eredi, lo aveva lasciato al popolo romano. Scopo principale della legge pare essere stata l’esigenza di ricostruire e conservate un ceto di piccoli proprietari, che tendenzialmente si andava dissolvendo, anche per garantire una base stabile al reclutamento dell’esercito (i nullatenenti, privi di censo fondiario, non potevano essere arruolati). Alcuni aspetti di essa, tuttavia, come la destinazione del tesoro di Attalo III, toccavano prerogative che abitualmente erano del senato. Dal punto di vista pratico, i grandi proprietari terrieri si ritennero espropriati di risorse che, sia pur abusivamente, per abitudine consideravano proprie, nonostante fosse stato proposto che quanto veniva ad essi lasciato sarebbe divenuto loro proprietà e, in un primo momento, fossero stati previsti anche indennizzi per le migliorie apportate. L’oligarchia dominante ritenne dunque di opporsi. Alessandro CR 41 Così, il giorno in cui il progetto doveva essere votato nei comizi tributi un altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, probabilmente a ciò indotto dagli ambienti più conservatori, pose il suo veto, impedendone l’approvazione. Tiberio Gracco, dopo aver tentato inutilmente di vincerne le resistenze, propose all’assemblea di destituirlo perché, essendo stato eletto per difendere gli interessi popolari, coll’interporre il veto egli era venuto meno al mandato che il popolo gli aveva affidato e con questo atto stesso si era escluso da sé dalla carica. Dichiarato decaduto Ottavio, la legge Sempronia agraria fu approvata. Ma l’opposizione conservatrice non si placò e Tiberio, quasi giunto alla fine dell’incarico, nel timore di perdere l’inviolabilità personale (sacrosanctitas) e che venisse a interrompersi l’opera di ridistribuzione delle terre, già iniziata, pensò di presentare la sua candidatura al tribunato anche per l’anno successivo. Fu allora facile per gli avversari insinuare che egli intendesse aspirare al potere personale. Nel corso dei comizi elettorali un gruppo di senatori e di avversari, guidati dal pontefice massimo Publio Cornelio Scipione Nasica, lo assalì e lo uccise insieme a molti suoi sostenitori. Da Tiberio a Caio Gracco: la commissione agraria, Scipione Emiliano e gli alleati latini e italici La morte di Tiberio Gracco non pose fine all’attività della commissione triumvirale, com’è comprovato dai cippi graccani che scandivano i confini e le nuove attribuzioni di campi, i quali consentono di seguire la progressione delle riassegnazioni nel Piceno, in Campania e in Lucania. Fu però ben presto chiaro il malcontento degli alleati latini e italici, le cui aristocrazie di ricchi proprietari avevano seguito la prassi dei maggiorenti romani di occupare larghe porzioni di agro pubblico e si trovavano ora a doverne restituire le parti in eccesso a beneficio dei soli nullatenenti romani. Interprete delle loro lamentele si fece Scipione Emiliano. Morto improvvisamente l’Emiliano, Fulvio Flacco, membro del triumvirato agrario divenuto console nel 125 a.C., propose che tutti gli alleati che ne avessero fatta richiesta potessero ottenere la cittadinanza romana o, se avessero preferito conservare la loro condizione, almeno il diritto di appellarsi al popolo (provocatio) contro eventuali abusi di magistrati romani. L’opposizione alla proposta fu vastissima, tanto che essa non poté nemmeno essere discussa e Flacco preferì non insistervi. Caio Gracco Nel 123 a.C. fu eletto tribuno della plebe Caio Gracco, fratello minore di Tiberio e componente della commissione agraria fin dalla sua costituzione, ed ampliò l’opera riformatrice del fratello e i poteri della commissione triumvirale. Una legge frumentaria, mirante a calmierare il mercato ed evitare fenomeni speculativi da parte dei detentori di frumento, assicurò ad ogni cittadino residente a Roma una quota mensile di grano a prezzo agevolato. Grandi granai pubblici appositamente costruiti (horrea Sempronia) dovevano custodire le grandi quantità di cereale necessarie per le distribuzioni. Con una legge giudiziaria Caio volle limitare il potere del senato in questo campo, integrando un cospicuo numero di cavalieri nel corpo da cui attingere per la formazione degli albi dei giudici e comunque riservando in esclusiva ai cavalieri il controllo dei tribunali permanenti cui erano affidati i processi di concussione e che perseguivano le malversazioni e le estorsioni dei magistrati ai danni dei provinciali (quaestiones perpetuae de repetundis, istituiti nel 149 a.C. e fino ad allora formati da soli senatori). In questo modo i senatori-governatori non sarebbero più stati giudicati esclusivamente da giudici-senatori, ma da rappresentanti di quegli stessi cavalieri che prendevano Alessandro CR 42 in appalto le imposte e gestivano le grandi operazioni commerciali nelle province. Allo stretto monopolio dei cavalieri furono affidati anche gli appalti della riscossione delle tasse nella nuova provincia d’Asia. Un provvedimento, che gli sopravvisse per tutta l’età repubblicana, prevedeva che il senato dovesse decidere prima delle elezioni consolari, con deliberazione sottratta al veto tribunizio, quali tra le province dovessero essere classificate consolari (dunque da assegnare ai futuri consoli); ciò per impedire che una scelta a posteriori fosse influenzata da ragioni personali o politiche. Al problema degli alleati Caio rispose con una legge più moderata di quella di Fulvio Flacco, proponendo di concedere ai Latini la cittadinanza romana e la cittadinanza di diritto latino agli Italici. Ma anche questo provvedimento suscitò amplissime ostilità e non poté essere approvato. L’oligarchia senatoria, i cui privilegi venivano minati da questi e da altri progetti di Caio, per contrastarli si servì nuovamente di un altro tribuno, Marco Livio Druso. Approfittando dell’assenza di Caio, partito per l’Africa con Fulvio Flacco quale membro della commissione per la deduzione della colonia presso Cartagine, Druso fece proposte di inusitata larghezza (come la fondazione di ben dodici colonie). Al suo ritorno a Roma, nel luglio del 122 a.C., Caio si rese conto che la situazione politica era profondamente mutata e la sua popolarità in grave declino. Candidatosi ancora al tribunato per il 121, non venne rieletto. Per abbattere ogni suo residuo prestigio, alla fondazione della colonia cartaginese furono collegati presagi funesti e si propose che la deduzione dovesse essere revocata (121 a.C.). Caio Gracco e Fulvio Flacco tentarono di opporsi alla votazione del provvedimento, ma scoppiarono gravi disordini, in conseguenza dei quali il senato fece ricorso alla procedura del senatus consultum ultimum, con cui veniva sospesa ogni garanzia istituzionale e affidato ai consoli il compito di tutelare la sicurezza dello Stato con i mezzi che ritenessero necessari. Forte di tale provvedimento, il console Lucio Opimio ordinò il massacro dei sostenitori di Gracco che avessero osato resistere: Fulvio Flacco perì negli scontri, Caio Gracco si fece uccidere da un suo schiavo. Smantellamento della riforma agraria Poiché le riforme dei Gracchi rispondevano a problemi reali, gli ottimati non osarono abolirle, ma ne ridussero gli effetti e fu abolita la commissione agraria. Province, espansionismo e nuovi mercati: Asia, Gallia, Baleari, Dalmazia danubiana Nel 133 a.C. il re di Pergamo Attalo III aveva lasciato il suo regno ai Romani, fatta eccezione per le città dichiarate libere ed i loro territori. Aristonico, forse figlio naturale del re Eumene II (padre di Attalo), assunto il nome di Eumene III, si pose a capo di una rivolta che tenne testa per tre anni (fino al 129 a.C.) alle rivendicazioni di Roma. Egli dapprima fece appello allo spirito d’indipendenza delle città greche, ma con scarso successo. Si rivolse allora alle popolazioni e alle comunità dell’interno, a cui fece balenare speranze di miglioramento sociale e di affrancamento da ogni sottomissione e schiavitù, propugnando l’instaurazione di uno stato utopico dove tutti sarebbero stati liberi ed uguali. Solo nel 129 a.C., dopo ripetuti tentativi (costellati da nette sconfitte) e contrastata con alterne vicende dalle forze associate di Roma, delle città greche, dei re della Bitinia, del Ponto, della Paflagonia-Galazia e della Cappadocia, la ribellione poté essere piegata e il console Manio Aquilio, con l’assistenza di una commissione senatoria, poté organizzare quanto restava del nuovo territorio (dedotte le ricompense agli oppositori di Aristonico) nella provincia romana d’Asia; compito che fu terminato nel 126 a.C. Il corpo della provincia restò costituito dalle parti più Alessandro CR 45 Eclissi politica di Mario; Saturnio e Glaucia Mentre era costantemente impegnato sul fronte militare, Mario aveva creduto utile appoggiarsi a Lucio Appuleio Saturnino, un nobile entrato in rotta con le fazioni conservatrici del senato che, nel 104 a.C., usando come pretesto l’aumento del prezzo del grano, lo avevano sostituito con un proprio membro nell’incarico di quaestor Ostiensis, cioè di soprintendente frumentario degli approdi alle foci del Tevere. Mario l’aveva aiutato ad essere eletto tribuno della plebe nel 103 a.C.; in cambio Saturnino aveva fatto approvare una distribuzione di terre in Africa a ciascuno dei veterani delle campagne africane di Mario. Aveva poi proposto una legge frumentaria che riduceva il prezzo politico del grano fissato da Caio Gracco. Grande importanza poi, per l’uso che ne fu fatto, ebbe la sua lex de maiestate, che puniva il reato di lesione dell’autorità (maiestas) del popolo romano, compiuto dai magistrati travalicando i poteri loro conferiti: il collegio giudicante era composto tutto da cavalieri. Nel 100 a.C. Mario venne eletto al suo sesto consolato; Saturnino era stato rieletto tribuno della plebe per la seconda volta e Caio Servilio Glaucia, suo compagno di parte popolare, pretore. Contando sull’appoggio di Mario, Saturnino presentò una legge agraria che prevedeva assegnazioni di terre nella Gallia meridionale e la fondazione di colonie in Sicilia, Acaia e Macedonia. Per bloccare ogni opposizione, Saturnino aveva fatto approvare una clausola che obbligava i senatori a giurare di osservare la legge; il solo Cecilio Metello Numidico si rifiutò di giurare, preferendo l’esilio al giuramento. Nel frattempo Glaucia aveva restituito le giurie permanenti per i processi di concussione ai cavalieri. Per poter sviluppare il suo programma Saturnino ottenne la rielezione a tribuno anche per l’anno successivo, mentre Glaucia si candidava al consolato. Durante le votazioni scoppiarono tumulti nei quali un competitore di Glaucia finì assassinato. Il senato non attendeva altro per proclamare, come contro Caio Gracco, il senatus consultum ultimum. Mario, come console, si trovò nella situazione imbarazzante di doverlo applicare contro suoi alleati politici. Saturnino e Glaucia furono uccisi, ma il prestigio di Mario uscì fortemente compromesso dalla vicenda, tanto che egli preferì allontanarsi da Roma, ufficialmente per svolgere una missione diplomatica presso Mitridate VI, re del Ponto, che aveva iniziato a dare segni di irrequietezza e a perseguire chiare mire espansionistiche. Pirati; schiavi; Cirenaica L’installarsi di Roma in Anatolia l’aveva condotta a stretto contatto con la pirateria. Mentre Roma si accingeva a concludere le guerre cimbriche, l’azione dei pirati fu da essa avvertita come particolarmente pericolosa per la sicurezza e per gli affari dei negotiatores romani nei mari greci e nell’Egeo orientale. Nel 102 a.C. si decise di intervenire, inviando il pretore Marco Antonio con il compito di distruggere le basi principali anatoliche dei pirati e di impadronirsene. L’azione, coronata da successi, si protrasse per un paio d’anni, accompagnata dalla costituzione di una provincia costiera di Cilicia (102-101 a.C.), con la principale funzione di proteggere il commercio marittimo in Asia. La promulgazione nel 101-100 a.C. di una lex de provinciis praetoris (o lex piratica) dimostra che il problema era ritenuto tuttora totalmente incombente, dunque di fatto sostanzialmente irrisolto. Il gravoso impegno militare richiesto dalle guerre cimbriche indusse Mario a domandare contingenti di soldati agli alleati italici e a quelli d’oltremare. Tra essi Nicomede III di Bitinia declinò l’invito sostenendo che una cospicua parte degli uomini del suo regno era stata presa dai pirati. a Alessandro CR 46 Roma si volle porre rimedio con un provvedimento che ordinava ai governatori provinciali di condurre inchieste rigorose in merito. Dopo una prima fase di applicazione che comportò il ritorno di non pochi allo stato libero, la crescente opposizione dei detentori di schiavi riuscì a far sì che la misura restasse lettera morta. Ne scaturirono numerose rivolte servili, tra cui le più note sono la ribellione degli schiavi delle miniere del Laurion in Attica (103 a.C.) e il grande sommovimento che di nuovo sconvolse la Sicilia per molti anni (104-100 a.C.). Ne furono a capo Salvio, che assunse il nome Trifone e il titolo di re, e, dopo la sua morte (102 a.C.), il cilicio Atenione, che aveva guidato fin dall’inizio un secondo gruppo di insorti. I comandanti inviati a fronteggiare la ribellione nel 103 e 102 a.C. ottennero scarsi risultati, incontrarono molte difficoltà e subirono perdite anche gravi. Alla fine riuscì a reprimerla Manio Aquilio, che si era già distinto come luogotenente di Mario nella guerra contro i Teutoni. Qualche anno dopo (96 a.C.) venne lasciata, sembra per testamento, a Roma una parte cospicua del territorio tolemaico, la Cirenaica (tranne le città, che si abbandonarono a continue contese interne). Seguendo una politica di non farsi coinvolgere direttamente in zone lontane dai propri interessi, qualora un sufficiente controllo su esse potesse venir garantito da Stati in qualche modo alleati, al lascito non fu dato alcun seguito e la questione fu ripresa solo nel 75-74 a.C., quando l’emergere di circostanze e necessità diverse indussero a dedurvi una provincia. Marco Livio Druso e la concessione della cittadinanza agli Italici Nel 95 a.C. una legge Licinia Mucia aveva istituito una commissione per verificare le richieste di cittadinanza romana che venivano avanzate e per espellere da Roma ogni residente italico e latino che fosse risultato illegalmente inserito nelle liste del censo. In questa atmosfera fu eletto tra i tribuni della plebe nel 91 a.C. Marco Livio Druso che, da un lato, promulgò provvedimenti di evidente contenuto popolare, come una legge agraria volta alla distribuzione di nuovi appezzamenti e alla deduzione di nuove colonie e una legge frumentaria che abbassava ulteriormente il prezzo politico delle distribuzioni granarie; dall’altro, restituì ai senatori i tribunali per le cause di concussione, proponendo però l’ammissione dei cavalieri in senato, che veniva aumentato da trecento a seicento membri. Infine, a coronamento di tante pressioni e di una lunga maturazione del problema, volle proporre la concessione della cittadinanza romana agli alleati italici. Ancora una volta l’opposizione fu vastissima e fu trovato modo di dichiarare nulle tutte le sue leggi. Quando però Druso venne misteriosamente assassinato, le aspettative e i contatti erano ormai molto avanzati e l’esasperazione e il sentimento di ribellione degli Italici avevano raggiunto un punto da cui non era più possibile tornare indietro. La guerra sociale L’assassinio di Druso fu per gli alleati italici il segnale che non vi era altra possibilità di difendere le proprie rivendicazioni che la rivolta armata contro Roma. Il segnale delle ostilità partì da Ascoli, nel Piceno, dove un pretore e tutti i Romani residenti nella città vennero massacrati (90 a.C.). L’insurrezione si estese sul versante adriatico presso Piceni, Vestini, Marrucini, Frentani, presso Marsi e Peligni, nell’Appennino centrale, e Sanniti, Irpini e Lucani, nell’Appennino meridionale, cioè presso le popolazioni tra le quali più ampio era stato il processo di integrazione con Roma; Apuli e Campani si aggiunsero in un secondo momento. Non aderirono Etruschi e Umbri, al pari delle città latine e della Magna Grecia. Gli insorti si erano dati nel frattempo istituzioni federali comuni, una Alessandro CR 47 capitale, Corfinium, nel Sannio, subito ribattezzata Italica, una monetazione propria. I loro scopi, però, non erano completamente unitari: in alcuni ambienti prevaleva l’esigenza di conseguire la cittadinanza romana, in altri dominava lo