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STORIA ROMANA GERACI - MARCONE, Sintesi del corso di Storia Romana

5° PARTE DEL MANUALE DI STORIA ROMANA GERACI - MARCONE

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 22/11/2018

summerm.3
summerm.3 🇮🇹

4.4

(157)

45 documenti

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Scarica STORIA ROMANA GERACI - MARCONE e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! PARTE QUINTA – Crisi e rinnovamento (III-IV secolo d.C.) CAPITOLO 1 – La crisi del III secolo e le riforme di Diocleziano ■ 1.0 Le fonti I primi due decenni del III secolo sono ben coperti da due storici contemporanei di notevole attendibilità, Cassio Dione e Erodiano. Cassio Dione era originario di Nicea della provincia di Bitinia, era entrato in senato sotto Commodo. Erodiano era un funzionario imperiale membro dell’ordine equestre e scrisse ‘’Storia dell’Impero dalla morte di Marco Aurelio’’. Per il periodo successivo abbiamo l’opera Cesari di Aurelio Vittore, il Breviario di Etropio e quello di Festo, l’Epitome da Caesaribus che arriva sino alla morte di Teodosio. A queste si aggiunge la Storia Agusta: una raccolta di biografie imperiali da Adriano a Caro, dal carattere disomogeneo. Va segnalato anche Publio Erennio Dexippo, con la sua monografia in 3 libri sulle guerre romano barbariche. Per il III secolo incominciano a essere rilevanti le fonti cristiane, con gli autori Tertulliano e Cipriano. Per il regno di Diocleziano e le sue persecuzioni anticristiane disponiamo della ‘’Morte dei Persecutor’’ di Lattanzio. Numerose sono le iscrizioni importanti: il marmo di Thorigny ci ha conservato il testo di un’epigrafe risalente al dicembre del 238 che ci consente di ricostruire alcuni aspetti della società provinciale gallo-romana nella prima metà del III secolo d.C. Importante è anche l’Editto dei prezzi, emanato da Diocleziano nel 301, con cui si comminano sanzioni pesantissime contro coloro che aumentavano i prezzi dei generi di consumo e di alcuni servizi oltre i limiti stabiliti dalla legge. Fondamentali sono i libelli, attestati rilasciati ai cittadini romani che avevano compiuto i prescritti sacrifici, dando così prova della propria lealtà verso le autorità imperiali. ■ 1.1 Una radicale trasformazione dell’Impero Il periodo che va dalla morte di Commodo all’accessione al trono di Diocleziano (192-284) trasformò radicalmente la natura dell’Impero Romano. Gli attacchi, provenienti dall’esterno alle varie frontiere posero una parte consistente della popolazione sotto una grande pressione. L’integrità dell’Impero fu minacciata e rischiò di venir meno. In questo periodo drammatico si può capire come generali vittoriosi potessero aspirare al trono. Cambiò anche il panorama religioso dell’Impero: molti nuovi culti orientali si emanciparono da quelli tradizionali cittadini, che persero attrattiva. In campo fiscale la rapida svalutazione della moneta impoverì i ceti medi, determinando la decadenza economica delle città ed una profonda crisi morale, dovuta alla sfiducia nei valori tradizionali. Il III secolo è anche l’epoca decisiva per il definitivo costituirsi delle strutture primitive della Chiesa cristiana. ■ 1.2 Tendenze assolutistiche È al nuovo ruolo dell’esercito che si deve la trasformazione del potere imperiale verso forme assolutistiche. Cambia anche il rapporto tra l’imperatore e il senato: ormai l’imperatore riconosceva al senato solo la funzione di organismo burocratico soggetto alla sua autorità assoluta, che dipendeva sempre più dall’appoggio dell’esercito come fondamento decisivo del potere la cui stabilità doveva essere ricercata altrove rispetto al passato. Gli imperatori militari di origine illirica, arrivati al potere attraverso una serie di proclamazioni dei loro eserciti, cercarono di far fronte alla gravità della situazione, ma risultarono estranei alla tradizione del regime senatorio. L’adozione del culto solare da parte di molti di questi sovrani si spiega con il fatto che esso era molto popolare nell’esercito e si adattava meglio al rafforzamento del potere imperiale in chiave assolutistica ■ 1.3 Si può parlare di crisi del III secolo? 1 Molti studiosi negano il concetto di crisi usato per indicare le difficoltà conosciute dall’Impero in particolare dal 235 al 284 d.C. Si è valorizzata la varietà delle situazioni regionali conosciute dall’Impero: alcune regioni, come l’Africa settentrionale, hanno conosciuto un innegabile sviluppo economico e una sostanziale prosperità. Anche se non è sufficiente a rovesciare il quadro generale, in quanto l’Impero nel suo complesso conobbe un netto calo demografico e produttivo. ■ 1.4 La crisi del 192-193 Commodo fu ucciso il 31 dicembre 192 d.C., come reazione al suo precipitare nella totale follia. Nell’incertezza del momento la scelta si indirizzò verso un anziano senatore, Elvio Pertinace, che aveva alle spalle una prestigiosa carriera: era stato governatore della Britannia e dell’Africa Proconsolare e si era distinto per la sua capacità in campo militare; ma dopo poco più di tre mesi Pertinace fu ucciso nel marzo 193 nel palazzo imperiale dalla guardia pretoriana. Approfittò della situazione Didio Giuliano, console con lo stesso Pertinace che si presentò come colui che avrebbe punito gli assassini di Commodo. In ogni modo anche il regno di questi fu brevissimo, in quanto assassinato nel giugno dello stesso anno. La parola passò agli eserciti provinciali. ■ 1.5 Settimio Severo Già in aprile, venuti a conoscenza della crisi che si era determinata a Roma, scesero in campo il governatore della Pannonia Settimio Severo, quello di Britannia Clodio Albino e quello di Siria Pescennio Nigro. Severo strinse un’alleanza con Clodio Albino e si diresse a Roma condannando il comportamento dei pretoriani. Severo entrò a Roma i primi di giugno, fece condannare a morte gli assassini di Pertinace e sciolse la guardia pretoriana, sostituita dagli uomini tratti dalle sue legioni. Nel mese che trascorse a Roma Severo si preoccupò di consolidare il proprio rapporto con il senato. Egli passò gran parte del suo regno in spostamenti continui dovuti alle campagne militari, due importantissime: la prima combattuta contro di Nigro in Oriente tra il 193 e il 194 e si concluse con la battaglia di Isso. Subito dopo Severo ruppe l’alleanza con Albino e nominò suo figlio Bassiano, noto poi con il nome di Caracalla, come suo successore all’Impero, e Albino fu dichiarato nemico pubblico. Il successo ottenuto su Albino a Lione nel febbraio del 197 consolidò il potere di Severo e Caracalla fu riconosciuto come successore designato. Tra il 197 e il 198 Severo condusse una seconda campagna nel corso della quale fu acclamato imperatore per la decima volta. Nel medesimo anno elevò il figlio minore, Geta, al rango di Cesare. Severo rientrò a Roma nel 202, poi si recò in Africa. La campagna britannica di Severo iniziata nel 208 e proseguita per tre anni non diede risultati significativi. Le tribù della Scozia resistettero senza che si arrivasse a uno scontro risolutivo. A preoccupare Severo erano soprattutto le notizie che gli giungevano da Roma. Anche il suo regno fu tormentato da crisi di palazzo. Nel corso della sua carriera aveva avuto il sostegno incondizionato dell’amico Plauziano, il quale era stato nominato capo della guardia pretoriana e poi prefetto del pretorio e la cui figlia Fulvia sposò Caracalla. Ma Caracalla, geloso della posizione conseguita dall’uomo, uccise il suocero, accusandolo di aver cospirato contro Severo. Ormai però i contrasti riguardavano Caracalla e il fratello minore Geta: Severo aveva sperato che dopo di lui l’Impero fosse guidato da entrambi i figli, ma alla morte di Severo a York nel 211, ci fu solo un breve governo congiunto dei fratelli, anche perché Caracalla fece assassinare Geta alla fine di quell’anno. Alla morte di Severo lo Stato romano era ancora territorialmente integro, ma i suoi successori erano indegni e inetti. I privilegi concessi da Severo all’esercito avrebbero avuto gravi conseguenze sulle condizioni economiche dell’Impero: fu notevolmente elevato il soldo, la paga dei soldati. Fu inoltre abolito il divieto per i legionari di contrarre matrimonio sino a quando si trovavano in servizio. Peculiare del regno di Severo fu il ruolo di primo piano giocato dalle donne della sua famiglia, a cominciare da Giulia Donna, la moglie. 2 Sul confine gallico e su quello germanico premevano le popolazioni degli Alamanni e dei Franchi; la frontiera del basso Danubio era attaccata dai Goti mentre in Oriente i Persiano, guidati da Sapore, si stavano impadronendo della Siria. Valeriano, un anziano senatore, arrivò al trono imperiale dopo una serie di effimeri imperatori militari. Data la gravità e l’incertezza della situazione, Valeriano ebbe l’accortezza di associare immediatamente al potere il figlio Gallieno e di decentrare il governo dell’Impero: egli di fatti affidò a Gallieno il compito di difendere le province occidentali. La sua campagna contro i Persiani finì tragicamente, con la sconfitta di Edessa e egli fu fatto prigioniero e morì in cattività nel 260 d.C. L’iscrizione ritrovata vicino a Persepoli, ‘’Le imprese del divino Sapore’’, dimostra il rovesciamento dei rapporti di forza tra Romani e Persiani. Valeriano fu portato in catene ovunque Sapore andasse, come simbolo della propria grandezza. Alla sua morte lo fece scuoiare e conservò la sua pelle come un trofeo. ■ 1.12 Gallieno Gallieno era rimasto a guardia dell’Occidente e resse l’impero da solo tra il 260 e il 268. Egli riuscì a bloccare l’avanzata degli Alamanni e dei Goti, anche se fu costretto ad arretrare tutta la linea di frontiera al Danubio, con la perdita della Dacia. Egli dovette anche tollerare che all’interno dell’Impero si formassero due regni separatisti: quello delle Gallie retto da Postumo ed esteso anche alla Spagna e alla Britannia, e quello di Palmire, comprendente Siria, Palestina e Mesopotamia, con a capo Odenato. Quest’ultimo mantenne saldi i propri vincoli con Roma e solo alla sua morte la moglie Zenobia organizzò il principato palmireno in chiave antiromana: suo figlio Vaballato nel 271 si proclamò sovrano indipendente. Gallieno deve essere ricordato per alcune riforme: sottrasse