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Storia romana, Geraci - Marcone, Sintesi del corso di Storia Romana

Riassunto del libro 'storia romana' di Geraci e Marcone, mancano i capitoli su Italia preromana ed etruschi. Università degli studi di Milano, professoressa Laura Mecella. Per favore, lascia una recensione!

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 22/01/2019

blochmarc
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4.6

(101)

102 documenti

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Scarica Storia romana, Geraci - Marcone e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! STORIA ROMANA, GERACI-MARCONE ROMA 3.1 La leggenda La versione più nota e diffusa della leggenda delle origini di Roma inserisce la fondazione di Alba Longa e la dinastia dei re albani tra l’arrivo di Enea nel Lazio e il regno di Romolo. Alba Longa è fondata dal figlio di Enea, Ascanio/Iulio, trent’anni dopo la fondazione di Lavinium, la città cui il padre dà il nome della moglie Lavinia. Secondo la leggenda il fondatore e primo re della città di Roma, Romolo, è figlio addirittura di Marte, il dio della guerra, e di Rea Silvia, che è, a sua volta, figlia di Numitore, ultimo re di Alba Longa, che era stato illegittimamente privato del trono dal fratello più giovane, Amulio. Enea durante le sue peregrinazioni dopo la caduta di Troia, era giunto fino a Cartagine dove aveva conosciuto la regina Didone: quando Enea aveva deciso di ripartire, Didone, che si era innamorata di lui, non riuscendo a trattenerlo presso di sé, giurò che un odio eterno avrebbe contrapposto Cartagine a quella città che Enea e i suoi discendenti si preparavano a fondare nel Lazio. 3.2 I sette re di Roma Il periodo monarchico della storia di Roma, dal 753 a.C., l’anno di presunta fondazione della città secondo Varrone, al 509 a.C., anno dell’instaurazione della Repubblica. In questo periodo su Roma avrebbero regnato sette re, secondo questa successione: 1. Romolo → fondatore, prime istituzioni politiche (Senato di 100 membri) 2. Numa Pompilio → prime istituzioni religiose 3. Tullo Ostilio → campagne di conquista, distruzione di Alba Longa 4. Anco Marcio → fondazione di Ostia 5. Tarquinio Prisco → secondo il racconto della tradizione è figlio di un greco ordinario di Corinto, Demarato, che, arrivato a Tarquinia, sposa una giovane appartenente all’aristocrazia locale; alla morte del padre ne eredita le ingenti ricchezze, ma la sua origine straniera gli impedisce di accedere al governo della città. Il giovane decide allora di trasferirsi a Roma, che godeva fama di accogliere generosamente gli stranieri; una volta giuntovi si guadagna il favore di Anco Marcio e alla morte del re viene eletto suo successore. Aumento del numero dei senatori. 6. Servio Tullio → nato da una schiava di nome Ocresia e da un Tullio signore di Cornicoli, Servio, molto caro a Tanaquilla, moglie di Tarquinio, fu educato alla corte del re, del quale sposò una delle figlie. Quando Tarquinio fu assassinato dai figli di Anco Marcio, Servio assunse i poteri regi senza che però la sua successione fosse pienamente legittima in mancanza della nomina da parte di un interrex. Un evento prodigioso lo segnala come predestinato a una sorte fuori del comune: delle fiamme, sprigionate senza nessuna causa apparente intorno al suo capo mentre dormiva, non gli causano alcun male. Da allora gode di particolare protezione a corte. Prime mura. Introduzione dell’ordinamento centuriato. Istituzione delle 4 tribù territoriali (urbane). Introduzione di molti usi connessi alla moneta. 7. Tarquinio il Superbo → la sua figura riceve i connotati tipici del tiranno greco. Promotore di grandi opere pubbliche e di una politica espansionistica, era inviso al popolo. Sempre secondo la tradizione fu cacciato da una congiura capeggiata da Publio Valerio, detto Publicola che avrebbe instaurato il regime repubblicano. 3.11 Lo Stato romano arcaico Tutte le famiglie che riconoscevano di avere un antenato comune costituivano la gens, un gruppo organizzato politicamente e religiosamente. La popolazione dello Stato romano arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari, detti curie: le curie comprendevano tutti gli abitanti del territorio, ad esclusione degli schiavi. Tribù → esse originariamente erano 3: Tities, Ramnes e Luceres. Periodo del predominio etrusco, lo Stato romano si organizzò secondo criteri più precisi: ogni tribù fu divisa in dieci curie e da ogni tribù furono scelti cento senatori (trecento in tutto erano quelli che costituivano la prima assemblea degli anziani). Su questo modello si fondò anche l’organizzazione militare: ogni tribù era infatti tenuta a fornire un contingente di cavalleria e uno di fanteria rispettivamente di cento e mille uomini. La componente fondamentale dell’esercito, la legione, risultava quindi composta da tremila fanti e da trecento cavalieri (celeres). 3.12 La monarchia romana La caratteristica principale della monarchia romana era quella di essere elettiva: l’elezione del re era infatti demandata all’assemblea dei rappresentanti delle famiglie più in vista. Originariamente il re doveva essere affiancato nelle sue funzioni da un consiglio di anziani composto dai capi di quelle più nobili e ricche (chiamati patres); questi uomini rappresentavano il nucleo di quello che poi sarebbe stato il Senato. Esistenza di un sacerdote che portava il nome di rex sacrorum e che aveva il compito di dare realizzazione ai riti prima eseguiti dal re; con il termine interrex veniva definito il magistrato che subentrava nel caso di indisponibilità di entrambi i consoli. Il re era anche il supremo capo religioso e nella celebrazione del culto veniva affiancato dai collegi dei sacerdoti. Tra questi, particolarmente importante fu quello dei pontefici: costoro, infatti, erano i depositari e gli interpreti delle norme giuridiche, prima che si giungesse alla redazione di un corpus di leggi scritte. Il collegio degli auguri aveva invece il compito di interpretare la volontà divina allo scopo di propiziarsela; quello delle vestali era composto da donne votate ad una castità trentennale, il cui compito era di custorie il fuoco sacro che ardeva perpetuamente nel tempo della dea Vesta. LA NASCITA DELLA REPUBBLICA 1.1 La tradizione storiografica sulla nascita della Repubblica Sesto Tarquinio, figlio dell’ultimo re etrusco di Roma, respinto dall’aristocratica Lucrezia, violenta la giovane, la quale, prima di suicidarsi, narra il misfatto al padre, Spurio Lucrezio, al marito Lucio Tarquinio Collatino e ai loro amici Lucio Giunio Bruto e Publio Valerio Publicola. Guidata da questi aristocratici, scoppia una rivolta che porta alla caduta della monarchia, un evento canonicamente datato al 510 a.C. Tarquinio il Superbo, in quel momento impegnato in operazioni militari attorno ad Ardea, non è in grado di rispondere con prontezza. Nell’anno successivo, il 509 a.C., primo della Repubblica, i poteri del re passano dunque a due magistrati eletti dal popolo, i consoli, uno dei quali è lo stesso Bruto. Il tentativo intrapreso da Porsenna, re della città etrusca di Chiusi, di restaurare il potere di Tarquinio su Roma viene frustrato dall’eroismo della neonata Repubblica. Le magistrature in età repubblicana → 1 anno → in origine forse designati dai consoli, poi eletti dai comizi tributi → competenze finanziarie QUAESTORES PARRICIDII → istituire processi per i delitti che coinvolgessero i parenti DUOVIRI PERDUELLONIS → reato di alto tradimento I sacerdozi e la sfera pubblica La medesima persona poteva rivestire contemporaneamente una magistratura e un sacerdozio. Mancanza di una casta sacerdotale separata dal potere politico. REX SACRORUM → eredita alcune competenze religiose del monarca, non poteva rivestire cariche di natura politica FLAMINI → più che essere i sacerdoti di una divinità, rappresentavano la personificazione terrena del dio stesso; 12 flamini minori addetti al culto di altrettante divinità. COLLEGIO DEI PONTEFICI → guidato da un pontefice massimo, massima autorità religiosa dello Stato → nomina dei 3 flamini maggiori → controllo sulla tradizione e interpretazione delle norme giuridiche → controllo sul calendario → si diviene pontifex per cooptazione (scelto dagli altri membri del collegio) → carica a vita COLLEGIO DEGLI AUGURI → funzione di assistere i magistrati nel loro compito di trarre gli auspici e di interpretare la volontà degli dei, affinché un atto pubblico potesse essere considerato valido. DUOVIRI SACRIS FACIUNDIS → custodi dei libri sibillini (raccolta di oracoli in greco) ARUSPICI → incaricati di chiarire la volontà divina mediante l’esame delle viscere delle vittime sacrificali FEZIALI → dichiarare guerra attenendosi a un cerimoniale, assicurando a Roma il favore degli dei (Bellum Istum, guerra dichiarata secondo le corrette formalità); trasmettere una richiesta di riparazione o un ultimatum e conclusione di un trattato 1.9 Il Senato Periodo repubblicano → la composizione era decisa dai consoli prima, dai censori poi, che ne completavano i ranghi attingendo tra gli ex magistrati Auctoritas patrum → diritto di sanzione Carica vitalizia. Dal momento che era composto da ex magistrati, questi non avevano alcun interesse ad agire in contrasto con l’assemblea di cui stavano per entrare a fare parte. Il potere politico del Senato crebbe grazie al controllo sulle campagne militari. 1.10 La cittadinanza e le assemblee popolari Il terzo pilastro, oltre alle magistrature e al senato, sul quale si resse l’edificio istituzionale della Roma repubblicana è costituito dalle assemblee popolari. Non tutta la popolazione dello Stato romano poteva far parte di questi organismi, che erano riservati ai maschi adulti di libera condizione e in possesso del diritto di cittadinanza. Si diveniva cittadini romani essenzialmente per diritto di nascita, in quanto figli legittimi di padre in possesso della piena cittadinanza, ma anche in quanto figli illegittimi di una donna che aveva i diritti civici. Un tratto assai caratteristico dell’assetto istituzionale di Roma è dato dall’esistenza non di un’unica assemblea popolare, ma di almeno quattro organi di questo tipo: comizi curiati, comizi centuriati, comizi tributi e concili della plebe. Assemblee Unità di voto Composizione Presidenza Competenze Comizi curiati 30 curie, su base territoriale o gentilizia Tutta la cittadinanza, rappresentata da 30 littori (uno per curia) Console o pretore Conferimento ufficiale dei poteri ai nuovi magistrati con la lex curiata de imperio. Ratifica di adozioni e testamenti. Comizi centuriati 193 o 194 centurie, su base censitaria; il meccanismo dei comizi centuriati prevede che le risoluzioni siano prese non a maggioranza dei voti individuali, ma a maggioranza delle unità di voto costituite dalle centurie, assicurando così un consistente vantaggio all’elemento più facoltoso e più anziano. Tutta la cittadinanza Console o pretore Elezione di consoli, pretori e censori. Attività legislativa, sostanzialmente limitata alle materie di diritto internazionale. Comizi tributi 35 tribù, su base territoriale (delle quali 4 urbane e 31 rustiche; il numero delle tribù urbane, nonostante il forte aumento Tutta la cittadinanza Console o pretore Elezione di questori ed edili curuli. Attività legislativa (leges) della popolazione delle città di Roma, rimase sempre fissato al numero di 4, stabilito secondo la tradizione da Servio Tullio, mentre il numero delle tribù rustiche si accrebbe dalle 16 di età regia fino a raggiungere le 31 nel 241 a.C. in tal modo la popolazione delle campagne si trovò ad avere nei comizi tributi un peso maggiore rispetto alla popolazione urbana Concilia plebis tributa Originariamente, forse, le 30 curie, poi le 35 tribù, su base territoriale (delle quali 4 urbane e 31 rustiche) La plebe Tribuni della plebe, edili plebei Elezione di tribuni della plebe ed edili plebei. Attività legislativa (plebiscita) IL CONFLITTO TRA PATRIZI E PLEBEI Periodo che va dalla nascita della Repubblica al 287 a.C. è dominato dai contrasti civili che opposero due parti della popolazione, il patriziato e la plebe. 2.1 Il problema economico Davanti alla crisi economica, le richieste della plebe concernevano una mitigazione delle norme sui debiti, in particolare riguardanti il tasso massimo di interesse e la condizione dei debitori insolventi, e una più equa distribuzione dei terreni di proprietà dello Stato, l’ager publicus. 2.2 Il problema politico Gli strati più ricchi della plebe erano meno interessati dalla crisi economica. Ciò che essi soprattutto rivendicavano era una parificazione dei diritti politici tra i due ordini. Una seconda importante rivendicazione di ordine politico era quella di un codice scritto di leggi. 2.3 Le strutture militari e la coscienza della plebe Il plebiscito fatto votare da Caio Canuleio, riconoscendo la legittimità dei matrimoni misti tra patrizi e plebei, ebbe come conseguenza di rimuovere la principale obiezione che il patriziato aveva opposto all’accesso dei plebei al consolato: solo i patrizi in effetti si ritenevano titolari del diritto di prendere gli auspici per accertare la volontà degli dèi. Diveniva pertanto difficile escludere un plebeo, dagli auspicia e, di conseguenza, dal consolato. Il patriziato, visto minacciato il suo monopolio sul consolato, ricorre a un espediente: a partire dal 444 a.C., di anno in anno, il senato decide se alla testa dello Stato ci debbano essere due consoli, con il diritto di prendere gli auspici e provenienti esclusivamente dal patriziato, oppure un certo numero di tribuni militari con poteri consolari (tribuni militum consulari potestate), inizialmente tre, poi sempre più spesso quattro o addirittura sei, che possono anche essere plebei, ma non hanno il potere di trarre gli auspici. Il nuovo ordinamento istituzionale rimane in vigore fino al 367 a.C. 2.7 Le leggi Licinie Sestie La crisi si accelerò dopo che la minaccia dei Galli si era allontanata da Roma. Nel 387 a.C., per rispondere alla fame di terra della plebe indigente, parte del territorio di Veio e di Capena, conquistato pochi anni prima, viene suddiviso in piccoli appezzamenti e distribuito ai cittadini romani, con la creazione di ben quattro nuove tribù territoriali. Il provvedimento del 387 a.C. dunque non fu sufficiente a risolvere la crisi economica: pochi anni dopo il patrizio M. Manlio Capitolino, eroe della resistenza contro i Galli, dopo essere intervenuto con il proprio patrimonio personale per alleviare la condizione dei debitori, propose una riduzione o la totale cancellazione dei debiti a una nuova legge agraria, sperando in tal modo, secondo le accuse dei suoi avversari, di inaugurare un regime personale. Ancora una volta, come era avvenuto ai tempi di Sp. Cassio e Sp. Melio, davanti alla minaccia della tirannide si rinsaldò un fronte patrizio-plebeo, che portò alla rapida liquidazione di Capitolino. Licinio e Sestio presentarono un ambizioso pacchetto di proposte concernenti il problema dei debiti, la distribuzione delle terre di proprietà statale e l’accesso dei plebei al consolato. I patrizi resistettero, riuscendo a guadagnarsi per più anni l’appoggio di un qualche tribuno della plebe, che sistematicamente opponeva il proprio veto alle proposte dei suoi stessi colleghi. Nel 367 a.C il vecchio Marco Furio Camillo, eroe della guerra contro Veio vendicatore del sacco gallico venne chiamato alla dittatura per sciogliere una situazione divenuta ormai insostenibile. Le proposte di Licinio e Sestio assunsero dunque valore di legge. Una prima legge in particolare prevedeva che gli interessi dei debitori che avevano già pagato sulle somme avute in prestito potessero essere detratti dal totale del capitale dovuto e che il debito residuo fosse estinguibile in tre rate annuali. Un secondo provvedimento stabiliva inoltre un’estensione massima di terreno di proprietà demaniale che poteva essere occupato da un privato: le fonti parlano di una misura di 500 iugeri. Il provvedimento fatto passare da Licinio e Sesto introdusse per la prima volta una limitazione all’ampiezza dei campi di proprietà pubblica che potevano essere occupati in privato. La legge che si limitava a imporre una multa a chi si fosse impadronito di una quota eccedente la misura massima stabilita, senza mettere in atto una procedura di confisca e ridistribuzione. Infine una terza legge del pacchetto sanciva l’abolizione del tribunato militare con potestà consolare e la completa reintegrazione alla testa dello Stato dei consoli, uno dei quali avrebbe dovuto essere sempre plebeo. Nel 366 a.C. vennero infatti create due nuove cariche, inizialmente riservate ai soli patrizi. → il pretore e gli edili curuli. 2.8 Verso un nuovo equilibrio Le leggi Licinie Sestie del 367 a.C, segnarono la fine della fase più acuta della contrapposizione tra patrizi e plebei. Nei decenni successivi i plebei ebbero progressivamente accesso a tutte le altre cariche dello Stato. Nel 339 a.C. il dittatore plebeo Quinto Publilio Filone fece passare una legge in base alla quale il senato doveva ratificare un provvedimento legislativo prima che questo venisse votato, togliendo in pratica al senato il suo diritto di veto. Il diritto di accesso alle magistrature da parte dei plebei comportò anche il loro progressivo ingresso nel senato, reclutato tra gli ex magistrati. 2.9 La censura di Appio Claudio Cieco Le conquiste della plebe della seconda metà del IV sec. a.C. non devono indurre a ritenere che il processo di riforme abbia proceduto in modo lineare e senza opposizioni: nel 314 a.C. Publilio Filone, che si era distinto come leader della fazione democratica, venne accusato di aver preso parte a una congiura e scomparve dalla scena politica. Appio Claudio Cieco, in occasione della sua censura del 312-311 a.C., nel compilare la lista dei senatori, vi avrebbe incluso anche persone certo abbienti, ma che tuttavia non avevano ancora rivestito alcuna magistratura. Una seconda misura riguardò la composizione delle tribù: il suo scopo era certo quello di favorire i membri della plebe urbana, che costituivano la maggioranza dei votanti e tra i quali non pochi erano gli ex schiavi, consentendo loro di iscriversi in una qualsiasi delle unità esistenti, mentre in precedenza essi erano obbligati a registrarsi nelle sole quattro tribù urbane, con la conseguenza che il loro peso nei comizi tributi era assolutamente minoritario. Entrambe le riforme incontrarono una decisa opposizione: i consoli del 311 a.C. infatti rifiutarono di riconoscere la nuova lista di senatori stilata da Appio Claudio e continuarono a convocare il senato sulla base dei vecchi elenchi. Nel 304 a.C., inoltre, i nuovi censori confinarono ancora una volta la plebe di Roma nelle sole quattro tribù urbane. Il censo dei singoli cittadini, sino ad allora calcolato in base ai terreni e ai capi di bestiame posseduti, fu valutato a partire da questa età anche in base al capitale mobile, in metallo prezioso, consentendo anche a coloro che non erano impegnati nelle tradizionali attività agricole e dell’allevamento (dunque in primo luogo a commercianti e artigiani della plebe urbana) di vedere il proprio peso economico, e quindi politico, adeguatamente riconosciuto nell’ordinamento centuriato. È opportuno ricordare che in questi stessi anni per la prima volta Roma conia una vera e propria moneta. Cneo Flavo riuscì a farsi eleggere edile curule per l’anno 304 a.C, → iniziativa di pubblicare le formule giuridiche che era necessario impiegare nei processi (Ius civile Flavianum). Direttamente alla censura di Appio Claudio è infine da attribuire la costruzione di due opere pubbliche di importanza epocale per Roma: il primo acquedotto della città e la via che congiungeva Roma a Capua (via Appia). 2.10 La legge Ortensia La promulgazione della legge Ortensia → 287 a.C. venne considerato il punto di arrivo della lunga lotta fra patrizi e plebei; provvedimento secondo il quale i plebisciti votati dall’assemblea della plebe dovevano avere per tutta la cittadinanza di Roma. La Lex Hortensia equiparò completamente i plebiscita alle leggi votate dai comizi centuriati e dai comizi tributi. Le due assemblee peraltro rimasero distinte dai magistrati che avevano il diritto di convocarle e presiederle: i consoli o i pretori per quanto concerne i comizi tributi, i tribuni o gli edili della plebe per quanto riguarda i concili plebei. 2.11 La nobilitas patrizio-plebea Molte delle vecchie stirpi patrizie videro il loro potere eclissarsi e al loro posto si venne formando progressivamente una nuova aristocrazia, formata dalle famiglie plebee più ricche e influenti e dalle stirpi patrizie che meglio avevano saputo adattarsi alla nuova situazione e unita da vincoli familiari e ideali da interessi comuni. A questa nuova elite si è soliti dare il nome di nobilitas; venne a designare tutti coloro che avevano raggiunto il consolato (e probabilmente, almeno in un primo periodo, la pretura) o che discendevano in linea diretta da un console (o da un pretore). Tanto esclusiva divenne la nobilitas che per i pochi personaggi che raggiunsero i vertici della carriera politica pur non avendo antenati nobili venne coniata una definizione specifica, quella di homines novi. LA CONQUISTA DELL’ITALIA 3.1 La situazione del Lazio alla caduta della monarchia di Roma Alla caduta della monarchia etrusca Roma, secondo la tradizione letteraria, controllava nell’antico Lazio un territorio che si estendeva dal Tevere alla regione Pontina. Primo trattato romano-cartaginese, risalente, secondo Polibio, al primo anno della Repubblica. In questo documento i Cartaginesi si impegnavano a non attaccare Ardea, Anzio, Lavinio, Circei e Terracina e ogni altra città del Lazio soggetta a Roma; per quanto concerneva le città latine non soggette a Roma, se un esercito punico le avesse conquistate, avrebbe dovuto consegnarle all’alleato. Tra la fine del VI e l’inizio del V secolo a.C. questa lunga e faticosa realizzazione rischiò seriamente di crollare: buona parte delle città latine approfittarono infatti delle difficoltà interne di Roma per affrancarsi dalla sua egemonia. Queste città appaiono ora strette in una lega (Lega latina). Lo ius connubii, il diritto di contrarre matrimoni legittimi con cittadini di altre comunità latine, lo ius commercii, il diritto di siglare contratti aventi valore legale fra cittadini appartenenti a comunità diverse. E infine lo ius migrationis, grazie al quale un latino poteva assumere i pieni diritti civici in una comunità diversa da quella in cui era nato semplicemente prendendovi residenza. 3.1 La battaglia del lago Regillo e il foedus Cassianum La Lega latina diede buona prova sul campo di battaglia sconfiggendo, insieme ad Aristodemo di Cuma, il figlio di Porsenna, Arrunte, nella già ricordata battaglia di Aricia. Qualche anno dopo la Lega tentò di affermarsi definitivamente attaccando Roma. In una battaglia combattuta nel 496 a.C. sul lago Regillo i Romani, affidato il comando al dittatore Aulo Postumio Albo, sconfissero le forze congiunte della Lega e degli esuli romani che sostenevano Tarquinio. Tra gli esiti dello scontro si ebbe l’uscita di scena di Tarquinio, ma soprattutto la conclusione di un trattato che avrebbe regolato i rapporti tra Roma e i Latini per i successivi 150 anni. Il trattato, siglato nel 493 a.C. da parte romana dal console di quell’anno, Sp. Cassio, e dunque noto come trattato Cassiano (foedus Cassianum) prevedeva un accordo bilaterale tra Roma e la Lega latina; le due parti si impegnavano tra di loro non solo a mantenere la pace e a comporre amichevolmente eventuali dispute commerciali, ma anche a prestarsi aiuto nel caso una delle due parti fosse stata attaccata. L’eventuale bottino delle campagne di guerra comuni sarebbe stato equamente suddiviso. È chiaro che gli alleati si riconoscevano reciprocamente i diritti che abbiamo visto valere all’interno della Lega latina. duramente colpita dall’attacco dei Galli. Nell’ambito di queste operazioni nel 381 a.C. la città latina di Tusculo, una delle comunità che si erano schierate dalla parte dei Volsci, dopo essere stata costretta alla resa venne annessa al territorio romano, senza tuttavia che la sua identità venisse cancellata. La città conservò infatti le sue strutture di governo e la sua autonomia interna, ma ai suoi abitanti vennero assegnati i medesimi diritti e doveri dei cittadini romani; in altre parole Tusculo divenne il primo municipium. Nel 358 a.C. i Volsci furono costretti a cedere definitivamente la piana Pontina, gli Ernici parte dei loro territori nella valle del fiume Sacco. In questo anno abbiamo anche notizia di un rinnovo del Foedus Cassianum. Nel 354 a.C. cessò anche la resistenza delle due più potenti città latine ribelli, Tivoli e Preneste. 3.7 Il primo confronto con i Sanniti La posizione di potere raggiunta da Roma nel Lazio meridionale trova espressione nel trattato che venne concluso con i Sanniti nel 354 a.C., nel quale il confine tra le zone di egemonia delle due potenze veniva probabilmente fissato al fiume Liri. I Sanniti occupavano un’area assai più vasta di quella controllata in quegli anni da Roma. Essa si estendeva lungo la catena appenninica centro- meridionale, tra i fiumi Sangro e Ofanto Le quattro tribù dei Carracini, dei Pentri, dei Caudini e degli Irpini formavano la Lega sannitica, che possedeva una sorta di assemblea federale e poteva nominare, in caso di guerra, un comandante supremo. Abbiamo visto come, nel corso del V secolo a.C., alcune popolazioni staccatesi dai Sanniti avessero occupato le ricche regioni costiere della Campania: qui, sotto l’influenza di Etruschi e Greci, esse si allontanarono progressivamente, dal punto di vista culturale e politico, dai loro connazionali rimasti nel Sannio, adottando tra l’altro l’organizzazione politica della città-Stato. Alcune città-Stato della Campania settentrionale si erano riunite, nella prima metà del IV secolo a.C. in una Lega campana, che aveva il suo centro principale nella grande città di Capua. Nonostante le affinità etniche, i contrasti politici tra Sanniti e Campani si vennero sempre più acuendo. La tensione sfociò in guerra aperta nel 343 a.C., quando i Sanniti attaccarono la città di Teano, nella Campania settentrionale, occupata da un’altra popolazione osco-sabellica, i Sidicini. Costoro si rivolsero per aiuto a Capua, la quale, a sua volta incapace di fronteggiare l’offensiva dei Sanniti, chiese l’aiuto a Roma. La decisione di intervenire contro i Sanniti, contravvenendo al trattato da poco concluso, sarebbe venuta secondo Livio solamente quando i Capuani, disperati, decisero di consegnarsi totalmente a Roma con la procedura formale della deditio in fidem (letteralmente il consegnarsi alla mercè), che generava l’obbligo di difenderli come cosa propria. La prima guerra sannitica (343-341 a.C.) si risolse rapidamente con un parziale successo dei Romani, che già nel primo anno di guerra sconfissero il nemico a Capua, costringendolo a togliere l’assedio della città. Roma d’altra parte non fu in grado di proseguire energicamente l’offensiva a causa di una rivolta dell’esercito impegnato in Campania, dunque acconsentì alle richieste di pace avanzate dai Sanniti nel 341 a.C.: il trattato rinnovava l’alleanza del 354 a.C., riconoscendo a Roma la Campania e ai Sanniti Teano. 