spirito di rivalsa contro Roma. A settentrione (Piceno, Marsica, regioni ad est del lago Fucino) il console Publio Rutilio Lupo aveva come propri legati Cneo Pompeo Strabone (padre del futuro Pompeo Magno), che aveva vaste proprietà nel Piceno, e addirittura Caio Mario; lo fronteggiava il marso Quinto Poppedio Silone, capo dell’intera federazione italica. A meridione (Sannio e le zone a sud di esso) l’altro console Lucio Giulio Cesare aveva tra i suoi luogotenenti Lucio Cornelio Silla. Si ebbero sconfitte e distruzioni su entrambi i fronti. L’incerto andamento delle operazioni fece maturare a Roma, già nel 90 a.C., una soluzione politica del conflitto, con lo scopo immediato di limitarne l’estensione. Con un primo provvedimento si erano già autorizzati i comandanti militari ad accordare la cittadinanza agli alleati che combattevano ai loro ordini. Venne poi approvata, su proposta del console Lucio Giulio Cesare, una legge (lex Iulia de civitate) che concedeva la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli (tra questi le colonie latine) e alle comunità che avessero deposto o deponessero rapidamente le armi. A questa si aggiunse, l’anno successivo (89 a.C.), la lex Plautia Papiria (promossa dai tribuni Caio Papirio Carbone e Marco Plauzio Silvano) che estendeva la cittadinanza a quanti degli Italici si fossero registrati presso il pretore di Roma entro sessanta giorni. Nel medesimo anno Cneo Pompeo Strabone, divenuto console, faceva attribuire (lex Pompeia) il diritto latino agli abitanti dei centri urbani a nord del Po (Transpadana). Ai magistrati di queste comunità veniva così aperto l’accesso alla cittadinanza romana. Tali misure circoscrissero la rivolta, anche se questa si trascinò ancora con una certa virulenza, tanto che vi perdette la vita l’altro console dell’89 a.C., Lucio Porcio Catone. I successi più ragguardevoli furono conseguiti da Cneo Pompeo Strabone (sotto cui prestava servizio il giovane figlio Cneo Pompeo, insieme ai giovani Cicerone e Catilina), che riuscì infine ad espugnare Ascoli, e da Lucio Cornelio Silla, che riconquistò la maggior parte del Sannio e della Campania spezzando le ultime resistenze dei ribelli italici. Nell’88 a.C., eletto console, ne assediava l’ultima roccaforte, Nola. Con la concessione della cittadinanza a tutta l’Italia fino alla Transpadana (il cui effetto fu ridimensionato in un primo tempo dall’inserimento di tutti i nuovi cittadini in otto soltanto delle trentacinque tribù esistenti – o addirittura in alcune tribù supplementari appositamente create) si inaugurava sia un processo di unificazione politica dell’Italia sia una nuova fase nella storia delle istituzioni di Roma, con ripercussioni importanti nella costituzione del corpo civico e nella vita stessa della città. Le aristocrazie italiche erano riuscite a fondare i presupposti per un loro accesso alle magistrature e un successivo ingresso in senato. Per esercitare i loro diritti i neocittadini dovevano assolutamente recarsi a Roma per partecipare personalmente alle assemblee. Capitolo 2. I primi grandi scontri tra fazioni in armi Mitridate VI Eupatore Mentre Romani e Italici si affrontavano nella guerra sociale, una situazione sempre più allarmante era venuta a determinarsi in Oriente, dal Mar Nero. I Parti della dinastia degli Arsacidi occuparono la Mesopotamia e la Babilonia. Nel 95 a.C. avevano imposto come loro vassallo quale re d’Armenia Tigrane. Nella Penisola Anatolica era costantemente in atto un forte frazionamento politico e Roma, installatasi sul territorio degli Attalidi, vi aveva favorito la coesistenza di molti piccoli Stati dinastici, Alessandro CR 50 ucciderli impunemente, i loro beni erano confiscati e venduti all’asta, i loro figli e discendenti esclusi da ogni carica. Gli obiettivi principali erano i senatori e i cavalieri. Ciò contribuì a modificare la composizione dell’aristocrazia romana. Poiché entrambi i consoli dell’82 a.C. erano morti nel conflitto, il senato nominò Lucio Valerio Flacco che presentò ai comizi una proposta (lex Valeria) che nominava Silla dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae. Diversamente da quella tradizionale, tale dittatura costituente non era a tempo determinato (sei mesi), ma illimitato. Il senato fu portato da Silla a seicento membri, con l’immissione di suoi numerosi partigiani, nonché di trecento cavalieri ed esponenti dei ceti superiori dei municipi italici. La sua integrazione annuale venne sottratta ai censori; ne entrarono a far parte automaticamente ogni anno allo spirare della carica, al pari degli altri magistrati, i questori, che forno aumentati a venti. Similmente fu innalzato a otto il numero dei pretori, sì da poter far fronte alle necessità derivanti dalla moltiplicazione dei tribunali permanenti (quaestiones perpetuae) che essi erano chiamati a presiedere. Questi tribunali vennero di nuovo riservati in esclusiva al senato (quello nuovo però, integrato da un consistente contingente di cavalieri). Le loro competenze furono suddivise in modo che a ciascuno di essi spettasse in esclusiva uno solo dei principali reati: estorsione e concussione (de repetundis), alto tradimento (de maiestate), appropriazione di beni pubblici (de peculatu), broglio e corruzione elettorale (de ambitu), assassinio e avvelenamento (de sicariis et veneficiis), frode testamentaria e monetale (de falsis), lesioni alle persone (de iniuriis). Per limitare eccessive ostentazioni di ricchezza da parte dell’aristocrazia, che tendevano a divenire oggetto e strumento di competizione, Silla rinnovò la legislazione suntuaria che limitava le spese per banchetti e funerali. Vennero di nuovo regolamentati l’ordine di successione alle magistrature e le età minime per accedervi: questura (30 anni), edilità (36), pretura (39), consolato (42); nessuna carica avrebbe potuto essere iterata prima di un intervallo di dieci anni. Nell’anno successivo alla magistratura pretori e consoli accedevano in genere alle promagistrature, col titolo di propretori o proconsoli, recandosi ad amministrare le province fino ad allora costituite. Furono totalmente ridimensionati i poteri dei tribuni della plebe, limitato il loro diritto di veto e praticamente annullato quello di proporre leggi. Fu fatto divieto a chi avesse ricoperto il tribunato di poter accedere a qualunque altra carica. Vennero abolite le distribuzioni frumentarie. Il pomoerium (limite sacro del territorio cittadino, entro il quale non era lecito mantenere o condurre eserciti in armi) fu esteso lungo una linea virtuale tra Arno e Rubicone, a comprendere in pratica quasi tutte le zone d’Italia che condividevano la cittadinanza romana. Compiuta la riorganizzazione dello Stato, Silla abdicò dalla dittatura. Nel 79 a.C. si ritirò a vita privata nei suoi possedimenti in Campania, dove morì l’anno dopo. Il tentativo di reazione antisillana di Marco Emilio Lepido Già nello stesso 78 a.C. uno dei consoli, Marco Emilio Lepido, tentò di ridimensionare l’ordinamento sillano, ma l’opposizione incontrata dai suoi progetti ebbe l’effetto di scatenare una rivolta in Etruria dove più pesanti erano state le espropriazioni. Lepido, partito per assumere come proconsole il governo della provincia Narbonese (77 a.C.), si fermò in Etruria dove fece causa comune con i ribelli e marciò su Roma, reclamando un secondo consolato e la restaurazione dei poteri dei tribuni della plebe. Il senato rispolverò contro di lui l’arma del senatus consultum ultimum, ordinando di difendere lo Stato con qualsiasi mezzo. Poiché non si erano tenute ancora le Alessandro CR 51 elezioni consolari, venne conferito eccezionalmente a Pompeo l’imperium, senza che egli avesse ancora rivestito alcuna magistratura superiore, in aperto spregio alle norme sillane che regolavano lo sviluppo delle carriere. La rivolta venne rapidamente stroncata. Lepido fuggì in Sardegna, dove morì di lì a poco; il suo luogotenente Marco Perperna si trasferì coi resti del suo esercito in Spagna, a ingrossare le fila degli ex mariani capeggiati da suo Sertorio. Ma il primo strappo all’ordinamento sillano era già stato compiuto. L’ultima resistenza mariana; Sertorio Quinto Sertorio si era distinto, nelle file mariane, contro i Cimbri e i Teutoni e, di nuovo, nella guerra sociale. Nell’82 a.C., dopo le prime vittorie di Silla, aveva raggiunto il suo posto di governatore della Spagna Citeriore. Là egli aveva creato una sorta di Stato mariano in esilio, coagulando altri esuli della sua fazione, Romani e Italici residenti in Spagna e perfino gran parte dei notabili delle popolazioni indigene. Tutti i tentativi di abbatterlo, iniziatisi ancora vivo Silla, si erano rivelati vani. Verso la fine del 77 a.C. si erano congiunte a Sertorio anche le truppe superstiti di Lepido al comando di Marco Perperna. Questa consistente presenza di profughi gli consentì di istituire a Osca (Huesca), scelta come sua capitale, un senato di trecento membri. A questo punto il senato decise di ricorrere un’altra volta a Pompeo che, arrivato in Spagna (76 a.C.), si trovò in una posizione alquanto difficile, subendo da Sertorio alcune sconfitte. Cominciarono, però, a manifestarsi dissapori e la popolarità di Sertorio veniva rapidamente calando. Furono orditi complotti contro di lui, finché Perperna, convinto di trarre vantaggio dal suo gesto, lo assassinò a tradimento (72 a.C.): Venne invece sconfitto e giustiziato da Pompeo. La rivolta servile di Spartaco Nel 73 a.C. era frattanto scoppiata la terza grande rivolta di schiavi (dopo le due siciliane del 140- 132 e del 104-100 a.C.). Questa volta la scintilla era scoccata a Capua in una scuola per gladiatori, una settantina dei quali, ribellatisi, si erano asserragliati sul Vesuvio. Là furono raggiunti da Traci, Galli, Germani, Orientali. se ne posero a capo due gladiatori, Spartaco (un trace), e Crisso (un gallo), e la rivolta si estese rapidamente a tutto il sud dell’Italia dove gli insorti riuscirono a tenere in scacco alcuni pretori e i due consoli del 72 a.C. inviati contro di loro. Il senato decise di affidare un comando eccezionale e un considerevole esercito a Marco Licinio Crasso che riuscì a isolare Spartaco che cadde in battaglia (71 a.C.). Il consolato di Pompeo e Crasso e lo smantellamento dell’ordine sillano (70 a.C.) Nel 70 a.C. Pompeo e Crasso furono eletti consoli. Fu allora portato a compimento lo smantellamento dell’ordinamento sillano. Restaurarono nella loro pienezza i poteri dei tribuni della plebe: essi poterono di nuovo proporre leggi all’assemblea popolare e opporre il veto alle iniziative degli altri magistrati. Furono eletti, dopo un intervallo di quindici anni, i censori, che epurarono il senato di sessantaquattro membri giudicati indegni e condussero il censimento, che fece registrare la cifra di 900.000 cittadini. Infine il pretore Lucio Aurelio Cotta fece modificare la composizione delle giurie dei tribunali permanenti, togliendone l’esclusiva ai senatori, e ripartendole in proporzioni uguali tra senatori, cavalieri e tribuni aerarii. Alessandro CR 52 Pompeo in Oriente; operazioni contro i pirati; nuova guerra mitridatica Negli anni tra l’80 e il 70 a.C. in Oriente erano riemerse e si erano consolidate due gravi minacce, i pirati, che avevano ripreso forza per l’endemica situazione di conflitti, e Mitridate. Dopo la pace di Dardano Mitridate aveva continuato a covare propositi di rivincita e l’occasione si era presentata nel 74 a.C., quando, alla morte di Nicomede IV di Bitinia, risultò che questo re aveva lasciato il suo regno in eredità ai Romani con un testamento non scevro da sospetti di falsificazione. Mitridate decise, pertanto, di invaderla e contro di lui furono mandati i due consoli del 74 a.C., Marco Aurelio Cotta e Lucio Licinio Lucullo. Quest’ultimo, sgomberata la Bitinia, occupò il Ponto, costringendo Mitridate a rifugiarsi in Armenia presso suo genero Tigrane (71 a.C.). Lucullo invase quindi l’Armenia assediandone e conquistandone la nuova capitale Tigranocerta (69 a.C.). Di qui si spinse ancor più a nord-est, all’inseguimento di Mitridate e Tigrane, verso l’antica capitale armena di Artaxata (68 a.C.), tra la catena del Caucaso e il Mar Caspio. Ma la sua invincibile marcia fu fermata da un duplice malcontento: i suoi soldati, stanchi delle fatiche, si rifiutarono di proseguire; i finanzieri romani, sdegnati dei provvedimenti da lui assunti per alleviare la situazione economica dell’Asia, fecero pressioni perché fosse destituito. I suoi comandi furono progressivamente revocati. Ne approfittarono Mitridate e Tigrane per riprendere le ostilità (67 a.C.). Nel 67 a.C. un tribuno della plebe, Aulo Gabinio, propose che si assumessero misure drastiche contro i pirati, le cui incursioni stavano colpendo le forniture stesse di grano a Roma, e che, per questo scopo, fosse attribuito per tre anni a Pompeo un imperium infinitum su tutto il Mediterraneo con pieni poteri anche sull’entroterra fino a cinquanta miglia (circa 75 km) dalle coste. Nonostante la violenta opposizione senatoria contro un provvedimento che concentrava nelle mani di un solo uomo poteri e risorse ingentissimi, esso fu approvato. Ripartito il Mediterraneo in tredici settori, Pompeo cacciò rapidamente i pirati dal Mediterraneo occidentale, costringendoli ad asserragliarsi e sconfiggendoli in Cilicia. I pirati fatti prigionieri furono stanziati, in piccole comunità rurali, in varie località soprattutto orientali che avevano subito devastazioni e spopolamenti. Nel 66 a.C., mentre egli era ancora impegnato nella guerra piratica, un altro tribuno della plebe, Caio Manilio, propose che venisse esteso a Pompeo anche il comando della guerra contro Mitridate (si è conservata l’orazione pronunciata da Cicerone a sostegno della concessione dell’incarico). Subentrato nel comando a Lucullo, Pompeo riuscì a convincere il re dei Parti, Fraate, a tenere impegnato Tigrane mentre egli marciava indisturbato verso il Ponto. Sconfitto e scacciato dal Ponto, Mitridate, privo dell’appoggio del genero, fu costretto a rifugiarsi a nord (66 a.C.), lungo la sponda orientale del Mar Nero, nel Bosforo Cimmerio (odierna Crimea). Là, abbandonato anche dal figlio Farnace, si fece trafiggere per non cadere in mano ai Romani (63 a.C.). Nel frattempo Pompeo aveva compiuto una spedizione lungo il Caucaso (65 a.C.), giungendo quasi fino al Mar Caspio. Confermato a Tigrane il trono dell’Armenia (64 a.C.: e ciò produsse un immediato raffreddamento con i Parti), lo privò però della Siria, nei cui affari egli intervenne direttamente, esautorando definitivamente gli ultimi esponenti seleucidi, e di cui fece una provincia romana. Poi passò in Palestina, dove s’impadronì di Gerusalemme e del suo Tempio, e dove costituì uno Stato autonomo, ma tributario, aggregato alla provincia di Siria (63 a.C.). Là fu raggiunto dalla notizia della morte di Mitridate. Riorganizzate le sue conquiste dalle coste occidentali dell’Asia Minore fino al fiume Eufrate (al di là si estendeva il territorio controllato dai Parti), riuniti la Bitinia e il Ponto in un’unica provincia, ampliata la Cilicia fino ai confini con la Siria, regolati i rapporti con i re vassalli e Alessandro CR 55 Pompeo allora si avvicinò a Crasso e al suo alleato Cesare, con i quali strinse un accordo (60 a.C.) di sostegno reciproco («primo triumvirato»). Secondo questo accordo privato e segreto, la cui esistenza divenne chiara solo in un secondo tempo, Cesare avrebbe dovuto essere eletto console per il 59 a.C. e avrebbe dovuto varare una legge agraria che sistemasse i veterani di Pompeo. Anche Crasso avrebbe ottenuto vantaggi per i cavalieri e le compagnie di appaltatori che gli erano legati. L’accordo fu cementato anche col matrimonio tra Pompeo e la figlia di Cesare, Giulia. Caio Giulio Cesare console Cesare fu eletto console per il 59 a.C. e fece votare in successione due leggi agrarie che prevedevano una distribuzione ai veterani di Pompeo di tutto l’agro pubblico rimanente in Italia, ad eccezione della Campania, e di altre terre acquistate da privati; per i fondi necessari sarebbero stati utilizzati i bottini di guerra di Pompeo. In un secondo tempo venne incluso nelle assegnazioni l’agro campano, in cui furono insediati anche cittadini nullatenenti padri di famiglie numerose. Furono poi fatte ratificare tutte le decisioni assunte da Pompeo in Oriente. Infine, com’era desiderio di Crasso, fu ridotto d’un terzo il canone d’appalto delle imposte della provincia d’Asia. Fu approvata una lex Iulia de