il comando delle legioni ai senatori e lo affidò ai cavalieri; inoltre non dislocò le truppe lungo la frontiera, ma privilegiò la concentrazione di alcuni contingenti all’interno del territorio imperiale con la funzione di unità mobili di difesa. Gallieno pose definitivamente fine alla persecuzione contro i cristiani che Valeriano aveva ripreso nel 257. Dispose la restituzione dei beni sequestrati alle comunità stabilendo una sorte di tregua che sarebbe durata per una quarantina d’anni, nei quali la Chiesa potè consolidare la propria organizzazione soprattutto in Oriente. Le comunità cristiane si organizzavano in province ecclesiastiche rette da un vescovo. I vescovi si riunivano regolarmente in sinodi per discutere e decidere di questi di interesse comune. Alessandria, Antiochia, Cartagine e Roma occuparono presto una posizione speciale tra le sedi vescovili. Al vescovo di Roma in particolare si iniziò ad attribuire una posizione di direzione generale su tutte le comunità ecclesiastiche. ■ 1.13 Aureliano. Gli imperatori illirici L’uccisione di Gallieno, avvenuta nel 268 d.C. in una congiura ordita dai suoi ufficiali, portò al potere il comandante della cavalleria Claudio II, primo di una lunga serie di imperatori ‘’illirici’’, chiamati così in quanto originari di questa regione. Claudio ottenne successi contro gli Alamanni che avevano invaso la pianura padana e contro i Goti, che erano giunti ad occupare Atene. Morto Claudio II di peste nel 270, la sua opera fu completata da Aureliano (270-275), che riuscì ad avere definitivamente ragione delle popolazioni barbariche che erano penetrate di nuovo nella pianura padana. L’imponente cinta muraria con la quale Aureliano fece circondare Roma dà un’idea della pericolosità della situazione: l’opera colossale, terminata da Probo, consisteva in un perimetro di oltre 18 km con uno spessore di 4 metri. Aureliano riuscì a sottomettere i due Stati autonomi che si erano costituiti negli anni precedenti: nel 272 d.C. in Siria si impadronì di Palmira ponendo fine alle velleità indipendentistiche della regina Zenobia. La città fu poi punita con la distruzione per aver osato ribellarsi. Nel 274 d.C. infine fu sconfitto anche l’ultimo sovrano del regno separatista delle Gallie, Tetrico. L’unità dell’Impero risultava così ricostituita. 5 Aureliano ebbe il merito di restituire prestigio alla figura del sovrano: promosse una decisiva riorganizzazione dello Stato in tutti i settori essenziali della vita economica e diede impulso al processo di divinizzazione del monarca. Tra l’altro impose l’inquadramento, alle dipendenze dello Stato, delle associazioni professionali, come quelle degli armatori di navi, che svolgevano compiti di primaria importanza per l’approvigionamento alimentare. Significativa è anche la riforma monetaria: introdusse una nuova moneta, chiamata ancora ‘’antoniniano’’, ma che doveva sostituire la precedente, ormai svilita. In campo religioso l’introduzione del culto ufficiale di Sol invictus, identificato con Mitra, una divinità particolarmente cara ai soldati, era funzionale al rafforzamento dell’autorità imperiale: l’autocrazia militare diventava così quasi una teocrazia e il culto solare si identificava con il culto dell’imperatore. Aureliano venne ucciso nel 275 d.C., alla vigilia di una nuova campagna contro i Persiani: ci fu un breve regno dell’imperatore senatorio Tacito (275-276). Durante il successivo governo di Probo, 276-282, anch’egli un soldato di origine illirica, si riuscirono ad ottenere alcuni significativi successi contro la pressione barbarica sul fronte renano e danubiano, me l’imperatore fu ucciso mentre preparava una campagna contro la Persia. Il suo successore, Caro, condusse a felice compimento tale battaglia conquistando la capitale nemica, Ctesifonte, nel 283. Nonostante questo successo anche egli fu ucciso nel corso di una congiura militare. Stessa sorte toccò al figlio Numeriano e Carino. Alla fine, solo detentore del potere si trovò ad essere nel 285 d.C. l’illirico Diocleziano, che era stato proclamato imperatore dall’esercito l’anno prima, che regnò per un ventennio e riorganizzò lo Stato romano creando le condizioni per la sua sopravvivenza. ■ 1.14 Diocleziano L’avvento al trono di Diocleziano segna una delle cesure più nette in tutta la storia dell’Impero Romano. Con il suo regno, 284-305, si chiude definitivamente l’età travagliata che aveva caratterizzato gran parte del III secolo. È un’età di riforme e innovazioni: la storiografia parte dall’età di Domiziano a parlare di Dominato e non più di Principato. Il regno di Diocleziano è contraddistinto da una forte volontà restauratrice dello Stato a tutti i livelli, politico-militare, amministrativo ed economico. Una prima importante decisione riguardò il luogo di residenza dell’imperatore: Roma era troppo lontana dalle frontiere e così Diocleziano stabilì la propria sede in Oriente, a Nicomedia, la capitale della Bitinia. Del resto in quel momento l’Oriente appariva economicamente più solido dell’Occidente. Diocleziano riuscì a consolidare il potere monarchico. Egli concepì un sistema originale in base al quale al vertice dell’Impero c’era un collegio imperiale composto da 4 monarchi, detti tetrarchi, due dei quali, detti Augusti, erano di rango superiore ai secondi, detti Cesari. Tale sistema aveva il fine di fronteggiare meglio le varie crisi regionali attraverso una ripartizione territoriale del potere e allo stesso tempo di garantire una successione ordinata senza nuove guerre intestine. Il principio che era così introdotto era quello della ‘’cooptazione’’ al collegio stesso: i due Augusti cooptavano i due Cesari e così era previsto che facessero questi ultimi una volta divenuti Augusti. Nel 285 Diocleziano nominò Cesare Massimiano, disegnandolo come suo successore e l’anno successivo lo elevò al rango di Augusto, dunque di coreggente. Nel giro di pochi anni completò la sua riconfigurazione dei vertici dello Stato che fu portata a termine con la nomina a Cesari di due alti ufficiali, Galerio (destinato a succedere allo stesso Diocleziano) e Costanzo Cloro, successore designato di Massimiano. Il governo dell’Impero riorganizzato, la cosiddetta tetrarchia, rimaneva unito grazie all’autorità del primo Augusto, Diocleziano, ma risultava più funzionale in quanto articolata in 4 diversi detentori del potere: Diocleziano reggeva le province orientali da Nicomedia, Massimiano l’Italia l’Africa e la Spagna da Milano, Galerio la penisola balcanica e danubiana da Tessalonica, e Costanzo Cloro la 6 Gallia e la Britannia da Treviri. In tutto ciò è implicita la svalutazione degli organi di tradizione repubblicana, il senato e le magistrature annuali il cui significato decadde in misura irreparabile. Il nuovo potere imperiale derivava dal suo essere espressione di una forma di religione politica: il sovrano era considerato partecipe dell’essenza della divinità di cui portava in sé lo spirito. Diocleziano si rifaceva agli dei romani tradizionali Giove ed Ercole, divinità tra l’altro popolari presso i soldati. Diocleziano si faceva chiamare Giovio (di Giove), mentre Massimiano Erculio (di Ercole), il che equivaleva a dare un valore sacrale alla gerarchia all’interno della tetrarchia. ■ 1.15 Le riforme di Diocleziano Le riforme di Diocleziano furono profonde e riguardarono tutti i principali settori della vita pubblica. La sua riorganizzazione amministrativa fu efficace e duratura: le province furono ridotte di dimensioni per renderne più efficace il governo. L’Italia perse la condizione di privilegio che aveva fatto sì fosse esentata dall’organizzazione provinciale. Furono istituite un centinaio di province affidate a governatori provenienti per lo più dal ceto equestre, che avevano compiti di natura civile. Nelle province di frontiera essi erano affiancati da comandanti militari, i duces. Le province furono a loro volta raggruppate in 12 ampi distretti amministrativi, detti ‘’diocesi’’, retti da un ‘’vicario’’, cioè un rappresentante diretto del prefetto del pretorio che operava a stretto contatto con l’imperatore. Le diocesi furono a loro volta raggruppate in quattro grandi aree, corrispondenti a grosso modo a Oriente, Illirico e Grecia, Italia e Africa, Gallia Britannia e Spagna, e affidate a uno dei prefetti del pretorio. Ci fu anche una riforma dell’esercito: Diocleziano ordinò la cavalleria in unità indipendenti e fu creato un esercito mobile composto di unità di cavalleria e di fanteria. Questo esercito mobile, distinto da quello stanziato in modo permanente lungo le frontiere, era concepito come forza di pronto intervento per fronteggiare situazioni improvvise d’emergenza. Un’altra riforma riguarda il sistema fiscale: vennero iniziate le opere per realizzare una sorta di catasto. Per quanto riguarda la riforma monetaria, la moneta maggiormente usata dalla popolazione era il denario, di fatto ormai una moneta di bronzo appena rivestita d’argento il cui valore nominale veniva imposto per legge dallo Stato. Diocleziano quindi coniò monete d’oro e d’argento di ottima qualità, ma queste scomparvero presto dalla circolazione perché chi ne aveva la possibilità preferiva tesaurizzarle. Per le necessità quotidiane della gente comune fu coniata una moneta divisionale di rame, il follis, di valore dimezzato rispetto a quello di Aureliano. Per bloccare la continua ascesa dei prezzi della merce come dei servizi, Diocleziano tentò di imporre nel 301 un calmiere con il quale si indicava il prezzo massimo che non era consentito superare: provvedimento che prende il nome di Edictum de pretiis. L’Editto commina la pena di morte a chi nasconde le merci e a chi vende le merci a un prezzo superiore di quello consentito; in ogni caso la svalutazione della moneta proseguì e i prezzi delle merci continuarono a salire. In campo militare Diocleziano stabilizzò le frontiere e arrestò le minacce di invasione, sopprimendo alcune rivolte in Britannia e Egitto. Nel 298 d.C. Galerio impose ai Persiani una pace onerosa. ■ 1.16 La persecuzione dei cristiani Lo spirito conservatore di Diocleziano si manifesta in altri due editti, che riguardano la tutela del matrimonio uno, e l’altro la messa a bando della setta dei Manichei, i seguaci di una nuova religione di origine persiana. Diocleziano aveva promosso un’intensificazione del culto imperiale. La violenta persecuzione scatenata contro i cristiani, 303-304, con l’intento di rafforzare l’unità dell’Impero, iniziò verso la fine del regno di Diocleziano, quando la Chiesa cristiana, che godeva ormai da tempo di una situazione di pace, aveva molto consolidato la propria struttura. 