3.8 La grande guerra latina e gli strumenti dell’egemonia romana sull’Italia L’accordo del 341 a.C. portò ad un sorprendente ribaltamento delle alleanze, costringendo Roma, sostenuta dai Sanniti, a fronteggiare i suoi vecchi alleati Latini, Campani e Sidicini, cui si aggiunsero gli eterni nemici, i Volsci, e una popolazione osco-sabellica, gli Aurunci. Conflitto (341-338 a.C.), noto come grande guerra latina; alla fine il successo arrise a Roma. La Lega latina venne disciolta: alcune delle città che ne avevano fatto parte, come per esempio Lanuvium, Aricia e Nomentum, vennero semplicemente incorporate nell’ager Romanus, lo Stato romano in senso stretto, in qualità di municipi. Altre, come per esempio Ardea, conservarono la propria indipendenza formale e i consueti diritti di connubium, commercium e migratio con Roma, ma non poterono più intrattenere alcuna relazione tra di loro. Il dato fondamentale resta comunque che lo status di Latino perse la sua connotazione etnica e venne semplicemente a designare una condizione giuridica in rapporto con i cittadini romani. Dal punto di vista dei doveri le comunità latine vecchie e nuove furono obbligate unicamente a fornire truppe a Roma in caso di necessità. I Latini ottennero peraltro il diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma nel caso si fossero trovati in città nel momento in cui venivano convocati i comizi, pratica che è attestata per la prima volta nel 212 a.C. La nuova concezione dello status latino è chiaramente dimostrata dal caso di due tra le città che si erano ribellate a Roma, Tivoli e Preneste: nonostante gli abitanti delle due città fossero di etnia latina, essi vennero privati dei privilegi di connubium, commercium e migratio e divennero semplici alleati (socii) di Roma. Il rapporto veniva creato da trattati (in latino foedera) che, pur lasciando alle comunità alleate una completa autonomia interna per quanto concerneva le magistrature, le norme giuridiche, la lingua e i culti, le legavano strettamente alla potenza egemone per quanto concerneva la politica estera e le obbligavano a fornire in caso di guerra un contingente di truppe, la cui consistenza era stabilita dagli stessi trattati. Al di fuori dell’antico Lazio, in particolare nelle città dei Volsci e dei Campani, Roma attuò la concessione di una forma parziale di cittadinanza romana, la civitas sine suffragio. I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani, in particolare a prestare il servizio di leva e a pagare il tributum, ma non avevano diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma, né potevano essere eletti alle magistrature dello Stato romano; per il resto potevano conservare un’ampia autonomia interna. Si deve inoltre aggiungere che la condizione delle comunità senza diritto di voto nei fatti si rivelò solamente transitoria: progressivamente la civitas sine suffragio venne trasformata in civitas optimo iure, una cittadinanza con pieni diritti. Ad Anzio, infine venne creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono la piena cittadinanza romana → coloniae civium Romanorum. Un rapporto del tutto peculiare fu quello che si costituiva in seguito a deditio, cioè alla totale consegna di sé da parte di singole comunità ai Romani, sottomissione volontaria che in taluni casi si verificò addirittura senza guerra. La deditio non sempre sfociava in un foedus formale e creava una situazione intermedia tra l’amicitia e la clientela, che comportava per Roma un obbligo di tutela e di difesa, contemporaneamente non annullando l’autonomia delle entità deditae né tanto meno determinando la loro formale incorporazione nel territorio romano. Alla conclusione della grande guerra latina Roma aveva dunque legato a sé, secondo forme e gradi di dipendenza differenti, tutte le regioni che andavano dalla sponda sinistra del Tevere a nord, al golfo di Napoli a sud, del Tirreno a ovest, ai contrafforti degli Appennini a est. 3.9 La seconda guerra sannitica La fondazione di colonie di diritto latino a Cales, nel territorio strappato qualche anno prima agli Aurunci, e soprattutto a Fregelle, sulla sponda orientale del fiume Sacco, in un’area che i Sanniti consideravano di propria pertinenza, provocò una nuova crisi nei rapporti tra le due potenze. La causa concreta della seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) è da ricercare però nelle divisioni interne di Napoli. A Napoli si fronteggiavano le masse popolari, favorevoli ai Sanniti, e le classi più agiate, di sentimenti filoromani. Nei primi anni le sorti del conflitto furono favorevoli ai Romani, che riuscirono abbastanza rapidamente a sconfiggere la guarnigione che i Sanniti avevano installato a Napoli e a conquistare la città. Protagonista delle operazioni in questa prima fase fu il più volte citato Publilio filone, che nel 326 a.C. si vide prorogato il comando con il titolo di proconsul: siamo davanti al primo caso di proroga dell’imperium di un magistrato superiore oltre i limiti di tempo prefissati, su decisione del Senato. Se Filone aveva colto un importante successo in Campania, il seguente tentativo di penetrare a fondo nel Sannio e di raggiungere Luceria, coinvolgendo così le comunità della Puglia settentrionale in un’alleanza antisannita, si risolse in un clamoroso fallimento: nel 321 a.C. gli eserciti romani vennero circondati al passo delle Forche Caudine e costretti alla resa. La grave battuta d’arresto per i romani in realtà fu seguita, anche se forse non immediatamente, da un’interruzione nelle opere militari. I Romani approfittarono di questo intervallo per compensare la perdita di Cales e Fregelle, avvenuta a seguito della sconfitta del 321 a.C., rinforzando le proprie posizioni in Campania, dove vennero create due nuove tribù e allacciando una serie di trattati di alleanza con le comunità dell’Apulia e della Lucania, in particolare Arpi e Canosa, nella speranza di isolare e circondare la Lega sannitica. Le ostilità si riaccesero nel 316 a.C. per responsabilità dei Romani, che attaccarono la località di Saticula, ai confini tra la Campania e il Sannio: le prime operazioni furono nuovamente favorevoli ai Sanniti. Negli anni successivi, tuttavia, Roma iniziò a recuperare il terreno perduto. Saticula fu conquistata nello stesso 315 a.C., Fregelle venne ripresa, una serie di colonie latine, tra le quali la più importante fu quella di Luceria, fondata nell’Apulia settentrionale nel 312 a.C., iniziò a cingere il Sannio in una sorta di assedio. Allo stesso tempo le comunicazioni con la Campania furono ristabilite e migliorate grazie alla costruzione del primo tratto, tra Roma e Capua, della via Appia. Fu probabilmente in questi stessi anni che Roma procedette a una riforma del suo esercito per il confronto finale con i Sanniti. La legione venne allora suddivisa in 30 reparti, detti manipoli, risultato della riunione di due centurie. In questo periodo di centuria aveva perso il suo significato etimologico di unità di 100 uomini e comprendeva di fatto circa 60 soldati; ogni manipolo comprendeva dunque intorno ai 120 uomini. La legione veniva schierata su tre linee, ciascuna delle quali era composta da 10 manipoli. L’ordinamento manipolare era dunque in grado di assicurare una maggiore flessibilità all’esercito romano impegnato nelle regioni montuose dell’Italia centro-meridionale. Negli stessi anni cambiò anche l’equipaggiamento dei legionari, che adottarono lo scudo rettangolare e il giavellotto in uso presso gli stessi Sanniti. Roma fu così in grado di affrontare una minaccia su due fronti: a sud contro i Sanniti, a nord contro una coalizione di Stati etruschi, tra i quali verosimilmente le maggiori città dell’Etruria interna. L’esercito etrusco tuttavia fu rapidamente bloccato e le città ostili a Roma vennero costrette a siglare una tregua nel 308 a.C. Scongiurato per il momento il pericolo etrusco, gli eserciti romani poterono concentrare il proprio sforzo contro il Sannio, coronato dalla conquista di Boviano e dalla grande vittoria nella battaglia di Aquilonia. La pace del 304 a.C. portò al rinnovo del trattato di alleanza tra Roma e i Sanniti del 354 a.C., ma Roma tornò definitivamente in possesso di Fregelle e Cales. Ma i vantaggi territoriali più consistenti si ebbero nella regione degli Appennini centrali, a seguito delle operazioni militari che accompagnarono l’ultima fase della seconda guerra sannitica. Alcune Con abile mossa politica, il re diede alla sua spedizione il carattere di una sorta di crociata in difesa dei Greci d’occidente, minacciati dai barbari romani e cartaginesi, procurandosi così il fattivo appoggio di tutte le potenze ellenistiche. Nel 280 a.C. Pirro sbarcò in Italia contando anche sulle truppe che potevano fornirgli Taranto e le popolazioni italiche che sperava di poter portare dalla sua parte. Per affrontare questo temibile schieramento, Roma si vide costretta ad arruolare per la prima volta i capite censi. Nonostante la superiorità numerica, i Romani subirono una sanguinosa sconfitta a Eraclea, in Lucania. Ben presto l’alleanza fu completata dai Sanniti che, per la quarta volta in settant’anni, presero le armi contro i Romani. Ciò nonostante Pirro non seppe cogliere i frutti del suo successo strategico: il suo tentativo di suscitare una ribellione tra gli alleati di Roma nell’Italia centrale e di collegarsi con gli Etruschi fallì. L’esercito epirota d’altra parte era assolutamente insufficiente per assediare la città nemica, ben difesa dalle sue lunghe mura. Per questo motivo Pirro decise di intavolare trattative di pace. L’epirota chiedeva libertà e autonomia per le città greche dell’Italia meridionale e la restituzione dei territori strappati a Lucani, Bruzi e Sanniti: richieste dure, che tuttavia, a dimostrazione delle difficoltà in cui si trovava Roma, vennero prese in seria considerazione dal senato e furono respinte solamente dopo l’intervento del vecchio Appio Claudio Cieco. In risposta al fallimento delle trattative Pirro, dopo aver rafforzato il suo esercito reclutando mercenari, mosse verso l’Apulia settentrionale, minacciando le colonie latine di Venosa e Luceria. Lo scontro con il nuovo esercito romano inviato per bloccare la sua avanzata avvenne ad Ausculum (l’odierna Ascoli Satriano), sulle rive del fiume Ofanto, nel 279 a.C.: ancora una volta la vittoria fu del re dei Molossi. Pirro aveva vinto due grandi battaglie, ma non riusciva a concludere la guerra. Per questo motivo Pirro accolse le domande di aiuto che gli venivano da Siracusa: la città, a causa dei dissensi interni, non era infatti più in grado di sostenere da sola la lotta, ormai secolare, con i Cartaginesi per il dominio della Sicilia. Pirro ritenne che il possesso di quella grande e ricchissima isola. Avrebbe grandemente accresciuto la sua potenza, consentendogli di imprimere una svolta decisiva anche alla guerra contro Roma; d’altra parte, se avesse rifiutato di accorrere in aiuto di Siracusa, tutta la sua costruzione propagandistica, lasciando peraltro una forte guarnigione a Taranto. Le prospettive del re del Molossi tuttavia erano sempre assai precarie, dal momento che nello stesso anno 279 a.C. Roma e Cartagine avevano stretto un’alleanza difensiva che prevedeva la mutua collaborazione militare contro il comune nemico. Clausole di questo trattato di alleanza romano-punico → se una delle due potenze avesse concluso pace con Pirro, avrebbe dovuto far includere nel trattato la possibilità di soccorrere l’alleato nel caso di un attacco dell’epirota (di fatto questa clausola impediva la possibilità di una pace separata); inoltre i Cartaginesi si impegnavano ad assistere i Romani nelle operazioni che avessero richiesto l’intervento di forze navali. In un primo momento anche in Sicilia Pirro passò di vittoria in vittoria, costringendo i Cartaginesi a chiudersi a Lilibeo, all’estremità occidentale dell’isola: l’assedio di questa fortezza si rivelò tuttavia infruttuoso, dal momento che Lilibeo poteva essere costantemente rifornita via mare, dove i Cartaginesi godevano di un’assoluta superiorità sulla flotta di Pirro. Pirro immaginò di sbloccare la situazione rafforzando la sua armata navale e invadendo l’Africa, ma il progetto fallì. Anche in Italia la situazione stava precipitando: approfittando dell’assenza del re epirota, i Romani avevano riconquistato posizioni su posizioni. Rispondendo alle disperate richieste di soccorso di Sanniti, Lucani e Bruzi, Pirro decise di lasciare incompiuta la sua impresa siciliana e di ritornare in Italia, subendo gravi perdite. Nel suo disperato bisogno di denaro Pirro si vide dapprima costretto a imporre un contributo straordinario a Taranto e alle città della Magna Grecia, poi addirittura a saccheggiare i beni sacri custoditi nei templi dei suoi alleati, come il santuario di Persefone a Locri. Atti di questo genere alienarono definitivamente le simpatie di cui Pirro godeva nelle colonie greche dell’Italia meridionale. Lo scontro decisivo con le forze romane, al comando del console Manio Curio Dentato, avvenne nel 275 a.C. nel luogo dove qualche anno più tardi venne fondata la colonia latina dal nome celebrativo di Benevento: le truppe di Pirro, in grave inferiorità numerica, furono questa volta messe in fuga. Il re dei Molossi capì che la partita era perduta: per non dare l’impressione di aver completamente abbandonato gli alleati lasciò una guarnigione a Taranto, ma decise comunque di far ritorno in Epiro con la maggior parte del suo esercito. Pirro morì nel 272 a.C. In quello stesso anno Taranto, disperando ormai di poter resistere, si arrese. Taranto, come del resto tutte le altre colonie greche dell’Italia meridionale, fu costretta ad entrare nell’alleanza con Roma, in particolare con l’obbligo di fornire navi ed equipaggi alla flotta romana. D’altra parte le città greche del Mezzogiorno non subirono perdite territoriali e conservarono intatte le loro istituzioni, le loro leggi, la loro autonomia interna. La nuova potenza egemone si dimostrò meno cauta nei confronti delle popolazioni italiche che avevano appoggiato Pirro, colpite da confische territoriali: i Lucani dovettero cedere l’area di Posidonia; ai Bruzi venne confiscata probabilmente già in questi anni una porzione consistente dell’area montuosa della Sila. Per quanto concerne i Sanniti, la loro lega venne sciolta. Nel 267 – 266 a.C. i Romani passarono all’offensiva anche nella Puglia meridionale, costringendo le comunità locali alla conclusione di trattati di alleanza. 3.13 Il dibattito sul concetto di romanizzazione Con il termine romanizzazione si è inteso il processo di uniformazione ai modelli romani della penisola e in seguito del Mediterraneo sotto il profilo giuridico, istituzionale, socio-economico e culturale, nella più ampia accezione di quest’ultimo aggettivo: un processo solo in parte imposto da Roma, poiché in misura significativa sarebbe stato l’esito di un’adesione spontanea delle comunità soggette agli schemi della città egemone (si è parlato in questo caso di autoromaizzazione). LA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO 4.1 Il contrasto tra Roma e Cartagine Nel 264 a.C. Roma controllava ormai tutta l’Italia peninsulare, fino allo stretto di Messina. In questa area di fondamentale importanza economica e strategica gli interessi di Roma entrarono per la prima volta in seria collisione con quelli della vecchia alleata Cartagine. Lo scontro venne precipitato dalla questione dei Mamertini, mercenari di origine italica che, dopo essere stati congedati da Siracusa alla morte del re Agatocle, si erano impadroniti con la forza di Messina. Questo comportamento provocò la reazione dei Siracusani, guidati dal generale Ierone, che inflisse ai Mamertini una severa sconfitta e avanzò verso Messina. I Mamertini accolsero dunque l’offerta di aiuto di una flotta cartaginese che incrociava nelle acque di Messina: una guarnigione cartaginese si installò in Messina e Ierone fu costretto a far ritorno a Siracusa, dove peraltro venne proclamato re a seguito delle sue vittorie. I Mamertini comunque si stancarono ben presto della tutela cartaginese e decisero di fare appello a Roma. Far cadere nel vuoto l’appello dei Mamertini significava lasciare ai Cartaginesi il controllo della zona strategica dello Stretto, dalla quale avrebbero potuto seriamente minacciare il dominio che Roma aveva appena conquistato in Italia meridionale; inoltre, se non si fosse intervenuti, il rischio era quello di assistere a un completo assoggettamento della Sicilia da parte dei Punici. Proprio questa motivazione economica avrebbe indotto l’assemblea popolare, cui il senato, diviso al suo interno, aveva demandato la questione, a votare l’invio di un esercito in soccorso dei Mamertini. 4.2 Le operazioni militari della prima guerra punica Anche se formalmente Roma non aveva ancora dichiarato guerra a Cartagine, di fatto l’attraversamento dello Stretto da parte dell’esercito romano guidato dall’ambizioso console Appio Claudio Caudice aprì la lunghissima prima guerra punica (264 – 241 a.C.). I primi anni di guerra furono decisivi: il presidio cartaginese di Messina sgombrò la città senza nemmeno combattere e i romani riuscirono a respingere la controffensiva di Cartaginesi e Siracusani, che inizialmente avevano deciso di allenarsi con i loro vecchi nemici contro la coalizione tra Roma e Mamertini. Già nel 263 a.C. il re Ierone comprese tuttavia che l’alleanza con Cartagine, oltre che innaturale, era pericolosa per Siracusa: decise quindi di concludere una pace dai termini moderati e di schierarsi dalla parte di Roma. Cadde nelle mani romane la grande base cartaginese di Agrigento. Grazie alla sua netta superiorità nelle forze navali, Cartagine conservava tuttavia un saldo controllo su molte località costiere della Sicilia: a Roma si decise quindi la creazione di una grande flotta. Lo sforzo fu premiato nel 260 a.C. da una clamorosa vittoria del console Caio Duilio sulla flotta cartaginese nelle acque di Milazzo. A questo punto a Roma si pensò piuttosto di poter assestare un colpo mortale a Cartagine attaccandola direttamente nei suoi possedimenti africani: l’invasione iniziò nel 256 a.C.: la flotta romana sconfisse quella cartaginese al largo di capo Ecnomo, un promontorio ad est di Agrigento, e fece sbarcare l’esercito nella penisola di capo Bon, in Africa. Le prime operazioni furono favorevoli al console Marco Attilio Regolo. Il console romano tuttavia non seppe sfruttare questi successi: imponendo condizioni durissime, fece fallire le trattative di pace che erano state avviate, rafforzando la determinazione dei Cartaginesi; allo stesso tempo non riuscì ad approfittare del malcontento che serpeggiava contro Cartagine tra i suoi alleati e i sudditi africani per portarli dalla propria parte. Nel 255 a.C. Regolo venne duramente battuto da un esercito cartaginese comandato dal mercenario spartano Santippo. A completare il disastro, la flotta romana, che dopo aver battuto la flotta avversaria nelle acque antistanti Capo Bon era riuscita a trarre in salvo i superstiti della sconfitta, incappò in una tempesta e perse buona parte delle navi e degli equipaggi. Nel 249 a.C. la flotta romana al comando del console Publio Claudio Pulcro fu sconfitta nella battaglia navale di Trapani. percorse i passi appenninici tra l’Emilia e la Toscana; i Galli riuscirono così a penetrare in Etruria e a ottenere qualche successo, ma nel 225 a.C. vennero circondati e annientati dagli eserciti dei due consoli a Telamone, in una delle battaglie più sanguinose che si fossero mai combattute in Italia fino ad allora. A questo punto, a Roma ci si rese conto che la conquista della valle Padana era possibile e necessaria per allontanare definitivamente la minaccia delle incursioni galliche. la breve, ma violenta campagna fu animata nel 223 a.C. da Flaminio, ora console, e fu coronata l‘anno seguente dalla vittoria sugli Insubri a Casteggio e dalla conquista del loro centro principale, Mediolanum (attuale Milano) da parte dei nuovi consoli, Marco Claudio Marcello e Cneo Cornelio Scipione. All’indomani della vittoria nella seconda guerra punica, Roma procedette alla definitiva sottomissione dell‘Italia settentrionale. Fondamentale per l’organizzazione e il consolidamento della conquista dell’Italia settentrionale si rivelò la costruzione di una rete stradale. 4.6 I Cartaginesi in Spagna e i prodromi della seconda guerra punica Mentre Roma guadagnava posizioni nell‘Adriatico e nell’Italia settentrionale, Cartagine, ripresasi dalla guerra dei mercenari, cercava di costruire una nuova base per la sua potenza in Soagna, dove la sua influenza politica era al momento limitata agli insediamenti fenici della costa sud-orientale, tra i quali è da ricordare Gades, l’odierna Cadice. La conquista della Spagna potrebbe apparire quasi un affare privato della famiglia Barca: in effetti le operazioni furono condotte prima da Amilcare, poi dal genero Asdrubale, al quale spetta la fondazione di una Nuova Cartagine (l’attuale Cartagena), che divenne la principale base punica in Spagna, e infine dal figlio di Amilcare, il celebre Annibale. L’avanzata dei Barca destò l’allarme della città greca di Marsiglia, e naturalmente di Roma, di cui Marsiglia era fedele alleata. nel 226 a.C. un’ambasceria del senato concluse con Asdrubale un trattato secondo il quale gli eserciti cartaginesi non potevano oltrepassare a nord il fiume Ebro; un potenziale elemento di contrasto tra Roma e Cartagine era tuttavia costituito dal trattato di alleanza, stretto da Roma con la città iberica di Sagunto, che in effetti si trovava a sud dell’Ebro. 4.7 La seconda guerra punica: i successi di Annibale (218-202 a.C.) La questione di Sagunto venne abilmente sfruttata da Annibale per far esplodere il conflitto nel momento che egli riteneva più favorevole. Alle prime minacce di un attacco cartaginese, i Saguintini chiesero l’aiuto di Roma, ma la risposta del senato non fu pronta. Alcune ambascerie di protesta vennero inviate presso Annibale e nella stessa Cartagine, ma di fatto Roma si preparò concretamente alla guerra solo quando Annibale aveva già espugnato Sagunto. L’invasione dell’Italia poteva avvenire solamente via terra, attraverso le sue frontiere settentrionali, dove Annibale sperava di guadagnare l’appoggio delle tribù galliche da poco sottomesse da Roma e di cogliere impreparate le difese di Roma. Annibale partì nella primavera del 218 a.C. dalla base di Nuova Cartagine. Valicati i Pirenei, Annibale riscì a evitare lo scontro con l’esercito romano al comando di Publio Cornelio Scipione, inviato in Spagna per intercettarlo. L’esercito cartaginese riuscì ad attraversare le Alpi, ma riscuotendo l’immediato sostegno dei Boi e degli Insubri. Sul fiume Ticino le superiori forze di cavalleria cartaginese prevalsero su quelle romane, comandate da Publio Scipione. Il primo grande scontro si ebbe sul fiume Trebbia, dove Annibale sconfisse gli eserciti di Scipione e del suo collega nel consolato Tiberio Sempronio Longo. Nell’anno seguente il generale cartaginese riuscì a eludere gli eserciti romani che tentavano di impedirgli il passaggio degli Appennini e a sorprendere le truppe del console Caio Flaminio (che era stato eletto alla massima magistratura per la seconda volta) al lago Trasimeno. L’esercito romano venne annientato. A Roma iniziò a farsi strada l’idea che fosse impossibile sconfiggere Annibale in campo aperto, secondo quanto sosteneva in particolare l’ex console Quinto Fabio Massimo, che venne in effetti nominato dittatore. Secondo la strategia di Fabio Massimo era necessario evitare le battaglie campali e limitarsi a controllare le mosse di Annibale e a impedire che da Cartagine o dalla Spagna gli giungessero degli aiuti: prima o poi la scarsità di mezzi e di uomini a sua disposizione lo avrebbe costretto ad arrendersi alle superiori forze romane o ad abbandonare l’Italia. Per questo motivo Quinto Fabio Massimo fu detto Cunctator (il temporeggiatore). La strategia di Fabio Massimo alla lunga avrebbe portato alla vittoria, ma a breve termine significava che Roma e i suoi alleati avrebbero dovuto assistere impotenti alla devastazione dell’Italia da parte dell’esercito cartaginese. Per questo motivo nella seconda fase della sua dittatura Fabio Massimo si vide affiancato il suo magister equitum Marco Minucio Rufo, propugnatore di un contrasto più energico dell’azione di Annibale, con poteri pari a suoi. Scaduti i sei mesi della dittatura di Fabio Massimo, a Roma si decise poi di passare nuovamente all’offensiva: ma nel 216 a.C. il comandante cartaginese riuscì ad annientare gli eserciti congiunti dei consoli Caio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo nella piana di Canne, presso Canosa di Puglia. Dopo Canne numerose comunità alleate dell’Italia meridionale defezionarono. Nel 215 a.C. il vecchio Ierone di Siracusa, fedele alleato di Roma, morì: gli successe sul trono l’ambizioso e impulsivo nipote Ieronimo, che decise di schierarsi dalla parte di Cartagine mettendo in serio pericolo il controllo romano sulla Sicilia. nel medesimo anno i Romani vennero a conoscenza di un patto di alleanza tra Annibale e Filippo V di Macedonia, le cui ambizioni nell’Adriatico meridionale, alimentate dal suo consigliere Demetrio di Faro, trovavano ostacolo nel protettorato romano sulle città greche della costa e che sperava di approfittare dello stato di prostrazione in cui Roma si trovava dopo la disfatta di Canne. 