repetundis, per i procedimenti di concussione, che ampliava e migliorava la precedente legislazione sillana in materia. Un altro provvedimento prevedeva la pubblicazione dei verbali delle sedute senatorie e delle assemblee popolari. Sul finire del consolato, il tribuno della plebe Publio Vatinio fece votare un provvedimento che attribuiva a Cesare per cinque anni il proconsolato della Gallia Cisalpina, Gallia Narbonese, successivamente, e dell’Illirico con tre legioni e il diritto di nominare i propri legati e di fondare colonie. Il tribunato di Publio Clodio Pulcro Partendo per le province attribuitegli (58 a.C.) Cesare, con Pompeo e Crasso, appoggiò la candidatura al tribunato della plebe di Publio Clodio Pulcro. Eletto tribuno, fece approvare un nutrita serie di leggi. Il potere dei censori di espellere membri dal senato venne limitato dal divieto di procedere nei confronti di chiunque senza un giudizio formale che consentisse agli interessati di difendersi e senza che si fosse raggiunta una concorde sentenza di condanna da parte di entrambi i censori. Nessun magistrato (tranne gli àuguri e i tribuni) avrebbe più potuto interrompere le assemblee pubbliche adducendo l’osservazione di auspici sfavorevoli. Vennero di nuovo legalizzati i collegia, associazioni private con fini religiosi e di mutuo soccorso, che il senato aveva soppresso nel 64 a.C. perché divenute pericoloso strumento di mobilitazione delle masse urbane. Fu abilità di Clodio sfruttare le funzioni iniziali di queste associazioni, disseminate per tutta la città, per farne prima dei gruppi di pressione, poi delle bande armate organizzate al suo servizio; pronte alla sommossa o alla riunione politica esse divennero ben presto un’arma temibile nelle mani degli agitatori. Le distribuzioni frumentarie ai cittadini romani residenti a Roma, fino ad allora a prezzo politico, dovevano divenire completamente gratuite; ciò comportò un progressivo vertiginoso aumento dei beneficiari, moltiplicati dalle immigrazioni verso la città e dall’incremento delle liberazioni di schiavi, che in tal modo potevano partecipare alle assegnazioni. Infine con un provvedimento si comminava l’esilio a chiunque condannasse o avesse condannato a morte un cittadino romano senza concedergli di appellarsi al popolo. Cicerone, che aveva fatto giustiziare i catilinari, ne era il bersaglio evidente; prima ancora che la legge fosse votata si era già allontanato da Roma. Pompeo non aveva mosso un dito per venirgli in aiuto. Anche Catone fu fatto Alessandro CR 56 allontanare da Roma con l’incarico di rivendicare il possesso dell’isola di Cipro dal Tolemeo che vi regnava e di effettuare le operazioni necessarie per incamerarne il patrimonio (che si conclusero nel 56 a.C.). Tolemeo di Cipro scelse la via del suicidio e l’isola fu infine aggregata alla provincia di Cilicia. Cesare in Gallia Quando Cesare arrivò nelle sue province era in atto, a nord della Narbonese, una migrazione di Elvezi (stanziati nell’attuale Svizzera) verso occidente, che minacciava le terre degli Edui (bacino superiore della Loira) e forse la stessa provincia romana. Dopo aver fatto concentrare le legioni ai suoi ordini in Narbonese, Cesare attaccò e sconfisse gli Elvezi a Bibracte (odierna Autun), la capitale degli Edui, costringendoli a ritornare nelle loro sedi (58 a.C.). Cominciava così la lunga conquista cesariana della Gallia. Nel frattempo un forte gruppo di Svevi, una tribù germanica stanziata oltre il Reno, condotto da Ariovisto, era passato sulla sinistra del fiume, chiamato in aiuto dai Sequani, confinanti e rivali degli Edui. Battuti ripetutamente gli Edui, intervenne Roma e Cesare, dopo aver intimato più volte Ariovisto di ritirarsi, procedette verso la capitale dei Sequani, Vesonzio (odierna Besançon), e, fallito il tentativo di accordo con l’avversario, lo sconfisse presso l’odierna Mulhouse (Alsazia superiore, costringendolo a ripassare il Reno (58 a.C.). Conclusa questa campagna, Cesare ritornò in Cisalpina, lasciando tuttavia le sue truppe accampate nei quartieri invernali presso Vesonzio. La presenza romana nella Gallia centrale suscitò però a nord le reazioni delle tribù dei Belgi (che occupavano le regioni a settentrione della Senna e della Mosella); Cesare riuscì a impadronirsi delle loro piazzaforti, riducendo alla resa prima i cantoni più meridionali poi le tribù più settentrionali, capeggiate dai Nervii (57 a.C.). Nel frattempo un legato di Cesare, Publio Licinio Crasso, sottomise numerose tribù della Normandia e della Bretagna (57 a.C.). Gli accordi di Lucca e la prosecuzione della conquista della Gallia Terminato l’anno del suo tribunato, Clodio era tornato privato cittadino e i suoi avversarsi imposero il ritorno di Cicerone. Uno dei bersagli preferiti di Clodio divenne ben presto Pompeo che, pentitosi di non aver fatto nulla per evitare l’esilio dell’oratore e preoccupato per i crescenti successi di Cesare in Gallia, aveva appoggiato i fautori del richiamo; nel 57 a.C. Cicerone era così potuto rientrare a Roma. Pompeo si trovò allora in una situazione di grave stallo politico. A questo punto Cesare, dopo aver incontrato Crasso a Ravenna, si riunì con lui e Pompeo a Lucca (allora ai confini della Cisalpina: aprile del 56 a.C.), dove i tre si accordarono su questo progetto: il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prorogato per altri cinque anni, con un aumento a dieci del numero delle legioni a sua disposizione; i tre si sarebbero impegnati, tramite i loro partigiani, a far eleggere Pompeo e Crasso consoli per il 55 a.C.; dopo il consolato questi ultimi avrebbero ricevuto come province per cinque anni rispettivamente Pompeo le due Spagne e Crasso la Siria. Tutto si svolse esattamente come i tre avevano programmato. Tornato in Gallia, Cesare trovò la Bretagna in aperta rivolta: le popolazioni costiere, che svolgevano traffici marittimi attraverso la Manica, potevano contare anche sull’appoggio della loro flotta. Cesare fece frettolosamente costruire sulla Loira un’armata di piccoli e leggeri battelli che, grazie all’ingegno del suo legato Decimo Bruto (che utilizzò lunghi pali con uncini taglienti alle estremità per recidere le sartie delle imbarcazioni nemiche, più veloci perché spinte a vela, e poi Alessandro CR 57 immobilizzarle per consentirne l’abbordaggio), ebbe la meglio sui poderosi vascelli oceanici avversari, permettendo così alle legioni di dominare sulla terraferma. Egli poté allora rivolgere la propria attenzione sul fronte del Reno. Qui, due tribù germaniche, Usipeti e Tencteri, avevano attraversato il fiume, spingendo le loro scorrerie nel territorio dei Treveri. Cesare li annientò alla confluenza tra la Mosella e il Reno e, fatto costruire un ponte di barche su questo fiume, compì una breve spedizione intimidatoria sulla sua riva destra (55 a.C.). Nello stesso anno fu compiuta un’incursione esplorativa in Britannia, donde giungevano rinforzi ed aiuti alle popolazioni costiere galliche. L’anno successivo (54 a.C.) ebbe luogo in Britannia una vera campagna militare con un contingente di cinque legioni, che consentì di raggiungere il Tamigi e portò alla sottomissione di parecchie tribù della costa. Il 53 a.C. trascorse nella repressione di rivolte scoppiate nelle regioni settentrionali della Gallia, che si concluse con un secondo passaggio del Reno. La grande crisi si verificò nel 52 a.C. nella Gallia centro-occidentale sotto la guida Vercingetorìge, re degli Arverni. Cominciata con lo sterminio di Romani e Italici residenti a Cenabum (Orléans), la sollevazione si estese rapidamente a tutto il territorio compreso tra la Loira e la Garonna. Cesare, che si trovava nella Gallia Cisalpina, si precipitò in pieno inverno in Arvernia dove pose l’assedio al grande centro fortificato di Gergovia (presso Clermont-Ferrand). Non riuscendo a mantenerne il blocco per l’esiguità delle sue forze, tentò di espugnare la città e fu respinto. A questo punto anche gli Edui defezionarono. Cesare fu costretto a dirigersi verso nord per ricongiungersi alle forze del suo legato Tito Labieno, che aveva sconfitto tribù insorte presso Lutetia Parisiorum (la futura Parigi), e insieme si misero a inseguire Vercingetorìge che, rifiutando ogni battaglia campale, preferì rinchiudersi nella piazzaforte di Alesia (a nord-ovest dell’odierna Digione) in attesa di rinforzi. Cesare fece cingere dai suoi uomini la città con due poderose linee di fortificazione, una interna per bloccare gli assediati, una esterna per sostenere gli assalti dei Galli accorsi in loro aiuto. Dopo un lungo e durissimo scontro sostenuto contemporaneamente da assediante e da assediato, gli assalitori furono respinti e la piazzaforte costretta a capitolare.Vercingetorìge si arrese e fu inviato prigioniero a Roma dove, sei anni dopo (46 a.C.), fu fatto sfilare dinanzi al carro trionfale di Cesare e poi decapitare ai piedi del Campidoglio. Frantumati l’uno dopo l’altro, nel corso del 51 a.C., gli ultimi centri di resistenza, Cesare, senza attendere istruzioni dal senato, provvide per proprio conto a dare un primo ordinamento alla nuova provincia (Gallia Comata). Crasso e i Parti Giunto in Siria (54 a.C.), Crasso aveva cercato di inserirsi nella contesa dinastica in atto nel regno dei Parti. Alla morte del re Fraate III era sorta una lotta per il trono dei Parti tra i due figli di lui, Orode e Mitridate. Divenuto re Orode II, Crasso aveva deciso di appoggiarne il fratello rivale e, varcato l’Eufrate, si era spinto in Mesopotamia senza incontrare grandi resistenze. L’anno successivo (53 a.C.), accompagnato dal figlio Publio, venuto in contatto con i Parti in una vasta pianura della Mesopotamia nord-occidentale, nei pressi della città di Carre, i Romani furono travolti dalla cavalleria corazzata partica (catafratti) e massacrati dalle frecce scagliate dagli arcieri a cavallo; lo stesso figlio di Crasso cadde sul campo di battaglia. Fu una delle sconfitte più gravi mai patite da Roma e Crasso fu preso e ucciso; l’accordo a tre perdeva così uno dei suoi protagonisti. Alessandro CR 60 Tunisia, nel golfo di Gabes; aprile 46 a.C.). Suicidatosi Giuba, il suo regno divenne provincia romana col nome di Africa nova. Ritornato a Roma in luglio, Cesare celebrò i trionfi sulla Gallia, sull’Egitto, su Farnace e su Giuba, poi, verso la fine dell’anno, fu costretto a partire per la Spagna, dove avevano ripreso fiato i suoi avversari sotto la guida dei figli di Pompeo, Cneo e Sesto. A Munda (nell’odierna provincia di Còrdova: marzo 45 a.C.) l’esercito nemico fu letteralmente distrutto: solo Sesto Pompeo riuscì a salvarsi con la fuga. Cesare, ormai padrone della situazione, poteva tornare a Roma a completare la sua opera di riorganizzazione politica. Cesare dittatore perpetuo Mentre si trovava in Egitto (nell’ottobre del 48 a.C.) Cesare era stato nominato dittatore per un anno; poi fu eletto al suo terzo consolato per il 46 a.C.; nel 45 a.C. ricoprì il quarto consolato; nel 44 a.C. il quinto, a cui cumulò il titolo di dittatore a vita (dicator perpetuus). Ad una tanto ampia concentrazione di magistrature supreme si era aggiunta via via una serie impressionante e senza precedenti di poteri straordinari. Dopo Tapso era stato fatto per tre anni praefectus moribus, con incarico di vigilare sui costumi e di controllare le liste dei senatori, dei cavalieri e dei cittadini, dunque con competenze analoghe a quelle dei censori. Gli fu riconosciuta prima la facoltà di sedere tra i tribuni della plebe, poi assegnata la potestà tribunizia, che gli conferiva tutte le prerogative proprie dei tribuni, come l’inviolabilità personale e il diritto di veto, pur senza ricoprirne la carica che, in quanto patrizio, non poteva esercitare; e ancora, gli fu attribuito il potere di fare trattati di pace o dichiarazioni di guerra senza consultare il senato e il popolo, di presiedere all’attribuzione delle magistrature e di designare (cioè di raccomandare) i suoi candidati alle elezioni, di assegnare a propri legati le province pretorie; e infine gli vennero offerti gli onori del primo posto in senato, del titolo di imperator (cioè di detentore dell’imperium) a vita e di quello di padre della patria (parens patriae). Già dal 49 a.C., personalmente o tramite magistrati suoi fautori, aveva messo mano a un insieme vastissimo di riforme. Erano stati concessi il perdono e il richiamo in patria a tutti gli esuli e condannati politici. Vennero accordate facilitazioni ai debitori sia per il pagamento di canoni arretrati, sia per le modalità di rimborso dei prestiti. Il diritto di ottenere la cittadinanza romana venne esteso agli abitanti della Transpadana, ad abbracciare ormai tutta l’Italia fino alle Alpi; ne beneficiarono inoltre corpi militari, singoli individui e comunità della Spagna, della Gallia e dell’Africa resisi benemeriti. Tra il 46 e il 44 a.C., poi, il senato fu portato da seicento a novecento membri, con l’immissione di un grande numero di seguaci di Cesare, ricchi cavalieri ed elementi provenienti non solo dalle borghesie delle colonie e dei municipi italici, ma da tutte le regioni dell’impero. Fu parimenti aumentato da venti a quaranta il numero dei questori, da quattro a sei quello degli edili, da otto a sedici quello dei pretori: venivano garantite in tal modo maggiori possibilità di carriera politica ai suoi sostenitori, un’ampia reintegrazione annuale del senato e si abbozzava altresì un contingente di quadri direttivi addetti all’amministrazione dello Stato. Furono ulteriormente abbassate le qualifiche censitarie necessarie per l’ammissione all’ordine equestre. Le giurie dei tribunali permanenti furono di nuovo ripartite equamente tra senatori e cavalieri. Furono introdotte sanzioni più severe nei confronti di quanti si fossero resi colpevoli di malversazioni e venne rivisto il sistema tributario provinciale. Fu regolamentata la durata dei governatorati, limitandola ad un anno per i propretori, a due per i proconsoli. Fu promulgata una legge suntuaria per porre freno Alessandro CR 61 agli sperperi e all’ostentazione di ricchezza. Fu fatto divieto ai cittadini fra i venti e sessant’anni, residenti in Italia, di rimanere assenti dal paese per più di tre anni consecutivi e fu consentito ai figli dei senatori di allontanarsene solo per incarico dello Stato. Vennero disciolte le associazioni popolari che tanto avevano contribuito ai torbidi degli anni precedenti, riportando i collegia alle loro funzioni originarie di corporazioni religiose o di mestiere. Furono confermate le distribuzioni gratuite di grano, ma il numero dei beneficiari, che era lievitato alla considerevole cifra di 320.000, fu ridotto a 150.000 tramite il depennamento degli “abusivi” e l’introduzione di un numero chiuso di aventi diritto (solo i vuoti lasciati dai morti avrebbero potuto essere colmati mediante sorteggio da una lista di legittimi aspiranti, custodita dal pretore). Per decongestionare Roma e l’Italia fu realizzato un vasto programma di colonizzazione e di distribuzione di terre per i numerosissimi veterani di Cesare e per più di 80.000 tra i cittadini meno abbienti, in parte in Italia, ma soprattutto nelle province (Spagna, Gallia, Africa, Grecia, Asia, Sicilia, Sardegna). Una considerevole attività di ristrutturazione urbanistica ed edilizia ed un’ambiziosa serie di lavori pubblici migliorarono l’aspetto di Roma e contribuirono a fornire lavoro ad abbondante mano d’opera. Per combattere la disoccupazione in Italia i proprietari vennero obbligati ad impiegare anche nei pascoli non meno di un terzo di uomini liberi. Con apposita legge (lex Iulia municipalis) furono riordinate e raccordate le norme di governo e di amministrazione pubblica dei municipi e di Roma. Effetti duraturi ebbe la riforma del calendario civile (che per omesse intercalazioni era in ritardo di quasi tre mesi rispetto a quello astronomico), compiuta da Cesare con l’assistenza dell’astronomo Alessandrino Sosigene (46 a.C.). Le idi di marzo L’eccessiva concentrazione di poteri, il moltiplicarsi di onori senza precedenti, il fatto che ogni carriera politica potesse ormai svolgersi solo con l’appoggio e il consenso di Cesare, taluni atteggiamenti suoi e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori che parvero rivelare una inclinazione verso la regalità (tra l’altro Cleopatra l’aveva raggiunto a Roma con il figlioletto), finirono per creare allarme non solo tra gli ex pompeiani superstiti e tra quanti tra senatori e cavalieri venivano colpiti nei