7 ■ 2.3 Una società autoritaria La Tarda Antichità è un’età di forti contraddizioni. Essa presenta, malgrado la cristianizzazione della società, caratteri autoritari e repressivi. A Costantino si deve una costituzione, risalente al 316 d.C., che estendeva la tortura ai membri delle elite provinciali (prima riservata ai soli schiavi), i cosiddetti curiali, in caso di falsificazione dei documenti, tanto privati che pubblici. La stessa pena detentiva cominciò ad essere comminata per reati per i quali ci si sarebbe potuti attendere l’esilio o una multa. Per la stessa condanna a morte si andarono elaborando forme più crudeli di esecuzione. In realtà però un miglioramento nella posizione delle donne e delle mogli, dei figli e degli stessi schiavi è constatabile in modo abbastanza sicuro. Come spiegazione per la generale tendenza all’inasprimento delle pene si possono invocare fattori di natura diversa: fondamentale è la componente di natura politica, con un indubbio parallelismo tra i progressi delle tendenze assolutistiche nel governo e lo sviluppo del culto imperiale. Il crescendo di violenza nell’applicazione delle pene percorre in verità la società romana dal centro sino all’estrema periferia, dal vertice sino alla base ■ 2.4 L’economia Tra il II e il III secolo d.C. la villa schiavistica aveva ormai esaurito il suo ciclo come centro produttivo autonomo. Molte ville vennero abbandonate e la produzione tendeva a essere decentrata su varie unità minori, sulle quali predomina la conduzione indiretta, tramite grandi e piccoli affittuari. Si tratta inevitabilmente di un processo che con il tempo porta a un mercato più limitato, che indirizza verso una dimensione regionale. Nel frattempo, le incursioni barbariche al di qua del limes comportarono la chiusura dei circuiti commerciali mediterranei, a loro volta circoscrittisi in aree più ristrette, rispetto a quelle dell’Europa settentrionale. Tra le ripercussioni della crisi troviamo uno Stato più coercitivo pressante sulla società e un irrigidimento a tutti i livelli dell’articolazione sociale. In termini generali si parla di accresciuto fiscalismo. Nelle campagne compare una nuova figura sul piano giuridico: il colono, ovvero un coltivatore di stato libero ma di fatto vincolato alla terra in cui lavora, assimilabile dunque per molti aspetti a uno schiavo. Conseguenze importanti per l’economia e per la gestione agraria ebbe anche l’istituzione di più capitali, con Milano che ad esempio vede un accresciuto fabbisogno, dovuto alla presenza in essa del personale burocratico e dei soldati. Nel frattempo, una circolazione limitata di beni venne garantita dall’emergere di nuovi classi sociali, magistrati e funzionari statali, ecclesiastici e altri, che mantenevano un alto livello di potere d’acquisto. ■ 2.5 Costantino Gli anni che seguirono la morta di Costanzo Cloro furono confusi e la politica di Costantino, rimasta inizialmente prudente, subisce una svolta nel 310, quando inizia a propendere per una religione di tipo solare, monoteistico. Nel giro di due anni però la situazione si semplifica: Galerio muore nel 311 e Costantino ha la meglio su Massenzio nel 312 d.C., nella battaglia di ponte Milvio, sul Tevere, alle porte di Roma e potè impadronirsi della città. Questa vittoria fu ottenuta nel segno di Cristo, da un imperatore che dichiarava di aver abbandonato in quella circostanza il paganesimo per il cristianesimo. La conversione di Costantino fu un evento rivoluzionario, perché significò l’inserimento delle strutture della Chiesa in quelle dello Stato, con l’imperatore che si sentiva abilitato a intervenire nelle questioni dottrinali. All’inizio del 313 d.C. Licinio, un militare vicino a Galerio che quest’ultimo aveva cooptato nel 308 d.C. nel collegio tetrarchico come Augusto per l’Occidente, e Costantino si incontrano a Milano dove si accordarono sulle questioni fondamentali di politica religiosa. Questo accordo, noto impropriamente come Editto di Milano, è fondamentale per gli sviluppi successivi. I contrasti tra 10 Costantino e Licinio incominciarono molto presto: lo scontro finale, preceduto da una persecuzione anticristiana da parte di Licinio, si ebbe nel 324, quando Costantino vince ad Adrianopoli e diviene il solo imperatore. Nel 314 Costantino aveva convocato un sinodo con 33 vescovi ad Arles, nel tentativo di porre fine al contrasto che si era posto in Africa tra i rigoristi e i moderati a proposito dell’atteggiamento da tenere nei confronti di coloro che avevano abiurato nel corso delle persecuzioni dioclezianee. Costantino fu sempre preoccupato si salvaguardare l’unità interna della Chiesa, come dimostra anche il concilio da lui convocato a Nicea nel 325: invano supplicò i due contendenti, Ario e Alessandro, di trovare un accordo; in questo caso il problema era di natura teologica, con Ario che negava la natura divina di Cristo, cosa che implicava un indebolimento delle funzioni della Chiesa. ■ 2.6 Le riforme costantiniane Le diocesi, per rendere più efficiente l’amministrazione provinciale, furono raggruppate in 4 grandi prefetture, delle Gallie, di Italia e Africa, dell’Illirico e dell’Oriente, rette ciascuna da un prefetto del pretorio. Le diocesi riunivano al loro interno a loro volta un numero più o meno grande di province. Per quanto riguarda il governo dell’Italia Costantino le dona la peculiarità di avere due vicari all’interno di un’unica diocesi: il vicarius Italiae con sede a Milano e il vicarius urbis con sede a Roma. Si tratta di due dignitari di pari livello, vicari del prefetto del pretorio. Tra i primi atti compiuti da Costantino va ricordata la decisione di dar vita a un nuovo ordine di merito che sanzionasse le benemerenze acquisite presso di lui: la creazione dei comites, vale a dire dei compagni dell’imperatore, viene creata attorno al 330. I comites erano responsabili di diocesi o incaricati di missioni importanti, a loro erano talvolta affidate le funzioni legate alla sfera ecclesiastica come la presidenza dei concili. Costantino, divenuto imperatore unico, attribuì a più prefetti del pretorio il controllo su più diocesi: destinati in regioni molto lontane era evidente che non avrebbero più fatto parte del suo comitatus. Essi avrebbero risieduto a Cartagine, a Treviri, a Sirmium, a Milano o a Roma, ma in ogni caso al di fuori e lontano dalla corte. Non è neanche un caso che il prefetto che aveva responsabilità sulle diocesi aveva un ufficio ubicato lontano da quello imperiale. Il prefetto del pretorio inizia ad avere le caratteristiche di un magistrato periferico. Il prefetto del pretorio costantiniano aveva competenza nella gestione e della ridistribuzione delle risorse, ma la responsabilità sulle truppe militari è riservata a dei comandanti scelti ad hoc, i magistri ultimum. Il nuovo carattere della prefettura del pretorio, che perde definitivamente il suo carattere originario di alto comando militare, è reso evidente dal fatto che Costantino si preoccupò di renderla accessibile anche ad esponenti dell’ordine senatorio. Una delle riforme più significative di Costantino riguarda l’esercito: viene creato da lui un consistente esercito mobile, detto comitatus perché accompagnava l’imperatore. I soldati che ne facevano parte, i comitatenses, ricevevano una paga più altra rispetto agli altri, così che i limitanei, i soldati che si trovavano lungo il limes, finivano per essere soldati di second’ordine, di scarsa esperienza e mal pagati. Il comando dell’esercito mobile fu affidato a due distinti generali, uno della cavalleria e uno della fanteria. Il problema militare non fu però superato: l’esercito mancava di soldati e perciò venne ridotta l’altezza richiesta alle reclute, si incrementò la caccia ai disertori, si rafforzò l’ereditarietà della professione militari e si concessero privilegi ai veterani per attirare dei volontari: alla fine però i soldati finirono per essere reclutati sempre più tra i barbari che premevano alle frontiere piuttosto che tra i contadini. La minaccia barbarica era così grave che non consentiva soluzioni definitive: la vittoria di Giuliano Cesare a Strasburgo nel 357 sugli Alamanni e la morte di Valente ad Adrianopoli nel 378, consentirono la penetrazione nell’area balcanica di molte decine 11 di migliaia di barbari e crearono le premesse di negoziati con l’imperatore Teodosio, sfociati nel 382 in un vero trattato, con il quale i Goti erano accettati ufficialmente in Tracia e in altre regioni. ■ 2.7 Il cosiddetto editto di Milano L’editto di Milano sarebbe stato emanato per la tradizione cattolica, nel febbraio del 313 e avrebbe avuto valore universale. L’occasione era arrivata dall’incontro dei due Augusti, Costantino e Licinio. All’esistenza di un editto emanato a Milano aveva fatto pensare l’interpretazione di Eusebio di Cesarea secondo cui, dopo la sconfitta di Massenzio, Costantino e Licinio avrebbero emanato una ‘’legge perfettissima’’ sui cristiani. In realtà in questa legge perfettissima si devono probabilmente vedere solo misure applicative e integrativo dell’editto di Galerio che erano contenute nella lettera con cui Costantino annunciava la sua vittoria a Massimino, dove si faceva richiesta di desistere dalle persecuzioni. La versione degli accordi di Milano fornitaci da Lattanzio nella Morti dei persecutori, ci presenta un riconoscimento al principio di pluralismo religioso con una generica adesione alle propensioni monoteistiche dell’epoca. Costantino è prudente nelle prese di posizione ufficiali ma sembra già orientato in modo preciso negli atti concreti. A Milano Costantino e Licinio trattarono di questione relativamente semplici. Concordarono che in tutto l’Impero i cristiani dovessero godere della libertà di culto che già avevano ottenuto in Occidente e ottenere la restituzione delle proprietà confiscate. Questo accordo non si tradusse in nessun atto formale perché di