4.8 La seconda guerra punica: la ripresa di Roma e la vittoria Nel 212 a.C. anche Taranto si schierò dalla parte dei Cartaginesi, ma un piccolo presidio romano, appoggiato dagli aristocratici tarantini filoromani, continuò a occupare la cittadella e a sorvegliare il porto, impedendo ad Annibale di ottenere via mare quei rinforzi di cui aveva disperato bisogno. nel 211 a.C. Capua venne riconquistata dai Romani. Nel frattempo anche negli altri teatri di guerra le cose volgevano al meglio per Roma. In Sicilia le forze romane, al comando di Marco Claudio Marcello, riuscirono nel 212 a.C. a conquistare e a saccheggiare Siracusa dopo un lungo assedio. Nell’Adriatico una flotta di 50 quinquiremi si rivelò sufficiente per impedire ciò che i Romani temevano maggiormente: un’invasione dell’Italia da parte di Filippo V e un suo congiuramento con le forze di Annibale. Le operazioni contro Filippo in questa prima guerra macedonica coinvolsero per la verità in misura solo limitata gli eserciti romani. Roma in effetti riuscì a paralizzare l’azione del re macedone creando una coalizione di Stati greci a lui ostili, tra i quali primeggiava la Lega etolica. Quando apparve chiaro che gli Etoli intendevano rinunciare alla lotta, anche Roma si affrettò a concludere nel 205 a.C. con Filippo una pace (nota come pace di Fenice), che sostanzialmente lasciava immutato il quadro territoriale. La svolta decisiva nella guerra si ebbe però in Spagna. Dopo la sconfitta subita al fiume Trebbia, Publio Cornelio Scipione aveva raggiunto nella penisola iberica il fratello Cneo. I due Scipioni riuscirono per diversi anni a impedire che Annibale ricevesse aiuti dalla Spagna. Nel 211 a.C., tuttavia, i due fratelli si trovarono ad affrontare divisi le superiori forze che i Cartaginesi avevano concentrato nella penisola iberica e vennero sconfitti e uccisi. Scipione l’Africano nel 209 a.C., riuscì a impadronirsi della base punica di Nuova Cartagine e a sconfiggere l’anno seguente il fratello di Annibale, Asdrubale nella città di Baecula. Scipione non riuscì tuttavia a impedire che Asdrubale eludesse la sorveglianza romana e, ripetendo l’epica marcia di Annibale, tentasse di portare aiuto al fratello in Italia. La spedizione cartaginese venne tuttavia affrontata dagli eserciti congiunti dei due consoli Marco Livio Salinatore e Caio Claudio Nerone e distrutta sul fiume Metauro, nelle Marche settentrionali, nel 207 a.C.; Asdrubale stesso cadde in battaglia. Disperando di poter ottenere soccorsi dalla madrepatria, Annibale, ormai praticamente ridotto all’impotenza, si vide costretto a ritirarsi nel Bruzio. Scipione nel frattempo sconfiggeva in modo decisivo gli eserciti cartaginesi di Spagna nella battaglia di Ilipa nel 206 a.C. Tornato in Italia, Scipione fu eletto console per il 205 a.C. ed iniziò i preparativi per l’invasione dell’Africa. In questo ultimo scorcio della seconda guerra punica che venne combattuto in terra africana di importanza fondamentale per Roma doveva rivelarsi l’alleanza con Massinissa, re della tribù numida dei Massili, in rivolta contro Cartagine. Lo sbarco in Africa avvenne nel 204 a.C. e nell’anno seguente Scipione e Massinissa colsero un’importante vittoria nella battaglia dei Campi Magni. Le trattative di pace allora avviate fallirono, per le dure condizioni dettate da Scipione, il quale mirava a eliminare per sempre la minaccia punica, e per le speranze suscitate a Cartagine dal ritorno in Africa di Annibale. La battaglia che pose fine al conflitto si svolse nel 202 a..C. nei pressi della città di Zama: nonostante Annibale avesse dato prova del suo genio tattico anche in quell’occasione, l’accortezza del suo avversario Scipione e soprattutto la cavalleria numida di Massinissa diedero la vittoria ai Romani. Il trattato di pace, siglato nel 201 a.C., prevedeva la consegna di tutta la flotta cartaginese, tranne 10 navi, e, come di consueto, il pagamento di una fortissima indennità e la consegna di tutti i prigionieri di guerra. I Punici furono poi costretti a cedere tutti i loro possedimenti al di fuori dell’Africa, in particolare in Spagna, dove Roma creò due nuove province: a nord, sulla costa mediterranea la Spagna Citeriore, a sud, intorno alla valle del Guadalquivir, la Spagna Ulteriore. Cartagine infine dovette riconoscere ai suoi confini un potente regno di Numidia, unificato e governato da Massinissa. Ai Cartaginesi inoltre non era concesso di dichiarare guerra senza il permesso di Roma. 4.10 La seconda guerra macedonica Pochi anni dopo la conclusione della guerra con Cartagine, Roma si impegnò in un altro conflitto di grandi proporzioni contro Filippo V di Macedonia. Causa immediata della guerra fu soprattutto l’attivismo di Filippo V nell’area dell’Egeo e delle coste dell’Asia Minore, alla quale il re macedone si era volto dopo che le sue ambizioni nella regione illirica erano state bloccate dalla pace di Fenice del 205a.C. Filippo dunque giunse ad attaccare alcune città alleate della Lega etolica e soprattutto a scontrarsi con le due maggior potenze dell’area, il regno di Pergamo e la repubblica di Rodi. Le tensioni sfociarono nel 201 a.C. in guerra aperta. I coalizzati compresero che da soli non sarebbero riusciti a allontanare la minaccia macedone; né essi potevano rivolgersi alle altre due grandi potenze ellenistiche: l’Egitto tolemaico e Antioco III di Siria che aveva stabilito una sorta di intesa con Filippo V per la spartizione dei domini extraegiziani della monarchia tolemaica. Divenne logico rivolgersi a Roma, con la quale il re di Pergamo Attalo I aveva da tempo relazioni di amicizia. I comizi centuriati, che in un primo momento avevano votato per il mantenimento della pace, nuovamente convocati dall’ambizioso console Publio Sulpicio Galba, si risolsero dunque a dichiarare guerra a Filippo. Contemporaneamente si decise tuttavia di inviare un ultimatum a Filippo, in cui gli In questa temperie politica trova spiegazione anche la legge Villia, promulgata nel 180 a.C., che introdusse un obbligo di età minima per rivestire le diverse magistrature e un intervallo di un biennio tra una carica e l’altra. 4.13 La terza guerra macedonica 171-168 a.C. Un’ombra nei rapporti tra Roma e Filippo V di Macedonia si era tuttavia già addensata già all’indomani di Apamea, quando le ambizioni di Filippo sulle città della costa trace vennero frustate da Roma, anche su impulso del re di Pergamo Eumene II. Nei medesimi anni la posizione di Roma in Grecia si faceva delicata: sempre più spesso giungevano in Senato ambascerie a sostenere le rispettive ragioni nelle infinite controversie che opponevano le une alle altre le città greche. Anche su suggerimento di un uomo politico della Lega achea, Callicrate, Roma adottò nella soluzione di questi contrasti una linea che privilegia i gruppi aristocratici, pronti ad accogliere ogni desiderio di Roma. Nel 179 a.C. la morte aveva messo fine al lunghissimo regno di Filippo V: gli era succeduto il figlio maggiore Perseo, che precedentemente era riuscito a sbarazzarsi del fratellastro, Demetrio. L’elemento democratico e ‘nazionalista’ all’interno di molte città greche, sempre più insofferente nei confronti delle ingerenze romane, cominciò a volgersi, con crescente favore, verso Perseo. Agli occhi di Roma questo solo fatto fu sufficiente per fare del re una minaccia per il sistema egemonico sul mondo greco. Se mai ve ne fosse stato bisogno, questi sospetti furono alimentati da Eumene di Pergamo, che nel 172 a.C. si presentò a Roma con un lunghissimo elenco di accuse contro Perseo; al ritorno in patria, Eumene rimase ferito in un attentato, di cui ovviamente accusò il re di Macedonia. I preparativi di guerra iniziarono in quello stesso anno 172 a.C., ma le prime operazioni si ebbero solo nel 171 a.C., dopo che le trattative per raggiungere un accordo fallirono. Nei primi anni di guerra i comandanti romani si distinsero, più che per il loro genio strategico, per le rapine commesse ai danni di molte città greche. Qualche modesto successo militare di Perseo venne dunque salutato con enorme entusiasmo dai democratici. Il re macedone, peraltro, ottenne un aiuto concreto solo dalla popolazione epirota dei Molossi e dal re d’Illiria Genzio. La svolta si ebbe nel 168 a.C.: Genzio venne sconfitto in una fulminea campagna, mentre Perseo fu costretto dal nuovo comandante romano, il console Lucio Emilio Paolo, ad accettare battaglia campale nella località macedone di Pidna, dove il suo esercito fu distrutto. Il re fu portato prigioniero in Italia e la monarchia abolita in Macedonia. La regione venne suddivisa i quattro repubbliche, che non potevano intrattenere alcun rapporto tra loro: i matrimoni tra gli abitanti di due diversi Stati erano proibiti, così come non era concesso possedere terreni o case in più di uno Stato. Tre delle repubbliche poterono conservare modeste forze armate per sorvegliare le popolazioni balcaniche con le quali confinavano, ma fu loro impedito di sfruttare il legname per la costruzione di navi e di estrarre oro e argento dalle miniere. I quattro Stati dovevano versare un tributo a Roma, pari alla metà di quello un tempo pagato al re. Simile fu la sorte dell’Illiria, divisa in tre Stati, anch’essi tributari di Roma. I Molossi, rei di essersi schierati apertamente con Perseo, furono puniti con la totale devastazione del loro territorio e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di abitanti. Rodi, per il solo torto di aver tentato una mediazione in extramis tra Roma e Perseo, fu privata della Caria e della Licia, le regioni dell’Asia Minore. Rodi venne inoltre colpita nella sua prosperità economica dalla creazione, nell’isola di Delo, di un porto franco, nel quale cioè le merci in entrata e in uscita erano esentate dai consueti dazi. Di conseguenza buona parte delle rotte commerciali vennero deviate sul nuovo porto franco e Rodi perse una quota significativa delle sue notevoli entrate doganali. Una delegazione romana raggiunse ad Alessandria Antioco IV, che stava vittoriosamente conducendo una guerra contro il regno tolemaico, ingiungendogli di ritirarsi immediatamente dall’Egitto: ad Antioco non restò che accondiscendere; il sovrano, che aveva sognato di restaurare la potenza della monarchia seleucide, morì nel 164 a.C.; nei decenni seguenti il regno di Siria fu paralizzato da sempre più frequenti contese dinastiche, dietro le quali si scorge talvolta l’ombra di Roma. Lo stesso Eumene di Pergamo cadde in disgrazia agli occhi dei Romani, sospettato di aver macchinato una qualche intesa proprio con quel Perseo che aveva tempestato di accuse per tutta la vita. La terza guerra macedonica ebbe un’altra importante conseguenza: i proventi tratti dal bottino furono tali che dal 167 a.C. venne abolito il tributum, l’imposta sulle proprietà dei cittadini romani che era stata creata secondo la tradizione ai tempi dell’assedio di Veio per finanziare la paga dei soldati. 4.14 La quarta guerra macedonica e la guerra acaica Particolarmente tesi erano i rapporti con la Lega achea. La morte di Callicrate, fedele strumento della politica di Roma, e i tentativi di secessione di Sparta dalla Lega coincisero con una rivolta in Macedonia. Qui un tale Andrisco, facendosi passare per figlio di Perseo e prendendo il nome dinastico di Filippo, riuscì a raccogliere forze in Tracia e a prevalere sulle deboli milizie repubblicane, riunendo per un’ultima volta le forze macedoni sotto la bandiera monarchica. Dopo qualche successo, Andrisco venne eliminato nel 148 a.C. dalle forze del pretore Quinto Cecilio Metello. Scongiurata la minaccia di Andrisco, il senato si occupò delle questioni concernenti gli Achei, ordinando che fosse staccata dalla Lega non solo Sparta, ma anche altre importanti città, tra le quali Argo e Corinto. Ciò avrebbe significato in pratica la fine della Lega achea come organismo di una qualche rilevanza politica. L’assemblea della Lega, dominata dai ‘nazionalisti’ ostili a Roma, decise dunque la guerra, che fu brevissima. Gli Achei non poterono impedire l’invasione del Peloponneso da parte di Metello, il vincitore di Andrisco che era calato da nord; qui il comando venne rilevato dal nuovo console, Lucio Mummio, che sconfisse definitivamente l’ultimo esercito acheo. Corinto, principale città della Lega, venne saccheggiata e distrutta (146 a.C.). La Macedonia venne dunque ridotta a provincia romana. Il suo governatore, nel caso, poteva intervenire per regolare le questioni della Grecia. Qui tutte le leghe vennero sciolte o ridotte all’impotenza. 4.15 La terza guerra punica Dopo la rovinosa sconfitta nella seconda guerra punica, Cartagine si era ripresa con sorprendente rapidità, almeno dal punto di vista economico. Anche dal punto di vista politico lo Stato cartaginese si era comportato in modo irreprensibile: lo mostrano gli avvenimenti del 196 a.C., quando Annibale fu eletto a uno dei due posti di massimo magistrato. Annibale intraprese una strada di riforme democratiche, con l’appoggio dei ceti popolari di Cartagine, intesa anche a limitare lo strapotere politico dell’aristocrazia dirigente; i suoi oppositori politici lo denunciarono a Roma, accusandolo di macchinare un’alleanza con Antioco III; quando giunse a Cartagine un’ambasceria romana, nominalmente inviata per comporre i dissidi con Massinissa, ma che in realtà aveva il compito di incriminare formalmente Annibale, il grande cartaginese, abbandonato da tutti, prese la via della fuga in oriente, fuga che si concluse proprio alla corte di Antioco, mentre il nuovo governo cartaginese si profuse in assicurazioni di lealtà nei confronti di Roma. Un elemento che potenzialmente poteva turbare la situazione dell’Africa settentrionale era costituito dalle dispute di confine tra la Numidia di Massinissa e Cartagine. Cartagine, che secondo i trattati non aveva il potere di dichiarare guerra senza il consenso di Roma, si rivolse alla potenza egemone per avere soddisfazione, rimanendo peraltro il più delle volte delusa. Nel 151 a.C., dopo che Massinissa aveva poco a poco inglobato la regione dei cosiddetti Empori, uno dei territori più ricchi dello Stato cartaginese, a Cartagine prevalse il partito della guerra. L’esercito cartaginese venne fatto a pezzi. Nello stesso tempo la palese violazione della clausola del 201 a.C. diede voce a coloro che già da tempo a Roma premevano per la distruzione di Cartagine. Nel 149 a.C. un imponente esercitò sbarcò in Africa. Nel disperato tentativo di evitare una guerra perduta in partenza i Cartaginesi, che già avevano condannato a morte Asdrubale e gli altri esponenti del partito della guerra e consegnato ostaggi, acconsentirono a cedere una notevole quantità di armamenti. Quando tuttavia i consoli che comandavano l’esercito romano chiesero loro di abbandonare la città e di trasferirsi a una distanza di almeno 10 miglia dalla costa, il che avrebbe significato la morte di una città che da secoli fondava la sua prosperità sui traffici marittimi, decisero di resistere a oltranza. Asdrubale vide revocata la sua condanna e affidato il comando dell’esercito cittadino e dispose la città ad affrontare l’attacco dei Romani. Quella che si pensava potesse essere una facile azione militare si trasformò in un lungo e difficile assedio. La situazione si sbloccò solamente nel 146 a.C., sotto il comando di Publio Cornelio Scipione Emiliano, figlio del vincitore di Pidna, Lucio Emilio Paolo, ma entrato per adozione nella famiglia degli Scipioni. Dopo la sua presa, che provocò decine di migliaia di vittime, la città fu saccheggiata e rasa al suolo, il suo territorio (che dopo le conquiste di Massinissa era limitato all’attuale Tunisia nord-orientale) trasformato nella nuova provincia d’Africa. 4.16 La Spagna Le comunità spagnole soggette a Roma dovevano pagare un tributo, detto stipendium, e fornire truppe ausiliarie. Inizialmente le due province comprendevano solamente le regioni costiere della Spagna meridionale e del Levante. La penetrazione verso l’interno si rivelò lenta e difficile, tanto che la sottomissione della penisola iberica venne completata solo con Augusto. La durezza mostrata dai magistrati romani per districarsi dalla situazione in cui si trovavano costrinse nel 149 a.C. a creare un tribunale speciale e permanente, incaricato di giudicare il reato di concussione, la quaestio perpetua de repetundis (letteralmente, il tribunale permanente su ciò che deve essere restituito), che tuttavia estese le sue competenze su tutti i casi di abuso di potere da parte dei governatori provinciali. Nel 137 a.C. sotto le mura di Numazia si consumò un episodio emblematico delle difficoltà di Roma nella penisola iberica: il console Caio Ostilio Mancino, sconfitto, per evitare la distruzione del suo esercito, fu addirittura costretto dai Numantini a firmare una pace umiliante per Roma. Il trattato siglato da Mancino fu peraltro disconosciuto dal senato e la guerra numantina fu infine affidata al più abile comandante romano del tempo, Scipione Emiliano, appositamente eletto per la seconda volta al consolato nel 134 a.C., in deroga ad una legge che impediva di iterare la massima magistratura. Scipione, stretta d’assedio Numazia con forse preponderanti, la conquistò e la distrusse nel 133 a.C. 4.17 Il dibattito sull’imperialismo romano Caratteri peculiari dell’imperialismo romano:  Riconoscimento di una dimensione etica della guerra, che si connette anche alla dimensione religiosa, dalle forme in cui la guerra va dichiarata, ai modi in cui deve essere condotta, alla moderazione con quale vanno trattati i vinti.  La gloria e il prestigio che i successi in guerra procuravano a una classe dirigente.  Una politica estera aggressiva corrispondeva agli interessi di quasi tutti i gruppi che componevano la società romana.  Singolare capacità di Roma di integrare i vinti nel suo sistema di egemonia. La morte di Tiberio Gracco non pose fine all’attività della commissione triumvirale, continuamente rinnovata e integrata a più riprese. Fu però ben presto chiaro il malcontento degli alleati latini e italici, le cui aristocrazie di ricchi proprietari avevano seguito la prassi dei maggiorenti romani di occupare larghe porzioni di agro pubblico e si trovavano ora a doverne restituire le parti in eccesso a beneficio dei soli nullatenenti romani. Interprete delle loro lamentele si fece Scipione Emiliano. Morto improvvisamente l’Emiliano, in casa propria, ma in circostanze rimaste misteriose (129 a.C.), Fulvio Flacco, membro del triumvirato agrario divenuto console nel 125 a.C., propose che tutti gli alleati che ne avessero fatto richiesta potessero ottenere la cittadinanza romana o, se avessero preferito conservare la loro condizione, almeno il diritto di appellarsi al popolo (provocatio) contro eventuali abusi di magistrati romani. L’opposizione alla proposta fu vastissima. Probabile sintomo dell’irritazione degli alleati furono le rivolte (125 a.C.) di Asculum e, soprattutto, della colonia latina di Fregellae, nella valle del Liri, fino ad allora leale e fedele alleata. La repressione fu spietata. 1.9 Caio Gracco Nel 123 a.C. fu eletto tribuno della plebe Caio Gracco, fratello minore di Tiberio e componente della commissione agraria fin dalla sua costituzione. Nel corso di due mandati consecutivi, ottenuti questa volta senza problemi particolari, egli riprese ed ampliò l’opera riformatrice del fratello. La legge agraria fu ritoccata e perfezionata e aumentati i poteri della commissione triumvirale. Poiché gran parte delle terre era già stata distribuita, Caio propose l’istituzione di nuove colonie di cittadini romani, sia in Italia, sia addirittura nel territorio della distrutta Cartagine. Una legge frumentaria, mirante a calmierare il mercato ed evitare fenomeni speculativi da parte dei detentori di frumento, assicurò ad ogni cittadino residente a Roma una quota mensile di grano a prezzo agevolato. Annona a Roma designava il rifornimento e la conservazione di viveri essenziali (soprattutto grano, olio, vino) necessari alla sussistenza alimentare della città. Con una legge giudiziaria Caio volle limitare il potere del senato in questo campo, integrando un cospicuo numero di cavalieri nel corpo da cui attingere per la formazione degli albi dei giudici e comunque riservando in esclusiva ai cavalieri il controllo dei tribunali permanenti cui erano affidati i processi di concussione e che perseguivano le malversazioni e le estorsioni dei magistrati ai danni dei provinciali (istituiti nel 149 a.C. e fino ad allora formati da soli senatori). In questo modo i senatori- governatori non sarebbero più stati giudicati esclusivamente da giudici-senatori, ma da rappresentanti di quegli stessi cavalieri che prendevano in appalto le imposte e gestivano le grandi operazioni commerciali nelle province. Allo stretto monopolio dei cavalieri furono affidati anche gli appalti della riscossione delle tasse nella nuova provincia d’Asia. Al problema degli alleati Caio rispose con una legge più moderata di quella di Fulvio Flacco, proponendo di concedere ai Latini la cittadinanza romana e la cittadinanza di diritto latino agli Italici. Ma anche questo provvedimento suscitò amplissime ostilità e non potè essere approvato. Al suo ritorno a Roma, nel luglio del 122 a.C., Caio (che era stato in Africa) si rese conto che la situazione politica era profondamente mutata e la sua popolarità in grave declino. Candidatosi ancora al tribunato per il 121, non venne rieletto. Per abbattere ogni suo residuo prestigio, alla fondazione della colonia cartaginese furono collegati presagi funesti e si propose che la deduzione dovesse essere revocata (121 a.C.). Caio Gracco e Fulvio Flacco tentarono di opporsi alla votazione del provvedimento, ma scoppiarono gravi disordini, in conseguenza dei quali il senato fece ricorso per la prima volta alla procedura del senatus consultum ultimum, con cui veniva sospesa ogni garanzia istituzionale e affidato ai consoli il compito di tutelare la sicurezza dello Stato con i mezzi che ritenessero necessari. Forte di tale provvedimento, il console Lucio Opimio ordinò il massacro dei sostenitori di Gracco che avessero osato resistere: Fulvio Flacco perì negli scontri, Caio Gracco si fece uccidere da un suo schiavo. 1.10 Il progressivo smantellamento della riforma agraria I sostenitori dei Gracchi vennero sistematicamente perseguitati. Nel 120 a.C. però essi riuscirono a porre in stato d’accusa Lucio Opimio e implicitamente la legittimità stessa della procedura del senatus consultum ultimum con le sue conseguenze. Opimio fu assolto ma, poiché le riforme dei Gracchi rispondevano a problemi reali, esse non furono abolite, anche se col tempo (prevalentemente per iniziativa tribunizia) le rigidità ne vennero progressivamente mitigate e (di conseguenza) gli effetti inevitabilmente ridimensionati, soprattutto quelli della legge agraria. Intorno al 121 a.C. difatti fu sancito per legge che i lotti attribuiti fossero alienabili. 1.11 Province, espansionismo e nuovi mercati: Asia, Gallia, Baleari, Dalmazia danubiana Prima del 133 a.C. Roma aveva costituito sei province: Sicilia (nel 241 a.C.; un nuovo apposito pretore per governare la provincia fu creato solo nel 227 a.C.), Sardegna e Corsica (nel 237 a.C.; un secondo nuovo pretore a cui attribuirle fu introdotto nel 227 a.C., come per la Sicilia), Spagna Citeriore, Spagna Ulteriore (entrambe nel 197 a.C.), Macedonia (nel 148 a.C.; 146 a.C. con le aggiunte della guerra acaica) e Africa (nel 146 a.C.). Come è stato opportunamente evidenziato, la creazione di una provincia è da considerare eminentemente come un atto non di annessione, ma di guerra. Per Roma difatti si trattava di assumere la gestione diretta di un territorio talora solo in piccola parte assoggettato e larghe zone del quale erano comunque ancora al di fuori del suo controllo, spesso perfino di una sua presenza. In un lasso di tempo ragionevole il magistrato, spesso (ma non sempre) coadiuvato da una commissione senatoria decemvirale, fissava le linee generali di riferimento: questioni territoriali, statuto delle singole città e comunità, determinazione dell’ager publicus, regolamenti e condizioni fiscali ecc. (Lex provinciae). Nel 133 a.C. il re di Pergamo Attalo III, morto inaspettatamente, prematuramente e senza eredi, aveva lasciato il suo regno ai Romani, fatta eccezione per le città dichiarate libere ed i loro territori. Aristonico, forse figlio naturale di re Eumene II (padre di Attalo), assunto il nome di Eumene III, si pose a capo di una rivolta che tenne testa per tre anni (fino al 129 a.C.) alle rivendicazioni di Roma. Egli dapprima fece appello allo spirito d’indipendenza delle città greche, ma con scarso successo, fatta eccezione soprattutto per Focea, da tempo ostile ai Romani. Essendo le forze di Roma impegnate sul fronte iberico nella guerra di Numazia e in Sicilia nella repressione della rivolta servile, il compito di combattere Aristonico fu sostenuto inizialmente soprattutto dai re alleati di Roma, dalle comunità locali e dalle poleis. Solo nel 130 a.C., dopo ripetuti tentativi, la rivolta potè essere arginata e il console Marco Perperna riuscì a vincere e a catturare Aristonico, che venne inviato a Roma insieme al tesoro attalide. Il compito di stroncare definitivamente la ribellione, essendo morto Perperna di malattia, fu svolto da uno dei consoli del 129 a.C., Manio Aquilio, il quale, con l’assistenza di una commissione senatoria, potè organizzare quanto restava del nuovo territorio (dedotte le ricompense agli oppositori di Aristonico) nella provincia romana d’Asia. La Gallia meridionale, che consentiva il passaggio terreste dalle regioni liguri ai domini spagnoli, attirò poi l’attenzione e l’impegno romano. Rispondendo a una richiesta d’aiuto dell’alleata Marsiglia contro tribù celto-liguri e galliche (Liguri, Salluvii e Vocontii), fu inviato prima Marco Fulvio Flacco (125 a.C.), poi Caio Sestio Calvino che, ristabilito l’ordine lungo la costa, nel 123 a.C. fondò il centro di Aquae Sextiae. Nel 122-121 a.C. Cneo Domizio Enobarbo e Quinto Favio Massimo, con le loro vittorie contro Allobrogi e Arverni, posero le basi per la nuova provincia narbonese. Consolidato il possesso delle isole verso la Spagna (Sardegna e Corsica), nel 123 a.C. ad opera di Quinto Cecilio Metello furono conquistate anche le Baleari. Le isole vennero aggregate alla provincia della Spagna Citeriore. 1.12 I commercianti italici e l’Africa; Giugurta; Caio Mario Micipsa era divenuto unico re di Numidia. Morto nel 118 a.C. Micipsa, il regno numidico fu conteso tra i suoi tre eredi principali (a cui Micipsa l’aveva lasciato, indiviso). Giugurta, suo nipote e figlio adottivo, si sbarazzò di uno di essi, Iempsale, assassinandolo. L’altro, Aderbale, fu costretto a rifugiarsi a Roma e a chiedere l’arbitrato del senato che, nel 116 a.C., optò per la divisione della Numidia tra i due superstiti: ad Aderbale la parte orientale, più ricca, a Giugurta quella occidentale, più vasta. Ma nel 112 a.C. Giugurta volle impadronirsi della porzione di regno assegnata ad Aderbale e ne assediò la capitale. Compiendo un errore fatale, Giugurta, presa la città, fece trucidare non solo il rivale, ma anche i Romani e gli Italici che vi svolgevano la loro attività. Roma si vide costretta a scendere in guerra nel 111 a.C. Le operazioni militari furono condotte molto fiaccamente dal console del 111 a.C., Lucio Calpurnio Bestia, che, dopo una serie di successi, si limitò a pretendere che Giugurta chiedesse la pace, concedendogliela a condizioni molto lievi. A Roma si gridò allo scandalo, Calpurnio fu accusato di corruzione e Giugurta convocato nell’Urbe dove ci si riprometteva di condurre un’inchiesta sull’accaduto. Sfuggito all’interrogatorio per il veto di un tribuno, fu sospettato di aver approfittato della presenza a Roma di suo cugino, Massiva, potenziale rivale, per farlo eliminare e tornare poi indisturbato in patria. Si decise allora di riprendere la guerra sotto il comando del console del 110 a.C. Spurio Postumio Albino che, tornato a Roma per presiedere alle elezioni, lasciò condurre le operazioni il fratello Aulo, il quale incorse in una grave sconfitta. Caio Mario venne eletto console nel 107 a.C. e, ignorando la proroga che il senato aveva già concesso a Metello, con un plebiscito votato dai comizi su proposta di un tribuno della plebe, gli venne affidato il comando della guerra contro Giugurta. 1.13 L’arruolamento dei nullatenenti e la fine della guerra giugurtina Mario, bisognoso di nuove truppe a lui fedeli e per far fronte ai gravi vuoti determinati dalla guerra contro Giugurta e dai massacri subiti ad opera dei Cimbri e dei Teutoni, aprì l’arruolamento volontario ai capite censi, cioè a coloro che erano iscritti sui registri del censo per la loro sola persona, senza il minimo bene patrimoniale, dunque nullatenenti. Il metodo era stato utilizzato prima da Mario su scala limitata e soltanto in casi di emergenza, dopo Mario divenne pratica regolare. Con un nuovo esercito Mario ritornò in Africa, ma gli occorsero quasi tre anni per mantenere l’impegno di por fine al conflitto e di catturare Giugurta. Grazie soprattutto all’opera di Lucio Cornelio Silla, allora legato di Mario, Bocco tradì Giugurta e lo consegnò ai romani (105 a.C.). La Numidia orientale fu assegnata a un nipote di Massinissa, Gauda, fratellastro di Giugurta ma fedele a Roma, la parte rimanente allo stesso Bocco, cui venne stipulato un trattato di amicizia e di alleanza. 