loro interessi, ma anche tra alcuni dei sostenitori di Cesare. Nei primi mesi del 44 a.C. Cesare aveva preparato una grande campagna militare contro i Parti coll’intenzione di ristabilire l’egemonia romana in Asia, compromessa dal disastro di Crasso e ulteriormente indebolita dall’asprezza degli scontri tra pompeiani e cesariani. A Roma venne messo in giro ad arte un oracolo secondo il quale il regno dei Parti avrebbe potuto essere sconfitto solo da un re, ciò che andò ad aumentare le voci e i sospetti di aspirazioni monarchiche di Cesare. Fu allora ordita una congiura (guidata da Marco Giunio Bruto, Caio Cassio Longino e Decimo Bruto) prima della sua partenza per l’impresa partica, programmata per la seconda metà di marzo. Alle idi di marzo (15 marzo) del 44 a.C. egli cadde trafitto dai pugnali dei cospiratori nella curia di Pompeo (nel Campo Marzio), dove doveva presiedere una seduta del senato. Capitolo 4. Agonia della Repubblica L’eredità di Cesare; la guerra di Modena Abbattuto Cesare, i cesaricidi non si erano preoccupati di eliminare anche i suoi principali collaboratori, Marco Emilo Lepido e il Marco Antonio. Dopo un primo sbandamento, Antonio riuscì ad imporre una politica di compromesso, che venne ratificata dal senato: da un lato l’amnistia per i Alessandro CR 62 congiurati, dall’altro la convalida degli atti del defunto dittatore e il consenso ai suoi funerali di Stato. Antonio approfittò del possesso delle carte private di Cesare per far passare nel corso dell’anno tutta una serie di progetti di legge che egli sostenne di avervi trovato e che gli assicurarono una grande popolarità, facendone in pratica l’autentico interprete della politica di Cesare e il suo continuatore ed erede spirituale. Alla lettura del testamento di Cesare si scoprì che il dittatore aveva nominato suo erede effettivo per i tre quarti dei beni e suo figlio adottivo, Caio Ottavio, suo pronipote. Il resto del patrimonio andava a due altri parenti di Cesare, Lucio Pinario e Quinto Pedio. Alle idi di marzo il giovane Ottavio si trovava ad Apollonia, per completare la propria istruzione e attendere l’arrivo del prozio che intendeva averlo come magister equitum nell’impresa che si accingeva a compiere. Appena saputo del testamento, Ottavio si diresse verso l’Italia e giunse a Roma, accompagnato da manifestazioni di simpatia dei veterani del padre adottivo stanziati in Campania. Quivi reclamò ufficialmente l’eredità. Entratone in possesso, nonostante l’ostruzionismo di Antonio, onorò gli ingenti lasciti in danaro previsti dal testamento, ponendo come principale caposaldo del suo impegno politico la tutela e la celebrazione della memoria del padre adottivo e la vendetta ad ogni costo della sua uccisione. In tal modo concentrò su di sé l’appoggio dei cesariani più accesi e dei veterani, mentre buona parte del senato (non ultimo Cicerone) cominciò a scorgere in lui un mezzo per arginare lo strapotere di Antonio. Questi, per poter controllare più da vicino l’Italia allo scadere del suo consolato, si era fatto assegnare dai comizi al posto della Macedonia le due province della Gallia Cisalpina e della Gallia Comata (i territori gallici conquistati da Cesare) per la durata di cinque anni, conservando il diritto di trasferire in Gallia anche le legioni macedoni. Quando però Antonio mosse verso la Cisalpina, il governatore originariamente designato, Decimo Bruto, rifiutò di cedergliela e si rinchiuse a Modena, assediato da Antonio. Ebbe inizio così la cosiddetta «guerra di Modena» (43 a.C.). Mentre Cicerone attaccava Antonio per la sua condotta prevaricatrice, il senato ordinò ai due consoli del 43 a.C., Aulo Irzio e Caio Vibio Pansa, di muovere in soccorso di Decimo Bruto; ad essi venne associato con un imperium propretorio anche Ottavio, che aveva reclutato un’armata privata in Campania e a cui erano passate due delle legioni che Antonio aveva fatto venire dalla Macedonia. Vicino a Modena Antonio fu battuto e fu costretto a ritirarsi verso la Narbonese, dove contava di unire le sue forze a quelle di Lepido. Irzio e Pansa morirono per le ferite riportate nello scontro. Il triumvirato costituente (cosiddetto «secondo triumvirato»); le proscrizioni; Filippi Poiché entrambi i consoli erano scomparsi, Ottavio chiese al senato il consolato per sé. Al rifiuto, non esitò a marciare su Roma. Nell’agosto del 43 a.C. venne eletto console, insieme al cugino e coerede Quinto Pedio. I due consoli fecero revocare tutte le misure di amnistia e istituirono un tribunale speciale per perseguire gli assassini di Cesare. Ottavio fece anche ratificare la sua adozione dai comizi curiati. In Gallia Antonio si era congiunto con Lepido, attirando dalla propria parte altri governatori della Gallia e della Spagna, come Lucio Munazio Planco e Caio Asinio Pollione. Decimo Bruto, isolato e abbandonato dai suoi soldati, fu ucciso mentre cercava di passare le Alpi orientali per congiungersi agli altri cesaricidi. Annullato il provvedimento senatorio che aveva dichiarato Antonio nemico pubblico (in occasione della guerra di Modena), nell’ottobre del 43 a.C. Ottaviano, Antonio e Lepido si incontrarono nei Alessandro CR 65 l’appoggio di Antonio e a concludere un accordo con lui a Taranto (37 a.C.) per ottenere rinforzi. Fu così rinnovato per altri cinque anni (cioè fino a tutto il 32 a.C.) il triumvirato, che era scaduto alla fine del 38 a.C.; rinnovo che venne poi formalmente convalidato dall’assemblea popolare. Ottaviano inoltre avrebbe ricevuto da Antonio 120 navi per la guerra contro Sesto Pompeo, ma avrebbe dovuto fornire ad Antonio 20.000 legionari per la sua campagna partica. Nel frattempo Marco Vipsanio Agrippa, console per il 37 a.C. e amico d’infanzia di Ottaviano, con una considerevole opera di ingegneria aveva fatto collegare i laghi Averno e Lucrino al mare, costruendo in tal modo un porto militare presso Pozzuoli dove aveva potuto riunire e addestrare una flotta consistente. Con queste navi nel 36 a.C. Agrippa inferse a Sesto una duplice definitiva sconfitta a Milazzo e a Nauloco, presso la costa settentrionale della Sicilia, non lontano dallo stretto di Messina. Sesto Pompeo fuggì in Oriente, dove venne ucciso l’anno dopo. Lepido, che aveva preso parte con Ottaviano alle operazioni, pretese di rivendicare per sé il diritto al possesso dell’isola; ma le sue truppe lo abbandonarono e ad Ottaviano fu facile farlo dichiarare decaduto dai poteri di triumviro e impossessarsi dell’Africa. Conservando solo formalmente la funzione di pontefice massimo, Lepido visse in una villa sul promontorio del Circeo, a metà strada fra Roma e Napoli, ormai in disparte dalla vita politica, fino al 12 a.C. Al suo ritorno a Roma Ottaviano fu ricolmato di onori: tra essi l’inviolabilità propria dei tribuni della plebe che, aggiunta all’imperium che egli deteneva come triumviro, costituì poi la base da lui scelta per fondare il principato. Ormai padrone incontrastato dell’Occidente, ad Ottaviano non mancava che la gloria militare. Se la procacciò, con l’aiuto di Agrippa, con due anni di dure campagne contro gli Illiri in Pannonia e in Dalmazia, che da tempo stavano creando non pochi problemi (35-34 a.C.). Antonio in Oriente Negli anni successivi alle battaglie di Filippi, Antonio aveva concentrato tutte le sue attenzioni sull’Oriente, da dove contava di ritornare coperto di fama per aver condotto a termine i progetti di Cesare contro i Parti e aver vendicato la morte di Crasso e il disastro di Carre. Le sue prime necessità furono finanziarie: pesanti tributi furono imposti alle comunità dell’Asia, accusate di aver sovvenzionato i cesaricidi. Egli si preoccupò poi di procurarsi l’alleanza di re e di principi orientali. Il regno più potente era allora l’Egitto, che costituiva un’immensa riserva di risorse economiche (tra cui la disponibilità di una produzione cerealicola eccezionale) sotto il regno congiunto di Cleopatra VII e del figlio natole da Cesare, Tolemeo Cesare. Convocata a Tarso, in Cilicia, nel 41 a.C., la regina indusse il triumviro a trascorrere l’inverno del 41-40 a.C. come suo ospite in Egitto. Dalla loro unione nacquero due gemelli; essi non si sarebbero però più rivisti nei successivi tre anni. Nella primavera del 40 a.C. i Parti invasero la Siria e, dopo aver travolto i governatori antoniani, dilagarono in Asia Minore e in Giudea. Antonio non poté reagire a questi primi rovesci perché richiamato in Italia dalle conseguenze della guerra di Perugia. Vi si trattenne, dopo aver stipulato gli accordi di Brindisi e sposato la sorella di Ottaviano, Ottavia, fino alla metà del 39 a.C. Poi partì con lei alla volta di Atene. Poco prima della fine del 39 a.C. il generale antoniano Publio Ventidio Basso riuscì a respingere i Parti dai territori provinciali romani; nel 38 a.C., divenuto governatore di Siria, fronteggiò un loro nuovo tentativo di invasione e li ricacciò al di là dell’Eufrate. Nel 37 a.C. si aprì in Partia una crisi dinastica. Antonio non poté approfittarne perché in primavera fu costretto a recarsi a Taranto per il rinnovo del triumvirato. Alessandro CR 66 Dopo l’accordo di Taranto Antonio poté ritornare in Oriente, lasciando Ottavia in Italia. Nella restante parte del 37 a.C. egli cercò di dare un nuovo assetto ai territori d’Oriente in vista dell’inizio dell’impresa partica, attraverso la creazione di una serie di principati a lui fedeli. Nell’autunno del 37 a.C. ritrovò Cleopatra e riconobbe i gemelli che aveva avuti da lei. L’attribuzione di territori che erano stati romani a principi locali e, in particolare, l’assegnazione all’Egitto di una parte della Cilicia, della Fenicia, della Celesiria, di una porzione dell’Arabia e, forse, di Cipro contribuirono ad offrire non pochi elementi di sdegno alla campagna diffamatoria nei confronti di Antonio che nel frattempo Ottaviano stava cominciando a montare in Italia. Nella primavera del 36 a.C. Antonio diede inizio alla sua grande spedizione partica. Attraverso l’Armenia egli invase il regno partico da nord, giungendo ad assediare Fraata, nella Media Atropatene, attuale Azerbaigian. Avendo però perduto le macchine d’assedio, distrutte dai Parti durante l’avanzata, non riuscì a prendere la città e dovette ritirarsi, con gravi perdite, per il sopraggiungere dell’inverno. Il 35 a.C. fu trascorso in preparativi per una nuova invasione della Partia e dell’Armenia, che ebbe luogo nel 34 a.C. col solo risultato della conquista dell’Armenia, il cui infido re fu detronizzato. Nel 35 a.C. si era intanto consumata la definitiva rottura tra Antonio ed Ottaviano, in seguito alla beffa giocata da quest’ultimo al collega proprio all’indomani della sua ritirata partica. In luogo dei 20.000 legionari che si era impegnato a fornirgli con gli accordi di Taranto, egli restituì ad Antonio solo 70 delle navi da lui ricevute (superstiti degli scontri contro Sesto Pompeo) e gli inviò la sorella Ottavia con 2.000 uomini. Antonio cadde nella provocazione, e ingiunse ad Ottavia di ritornarsene indietro, dopo averla fatta fermare ad Atene. La trappola era così scattata e la situazione ribaltata: Ottaviano era l’offeso, l’oltraggiata la sorella, una donna romana e moglie legittima scacciata a causa di Cleopatra, un’amante orientale. Per tutta risposta Antonio celebrò la conquista dell’Armenia con una fastosa cerimonia ad Alessandria (34 a.C.), confermando a Cleopatra e a Tolemeo Cesare (che egli ribadiva essere figlio naturale e dunque unico reale consanguineo di Cesare – uno schiaffo a Ottaviano che era solo figlio adottivo del dittatore) il trono dell’Egitto, di Cipro e della Celesiria e attribuendo altri territori (tra cui la Cirenaica) ai figli da lui avuti con Cleopatra. Ottaviano non poteva gradire di vedere così innalzato il figlio naturale del suo divino padre. Lo scontro finale; Azio Antonio non ebbe più tempo per intraprendere un’altra impresa partica. Nel 32 a.C. il triumvirato si avviava alla sua scadenza naturale. i due consoli del 32 a.C., Cneo Domizio Enobarbo e Caio Sosio, entrambi antoniani, chiesero la ratifica delle decisioni prese da Antonio in Oriente. Ottaviano ne impedì al senato l’approvazione. Entrambi i consoli e trecento senatori decisero conseguentemente di abbandonare l’Italia per rifugiarsi presso Antonio. Quest’ultimo rispose inviando ad Ottavia un formale atto di ripudio. Rivelando ad arte un testamento in cui Antonio disponeva di essere sepolto ad Alessandria accanto a Cleopatra e attribuiva regni ai figli avuti con la regina, Ottaviano ottenne che il triumviro venisse privato di tutti i suoi poteri, anche del consolato del 31 a.C., stabilito già da lungo tempo. Si presentò dunque come il difensore di Roma e dell’Italia contro una regina avida e infida, capace di corrompere e snaturare l’animo di un grande e valoroso generale romano, fino a trasformarlo in un despota orientale e a portarlo ad agire contro l’interesse della sua stessa patria. Ottenuto perciò un giuramento di concorde fedeltà da tutta l’Italia e dalle province occidentali, poté intraprendere una Alessandro CR 67 sorta di guerra santa dell’Occidente contro l’Oriente. La dichiarazione di guerra venne difatti formalizzata contro la sola Cleopatra. Lo scontro determinante avvenne nel Mar Ionio dinanzi ad Azio (settembre 31 a.C.), presso il golfo di Ambracia sulle coste dell’Epiro, con una battaglia navale vinta da Agrippa per Ottaviano. Antonio e Cleopatra si rifugiarono in Egitto, preparando un’ultima resistenza. Ma quando Ottaviano, ormai padrone della parte orientale del Mediterraneo, penetrò in Egitto con le sue truppe e prese Alessandria (1 agosto 30 a.C.), prima Antonio e poi Cleopatra si suicidarono. L’Egitto fu dichiarato provincia romana. Nel frattempo anche l’altro Cesare, l’unico figlio naturale di Cesare, Tolemeo Cesare, era stato opportunamente eliminato. Alessandro CR 70 senato a un milione di sesterzi. In taluni casi Augusto stesso poteva concedere il diritto a entrare in senato a chi non apparteneva a una famiglia senatoria. Roma, l’Italia, le province Per quanto riguarda Roma, l’azione di Augusto si può valutare su due piani: quello monumentale e quello della razionalizzazione dei servizi. In coerenza con l’ideologia della restaurazione repubblicana, Augusto non diede alcun rilievo particolare alla propria residenza. Egli concentrò la sua attività edilizia nel Foro romano, dove completò i programmi edilizi di Cesare. Costruì inoltre un nuovo Foro, il Forum Augusti, con al centro Marte Ultore. Trasformò poi l’aspetto del Campo Marzio, edificandovi tra l’altro il Pantheon, dedicato ad Agrippa. Durante il principato di Augusto, soprattutto per opera di Agrippa, furono costruiti o restaurati anche molti edifici pubblici, acquedotti, terme, teatri e mercati e ci si preoccupò dell’organizzazione di servizi importanti per l’approvvigionamento alimentare e idrico e per la protezione dagli incendi e dalle inondazioni che periodicamente devastavano la città. Alla morte di Agrippa, la cura dell’approvvigionamento idrico, il mantenimento degli edifici pubblici e sacri, la cura delle strade e delle rive del Tevere passò ai collegi di senatori. Augusto creò un corpo di vigili del fuoco. Il governo di Roma era invece attribuito a un praefectus Urbi appartenente all’ordine senatorio. L’Italia non fu pressoché interessata da riforme amministrative. Le circa 400 città italiche godevano di autonomia interna ed erano dotate di un proprio governo municipale. Augusto divise l’Italia in 11 regioni, che servivano in primo luogo per il censimento delle persone e delle proprietà. I più importanti provvedimenti riguardarono in primo luogo l’organizzazione di un sistema di strade e di un servizio di comunicazioni. Vi furono inoltre numerose iniziative di rinnovamento edilizio nelle città dell’Italia: porte, mura, strade, acquedotti. L’amministrazione delle province invece, pur rimanendo essenzialmente fondata sul sistema repubblicano, vide un cambiamento di natura soprattutto politica. Le province che ricadevano sotto la responsabilità diretta di Augusto erano quelle in cui si trovavano una o più legioni. Queste province «non pacificate», ovvero di frontiera o di recente conquista, crebbero dalle iniziali 5 fino a raggiungere il numero di 13 alla fine del suo principato. Tali province venivano governate da appositi legali, i cosiddetti legati Augusti pro praetore, scelti tra i senatori di rango pretorio o consolare a seconda del numero di legioni assegnate a ciascuna provincia. I legati, il cui mandato