questo non c’era bisogno. L’equivoco si spiega principalmente con l’attribuzione del termine editto alla lettera inviata ad ogni provincia orientale dopo la sua liberazione da Massimino. Quindi il documento che noi chiamiamo editto di Milano non è un editto, non fu promulgato a Milano, l’autore era Licinio e non Costantino, i cristiani avevano già ottenuto la tolleranza due anni prima con l’editto di Galerio del 311. La disposizione non riguardava dunque l’Impero nel suo complesso ma solo l’Oriente e possiamo parlare piuttosto di Direttiva di Nicomedia. ■ 2.8 Attività edilizia Nel 312 vengono soppresse da Costantino le coorti pretorie, in quanto prezioso strumento a sostegno del figlio di Massimiano, e quindi l’unico corpo armato operante a Roma diventa quello delle cohortes urbanae. Costantino fece distruggere i Castra Nova Equitum Singularium che erano stati fatti costruire da Settimio Severo per accogliere la sua guardia del corpo. Al loro posto fece costruire un grande edificio riservato al culto della nuova religione, la Basilica Lateranense, che sarà la sede del vescovo di Roma fino al 6° secolo. Fu fatta costruire nel 330 la nuova Roma, ovvero Costantinopoli, con l’intenzione di Costantino di dar vita a una capitale monda da qualsiasi contaminazione con il paganesimo. L’allestimento di una nuova capitale sul sito dell’antica Bisanzio, in una posizione strategicamente molto importante all’ingresso del mar Nero, era anche un riconoscimento all’importanza dell’Oriente all’interno dell’Impero. Costantinopoli venne dotata di tutte le strutture che la dovevano equiparare a Roma, così come di un senato, anche se questo non conseguì mai il prestigio dei quello romano. ■ 2.9 Il problema della conversione La conversione di Costantino è preceduta da un fatto di grande rilievo: il riconoscimento del fallimento delle persecuzioni, che emerge dalla lettera-editto di Galerio del 311. L’Editto di Galerio, il cui contenuto è espresso in forma di lettera, riconosce il sostanziale fallimento delle persecuzioni e rappresenta una circostanza senza paralleli. Costantino aveva già intrapreso un percorso che lo aveva portato lontano dalla tetrarchia politicamente, e sul piano religioso, stava cercando una divinità personale, che esercitasse una tutela esclusiva su di lui. Egli, di ritorno da una campagna contro i Germani avrebbe avuto nei Vosgi la visione di Apollo, identificabile con il Sole, che gli 12 rinnegato, che gli fu affibbiato dai cristiani, che temerono che potesse tornare il tempo delle persecuzioni. Con la morte di Giuliano terminava la dinastia costantiniana. ■ 2.14 La riforma del paganesimo promossa da Giuliano Giuliano nel suo breve regno tentò di promuovere il ritorno al paganesimo. Importante è la lettera da lui scritta e indirizzata al sacerdote della Galazia, Arsacio. In essa egli parla dell’opera degli dei, che è stata splendida e grandiosa, mentre gli aspetti del paganesimo (=cristianesimo) debbano essere curati. Invita Arsacio a allontanare gli altri sacerdoti della Galazia dalla funzione sacerdotale, gli esorta a non andare a teatro, a bere nelle osterie. Dice lui di onorare quelli che lo obbediscono e espellere quelli che lo disobbediscono. Gli ordina di istituire in ciascuna città numerosi alloggi per gli stranieri e di sfamare i poveri, in quanto i Giudei non hanno nemmeno un mendicante. Così facendo Giuliano riconosce la forza del proselitismo cristiano in virtù della sua organizzazione assistenziale e cerca di ripristinare il primato ideale del paganesimo anche in questo campo. ■ 2.15 La morte di Giuliano. Il regno di Valentiniano. In generale, l’Impero Romano nel IV secolo d.C. presenta una relativa stabilità dal punto di vista interno. Fino alla morte di Teodosio nel 395, l’unità dell’Impero è preservata, così come il problema barbarico viene tenuto a lungo sotto controllo. L’ascesa di Valentiniano alla carica imperiale risale alla crisi politica determinata dalla morte di Giuliano in Persia e agli eventi successivi. Valentiniano era un ufficiale di origine pannonica, il cui padre, Graziano seniore, aveva compiuto una buona carriera militare. Valentiniano era sicuramente a Lione, in Gallia, quando Giuliano era Cesare, in qualità di tribuno militare; esperienza che terminò bruscamente dal richiamo di Costanzo, che dopo il successo di Strasburgo, aveva ricevuto la notizia calunniosa che stesse aizzando i soldati contri il suo potere. L’elezione a imperatore del cristiano Gioviano alla morte di Giuliano fu all’origine di un’urgente ricerca di nuovi equilibri di potere. La scelta di Gioviano, figlio di un collaboratore di Costanzo, era stata propiziata dall’accordo tra esponenti filocostanziani e filogiulianei. È probabilmente ad essi che si deve la decisione di arrivare a una rapida stipula di un accordo con la Persia con la cessione di ampi territori nella regione del Tigri. Gioviano iniziò la ritirata dalla Persia nel luglio 363 e inviò una delicata missione in Illirico e in Gallia per dare notizia della morte di Giuliano e per dare indicazioni sulle misure da prendere. Valentiniano faceva parte di questa missione e ottenne, grazie alla fedeltà dell’esercito gallico, una carica molto vicina all’entourage dell’imperatore. In questa funzione egli si trovava ad Ancyra, quando Gioviano morì nel febbraio 364 in Bitinia. Nel giro di pochi giorni fu convocato l’esercito che precedette l’elezione imperiale di Valentiniano. Un ruolo decisivo in questa elezione lo ebbe Saturnino Saluzio, il prefetto del pretorio in carica che era stato in stretti rapporti con Giuliano. Valentiniano, sotto sollecitazione dell’esercito, scelse un collega nella persona del fratello Valente, che fu associato al trono con il titolo di Augusto nel marzo del 364 a Costantinopoli. Contestualmente alla scelta di Valente, ci fu la divisione delle rispettive competenze: Valentiniano scelse per sé l’Occidente, scelse Milano come prima residenza, ma la sua energia venne concentrata in Gallia, dove rimase dal 365 alla sua morte nel 375. In Gallia egli si impegnò nella riorganizzazione militare della regione e nella difesa della frontiera renana, tanto che la Gallia visse un periodo di stabilità che durò sino all’usurpazione di Massimo nel 383. Per consolidare la propria posizione, Valentiniano procedette a proclamare Augusto ad Amiens il figlioletto Graziano, il quale a 8 anni aveva già rivestito il consolato, nel 367. Era una scelta in chiave decisamente dinastica. Nello stesso momento venne trasferita a Treviri la sede della capitale imperiale. Nel 368 fu pianificata una grande spedizione transrenana, la più importante di Valentiniano, e l’ultima che vide un esercito romano vittorioso oltre il Reno. 15 Valentiniano morì improvvisamente nel novembre del 375 a Brigezio, dove si trovava sin dalla primavera. Qualche giorno dopo, all’insaputa di Valente e Graziano, fu elevato al trono dai soldati il secondo figlio Valentiniano II, che aveva solo 4 anni, con l’intento di rafforzare la dinastia e la stabilità politica. In effetti l’equilibrio del governo resse anche alla disfatta di Adrianopoli e venne meno solo nel 383 con l’usurpazione in Britannia di Massimo nella primavera estate di quell’anno e la soppressione di Graziano in agosto. In questa circostanza l’esercito gallico passò dalla parte dell’usurpatore, che trovò anche riconoscimento da parte di Teodosio e di Valentiniano. Teodosio stesso stava cercando di trovare una legittimazione dinastica vantando una discendenza da Traiano al fine di sostituire la propria alla meno nobile dinastia dei Valentiniano. ■ 2.16 La sconfitta di Adrianopoli. Nel frattempo, Valente dovette affrontare una situazione difficile. L’Europa centro-orientale si trovava sconvolta dall’incursione di una popolazione nomade, gli Unni, che dall’Asia si erano mossi e stavano sottoponendo a una pressione molto forte i Goti. Questi ultimi a loro volta premevano sulla frontiera danubiana. Falliti vari tentativi di insediarli pacificamente entro i confini, quando irruppero in Tracia Valente li affrontò in una battaglia campale. La sconfitta da lui patita ad Adrianopoli nel 378 d.C. è di estrema gravità e è uno degli episodi che annunciano la fine dell’Impero Romano d’Occidente. L’inesperto Graziano, rimasto imperatore da solo con il piccolo Valentiniano II, chiamò un generale spagnolo, Teodosio, a sua volta figlio di un generale, a condividere con lui il governo dell’Impero. Teodosio era consapevole dell’impossibilità di ricacciare i Goti al di là del Danubio, e perciò concluse nel 382 un accordo con il loro capo, Fritigerno: i Goti ricevevano delle terre all’interno dell’Impero come popolazione autonoma e infatti venivano detti ‘’foederati’’ (da foedus, trattato) e mantenevano i loro capi e le loro leggi, pur essendo tenuti a fornire dei soldati in caso di necessità. Intanto in Occidente le cose si complicavano: nel 383 ci fu un’usurpazione in Britannia da parte di un ufficiale spagnolo, Magno Massimo e Graziano si tolse la vita dopo che questo invase la Gallia. Massimo regnò per qualche anno sulla Gallia, ma quando invase l’Italia, Teodosio lo sconfisse nel 388. La situazione si era appena ristabilita quando il generale franco Arbogaste fece assassinare, nel 392 d.C., Valentiniano II che era stato affidato alla sua tutela. Abrogaste fece nominare imperatore un retore, Eugenio. Teodosio sconfisse anche lui in Carnia nel 394. Teodosio manifestò una particolare attenzione per il problema religioso. Fondamentale è l’editto del 380, con il quale la religione cristiana diventava la religione ufficiale dell’Impero. Nel 381 Teodosio convocò un concilio ecumenico a Costantinopoli, che ribadì il credo niceno e promulgò una legislazione sempre più severa nei confronti dei seguaci del paganesimo, malgrado le proteste e un tentativo di reazione da parte del senato di Roma: l’usurpazione di Eugenio nel 392 era stata sostenuta da pagani del senato romano. Un protagonista degli ultimi decenni del IV secolo d.C., e soprattutto del regno di Teodosio, è il vescovo di Milano Ambrogio, acclamato vescovo nel 374 quando era governatore dell’Emilia. Quando Teodosio punì un vescovo di una località della Mesopotamia per aver incendiato una sinagoga ebraica, egli lo costrinse a