1.14 Cimbri e Teutoni; ulteriori trasformazioni nell’esercito Nel frattempo due popolazioni germaniche, i Cimbri e i Teutoni, avevano iniziato un movimento migratorio verso sud, spinti da problemi di sovrappopolamento o da maree rovinose, che avevano reso in parte inabitabili le loro sedi originarie. pretore e tutti i romani residenti nella città vennero massacrati (90 a.C.). L’insurrezione si estese sul versante adriatico presso Piceni, Vestini, Marrucini, Frentani, presso Marsi e Peligni, nell’Appennino centrale, e Sanniti, Irpini e Lucani nell’Appennino meridionale. Apuli e Campani si aggiunsero in un secondo momento. Non aderirono Etruschi e Umbri, al pari delle città latine e della Magna Grecia. La guerra fu lunga e sanguinosa. Gli insorti si erano dati nel frattempo istituzioni federali comuni, una capitale, Corfinium, nel Sannio, subito ribattezzata Italica, una monetazione propria. I loro scopi, però, non erano completamente unitari: in alcuni ambienti prevaleva l’esigenza di conseguire la cittadinanza romana, in altri dominava lo spirito di rivalsa contro Roma. A settentrione (Piceno, Marsica, regioni ad est del lago Fucino) il console Publio Rutilio Lupo aveva come propri legati Cneo Pompeo Strabone (padre del futuro Pompeo Magno) e addirittura Caio Mario; lo fronteggiava il marso Quinto Poppedio Silone, capo dell’intera federazione italica. A meridione (Sannio e le zone a sud di esso) l’altro console Lucio Giulio Cesare aveva tra i suoi luogotenenti Lucio Cornelio Silla. L’incerto andamento delle operazioni fece maturare a Roma, già nel 90 a.C., una soluzione politica del conflitto, con lo scopo immediato di limitarne l’estensione. Con un primo provvedimento si erano già autorizzati i comandanti militari ad accordare la cittadinanza agli alleati che combattevano ai loro ordini. Venne poi approvata, su proposta del console Lucio Giulio Cesare, una legge (lex Iulia de civitate) che concedeva la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli (tra questi le colonie latine) e alle comunità che avessero deposto o deponessero rapidamente le armi. A questa si aggiunse, l’anno successivo (89 a.C.) la lex Plautia Papiria che estendeva la cittadinanza a quanti degli Italici si fossero resigrati presso il pretore di Roma entro sessanta giorni. Nel medesimo anno Cneo Pompeo Strabone, divenuto console, fece attribuire (lex Pompeia) il diritto latino agli abitanti dei centri urbani a nord del Po (Transpadania). Ai magistrati di queste comunità veniva così aperto l’accesso alla cittadinanza romana. Tali misure circoscrissero la rivolta. I successi più ragguardevoli furono conseguiti da Cneo Pompeo Strabone (sotto cui prestava servizio il giovane figlio Cneo Pompeo, insieme ai giovani Cicerone e Catilina), che riuscì infine ad espugnare Ascoli, e da Lucio Cornelio Silla, che riconquistò la maggior parte del Sannio e della Campania spezzando le ultime resistenze dei ribelli italici. Con la concessione della cittadinanza a tutta l’Italia fino alla Transpadana si inaugurava sia un processo di unificazione politica dell’Italia sia una nuova fase nella storia delle istituzioni di Roma, con ripercussioni importanti nella costituzione del corpo civico e nella vita stessa della città. Per esercitare i loro diritti i neocittadini dovevano necessariamente recarsi a Roma per partecipare personalmente alle assemblee. I PRIMI GRANDI SCONTRI TRA FAZIONI IN ARMI 2.1 Mitridate VI Eupatore Mentre Romani e Italici si affrontavano nella guerra sociale, una situazione sempre più allarmante era venuta a determinarsi in Oriente, a partire dalle coste meridionali del Mar Nero. I Parti della dinastia degli Arsacidi, che provenivano dalle zone del Caucaso e al di là del Mar Caspio e che si erano via via insediati nell’altopiano iranico, avevano sistematicamente sottratto possedimenti orientali al regno seleucide, fino ad occupare stabilmente la Mesopotamia e la Babilonia e facendo così dell’Eufrate la frontiera tra essi e la Siria. Nel 95 a.C. avevano imposto come loro vassallo quale re d’Armenia Tigrane. Nella penisola anatolica era costantemente in atto un forte frazionamento politico e Roma, installatisi sul territorio degli Attalidi con la costituzione della provincia d’Asia, vi aveva favorito la coesistenza di molti piccoli Stati dinastici. Ma, divenuto re del Ponto a pieno titolo intorno al 112 a.C. Mitridate VI Eupatore era riuscito a stabilire accordi con la vicina Bitinia per dividersi le limitrofe Paflagonia e Galazia. Mitridate riteneva anche di essere stato immotivatamente depredato da Roma, perchè essa gli aveva tolto, alla morte di suo padre Mitridate V Evergete, le donazioni territoriali che aveva fatto a quest’ultimo come ricompensa dell’aiuto da lui arrecato durante la guerra contro Aristonico, in particolare nelle regioni della Grande Frigia: esse erano state revocate e dichiarate libere nel 120 a.C., poi, tra il 120 e il 116 a.C., riunite alla provincia d’Asia. Nel 92 a.C. era toccato a Silla, come propretore della Cilicia, intervenire per ripristinare sul trono di Cappadocia un re più gradito ai Romani. Approfittando della guerra sociale, Mitridate aveva ripreso la sua politica espansionistica, facendo invadere nuovamente la Cappadocia da Tigrane, re d’Armenia, divenuto suo genero, che ne aveva espulso il re Arioberzane, e spodestando dalla Bitinia il nuovo re Nicomede IV, figlio del suo ex alleato Nicomede III. A questo punto, verso la fine del 90 a.C., Roma decise di inviare in Oriente una legazione, capeggiata da Manio Aquilio, con l’incarico di rimettere sui loro troni i legittimi sovrani di Bitinia e Cappadocia. Ma la commissione non si limitò a questo; fatto sta che Nicomede IV si ritenne autorizzato a condurre scorrerie nel territorio del Ponto. Mitridate ne chiese soddisfazione e, non avendola ottenuta, si decise alla guerra contro i Romani, nell’assai favorevole posizione di aggredito e di vittima di un’ingiustizia patente. Dilagato in Cappadocia, travolte le forze romane, fu presto padrone di tutta l’Asia. Aquilio fu costretto a fuggire e a rifugiarsi prima a Pergamo e poi a Mitilene, dai cui abitanti venne consegnato a Mitridate che lo fece morire in modo atroce. Anche l’isola di Delo, caposaldo del commercio romano in Oriente (dove gli Italici residenti furono parimenti sterminati), e la stessa Atene, col suo importante porto del Pireo, fecero causa comune con il nuovo liberatore. Verso la fine dell’88 a.C. un esercito pontico, attraversata la Tracia, la Macedonia e la Tessaglia, invadeva la Grecia centrale, ottenendo l’adesione della Beozia, di Sparta e del Peloponneso, mentre una flotta faceva vela verso l’Attica. Roma decise allora di reagire, affidando il comando della guerra a Lucio Cornelio Silla, uno dei consoli dell’88 a.C. 2.2 Il tribunato di Publio Sulpicio Rufo e il ritorno di Mario; Silla marcia su Roma A Roma il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo, che era stato amico di Druso, si adoperava per privarlo del comando della guerra e contemporaneamente riprendeva il problema dell’inserimento dei nuovi cittadini italici nelle tribù romane. Il fatto che essi, al pari di tutti gli altri cittadini, dovessero venir iscritti nelle tribù poteva produrre mutamenti radicali. Il loro numero difatti era tale che, se fossero stati ripartiti tra tutte e trentacinque le tribù e si fossero recati in massa a Roma per votare, sarebbero stati in maggioranza in ciascuna tribù. Si era perciò ricorsi all’espediente di immetterli in un numero limitati di tribù. La guerra sociale e le azioni di Mitridate avevano avuto come conseguenza immediata anche un impoverimento complessivo tanto dello Stato romano che dei singoli. Per far fronte a tutti questi problemi Sulpicio Rufo propose una serie di provvedimenti: il richiamo dall’esilio di quanti erano stati perseguiti per collusioni con gli alleati italici; l’inserimento dei neocittadini in tutte le trentacinque tribù; un limite massimo di indebitamento di duemila denarii per ciascun senatore, superato il quale sarebbe stata decretata l’espulsione dal senato. Fece approvare infine il trasferimento del comando della guerra contro Mitridate da Silla a Mario. Appresa la notizia della sua sostituzione, Silla non esitò a marciare su Roma alla testa dei suoi soldati. Impadronitosi di Roma, Silla fece dichiarare i suoi avversari nemici pubblici: Sulpicio (la cui legislazione venne immediatamente abrogata) fu subito eliminato, Mario riuscì a stento a fuggire alla volta dell’Africa. Prima di recarsi in Oriente, Silla fece approvare alcune norme, che anticipavano la sua opera riformatrice degli anni 81-79 a.C.: ogni proposta di legge avrebbe dovuto essere approvata dal senato prima di essere sottoposta al voto popolare; i comizi centuriati dovevano divenire la sola assemblea legislativa legittima. Ciò ottenuto, partì alla volta dell’Oriente. Non era riuscito tuttavia ad imperdire che per l’87 a.C. venissero eletti consoli a lui non favorevoli. 2.3 Silla e la prima fase della prima guerra mitridatica Sbarcato in Epiro nell’87 a.C. (preceduto da una forte avanguardia agli ordini del questore Lucio Licinio Lucullo) e dopo aver sconfitto una prima vola Archelao, attraversata la Boezia, Silla cinse d’assedio Atene, che venne presa e saccheggiata. Sconfisse nuovamente le truppe pontiche a Cheronea e successivamente a Orcomeno, in Boezia (86 a.C.). Era la fine del predominio delle armate di Mitridate in Grecia. 2.4 Lucio Cornelio Silla e l’ultimo consolato di Mario Uno dei due consoli dell’87 a.C., Lucio Cornelio Cinna, fautore di Mario, aveva nel frattempo ripreso la proposta di iscrivere i neocittadini italici in tutte le trentacinque tribù. Cacciato da Roma, si era rifugiato in Campania dove venne raggiunto da Mario, ritornato dall’Africa. Si ebbe così una nuova marcia su Roma. La città fu presa con la forza: Silla venne dichiarato nemico pubblico. In questo clima Mario fu eletto console (per la settima volta) insieme a Cinna per l’anno 86 a.C.; morì poco dopo essere entrato in carica. Nel frattempo un nuovo corpo di spedizione (mariano, al comando del console Lucio Valerio Flacco e del suo legato Caio Flavio Fimbria) era stato inviato in Oriente a combattere contro Mitridate, in sostituzione di quello sillano, che non rappresentava più il nuovo governo di Roma. Cinna fu rieletto console di anno in anno fino all’84 a.C.; breve periodo di dominio durante il quale promosse un’ampia opera legislativa. Fu definitivamente risolta la questione della cittadinanza con l’immissione dei neocittadini in tutte le trentacinque tribù. Fu affrontato il problema dei debiti riducendone di tre quarti l’ammontare. Verso la fine dell’84 a.C., alla notizia dell’imminente ritorno di Silla, Cinna cercò di anticiparlo ammassando forse ad Ancona, in vista di un successivo sbarco in Grecia; ma fu ucciso da una rivolta dei suoi stessi soldati. 2.5 Conclusione della prima guerra mitridatica Nell’86 a.C. due armate romane di opposte fazioni si trovarono dunque presenti in Grecia, una capeggiata da Silla, l’altra inviata da Cinna agli ordini di Lucio Valerio Flaccio. Esse però non si scontrarono mai, ma agirono, per così dire, parallelamente, ricacciando Mitridate in Asia. Flacco riprese la Macedonia e la Tracia fino al Bosforo. Poi passò in Asia dove i suoi soldati, ammutinatisi, lo assassinarono, sostituendogli al comando il legato Caio Flavio Fimbria. Quest'ultimo battè la costa egea dell’Asia Minore e riprese Pergamo, da cui ricacciò Mitridate. Sprovvisto di appoggi sul mare, Silla intanto aveva inviato Lucio Licinio Lucullo nelle zone alleate (Egitto, Cirene, Cipro, Rosi, Fenicia, Panfilia) per radunare una flotta da guerra. Si giunse così a trattative di pace, che fu stipulata a Dardano, nella Troade (85 a.C.) a condizione relativamente miti. Mitridate conservava il suo regno, ma doveva evacuare il resto dell’Asia; era obbligato a versare una forte indennità di guerra e consegnare la propria flotta. Nicomede IV recuperava il regno paterno di Bitinia e Ariobarzane la Cappadocia. Mancava totalmente tra i ribelli un piano preciso e unitario: Spartaco intendeva condurli rapidamente al di là delle Alpi, ciascuno a raggiungere il proprio Paese d’origine; altri (Crisso, i Germani, gli sbandati italici) preferivano abbandonarsi alla razzia e al saccheggio. Il senato decise allora di affidare un comando eccezionale e un considerevole esercito a Marco Licinio Crasso, allora pretore. Crasso riuscì a isolare Spartaco e i suoi in Calabria. Essi tentarono di passare in Sicilia per fomentare là una nuova rivolta ma, traditi dai pirati che, ricevutone il prezzo, non li traghettarono, furono costretti a spezzare il blocco di Crasso che, raggiuntili, li sconfisse pesantemente in Lucania: lo stesso Spartaco cadde in battaglia (71 a.C.) 2.10 Il consolato di Pompeo e Crasso e lo smantellamento dell’ordinamento sillano (70 a.C.) Pompeo e Crasso furono eletti consoli. Fu allora portato a compimento lo smantellamento dell’ordinamento sillano. Già nel 75 a.C., su proposta del console Caio Aurelio Cotta, era stato abolito il divieto a chi era stato tribuni della plebe di ricoprire cariche successive. Nel 73 a.C. i consoli avevano fatto approvare una legge frumentaria che ripristinava le distribuzioni a prezzo politico del grano. Pompeo e Crasso restaurarono nella loro pienezza i poteri dei tribuni della plebe: essi poterono di nuovo proporre leggi all’assemblea popolare e opporre il veto alle iniziative degli altri magistrati. Furono eletti, dopo un intervallo di quindici anni, i censori, che epurarono il senato di sessantaquattro membri giudicati indegni (per la maggior parte creature di Silla) e condussero il censimento. Infine il pretore Lucio Aurelio Cotta, fratello del console del 75 a.C., fece modificare la composizione delle giurie dei tribunali permanenti, togliendone l’esclusiva ai senatori e ripartendole in proporzioni uguali tra senatori, cavalieri e tribuni aerarii. 2.11 Pompeo in Oriente; operazioni contro i pirati; nuova guerra mitridatica Negli anni tra l’80 e il 70 a.C. in Oriente erano riemerse e si erano consolidate due gravi minacce, i pirati e Mitridate. Dopo ripetuti infruttuosi tentativi di combattere i pirati sulle coste meridionali dell’Asia Minore, nel 78-75 a.C. si tentò di rafforzare la presenza romana in Cilicia, anche tramite le campagne di Publio Servilio Vatia, che si spinse all’interno dell’Isauria (tra Pisidia, Licaonia e Panfilia) espugnandovi sistematicamente le inaccessibili roccaforti piratiche e meritandosi l’appellativo di Isaurico. Nel 74 a.C. fu inviato contro i pirati con un comando speciale Marco Antonio (figlio del Marco Antonio che aveva combattuto i corsari cilici nel 102-101 a.C. e padre del futuro omonimo triumviro), che preferì alla fine concentrare i suoi sforzi sull’isola di Creta, riportandovi però un’umiliante sconfitta. Nello stesso 74 a.C. fu pure deciso di dar corso al legato concernente la Cirenaica che venne fatta provincia. Le operazioni contro Creta furono poi affidate, nel 69 a.C., a Quinto Cecilio Metello che le condusse con grande energia ed efficacia fino alla completa riconquista dell’isola (68-67 a.C.) che divenne provincia romana. Nel frattempo era divenuta inevitabile una nuova guerra contro Mitridate. Dopo la pace di Dardano egli aveva continuato a covare propositi di rivincita e l’occasione si era ripresentata nel 74 a.C., quando, alla morte di Nicomede IV di Bitinia, risultò che questo re aveva lasciato il suo regno in eredità ai Romani con un testamento non scevro da sospetti di falsificazione. La deduzione della Bitinia in provincia dava ai Romani il controllo dell’accesso al Mar Nero e alterava fortemente gli equilibri di forze dell’Assia: Mitridate decise pertanto di invaderla. Contro di lui furono mandati i due consoli del 74 a.C., Marco Aurelio Cotta con competenza sulla Bitinia e Lucio Licinio Lucullo con poteri sulla Cilicia e la provincia romana d’Asia. L’essenziale delle operazioni fu condotto di successo in successo fino al 67 a.C. da Lucullo che, sgombrata la Bitinia, occupò il Ponto, costringendo Mitridate a rifugiarsi in Armenia presso suo genero Tigrane (71 a.C). Ormai divenuto padrone del Ponto (70 a.C.), Lucullo sospese momentaneamente le operazioni e si dedicò ad un’opera di complessivo ristabilimento della situazione in Asia. In seguito, volendo impadronirsi di Mitridate, proseguì ancora più a fondo la campagna e invase l’Armenia assediandone e conquistandone la nuova capitale Tigranocerta (69 a.C.). Di qui si spinse ancor più a nord-est, all’inseguimento di Mitridate e Tigrane, verso l’antica capitale armena di Artaxa (68 a.C.). Ma la sua invincibile marcia fu fermata da un duplice malcontento. I suoi soldati, stanchi delle fatiche, della ferrea disciplina e dei disagi ambientali, si rifiutarono di proseguire. I finanzieri romani, sdegnati dei provvedimenti da lui assunti per alleviare la situazione economica dell’Asia (limitazione del tasso d’interesse del 12%, interdizione di esigere dai debitori più di un quarto delle loro entrate, cancellazione degli interessi arretrati in eccesso), fecero pressioni perché fosse destituito. I suoi comandi gli furono progressivamente revocati. Ne approfittarono Mitridate e Tigrane per riprendere le ostilità (67 a.C.). Nel 67 a.C. un tribuno della plebe, Aulo Gabinio, propose che si assumessero misure drastiche contro i pirati e che, per questo scopo, fosse attribuito per tre anni a Pompeo un imperium infinitum su tutto il Mediterraneo con pieni poteri anche sull’entroterra fino a cinquanta miglia (circa 75 km) dalle coste. Fu approvato. Pompeo cacciò rapidamente i pirati dal Mediterraneo occidentale. Nel 66 a.C., mentre egli era ancora impegnato nella guerra piratica, un altro tribuno della plebe, Caio Manilio, propose che venisse esteso a Pompeo anche il comando della guerra contro Mitridate. Subentrando nel comando a Lucullo, Pompeo riuscì a convincere il re dei Parti, Fraate, a tenere impegnato Tigrane mentre egli marciava indisturbato verso il Ponto. Sconfitto e scacciato dal Ponto, Mitridate, privo dell’appoggio del genero, fu costretto a rifugiarsi a nord (66 a.C.), odierna Crimea. Là, abbandonato anche dal figlio Farnace, si fece trafiggere per non cadere in mano ai Romani (63 a.C.). Confermato a Tigrane il trono dell‘Armenia (64 a.C.: e ciò produsse un immediato raffreddamento con i Parti), lo privò però della Siria e di cui fece una provincia romana, in quanto territorio già posseduto da Tigrane e venuto in potere di Roma per diritto di conquista. Attirato poi in Palestina dalle contese degli ultimi rampolli Asmonei, fu costretto ad affrontare la fazione che si opponeva in armi alle sue decisioni e dopo tre mesi d’assedio s’impadronì di Gerusalemme e del suo Tempio. Costituì la Giudea in Stato autonomo, ma tributario, sotto la vigilanza del governatore della Siria (63 a.C.). Là fu raggiunto dalla notizia della morte di Mitridate. Riuniti la Bitinia e il Ponto in un’unica provincia, ampliata la Cilicia fino ai confini con la Siria, regolati i rapporti con i re vassalli e le città libere, nel 62 a.C. Pompeo rientrò a Roma. 2.12 Il consolato di Cicerone e la congiura di Catilina Durante l’assenza di Pompeo a Roma si era verificata una grave crisi. Lucio Sergio Catilina, discendente di una famiglia aristocratica decaduta, si era molto arricchito durante gli eccidi dell’età sillana, ma aveva dilapidato somme enormi per mantenere un elevato tenore di vita, indispensabile alle esigenze d’immagine che le sue ambizioni di carriera politica richiedevano. La sua campagna per ottenere il consolato nel 65 a.C. gli era costato una fortuna, ma all’ultimo momento la sua candidatura era stata respinta per indegnità. Prosciolto dall’accusa di concussione, egli tentò di rifarsi ripresentandosi alle elezioni consolari per il 63 a.C., politicamente e finanziariamente sostenuto da Marco Licinio Crasso, al quale si trovava già da qualche tempo collegato un brillante ed emergente patrizio, Caio Giulio Cesare. Riuscì invece eletto console un homo novus di Arpino, Marco Tullio Cicerone. Ma Catilina non demorse e nel corso dell’anno mise a punto un programma elettorale, che pensava lo avrebbe condotto ad ottenere il consolato nel 62 a.C., basato sulla cancellazione dei debiti (novae tabule) e rivolto non tanto alle classi sociali più basse quanto agli aristocratici rovinati dalle dissipazioni, dalle campagne elettorali e dalle speculazioni sbagliate, agli indebitati, ai coloni sillani che non avevano saputo trarre frutto dai terreni loro assegnati ed erano oberati dagli interessi dei prestiti, ai figli dei proscritti. Abbandonato dai suoi antichi sostenitori (Crasso e Cesare si erano rapidamente dileguati), Catilina riuscì di nuovo battuto nelle elezioni. Mise allora mano ad un’ampia cospirazione che mirava a sopprimere i consoli, terrorizzare la città, impadronirsi del potere; venne concentrato in Etruria un esercito in gran parte composto di veterani sillani. Ma il piano fu scoperto e sventato da Cicerone che potè infine indurre il senato ad emettere il senatus consultum ultimum e con un attacco durissimo (Prima Catilinaria) costrinse Catilina ad allontanarsi da Roma. Cicerone provvide a far giustiziare i condannati. Catilina, affrontato di lì a poco da un esercito consolare nei pressi di Pistoia, cadde combattendo valorosamente alla testa dei suoi. 2.13 Egitto; Cipro; Cirenaica Alla morte di Tolomeo VIII Evergete II (116 a.C.) le contese tra i successori fecero sì che ci si rivolgesse ripetutamente ai Romani, come garanti del trono. Di questa politica fanno parte probabilmente anche i testamenti che legavano il regno (o parti del regno) al popolo romano, forse anche con intenti o per ragioni puramente strumentali, per tutelarsi dagli avversari o per saldare debiti politici o pecuniari. Nel 96 a.C. sarebbe stata lasciata così a Roma la Cirenaica. Anche Tolomeo X Alessandro I, in lotta col fratello maggiore Tolomeo IX Soter II, in circostanze belliche e finanziarie difficili (89-87 a.C.) legò per testamento l’Egitto ai Romani. Gli unici Tolomei rimasti nell’80 a.C. erano due figli di Tolomeo IX, il maggiore dei quali (Tolomeo XII Aulete) gli Alessandrini proclamarono re d’Egitto, il minore (conosciuto solo come Tolomeo) re di Cipro. La principale preoccupazione politica dell’Aulete fu quella di farsi riconoscere da Roma, che rifiutava di farlo, tra i re amici e alleati del popolo romano: ne venne a capo solo nel 59 a.C., con l’appoggio di Cesare. Il problema egiziano ridivenne davvero attuale per Roma solo nel 64-63 a.C., quando Pompeo ebbe ridotto la Siria a provincia romana e regolato il territorio palestinese, donde si era affacciato ai confini dell’Egitto e sulle zone del Mar Rosso. Dopo un primo non chiaro tentativo (65 a.C.), probabilmente voluto da Crasso, nel 63 a.C. una legge agraria, proposta dal tribuno della plebe Publio Servilio Rullo, parve includere anche l’Egitto in un vasto progetto di assegnazioni fondiarie; fu combattuta strenuamente da Cicerone che riuscì a farla bloccare. Nel 58 a.C. seguì la rivendicazione (peraltro su basi aleatorie) di Roma su Cipro e la conseguente annessione. DAL PRIMO TRIUMVIRATO ALLE IDI DI MARZO 3.1 Il ritorno di Pompeo e il cosiddetto primo triumvirato Nel 62 a.C. sbarcava a Brindisi, accolto con grande trepidazione, Pompeo. Contrariamente ai timori di molti, smobilitò immediatamente il suo esercito, convinto di ottenere dal senato la ratifica degli assetti territoriali e provinciali da lui decisi in Oriente e le ormai usuali concessioni di terre ai suoi veterani. In senato però i suoi avversari politici (soprattutto i Metelli, spalleggiati da Lucullo e Catone) lo ricambiarono umiliandolo, facendolo rimandare di giorno in giorno questi riconoscimenti in pratica dovuti, quando non addirittura opponendosi ad essi. Nel frattempo nello stesso 62 a.C. l’emergente Cesare aveva ricoperto la pretura e nell’anno successivo (61 a.C.) era stato governatore della Spagna Ulteriore. Rientrato dalla Spagna prima dell’arrivo del successore (circa metà del 60 a.C.), per partecipare alle elezioni consolari per il 59 a.C., Cesare fu costretto a rinunciare alla richiesta di trionfo dall’obiezione proposto la revoca del proconsolato di Cesare in Gallia. A questo punto Cesare, dopo aver incontrato Crasso a Ravenna, si riunì con lui e Pompeo a Lucca (allora i confini della Cisalpina: aprile del 56 a.C.), dove i tre di accordarono su questo progetto: il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prorogato per altri cinque anni; i tre si sarebbero impegnati, tramite i loro partigiani, a far eleggere Pompeo e Crasso consoli per il 55 a.C.; dopo il consolato questi ultimi avrebbero ricevuto come province per cinque anni rispettivamente Pompeo le due Spagne e Crasso la Siria. Tutto si svolse esattamente come i tre avevano programmato. Tornato in Gallia, Cesare trovò la Bretagna in aperta rivolta: ebbe la meglio sui poderosi vascelli oceanici avversari, permettendo così alle legioni di dominare sulla terraferma. Egli potè allora rivolgere la propria attenzione sul fronte del Reno. Qui, due tribù germaniche, Usipeti e Tencteri, avevano attraversato il fiume, spingendo le loro scorrerie nel territorio dei Treveri. Cesare li annientò. Nello stesso anno fu compiuta un’incursione esplorativa in Britannia (55 a.C.) L'anno successivo (54 a.C.) ebbe luogo in Britannia una vera campagna militare, che consentì di raggiungere il Tamigi e portò alla sottomissione di parecchie tribù della costa. La grande crisi si verificò nel 52 a.C. nella Gallia centro-occidentale sotto la guida di Vercingetorige, re degli Arverni. Cominciata con lo sterminio di Romani e Italici residenti a Orleans, la sollevazione si estese rapidamente a tutto il territorio compreso tra la Loira e la Garonna. Cesare, che si trovava nella Gallia Cisalpina, si precipitò in pieno inverno in Arvernia dove pose assedio al grande centro fortificato di Gergovia (presso Clemont-Ferrand). Non riuscendo a mantenere il blocco per l’esiguità delle sue forze, tentò di espugnare la città e fu respinto. A questo punto anche gli Edui defezionarono. Cesare fu costretto a dirigersi verso nord per ricongiungersi alle forze del suo legato Tito Labieno e insieme si misero a inseguire Vercingetorige che, rifiutando ogni battaglia campale, preferì rinchiudersi nella piazzaforte di Alesia. Dopo un lungo e durissimo scontro gli assalitori furono respinti e la piazzaforte costretta a capitolare. Vercingetorige si arrese e fu inviato prigioniero a Roma dove, sei anni dopo (46 a.C.), fu fatto sfilare davanti al carro trionfale di Cesare e poi decapitare ai piedi del Campidoglio. 3.6 Crasso e i Parti Giunto in Siria (54 a.C.) Crasso aveva cercato di inserirsi nella contesa dinastica allora in atto nel regno dei Parti. Alla morte di re Fraate III era sorta una lotta per il trono dei Parti tra i due figli di lui, Orode e Mitridate. Divenuto re Orode II, Crasso aveva deciso di appoggiarne il fratello rivale e, varcato l’Eufrate, si era spinto in Mesopotamia senza incontrare grandi resistenze. L’anno successivo (53 a.C.), accompagnato dal figlio Publio, che Cesare gli aveva inviato con un contingente di cavalleria gallica, invece di invadere il paese da nord si rimise in marcia attraverso le steppe della Mesopotamia, nonostante glielo sconsigliassero il re di Armenia e i suoi stessi legati. Venuti in contatto con i Parti, guidati dal giovane dignitario partico Surena, in una vasta pianura della Mesopotamia nord-occidentale, nei pressi della città di Carre, i Romani furono travolti dalla cavalleria corazzata partica. Lo stesso figlio di Crasso cadde sul campo di battaglia. Fu una delle più gravi sconfitte mai patite da Roma: le aquile di sette legioni furono catturate e la stessa provincia di Siria si trovò minacciata. Mentre si ritirava, Crasso fu preso e ucciso. 