era di durata variabile a discrezione della volontà del principe, avevano il governo della provincia e il comando delle legioni, ma non il potere di riscuotere le tasse, la cui organizzazione era affidata a procuratori di rango equestre. Nelle altre province, quelle di competenza del popolo romano, i governatori, seguendo la prassi repubblicana, erano sempre senatori, ma in questo caso erano scelti a sorte tra i magistrati che avevano ricoperto la pretura o il consolato. Restavano in carica solo un anno, comandavano le forze militari presenti nella loro provincia, assistiti dai questori. Anche nelle province del popolo Augusto poteva intervenire in virtù del suo imperium maius. Un’eccezione a questo ordinamento era costituita dall’Egitto che, subito dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, era stato assegnato a un prefetto di rango equestre, nominato da Augusto. L’Egitto, infatti, rimase l’unica grande provincia governata da un prefetto equestre. Fu necessario inoltre creare un sistema razionale per l’esazione di imposte e tasse, che mitigasse lo sfruttamento brutale delle requisizioni adottate per le guerre civili ed esterne. Augusto stabilì nuovi Alessandro CR 71 criteri per determinare l’ammontare dei tributi meglio commisurati alle capacità contributive dei provinciali. Il nuovo sistema aveva come presupposto una misura dei terreni, su cui era impostata la tassa fondiaria, il tributum soli, e il censimento della popolazione, con cui si determinava il numero dei provinciali non cittadini romani, che dovevano pagare la tassa pro capite. L’esercito, la «pacificazione» e l’espansione All’indomani di Azio, gli uomini impegnati nell’esercito superavano di gran lunga la necessità e i mezzi dell’Impero. La paga dei soldati gravava sulla cassa dello Stato, l’aerarium Saturni, in cui confluivano le imposte regolari delle province, ma i costi della liquidazione dei veterani rappresentavano un perso straordinariamente alto. Si trattava di smobilitare gli antichi combattenti conservandone il favore. In un primo tempo i veterani ricevettero soprattutto terre, in Italia e in alcune province. Successivamente ottennero per lo più del denaro. Infatti la creazione di una cassa speciale nel 6 d.C., l’erario militare, finanziata con i proventi di una tassa apposita sulle eredità (la vicesima hereditatium), garantì al soldato che avesse ottenuto l’honesta missio (una sorta di certificato di servizio onorevole) un premio di congedo. Con Augusto il servizio militare nelle legioni fu riservato in linea di principio a volontari, che per lo più erano ancora italici, anche se incominciava a essere apprezzabile il contributo dei provinciali. Un’altra innovazione importante fu l’istituzione di una guardia pretoriana permanente, affidata al comando di un prefetto di rango equestre. Si trattava di un corpo militare d’élite composto da nove coorti, reclutato prevalentemente tra cittadini romani residenti in Italia, che godeva di privilegi quali un soldo più elevato e migliori condizioni di servizio, essendo stanziato presso Roma. Augusto costituì inoltre dei contingenti regolari di truppe ausiliarie di fanteria e cavalleria, reclutate tra i popoli soggetti all’Impero e comandate da ufficiali romani ma anche da capi di tribù locali. Al congedo, dopo un lungo periodo di ferma, chi vi aveva militato otteneva la cittadinanza romana. La flotta stazionava in due porti, a Miseno e a Ravenna, ed era sottoposta al comando di un prefetto equestre. Anche i marinai, una volta congedati, divenivano cittadini romani. Innegabili furono i successi di Augusto anche in «politica estera». Ciò non toglie che durante il suo regno le acquisizioni territoriali vere e proprie dell’Impero furono limitate, malgrado guerre lunghe e impegnative un po’ su tutti i fronti. Augusto compì in tre occasioni, 29 a.C. (dopo la vittoria di Azio), nel 25 a.C. (in seguito alla guerra cantabrica) e probabilmente nel 10 a.C. (dopo la spedizione in Arabia) un atto di grane valore simbolico: la chiusura del tempio di Giano, una sorta di gesto propagandistico per indicare che iniziava una stagione di pace. Augusto preferì affidare alla diplomazia, piuttosto che alle armi, le questioni orientali. In Egitto furono estesi i confini meridionali grazie all’azione del primo prefetto d’Egitto, C. Cornelio Gallo, che concluse un accordo con gli Etiopi (29-27 a.C.); il secondo prefetto d’Egitto condusse una spedizione fino allo Yemen meridionale, per assicurare le vie commerciali con l’Oriente (25-24 a.C.). i confini con il regno partico vennero invece stabilizzati grazie a trattative diplomatiche e grazie ai rapporti politici stretti con gli Stati contigui ai territori provinciali. Il vero teatro degli scontri militari del principato di Augusto fu in Occidente. Nei primi anni di regno gli interventi militari si concentrarono nella penisola iberica (27-25 fino al 19 a.C.), che fu finalmente pacificata, e nell’area alpina occidentale, dove nel 25 a.C. furono sottomessi i Salassi della Val d’Aosta e fu fondata la colonia di Augusta Praetoria (Aosta). La propaganda di Augusto non riuscì, tuttavia, a mascherare quello che innegabilmente fu un insuccesso: la mancata sottomissione della Germania. All’Elba i Romani arrivarono con Druso nel 9 Alessandro CR 72 a.C., ma il territorio germanico a oriente del Reno non fu mai stabilmente sottomesso. Nel 6 d.C. scoppiò una grande rivolta delle tribù germaniche, che riuscirono a far fronte comune contro l’invasore. Nel 9 d.C. si ebbe un episodio decisivo: nella foresta di Teutoburgo Quintilio Varo fu sconfitto da Arminio e tre legioni risultarono annientate. La successione I particolari poteri che Augusto aveva via via ricevuto dal senato in diverse circostanze e che insieme al suo carisma ne avevano creato l’auctoritas non costituivano, tuttavia, una vera e propria carica a cui dopo la sua morte qualcuno potesse succedere, né tali poteri e tale posizione potevano essere trasmessi, secondo un principio dinastico proprio delle monarchie ellenistiche, con un singolo atto a una persona della sua famiglia o del suo entourage senza ledere le prerogative dell’ordinamento repubblicano. Augusto, che non aveva figli maschi, ma solo una figlia femmina, Giulia, doveva trovare dunque il modo di far sì che la sua posizione di potere non andasse perduta con la sua morte, ma rimanesse nella sua famiglia, senza tuttavia imporre una svolta apertamente monarchica alle istituzioni. La prima preoccupazione di Augusto fu quella di integrare la propria famiglia nel nuovo sistema politico e nella propaganda ideologica, celebrandone l’ascendenza divina. Nella sua veste di pater familias sottolineava inoltre il carattere romano tradizionale della propria gens. Il ruolo di primo piano assunto dalla domus principis gli consentiva di trasferire al proprio erede anche le clientele e il prestigio che secondo la tradizione romana appartenevano al patrimonio di una famiglia della nobiltà gentilizia. L’erede scelto all’interno della famiglia avrebbe ricevuto non solo il patrimonio privato ma, grazie alla particolare posizione, anche una sorta di prestigio che gli garantiva un accesso privilegiato alla carriera politico-militare e un ruolo singolare nella res publica. Tramite una carriera magistratuale eccezionalmente abbreviata e all’attribuzione di poteri straordinari, sul modello di Augusto, la potestà tribunizia e l’imperium proconsolare in primo luogo, veniva di fatto designato alla successione alle funzioni pubbliche del princeps. Fu attraverso il matrimonio di Giulia con il nipote Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, nel 23 a.C., che Augusto cercò, per la prima volta, di inserire un discendente maschio nella famiglia. Marcello morì nello stesso 23 a.C. La seconda personalità a cui Augusto fece attribuire gradualmente poteri analoghi a quelli da lui cumulati fu Agrippa. Nel 17 a.C. Augusto adottò i due figli di Giulia e Agrippa, Caio e Lucio Cesari, preparandoli a una eventuale successione al padre. Ma nel 12 a.C. Agrippa morì. Considerato che i due ragazzi erano ancora minorenni, Augusto si rivolse ai figli della terza moglie Livia, nati dal primo matrimonio di questa con Tiberio Claudio Nerone. Tiberio dovette divorziare e sposare Giulia nell’11 a.C. In ogni modo Caio Cesare e Lucio Cesare non poterono diventare reali avversari di Tiberio perché la morte li colse giovanissimi nel 2 e nel 4 d.C. Già nel 2 d.C. Tiberio era tornato a Roma e aveva sciolto il matrimonio con Giulia, colpita da uno scandalo a causa dei suoi amanti e condannata all’esilio dal padre stesso. Augusto pretese allora da Tiberio che adottasse Germanico, il figlio di suo fratello Druso e di Antonia, figlia di M. Antonio e di Ottavia, sorella di Augusto, anche se Tiberio aveva un suo proprio figlio di nome Druso (che chiameremo “minore” per distinguerlo dallo zio Druso “maggiore” morto nel 9 a.C. in Germania). Tiberio adottò Germanico nel 4 d.C. e Augusto adottò temporaneamente Tiberio. Successivamente a Tiberio furono attribuiti la potestà tribunizia e l’imperium proconsolare. Nel 13 d.C. celebrò il trionfo sui Germani e gli venne conferito un imperium pari a quello di Alessandro CR 75 pubblico e imprigionò i suoi due figli maggiori, accusandoli di tramare contro l’imperatore. Antonia, la madre di Germanico, riuscì allora a risvegliare in Tiberio i sospetti su Seiano, che fu arrestato e giustiziato. Gli ultimi anni del regno di Tiberio non furono felici: scoppiò una grave crisi finanziare e si acuirono i contrasti con il senato. Agrippina si suicidò e i suoi due figli maggiori furono uccisi. Rimanevano come possibili successori Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, e Gaio, detto Caligola, unico sopravvissuto dei figli di Germanico. Tiberio nominò entrambi eredi congiunti, ma alla sua morte, nel 37 d.C., il senato riconobbe come unico erede il maggiorenne Caligola, che si impegnò ad adottare Tiberio Gemello, ancora minorenne; al ragazzo non fu lasciato il tempo per eventuali rivendicazioni, venne infatti eliminato in quello stesso anno. Caligola (37-41 d.C.) L’impero di Caligola fu relativamente breve. Fu accolto con grande entusiasmo dall’esercito e dalla plebe; molto più freddo era l’atteggiamento del senato, un fatto che trova riflesso nel tratto che di Gaio ci ha lasciato lo storico Svetonio (prima metà del II secolo d.C.): un folle tiranno, scarsamente interessato al governo dell’Impero e preoccupato solamente di rafforzare il suo potere personale. Le fonti imputo alla malattia mentale di Caligola la sua inclinazione verso forme di dispotismo orientale e l’ondata di esecuzioni. Nella storiografia attuale si tende piuttosto a mettere in luce la tradizione familiare gentilizia dell’imperatore, che ereditava la linea di Antonio e di Germanico e faceva propri elementi della concezione “orientale”, monarchica. Si colloca forse in questo contesto la decisione di fare uccidere nel 40 d.C. il re Tolemeo di Mauretania, l’ultimo discendente di Antonio (era figlio infatti di Cleopatra Selene, a sua volta figlia di Antonio e di Cleopatra, l’ultima regina d’Egitto), per ragioni che non sono note. L’episodio diede inizio a una guerra che si concluse solo sotto Claudio, con l’annessione del regno a Roma. In politica estera Caligola si curò di ripristinare in Oriente un sistema di Stati cuscinetto, con i cui sovrani aveva relazioni personali di amicizia ereditate da Marco Antonio, attraverso la nonna Antonia: esemplare il caso della Commagene che, ridotta a provincia da Tiberio, venne restituita ad un sovrano cliente; all’amico personale Erode Agrippa concesse ampi territori della Galilea. Tuttavia fu proprio con gli Ebrei che nacque uno dei conflitti meglio documentati dell’età di Caligola: l’imperatore, per affermare la propria divinità, volle porre una propria statua nel Tempio di Gerusalemme, suscitando le proteste della popolazione, che lo considerava un gesto sacrilego, e dello stesso governatore romano, allarmato per le tensioni che si stavano creando. La richiesta di Caligola aveva infatti risvegliato violenti conflitti tra Ebrei e Greci nelle città della Giudea e dell’Oriente. Nel gennaio del 41 d.C. Caligola cadde vittima di una congiura organizzata dai pretoriani. La sua morte evitò che scoppiasse il conflitto in Giudea e pose fine ai dissidi nelle città orientali. Claudio (41-54 d.C.) Neppure il successore di Caligola, suo zio Claudio, ebbe dalla sua il favore delle fonti antiche, che ce lo presentano come uno sciocco e un inetto, dedito a manie erudite. Malgrado il suo rispetto per il senato, la necessità di una razionalizzazione del governo dell’Impero indusse Claudio a una significativa riforma: l’amministrazione centrale fu divisa in quattro grandi uffici, un segretariato generali e altri tre rispettivamente per le finanze (a patrimonio), per le suppliche (ab epistulis) e per l’istruzione dei processi da tenersi davanti all’imperatore (a libellis). Alessandro CR 76 Poiché a capo di questi dipartimenti furono chiamati dei liberti, cui la carica conferiva un potere immenso, si capisce perché l’impero di Claudio sia ricordato come «il regno dei liberti». La sua linea politica di razionalizzazione dei servizi lo portò anche a cercare nuove soluzioni ai problemi di approvvigionamento granario e idrico che periodicamente affliggevano Roma. Costruì il porto di Ostia per consentire l’attracco alle navi granarie di grande tonnellaggio che prima approdavano a Pozzuoli, il sistema delle distribuzioni granarie vide un riammodernamento: l’organizzazione del servizio fu probabilmente tolta alla responsabilità del senato e assegnata al prefetto dell’annona. Costruì un nuovo acquedotto e bonificò la piana del Fucino, nell’odierno Abruzzo, per aumentare la superficie coltivabile in Italia. L’orazione tenuta da Claudio per la concessione ai notabili della Gallia Comata del diritto di accesso al senato mostra il suo interesse per le province. La sua politica di integrazione è attestata da provvedimenti come l’intensa opera di fondazione di colonie (Britannia, Germania, Mauretania). Nella prima parte del suo principato Claudio dovette risolvere le questioni lasciate aperte da Caligola: affrontò la guerra in Mauretania, a cui pose fine con l’organizzazione del regno in due province, affidate a procuratori equestri, e anche la questione orientale fu oggetto di un suo intervento di modifica dell’assetto dei regni clienti istituiti da Caligola. I privilegi delle comunità ebraiche nelle città orientali furono ristabiliti, tutelando allo stesso tempo le istituzioni delle poleis greche, in modo da evitare conflitti tra i due gruppi. La preoccupazione di prevenire disordini e tumulti fu anche all’origine del provvedimento di espulsione degli Ebrei da Roma, adottato nel 49 d.C. l’impresa militare più rilevante di Claudio fu infine, nel 43 d.C., la conquista della Britannia meridionale che ridotta a provincia. Il regno di Claudio è caratterizzato dagli intrighi di corte. Egli aveva sposato in terze nozze la dissoluta Messalina da cui ebbe un figlio, chiamato Britannico, dopo la felice conclusione della campagna in Britannia. Accusata di intrigare contro il marito, Messalina fu messa a morte nel 48 d.C., Claudio sposò allora la nipote Agrippina, la quale riuscì a far adottare dall’imperatore il figlio avuto dal suo precedente matrimonio. Nel 54 d.C. Agrippina non esitò ad avvelenare Claudio pur di assicurare al figlio la successione al trono. La società imperiale Alla base della concezione antica della società, in particolare di quella romana imperiale, vi era l’assunto che vi dovesse essere una articolazione e una differenza formalmente riconosciuta dello status giuridico delle persone. Abbiamo visto come Augusto avesse provveduto a differenziare le condizioni e le prerogative dei ceti dirigenti a Roma, senatori ed equites. Egli introdusse degli elementi di distinzione anche per i ceti dirigenti dei municipi e si occupò allo stesso tempo di regolare i privilegi, lo statuto e l’articolazione di altri gruppi della società: di coloro che godevano della cittadinanza romana rispetto ai provinciali liberi, dei liberti rispetto agli schiavi. Il primo imperatore aveva previsto anche dei meccanismi di promozione sociale. La schiavitù era divenuta un fenomeno caratteristico della società e dell’economia a partire dalla tarda Repubblica. Grandi quantità di schiavi erano impiegate nell’agricoltura dai proprietari di vaste tenute, anche se