ritornare sulla decisione minacciandolo di sanzioni spirituali. Nel Natale del 390 d.C. Ambrogio impose a Teodosio addirittura una penitenza pubblica per riammetterlo nella comunità cristiana: sanzione dovuta alla strage che l’imperatore aveva ordinato a Tessalonica a seguito di una sommossa popolare. ■ 2.17 I fondamenti ideologici dell’Impero tardoantico Secondo le teorie ellenistiche il sovrano governava come una legge vivente, quale incarnazione della perfetta giustizia. Il re è necessariamente colui che si conforma in massimo grado alle leggi e che di conseguenza è il più giusto. La sacralizzazione della figura dell’imperatore aveva dietro di sé una lunga storia. Già il Principato augusteo aveva un fondamento carismatico: l’epiteto stesso di 16 Augusto conferito ad Ottaviano, suggerisce l’idea di una persona posta al di sopra, in virtù di qualità eccezionali, degli uomini comuni. Il sovrano aveva l’esigenza di una dimensione sacrale, sanzionata da un’investitura dall’alto, come avveniva ad esempio per il regno di Persia, dove i sovrani erano rappresentanti e promotori della religione di Zaratustra e per cui il potere del sovrano interferisce direttamente con quello religioso, che gli è sottoposto. L’imperatore tardoantico è tale per grazia divina. Diocleziano utilizza questo fondamento teologico del potere monarchico per ridare vigore all’Impero Romano vacillante per l’anarchia interna e per la pressione dei barbari. Eco quindi che il volto, l’aspetto dell’imperatore, diventa un fatto molto serio: una delle realtà più vive del Tardo Impero è la fisiognomica. Costantino non si distaccò da questa idea della funzione del sovrano: la bellezza del monarca era un criterio di derivazione orientale. Egli è celebrato dai panegiristi come imperatore giovane, lieto e bellissimo. Eusebio di Cesarea sostiene che l’imperatore Costantino era il solo a meritare di indossare la porpora regale che soltanto a lui compete. Fuori linea è invece il nipote Giuliano: profilandosi come anti Costantino, egli non può accettare la disumanizzazione della figura del sovrano che il nuovo apparato comportava; egli continuava ad attenersi ai canoni estetici della dinastia costantiniana, ma con la barba da filosofo, concepita come segno di rottura anche visiva con i suoi predecessori, dopo la proclamazione imperiale del 360. ■ 2.18 La vittoria del cristianesimo e la risposta pagana La svolta costantiniana a favore del cristianesimo è corroborata dalla legislazione antipagana degli imperatori successivi che culmina in quella di Teodosio. Il trionfo del cristianesimo porta con sé novità fondamentali nella politica come nella società: il vescovo, l’uomo santo e la donna diventano i protagonisti di un mondo profondamente rinnovato. La risposta pagana si situa su un piano culturale: a Roma ha un centro di coagulo nell’aristocrazia senatoria, che difende il paganesimo anche per tutelare la propria identità politica. Giuliano, nel tentativo di restaurare il paganesimo, mosso da ideali, lo rendono una figura simile a quella di un eroe, un santo pagano. ■ 2.19 Pagani e cristiani alla fine del 4° secolo d.C. Il dibattito che oppone cristiani e pagani ha il suo momento intellettualmente più alto nella controversia del 384, che oppone l’oratore Simmaco al vescovo di Milano Ambrogio. La questione, il ripristino in senato dell’altare della Vittoria, è secondaria, in quanto ha valore simbolico che coinvolge la funzione stessa dell’aristocrazia senatoria romana, in buona misura ancora pagana, nei complessi equilibri dell’Impero alla fine del IV secolo. Simmaco chiede in fondo solo tolleranza, ma Ambrogio la rifiuta. Simmaco scrive ad Ambrogio di poter celebrare le cerimonie ancestrali, culti che per lui hanno aiutato a ricacciare Annibale dalle mura e i Senoni dal Campidoglio. PARTE SESTA – La fine dell’Impero Romano d’Occidente e Bisanzio CAPITOLO 1 – La fine dell’Impero Romano d’Occidente ■ 1.0 Le fonti Le fonti relative al periodo finale della storia di Roma Antica sono relativamente ricche. Di alcuni storici ci sono giunti solo frammenti, come l’opera di Olimpiodoro di Tebe, attivo sotto Teodosio II, nella quale trattava della storia dell’Impero Romano dal 407 al 425. Si conservano solo estratti dell’opera di Prisco di Panion, la cui opera, in greco, andava dal 425 al 472. La narrazione di Prisco è ripresa in molti punti da Giovanni Antiocheno, attivo nel VII secolo d.C., la cui Cronaca è nota 17 comminano gravi pene a chiunque, libero o schiavo, assuma modi di vestire e di acconciarsi propri dei barbari. Con l’Editto del 382 era stato fatto in modo che i Goti si insediassero tra la Dacia e la Mesia Inferiore, dove però continuarono a mantenere la loro struttura tribale. ■ 1.4 La divisione dell’Impero, Stilicone e Alarico La morte di Teodosio nel 395 segnò un momento di svolta decisivo per la storia dell’Impero Romano. Per la prima volta esso fu diviso territorialmente di fatto in due parti tra i due figli di Teodosio, Arcadio che ebbe l’Oriente e Onorio, cui toccò l’Occidente. Insieme a due imperatori nacquero anche due corti, due amministrazioni, due eserciti del tutto autonomi. L’esito di tale smembramento risultò particolarmente rovinoso per l’Occidente, minacciato dalle sempre più frequenti incursioni barbariche mentre l’Oriente, superata la crisi gotica del 378, era chiamato a fronteggiare il tradizionale nemico persiano. Nelle intenzioni di Teodosio in realtà il principio unitario doveva essere mantenuto vivo dal generale di origine vandalica Stilicone, cui affidò in tutela i due figli, che erano ancora dei ragazzini, ma questo compito a lui assegnato fu impossibile da realizzare per l’aggravarsi della situazione militare. Nel 398 Stilicone riuscì a reprimere la rivolta suscitata in Africa da un principe mauro, Gildone, ma all’inizio del V secolo d.C. una serie di invasioni barbariche scosse l’Impero fin nelle sue fondamenta. Nel 402 e nel 406 anche l’Italia fu invasa dai Goti, guidati da Alarico e Radagaiso. In entrambi i casi Stilicone riuscì a fermare la loro avanzata, ma alla fine del 406 la frontiera renana fu travolta da numerose popolazioni germaniche: Vandali, Alamanni, Burgundi, Franchi, Svevi e Alani dilagarono verso la Gallia Meridionale. Mentre la Britannia si staccava definitivamente dall’Impero, Vandali, Alani e Svevi varcavano i Pirenei e si stabilivano in Spagna. Stilicone aveva fatto carriera a Costantinopoli alla corte di Teodosio I, che accompagnò nel 393 nella campagna contro l’usurpatore Eugenio. In questa circostanza fu elevato al rango di comandante in capo delle forze armate dell’Occidente. Egli si trovò quindi nelle condizioni ideali per reggere l’Occidente quando Teodosio morì improvvisamente nel gennaio del 395, non senza prima averlo nominato tutore del figlio minore Onorio. Stilicone si preoccupò di consolidare le proprie relazioni politiche, a cominciare da quelle con il senato romano. Tra i successi di questo generale vandalo ci fu la repressione della rivolta di Gildone, il capo dell’Africa che era passato al servizio di Costantinopoli. La minaccia per il governo di Stilicone era molto grave perché dall’Africa settentrionale proveniva il grano necessario a sfamare la popolazione romana: la rivolta fu domata. Per rafforzare la sua posizione Stilicone fece sposare Onorio con la figlia Maria. Nel 405 egli ebbe anche ragione dei Goti di Radagasio, che erano penetrati in Italia arrivando sino a Firenze, che posero sotto assedio. La risposta militare fu pronta e efficace, riuscendo a sconfiggerlo a Fiesole. Stilicone, malgrado i pericoli che venivano da Nord, decise di contrapporsi a Costantinopoli rivendicano per sé il controllo della Dacia e della Macedonia. Per ottenere questo risultato cercò di stipulare un’alleanza con Alarico, che da tempo puntava a un patto militare con Roma in cambio di terre. L’accordo prevedeva che i Goti nell’attacco contro Costantinopoli sarebbero stati affiancati da forze romane, ma il progetto non fu messo in pratica a causa dell’invasione barbarica della Gallia nel 407. Inoltre, un usurpatore, Costantino III, era riuscito a riunire sotto il suo controllo gran parte dell’Italia. Stilicone non era quindi in grado di soddisfare il patto con Alarico e doveva fronteggiare una situazione di emergenza in Occidente. Il malcontento nei suoi confronti si faceva crescente. Morto all’inizio di maggio l’imperatore d’Oriente Arcadio, che lasciò come successore un bambino di soli 7 anni, Teodosio II, Stilicone si scontrò anche con Onorio che avrebbe voluto andare di persona a Costantinopoli per assumere direttamente il controllo sull’Oriente. In questo contesto era inevitabile che Stilicone cercasse una soluzione di compromesso almeno con i Goti che 20 minacciavano direttamente l’Italia. Il suo piano suscitò una violenta reazione da parte della corte imperiale, che nel frattempo si era trasferita a Ravenna, considerata meglio difendibile di Milano. Lo stesso Onorio si schierò contro Stilicone: a Pavia i soldati di Onorio assassinarono ufficiali e legati di Stilicone. Pochi giorni dopo a Ravenna Stilicone fu catturato e decapitato: il potere fu assunto da Olimpio, che si era messo alla testa degli oppositori di Stilicone. A fronte di questa situazione Alarico nell’autunno del 408 scese in Italia con un esercito di Goti numericamente senza precedenti. A novembre Roma era sotto assedio e Alarico ottenne dal senato il versamento di un ingente tributo. Dopo la richiesta di Alarico di ottenere il titolo di generale dell’esercito romano rifiutata da Onorio, Alarico riportò allora il suo esercito sotto le mura di Roma e ottenne che il senato nominasse un altro imperatore, Attalo, del quale si sbarazzò poco dopo. Alarico si mosse verso Ravenna per incontrarsi con Onorio e verificare un’ennesima volta la possibilità di un accordo, ma fu vittima di un accordo nei pressi della città e mosse con decisione contro Roma. ■ 1.5 Il sacco di Roma Roma era rimasta il cuore dell’impero, immagine e sintesi della sua forza e delle sue realizzazioni, quasi una sfida per i suoi nemici. Aquileia era in quegli anni il nodo commerciale per i traffici verso l’area danubiana, fu base di appoggio per le operazioni militari contro i barbari e centro strategico per il comando