3.7 Pompeo console unico; guerra civile tra Cesare e Pompeo Trascorso l’anno del loro consolato comune, mentre Crasso era partito per la Siria, Pompeo era rimasto nei dintorni di Roma. Nel 54-53 a.C. cominciarono a venire meno i vincoli politici e familiari che univano Pompeo a Cesare; nel 54 a.C. era morta di parto Giulia, la giovane moglie, figlia di Cesare e Pompeo declinò ulteriori alleanze matrimoniali con Cesare, che questi offrì successivamente; anzi preferì poi sposare Cornelia Metella, divenuta vedova del figlio di Crasso; l’anno seguente era scomparso Crasso. A partire da questo momento Pompeo iniziò ad accostarsi gradualmente ma in misura sempre più accentuata alla fazione ottimate più accesamente anticesariana. Intanto la violenza e il caos politico dilagavano a Roma. Nel 53 a.C., tra veti e controveti, non si era riusciti ad eleggere in tempo i consoli fu proposto (senza successo) di nominare Pompeo dittatore. All’inizio del 52 a.C. l’anarchia giunse al colmo: si affrontarono sulla via Appia le bande di Clodio, che aspirava alla pretura, e di Milone, candidato al consolato. Clodio rimase ucciso. Per evitare la disgregazione dell’ordine costituito, Pompeo venne nominato console senza collega. Approfittando dell’occasione, però, i nemici di Cesare avevano rialzato la testa e non lasciarono intentato alcun mezzo per rimuoverlo in anticipo dalla sua carica e farlo tornare a Roma da privato cittadino, sicuri così di poterlo mettere sotto accusa per il modo e i metodi con cui aveva condotto la guerra (nonchè in merito alla legittimità della guerra stessa). Cesare, come proconsole, era stato ininterrottamente assente da Roma dal 58 a.C. e il suo mandato sarebbe scaduto, in virtù delle proroghe ottenute, secondo Cesare (che computava dieci anni a partire dal 58 a.C.) alla fine del 49 a.C., secondo i suoi avversari (che calcolavano cinque anni dal momento del rinnovo della carica fatto votare da Pompeo e Crasso nel 55 a.C.) al più tardi nel 50 a.C. Per evitare ogni procedimento contro di sé, Cesare si trovava nella necessità di rivestire di nuovo il consolato congiungendolo senza interruzioni al proconsolato. Oltre a conservare il suo comando fino al termine stabilito, gli era dunque indispensabile poter assumere la sua candidatura restando assente da Roma, e tale privilegio gli era stato attribuito ad personam grazie a una legge che i dieci tribuni della plebe avevano fatto votare nel 52 a.C. Nello stesso 52 a.C. Pompeo aveva però proposto un provvedimento che prescriveva che dovesse trascorrere un intervallo di cinque anni tra una magistratura e una promagistratura. Pompeo si era fatto immediatamente dispensare da questa regola e prorogare per altri cinque anni, cioè fino al 47 a.C., il proconsolato di Spagna, con il diritto di restare a Roma. Gli era stato associato allora un collega ed era ripresa la regolare nomina di coppie consolari. Una seconda legge aveva poi fatto obbligo a tutti di presentare le proprie candidature di persona. A partire dal 51 a.C. ebbero perciò inizio le discussioni sul termine dei poteri di Cesare. Nel 50 a.C. un tribuno della plebe, Caio Scribonio Curione, propose che per uscire dalla crisi si dovessero abolire contemporaneamente tutti i comandi straordinari, sia quello di Cesare, sia quello di Pompeo. Il primo dicembre del 50 a.C. il senato si pronunciò a larghissima maggioranza nel senso che ambedue i proconsoli dovessero deporre le loro cariche. All'inizio del 49 a.C. Cesare, dai suoi quartieri invernali vicino a Ravenna, inoltrò al senato una lettera nella quale si dichiarava disposto a deporre il comando se anche Pompeo l’avesse fatto, ma i suoi avversari ottennero invece che si ingiungesse a Cesare di porre fine unilateralmente alle sue cariche. Minacciato dal veto di due tribuni dopo averli cacciati con la violenza, il senato votò il senatus consultum ultimum, affidando ai consoli e a Pompeo il compito di difendere lo Stato. Vennero inoltre nominati i successori di Cesare al governo delle province assegnategli. Appresa questa decisione, Cesare varcò in armi il torrente Rubicone, che segnava il confine tra la Gallia Cisalpina e il territorio civico di Roma, dando così inizio alla guerra civile. Pompeo, con entrambi i consoli e buona parte dei senatori, abbandonò la città diretto a Brindisi per imbarcarsi verso Durazzo e raggiungere così la Grecia e l’Oriente. Cesare, adducendo a propria giustificazione la tutela dei diritti del popolo, conculcati nei suoi tribuni, e della propria dignitas, percorse rapidamente l’Italia ma non riuscì ad arrivare in tempo per fermare il piano di Pompeo di trasferirsi in Grecia, bloccare con le sue flotte i rifornimenti e affamare l’Italia, per poi tentare la rivalsa con l’appoggio dei governatori e degli eserciti delle province a lui fedeli. Ritornato per breve tempo a Roma a sistemarvi gli affari più urgenti e, lasciati Marco Antonio a presidio dell’Italia e Marco Emilio Lepido dell’Urbe, Cesare cominciò ad affrontare la minaccia occidentale, rivolgendosi contro le forze pompeiane in Spagna con le sue truppe concentrate in Gallia. Cesare assalì e sconfisse i pompeiani spagnoli presso Ilerda. Tornato a Roma negli ultimi giorni del 49 a.C., egli vi rivestì brevemente la carica, che il pretore Marco Emilio Lepido gli aveva fatto conferire in assenza, di dittatore al solo scopo di convocare i comizi elettorali. I comizi lo elessero console per il successivo anno 48 a.C. Nel frattempo Pompeo aveva posto il suo quartier generale a Tessalonica, mentre le sue navi battevano l’Adriatico per impedire eventuali sbarchi di Cesare. Cesare fu costretto ad attaccare a fondo la città, ma fu duramente respinto, anche se l’insuccesso venne limitato dal sopraggiungere dei contingenti condotti da Marco Antonio. Cesare avanzò verso la Tessaglia, sempre inseguito da Pompeo, che non intendeva dare battaglia, finchè non glielo imposero i suoi stessi sostenitori. Lo scontro decisivo ebbe luogo infatti proprio in Tessaglia, nella piana di Paleofarsalo e si tradusse nella disfatta pompeiana. Pompeo, intravista la sconfitta, fuggì verso l’Egitto. Ma in Egitto era in corso una contesa dinastica tra il giovane Tolemeo XIII e la sorella maggiore Cleopatra VII. I consiglieri del re, giudicando compromettente l’accogliere Pompeo, lo fecero assassinare non appena sbarcato a Pelusio. Arrivato anch’egli ad Alessadria, dove non gli rimase che compiangere la miseria fine del rivale, Cesare si trattenne in Egitto per oltre un anno (48-47 a.C.), allo scopo di dirimere le lotte tra i due fratelli e di assicurarsi l’appoggio di quel regno ricchissimo e grande produttore di grano. Cleopatra VII fu confermata regina d’Egitto insieme al fratello minore Tolemeo XIV e, partito Cesare, diede alla luce un figlio di lui, a cui impose il nome inequivocabile di Tolemeo Cesare. Nell’autunno del 47 a.C. Cesare sostò brevemente a Roma donde, dopo aver fatto fronte al malcontento delle sue truppe che si attendevano di essere congedate, ripartì per l’Africa dove si erano rifugiati e riorganizzati Catone e i pompeiani vinti, che si erano assicurati l’appoggio do Giuba, re di Numidia. Superate alcune difficoltà iniziali, Cesare conseguì una vittoria risolutiva a Tapso. Toltosi la vita anche Giuba, il suo regno divenne provincia romana col nome di Africa nova. Ritornato a Roma in luglio, Cesare verso la fine dell’anno, fu costretto a partire per la Spagna, dove avevano ripreso fiato i suoi avversari; l’esercito nemico fu letteralmente distrutto: solo Sesto Pompeo riuscì a salvarsi con la fuga. 3.8 Cesare dittatore perpetuo Mentre si trovava in Egitto (nell’ottobre del 48 a.C.) Cesare era stato nominato dittatore per un anno; poi, prima di partire per la campagna d’Africa era stato eletto al suo terzo consolato per il 46 a.C., con Marco Emilio Lepido come collega. A metà del 46 a.C. gli venne conferita la dittatura (questa vola rei publicae constituendae, per riformare lo Stato) per dieci anni; nel 45 a.C. ricoprì il quarto consolato; nel 44 a.C. il quinto, a cui cumulò, a partire dalla fine di febbraio, il titolo di dittatore a vita (dictator perpetuus). In Gallia Antonio si era congiunto con Lepido, attirando dalla propria parte altri governatori della Gallia e della Spagna, come Lucio Munazio Planco e Caio Asinio Pollione. Decimo Giunio Bruto Albino, isolato e abbandonato dai suoi soldati, fu ucciso mentre cercava di passare le Alpi orientali per congiungersi agli altri cesaricidi. Annullato il provvedimento senatorio che aveva dichiarato Antonio nemico pubblico (in occasione della guerra di Modena), nell’ottobre del 43 a.C. Ottaviano, Antonio e Lepido si incontrarono nei pressi di Bologna, dove stipularono un accordo, poi fatto sancire da una legge votata dai comizi tributi (lex Titia). In base ad essa veniva istituito un triumvirato rei publicae consituendae (per la riorganizzazione dello Stato), che diveniva una magistratura ordinaria (il triumvirato costituente, cosiddetto secondo triumvirato) per la durata di cinque anni fino alla fine del 38 a.C.: essa conferiva il diritto di convocare il senato e il popolo, di promulgare editti e di designare i candidati alle magistrature. Antonio avrebbe conservato il governatorato della Gallia Cisalpina e della Gallia Comata, Lepido avrebbe ottenuto la Gallia Narbonese e le due Spagne, Ottaviano l’Africa, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica (l’Oriente era ormai in mano a Bruto e Cassio). Vennero resuscitate le liste di proscrizione, con i nomi degli assassini di Cesare e dei nemici dei triumviri, e dei loro seguaci. Rimesse in sesto anche in questo modo le loro finanze, i triumviri poterono ora rivolgere le armi verso l’Oriente, dove i cesaricidi Bruto e Cassio si esano costituiti una solda base di potere, si erano procacciati una ingente quantità di denaro e avevano raccolto un consistente esercito. Ma prima (42 a.C.) si provvide alla divinizzazione di Cesare e all’istituzione del suo culto. Lasciati Lepido e Munazio Planco a Roma come consoli, Antonio e Ottaviano partirono alla volta della Grecia. Lo scontro decisivo ebbe luogo a Filippi, in Macedonia (ottobre 42 a.C.), in due battaglie successive. Ottaviano si trovò subito in difficoltà. Cassio, battuto da Antonio e credendo (a torto) anche Bruto sconfitto, si tolse la vita. Bruto, vinto definitivamente e disperando di ogni possibilità di resistenza, decise di seguirlo sulla via del suicidio. 4.3 Consolidamento di Ottaviano in Occidente; la guerra di Perugia; Sesto Pompeo, gli accordi di Brindisi, di Miseno e Taranto; Nauloco Antonio si riservò, cumulandolo a quello sulle Gallie (la Cisalpina dal 42 a.C. aveva definitivamente cessato di essere provincia), il comando su tutto l’Oriente, da cui intendeva intraprendere un piano di conquista del regno partico come fedele continuatore dell’opera di Cesare. A Lepido fu assegnata l’Africa. Ottaviano ebbe le Spagne, il compito di sistemare in Italia i veterani delle legioni oltre a quello di vedersela con Sesto Pompeo che dominava la Sicilia e a cui si erano uniti i superstiti delle proscrizioni e di Filippi. L’incarico di procedere all’assegnazione di terre ai veterani era tra i più difficili perché, non essendo rimasto più agro pubblico da assegnare, si trattava di espropriare terreni nei territori delle diciotto città d’Italia che erano state destinate allo scopo; molti se ne dovettero aggiungere in altre zone. Venivano colpiti soprattutto gli interessi dei piccoli e medi proprietari terrieri. Le proteste sfociarono nel 41 a.C. in aperta rivolta, subito sfruttata dalla moglie di Antonio (e vedova di Clodio e di Curione) Fulvia e dal fratello di Antonio, Lucio Antonio, allora console, che se ne misero a capo. Ottaviano fu costretto ad affrontare gli insorti, che si chiusero a Perugia (guerra di Perugia: inverno 41-40 a.C.); dopo un feroce assedio la città fu espugnata e abbandonata al saccheggio. Lucio Antonio fu risparmiato, Fulvia si rifugiò presso Antonio in Grecia. Ottaviano intanto aveva provveduto ad appropriarsi delle Gallie, dove era morto il legato di Antonio. Profilandosi la possibilità di un’alleanza tra Antonio e Sesto Pompeo, Ottaviano si avvicinò a quest’ultimo sposando Scribonia, sorella di Lucio Scrinbonio Libone, suocero di Sesto Pompeo (40 a.C.). Preoccupato, Antonio si mosse dall’Oriente verso l’Italia, ma in un primo momento gli fu persino impedito di sbarcare. Poi, grazie alla mediazione di amici comuni Ottaviano e Antonio si incontrarono a Brindisi, dove venne sottoscritta un’intesa (accordo di Brindisi: ottobre 40 a.C.), in forza della quale ad Antonio veniva assegnato l’Oriente, ad Ottaviano l’Occidente (esclusa l’Africa, riservata a Lepido). Antonio inoltre, rimasto vedovo di Fulvia, sposava Ottavia, sorella di Ottaviano. La situazione fu però di nuovo complicata dalle rivendicazioni di Sesto Pompeo. Deluso di non essere stato preso in alcuna considerazione a Brindisi, egli aveva ripreso a bloccare le forniture di grano che venivano a Roma dalle regioni oltremare. Antonio fu costretto a tornare ancora una volta dalla Grecia per presenziare con Ottaviano all’accordo di Miseno (39 a.C.): Sesto Pompeo vedeva riconosciuto da Ottaviano il governo di Sicilia, Sardegna e Corsica, a cui veniva aggiunto da parte di Antonio il Peloponneso. Di fronte alle difficoltà frapposte da Antonio alla consegna del Peloponneso, Sesto Pompeo riprese le azioni di scorreria contro l’Italia (38 a.C.). Ottaviano allora ripudiò Scribonia e l’anno successivo passò a nuove nozze con Livia Drusilla, moglie di Tiberio Claudio Nerone (da cui divorziò), donna della più antica nobiltà che all’ex marito aveva già partorito il futuro imperatore Tiberio ed era incinta di Druso. Nel frattempo Sesto aveva perduto la Sardegna e la Corsica, che un suo luogotenente, Menodoro, aveva consegnato ad Ottaviano. Divampò presto la lotta per il possesso della Sicilia. Ottaviano la iniziò con una sconfitta e fu costretto a chiedere nuovamente l’appoggio di Antonio e a concludere un accordo con lui a Taranto (37 a.C.) per ottenere rinforzi. Fu così rinnovato per altri cinque anni (cioè fino a tutto il 32 a.C.) il triumvirato. Marco Vipsanio Agrippa inferse a Sesto una duplice definitiva sconfitta a Milazzo e a Nauloco, presso la costa settentrionale della Sicilia. Sesto Pompeo fugg in Oriente, dove venne catturato e ucciso l’anno dopo. Lepido, che aveva preso parte con Ottaviano alle operazioni, pretese di rivendicare per sé il diritto al possesso dell’isola; ma le sue truppe lo abbandonarono e ad Ottaviano fu facile farlo dichiarare decaduto dai poteri di triumviro e impossessarsi dell’Africa. Al suo ritorno a Roma Ottaviano fu ricolmato di onori: tra essi l’inviolabilità propria dei tribuni della plebe che, aggiunta all’imperium che egli deteneva come triumviro, costituì poi la base da lui scelta per fondare il principato. 4.4 Antonio in Oriente Negli anni successivi alle battaglie di Filippi, Antonio aveva concentrato tutte le sue attenzioni sull’Oriente, da dove contava di ritornare coperto di fama per aver condotto a termine i progetti di Cesare contro i Parti e aver vendicato la morte di Crasso e il disastro di Carre. Egli si preoccupò poi di procurarsi l’alleanza di re e di principi orientali. Il regno più potente era allora l’Egitto, sotto il regno congiunto di Cleopatra VII e del figlio natole da Cesare, Tolemeo Cesare. Convocata a Tarso, in Cilicia, nel 41 a.C. come suo ospite in Egitto. Dalla loro unione nacquero due gemelli. Nella primavera del 40 a.C. i Parti di Orode II invasero la Siria e, dopo aver travolto i governatori anoniani, dilagarono in Asia Minore e in Giudea, dove nel frattempo prendeva consistenza il potere di Erode, che veniva riconosciuto a Roma col titolo di re. Antonio non potè reagire a questi primi rovesci perché richiamato in Italia dalle conseguenze della guerra di Perugia. Poco prima della fine del 39 a.C. il generale antoniano Publio Ventidio Basso riuscì a respingere i Parti dai territori provinciali romani; nel 38 a.C., divenuto governatore di Siria, fronteggiò un loro nuovo tentativo di invasione e li ricacciò al di là dell’Eufrate. Nel 37 a.C. si aprì in Partia una crisi dinastica, che consentì ad Erode di espellere i Parti dalla Giudea e da Gerusalemme. Antonio non pitè però approfittarne perché in primavera fu costretto a recarsi a Taranto per il rinnovo del triumvirato. Dopo l’accordo di Taranto Antonio potè ritornare in Oriente, lasciando Ottavia in Italia. Nella restante parte del 37 a.C. egli cercò di dare un nuovo assetto ai territori d’Oriente in vista dell’inizio dell’impresa partica. L’attribuzione di territori che erano stati romani a principi locali (nella penisola anatolica furono mantenute solo le province d’Asia e di Bitinia; il Ponto, la Galazia, la Paflagonia e la Cappadocia furono affidati a re clienti; la Cilicia fu in parte annessa alla Siria; la Giudea fu data a Erode) e, in particolare, l’assegnazione all’Egitto di una parte della Cilicia, della Fenicia, della Celesiria, di una porzione dell’Arabia e, forse, di Cipro contribuirono ad offrire non pochi elementi di sdegno alla campagna diffamatoria nei confronti di Antonio che nel frattempo Ottaviano stava cominciando a montare in Italia. Nella primavera del 36 a.C. Antonio diede inizio alla sua grande spedizione partica. Non riuscì a prendere la città e dovette ritirarsi. 34 a.C. conquista dell’Armenia. Nel 35 a.C. si era intanto consumata la definitiva rottura tra Antonio e Ottaviano, in seguito alla beffa giocata da quest’ultimo al collega proprio all’indomani della sua ritirata partica. In luogo del 20.000 legionari che si era impegnato a fornirgli con gli accordi di Taranto, egli restituì ad Antonio solo 70 delle navi da lui ricevute (superstiti degli scontri contro Sesto Pompeo) e gli inviò la sorella Ottavia con 2.000 uomini. Antonio cadde nella provocazione, e ingiunse ad Ottavia di ritornarsene indietro, dopo averla fatta fermare ad Atene Ottaviano era l’offeso, l’oltraggiata la sorella, una donna romana e moglie legittima scacciata a causa di Cleopatra, un’amante orientale. Per tutta risposta Antonio celebrò la conquista dell’Armenia con una fastosa cerimonia ad Alessandria (34 a.C.), confermando a Cleopatra e a Tolemeo Cesare (che egli ribadiva essere figlio naturale e dunque unico reale consanguineo di Cesare – uno schiaffo a Ottaviano che era solo figlio adottivo del dittatore) il trono dell’Egitto, di Cipro e della Celesiria. 4.5 Lo scontro finale; Azio Antonio non ebbe più tempo per intraprendere un’altra impresa partica. Nel 32 a.C. il triumvirato si avviava alla sua scadenza naturale. I due consoli del 32 a.C., Cneo Domizio Enobarbo e Caio Sosio, entrambi antoniani, chiesero la ratifica delle decisioni prese da Antonio in Oriente. Ottaviano ne impedì al senato l’approvazione. Entrambi i consoli e trecento senatori decisero conseguentemente di abbandonare l’Italia per rifugiarsi presso Antonio. Quest’ultimo rispose inviando ad Ottavia un formale atto di ripudio. Rivelando ad arte un testamento in cui Antonio disponeva di essere sepolto ad Alessandria accanto a Cleopatra e attribuiva regni ai figli avuti con la regina, Ottaviano ottenne che il triumviro venisse privato di tutti i suoi poteri, anche del consolato del 31 a.C. Lo scontro determinante avvenne nel Mar Ionio dinanzi ad Azio (settembre 31 a.C.) con una battaglia navale vinta da Agrippa per Ottaviano. Antonio e Cleopatra si rifugiarono in Egitto. Ma quando Ottaviano, ormai padrone della parte orientale del Mediterraneo, penetrò in Egitto da Oriente con le sue truppe e prese Alessandria (1 agosto 30 a.C.), prima Antonio e poi Cleopatra si suicidarono. L’Egitto fu dichiarato provincia romana. Nel frattempo anche l’altro Cesare, l’unico figlio naturale di Cesare, Tolemeo Cesare, era stato opportunatamente eliminato, così come Antillo, figlio maggiore di Antonio e Fulvia. I figli di Antonio e Cleopatra vennero invece risparmiati, portati a Roma e allevati da Ottavia. AUGUSTO 1.1 Impero romano e Impero dei Cesari: Azio e la cesura tra storia repubblicana e storia del Principato Convenzionalmente con il 31 a.C. (talora con il 30 o con il 27 a.C.) si sul fare iniziare il Principato, vale a dire il regime istituzionale incentrato sulla figura di un reggitore unico, il princeps. Anche negli anni successivi Augusto alternò periodi circa triennali di permanenza nelle province a periodi circa biennali di resistenza a Roma. 1.5 La crisi del 23 a.C. Nel 23 a.C. si verificò una grave crisi, scandita da tre avvenimenti: una malattia che per poco non fu esiziale, un processo di Stato, una congiura. In Spagna Augusto si era seriamente ammalato, tanto che verso la metà del 24 a.C, fece ritorno a Roma e a un certo punto si aggravò e si sentì in fin di vita. Con la sua morte la gestione della cosa pubblica sarebbe tornata agli organi istituzionali dello Stato. La situazione che si era venuta creando presupponeva però, senza una reale possibilità di ritorno, che alla testa dello Stato ci fosse una sola persona, monocrate di fatto; tuttavia la mancanza di precedenti e di una prassi per la sua sostituzione implicava il serio pericolo di un vuoto di potere. Nel 23 a.C. la scomparsa prematura di Augusto avrebbe potuto riaprire il flagello delle guerre civili. Ottaviano aveva già iniziato a far progredire politicamente alcuni membri della sua famiglia ma, data la loro giovane età, il tempo era stato insufficiente. In assenza di figli maschi, Giulia (maggiore), da lui avuta da Scribonia, era divenuta il fulcro delle sue strategie politiche. Nel 25 a.C., ella aveva sposato il cugino Marco Claudio Marcello, figlio di Ottavia, sorella di Augusto. Già nel 29 a.C. Marcello aveva preso parte in posizione più eminente rispetto a Tiberio. Tuttavia, quando Augusto credette di essere arrivato alla fine, consegnò il suo anello col sigillo ad Agrippa e la lista delle truppe e delle pubbliche entrate al collega nel consolato Cneo Calpurnio Pisone, che aveva sostituito Murena. Contro ogni aspettativa però Augusto si riprese e guarì definitivamente. Al contrario Marcello morì verso la fine dello stesso 23 a.C. e nel 21 a.C. Giulia fu data in moglie ad Agrippa. D’altra parte iniziava ad essere motivo di irritazione il fatto che, a partire dal 31 a.C., Ottaviano Augusto occupasse permanentemente uno dei due posti del consolato, limitando così in maniera drastica le aspirazioni di molti. In questa situazione di disagio avvenne che un certo Marco Primo fosse tratto in giudizio per alto tradimento per aver mosso guerra, come proconsole di Macedonia, al popolo confinante degli Odrisi Traci senza averne ricevuto autorizzazione. Primo si difese sostenendo di aver ricevuto istruzioni in questo senso dal princeps e coinvolgendo con insinuazioni lo stesso Marcello. Augusto fu costretto a comparire in tribunale e il suo diniego sotto giuramento determinò la condanna dell’imputato. Murena, che era stato difensore del proconsole, fu nello stesso 23 a.C. coinvolto nella congiura ordita da Fannio Cepione, esponente di ambienti filorepubblicani, per eliminare Augusto. A metà anno Augusto depose il consolato, che aveva detenuto ininterrottamente dal 31 a.C., e non lo ricoprì più se non dopo molto tempo, nel 5 a.C. e nel 2 a.C. In sostituzione ottenne un imperium proconsolare rinnovabile a vita, conferitogli però in forma tale che non dovesse deporlo più quando si trovasse a Roma o in Italia. L’imperium proconsolare, anche se conservato, non consentiva però ad Augusto, quando si trovava a Roma, di agire nella vita politica; esso non gli consentiva infatti di convocare né il senato né il popolo. Per ovviare a questo impedimento il principe ricevette dal senato i pieni diritti di un tribuno della plebe, la tribunicia potestas, vitalizia, anche se rinnovata annualmente. In virtù di essa Augusto diveniva protettore della plebe di Roma, poteva convocare i comizi, porre il veto e godere della sacrosanctitas, ovvero diveniva sacro e inviolabile, senza però l’obbligo di non allontanarsi dall’Urbe. Gli fu dato inoltre il diritto di convocare il Senato. Inoltre, con la sistematica introduzione, soprattutto a partire dal 5 d.C., di consoli suffetti (supplenti) si aumentò il numero dei posti da ricoprire, anche se la netta limitazione del tempo di permanenza di ciascuno nella carica (che inevitabilmente ne derivava) ne comprometteva in gran parte l’autorità e l’incisività di azione. Quanto alle elezioni, esse erano state ristabilite in forma più o meno regolare sin dal 27 a.C. In realtà, le elezioni potevano essere influenzate da Augusto attraverso due procedure, la nominatio, cioè l’accettazione delle candidature da parte del magistrato che sovrintendeva all’elezione e la commendatio, la raccomandazione da parte dell’imperatore stesso. Le assemblee popolari furono confinate col tempo a un ruolo sempre più marginale, mentre si perseguiva una sorta di equilibrio tra principe e classi superiori (senatorie ed equestri). 1.6 Il perfezionamento della posizione di preminenza Negli anni successivi si aggiunsero altre prerogative. Nel 22 a.C., in seguito a una carestia, Augusto rifiutò la dittatura offertagli dal popolo e assunse la cura annonae, cioè l’incarico di provvedere all’approvvigionamento di Roma. Nel 19 e nel 18 a.C. esercitò anche il potere di censore. In questa veste potè condurre un’ulteriore lectio del senato, i cui membri furono ridotti di numero. Anche Agrippa aveva ricevuto nel 23 a.C. un imperium proconsolare di 5 anni, per potersi recare in Oriente a risolvere numerosi problemi, mentre Augusto si trovava a Roma. Tra il 22 e il 19 a.C., Augusto si portò sul confine orientale, dove era necessario sistemare la questione partica e armena. Intanto Agrippa, ritornato a Roma, sposava la figlia di Augusto, Giulia, rimasta vedova di Marcello. Nel 18 a.C. scadevano il mandato di 10 anni sulle province non pacificate attribuite ad Augusto nel 27 a.C. e quello concesso ad Agrippa nel 23 a.C. Entrambi si videro rinnovare per 5 anni l’imperium proconsolare. Agrippa, allo stesso tempo, ricevette anche la tribunicia potestas, così da rendere la sua posizione sempre più vicina a quella del princeps. Egli aveva già avuto nel 20 un figlio da Giulia, Lucio Cesare, e nel 18 un secondo, Caio. Nel 17 a.C. Augusto li adottò entrambi, facendone di fatto i suoi successori designati. 1.7 I ceti dirigenti (senatori ed equites) Il senato, il principale organo della politica romana che aveva il vantaggio di permanere stabile nel tempo, negli ultimi anni della Repubblica aveva visto una profonda trasformazione nella sua composizione tradizionale, con un notevole aumento dei suoi membri (da 600 si era arrivati a più di 1.000) in seguito all’ingresso massiccio di sostenitori di Cesare e poi dei triumviri. Augusto agì su questa situazione in varie fasi e attraverso diversi provvedimenti, che miravano a ripristinare la dignità e il prestigio dell’assemblea senatoria favorendo, tra l’altro, l’accesso delle elite provinciali più fortemente romanizzate, per esempio, della Gallia meridionale e della Spagna. Le misure prese da Augusto furono adottate principalmente in due occasioni, nel 29/28 a.C. e nel 18 a.C. Nella prima, nella sua veste di console, si fece conferire la potestà censoria e procedette alla lectio senatus, cioè alla revisione delle liste dei senatori, espellendo dall’assemblea le persone indegne. Nel 18 a.C., sempre grazie alla potestà censoria, condusse una più radicale revisione, riportando il numero di senatori ai 600 previsti da Silla. In taluni casi Augusto stesso poteva concedere il diritto ad entrare in senato a chi non apparteneva a una famiglia senatoria. Naturalmente era necessario rivestire una magistratura, ma Augusto si riservava la facoltà di intervenire designando a una carica propria candidati. Addirittura poteva direttamente cooptare delle persone inserendole in senato tra le fila di coloro che avevano rivestito una determinata magistratura (cioè tra gli ex pretori o tra gli ex pretori), attraverso la procedura dell’adlectio. 1.8 Roma, l’Italia e le province L’Italia non fu pressochè interessata da riforme amministrative. Dopo la guerra sociale e la legislazione cesariana tutti gli abitanti dell’Italia erano diventati cittadini romani. L’amministrazione delle province invece, pur rimanendo essenzialmente fondata sul sistema repubblicano, vide un cambiamento di natura soprattutto politica. Le province che ricadevano sotto la responsabilità diretta di Augusto erano quelle in cui si trovavano una o più legioni. Queste province non pacificate, ovvero di frontiera o di recente conquista, crebbero dalle iniziali 5 fino a raggiungere il numero di 13 alla fine del suo principato. Tali province venivano governate da appositi legati, i cosiddetti legati Augusti pro praetore. I legati, il cui mandato era di durata variabile a discrezione della volontà del principe, avevano il governo della provincia e il comando delle legioni, ma non il potere di riscuotere le tasse, la cui organizzazione era affidata ai procuratori di rango equestre, che si occupavano anche del controllo dei beni fondiari imperiali, delle miniere e delle cave. Nelle altre province, quelle di competenza del popolo romano, che arrivarono a dieci all’inizio del I secolo d.C., in genere (salvo talune eccezioni) prive di legioni al loro interno (province pacificate), i governatori, seguendo la prassi repubblicana, erano sempre senatori, ma in questo caso erano scelti a sorte tra i magistrati che avevano ricoperto la pretura o il consolato (Asia e Africa spettavano ai due consolari più anziani; le altre erano tratte a sorte tra gli ex pretori). Restavano in carica un solo anno, comandavano le forze militari presenti nella loro provincia. Anche nelle province del popolo Augusto poteva intervenire in virtù del suo imperium maius. Un’eccezione a questo ordinamento era costituita dall’Egitto che, subito dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, era stato assegnato a un prefetto di rango equestre. Il prefetto d’Egitto comandava le legioni ivi installate ed era responsabile dell’amministrazione e della giustizia. Fu necessario inoltre creare un sistema razionale per l’esazione di imposte e tasse, che mitigasse lo sfruttamento brutale delle requisizioni adottate per le guerre civili ed esterne. 