il fenomeno in età imperiale si andò riducendo in favore dell’impiego di coloni liberi, ma vi era anche una notevole presenza di schiavi domestici. Una categoria particolarmente importante è rappresentata dagli schiavi imperiali, la familia Caesari, impiegati nella gestazione finanziaria e amministrativa del patrimonio imperiale. Gli schiavi a capo di dipartimenti finanziari potevano raggiungere livelli di ricchezza e potere personale anche superiori a quelli di esponenti Alessandro CR 77 della nobiltà senatoria. Non bisogna però confondere la ricchezza con lo status giuridico. Nella concezione antica i due aspetti erano indipendenti: ricchezza e potere non davano automaticamente accesso a un ceto superiore, anche se costituivano il presupposto per aspirare al miglioramento della propria condizione. Lo schiavo che riusciva ad acquistare la libertà con il patrimonio personale che il padrone gli lasciava acquisire nell’esercizio della sua attività (peculium) oppure grazie a disposizioni testamentarie, rimaneva legato al proprio ex padrone da un rapporto di clientela e spesso anche di prestazioni di lavoro, inoltre aveva delle limitazioni per quanto riguardava la vita pubblica e l’accesso alle magistrature sia a Roma che nei municipi. I liberti rappresentarono nondimeno, soprattutto nel I secolo d.C., il ceto economicamente più attivo in vari settori dell’economia: nel commercio, nell’artigianato, nei servizi. Potevano raggiungere forme di promozione sociale ricoprendo cariche all’interno delle associazioni professionali e dei collegi costituiti per il culto imperiale nei municipi. Nella casa imperiale lo spirito di iniziativa dei liberti si espresse ai massimi livelli, dato che le possibilità di avanzamento a corte, nella gestione pubblica / privata del governo erano enormi. Nella riorganizzazione degli uffici che ricadevano sotto la responsabilità del princeps, voluta da Claudio, i suoi quattro liberti Callisto, Pallante, Polibio, Narcisso ottennero addirittura la direzione dei nuovi servizi amministrativi, provocando lo sconcerto di quanti ritenevano che le cariche dell’amministrazione imperiale dovessero essere riservate ai due ceti dirigenti. Un altro gruppo molto rilevante all’interno della società romana era costituito dai provinciali liberi, una categoria molto articolata, che comprendevano gli abitanti delle poleis greche così come quelli dei villaggi dei Britanni o i nomadi del deserto. L’imperatore poteva intervenire nelle questioni interne relative allo status e ai privilegi dei diversi gruppi cittadini e vegliare sulla tutela del corpo civico della polis. Il princeps, inoltre, poteva promuovere i ceti dirigenti cittadini o intere città concedendo la cittadinanza romana a singoli individui per meriti particolari, a città o a categorie di persone, per esempio a coloro che avessero prestato servizio militare nelle unità ausiliarie dell’esercito o nella flotta. In questo modo alcuni gruppi venivano a godere di uno status giuridico privilegiato. I cittadini romani godevano infatti di particolari garanzie personali e dell’immunità da tasse e obblighi che gravavano sui provinciali, anche se tali privilegi materiali vennero via via diminuendo. Una volta ottenuta la cittadinanza, anche per i provinciali il passo successivo di promozione sociale era l’accesso ai due ceti dirigenti, l’ordo senatorius e il ceto equestre. L’esercito, accanto al denaro, fu uno dei fattori più importanti di promozione sociale nel corso dell’età imperiale. Nerone (54-68 d.C.) Il principato di Nerone fu impostato su premesse del tutto diverse da quelle augustee: il consolidamento dei poteri del princeps e l’istituzionalizzazione della sua figura avevano mostrato la debolezza dei residui della tradizione repubblicana nel governo dello Stato. Caligola inoltre aveva reso manifesti gli elementi di arbitrio e autocrazia insiti nel potere imperiale. In un primo tempo Nerone assecondò l’autorevole influenza che esercitavano su di lui Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro cercando una forma di collaborazione con il senato, ma se ne distaccò progressivamente per inclinare verso una idea teocratica e assoluta del potere imperiale. La vena artistica e gli interessi culturali che lo portavano ad essere un grande ammiratore della Grecia, dell’Oriente e dell’Egitto, gli fornirono gli spunti che, insieme a elementi già presenti nella Alessandro CR 80 era passato dalla parte dei Romani e aveva ricevuto la cittadinanza dall’imperatore. All’inizio del suo regno fu stroncata anche la rivolta di un capo batavo, Giulio Civile, che, nel 70 d.C., aveva dato vita ad un impero gallico lungo la valle del Reno, da Magonza fino al mare. Negli anni del suo impero Vespasiano ristabilì definitivamente l’ordine nelle zone di confine lasciate sguarnite dalle truppe che avevano partecipato alle guerre civili, così sul Danubio e in Britannia. In quest’ultima provincia riprese una politica di estensione dei confini sia nella zona orientale che settentrionale, opera che fu portata a termine da Giulio Agricola sotto il regno di Domiziano. Anche in Germania annesse l’area dei cosiddetti agri decumates, lungo il corso superiore dei fiumi Reno e Danubio, che servirono poi a Domiziano come base per la costituzione della fortificazione del limes germanico. In Oriente abbandonò definitivamente la politica dei regni clienti, aggregandone i territori alle province esistenti o creando delle nuove province. Tito (79-81 d.C.) Per la successione, Vespasiano seguì il sistema avviato da Augusto: Tito, oltre a ricoprire insieme al padre alcune magistrature, tra cui il consolato e la censura, era stato eccezionalmente anche prefetto del pretorio, e già dal 71 d.C. aveva ricevuto l’imperium proconsolare e la potestà tribunizia, ma anche i titoli di Augusto e di pater patriae. Il breve regno di Tito, chiamato dagli antichi «amore e delizia del genere umano», fu funestato da gravi calamità naturali, tra cui la rovinosa eruzione del Vesuvio, che provocò la distruzione di Pompei e di Ercolano. Domiziano (81-96 d.C.) Il regno di Domiziano, relativamente lungo, è contraddistinto da uno stile di governo autocratico, inviso al senato, e la sua azione politica fu efficace e benefica per l’Impero. Egli si preoccupò infatti dell’amministrazione delle province, di reprimere gli abusi dei governatori e di promuovere i compiti burocratici del ceto equestre, assegnando loro alcuni degli uffici che Claudio aveva sottoposto a dei liberti, come l’ab epistulis e l’a patrimonio. Dopo una lunga campagna combattuta nell’83 d.C. in Germania, sul medio Reno, contro i Chiatti, il territorio conquistato fu controllato attraverso l’impianto di accampamenti fortificati, collegati tra loro da una rete di strade e con i forti presidiati dai soldati ausiliari sul limes. In questo periodo infatti su segnata la linea esterna di confine oltre il Reno, lungo la catena dell’Alto Tauno, tra il fiume Lahn e il fiume Meno. Si inaugurò così un sistema di difesa dei confini, che, a partire da Adriano, fu adattato e impiegato in tutto l’Impero. La parola limes passò infatti ad assumere il significato di frontiera artificiale. Nell’85 d.C. si andò profilando il problema della Dacia, la regione transdanubiana, corrispondente all’attuale Romania, nella quale il re Decebalo era riuscito a unificare le varie tribù e a guidarle in varie incursioni contro il territorio romano. Una prima campagna non ebbe successo. La seconda, guidata da Domiziano in persona, non poté portare a risultati definitivi a causa dalla rivolta di L. Antonio Saturnino, governatore della Germania Superiore, proclamato imperator dalle sue legioni, sollevazione che costrinse Domiziano a stipulare una pace provvisoria. Decebalo non dovette cedere alcuna parte del suo territorio ma semplicemente concludere un foedus (trattato), in cui accettava di dipendere dall’Impero romano, ricevendo in cambio una corresponsione in denaro. Le fonti, ostili all’imperatore, ci parlano di una pace “comperata”, un’espressione che riflette Alessandro CR 81 probabilmente il senso di insicurezza e precarietà dell’accordo per i Romani: si trattava infatti di una sistemazione provvisoria che non poneva termine alle ambizioni di Decebalo. La rivolta di Saturnino fu domata dal legato della Germania Inferiore, ma Domiziano, prima di procedere contro gli Iazigi che minacciavano la Pannonia, si recò in Germania per punire severamente i rivoltosi, usando ogni mezzo per identificare i colpevoli. La rivolta di Saturnino ebbe pesanti ripercussioni sulla politica di Domiziano, che anche nel periodo successivo, continuando a sentirsi minacciato, inaugurò un periodo di persecuzione ed eliminazione di persone sospettate di tramare contro di lui o semplicemente in posizione tale da costituire un rischio potenziale. Lo stile autocratico costò caro a Domiziano, che si era autoproclamato censore a vita e si faceva chiamare «signore e dio». Domiziano nel 96 d.C. cadde vittima di una congiura. Il senato, dopo la sua morte, giunse a proclamarne la damnatio memoriae, cioè a decretare che fossero abbattute tutte le sue statue, cancellato il suo nome dalle iscrizioni e distrutto ogni suo ricordo. Il sorgere del cristianesimo Il cristianesimo, che nasce dall’ebraismo, viene formandosi come religione strutturata nel corso del I e II secolo, scaturita dalla predicazione del suo fondatore, Gesù Cristo, originario di Nazareth, in Galilea, al tempo di Augusto e morto in croce sotto Tiberio (4 a.C. – 29 d.C. circa), riconosciuto dai cristiani professanti come il figlio del Dio creatore, venuto in terra a portare un messaggio universale di salvezza. Le prime comunità cristiane sorsero, infatti, in seguito alla predicazione di Gesù, alla diffusione del suo messaggio e dell’annuncio della sua resurrezione dai morti. Il cristianesimo primitivo iniziò come un movimento all’interno del giudaismo, in un periodo in cui gli Ebrei già da tempo si trovavano sotto la dominazione straniera (erano entrati sotto il protettorato di Roma dal 63 a.C). Tra i diversi gruppi religiosi nei quali il giudaismo era articolato tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. si distinguevano gli aristocratici e conservatori (i sadducei) e i più popolari e liberali (i farisei). A queste “sette” venne poi ad aggiungersi la singolare comunità degli esseni, un gruppo che conduceva un’esistenza rigorosa, vivendo isolato dal resto della società ebraica; si deve a questa setta la produzione di quei testi sacri di cui ci resta testimonianza nei famosi manoscritti noti come «rotoli del mar Morto», scoperti a Qumrân e nel deserto di Giuda verso la metà del 1900. Le condizioni sociali e politiche dell’epoca non potevano riservare un grande futuro alle prospettive religiose dei sadducei né alle aspirazioni politiche degli zeloti, un “partito” di aggressivi rivoluzionari. che cercavano l’indipendenza da Roma, i cui tentativi di autonomia e di realizzazione di sogni apocalittici non fecero altro che accelerare l’annientamento della Giudea in occasione delle due grandi rivolte ebraiche contro i Romani degli anni 66-70 d.C. con la caduta del Tempio di Gerusalemme (un’appendice tragica fu l’episodio del suicidio collettivo degli zeloti di Masada, nel 73/4 d.C.) e del 132-135 d.C., quando fu rasa al suolo Gerusalemme stessa. Per la maggior parte degli Ebrei si trattava dunque di scegliere tra i farisei e il cristianesimo. Mentre i primi si dedicavano alla meticolosa osservanza della Legge di Mosè, il secondo proponeva la religione che aveva il suo fondamento nella fede in Cristo come valida per tutta l’umanità. Il piccolo gruppo dei testimoni e seguaci degli insegnamenti di Gesù si dedicò presto alla predicazione della sua parola e all’annuncio della sua morte e resurrezione tra le comunità ebraiche in Palestina e tra quelle presenti nelle grandi città dell’Impero: ad Antiochia, Efeso, Alessandria, Cartagine, Roma e nelle regioni orientali, dove il dominio romano cedeva a quello partico. Alessandro CR 82 Nel I secolo d.C. la figura che si impone sulle altre è quella dell’apostolo Paolo di Tarso. Saulo (questo il suo nome originario) era stato uno zelante fariseo molto impegnato nella persecuzione della primitiva ecclesìa (= “comunità” dei fedeli). Paolo si convertì repentinamente alla fede cristiana proprio mentre stava intraprendendo una di queste missioni di persecuzione, divenendo quindi la figura-simbolo della necessità di diffondere il Vangelo tra i non Ebrei, i «gentili». Le comunità cristiane si organizzarono in un primo tempo in forme diverse nelle singole città, ma abbiamo poche notizie sull’assetto primitivo del culto. Dall’inizio del II secolo prevalse la struttura di comunità guidate da un singolo responsabile detto episcopus. L’autorità romana imperiale aveva affrontato la questione giudaica senza distinguere tra i vari movimenti, considerandola un problema di “nazionalità” piuttosto che di religione. In diverse occasioni le comunità ebraiche furono avvertite come elemento estraneo. Sotto Tiberio gli Ebrei furono espulsi da Roma insieme ai seguaci dei culti egizi, perché la diffusione dei culti stranieri veniva vista in contrasto con il mos maiorum. Si è detto sopra come Caligola, attraverso l’affermazione del culto dell’imperatore vivente, avesse provocato una crisi gravissima nei rapporti con i Giudei e tra questi e la popolazione delle città greche. Claudio ristabilì i privilegi e la tolleranza inaugurata da Augusto, ma anch’egli nel 49 d.C. espulse gli Ebrei da Roma. In quell’occasione, secondo quanto afferma Svetonio, la causa furono dei disordini, fomentati da un certo Chrestus. Si pensa dunque che si tratti del primo provvedimento in cui gli Ebrei e i cristiani furono per la prima volta accomunati, anzi in cui gli Ebrei vennero colpiti a causa del proselitismo cristiano. A partire da Nerone diviene evidente il contrasto tra l’autorità imperiale e la nuova religione cristiana. Quest’ultima veniva considerata come sovversiva e pericolosa, in quanto non poteva integrarsi in nessun modo con la religione tradizionale e con il culto imperiale. Gli imperatori temevano forse anche l’aspetto messianico e l’attesa del regno di Dio capace di minacciare i fondamenti della legittimità del loro potere. Anche l’opinione pubblica, inoltre, riteneva che i seguaci della nuova setta fossero dediti a pratiche mostruose e riprovevoli. Nerone approfittò di questo clima di sospetto per incolpare i cristiani del grande incendio di Roma del 64 d.C. I membri della comunità vennero accusati di aver appiccato il fuoco e si iniziò contro di loro una cruenta persecuzione in cui trovarono la morte gli apostoli Pietro e Paolo. Gli ultimi anni di Nerone videro anche la rivolta degli Ebrei in Palestina, sobillata dagli zeloti e da una vasta attesa messianica, ma determinata anche dall’atteggiamento intransigente del governatore romano. Dopo che Vespasiano e Tito ebbero stroncato la rivolta, distrutto il Tempio di Gerusalemme e annientato gli ultimi focolai di resistenza, non furono poste limitazioni al culto che continuò sia in Palestina che nella Diaspora. Ebrei e cristiani subirono invece l’ostilità di Domiziano, che per attuare una politica di legittimazione religiosa volle promuovere la figura del principe come rappresentante di Giove sulla terra e legarla ad un’idea di elezione divina. Egli forse utilizzò a fini politici l’accusa di ateismo, per fronteggiare a Roma l’opposizione che serpeggiava anche tra i membri della corte, oltre che tra i senatori, già colpiti da numerose condanne di tradimento e lesa maestà. Flavio Clemente, cugino dell’imperatore e marito di Domizia, a sua volta nipote dell’imperatore, console ordinario nel 95 d.C., venne sospettato di congiurare contro il principe e accusato insieme alla moglie ed altre persone di praticare dei costumi giudaici e dunque di atheotes, cioè di ateismo, forse in una azione complessiva di persecuzione contro i cristiani. Secondo alcuni studiosi Domiziano si sarebbe accanito contro i circoli vicini alla corte che manifestavano interesse per i nuovi fermenti giudaico-cristiani proprio per riacquistare il favore della parte più tradizionalista del senato, di cui si era alienato ogni simpatia con il clima di terrore Alessandro CR 85 governatori provinciali, incaricando il giurista Salvio Giuliano di stilare la pubblicazione definitiva dell’editto del pretore, riorganizzò il gruppo dei propri consiglieri, introducendovi sia dei