del settore alpino nord-orientale. Alla fine del IV secolo Aquileia era stata la roccaforte di Magno Massimo in previsione dello scontro con Teodosio e nel 401 fu la prima città dell’Italia a fare esperienza dell’invasione dei Goti guidati da Alarico. Quest’ultimo era tutt’altro che un selvaggio che reagiva violentemente alle offese, bensì un personaggio consapevole del suo ruolo di capo e dell’importanza dell’amministrazione romana. Anche se molto nell’ascesa al potere di Alarico rimane oscuro sembra certo che questa non dipenda solo dal favore accordatogli da Teodosio: attorno al 395 doveva detenere già una chiara preminenza sui Goti insediati tra la Mesia Inferiore e la Tracia a seguito del trattato del 382. Stilicone aveva pensato di usare Alarico per riprendere il controllo della Gallia in mano all’usurpatore Costantino, cosa che non avvenne per la reazione antibarbarica. Ormai però Stilicone era isolato e venne ucciso a Ravenna nell’agosto del 408, dopo che era stato sospettato di voler sostituire ad Onorio il proprio figlio Eucherio. La morte di Stilicone provocò un ulteriore aggravamento della situazione in Italia ed è all’origine della crisi finale. Alarico aumentava le proprie pretese, ma Onorio non avrebbe mai nominato Alarico o uno della sua stirpe magister militum. Le richieste di Alarico erano due: la carica di generale al servizio di Roma e l’insediamento tra le Venezie per i suoi Goti. Le richieste di grano e di oro appaiono funzionali rispetto alla prima, decisiva per la posizione di primato all’interno del suo popolo che Alarico voleva consolidare. Alarico, a fronte dell’intransigenza di Onorio, tornò ad assediare Roma e dispose allora la nomina di un imperatore fantoccio, Attalo, nel dicembre del 409 che depose nell’estate del 410. Il sacco di Roma arrivò al terzo assedio posto ai Goti alla città dopo che per due volte in due anni l’avevano tolto nella speranza di poter arrivare a un accordo con Onorio. Dopo aver saccheggiato Roma, Alarico si mosse verso il sud dell’Italia, portando in ostaggio la sorella dell’imperatore Onorio, Galla Placidia. La morte improvvisa di Alarico, avvenuta in Calabria prima che si potesse recare in Africa, risparmiò altri disastri all’Italia. I Goti infatti si ritirarono nella Gallia meridionale, dettero vita a uno Stato vero e proprio, con capitale Tolosa. Il successore di Alarico, il cognato Ataulfo, sposò Galla Placidia, che per un breve periodo divenne regina dei Visigoti. Fu comunque una soluzione fragilissima: Ataulfo fu costretto a trovare per il proprio popolo una sede oltre i Pirenei e nel 415 d.C. fu assassinato. Poco dopo anche i Burgundi diedero vita a un regno autonomo. 21 In questo periodo di accentuata disgregazione della compagine imperiale, un ruolo importante fu svolto in occidente da un capace generale, Flavio Costanzo, che nel 417 sposò Galla Placidia. Nel 421 Costanzo si fece proclamare imperatore, ma morì nell’autunno dello stesso anno. Nell’autunno del 425 alla testa dell’Impero d’Occidente fu insediato suo figlio, Valentiniano III, dopo che nel 423, alla morte di Onorio, esso era caduto nelle mani di un usurpatore. In realtà era Galla Placidia a reggere le sorti dell’Occidente per conto del figlioletto di 6 anni, attraverso un capace generale, Ezio, che proseguiva la stessa politica di utilizzazione dei barbari per la difesa dell’Impero già tentata da Stilicone. ■ 1.6 Uno shock senza precedenti Il sacco di Roma da parte di Alarico del 410 rappresentò uno shock emotivo senza precedenti. Già due anni prima, con l’assedio di Alarico, determinò con la carestia l’insorgere di una pestilenza, che portò ad alcuni cambiamenti nello stile di vita, tra i quali si segnalano le prime sepolture urbane, di emergenza, all’interno delle mura. L’esperienza della sconfitta politica del paganesimo romano di età teodosiana, il dramma stesso del sacco di Roma e le convulsioni della Gallia dopo le invasioni barbariche in Africa avevano turbato le coscienze ma senza scuotere il vivere sociale nelle sue fondamenta. Della vita collettiva resta qui perno e motore la città, la cui esistenza all’epoca della predicazione di Sant’Agostino non può essere compresa se non ci si rifà all’esperienza dei secoli precedenti: cioè se non la si pensa in termini di una sostanziale continuità quantomeno a rivedere le idee preconcette di crisi. Tra la vitalità della cultura e la vivace esistenza della città africana tardoantica c’è un rapporto profondo, anche se non sempre evidente. Abbiamo a che fare con costruzioni o riparazioni di bagni, terme, portici, basiliche e teatri. Tanto impegno edilizio non significa solo prosperità economica, ma anche una ideologia e una componente patriottica nella volontà di preservare la struttura materiale della città classica. Ma che tipo di esito ha la crisi del potere politico romano sulla vita interna della stessa città di Roma, sulla vita dei Romani? Il dato archeologico, con il cambiamento delle strutture residenziali, con la scomparsa delle tipologie edilizie di tradizione antica, il dato demografico, numismatico, epigrafico possono valere come indicatori a vari livelli. Ci si può chiedere se la somma di questi elementi non autorizzi comunque a considerare il sacco alariciano come un evento periodizzante anche per quel tipo di storia che meno sembra suscettibile di periodizzazioni plausibili, vale a dire la ‘’storia della mentalità’’. In questo senso sembra proprio che la storia di Roma, della città di Roma nei 120-130 anni che intercorrono tra il sacco alariciano e lo scoppio della guerra greco- gotica, possa meritare una considerazione particolare anche grazie a fonti sufficientemente differenziate. ■ 1.7 Fattori di crisi L’irruzione dei Goti a Roma nel 410 portò a un processo di destrutturazione, che si tradusse in un’appropriazione sempre più estesa dello spazio urbano da parte di privati e delle comunità cristiane, un processo che Teodorico un secolo più tardi cercherà di porre rimedio. Su Roma un notevole impatto ebbero le prese che si susseguirono nella seconda metà del secolo, a distanza breve l’una dall’altra, rappresentando un preludio alla ‘’caduta senza rumore di un impero’’. Quella del 455 compiuta dai vandali di Genserico ebbe un carattere sistematico, a differenza di quella di Alarico del 410, come risulta dalle fonti. Il sacco del luglio del 472 risultò grave perché avvenuto quando regnava un imperatore, Antemio, che godeva del consenso dell’aristocrazia e anche di parte del popolo. È caratteristica peculiare del periodo finale del mondo antico che le vicende delle varie parti dell’Impero Romano tendano a differenziarsi: questo vale soprattutto per l’Occidente, dove il 22 non riuscì a consolidare il proprio potere. Nel 455 Roma fu saccheggiata per la seconda volta, ad opera questa volta dei Vandali del re Genserico, con cui nel 435 Valentiniano III aveva concluso un trattato che gli riconosceva il diritto di stabilirsi nelle province romane dell’Africa settentrionale. Petronio fu ucciso dalla folla e al suo posto fu eletto imperatore un senatore di origini galliche, Eparchio Avito, che fu deposto poco dopo e consacrato vescovo di Piacenza. Maggiorano, imperatore dal 457 al 461, è l’ultimo detentore del potere in Occidente che abbia tentato una riscossa militare, oltre ad avviare una qualche riforma capace di alleviare la grave crisi economica e sociale. Da quel momento in poi sul trono di Ravenna si succedettero imperatore sempre più effimeri e privi di vero potere. Nel 461 d.C. Maggiorano fu eliminato da un generale barbaro, Ricimero. Dopo varie vicende, l’imperatore voluto da Costantinopoli, Antemio, nel 472 fu assediato a Roma da Ricimero e da un altro candidato da lui sostenuto, Olibrio. Scomparsi Olibrio e Ricimero, nel 474 l’imperatore d’Oriente Zenone nominò imperatore Giulio Nepote. Contro Nepote si ribellò un altro generale, Oreste. La fine dell’Impero Romano coincide formalmente con il 476, quando Romolo Augustolo, figlio di Oreste, fu deposto dallo sciro Odoacre. Quest’ultimo però non rivendicò per sé il titolo di imperatore, accontentandosi del titolo di re del suo popolo. Cadde così ‘’senza rumore’’ l’Impero d’Occidente. ■ 1.10 Sant’Agostino e il problema della caduta dell’Impero Romano Il declino e la caduta dell’Impero Romano rappresentano un controverso problema storiografico. Due sono fondamentalmente i tipi di spiegazione che la storiografica moderna ha cercato di dare per la caduta dell’Impero: 1. Una spiegazione mono-causale che punta a individuare una ragione fondamentale per la crisi, come la crisi economica e politica o il successo del cristianesimo all’interno, oppure la pressione dei barbari all’esterno. 2. Una spiegazione pluricausale che privilegia la ricerca dei fattori che in parallelo possono aver determinato il declino dell’Impero, come per esempio la crisi economica determinata dalla necessità di distrarre risorse sempre crescenti per fronteggiare la minaccia barbarica. Il problema della fine dell’Impero Romano era già avvertito dai contemporanei. L’Africa romana godette ancora di un ventennio di prosperità e di libertà dopo la caduta di Roma nelle mani di Alarico nel 410 d.C. Molti furono i senatori e i nobili romani che decisero di trovarvi scampo. Data la sua posizione di primo piano nella Chiesa locale, Agostino, vescovo di Ippona, si trovò nella necessità di rispondere all’attacco frontale recato dai pagani con le loro tesi sulla responsabilità dei cristiani per il sacco di Roma e la crisi dell’Impero. Era un evento che veniva interpretato in modo diverso a seconda delle convinzioni filosofiche e religiose, ma il dato drammatico era che Roma era caduta in mano ad un’orda barbarica otto secoli dopo la presa della città da parte dei Parti. A Cartagine inoltre Agostino era chiamato a un impegnativo confronto intellettuale con i sofisticati esponenti dell’elite colta presente nella città africana e a far fronte alle incertezze dei cristiani da poco convertiti. Il pericolo era che costoro, per debolezza o per semplice abitudine, tornassero alle pratiche sacrileghe che si erano solennemente impegnati ad abiurare. Prima di tutto però veniva la città, da intendersi non nel senso di Stato, quanto di comunità, di collettività di quanti