1.9 L’esercito, la pacificazione e l’espansione All’indomani di Azio, gli uomini impegnati nell’esercito superavano di gran lunga le necessità e i mezzi dell’impero. La paga dei soldati gravava sulla cassa dello Stato, l’aerarium Saturni, in cui confluivano le imposte regolari delle province, ma i costi della liquidazione dei veterani rappresentavano un peso straordinariamente alto e in un primo tempo furono sostenuti con il bottino di guerra e con il patrimonio personale di Augusto. In un primo tempo i veterani ricevettero soprattutto terre, in Italia e in alcune province, Successivamente ottennero per lo più del denaro. Un’altra innovazione importante fu l’istituzione di una guardia pretoriana permanente, inizialmente posta agli ordini di due prefetti di rango equestre e acquartierata in parte nei pressi dell’Urbe, in parte in città, in diversi punti. Augusto preferì affidare alla diplomazia, piuttosto che alle armi, le questioni orientali. In Egitto furono estesi i confini meridionali grazie all’azione del primo prefetto d’Egitto, Caio Cornelio Gallo, che concluse un accordo con gli Etiopi (29-27 a.C.). I confini con il regno partico vennero invece stabilizzati grazie a trattative diplomatiche e grazie ai rapporti politici stretti con gli Stati contigui ai territori provinciali. Si creavano in questo modo alcuni Stati cuscinetto nell’ambito dell’egemonia romana, che assolvevano a una funzione di controllo su zone poco urbanizzate al margine del deserto. Alla morte di Aminta, re di Galazia e delle regioni circostanti (25 a.C.), Augusto decise di annetterne il regno, che divenne provincia romana; scomparso Polemone (18 o 17 a.C.), il Ponto fu suddiviso tra le province di Bitinia e di Galazia; alla morte di Erode (4 a.C.), i suoi vasti territori furono suddivisi tra i figli col titolo di tetrarchi, poi nel 6 d.C. la Giudea divenne provincia romana. riguardo ad Augusto. Nel 18 a.C. l’imperium di Agrippa fu confermato per un altro quinquennio e gli venne attribuita la tribunicia potestas, entrambi rinnovati nel 13 a.C. Egli morì però l’anno seguente. Nel 17 a.C., Augusto aveva adottato i due figli di Giulia e Agrippa, Caio e Lucio Cesari. Considerata la tenera età dei due ragazzi, la strategia di Augusto si concentrò sui figli della terza moglie Livia, nati dal primo matrimonio di questa con Tiberio Claudio Nerone: Tiberio (che con le sue campagne in Oriente, in Rezia e nel Norico si stava rivelando come uno dei più brillanti generali dell’impero) e Druso (dimostratosi anch’egli assai valente). Tiberio, che aveva sposato Vipsania Agrippina, figlia del primo matrimonio di Agrippa, dovette divorziare da lei e sposare Giulia nell’11 a.C. Tiberio ricoprì due volte il consolato (13 e 7 a.C.), nell’11 a.C. gli fu conferito l’imperium proconsolare per cinque anni, ma poi si ritirò dalla vita politica e si autoesiliò nell’isola di Rodi. In parallelo Druso aveva ottenuto nel 10 a.C. l’imperium proconsolare da esercitare in Germania. In tale veste aveva condotto le due brillanti campagne del 10 e del 9 a.C., anno in cui morì. A partire dal 6 a.C. Caio e Lucio Cesari erano stati progressivamente elevati alle alte cariche. Rispettivamente nel 5 e nel 2 a.C. (in concomitanza con le ultime due assunzioni del consolato da parte di Augusto) furono designati consoli per esercitare la carica cinque anni dopo. In ogni modo Caio Cesare e Lucio Cesare non poterono diventare reali avversari di Tiberio perchè la morte li colse giovanissimi. Nell’1 a.C. Tiberio aveva richiesto il permesso di rientrare a Roma dal suo autoesilio a Rodi, permesso che gli fu rifiutato. Già nel 2 d.C. però gli era stato consentito di tornare nell’Urbe e aveva sciolto il matrimonio con Giulia, colpita da uno scandalo e condannata all’esilio dal padre stesso. Augusto pretese allora da Tiberio che adottasse Germanico, il figlio di suo fratello Druso e di Antonia, anche se Tiberio aveva un suo proprio figlio di nome Druso. Tiberio adottò Germanico nel 4 d.C. e Augusto adottò contemporaneamente Tiberio e Agrippa Postumo, il suo solo nipote sopravvissuto. Successivamente a Tiberio furono attribuiti la potestà tribunizia e l’imperium proconsolare sulla Germania e le Gallie. Ben presto Agrippa Postumo cadde in disgrazia. Nel 14 d.C. Tiberio venne precipitosamente richiamato dall’Illirico, dove si era appena recato, per l’aggravarsi delle condizioni di salute di Augusto. Così, alla morte del principe, esisteva già una personalità con pari poteri in campo civile e militare che poteva in un certo modo ereditare l’influsso e il carisma che Augusto aveva reso una prerogativa della propria casa, anche attraverso una diffusa opera di propaganda culturale. Pur entro un generale e diffuso consenso, l’opposizione non venne mai meno durante l’intero corso del lungo principato augusteo. I GIULIO CLAUDI 2.1 Una dinastia? Augusto morì in Campania nel 14 d.C., mentre Tiberio rientrava in gran fretta dall’Illirico. Tiberio fu però subito ben consapevole di non potersi in alcun modo presentare come sostituto di un uomo di così grande carisma. Fu probabilmente per questo che egli preferì far presente in senato come per lui, chiamato da Augusto a condividere gli oneri del comando, sarebbe stato difficile assumere la somma dei poteri del padre e suggerì piuttosto al senato di affidare la cura dello Stato a più persone. Il senato lo spinse però ad accettare i poteri e le prerogative che erano state di Augusto e Tiberio alla fine acconsentì con apparente riluttanza, esprimendo l’auspicio che si trattasse di un incarico temporaneo. In questo contingente si rivelò a pieno la realistica coscienza del senato di concepire l’impossibilità di un puro e semplice ritorno alla Repubblica, che comportasse la rinuncia alla parallela posizione di preminenza di un singolo che ereditasse l’auctoritas e l’iniziativa politica di Augusto. Tra il 14 e il 68 d.C., per circa mezzo secolo, il potere rimase così all’interno della famiglia giulio-claudia. Alla morte di Tiberio non potè però realizzarsi quanto aveva preordinato Augusto, che aveva cercato di precostituire una successione affiancando al figlio di Tiberio, Druso minore, Germanico, figlio di Druso maggiore e di Antonia minore, a sua volta figlia di Marco Antonio e di Ottavia, la sorella di Augusto, facendolo adottare da Tiberio. Germanico infatti morì nel 19 d.C., Druso minore nel 23 d.C. e la successione andò a favore di Caio, detto Caligola, il figlio di Germanico e Agrippina maggiore. Caligola non era stato adottato da Tiberio e non aveva condiviso con lui nè imperium proconsolare nè potestà tribunizia. Era una designazione che si basava solo sulla linea familiare. Alla morte di Caligala il potere rimase nella famiglia di Germanico, passando a un membro della generazione precedente, sempre però all’interno del ramo familiare discendente da Antonia minore e Druso maggiore, cioè Claudio, fratello di Germanico, il primo princeps completamente estraneo alla casa Giulia, che prese il nome di Cesare senza averne il sangue o essere stato adottato nella famiglia, ma semplicemente in quanto erede della casata. Infine l’ultimo esponente della dinastia fu Nerone, era figlio di un aristocratico estraneo alla famiglia di Augusto, Cneo Domizio Enobarbo. 2.2 Tiberio (14-37 d.C.) Malgrado la scarsa popolarità di cui Tiberio godeva e la poca simpatia che il suo predecessore aveva spesso mostrato per lui col relegarlo a lungo in posizioni secondarie, il suo governo fu sostanzialmente una positiva prosecuzione di quello augusteo. Volontà di rispettare le forme di governo già valorizzate da Augusto, in piena connessione con i precedenti repubblicani. In particolare, il rifiuto da lui più volte ribadito di onori divini dimostra il suo spirito tradizionalista. Tiberio fu un amministratore accorto dello Stato, capace anche di fronteggiare in modo adeguato delicate congiunture economiche. Durante il suo principato ebbe ulteriore sviluppo anche la modifica del sistema elettorale per la nomina dei magistrati superiori introdotto da Augusto. Si assiste alla decadenza dei comizi tributi. Ma ad una collaborazione istituzionale tra principe e senato con corrispose una comunanza di intenti politici. Durante tutto il suo periodo di governo Tiberio si trovò a fronteggiare una opposizione che rivendicava una più ampia autonomia decisionale e la libertas del senato. a tutto ciò si mescolarono gli attriti e i dissidi interni ai vari elementi e rami della famiglia e della corte imperiale che veniva via via formandosi. Sul fronte renano le cose andarono più per le lunghe. Germanico vi si precipitò dalle Gallie e con qualche difficoltà la rivolta fu circoscritta, anche grazie al fatto che i contingenti della Germania Superiore non vi erano uniti. Di seguito (15 e 16 d.C.) egli condusse le legioni al di là del Reno, nel territorio tra questo fiume e l’Elba, in piena continuità con la politica augustea. Le campagne si susseguirono e furono conseguiti alcuni risultati indubbiamente significativi almeno sul piano propagandistico, quali il raggiungimento della selva di Teutoburgo e la sepoltura data ai resti dei caduti di Varo. L’imperatore aveva deciso che la frontiera germanica dovesse considerarsi stabilizzata definitivamente sulla linea del Reno e che in Germania non fossero sviluppati ulteriori tentativi di ampliamento territoriale verso l’Elba, ma ci si dovesse accontentare dei successi ottenuti nel 16 d.C. da Germanico contro Arminio, che vennero considerati come una sorta di riparazione del disastro di Varo. La situazione nel quadrante compreso tra Reno, Elba e Alto Danubio (ormai fuori dal territorio dell’impero) si risolse in qualche modo da sé, grazie anche all’ostilità innata tra Cherusci, Catti e Marcomanni, e all’attività diplomatica condotta da Druso minore. Arminio e Maroboduo, l’altro potente capo germanico dell’epoca, re dei Marcomanni (Boemia), entrarono in conflitto tra loro (18 d.C.): Maroboduo fu sconfitto e costretto ad abbandonare il regno per una congiura interna (19 d.C.). Chiese e ottenne asilo in Italia, a Ravenna. Arminio fu ucciso a tradimento da uno del suo seguito nel 19 d.C. L’assetto augusteo dell’Oriente aveva lasciato irrisolti non pochi problemi, altri erano sorti nel frattempo. La dominazione romana in Anatolia si spingeva, in maniera diretta o indiretta, fino al regno di Cappadocia. Ad est e a nord della penisola si estendevano la Tracia e i territori intorno al Mar Nero, ancora molto instabili. Più ad oriente le due Armenie (Minore e Maggiore), la Commagene e la Mesopotamia tra Eufrate e Tigri. A meridione la Siria, che aveva ereditato dallo stato seleucide il problema della pressione e dell’espansione partica. A est e a sud della Palestina i Nabatei e le tribù arabe. Archelao di Cappadocia fu convocato a Roma perché sospettato di atteggiamento infedele e ivi morì nel 17 d.C.: la Cappadocia divenne allora provincia romana. Stessa sorte toccò alla Commagene alla morte del re Antioco III. Nel 19 d.C. Germanico si recò in Egitto, suscitando un grave incidente istituzionale e diplomatico. Ciò contravveniva difatti alle disposizioni augustee che vietavano ai senatori e ai cavalieri illustri l’ingresso nel Paese senza un esplicito permesso dell’imperatore. Forse Germanico aveva ritenuto che il suo imperium proconsolare maius su tutte le province transmarine lo esimesse dal chiedere il consenso di Tiberio, il cui imperium tuttavia restava sempre superiore al proprio. Fatto sta che Tiberio disapprovò apertamente l’atto. Ad Alessandria Germanico aveva preso l’iniziativa di ordinare l’apertura dei granai durante una carestia ed era stato fatto segno di onori eccezionali e quasi divini, che peraltro egli aveva esplicitamente rifiutato. La morte improvvisa di Germanico all’età di appena trentatrè anni (avvenuta in circostanze misteriose ad Antiochia nel 19 d.C., poco dopo il suo ritorno) assunse ben presto le dimensioni di un delitto politico. La morte di Germanico rese ancora più aspri a Roma i contrasti politici tra Tiberio e Agrippina maggiore, che in un primo tempo riuscì a riunire attorno a sè un partito di sostenitori. Erano in ballo, tra l’altro, il problema della posizione e del ruolo all’interno della famiglia imperiale e dello stato, e inoltre la prospettiva della futura successione, alla quale potevano essere candidati il figlio di Tiberio, Druso minore (che tuttavia morì già nel 23 d.C.), ma anche uno dei tre figli di Germanico e della stessa Agrippina. Una svolta nel principato di Tiberio si ebbe a partire dal 23 d.C., quando il prefetto del pretorio Seiano iniziò a crearsi un forte potere personale. Nello stesso 23 d.C. Druso minore morì all’improvviso all’età di trentasette anni. Corsero voci di avvelenamento da parte della moglie Livilla, istigata (o addirittura sedotta) da Seiano tra il quale e Druso non correva buon sangue. Si creava intorno a Tiberio, ormai sessantaquattrenne, un grande vuoto familiare: rimanevano i figli di Germanico (Nerone, Druso e Caio) e il Gemello sopravvissuto di Druso minore; pareva ripetersi, in peggio, il destino di Augusto. I maggiori erano Nerone e Druso (III), che Tiberio subito si premurò di raccomandare al senato. In questa situazione Seiano ritenne di poter trovare ulteriori spazi di ascesa personale. L’azione di Seiano mirò da un lato a rendere sempre più stretti i suoi legami con l’imperatore, dall’altro ad eliminare da ogni possibile prospettiva di successione il maggior numero di coloro su cui avrebbe potuto fondare le proprie speranze Tiberio. Riuscì così a raggiungere una posizione di grande una tendenza che sia era via via manifestata fin dal principato di Augusto. Lo stato romano non aveva mai posseduto un vero e proprio apparato burocratico né era dotato di una struttura amministrativa centralizzata in grado di far fronte alle nuove e molteplici esigenze della gestione imperiale. Tutto veniva sbrigato dai singoli magistrati al momento in carica e dai loro ausiliari. Una simile frammentarietà d’azione rendeva quasi impossibile un qualsivoglia coordinamento e un’accettabile incisività ed efficienza. Claudio applicò a questo campo gli schemi del personale di servizio nell’amministrazione delle grandi domus private, fondato su liberti di grande competenza e professionalità specifiche. Si passava così da un assetto privato ad uno pubblico. In campo giudiziario si assiste ad un crescente ruolo diretto d’imperatore, sia con una presenza assidua di Claudio ai procedimenti discussi dinanzi al senato sia con l’avocazione solo a sé di alcune cause. La sua linea politica di razionalizzazione dei servizi lo portò anche a cercare nuove soluzioni ai problemi di approvvigionamento granario e idrico che periodicamente affliggevano Roma. Costruì il porto di Ostia. Anche il sistema delle distribuzioni granarie vide un ammodernamento: l’organizzazione del servizio fu probabilmente tolta alla responsabilità del senato e assegnata al prefetto dell’annona. Finì di costruire anche due nuovi acquedotti per portare nell’Urbe l’acqua necessaria per le dimensioni che essa aveva raggiunto (entrambi erano stati iniziati da Caligola). Bonificò la piana del Fucino, nell’odierno Abruzzo, per aumentare la superficie coltivabile in Italia. La sua politica di integrazione è attestata inoltre da altri provvedimenti, come l’intensa opera di fondazione di colonie, in Britannia, Germania, Mauretania e altre regioni dell’Impero, la concessione della cittadinanza ad alcune popolazioni alpine. Nella prima parte del suo principato Caligola dovette risolvere le questioni lasciate aperte da Caligola. Affrontò la guerra in Mauetania, a cui pose fine nel 42 d.C. con l’organizzazione del regno in due province, affidate a procuratori equestri: la Mauretania Cesariense a est e la Mauretania Tingitana a ovest. Anche le questioni orientali furono oggetto di suoi interventi di modifica dell’assetto dei regni clienti istituiti da Caligola, con soluzioni più in linea con quelle tiberine. Nel 43 d.C. la Licia, che era fino allora rimasta organizzata come lega di città indipendenti, fu annessa e riunita alla Panfilia (tolta al governatore della Galazia) a formare una nuova provincia imperiale di rango pretorio. Nel 46 d.C. anche il regno di Tracia affidato a un figlio di Cotys fu incorporato e sottoposto a un procuratore. la Giudea fu ritrasformata da provincia in regno; alla sua morte (44 d.C.) essa ridivenne provincia. Antioco IV di Commagene riebbe il suo regno, che aveva perso durante il principato di Caligola e che detenne fino al 72 d.C., quando fu incorporato da Vespasiano e annesso alla provincia di Siria. I privilegi delle comunità ebraiche nelle città orientali furono ristabiliti, tutelando allo stesso tempo le istituzioni delle poleis greche, in modo da evitare conflitti tra i due gruppi. Provvedimento di espulsione degli Ebrei da Roma, adottato nel 49 d.C. In Armenia il re Mitridate, insediato sotto Tiberio, era stato costretto a rinunciare al suo regno durante il principato di Caligola. Fu tra alterne vicende riportato sul trono, approfittando anche dei rivolgimenti in cui si dibatteva lo stato partico. L’impresa militare più rilevante di Claudio fu certamente, nel 43 d.C., la conquista della Britannia meridionale che fu ridotta a provincia. Da Messalina Claudio ebbe due figli, Ottavia (nel 40 d.C.) e Tiberio Claudio Cesare, meglio conosciuto come Britannico (nel 41 d.C.). All’indomani della morte di Messalina si accese una vera e propria gara per affiancare a Claudio una nuova moglie. Alla fine egli finì per sposare (49 d.C.) la nipote Agrippina minore, fortemente sostenuta da Pallante e di nuovo da Lucio Vitellio, e già madre di Lucio Domizio Enobarbo, nato dal suo precedente matrimonio. Ella si adoperò in ogni modo per far adottare dall’imperatore il figlio, il che avvenne nel 50 d.C. 54 d.C. Claudio morì in circostanze poco chiare. 2.6 Nerone (54-68 d.C.) In un primo tempo Nerone assecondò l’autorevole influenza che esercitavano su di lui Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro cercando una forma di collaborazione con il senato, ma se ne distaccò progressivamente per inclinare verso una idea teocratica e assoluta del potere imperiale. La vena artistica e gli interessi culturali che lo portavano ad essere un grande ammiratore della Grecia, dell’Oriente e dell’Egitto, gli fornirono gli spunti che, insieme a elementi già presenti nella tradizione romana, trasformarono in senso apertamente assolutistico e monarchico l’atteggiamento imperiale, provocando l’opposizione dei gruppi senatori tradizionalisti. Il passaggio di potere da Claudio a Nerone si era verificato quasi senza scosse. La morte di Claudio era stata tenuta nascosta per il tempo necessario a predisporre la successione. Britannico non fu nemmeno preso in considerazione. La giovane età del principe lasciò in pratica la regia di governo nelle mani di Seneca e Burro e in quelle della potente e invadente madre Agrippina. Nel 55 d.C. Britannico stesso fu tolto di mezzo. La costante e soffocata presenza di Agrippina, che appariva tenerlo come sotto tutela, infastidì Nerone in misura sempre crescente. In questi anni l’amministrazione generale fu, nel suo complesso, efficiente e per certi aspetti lungimirante. Nel 58 d.C. fu ideato e sostenuto (anche se infine abbandonato per difficoltà pratiche di attuazione) un progetto che prevedeva l’abolizione delle imposte indirette (vectigalia) per favorire lo sviluppo del commercio e migliorare nel suo complesso l’economia. Nel frattempo si delineava sempre più chiaramente un altro aspetto del carattere di Nerone: l’inclinazione per la cultura e per le arti, per i giochi, per lo spettacolare e lo scenografico. Tra il 59 e il 62 d.C. Seneca e Burro si barcamenarono in una politica di sostanziale fedeltà a Nerone. nel 62 d.C. la morte di Burro portò ad una svolta decisiva. I due astri di corte emergenti divennero i prefetti del pretorio (di nuovo due) Fenio Rufo, avanzato dalla prefettura dell’annona e, soprattutto, Caio Ofonio Tigellino, promosso dalla prefettura dei vigili. Seneca cominciò a defilarsi gradualmente dalla scena politica. Ripresero le accuse di complotto contro l’imperatore a carico di alcuni senatori, con cui Nerone cercava di annientare l’opposizione ed eliminare gli ultimi nobili che potevano vantare una lontana forma di parentela con Augusto e potenzialmente minacciare la sua posizione. Nel 62 d.C. Nerone ripudiò Ottavia e sposò Poppea. Nel 64 d.C. Roma fu devastata da un terribile incendio. Ritenne di poter trovare un buon capro espiatorio nella comunità cristiana di Roma. Nerone cercò di rimediare alla crisi finanziaria con una importante riforma monetale. Al 64 d.C. stesso risale infatti un provvedimento di grande rilevanza e destinato a durare per molto tempo, la riduzione di peso e di fino della moneta d’oro. La svalutazione ebbe come effetto un immediato aumento dei prezzi che contribuì a far crescere il risentimento in una situazione già di per sé difficile. Per rimpinguare le casse dello Stato Nerone avrebbe inoltre utilizzato lo strumento dei processi e delle confische, rendendosi sempre più inviso alla nobiltà senatoria, tanto che nel 65 d.C. il malcontento esplose in una grave congiura, nota come congiura dei Pisoni, dal nome di uno degli ispiratori, l’aristocratico Caio Calpurnio Pisone. L’obiettivo era assassinare in pubblico e platealmente l’imperatore in modo da dare al gesto la massima risonanza. Smascherato il progetto in seguito a delazioni, ebbe inizio una spietata serie di uccisioni: Seneca e Fenio Rufo furono tra le principali vittime. L’opposizione non era stata però eliminata. Un’ulteriore e immediatamente successiva cospirazione, detta viniciana dal nome del suo ispiratore, Annio Viniciano, genero del famoso Cneo Domizio Corbulone, grande generale delle campagne partiche, fu scoperta e stroncata a Benevento nel 66 d.C. In politica estera, nel 64 d.C. il regno del Ponto orientale fu tolto al re Polemone II (che l’aveva ricevuto da Caligola nel 38 d.C.) e annesso alla provincia di Galazia. Nel 68 d.C. la Panfilia fu separata dalla Licia e di nuovo riunita alla Galazia: questa provincia si estese così dal Mar Nero al Mediterraneo. Nel 65 d.C. vennero annesse anche le Alpi Cozie. Nerone aveva progettato anche una spedizione nel Caucaso, verso il Mar Caspio, forse per contenere l’avanzata delle tribù sarmatiche (gli Alani) verso il Danubio; essa non ebbe però alcun compimento. I principali teatri d’intervento furono tre: l’Armenia, la Britannia e la Giudea. Tiridate veniva riconosciuto re d’Armenia; egli accettava però di recarsi a Roma per ricevere il diadema dalle mani di Nerone. Assicurata la situazione a Roma, nel 66 d.C. Nerone partì per la Grecia, dove intendeva compiere una tournèe artistica e agonistica. Nerone vinse premi in tutti gli agoni, compì gesti spettacolarmente propagandistici come quando ai giochi di Corinto proclamò la libertà delle città greche della provincia d’Acaia. All'inizio del 68 d.C. non aveva ancora fatto ritorno. Nel frattempo in Giudea, nel 66 d.C., la requisizione di parte del tesoro del Tempio di Gerusalemme ad opera del procuratore Gessio Floro era stata uno dei motivi dello scoppio di una violenta ribellione contro i Romani. Di fronte al dilagare della rivolta, che minacciava di estendersi all’intera Palestina e anche al di fuori di essa. Nerone aveva mandato Caio Licinio Muciano come nuovo legato di Siria, e Tito Flavio Vespasiano. Mentre Vespasiano riusciva gradualmente a riportare sotto controllo la situazione in Palestina, all’inizio del 68 d.C. Elio, il capo dei liberti imperiali, preoccupato dei malumori che serpeggiavano a Roma per la lunga assenza dell’imperatore, riuscì a convincere Nerone a ritornare nell’Urbe. Subito giunse la notizia che si era ribellato il legato della Gallia Lugdunense Caio Giulio Vindice, discendente da nobile stirpe dell’Aquitania e il cui avo aveva ricevuto la cittadinanza romana da Cesare, che aveva raccolto intorno a sé il disagio dei suoi provinciali. Vindice non sembra volesse rivendicare per sé l’impero, aveva difatti tentato di procacciarsi alleanze illustri, tra cui quella di Servio Sulpicio Galba, legato della Spagna Tarraconense, uno dei pochissimi membri di antiche famiglie senatorie che a quel tempo occupasse un posto importante. La ribellione fu comunque rapidamente contrastata dal legato della Germania Superiore Lucio Virginio Rufo e Vindice scelse la via del suicidio. A Rufo fu offerta dalle proprie truppe l’acclamazione a imperatore che egli rifiutò. Ma era solo l’inizio di tutta una catena di sollevazioni: del legato della Tarraconense Servio Sulpicio Galba, di quello dell’Africa Lçucio Clodio Macro (che minacciava di bloccare gli approvvigionamenti di grano per Roma), delle truppe del Reno. Anche i pretoriani, istigati da uno dei due prefetti, Caio Ninfidio Sabino, abbandonarono Nerone. Il senato lo dichiarò nemico pubblico, riconoscendo Galba come nuovo imperatore. A Nerone non rimase altro che il suicidio. L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI E I FLAVI 3.1 L’anno dei quattro imperatori: il 68/69 d.C. affrettarono a prestare giuramento a Vespasiano. A questo punto Civile venne a trovarsi nella scomoda situazione di non potere ricoprire più il ruolo di sostenitore di Vespasiano contro i vitelliani del REno e di essere perciò trattato e considerato come nulla più che un ribelle eversore. Quale rappresentante di Vespasiano, Muciano inviò due fedelissimi generali di provata esperienza, Quinto Petilio Ceriale e Appio Annio Gallo. Tra alterne (e non sempre favorevoli) vicende militari soprattutto Ceriale riuscì ad aver ragione degli insorti (cui venivano meno via via solidarietà d’intenti e compattezza), dei Celti prima e dei Batavi poi. I loro capi si rifugiarono sempre più a nord, in territori non controllati dai romani. Dei destini finali di Classico, Tutore e Civile non si sa nulla. La rivolta ebbe conseguenze di rilievo anche sul reclutamento militare in quelle regioni. Difatti per evitare il ripetersi di fenomeni analoghi di solidarietà tra esercito e popolazioni locali, la difesa dei territori renani fu affidata da allora quasi interamente a legioni di nuova costituzione provenienti da altre parti dell’impero. Al momento della sua acclamazione imperiale, Vespasiano era già riuscito a reprimere in Palestina la maggior parte dei focolai di ribellione e stava concentrando le sue forze nell’assedio della capitale della Giudea, Gerusalemme. Il comando fu allora lasciato al figlio Tito, che nel 70 d.C. riuscì a impadronirsi della città. La rivolta però non si estinse, anche se rimase limitata ad alcuni centri di resistenza accanita. Da allora a presidio della Giudea fu lasciata permanentemente di stanza una legione e la provincia venne governata