giuristi, sia i due prefetti del pretorio e assimilandolo a un organo di governo. Adriano si adoperò per una efficiente amministrazione della giustizia: a tale scopo l’Italia fu divisa in quattro distretti giudiziari assegnati a senatori di rango consolare, alleggerendo il lavoro dei tribunali di Roma. In questo modo, però, intaccò lo stato privilegiato dell’Italia rispetto alle province e lese la prerogativa giudiziaria del senato, tanto che il suo successore abolì questo provvedimento, poi reintrodotto da Marco Aurelio. Adriano, inoltre, avvertì l’importanza del ceto equestre per l’amministrazione finanziaria e ne riorganizzò la carriera, attraverso tappe di promozione prefissate. Introdusse una distinzione tra carriera civile e militare, una scala di rango definita sulla base del compenso e, allo stesso tempo, estese il campo d’azione dei cavalieri con l’impiego di procuratori equestri (piuttosto che schiavi o liberti imperiali). I nuovi funzionari furono impegnati in incarichi relativi all’amministrazione del patrimonio imperiale, dalle miniere alle proprietà fondiarie, all’amministrazione fiscale, agli uffici dell’apparato burocratico centrale. Come successore Adriano scelse, solo negli ultimi anni della sua vita, il console del 136 d.C., Lucio Elio Cesare, che adottò. Morto costui prematuramente, la sua scelta si indirizzò verso un senatore della Gallia Narbonense, Arrio Antonino, il quale adottò a sua volta Lucio Vero – il figlio di Lucio Elio – insieme a un nipote della propria moglie, il futuro imperatore Marco Aurelio. La complessità di questa procedura, in cui il caso gioca un ruolo non secondario, è anche indizio della precarietà di un sistema che non era in grado di resistere a lungo alle sue tensioni interne. Antonino Pio (138-161 d.C.) A differenza di Adriano, Antonino Pio rinunciò ai grandi viaggi attraverso l’Impero. Durante il suo regno non furono recate minacce alla sicurezza dell’Impero. Solo in Mauretania ci fu una ribellione. Per sua volontà il vallo di Adriano in Britannia fu avanzato nella Scozia meridionale. Lo statuto della città Nell’età di Antonio Pio l’Impero raggiunse l’apogeo del proprio sviluppo e del consenso presso le élite delle province e delle città. La città, con le sue strutture e l’agio che offriva, rappresentava nel mondo antico il segno distintivo della civiltà rispetto alla rozzezza e alla barbarie. Nell’Impero romano vi era dunque una grande varietà di tipologie cittadine e soprattutto una grande diversità di statuti. Civitates in Occidente e poleis in Oriente erano organizzate secondo tre tipologie fondamentali, a seconda del loro grado di integrazione nello Stato romano: 1. Le città peregrine, cioè quelle preesistenti alla conquista e alla loro riorganizzazione all’interno dell’Impero. In questo gruppo si distinguono in base al loro status giuridico nei confronti di Roma: a. le città stipendiarie; b. le città libere; c. le città federate. 2. I municipi. Un municipio è una città cui Roma ha concesso di elevare il suo status precedente di città peregrina e ai cui abitanti è accordato o il diritto latino o quello romano. 3. Le colonie. Alessandro CR 86 Le città costituivano inoltre il punto di riferimento delle attività economiche e i nuclei della vita culturale. Marco Aurelio (161-180 d.C.) Marco Aurelio succedette ad Antonio secondo quanto era stato preordinato. Non sembra invece che fosse stato previsto che, appena salito al trono, dividesse il potere con il fratello adottivo Lucio Vero. Si tratta di una decisione importante, perché è il primo caso di “doppio Principato” nella storia imperiale romana, vale a dire della piena condivisione collegiale del potere da parte di due imperatori, posti su di un piano di perfetta uguaglianza. All’inizio del regno di Marco si riaprì la questione orientale con il potente vicino partico. La guerra, condotta da Vero, si concluse vittoriosamente nel 166 d.C., ma fu causa indiretta della crisi che travagliò l’Impero negli anni successivi. Infatti l’esercito tornato dall’Oriente portò con sé la peste. Inoltre lo sguarnimento della frontiera settentrionale creò le condizione perché i barbari del Nord, soprattutto Marcomanni e Qaudi, si facessero pericolosi. Superato il Danubio, essi invasero la Pannonia, la Rezia e il Norico e giunsero persino a minacciare l’Italia, arrivando ad assediare Aquileia. Marco Aurelio e Lucio Vero furono allora prevalentemente impegnati nella difesa della frontiera danubiana. Come risposta a questa situazione d’emergenza si creò la praetentura Italiae et Alpium (la “difesa avanzata dell’Italia e delle Alpi”). Un sintomo del malessere che l’Impero stava conoscendo è dato anche dalla rivolta del governatore di Siria Avidio Cassio, che nel 175 d.C. si autoproclamò imperatore. Il fatto che fosse ucciso dalle sue stesse truppe prevenì il conflitto armato. Durante il regno di Marco, nel 177 d.C., a Lione avvenne un episodio di cruenta persecuzione contro i cristiani. In occasione di giochi gladiatori, che prevedevano la lotta di condannati con belve feroci, i magistrati locali, sotto la pressione popolare, inflissero questo supplizio ad alcuni cristiani (i «martiri di Lione»). Commodo (180-192 d.C.) Commodo divenne imperatore a soli 19 anni e si dimostrò la perfetta antitesi del padre e un segno di come il potere imperiale fosse esposto al rischio di ogni sorta di degenerazione. Il suo primo atto fu quello di concludere definitivamente la pace con le popolazioni che premevano sul Danubio, rinunciando al progetto del padre di controllare anche regioni a nord del fiume. Le sue inclinazioni dispotiche determinarono la rottura con il senato di cui egli perseguitò numerosi membri. Dal 182 al 185 d.C. il governo fu di fatto in mano prefetto del pretorio Tigidio Perenne. Quando questi fu ucciso, nel 185 d.C., il suo ruolo fu preso da un liberto, Cleandro. Cleandro rappresentava il nuovo potere del Palazzo rispetto allo Stato e conseguentemente approfittò del disinteresse di Commodo per le istituzioni e dell’arbitrio con cui poteva esercitare il potere per vendere i titoli di console e altre magistrature, per promuovere persino dei liberti al senato e per rovesciare le decisioni dei tribunali in cambio di denaro. La necessità di rimpinguare le casse dell’imperatore, prodigo di lussi e di giochi offerti alla plebe di Roma, fu anche alla base di processi di tradimento, con conseguente confisca di beni di illustri senatori e cavalieri. Furono sospese inoltre le somme per i sussidi delle istituzioni alimentari e per i donativi ai soldati. Una grave carestia, che colpì Roma nel 190 d.C., fece cadere il potere di Cleandro, offerto come capo espiatorio alle ire della plebe. Alessandro CR 87 Tra il 190 e la sua morte, avvenuta nel 192, l’imperatore lasciò il governo in mano ancora a un cortigiano, Eclecto, e al prefetto del pretorio Leto, che completarono il dissesto delle finanze e ordirono la congiura che mise fine al regime nel 192 d.C. L’economia romana in età imperiale Uno dei fattori che caratterizzano in modo stabile la storia economica dell’Impero romano è rappresentato dall’eccezionale fabbisogno alimentare di Roma. Il milione di abitanti che vi era concentrato rappresenta un dato numero smisuratamente alto: una città media, come Pompei, difficilmente superava i 25.000. anche se non disponiamo di cifre sicure, è verosimile che quasi un sesto dell’intera popolazione della penisola italiana si trovasse a Roma. La gestazione del complesso dei servizi finalizzati al vettovagliamento di Roma era affidata a una magistratura apposita, la prefettura dell’annona, riservata a un personaggio di rango equestre, che era una delle cariche più importanti dell’amministrazione imperiale. «Annona» significa propriamente il rifornimento e la conservazione di viveri essenziali necessari alla sussistenza della città, soprattutto di grano ovvero, in un secondo tempo, di pane, olio di oliva, vino e carne di maiale. Il servizio annonario coinvolgeva nelle sue disposizioni varie province e comportava un regolare afflusso di merci dal mare (es. dall’Egitto e dall’Africa settentrionale). Il fabbisogno di vino per Roma in età imperiale è stato oggetto di varie stime e tentativi di calcolo. Secondo uno dei più attendibili, nel I secolo d.C. esso sarebbe ammontato a circa un milione e mezzo di ettolitri per anno. Per il fabbisogno di grano di Roma stime accreditate e credibili ipotizzano, per una popolazione valutabile attorno al milione di abitanti, un consumo di cereali l’anno pro capite di 200 kg. È, dunque, ben comprensibile come le linee essenziali del commercio siano determinate dalla collocazione dei mercati e dei centri di produzione in grado di rifornire Roma. Lo stesso apparato statale rappresentò un incentivo importante per la produzione e la circolazione di beni. In particolare, l’esercito permanente assorbiva gran parte del bilancio dell’Impero e ne condizionava l’economia: con le sue esigenze e la capacità di spesa dei soldati attirava grandi quantità di derrate e di manufatti dalle coste del Mediterraneo, dove si trovavano i maggiori centri di produzione, verso le frontiere. A partire dalla seconda metà del I secolo a.C. la forte presenza delle province sul mercato italico appare fuori discussione. Il problema che allora si pone è quello di stabilire se, e in quale misura, tale presenza può aver determinato una crisi dell’agricoltura nella penisola: le risposte in proposito sono diverse: per alcuni, più scettici, non ci fu nessuna crisi o addirittura la produzione vinaria conobbe un vero e proprio boom. Il grado di sviluppo conosciuto dall’economia romana all’inizio dell’età imperiale appare di tali proporzioni da richiedere una categorizzazione a sé stante. Se essa non conosce, per carenze di natura tecnica di vario tipo (assenza delle macchine, di adeguati strumenti fiscali, ecc.), un livello propriamente capitalistico, va quanto meno considerata come una «peculiare economia preindustriale». Alessandro CR 90 Anche Severo Alessandro non era che un ragazzino al momento in cui assunse la porpora, il simbolo del potere imperiale, nel 222 d.C. Il suo regno, tuttavia, trasse profitto dal fatto che l’azione di governo fu in mano, almeno per i primi anni, al grande giurista Ulpiano, che deteneva la carica di prefetto del pretorio Durante il regno di Severo Alessandro si verificò un evento destinato ad avere conseguenze importanti nello sviluppo della politica estera romana. Nel 224 d.C., in Persia, alla dinastia partica degli Arsacidi era succeduta quella dei Sasanidi che pretendeva di discendere da quella gloriosa degli Achemenidi, cioè dai sovrani contro i quali i Greci avevano combattuto a Maratona e a Salamina nel V secolo a.C. Animati da uno spirito fortemente nazionalistico, i Persiani scatenarono un’offensiva contro la Mesopotamia romana arrivando a minacciare anche la Siria. L’intervento di Severo in Oriente, anche se non risolutivo, riuscì a bloccare l’offensiva nemica. L’imperatore era appena rientrato a Roma che fu chiamato in Gallia, minacciata a sua volta da incursioni di popolazioni barbariche. Nel 235 d.C., mentre era impegnato a fronteggiare questa nuova situazione di crisi, fu assassinato a Magonza insieme alla madre nel corso di una nuova congiura dei militari, che lo accusavano di cercar di trattare coi barbari anziché combatterli. Finiva così in modo brusco e violento la storia della dinastia dei Severi. L’anarchia militare Al posto di Alessandro Severo l’esercito proclamò imperatore un ufficiale di origine tracia, Massimino. Con il suo regno incomincia l’epoca generalmente considerata di massima crisi; questo periodo, nel quale si succedono circa venti imperatori legittimi e illegittimi, viene comunemente definito come la fase dell’«anarchia militare» (235-284 d.C.). Massimino ottenne comunque dei successi nelle sue campagne contro i barbari, in particolare contro gli Alamanni. La durezza del suo regime, che impose una fortissima pressione fiscale per far fronte alla grave situazione militare in cui si trovava l’Impero, spiega la ritrovata forza di coesione del senato, che giunse a dichiararlo nemico dello Stato (hostis publicus). Il senato aderì subito alla proclamazione dell’anziano Gordiano, proconsole in Africa, che si associò il figlio. Quando la rivolta fu repressa dai soldati fedeli a Massimino e i due Gordiani trovarono la morte, il senato affidò il governo dello Stato a venti consolari al cui interno furono nominati Augusti Pupieno e Balbino. Nel 238 d.C. Massimino mosse alla volta dell’Italia ma cadde assassinato dai suoi stessi soldati ad Aquileia. A Roma Pupieno e Balbino furono uccisi dai pretoriani, che proclamarono Augusto il giovanissimo nipote di Gordiano I, Gordiano III, in precedenza nominato Cesare. Le sorti dell’Impero furono rette fino al 243 d.C., per conto di Gordiano III, dal valoroso prefetto del pretorio Timisiteo, che era anche suo suocero. Alla morte di Gordiano III nel 244 d.C. nel corso di una campagna contro la Persia, fu acclamato imperatore Filippo, detto l’Arabo per le sue origini, che aveva sostituito Timisiteo nella carica di prefetto del pretorio. Filippo si affrettò a stipulare una pace con il re dei Persiani Sapore, che aveva ripreso con forza l’iniziativa sul fronte orientale. Nel 248 d.C. celebrò con grande enfasi il millenario di Roma. Malgrado alcuni successi conseguiti nella difesa delle frontiere, anche il regno di Filippo terminò in modo cruento. L’esercito acclamò imperatore al suo posto il suo prefetto urbano, il senatore Messio Decio, che era stato da lui inviato a combattere lungo il Danubio. Alessandro CR 91 Il breve regno di Decio (249-251 d.C.) è caratterizzato da un’evidente volontà di rafforzare l’osservanza dei culti tradizionali, tra cui quello ufficiale dell’imperatore, inteso come strumento di coesione interna. Questo significava di fatto per i cristiani una forte discriminazione. Chi infatti non accettava di sacrificare agli dèi e al Genio dell’imperatore veniva condannato a morte. Per questo Decio, responsabile di una violenta persecuzione contro i cristiani scatenata nel 250/251, ci è stato presentato nelle fonti cristiane come una sorta di mostro. Decio morì nei Balcani nel 251 d.C., combattendo contro i Goti. La sua morte avvenne mentre l’Impero si trovava minacciato su più fronti e sembrava messa in discussione la sua stessa sopravvivenza. Valeriano (253-260 d.C.), un anziano senatore, arrivò al trono imperiale dopo una serie di effimeri imperatori militari, imposti e subito dopo deposti dagli eserciti stessi nel corso degli anni 251-253 d.C. Data la gravità e l’incertezza della situazione, Valeriano ebbe l’accortezza di associare immediatamente al potere il figlio Gallieno e di decentrare il governo dell’Impero: infatti, egli affidò a Gallieno il compito di difendere le province occidentali. La sua campagna contro i Persiani, ormai padroni di Antiochia, finì tragicamente; dopo qualche successo iniziale, Valeriano fu sconfitto ad Edessa e fatto prigioniero dal re Sapore. Grande impressione suscitò il fatto che egli morisse in cattività, nel 260 d.C. Gallieno, rimasto da solo a reggere l’Impero tra il 260 e il 268 d.C., riuscì a bloccare l’avanzata degli Alamanni e dei Goti, anche se fu costretto ad arretrare tutta la linea di frontiera al Danubio, con la perdita di fatto della Dacia. Di fronte alle ribellioni degli usurpatori e alle tendenze delle province a governarsi da sole, Gallieno dovette tollerare che all’interno dell’Impero si formassero due regni separatisti: quello delle Gallie, retto da Postumo ed esteso anche alla Spagna e alla Britannia, e quello di Palmira, comprendente la Siria, la Palestina e la Mesopotamia, con a capo Odenato. Gallieno deve essere ricordato per una serie di riforme destinate ad avere sviluppo in seguito. Per porre rimedio alle continue ribellioni dei comandanti militari di estrazione senatoria, sottrasse il comando delle legioni ai senatori e lo affidò ai cavalieri contro quella che era stata la prassi seguita sino ad allora. Notevole fu l’innovazione da lui introdotta nella concezione strategica di difesa dei confini: invece di dislocare tutte le truppe lungo la frontiera, privilegiò la concentrazione di alcuni contingenti all’interno del territorio imperiale con la funzione di unità mobili di difesa. Gli imperatori illirici L’uccisione di Gallieno, avvenuta nel 268 d.C. in una congiura ordita dai suoi ufficiali, portò al potere il suo comandante della