possono appartenere a scelta a Dio o al Demonio. Il trattato di Agostino Sulla città di Dio vede l’autore avvertire come nella città terrena sia immanente la volontà di sopraffazione, di dominio di un uomo sull’altro e all’interno delle comunità civiche e nel rapporto tra gli Stati. È quindi lo stesso Impero Romano che finisce per costituire un problema, perché la formazione di un dominio universale corrisponde a un disegno di Dio. Agostino è in imbarazzo perché deve riconoscere che il potere romano sul mondo ha avuto una sua sanzione celeste. Agostino respinge le motivazioni 25 imperialistiche: gli ampliamenti territoriali che si fondano solo sulla sopraffazione e l’ingiustizia sono sempre da condannare. CAPITOLO 2 – I regni romano-barbarici ■ 2.1 Il regno di Teoderico in Italia Mentre la penisola italica rimaneva per un certo periodo di tempo sotto il controllo di Odoacre, l’imperatore d’Oriente Zenone cercò di sistemare la situazione grazie alle popolazioni barbariche amiche. Così il re dei Goti, Teoderico, il quale aveva familiarità con le istituzioni romane per una lunga presenza alla corte di Costantinopoli, scese in Italia nel 488 d.C. con il titolo ufficiale di patricius (patrizio) e la missione di eliminare Odoacre. Dopo varie vicende Odoacre venne sconfitto e ucciso nel 493. Gli Ostrogoti (Goti orientali, distinti dai Visigoti, i Goti occidentali) erano una minoranza ristretta a livello demografico, che al momento del loro insediamento in Italia costituirono un gruppo etnico omogeneo, secondo gli ordinamenti germanici, con 100mila persone di cui 20mila combattenti; erano per la maggior parte del ceto dei possessori. Teoderico aveva intenzione di trovare una forma di collaborazione tra Goti e Romani, di cui una testimonianza è il complesso di leggi con il quale si cercava di regolare il rapporto tra le due comunità etniche su una base di sostanziale eguaglianza. Teoderico ammirava il mondo romano e anche per questo scelse come collaboratori Cassiodoro, Simmaco e il suocero Severino Boezio; fece restaurare molti monumenti in decadenza in varie città, concentrando comunque i suoi sforzi sulla capitale Ravenna, dove venne costruita la Chiesa di S. Apollinare Nuovo, il Mausoleo del sovrano, il palazzo regio. Il regno di Teodorico segnò un periodo positivo per la penisola italiana, con anche l’economia in ripresa. In ogni caso la collaborazione tra Goti e Romani si rivelò impraticabile. I Goti erano ariani e la diffidenza tra le due diverse confessioni cristiane ebbe il sopravvento sulle regioni di Tolleranza che avevano ispirato Teodorico nei confronti dei cattolici. Teodorico, credendo che si realizzasse una convergenza antiariana di cattolici e di Bizantini, fece imprigionare il papa Giovanni I e fece giustiziare i suoi collaboratori Boezio e Simmaco. Nel 526 però Teodorico moriva lasciando il regno alla figlia Amalasunta, la quale venne uccisa da uomini di Costantinopoli nel 535. ■ 2.2 I regni romano-barbarici d’Occidente Per le invasioni barbariche dell’Occidente romano si possono distinguere due fasi fondamentali: la prima è riconducibile a popoli penetrati all’interno dell’Impeero dopo lunghe peregrinazioni: gruppi poco numerosi, che si stanziarono in zone limitate delle province occupate, si organizzarono secondo le regole tradizionali loro proprie, mentre la popolazione romana viveva in conformità alle istituzioni giuridiche precedenti. questa è la fase che riguarda il regno ostrogoto in Italia e quello visigoto e burgundo in Gallia. Per sottolineare la coesistenza di queste due componenti questi regni sono detti convenzionalmente ‘’romano-barbarici’’. La seconda ondata delle invasioni germaniche fu opera di popoli già da tempo stanziati ai confini dell’Impero, che arrivati al suo interno riuscirono a imporre la propria organizzazione alla popolazione romana; in questa fase rientrano i regni dei Longobardi in Italia, quello dei Franchi in Gallia e quello degli Angli e dei Sassoni in Britannia. 1. Il regno dei Burgundi, costituitosi nel 433, occupava un’area compresa tra il corso del Rodano e della Saona e la Savoia, l’attuale Borgogna. Verso la fine del V secolo il re Gundobaudo fu riconosciuto dall’imperatore bizantino Anastasio. 2. Il regno dei Burgundi fu sottomesso definitivamente dai Franchi nel 534, all’inizio della guerra greco-gotica in Italia, nella quale i Franchi erano allleati dei Bizantini. Il regno 26 ostrogoto in Italia durò poco più di mezzo secolo, dalla fine del V a metà del VI secolo d.C.: coincide più o meno con il regno di Teoderico che prosegue fino alla fine della guerra greco- gotica nel 553 d.C. 3. Il regno visigotico di Tolosa fu creato da Vallia nel 418 e comprendeva la Gallia sud- occidentale. Riconosciuto da Roma, esso conobbe un periodo di fortuna sotto il regno di Eurico, che tra il 470 e il 480 riuscì a conquistare quasi tutta la Spagna e la Provenza. All’inizio del VI secolo esso si costituì in Aquitania e nell’area pirenaica. A seguito della sconfitta patita dai Franchi nel 507, nella battaglia di Vouillè, i Visigoti passarono nella penisola iberica, dove fondarono un regno che ebbe come capitale Toledo, che alla fine del VI secolo d.C. fu esteso a tutta la penisola iberica. È il regno barbarico nel quale più a lungo si conservano le fondamentali strutture politiche e amministrative dell’Impero Romano. Nel 589 il re Recaredo si convertì al cattolicesimo, che in un secondo momento divenne religione di Stato. Il regno visigotico di Toledo durò fino al 711, quando iniziarono le invasioni arabe. 4. Il più importante regno barbarico è certamente quello dei Franchi. La figura decisiva è quella di Clodoveo, della dinastia dei Merovingi, che divenne re nel 481. La sua conversione al cattolicesimo avvenuta alla fine del V secolo fu fondamentale per l’integrazione dei Franchi con gli esponenti dell’aristocrazia gallo-romana. Dopo un periodo di crisi interna, i Franchi tornarono ad assumere un ruolo di primo piano sotto la guida di Carlo Martello, che nel 734 fermò a Poitiers l’avanzata degli Arabi. 5. Nell’Europa del Nord le azioni di pirateria condotte dalle popolazioni germaniche provenienti dal Mar del Nord all’inizio del V secolo, portano all’occupazione di vasti territori, alcuni dei quali già romanizzati. Nel giro di due secoli la popolazione celtica delle campagne fu sostituita da un’altra di ceppo germanico, dando vita alla Britannia anglosassone. ■ 2.3 La società romano-germanica L’installazione dei barbari sul suolo romano avvenne secondo modalità molto differenti. In Britannia si era trattato di una conquista pura e semplice, senza forme di intesa tra invasori e indigeni. Nella Gallia meridionale, in Spagna e in Italia l’insediamento dei Germani avvenne sulla base della copertura giuridica di un trattato, che assicurava il rispetto delle istituzioni civili. In misura minore la stessa cosa può valere per l’Africa settentrionale. Si deve però sempre tenere in considerazione la realtà religiosa: al momento delle invasioni tra i Romani i ceti socialmente più elevati avevano aderito ormai al cristianesimo, mentre i barbari, tranne i Franchi, erano cristiani ma di credo ariano. Gli invasori della Britannia erano addirittura pagani. Per quanto riguarda il sistema amministrativo in taluni casi si pervenne a una piena fusione, in altri si realizzò un dualismo amministrativo, con Romani e Barbari sottoposti a gerarchie differenti. Notevole è invece l’evoluzione delle raccolte giuridiche: sia i Visigoti che i Burgundi si preoccuparono di disciplinare giuridicamente le loro consuetudini con delle codificazioni specifiche. Il re visigoto Eurico creò un codice, promulgato nel 475, il codex Euricianus, mentre i Burgundi ebbero la lex Burgundionum per iniziativa del re Gundobaudo. Nel regno visigotico di Tolosa, all’inizio del VI secolo, si organizzò una raccolta di norme valide per la sola componente romana: la Romana Wisigothorum, per volontà del re Alarico II. Anche nel regno Burgundo per il Romani venne creata una raccolta di leggi, la lex Romana Burgundionum. ■ 2.4 La Gallia e le invasioni barbariche 27 Nei secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano la struttura ben organizzata del paesaggio agrario dell’Europa occidentale andò incontro a una forte decadenza. Nell’area mediterranea ci fu un declino demografico, con il restringimento delle aree sottoposte alla riduzione della policoltura, ovvero l’intreccio di coltivazioni diverse, quelle estensive dei cereali e quelle specializzate e intensive dell’olio e della vita. Zone prima coltivate divennero con il passare del tempo abbandonate, anche per l’insorgere della malaria, prodotta dall’acqua dei corsi d’acqua che ristagnavano dopo aver invaso le pianure costiere. Ciò portò al ritorno all’economia di montagna, quella silvo-pastorale nella quale aveva un posto considerevole la transumanza. Questo sistema silvo-pastorale si impose anche nell’area mediterranea durante i primi secoli del Medioevo. più che un’adozione del modello germanico si deve vedere nell’affermazione di questo sistema economico il risultato della crisi politica che investì anche le strutture produttive. Il declino demografico favorì l’impaludamento di molte zone costiere e l’allargarsi del territorio incolto. Proprio gli spazi incolti si rivelarono ben presto una risorsa importante di sostentamento. I pascoli servivano all’allevamento del bestiame, tenuto per lo più allo stato brado, mentre i querceti venivano sfruttati in quanto le ghiande fornivano il cibo per i suini. Oltre ai maiali erano allevate pecore e capre, che però venivano utilizzate soprattutto per ricavarne lana e latte. I bovini e gli equini erano invece molto scarsi e proprio per questo riservati al lavoro agricolo o ai trasporti. ■ 2.9 L’Italia durante la guerra tra Goti e Bizantini L’età di Teoderico nel complesso aveva significato un periodo di relativa ripresa economica per l’Italia dopo le traversie patite nel V secolo. L’agricoltura e il commercio poterono profittare del periodo di pace e di una migliorata viabilità. Anche i centri urbani presentano indizi di una rinnovata vitalità grazie all’impegno di Teoderico nel restauro degli edifici in rovina. La guerra greco-gotica, con i suoi spostamenti di truppe da una