da un legato imperiale di rango pretorio. I tre imperatori della dinastia flavia ebbero indole diversa tra loro, ma si contraddistinsero tutti per un rigido impegno nell’amministrazione. Il principato di Vespasiano rappresenta un sensibile progresso anche nella razionalizzazione dei poteri dell’imperatore e nel definitivo consolidamento della figura e del ruolo del princeps come istituzione. Vespasiano si associa già nel 71 d.C. il figlio di Tito con il titolo di Cesare, indicando così chiaramente il suo orientamento a favore di una trasmissione dell’impero per rigida successione dinastica. L’autorità del nuovo princeps fu definita con una legge comiziale (nota come lex de imperio Vespasiani), probabilmente in conformità con un decreto del senato. Nel documento si elencano i poteri del princeps. Probabilmente non si tratta di una nuova definizione istituzionale, ma semplicemente di una ricapitolazione e formalizzazione di tutte le prerogative dell’imperatore che erano state via via acquisite da Augusto e dai Giulio Claudi (eccettuati Caligola e Nerone). Vespasiano rivestì il consolato in modo quasi permanente e condividendolo con Tito. Tra il 70 e il 79 d.C. fu console otto volte, sette delle quali insieme a Tito. Lo stesso fece Tito: due consolati durante il suo brevissimo impero. Domiziano quando subentrò nel principato era già stato console (tra ordinario e suffetto) sette volte; successivamente ricoprì la carica pressochè ininterrottamente fino all’88 d.C. e solo tre volte in seguito. Mentre Vespasiano era ancora assente da Roma (fino a settembre-ottobre del 70 d.C.) l’opera di normalizzazione venne svolta in sua vece da Muciano (che fu suo stretto collaboratore fino alla morte, sopraggiunta poco prima del 77 d.C.) e da Domiziano, sui quali inevitabilmente ricadde la responsabilità delle decisioni assunte. Quando, nella tarda primavera del 71 d.C., giunse a Roma anche Tito, Vespasiano lo nominò (completamente innovando, perché non apparteneva all’ordine equestre) unico prefetto del pretorio e gli affidò così il pieno controllo del principale corpo militare stanziato nell’Urbe. L’accentramento delle cariche si completò nel 73-74 d.C. quando Vespasiano e Tito esercitarono insieme la censura. La politica di integrazione delle province si manifestò anche tramite la redazione e revisione delle liste cittadine e municipali, la concessione del diritto latino alle città peregrine della Spagna e l’immissione in senato di numerosi nuovi esponenti delle èlite delle province occidentali (soprattutto di quelle colonie spagnole che già possedevano la cittadinanza romana) e in misura via via crescente anche di africani ed orientali. Il complesso dell’azione di Vespasiano fu connotato da cospicue capacità organizzative, da profondo realismo e da saldo senso pratico. Uno dei primi problemi fu quello di dover fronteggiare il grave deficit di bilancio provocato dalla politica di Nerone e dalla guerra civile, nonchè di ricostruire molto di quanto era andato distrutto. I provvedimenti presi gli diedero nelle fonti fama di imperatore tirchio ed esoso, ma in realtà si rivelò un ottimo amministratore, riuscendo a risanare con diversi provvedimenti il bilancio dello Stato. L’aumento delle entrate, oltre che con nuove imposte, fu realizzato soprattutto con una più oculata riorganizzazione e razionalizzazione dell’apparato complessivo di riscossione e di controllo, nonché delle sue principali articolazioni finanziarie, l’erario e il fisco. Alla Grecia fu revocata l’immunità fiscale conferita da Nerone. Venne avviato un vasto programma di recupero dei terreni pubblici abusivamente occupati da privati, tanto in Italia, quanto nelle province. La misura di rivelò talmente impopolare da dover essere più tardi sospesa da Domiziano. Il patrimonio imperiale come tale venne separato, anche gestionalmente, dalla res privata del singolo principe. Vi furono interventi anche nel campo dell’istruzione. Vespasiano fece fronte inoltre alla crisi di reclutamento dovuta al peggioramento delle condizioni sociali ed economiche dell’Italia, favorendo l’estensione della cittadinanza ai provinciali e coscrivendo sempre più spesso i legionari delle province, un processo che si farà sempre più evidente nel corso del tempo. Negli anni del suo impero Vespasiano ristabilì definitivamente l’ordine nelle zone di confine, lasciate sguarnite dalle truppe che avevano partecipato alle guerre civili, tanto sul Danubio quanto in Britannia. Sul Danubio, quasi contemporaneamente alla rivolta batava, si era verificata un’incursione a sud del fiume, in territorio romano, delle popolazioni sarmatiche dei Roxolani. A risolvere la situazione fu inviato Rubrio Gallo, il quale sconfisse i Sarmati Roxolani e li costrinse a ritirarsi (70 d.C.). In Britannia venne ripristinato il contingente legionario che era stato in parte richiamato altrove dalla guerra civile e venne ripresa una politica di espansione sia verso occidente sia verso settentrione. Intorno all’estate dell’80 d.C. Agricola intraprese le operazioni in direzione della Scozia che furono da lui stesso completate sotto il principato di Domiziano. Anche in Germania fu annessa l’area dei cosiddetti agri decumates, lungo il corso superiore dei fiumi Reno e Danubio il cui controllo consentì una migliore saldatura difensiva di una zona difficile da presidiare tra i due fiumi e che servirono poi a Domiziano come base per la costituzione della fortificazione del limes germanico. In Oriente venne abbandonata definitivamente la politica degli Stati cuscinetto retti da re clienti aggregandone i territori alle province esistenti o creandone delle nuove. Al momento dell’ascesa di Vespasiano l’Asia Minore non era ancora tutta romana. Vi sopravvivevano due stati vassalli che si interponevano tra i territori romani e quelli partici, la Commagene, sotto re Antioco IV, e l’Armenia Minore, sotto Aristobulo. Nel 72 d.C. il governatore di Siria, Lucio Giunio Cesennio Peto accusò Antioco IV di Commagene di infedeltà: il sovrano venne deposto, il regno fu preso, disciolto e incorporato nella provincia di Siria. Nello stesso anno l’Armenia Minore fu annessa alla provincia di Cappadocia. Complessivamente Vespasiano riuscì a godere di un certo consenso e si ha notizia solo di un episodio di opposizione, quasi all’inizio del suo periodo imperiale, da parte di alcuni senatori appartenenti al circolo dei filosofi cinici e stoici, che reclamavano una maggiore considerazione delle prerogative senatorie, forse contro la promozione dell’idea di un principato ereditario. Nel 79 d.C. si ha notizia di un’altra congiura: essa fu ordita da Aulo Cecina Alieno (l’ex generale vitelliano passato a Vespasiano nel 69 d.C.) e Tito Clodio Eprio Marcello. Scoperta grazie alla vigilanza di Tito, si chiuse con la fine di entrambi i cospiratori. 3.4 Tito (79 – 81 d.C.) Tito era cresciuto alla corte di Claudio, nella quale aveva stretto una profonda amicizia con Britannico. Tito, oltre a ricoprire insieme al padre alcune magistrature, tra cui il consolato e la censura, era stato eccezionalmente anche prefetto del pretorio, pur non appartenendo all’ordine equestre ma a quello senatorio. Già dal 71 d.C. aveva ricevuto l’imperium proconsolare e la potestà tribunizia e, alla morte del padre, i titoli di Augusto e di pater patriae. nel 79 d.C. (quand’era quarantenne) l’avvicendamento avvenne senza problemi e continuò sulle linee tracciate. Tito non aveva discendenti maschi, ma solo una figlia, Giulia, di circa tredici anni. Domiziano rivestì il consolato nell’80 d.C. e gli furono conferiti taluni titoli e dignità, seppure in misura minore di quanto Vespasiano aveva fatto con il figlio maggiore. La fama lusinghiera che Tito si guadagnò durante il suo breve principato fu in parte dovuta a un acquisito senso di responsabilità derivatogli dalla pratica di governo accanto al padre, all’essersi liberato di quell’aureola di terribilità connessa alle mansioni poliziesche insite nella carica di prefetto del pretorio, ai pochi atti che i soli due anni di impero gli consentirono di assumere, ad una tradizione senatoria che volle rappresentare in lui l’esatto contraltare del poi tanto vituperato fratello Domiziano. La popolarità di Tito fu inoltre accresciuta da una politica di munificenza, in parte indotta dalla necessità di far fronte ad eventi catastrofici ed a calamità naturali da cui il suo biennio fu funestato, tra cui la rovinosa eruzione del Vesuvio (agosto del 79 d.C.). Ammalatosi nell’estate dell’81 d.C., Tito morì. 3.5 Domiziano (81 – 96 d.C.) Se il suo relativamente lungo principato (iniziato all’età di trent’anni) fu indubbiamente contraddistinto da uno stile di governo crescentemente autocratico (e quindi sempre più inviso), la sua azione politica fu certamente efficace e utile per l’Impero. Egli nella sostanza agì per molti aspetti in continuità con i suoi due predecessori. Sotto Vespasiano e Tito, Domiziano aveva cumulato dignità, ma in pratica nessun effettivo potere di governo e inoltre non godeva di alcun prestigio militare. Come segno esteriore rivestì il consolato eponimo per dieci volte (sette ne aveva già ricoperti sotto il padre e il fratello), raggiungendo il numero senza precedenti di diciassette e spesso rapidamente abbandonando la carica a favore dei consoli suffetti. A partire dall’84 d.C. assunse la potestà censoria e dall’85 la censura perpetua. La prima prova, insieme militare e organizzativa, venne quasi subito. All’82-83 d.C. data la prima di una lunga serie di campagne combattute dallo stesso Domiziano contro i Catti, popolazione germanica stanziata sulla riva destra del medio Reno. Il territorio riconquistato fu controllato attraverso l’impianto di accampamenti fortificati, collegati tra loro sul limes (il confine dell’impero) da una rete di strade e con i forti presidiati dai soldati ausiliari. I due distretti militari della Germania Superiore e Inferiore, sino ad allora retti da legati legionari, furono costituiti in province formali e regolari. In questo periodo (o poco dopo) fu segnata anche la linea esterna di confine oltre il Reno, lungo la catena dell’Alto Tauro. Si inaugurò così un sistema di difesa dei confini che, a partire da Adriano, fu adattato e impiegato in tutto l’Impero. In Britannia Agricola aveva continuato la sua brillante opera di conquista dell’isola ed aveva già iniziato l’invasione della Caledonia (Scozia) e progettato la conquista dell’Ibernia (Irlanda). Sempre per alleggerire l’onere finanziario delle comunità dell’Italia, Nerva trasferì alla cassa imperiale il costo del cursus publicus, cioè del mantenimento delle strade e delle stazioni di cambio per i messaggeri imperiali. Il principato di Nerva ebbe complessivamente scarsa opposizione. Nel 97 d.C., tuttavia, si manifestarono alcuni sintomi di crisi che minacciarono questa politica di buon governo e di rapporti costruttivi con il senato. Si trattava di problemi sia economici sia politico-militari. Gli sgravi fiscali e la politica sociale, che segnarono una svolta di Nerva rispetto alla pressione tributaria dei Flavi, non rimediavano, ma semmai accentuavano, le difficoltà economiche complessive che già si erano manifestate sotto Domiziano e a cui Nerva non poteva porre rimedio agevolmente. Sul versante politico i pretoriani, che in un primo momento erano stati tranquilli, aizzati dal nuovo prefetto del pretorio Casperio Eliano chiesero la punizione degli assassini di Domiziano. Nerva tentò invano di resistere, ma venne messo a tacere; e così i responsabili della congiura furono messi a morte. L’unico sistema per impedire una nuova disgregazione dell’Impero e, forse, lo scoppio di una guerra civile era quello di designare un successore che fosse in grado di affermarsi anche militarmente contro i pretoriani. Fu così che Nerva, anticipando tutti di sorpresa, adottò e associò immediatamente al potere il senatore di origine spagnola Marco Ulpio Traiano, in quel momento governatore della Germania Superiore, uomo di grande esperienza politica e militare. Nerva visse ancora solo tre mesi e nel gennaio del 98 d.C., alla sua morte, Traiano gli succedette come imperatore. Il prefetto del pretorio Casperio Eliano, invece, fu rimosso e giustiziato per insubordinazione verso Nerva, insieme agli altri pretoriani ribelli. 4.2 Il governo dell’Impero affidato al migliore: Traiano (98 – 117 d.C.) Marco Ulpio Traiano era nato nel municipio spagnolo di Italica (in Betica), da una famiglia di remote origini italiane. Dopo aver rivestito la pretura (nell’87 d.C.), quale legato di legione in Spagna era stato inviato con la sua legione sul Reno, nell’89 d.C., per fronteggiare la rivolta di Saturnino. Nel 91 d.C. egli aveva ricoperto per la prima volta il consolato ordinario e nel 96 – 97 d.C. era divenuto legato della Germania Superiore. Là aveva ricevuto la notizia della sua adozione da parte di Nerva. Il 1 gennaio del 98 d.C. aveva iniziato, senza muoversi dalla Germania, il secondo consolato insieme a Nerva, quando fu raggiunto dalla notizia della morte dell’imperatore. A Roma si recò solo oltre un anno dopo, giungendovi nell’autunno del 99 d.C. e preferendo completare prima il lavoro di consolidamento del confine renano e di riorganizzare degli apparati difensivi lungo il Danubio (Pannonia e Mesia). Egli univa nella sua persona le caratteristiche di esperienza militare e di un senso di appartenenza allo Stato che lo resero agli occhi dell’opinione pubblica del tempo l’optimus princeps, il reggitore ideale rispettoso delle istituzioni, sottomesso alle leggi, ma nello stesso tempo eminente per le proprie virtù e gradito all’esercito. Il principato di Traiano segna un cambiamento importante nella politica estera della Roma imperiale, soprattutto nel settore orientale: la diretta riduzione a statuto di provincia di terreni situati al di là del Danubio e dell’Eufrate, cioè di regioni che non erano mai state prima governate da re soci ed amici del popolo romano. Per tale aspetto Traiano è stato paragonato a un generale della Repubblica: l’espansione territoriale ha indubbiamente avuto un posto di rilievo tra i suoi programmi. Le campagne daciche (101 – 102 e 105 –106 d.C., che hanno il loro riscontro più significativo nella Colonna Traiana, eretta nel nuovo Foro voluto nel 112 d.C. dal princeps, su cui corre un bassorilievo a spirale con la rappresentazione degli avvenimenti salienti), sembrano aver goduto in particolare del sostegno del senato. Nel lungo periodo intercorso da quando Domiziano aveva dovuto porre fine alle ostilità in Dacia (89 d.C.), prima per la rivolta di Saturnino, poi perché richiamato da impegni bellici in altre zone, Decebalo non aveva cessato di rafforzarsi, coaugulando intorno a sé le popolazioni daciche. Dopo le ispezioni e le riorganizzazioni logistiche compiute lungo la frontiera danubiana nel 98-99 d.C., nella primavera del 101 d.C. Traiano concentrò un forte esercito in Mesia Superiore, attraversò il Danubio e avanzò rapidamente verso Tibiscum, senza che Decebalo accettasse mai lo scontro aperto. La prima, cruenta battaglia si ebbe a Tapae. L’esito della guerra stava arridendo a Traiano, ma lo sviluppo delle operazioni aveva sguarnito le zone del basso Danubio e i Daci, con i loro alleati sferrarono una violenta offensiva contro la Mesia Inferiore alla fine del 101 d.C. Lasciato il controllo del fronte dacico ai suoi generali, l’imperatore fu costretto ad accorrere. Nella primavera del 102 d.C. Traiano riprese l’offensiva Decebalo fu costretto a chiedere la pace accettando condizioni molto dure. A Decebalo fu lasciato il suo regno, ma sotto stretto controllo romano. Il dispositivo militare intorno alla Dacia venne mantenuto e rafforzato. Nel 105 d.C. le ostilità furono riprese, anche in seguito ad un attacco molto violento dei Daci contro le guarnigioni romane. Nel giugno del 105 d.C. Traiano partì da Roma per raggiungere il fronte danubiano. Decebalo si uccise. La Dacia fu annessa e ridotta a provincia romana. Una notevole importanza per l’Impero ebbe l’enorme bottino ricavato dalla conquista e l’oro che arrivava a Roma dallo sfruttamento delle miniere daciche: esso servì a finanziare sia le imprese militari sia le spese per le opere pubbliche e sociali varate da Traiano a Roma, in Italia e nelle province. Tra il 106 e il 107 d.C., la Pannonia (come già la Mesia sotto Domiziano) fu divisa in due province, Pannonia Superiore e Pannonia Inferiore. Contemporaneamente alla fine delle operazioni daciche (106 d.C.) si ebbe l’annessione del territorio dei Nabatei. Ciò determinò l’istituzione della provincia d’Arabia, corrispondente alla zona dell’attuale Giordania e della penisola del Sinai. Tra il 107 e il 113 d.C. furono di nuovo separate la Galazia e la Cappadocia, che insieme costituivano una provincia troppo vasta per un solo governatore: la Cappadocia e l’Armenia Minore da una parte, la Galazia con tutti i suoi annessi dall’altra, furono affidate a due diversi legati imperiali. Pur avendo raggiunto l’obiettivo proprio della campagna, la guerra contro i Parti venen continuata. Passato verso la fine del 114 d.C. in Mesopotamia, Traiano la occupò completamente nel corso del 115 d.C., costituendo una provincia di Mesopotamia. È incerto se sia stata istituita per brevissimo tempo una nuova provincia (l’Assiria) o nell’Adiabene o in Bassa Mesopotamia. Nessuna delle conquiste, ad eccezione della Dacia (che rimase romana per più di un secolo e mezzo), ebbe lunga fortuna. Era contemporaneamente divampata una vasta rivolta ebraica (scoppiata a Cirene e in Egitto, ed estesasi anche a Cipro, in Mesopotamia e in altre province orientali), che indusse Traiano ad abbandonare il teatro delle operazioni. L’8 agosto 117 d.C. Traiano morì in Cilicia. Le truppe acclamarono imperatore Pubio Elio Adriano. Il principato traianeo, oltre che dalle guerre, fu caratterizzato anche da un marcato interesse per i bisogni dell’Impero e della stessa Italia, nonché da una cura particolare per l’amministrazione e le infrastrutture. Con Traiano si ebbe la piena attuazione del programma di sussidi alimentari ideato già da Nerva. Traiano migliorò la logistica del rifornimento granario e, in genere, delle comunicazioni marittime dall’Italia. 4.3 Adriano (117-138 d.C.) La successione di Adriano, però, non era stata gradita da alcuni altri collaboratori di Traiano. Inoltre il suo nuovo corso nella politica orientale probabilmente suscitava l’opposizione degli uomini che erano stati vicini al suo predecessore e al suo orientamento espansionista. La Dacia, una volta riportata la situazione alla normalità, venne suddivisa in due province (Superiore, a Nord e Inferiore, a Sud). Poco dopo (verso la fine del 119 d.C.) nella parte settentrionale della Dacia Superiore venne creata la nuova provincia della Dacia Parolissense. Le province daciche divennero dunque tre: Parolissense, Superiore, Inferiore, ciascuna sottoposta ad un diverso governatore. Entro lo stesso 119 d.C. era stata soffocata in Britannia anche la sollevazione dei Briganti e la pace era stata ripristinata. Per acquistarsi le simpatie del senato e la pubblica benevolenza Adriano si preoccupò di alleviare il malessere economico, disponendo che le proprietà di persone condannate fossero assegnate all’erario e non al fisco imperiale e aiutando finanziariamente i senatori perché non fossero costretti a indebitarsi nell’esercizio delle rispettive magistrature. Cancellò i debiti arretrati con la cassa imperiale contratti a Roma e in Italia negli ultimi quindici anni dopo. Fece distribuzioni al popolo. La scelta di abbandonare la politica espansionistica di Traiano non deve fare pensare che Adriano fosse disinteressato all’esercito o alle province. Fu, al contrario, un amministratore attento e un riformatore della disciplina militare. Da profondo conoscitore dell’esercito ne rinvigorì la disciplina e favorì il reclutamento dei provinciali. Adriano fu anche uomo di grande cultura e favorì in ogni modo l’arte, la letteratura, le tradizioni e i culti, dimostrando una spiccata predilezione soprattutto per la civiltà ellenica. Fu un appassionato costruttore di palazzi e fondatore di nuove città. Il principe volle restituire splendore ad Atene e alle poleis greche, sia dando impulso alla trasformazione urbanistica, sia contribuendo alla rivitalizzazione delle loro istituzioni. Si impegnò nel controllo generale della situazione finanziaria e dell’amministrazione e incoraggiò la promozione delle èlite orientali nel senato di Roma. Dopo il suo arrivo nell’Urbe da imperatore (luglio 118 d.C.), Adriano vi rimase ininterrottamente per quasi tre anni, compiendo solo un breve soggiorno in Campania, nel 119 d.C. In seguito passò gran parte del suo principato viaggiando attraverso le province. Negli anni dal 121 al 125 d.C. percorse dapprima la Gallia e le province renane e danubiane, curando la disciplina e l’allenamento permanente dell’esercito. Si occupò poi del rafforzamento e del consolidamento dei nuovi territori oltre il Reno, che erano stati riordinati sotto Vespasiano e Domiziano (agri decumates). Vi fece edificare una palizzata continua in legno, alta circa tre metri, dotata di posti di sorveglianza a distanze fisse, che costituì il primo esempio di limes artificiale romano. nel 122 d.C. passò poi in Britannia. All’inizio del 124 d.C. giunsero notizie di nuovi pericoli sulla frontiera partica e allora Adriano si decise a passare in Asia, dove ebbe luogo un abboccamento, che condusse a un trattato di pace, col re persiano Osroe, a cui restituì la figlia presa prigioniera da Traiano. Proseguì poi per la Cappadocia, il Ponto e altre province dell’Asia Minore per giungere nell’autunno del 124 d.C. ad Atene. Trascorse gli anni dal 125 e il 129 d.C. tra Roma e l’Africa, dove, in modo semplice a quanto aveva fatto in Britannia, iniziò la costruzione del fossatum Africae, una serie di fortificazioni. che anche il fratello adottivo Lucio Vero fosse riconosciuto come tale e condividesse con lui il principato. Si trattava di una decisione importante, perché era il primo caso di doppio Principato, cioè di coreggenza piena, nella storia imperiale romana, vale a dire della piena condivisione collegiale del potere da parte di due imperatori posti su di un piano di perfetta uguaglianza. Marco non aveva mai esercitato nessun comando militare, non aveva mai governato una provincia né mai ne aveva visitate, aveva trascorso sempre la vita a Roma, incline per indole alla meditazione e alla filosofia. Tuttavia passò una parte preponderante del suo impero impegnato in guerra sulle frontiere. In particolare dal 168 al 180 d.C. rimase a Roma in tutto pochi mesi nel 169 d.C. e poi soltanto dalla fine del 176 d.C. all’estate del 178 d.C. Subito all’inizio del principato vi furono agitazioni sulle frontiere della Britannia, della Germania e della Rezia, sedate a quanto pare con facilità, ma che sarebbero riprese in modo molto più grave da lì a poco. Nel 161 d.C. si riaprì in maniera traumatica il problema partico. Il re dei Parti, Vologese IV, succeduto a Volgese III, alla notizia della morte di Antonino Pio, decise di occupare l’Armenia, imponendovi un proprio re vassallo, Pacoro. Ebbe inizio così un lungo conflitto (161 d.C. - 166 d.C.), normalmente articolato in tre fasi, segnate da operazioni successive, man mano che i preparativi fossero compiuti: armeniaca (fino al 163 d.C.), partica vera e propria (163 – 165 d.C.), medica (165 – 166 d.C.). Fu inviato in Oriente Lucio Vero. La vittoria procurò ad entrambi gli imperatori il titolo di Armeniacus. Le legioni di Siria, riorganizzate da Avidio Cassio e da stretti collaboratori di Lucio, verso la fine del 163 d.C. diedero inizio all’offensiva contro la Partia. Verso la fine del 165 o all’inizio del 166 d.C. gli eserciti romani penetrarono in Media. Più o meno contemporaneamente furono organizzate spedizioni contro gli arabi, che probabilmente si erano alleati con i Parti. La pace fu conclusa nel 166 d.C. Il bilancio delle campagne partiche era stato complessivamente positivo. L’Armenia e l’Orsroene ricevettero di nuovo principi clienti sotto la protezione dei legati di Cappadocia e di Siria. Inoltre le truppe romane occuparono le sponde dell’Eufrate fino a Dura Europos, che entrava così a far parte del territorio dell’Impero, entro il quale rimase per circa un secolo. Il controllo del fronte orientale potrebbe aver favorito anche l’apertura di nuove vie commerciali con l’estremo Oriente. La guerra, con la grande concentrazione di truppe sul fronte partico, fu anche la causa indiretta della crisi che travagliò l’Impero negli anni successivi. Infatti l’esercito tornato dall’Oriente portò con sé la pestilenza (presto seguita da una pesante carestia) che causò lutti e devastazioni in molte regioni con gravi conseguenze demografiche ed economiche. Inoltre lo sguarnimento della frontiera settentrionale tra alto Reno e Alto Danubio creò le condizioni perché i popoli confinanti del Nord-Est, soprattutto Marcomanni e Quadi, si facessero pericolosi. Al di là dei popoli che vivevano lungo il limes ce n’erano altri che premevano contro di essi, i Longobardi (nelle regioni attraversate dall’Elba) e, più in là, i Goti (verso la Vistola), i Vandali e i Burgundi. A partire dal 160 d.C. tribù germaniche e altri popoli nomadi avevano iniziato scorrerie lungo i confini settentrionali dell’impero, tra Reno e Danubio. Nell'estate del 166 d.C., prima che ritornassero sul luogo gli eserciti spostati in Oriente o altre truppe fossero inviate a supporto in loro sostituzione, Quadi e Marcomanni, alla testa di una coalizione composta da oltre una decina di popolazioni germaniche e sarmatiche, superato il Danubio, si riversarono sulle zone mal difese della Rezia, del Norico, della Pannonia e della Mesia e giunsero persino a minacciare l’Italia. Nel 168 d.C. Marco Aurelio e Lucio Vero presero le necessarie misure per far fronte alla situazione. L’invasione gu momentaneamente contenuta e addirittura respinta, tanto che, verso la fine del 168 d.C. i due imperatori decisero di poter riprendere la strada per Roma. ma sulla via del ritorno, all’inizio del 169 d.C., Lucio Vero morì all’improvviso. Marco cercò un nuovo sretto collaboratore nel legato della Pannonia Inferiore, Tiberio Claudio Pompeiano. I successivi undici anni furono quasi tutti impegnati in guerre continue sulle frontiere danubiane: nel 170 – 174 d.C. contro i Marcomanni e i Quadi, nel 174 d.C. contro gli Iazigi, dal 178 d.C. di nuovo all’attacco di Marcomanni e Quadi, nell’intento di chiudere definitivamente la partita con loro. Nel 170 d.C. l’imperatore era di nuovo sul fronte, a Sirmio, nella Pannonia Inferiore, da cui si trasferì poi a Carnuntum, in Pannonia Superiore. L’offensiva ebbe scarso successo e in essa vi furono rovesci importanti (è a questa fase che parte degli studi recenti attribuisce l’irruzione in Italia, la distruzione di Opitergium e l’assedio di Aquileia), che vennero arginati anche grazie a Claudio Pompeiano e a Publio Elvio Pertinace (il futuro imperatore, allora suo assistente), i quali riuscirono a ricacciare gli incursori oltre il Norico e a Pannonia e a sconfiggerli severamente mentre tentavano di ripassare il Danubio carichi di bottino (171 d.C.). Nel 171 – 172 d.C. ebbe inizio la controffensiva lungo il limes anche se contemporaneamente Roma dovette fronteggiare altri disordini. In Spagna, nella Betica, si ebbe un’incursione di Mauri che, attraverso lo stretto di Gibilterra, misero a soqquadro la regione. In Egitto i Bucòloi, un movimento ribellistico di connotazione incerta, guidati da un sacerdote, devastarono il Delta e giunsero a minacciare la stessa Alessandria. Sul limes danubiano le azioni belliche si alternarono a trattative diplomatiche condotte allo scopo di spezzare l’unità della coalizione nemica. Varie tribù furono accolte entro i confini dell’Impero. Nel 172 d.C. le truppe romane operarono non più nelle province invase e lungo il Danubio, ma entrarono all’interno del territorio avversario, dapprima in quello marcomannico. Nonostante alcuni rovesci i Marcomanni furono infine sconfitti. La guerra proseguì contro i Quadi che nel 173 d.C. furono sottomessi e dovettero accettare dure condizioni di pace. La campagna di espansione nelle zone sarmatiche stava continuando, quando dovette essere interrotta per il sopraggiungere della notizia che Avidio Cassio, probabilmente ingannato da informazioni false sulla morte di Marco Aurelio, si era fatto proclamare imperatore (primavera del 175 d.C.) ed era stato riconosciuto tale dalla maggior parte delle province orientali, incluse la Siria e l’Egitto, ma esclusa la Cappadocia. Verso la metà del 175 d.C. Marco Aurelio abbandonò il fronte danubiano e partì per l’Oriente. Il fatto che nel giro di pochi mesi Avidio Cassio venisse ucciso dalle sue stesse truppe (estate 175 d.C.) prevenì il conflitto armato. Marco Aurelio col suo seguito proseguì ugualmente per l’Oriente. Nel 178 d.C. i Marcomanni e i Quadi si ribellarono contro le dure condizioni che erano state loro imposte e nell’estate Marco Aurelio dovette ripartire per il fronte insieme a Commodo, risoluto a chiudere la partita definitivamente. Ma proprio quando, nel 180 d.C., stava per essere lanciata la campagna decisiva, che coinvolgeva anche la Sarmazia degli Iazigi, Marco Aurelio si ammalò gravemente e morì, all’età di cinquantanove anni (17 marzo 180 d.C.). Durante il principato di Marco, nel 177 d.C., a Vienna e Lione in Gallia avvenne un episodio, pur sempre sporadico e legato a circostanze locali, di persecuzione cruenta contro i cristiani. In occasione di giochi gladiatori, che prevedevano la lotta di condannati con belve feroci, i magistrati locali, sotto la pressione popolare, inflissero questo supplizio ad alcuni cristiani (i martiri di Lione). 