cavalleria. Claudio II (268-270 d.C.) è il primo di una serie di imperatori detti «illirici», originari di quella regione. Claudio conseguì due importanti successi, uno contro gli Alamanni, che avevano invaso la pianura padana, e un altro contro i Goti, che erano giunti ad occupare Atene. Morto Claudio II di peste nel 270 d.C., la sua opera fu completata da Aureliano (270-275 d.C.) che riuscì, grazie a uno sforzo militare senza precedenti, ad avere definitivamente ragione delle popolazioni barbariche che erano penetrate di nuovo nella pianura padana. Aureliano riuscì a sottomettere i due Stati autonomi che si erano costituiti negli anni precedenti: nel 272 d.C. si impadronì in Siria della città di Palmira dopo aver sconfitto le forze condotte dall’energica regina Zenobia che, alla morte del marito Odenato, lo aveva sostituito alla guida del regno. La città fu poi punita con la distruzione per aver osato ribellarsi. Nel 274 d.C., infine, fu sconfitto anche l’ultimo sovrano del regno separatista delle Gallie, Tetrico. L’unità dell’Impero risultava così ricostituita. Alessandro CR 92 Aureliano ebbe il merito di restituire un certo prestigio alla figura del sovrano: promosse una decisa riorganizzazione dello Stato in tutti i settori essenziali della vita economica e diede impulso al processo di divinizzazione del monarca. Egli introdusse una nuova moneta, chiamata ancora «antoniniano», ma che doveva sostituire la precedente, ormai completamente svilita. In campo religioso l’introduzione del culto ufficiale di Sol invictus, identificato con Mitra. Ucciso Aureliano nel 275 d.C., alla vigilia di una nuova campagna contro i Persiani, ci fu il breve regno dell’imperatore senatorio Tacito (275- 276 d.C.). Durante il successivo governo di Probo (276-282 d.C.), si ebbero vari pronunciamenti militari e una rinnovata pressione barbarica sulla frontiera renana e danubiana. Probo riuscì ad ottenere significativi successi su questi fronti, ma fu ucciso mentre preparava una campagna contro la Persia. Il suo successore, il prefetto del pretorio Caro, condusse a felice compimento tale campagna conquistando la capitale nemica, Ctesifonte, nel 283 d.C. Nonostante questo successo anch’egli perì ucciso nel corso di una congiura militare. Stessa sorte toccò ai figli Numeriano e Carino. Alla fine solo detentore del potere si trovò ad essere, nel 285 d.C., l’illirico Diocleziano, che era stato proclamato imperatore dall’esercito l’anno prima: il suo regno durò circa un ventennio, durante il quale egli riuscì a riorganizzare lo Stato romano e a creare le condizioni per la sua sopravvivenza. Diocleziano e il Dominato L’avvento al trono di Diocleziano segna una delle cesure più nette in tutta la storia dell’Impero romano. Con il suo regno (284-305 d.C.) si chiude definitivamente l’età buia che va sotto il nome di crisi del III secolo. Si tratta di un’età di riforme e di novità, a cominciare da quella che dava una diversa organizzazione al potere imperiale centrale; a partire da questo momento si fa tradizionalmente iniziare, con riferimento alle forme di governo, la fase del cosiddetto «Dominato», rispetto a quella precedente detta «Principato». Il regno di Diocleziano è contraddistinto da una forte volontà restauratrice dello Stato a tutti i livelli, politico-militare, amministrativo ed economico. Probabilmente per garantire una migliore difesa alle regioni più minacciate, Diocleziano stabilì la propria sede in Oriente, a Nicomedia, la capitale della Bitinia. Del resto l’Oriente appariva in quel momento economicamente più solido dell’Occidente. Si deve peraltro mettere in rilievo come l’ideologia fondamentalmente conservatrice che ispirò le sue riforme ebbe come esito, sul piano pratico, una serie di misure che, nel lungo periodo, riorganizzarono la compagine imperiale su basi diverse rispetto a quelle originarie. Tra le varie riforme è di particolare importanza quella che riguarda il potere imperiale. Diocleziano concepì un sistema in base al quale al vertice dell’Impero c’era un collegio imperiale composto da quattro monarchi, detti tetrarchi, due dei quali (detti Augusti) erano di rango superiore ai secondi (detti Cesari). Tale sistema aveva come fine quello di fronteggiare meglio le varie crisi regionali attraverso una ripartizione territoriale del potere e, nello stesso tempo, di garantire una successione ordinata, senza nuove guerre intestine. Il principio che veniva così introdotto era quello della “cooptazione” al collegio stesso: i due Augusti cooptavano i due Cesari e così era previsto che facessero a loro volta questi ultimi una volta divenuti Augusti. Questa riforma tuttavia non fu attuata dall’oggi al domani, ma fu realizzata attraverso tappe graduali. Nel 285 d.C. Diocleziano nominò Massimiano come Cesare, con il compito di reprimere una rivolta nelle Gallie, e l’anno successivo lo elevò al rango di Augusto. I due Cesari, Costanzo Alessandro CR 95 titolo onorifico, conferito dall’imperatore. Nella Tarda Antichità il rapporto con la plebe urbana di Roma è particolarmente delicato: l’organizzazione di giochi costosi, così come la responsabilità degli approvvigionamenti alimentari, ricade sulle principali famiglie senatorie. La carica chiave è la prefettura urbana, che rimane appannaggio dell’aristocrazia senatoria. Vi sono, ovviamente, rilevanti differenziazioni regionali. La pressione fiscale è certamente un fattore negativo, cui è in parte da ricondursi l’affermarsi del colonato come forma di immobilizzazione della forza-lavoro agricola: la risposta si ha nel patrocinium, il patronato rurale dei grandi proprietari sui lavoratori alle loro dipendenze. La società che si viene così formando non è però immobile, perché possibilità di ascesa sociale sono fornite proprio dalle necessità dello Stato, nell’amministrazione come nell’esercito. La cultura, la scuola – indiscutibilmente una delle componenti più vitali del IV secolo d.C. – sono canali notevoli in questo senso. E non è un caso se da parte imperiale si mostra un grande interesse per le possibilità di reclutamento di valorosi collaboratori offerte da questo settore. Costantino Gli anni che seguirono la morte di Costanzo Cloro e che videro il sostanziale fallimento del sistema tetrarchico, sono assai travagliati. Costantino condusse per alcuni anni una politica prudente, che conosce una svolta nel 310 d.C., quando abbandona ogni legame con i presupposti ideologici della tetrarchia: a partire da questo momento egli mostra di propendere per una religione di tipo solare, monoteistico. Mentre Galerio moriva nel 311 d.C., Costantino ebbe la meglio su Massenzio nel 312 d.C. nella battaglia del ponte Milvio, sul Tevere, alle porte di Roma, e poté impadronirsi di Roma. Questa vittoria fu ottenuta nel segno di Cristo, da un imperatore che dichiarava di aver abbandonato in quella circostanza il paganesimo per il cristianesimo. La conversione di Costantino fu un evento di portata rivoluzionaria perché significò l’inserimento delle strutture della Chiesa in quelle dello stato. All’inizio del 313 d.C. Licinio e Costantino si incontrarono a Milano dove si accordarono sulle questioni fondamentali di politica religiosa. Quest’accordo – noto impropriamente come «editto di Milano» – è di fondamentale importanza per gli sviluppi successivi. I contrasti tra Costantino e Licinio, che ormai avevano il controllo su tutto l’Impero, incominciarono però molto presto: lo scontro finale, che fu forse preceduto da una forma di persecuzione anticristiana da parte di Licinio, si ebbe nel 324 d.C., quando Costantino, con la vittoria di Adrianopoli, divenne il solo imperatore. Già nel 314 d.C., infatti, Costantino convocò ad Arles un sinodo con 33 vescovi, nel tentativo di sanare il contrasto che si era aperto in Africa tra i rigoristi (detti «donatisti» dal nome di un vescovo di Cartagine, Donato) e i moderati a proposito dell’atteggiamento da tenere nei confronti di coloro che avevano abiurato nel corso delle persecuzioni dioclezianee. Costantino fu sempre preoccupato di salvaguardare l’unità interna della Chiesa, come mostra il fine per cui fu convocato il concilio di Nicea del 325 d.C., che egli presiedette personalmente dopo che invano aveva supplicato i due contendenti, Alessandro e Ario, di trovare un accordo. Il problema in questo caso era di natura squisitamente teologica. Ario negava infatti la natura divina di Cristo, cosa che implicava un indebolimento della funzione della Chiesa. Allo scopo di rendere più efficiente l’amministrazione provinciale, le diocesi, in cui l’Impero era stato suddiviso da Diocleziano, furono raggruppate in quattro grandi prefetture, delle Gallie, di Alessandro CR 96 Italia e Africa, dell’Illirico e dell’Oriente, rette ciascuna da un prefetto del pretorio. Le diocesi a loro volta riunivano al loro interno un numero più o meno grande di province. Tra le conseguenze della vittoria di Adrianopoli ci fu la fondazione, da parte di Costantino, di Costantinopoli (o “città di Costantino”, l’odierna Istanbul) quale “nuova Roma” nel 330 d.C. Le motivazioni per questa scelta furono sicuramente molteplici: in primo luogo ci sarà stata l’intenzione da parte dell’imperatore di dar vita a una capitale monda da qualsiasi contaminazione con il paganesimo. Costantinopoli fu dotata nel corso degli anni di tutte le strutture che la dovevano equiparare a Roma. Ebbe anche un suo senato, all’inizio composto da soli 300 membri che divennero ben presto quasi 2.000. L’assemblea costantinopolitana però non conseguì mai il prestigio di quella romana. Tra le riforme attuate da Costantino, una delle più significative riguarda l’esercito. È a lui infatti che si deve la creazione di un consistente esercito mobile, detto comitatus perché “accompagnava” l’imperatore. I soldati che ne facevano parte, i comitatenses, ricevevano una paga più alta rispetto agli altri. Così i soldati collocati direttamente sulla frontiera, il limes, i cosiddetti limitanei, finivano per essere soldati di second’ordine, di scarsa esperienza e mal pagati. Il comando dell’esercito mobile fu affidato a due distinti generali, uno della cavalleria e uno della fanteria. Il problema militare non fu però superato. L’esercito mancava di soldati. Per sopperire alle sue esigenze si ridusse l’altezza richiesta alle reclute, si incrementò la caccia ai disertori, si rafforzò l’ereditarietà della professione militare e, infine, si concessero privilegi ai veterani per attirare dei volontari. piuttosto che tra i contadini. La minaccia barbarica era così grave da non consentire soluzioni definitive. Lo Stato la fronteggiò come poteva: da un lato, combattendo i barbari con l’impiego di tutte le risorse di un apparato militare che Diocleziano e Costantino avevano ristrutturato profondamente; dall’altro, mediante una politica di assorbimento nei quadri dell’organismo imperiale, dalla quale ineluttabilmente derivò una disomogenea – ma nel complesso notevole – “barbarizzazione della società”. La morte di Costantino e la fine della dinastia costantiniana Costantino solo in punto di morte ricevette il battesimo, nel 337 d.C. Dalmazio e Annibaliano, in quanto nipoti del defunto sovrano, potevano rappresentare un’alternativa alla successione, ma furono eliminati. Costantino II, Costante e Costanzo raggiunsero un accordo per il governo congiunto dell’Impero. Esso però si rivelò assai precario. Già nel 340 d.C. Costantino II pagava con la vita l’incursione compiuta nei territori affidati al governo di Costante. Quest’ultimo moriva a sua volta nel 350 d.C. per mano di un usurpatore, Magnenzio, dopo un decennio di rapporti difficili con Costanzo II. Rimasto unico imperatore, Costanzo II fu costretto a cercare un collega cui affidare il governo dell’Occidente: la scelta cadde sull’unico sopravvissuto, in ragione della sua tenera età, alla strage del 337 d.C.: il cugino Giuliano. Giuliano, nominato Cesare nel 355 d.C., riuscì a garantire la sicurezza delle Gallie grazie a un successo ottenuto sugli Alamanni a Strasburgo nel 357 d.C. La sua proclamazione imperiale nel 360 d.C. da parte dell’esercito gallico sembrò ricondurre ineluttabilmente l’Impero verso un nuovo conflitto fratricida. Esso fu prevenuto solo dalla morte repentina di Costanzo nel 361 d.C. Giuliano regnò come imperatore unico per soli due anni, dal 361 al 363 d.C., quando perì nel corso di una campagna contro i Persiani, in pieno territorio nemico. Il suo regno è ricordato soprattutto per un effimero tentativo di reintrodurre la religione pagana, riorganizzata sia nella struttura sia nei presupposti dottrinali. Giuliano aveva elaborato un programma di ampio respiro che aveva i propri Alessandro CR 97 capisaldi in un’amministrazione efficiente e onesta e nella rivitalizzazione del ruolo delle città. Tuttavia questo progetto si scontrò con due difficoltà contingenti. La prima era rappresentata dalla guerra contro i Persiani che era già stata preparata da Costanzo e che ora si trattava di portare a compimento. La seconda scaturiva dalle tensioni determinate dal suo progetto, a lungo coltivato in segreto, di restaurare il paganesimo. Tale progetto, che si tradusse nell’abrogazione dei privilegi fiscali che da Costantino in poi erano stati concessi alla chiesa cristiana, determinò resistenze e attriti e non incontrò un’accoglienza del tutto favorevole neppure presso gli stessi pagani. Giuliano, che era uomo di grande cultura e scrittore valente, è passato alla storia con l’epiteto infamante di Apostata, cioè di “rinnegato” che gli fu affibbiato dai cristiani, che ebbero a temere che potesse tornare il tempo delle persecuzioni. Dalla morte di Giuliano a Teodosio Magno La morte di Giuliano in territorio persiano richiese a un tempo la nomina di un successore e una rapida soluzione del conflitto. Dopo il breve regno di transizione di Gioviano, che stipulò una pace poco onorevole con i Persiani, nel 364 d.C. fu acclamato imperatore un ufficiale di origine pannonica, Valentiniano. Quest’ultimo si associò subito nel potere il fratello Valente, cui affidò il governo dell’Oriente. Alla sua morte, avvenuta per cause naturali nel 375 d.C. quando stava combattendo contro i Quadi, gli successe sul trono il figlio Graziano benché fosse ancora molto giovane: fu proclamato Augusto anche il fratello minore Valentiniano II anche se aveva solo quattro anni. Nel frattempo a Valente, la cui azione di governo fu assai meno positiva di quella del fratello, toccò di affrontare una situazione molto difficile. L’Europa centro-orientale si trovava sconvolta dall’incursione di una popolazione nomade, gli Unni, che avevano abbandonato le loro sedi abituali in Asia e sottoponevano a una pressione molto forte i Goti. Questi ultimi a loro volta premevano sulla frontiera danubiana. Falliti vari tentativi di insediarli pacificamente entro i confini, quando irruppero in Tracia Valente li affrontò in una battaglia campale. La sconfitta da lui patita ad Adrianopoli nel 378 d.C. (lo stesso Valente vi perse la vita) è di estrema gravità e rappresenta uno degli episodi che annunciano la fine dell’Impero romano d’Occidente. La disastrosa sconfitta di Adrianopoli segna una cesura di gravi proporzioni. Alla consapevolezza, ormai generalizzata, del declino delle capacità dell’esercito di fronteggiare la situazione – cui si risponde anche con sorprendenti proposte di riforma – fa da riscontro la sua progressiva barbarizzazione, che provoca reazioni fortemente negative soprattutto negli ambienti più conservatori. Dopo Adrianopoli, la convivenza con i barbari diventa un tema centrale di dibattito, soprattutto in Oriente, in ragione della politica di collaborazione promossa da Teodosio. L’inesperto Graziano, rimasto imperatore da solo con il piccolo Valentiniano II, chiamò un generale spagnolo, Teodosio, a sua volta figlio di un generale, a condividere con lui il governo dell’Impero. Il suo compito era quello di far fronte alla drammatica situazione che si era creata in Oriente. Teodosio, consapevole dell’impossibilità di ricacciare i Goti al di là del Danubio, concluse nel 382 d.C. un accordo con il loro capo Fritigerno. La particolarità di questo trattato, il primo del genere mai stipulato dai Romani, risiede nel fatto che i Goti ricevevano delle terre all’interno dell’Impero come popolazione autonoma: essi erano detti infatti foederati (in quanto vincolati da un foedus, un trattato) e mantenevano i loro capi e le loro leggi, pur essendo tenuti a fornire dei soldati in caso di necessità.