parte all’altra della penisola, vanificò la possibilità che la ripresa si consolidasse. Le città in cui si concentrava la resistenza ostrogota subirono gravi distruzioni del tessuto urbano, mentre la fame determinata dall’arresto della produzione agricola provocava a sua volta un drammatico calo demografico. (leggi testo pagina 519). CAPITOLO 3 – Bisanzio ■ 3.1 L’Impero d’Oriente fino al regno di Giustiniano Le vicende dell’Impero d’Oriente risultano distinte del tutto da quelle dell’Occidente a partire dal 395, dal momento cioè della divisione dell’Impero da parte di Teodosio I tra i suoi figli. Per la storiografia moderna si parla di ‘’storia bizantina’’, come storia con caratteristiche proprie che va dalla fondazione della nuova capitale da parte di Costantino nel 330 e alla sua presa da parte dei Turchi nel 1453. Nella partizione teodosiana l’Oriente era toccato ad Arcadio, un ragazzino come il fratello Onorio. Nel 399 una rivolta di Goti capeggiati da Gainas fu repressa dalla stessa popolazione di Costantinopoli che insorse contro di loro. Arbitro della situazione divenne il prefetto del pretorio Antemio. Alla morte di Arcadio nel 408, gli successe il figlio Teodosio II: durante il suo regno anche l’Impero d’Oriente dovette fronteggiare il pericolo barbarico, soprattutto degli Unni, che arrivarono a minacciare la stessa Costantinopoli. Nel complesso però l’Oriente riuscì ad uscire da questa difficile fase senza rilevanti perdite territoriali e mantenendo la propria compattezza interna. Teodosio II è ricordato per la sua attività di riordino della giurisprudenza: nel 438 d.C. promulgò la raccolta delle leggi imperiali di Diocleziano in poi che prese il nome di Codice Teodosiano. L’impero d’Orienete superò senza scosse anche la fase successiva, in cui sul trono si succedettero personaggi di estrazione diversa: Teodosio II era morto senza eredi e il suo successore, Marciano, 30 era stato scelto dal senato). A travagliare la vita interna di Bisanzio in questo periodo furono le controversie di natura religiosa relative alla natura del Cristo. Inoltre, durante i regni di Leone, 457-474, e del genero Zenone 474-491, si aggravarono notevolmente anche i problemi di natura finanziaria. La critica situazione interna fu affrontata con successo da Anastasio, 491-518, che realizzò un’importante opera di riforma delle strutture fiscali. Anastasio riuscì a bloccare un’offensiva lanciata dai Persiani tra il 502 e il 503. Ad Anastasio succedette Giustino e alla morte di questi nel 527 il nipote Giustiniano. ■ 3.2 Il regno di Giustiniano Il regno di Giustiniano, 527-565, per l’importanza delle riforme attuate e per l’ambizioso progetto di riunificazione dell’Impero, rappresenta per molti aspetti l’estrema conclusione del mondo antico. Il nome di Giustiniano è legato soprattutto alla sua attività di riordinamento della giurisprudenza. Nel 528 egli costituì una commissione, presieduta dal giurista Triboniano, che aveva il compito di predisporre una nuova raccolta di costituzioni imperiali. Tale raccolta apparve l’anno successivo, il Codex Iustinianus. Una seconda commissione fu incaricata di un’ampia scelta degli scritti dei più illustri giureconsulti. L’opera che ne scaturì nel 533, in 50 libri, è detta Digesto o Pandette. Nello stesso anno fu pubblicato una sorta di manuale, le Istituzioni, contenente i fondamentali principi giuridici ad uso degli studenti. L’insieme di queste parti forma il Corpus Iuris Civilis, che rappresenta il tramite fondamentale attraverso il quale la giurisprudenza romana è giunta sino a noi. Di grande rilievo fu anche l’attività edilizia di Giustiniano: la Chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli e la basilica di San Vitale a Ravenna. Forte impulso fu dato anche al commercio e a nuove attività economiche, tra le quali spicca la produzione della seta. L’imperatore non godette però del favore degli storici contemporanei, in particolare di Procopio, che gli rimproverava il ruolo importante giocato presso di lui dalla moglie Teodora, un’ex ballerina. Per le difficoltà interne all’inizio delo regno sappiamo di un tumulto scoppiato nel 532, noto come Nika, dal grido dei rivoltosi, e represso con estrema durezza. Un rilievo non secondario avevano le controversie dottrinali. La principale era quella che opponeva l’ortodossia, ribadita nel concilio di Calcedonia del 451 d.C., secondo la quale la natura umana e quella divina coesistono in Cristo e il credo monofisita, cui aderiva la stessa Teodora, particolarmente diffuso in Siria e Egitto, che accentuava la natura divina. Giustiniano da una parte aveva interesse a ricercare un’intesa con il papato per rafforzare il suo disegno universalistico, dall’altra, però doveva tener conto dei notevoli sostegni che il movimento monofisita godeva in Oriente. I problemi interni non distolsero però Giustiniano dal suo grande disegno di riconquista dell’Occidente. Già nel 533 il generale Belisario sconfisse l’ultimo sovrano vandalico Gelimero, cosa che fece sì che l’Africa del Nord, la Sardegna e la Corsica passassero sotto il controllo bizantino. Ben più lunga e difficile fu la guerra per il dominio dell’Italia, che durò dal 535 al 553. Il pretesto per l’intervento era stato fornito a Giustiniano dalla richiesta di aiuto di Amalasunta, che nel 535 fu fatta uccidere dal marito Teodato. I Goti, guidati prima da Vitige e poi da Totila, opposero forte resistenza all’esercito bizantino di Belisario, favoriti anche dalla minaccia persiana che era tornata a farsi sentire lungo il confine orientale. La guerra si concluse nel 552, quando Narsete, succeduto a Belisario, sconfisse Totila a Gualdo Tadino e poi l’anno successivo ebbe la meglio sul suo successore, Teia, in Campania. L’Italia diventava così una delle prefetture dell’Impero d’Oriente, posta sotto l’autorità del prefetto del pretorio d’Italia. Nel 554, Giustiniano emanò un provvedimento legislativo specifico, la Prammatica sanzione, con il quale stabiliva le modalità attraverso le quali andava ristabilita la via politica ed economica della penisola dopo il lungo periodo di guerra. Si tratta di un atto 31 fondamentale, attraverso il quale l’applicazione del diritto giustinianeo veniva estesa all’Occidente. La restaurazione giustinianea in Italia fu interrotta tre anni dopo la morte dell’Imperatore, nel 568, dall’arrivo dei Longobardi, dando inizio alla storia del Medioevo in Italia e in Europa. ■ 3.3 Costantinopoli Costantinopoli, la nuova capitale inaugurata da Costantino nel 330 al posto dell’antica Bisanzio sul Bosforo, già nel IV secolo contava una popolazione di 100mila abitanti. Già durante l’età giustinianea la popolazione in città contava mezzo milione di abitanti. Una tale densità abitativa si spiega con le distribuzioni gratuite di generi alimentari, ma soprattutto con un’intensa attività economica. Artigiani e commercianti, organizzati in apposite corporazioni, dovevano soddisfare con i loro prodotti le necessità degli impiegati, del clero, delle famiglie dell’ordine senatorio e del personale di corte. A Costantinopoli il re e la sua corte vivevano all’interno di un’area fortificata, isolati dal resto della città: la vita quotidiana del sovrano si svolgeva secondo un cerimoniale minuzioso, simile a una liturgia ecclesiastica, volto a enfatizzare la sacralità del potere imperiale in quanto immagine del divino. L’imperatore si mostrava al popolo solo nell’ippodromo o nella basilica di Santa Sofia. Tra le attrattive della vita a Costantinopoli c’erano le cerimonie e i giochi, con le tifoserie degli Azzurri e dei Verdi divisi in due fazioni, che portavano seri problemi di ordine pubblico. ■ 3.4 La società bizantina La società bizantina nasce nel momento in cui nel III secolo, l’Oriente dimostrò maggiore capacità di reazione e ripresa rispetto all’Occidente dell’Impero durante la crisi sociale, economica e politica che lo colpì. La società bizantina conobbe un’evoluzione complessa, anche in relazione alle molte trasformazioni subite per le mutate contingenze politiche. Si possono comunque cogliere alcuni caratteri particolari e permanenti che contribuirono a conferire dei connotati molto precisi alle relazioni sociali realizzate nell’Impero bizantino. Per quanto riguarda l’apparato burocratico il governo dell’Impero non è più retto da magistrati, ma da burocrati, cioè da funzionari con carriere e funzioni specifiche al servizio diretto dell’imperatore. Il funzionario è perciò una figura tipica della società bizantina. All’inizio dell’Impero d’Oriente l’imperatore conserva ancora i connotati del capo scelto per volontà popolare, com’era secondo la tradizione romana. Da parte sua l’esercito mantiene la propria posizione autonoma e la sua capacità di entrare in politica. Progressivamente però si rafforzò l’idea che l’investitura dell’imperatore fosse in realtà concessa dalla grazia di Dio. Il potere dell’imperatore, in quanto di origine divina, riuniva e legittimava tutti gli altri. Un altro aspetto tipicamente bizantino fu il complesso di simboli che circondavano il potere imperiale. In primo luogo, c’era il palazzo imperiale, poi l’ippodromo. In realtà però l’imperatore viveva in una residenza privata separata dal resto del palazza. Il rosso fiammeggiante della porpora, nelle vesti e nei decori, era il simbolo del potere imperiale. L’uso della porpora era infatti riservato solo all’imperatore e ai suoi stretti famigliari. L’inaccessibilità della persona dell’imperatore era fondamentale nell’ideologia bizantina del potere: la distanza tra il sovrano e il resto della società veniva costantemente ribadita. Gli abitanti dell’Impero erano sudditi e non cittadini, per ribadire come essi fossero servi dell’Imperatore. C’è una parola chiave che vale a esprimere il fondamento sul quale erano regolati i rapporti sociali nell’Impero bizantino: taxis. Taxis significa in greco ‘’ordine’’, ordine cosmico: quello terreno è solo un pallido riflesso dell’ordine celeste, ma proprio per questo esige che ciascuno rimanga nella condizione che gli è stata assegnata. Un ultimo ideale molto evidente nella società bizantina è il mimesis, ovvero dell’imitazione del modello. L’imperatore ha spesso un modello rappresentato da Gesù Cristo. ■ 3.5 La Chiesa Bizantina 32