4.7 Commodo Commodo (che fu il primo principe già nato in porpora) divenne unico imperatore a meno di diciannove anni ed alla morte del padre assunse il nome di Marco Aurelio Commodo Antonino. Marco Aurelio aveva diretto le operazioni sul Danubio valendosi di un nutrito stato maggiore di amici e consiglieri, a cui in punto di morte aveva rimesso la guida del giovane principe, conscio della sua inesperienza e dei suoi limiti. Difatti il governo di Commodo, sia subito, sia in seguito, fu variamente connotato soprattutto a seconda dei collaboratori e dei ministri che via via si trovarono ad agire al suo fianco, ai quali finì per abbandonare completamente la direzione dei pubblici affari, sempre più disinteressato a impegnarsi personalmente nella conduzione dell’apparato statale. Si delinea così l’immagine di un principe alla continua ricerca di chi potesse supplire alla sua sostanziale inadeguatezza a dominare autonomamente situazioni al di sopra delle sue capacità. Commodo, su consiglio dei più autorevoli assistenti non si mosse dal fronte per un periodo di tempo relativamente lungo, arrivando nell’Urbe, con un viaggio rapido, oltre sette mesi dopo la morte del padre (22 ottobre 180 d.C.). Dopo aver proseguito la campagna con qualche successo, Commodo decise di non attenersi al parere della parte di collaboratori che intendeva continuare la guerra fino al completo assoggettamento delle popolazioni che premevano sul Danubio (ormai prostrate), e interruppe le ostilità, rinunciando al progetto del padre di controllare anche le regioni a nord del fiume. I negoziati che seguirono condussero alla creazione di una rete di clientele, ma a condizioni più dure di quelle imposte da Marco Aurelio. Rimase per loro intatto anche il divieto di venire a stabilirsi sulle rive del Danubio e furono disposte anche nuove opere di rafforzamento del limes. Nel 182 d.C. ci fu la prima congiura, un’oscura faida di corte coaugulatasi intorno alla sorella Lucilla. Il complotto fallì miseramente. Lucilla fu relegata a Capri e poi fatta uccidere. La congiura segnò la rottura di Commodo con i parenti e diede origine ad una consistente serie di condanne e di epurazioni. Nel 184 d.C. nel nord della Britannia le popolazioni stanziate al di là del Vallo lo superarono e dilagarono nella Scozia meridionale, nel territorio controllato dai Romani. Si rese necessario inviare di nuovo nella provincia Ulpio Marcello, che ne era già stato governatore, noto per la rigidissima disciplina che soleva imporre. Con una serie di campagne, egli riuscì a ripristinare la situazione. Nel 185 d.C. le truppe britanniche si ribellarono e acclamarono imperatore un loro legato, un certo Prisco, che rifiutò. I torbidi non cessarono finchè non venne inviato nell’isola Publio Elvio Pertinace che riuscì a ripristinare la normalità. Cleandro rappresentava il nuovo potere del Palazzo rispetto allo Stato e conseguentemente approfittò del disinteresse di Commodo per le istituzioni e dell’arbitro con cui poteva esercitare il potere. Fu dalle fonti accusato di vendere i titoli di console e altre magistrature, di promuovere persino dei liberti al senato e di rovesciare le decisioni dei tribunali in cambio di denaro. La necessità di rimpinguare le casse dell’imperatore, prodigo di lussi e di giochi offerti alla plebe di Roma, sarebbe stata anche la base di processi di tradimento, con conseguente confisca di beni di illustri senatori e cavalieri. Furono sospese le somme per i sussidi delle istituzioni alimentari e per i donativi ai soldati. In un contesto di generale irritazione contro di lui, una grave carestia, che colpì Roma nel 190 d.C., fece cadere il potere di Cleandro, offerto da Commodo alle ire della plebe urbana come capro espiatorio. Nel 188 d.C. un disertore, Materno, che aveva riunito nella Gallia meridionale bande armate che creavano disordini in Gallia e in Spagna, inducendo Roma a decidere l’intervento militare, colse l’occasione per penetrare in Italia e attentare alla vita stessa dell’imperatore. La sua azione venne scoperta e il tentativo fallì. I privilegi concessi da Severo all‘esercito avrebbero avuto gravi conseguenze sulle condizioni economiche dell’Impero: fu infatti notevolmente elevato il soldo, la paga dei soldati. Inoltre fu abolito il divieto per i legionari di contrarre matrimonio sino a quando si trovavano in servizio. 1.6 Caracalla I cinque anni di regno di Caracalla sono caratterizzati da una serie di atti di crudeltà, da abusi di vario genere e da dissesto finanziario. La sua prima preoccupazione fu quella di eliminare i sostenitori di Geta e chiunque potesse vantare un legame di parentela, anche lontana, con un precedente imperatore. Constitutio Antoniana: concessione, nel 212, della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero, ad eccezione forse dei cosiddetti dediticii (una parola che significa ‘coloro che si sono arresi’, e cioè sudditi, forse da riferire ai barbari non ancora assimilati). Alla base della decisione di Caracalla non ci fu solo la legalizzazione di una trasformazione di fatto della società romana (il superamento della distinzione tra italici e provinciali), ma giocarono probabilmente anche ragioni di carattere fiscale: con tale provvedimento aumentava infatti il numero dei contribuenti. La politica di forti concessioni ai legionari e ai pretoriani avviata da Settimio Severo, che Caracalla proseguì, richiedeva la disponibilità di sempre maggiori risorse, coniazione dell’antoniniano. A partire dal 213 Caracalla fu impegnato in una serie di campagne militari che rappresentavano il tentativo di proseguire la politica aggressiva del padre. Nel 213 fu in Germania, tra il 215 e il 216 visitò l’Egitto. Di qui si recò in Siria ad Antiochia dove iniziò a preparare una campagna contro la Partia. Caracalla alla fine fu assassinato da un soldato in forza alla guardia pretoriana nell’aprile del 218. 1.7 Macrino e i regni di Elagabalo e di Severo Alessandro Dopo l’assassinio di Caracalla per qualche giorno l’Impero romano si trovò senza guida. A profittare della situazione fu Opellio Macrino un funzionario senza particolare distinzione, che non era neppure membro del senato. Macrino si trovava peraltro in una situazione difficile perché, oltre a cercare di far accettare al senato la propria ascesa al trono, doveva portare a termine la campagna contro il regno partico, che concluse a condizioni poco onorevoli nella primavera del 218. Macrino prese rapidamente il controllo della situazione. A un certo momento cominciò a circolare la voce che Elagabalo e il cugino erano figli naturali di Caracalla. Questa voce trovò accoglienza favorevole presso i soldati preoccupati dall’intenzione attribuita a Macrino di avviare un programma di austerità economica. Nella battaglia combattuta nei pressi di Antiochia contro l’esercito che sosteneva Elagabalo, Macrino fu sconfitto. Fu giustiziato. Elagabalo è ricordato soprattutto per il suo intenso misticismo e per il tentativo di imporre come religione di Stato un culto esotico e stravagante, quello del dio Sole venerato a Emesa, in Siria. Di fronte al risentimento generale suscitato in Roma da un comportamento così irresponsabile, la stessa Giulia Mesa impose al nipote di associare al potere il cugino Bassiano. Ma questa soluzione di compromesso non impedì che si organizzasse una congiura: nel 222 d.C. Elagabalo fu assassinato dai pretoriani, che proclamarono imperatore Bassiano, che gli successe con il nome di Severo Alessandro. Disponibilità di cui diede prova nel lasciarsi manipolare (su di lui esercitò una grande influenza la madre Giulia Mamea) e con le sue aspettative che si nutrivano dopo gli anni difficili precedenti. Molti suoi provvedimenti furono intesi come una rottura con la prassi seguita dai predecessori. Il suo regno trasse profitto dal fatto che per i primi anni l’attività di governo fu diretta da un giurista di notevole livello, Ulpiano, che deteneva la carica di prefetto del pretorio. All’azione di quest’ultimo, peraltro presto assassinato a seguito del deteriorarsi dei suoi rapporti con la guardia pretoriana, si deve se, dopo un lungo periodo di conflittualità, le relazioni tra imperatore e senato tornarono ad essere improntate a uno spirito di collaborazione. 1.8 La minaccia persiana La seconda parte del regno di Severo Alessandro fu condizionata dai cambiamenti che interessarono il rivale tradizionale della potenza romana in Oriente, la Persia. Alla testa del regno partico alla dinastia degli Arsacidi succedette quella, molto più dinamica, dei Sasanidi. Ardashir promosse immediatamente una grande campagna al fine di riconquistare tutti i territori persi a favore di Roma. Severo Alessandro reagì muovendo incontro al nemico nell’estate del 232. Malgrado l’impegno profuso tuttavia il contrattacco romano non portò a nulla. Severo Alessandro nell’autunno del 234 dovette poi dirigersi in Germania per fronteggiare un’invasione. La mancanza di fiducia che i soldati avevano in lui gli fu fatale. All’inizio del 235 Massimino il Trace, fu proclamato imperatore dalle reclute che gli erano state affidate da addestrare. Severo Alessandro e la madre furono strangolati. 1.9 Massimino il Trace e l’anarchia militare L’offensiva lanciata da Ardashir nel 230 fu solo l’inizio di una situazione che si fece rapidamente drammatica. La minaccia persiana richiedeva una presenza costante dell’imperatore sulla frontiera orientale, cosa che determinava la mancanza di protezione per quella renana, a sua volta gravemente minacciata. In questo periodo, noto in generale con il nome di anarchia militare, che comprende il cinquantennio che va dall’assassinio di Severo Alessandro all’accessione al trono di Diocleziano (235 – 284 ) il potere imperiale fu detenuto in successione da una ventina di imperatori, cui si devono aggiungere numerosi usurpatori, che rimasero in carica in media non più di due anni e mezzo ciascuno. All'origine di questa situazione c’è un problema strutturale: ogni volta che il sovrano legittimo si doveva concentrare su una parte dell’Impero altrove entravano in agitazione capi militari e funzionari ambiziosi e scontenti che cercavano di porre in atto progetti di usurpazione. Un caso particolare è rappresentato dal cosiddetto Impero gallico che si organizzò nel 259 e che durò per una trentina d’anni. Massimino ottenne comunque dei successi nelle sue campagne contro i barbari, in particolare contro gli Alamanni. La durezza del suo regime, che impose una fortissima pressione fiscale per far fronte alla grave situazione militare in cui si trovava l’Impero, spiega la ritrovata forza di coesione del senato, che giunse a dichiararlo nemico dello Stato (hostis publicus). Il senato aderì subito alla proclamazione dell’anziano Gordiano, proconsole in Africa, che si associò il figlio. Quando la rivolta fu repressa dai soldati fedeli a Massimino e i due Gordiani trovarono la morte, il senato affidò il governo dello Stato a venti consolari. Nel 238 d.C. Massimino mosse alla volta dell’Italia ma cadde assassinato. Massimino fu il primo imperatore a non recarsi mai a Roma. 1.10 Decio e la persecuzione dei cristiani Il breve regno del tradizionalista ed energico Decio (249 – 251 d.C.), che si sentiva investito del dovere primario di difendere le frontiere imperiali, è caratterizzato da un’evidente volontà di rafforzare l’osservanza dei culti tradizionali, tra cui quello ufficiale dell’imperatore, inteso come strumento di coesione interna. Questo significava di fatto per i cristiani una forte discriminazione. Decio, responsabile di una violenta persecuzione contro i cristiani scatenata nel 250 – 251. Decio morì nei Balcani nel 251 d.C., combattendo contro i Goti. 1.11 Valeriano Sul confine gallico e su quello germanico premevano le popolazioni degli Alamanni e dei Franchi; la frontiera del basso Danubio era attaccata dai Goti mentre in Oriente i Persiani, guidati da Sapore, si stavano impadronendo della Siria. Valeriano (253 – 260 d.C.), un anziano senatore, arrivò al trono imperiale dopo una serie di effimeri imperatori militari. Data la gravità e l’incertezza della situazione, Valeriano ebbe l’accortezza di associare immediatamente al potere il figlio Gallieno e di decentrare il governo dell’Impero: infatti, egli affidò a Gallieno il compito di difendere le province occidentali. La sua campagna contro i Persiani, ormai padroni di Antiochia, finì tragicamente; dopo qualche successo iniziale, Valeriano fu sconfitto ad Edessa e fatto prigioniero dal re Sapore. Grande impressione suscitò il fatto che egli morisse in cattività, nel 260 d.C. 1.12 Gallieno Gallieno, che attorno al 257 aveva elevato il figlio, anche lui di nome Valeriano, al rango di Cesare, si trovò quindi da solo a reggere l’Impero tra il 260 e il 268 d.C. Rimasto a guardia dell’Occidente per gran parte del suo regno riuscì a bloccare l’avanzata degli Alamanni e dei Goti, anche se fu costretto ad arretrare tutta la linea di frontiera al Danubio, con la perdita di fatto della Dacia. Di fronte alle ribellioni degli usurpatori e alle tendenze di diverse entità regionali a governarsi da sole, Gallieno dovette tollerare che all’interno dell’Impero si formassero due regni separatisti: quello delle Gallie, retto da Postumo ed esteso anche alla Spagna e alla Britannia, e a qello di Palmira, comprendente la Siria, la Palestina e la Mesopotamia, con a capo Odenato. Gallieno deve essere ricordato per una serie di riforme destinate ad avere sviluppo in seguito. Per porre rimedio alle continue ribellioni dei comandanti militari di estrazione senatoria, sottrasse il comando delle legioni ai senatori e lo affidò ai cavalieri contro quella che era stata la prassi seguita sino ad allora. Notevole fu l’innovazione da lui introdotta nella concezione strategica di difesa dei confini: invece di dislocare tutte le truppe lungo la frontiera, privilegiò la concentrazione di alcuni contingenti all’interno del territorio imperiale con la funzione di unità mobili di difesa. Gallieno, tra l’altro, pose definitivamente fine alla persecuzione contro i cristiani che Valeriano aveva ripreso nel 257 indirizzandola in particolare contro il clero. 1.13 Aureliano. Gli imperatori illirici L’uccisione di Gallieno, avvenuta nel 268 d.C. in una congiura ordita dai suoi ufficiali, portò al potere il comandante della cavalleria. Claudio II (268 – 270 d.C.) è il primo di una serie di imperatori detti illitici perchè originari di questa regione. Claudio conseguì due importanti successi, uno contro gli Alamanni, che avevano invaso la pianura padana, e un altro contro i Goti, che erano giunti ad occupare Atene. Morto Claudio II di peste nel 270 d.C., la sua opera fu completata da Aureliano (270 – 275 d.C.) che riuscì, grazie a uno sforzo militare senza precedenti, ad avere definitivamente ragione delle popolazioni barbariche che erano penetrate di nuovo nella pianura padana. Aureliano riuscì a sottomettere i due Stati autonomi che si erano costituiti negli anni precedenti. Aureliano ebbe il merito di restituire prestigio alla figura del sovrano: promosse una decisa riorganizzazione dello Stato in tutti i settori essenziali della vita economica e diede impulso al processo di divinizzazione del monarca. Significativa è anche la sua riforma monetaria. rispetto al cui la divisione tra poche categorie privilegiate, gli honestiores, e la grande massa dei deboli, gli humiliores, è sempre più netta. Al suo interno si distingue una fase particolarmente significativa, che inizia con il regno di Costantino e arriva alla morte di Teodosio I (395 d.C.). Essa coincide grosso modo con il IV secolo d.C. e con il definitivo affermarsi del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero romano. L‘Impero uscito dalle riforme di Diocleziano e di Costantino è tuttavia effettivamente diverso rispetto al passato: le esigenze dello Stato, per il mantenimento della sua burocrazia e di un esercito imponente, sono tali da imporre una più forte pressione sulla società. L’irrigidimento che ne scaturisce investe ogni settore, a cominciare dalla corte, che si organizzò secondo un preciso cerimoniale ruotante attorno alla persona dell’imperatore. Il governo dello Stato è diretto dai detentori delle più alte cariche civili e militari, secondo rapporti gerarchici che con il tempo si definiscono sempre più precisamente. C'è poi un dato di fatto rilevante: in conseguenza delle riforme dioclezianee l’imperatore non risiede più a Roma. Scomparsa dell’ordine dei cavalieri. Il senato non ha più un potere reale. 2.2 Che cosa si intende per Tarda Antichità Come momento conclusivo dell’età tardoantica si è accettata in genere l’invasione longobarda per l’Occidente (568 d.C.) e la fine del regno di Giustiniano per l’Oriente (565 d.C.), perché allora viene meno ogni riecheggiamento dell’arte classica. Più controversa era invece la fissazione del momento iniziale. La tetrarchia, il regno di Costantino, o, risalendo più indietro, l’età severiana, erano visti come spartiacque di due epoche accostabili tra loro, seppure caratterizzate da elementi chiaramente distintivi. 2.5 Costantino Gli anni che seguirono la morte di Costanzo Cloro videro, con la proclamazione imperiale di suo figlio Costantino e del figlio di Massimiano, Massenzio, il sostanziale fallimento del sistema tetrarchico. Costantino condusse per alcuni anni una politica prudente, che conosce una svolta solo nel 310 d.C. quando abbandona ogni legame con i presupposti ideologici della tetrarchia. Nel giro di due anni la situazione però si semplifica. Mentre Galerio moriva alla fine di aprile del 311 d.C. dopo aver ordinato di cessare le persecuzioni contro i cristiani, Costantino ebbe la meglio su Massenzio alla fine di ottobre del 312 d.C. nella battaglia di ponte Milvio, sul Tevere, alle porte di Roma, e potè impadronirsi della città. La conversione di Costantino fu un evento di portata rivoluzionaria, perchè significò l’inserimento delle strutture della Chiesa in quello dello Stato con l’imperatore che si sentiva abilitato ad intervenire nelle questioni dottrinali. All’inizio del 313 d.C. Licinio, un militare vicino a Galerio che quest’ultimo aveva cooptato nel 308 d.C. nel collegio tetrarchico come Augusto per l’Occidente, e Costantino si incontrarono a Milano dove si accordarono sulle questioni fondamentali di politica religiosa. Editto di Milano. I contrasti tra Costantino e Licinio, che ormai avevano il controllo su tutto l’Impero, incominciarono però molto presto: lo scontro finale, che fu forse preceduto da una forma di persecuzione anticristiana da parte di Licinio, si ebbe nel 324 d.C., quando Costantino, dopo averlo sconfitto ad Adrianopoli, divenne il solo imperatore. Costantino fu sempre preoccupato di salvaguardare l’unità interna della Chiesa, come mostra il fine per cui fu convocato il concilio di Nicea del 325 d.C., che egli presiedette personalmente dopo che invano aveva supplicato i due contendenti, Alessandro e Ario, di trovare un accordo. 2.6 Le riforme costantiniane Allo scopo di rendere più efficiente l’amministrazione provinciale, le diocesi, in cui l’Impero era stato suddiviso da Diocleziano, furono raggruppate in quattro grandi prefetture, delle Gallie, di Italia e Africa, dell’Illirico e dell’Oriente, rette ciascuna da un prefetto del pretorio. Le diocesi a loro volta riunivano al loro interno un numero più o meno grande di province. Un’innovazione sicuramente costantiniana, che fa dell’Italia una peculiarità rispetto al resto dell’Impero tardoantico, consiste nella presenza di due vicari all’interno di un’unica diocesi. Tra le riforme attuate da Costantino, una delle più significative riguarda l’esercito. È a lui infatti che si deve la crazione di un consistente esercito mobile, detto comitatus, perché accompagnava l’imperatore. Il problema militare non fu però presto superato. L’esercito mancava di soldati. Per sopperire alle sue esigenze si ridusse l’altezza richiesta alle reclute, si incrementò la caccia ai disertori, si rafforzò l’ereditarietà della professione militare e, infine, si concessero privilegi ai veterani per attirare dei volontari. Ma poiché le varie categorie di lavoratori erano a loro volta vincolate più o meno strettamente alla loro condizione, i soldati finirono per essere reclutati sempre più tra i barbari che premevano alle frontiere piuttosto che tra i contadini. La minaccia barbarica era così grave da non consentire soluzioni definitive. Lo Stato la fronteggiò come poteva: da un lato, combattendo i barbari con l’impiego di tutte le risorse di un apparato militare che Diocleziano e Costantino avevano ristrutturato profondamente; dall’altro, mediante una politica di assorbimento nei quadri dell’organismo imperiale. Barbarizzazione della società. 2.7 Il cosiddetto editto di Milano La tradizione cattolica ha legato il ristabilimento della pace religiosa a un atto formale, il cosiddetto editto di Milano, che sarebbe stato emanato nel febbraio del 313 d.C. e che avrebbe avuto valore universale. L’occasione era fornita dall’incontro dei due Augusti, Costantino e Licinio. Anche se quanto concordato scaturiva da una decisione comune con Licinio non ci sono dubbi che l’iniziativa di affrontare in modo specifico la questione cristiana risaliva a Costantino che intendeva andare oltre la situazione di tolleranza antecedente la grande persecuzione. In merito alla questione cristianesimo le decisioni prese a Milano da Costantino e Licinio dovettero essere relativamente semplici. Concordarono che in tutto l’Impero i cristiani dovessero godere di quella libertà di culto di cui essi avevano già goduto in Occidente e ottenere la restituzione delle proprietà confiscate. Quest'accordo non si tradusse in nessun atto formale perché di questo non c’era bisogno. 1. Il documento che è consuetudine chiamare editto di Milano non è un editto 2. Tale documento non fu promulgato a Milano 3. L’autore del documento non è Costantino ma Licinio 4. I cristiani non ottennero la tolleranza attraverso quel documento perchè l’avevano già ottenuta due anni prima in virtù dell’editto di Galerio dell’aprile 311. La disposizione non riguardava dunque l’Impero nel suo complesso ma solo l’Oriente. 2.8 Attività edilizia Tra le conseguenze della vittoria di Adrianopoli su Licinio nel 324 ci fu la fondazione, da parte di Costantino, di Costantinopoli (o città di Costantino, l’odierna Istanbul) quale nuova Roma nel 330 d.C. Dopo la grave crisi del III secolo d.C. era diffusa la consapevolezza della necessità di una diversa dislocazione del potere imperiale. E l’allestimento di una nuova capitale nel sito dell’antica Bisanzio, in una posizione strategicamente molto importante all’ingresso del mar Nero, era anche un riconoscimento all’importanza dell’Oriente all’interno dell’Impero. Costantinopoli fu dotata nel corso degli anni di tutte le strutture che la dovevano equiparare a Roma. Ebbe anche un suo senato, all’inizio composto da soli 300 membri che divennero ben presto quasi 2.000. L’assemblea costantinopoliana però non conseguì mai il prestigio di quella romana, sia per l’estrazione modesta di molti suoi membri, sia per la mancanza di senso della tradizione. 2.9 Il problema della conversione La conversione di Costantino è preceduta da un fatto di grande rilievo: il riconoscimento del fallimento delle persecuzioni così come emerge dalla lettera-editto di Galerio del 311. Con il battesimo del 337 Costantino chiude un itinerario religioso e completa la propria adesione al cristianesimo che risaliva a un quarto di secolo prima. Costantino morì il giorno di Pentecoste, il 22 maggio del 337. 2.11 La morte di Costantino e la fine della dinastia costantiniana Costantino solo in punto di morte ricevette il Battesimo. Nell'uso dell’epoca di ricevere il Battesimo in punto di morte era considerato un modo per essere sicuri, venendo lavati con esso tutti i peccati, della vita eterna. A battezzare Costantino, nella residenza imperiale nei pressi di Nicomedia, fu il vescovo della città, Eusebio (omonimo, ma diverso dallo storico ecclesiastico). Sorprende che, a fronte di un’opera di riforma così sistematica dello Stato, Costantino non abbia affrontato in modo coerente il problema della successione: solo a livello di pura ipotesi si può supporre che, con la creazione di più prefetture del pretorio, ognuna delle quali comprendente all’incirca i medesimi territori che nella tetrarchia ricadevano sotto il governo dei vari tetrarchi, egli prevedesse per ciascuna il governo di uno dei suoi figli e forse anche dei due nipoti. Tuttavia una simile soluzione poneva essere valida al massimo per l’immediato e lasciava insoluti i problemi di fondo. La partecipazione dei figli alla dignità imperiale lascia intravedere il possibile ritorno a un potere retto da una pluralità di sovrani. Tuttavia non è chiaro quale forma di sistemazione concreta l’Impero dovesse assumere. Quel che è certo è che i soldati non si dimostrarono sensibili alle sottigliezze della politica. La loro scelta era inequivocabilmente a favore del principio di una rigida successione dinastica. Alla morte di Costanino, forse con l’interessata complicità dei figli dell’imperatore, tanto Dalmazio che Annibaliano, i quali, in quanto nipoti del defunto sovrano, potevano rappresentare un’alternativa alla successione, furono eliminati. Costantino II (cui fu attribuito il governo delle Gallie, della Britannia e della Spagna), Costante (cui furono riservate l’Italia e l’Africa) e Costanzo (cui toccò l’Oriente) raggiunsero un accordo per il governo congiunto dell’Impero. Esso però si rivelò assai precario. Già nel 340 d.C. Costantino II pagava con la vita l’incursione compiuta nei territori affidati al governo di Costante. Quest’ultimo moriva a sua volta nel 350 d.C. per mano di un usurpatore, Magnenzio. Rimasto unico imperatore, Costanzo II fu costretto a cercare un collega cui affidare il governo dell’Occidente: la scelta cadde sull’unico sopravvissuto, il cugino Giuliano.