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Storia romana geraci marcone , Sintesi del corso di Storia Romana

essenziale x esame difficile e pieno di date, ma ridotto di pagine e con grassetto utile per nomi e eventi

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 23/11/2015

MarioGiorgino
MarioGiorgino 🇮🇹

3.8

(11)

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Storia romana geraci marcone e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! 25 63 25 60LA CONQUISTA DELL’ITALIA Caduta la monarchia etrusca, la tradizione letteraria vuole che il territorio di Roma si estendesse dal Tevere alla regione Pontina, dato confermato dal primo trattato romano-cartaginese risalente, secondo Polibio, al primo anno della Repubblica. Tra la fine del VI e l’inizio del V sec., le città latine approfittarono delle difficoltà interne di Roma e si strinsero in una lega i cui membri condividevano ius connubii, ius commercii e ius migrationis. La lega latina sconfisse assieme ad Aristodemo di Cuma il figlio di Porsenna, Arrunte, nella Battaglia di Aricia. Nel 496 la lega attaccò Roma guidata, secondo la tradizione, da Ottavo Mamilio di Tusculo speranzoso di rimettere sul trono il suocero Tarquinio il Superbo: i Romani sconfissero le forze della Lega sul lago Regillo. Fu siglato un trattato nel 493 che valse per 150 anni dal console Spurio Cassio (perciò noto come foedus Cassianum): le due parti s’impegnavano in una pace e aiuto nel caso una delle parti fosse attaccata. Strumento più efficace che consolidò le vittorie fu la fondazione di colonie, dove spesso vi si inglobarono anche gli abitanti originari: è più corretto definirle colonie latine, perché le nuove città entravano a far parte della Lega latina. Nel 486 Roma si accordò cogli Ernici, popolazione della valle del fiume Sacco, sud-est della città, tra i due popoli ostili degli Equi e dei Volsci. L’alleanza con la Lega e cogli Ernici si rivelò preziosa per fronteggiare la minaccia di tre popolazioni provenienti dagli Appennini, i Sabini, gli Equi e i Volsci: una migrazione parte di un movimento più generale che coinvolse quasi tutta l’Italia centro-meridionale tra fine VI e inizio V sec., perché le regioni più impervie dell’Appennino non erano in grado di far sopravvivere popolazioni con forti crescite demografiche, che migravano verso terre più fertili: nella documentazione assume la forma dell’istituto del ver sacrum, secondo cui in anni di carestia tutti i prodotti dell’anno venivano consacrati alla divinità e i bambini nati in quegli anni, raggiunta la maturità, dovevano migrare in un’altra regione seguendo un animale (così i Piceni raggiunsero la costa adriatica seguendo un picus). Le fonti riportano serie interminabili di conflitti per il V sec. tra Roma e popolazioni montanare, tra cui Equi e Volsci, senza mai una svolta definitiva: è lecito pensare a una serie di razzie e scaramucce. I Volsci, discesi verso la fine del VI sec., riuscirono in pochi anni a occupare tutta la parte meridionale del Lazio, un tempo parte del regno di Tarquinio il Superbo. Nei colli Albani i Volsci si saldarono cogli Equi, i quali conquistarono la regione dei monti Prenestini, Tivoli e Preneste. Romani, Latini e Ernici riuscirono a bloccare gli Equi ai colli Albani, al passo dell’Algido, nel 431. Più a nord i Sabini nel 460, guidati da Appio Erdonio, condussero un improvviso attacco a Roma, sventato solo grazie al soccorso della città di Tusculo. Roma fronteggiò da sola la potente città etrusca di Veio, ~15 km a nord della città, sua rivale nel controllo delle vie e delle saline del basso Tevere. Il contrasto perdurò per tutto il V sec., concludendosi solo all’inizio del IV, sfociando in tre guerre. Nella prima guerra veiente (483-474) i Veienti occuparono Fidene: la reazione di Roma finì tragicamente, 300 soldati della gens Fabia e i loro clienti furono annientati sul fiume Cremera (è evidente il modello dei 300 spartani di Leonida, che dà forma a un esempio di guerra ‘aristocratica’). Nella seconda (437–426) Roma vendicò la sconfitta, Aulo Cornelio Cosso uccise il tiranno di Veio, Lars Tolumnio, Fidene venne conquistata e poi distrutta.Nella terza (405-396) Veio venne assediata per 10 anni e conquistata da Marco Furio Camillo, che privò la città della loro divinità protettrice, Giunone, in cambio di un culto a Roma. La città fu distrutta e non ricevette alcun aiuto dalle altre città etrusche (Cere addirittura si schierò con Roma). Il lunghissimo assedio tenne i romani lontani dai loro campi, perciò si rese necessaria l’introduzione di una paga, lo stipendium: per far fronte a queste spese si introdusse una tassa straordinaria, il tributum, misurata proporzionalmente sulle diverse classi censitarie (più pesante per le classi di censo più facoltose). Nei decenni precedenti diverse tribù galliche si erano insediate nell’Italia settentrionale, l’ultima, quella dei Senoni, avrebbe occupato il territorio più meridionale (in seguito ager Gallicus), corrispondente alla Romagna meridionale e alle Marche settentrionali. Nel 390 i Senoni invasero l’Italia centrale; il primo obiettivo fu l’etrusca Chiusi, da qui si diressero su Roma. L’esercito romano si dissolse in una rotta generale al primo contatto avvenuto sull’affluente tiberino Allia. Roma venne presa e saccheggiata. Poi i Galli, forse grazie a un riscatto pagato, scomparvero (pochi mesi dopo il tiranno Dionisio di Siracusa arruolò dei Galli per la guerra contro le città dell’Italia meridionale). La tradizione storiografica tentò di salvare l’onore immaginando che il Campidoglio resistette, difeso da Manlio Capitolino, che, pochi anni più tardi, presentò provvedimenti demagogici, e che Camillo fosse piombato sugli assedianti stremati e decisi a pagare un riscatto mettendoli in rotta. La ricerca archeologica non ha rivelato segni del supposto incendio che i Galli avrebbero appiccato. Roma si riprese rapidamente: il vasto e fertile territorio di Veio fu organizzato nel 387 in quattro nuove tribù, probabilmente è in questo periodo che iniziarono la costruzione delle mura serviane sfruttando il tufo delle cave di Grotta Oscura, presso Veio. La grande estensione di queste ultime dimostra come già al tempo Roma fosse la città più grande dell’Italia centrale. Gli Ernici vennero inglobati come cittadini senza diritto di voto, gli Equi furono sterminati e nel loro territorio fu insediata una nuova tribù. Le ostilità si riaprirono nel 298, quando i Sanniti attaccarono i Lucani e i Romani accorsero in aiuto degli aggrediti. Il comandante sannita Gellio Egnazio mise in piedi una coalizione antiromana comprendente Etruschi, Galli e Umbri. Lo scontro decisivo si ebbe nel 295 a Sentino (forse odierna Sassoferrato). Gli eserciti uniti dei consoli Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure prevalsero sui Sanniti e Galli, approfittando dell’assenza dei reparti etruschi e umbri. Il sistema di egemonia dopo la grande guerra latina assicurò a Roma un potenziale militare preponderante. I Sanniti battuti un’altra volta a Aquilonia (293), chiesero la pace nel 290. A nord, i Galli, alleati di alcune città etrusche, penetrarono nuovamente nell’Italia centrale, ma furono bloccati nel 283 nella battaglia del lago Vadimone: la controffensiva romana colpì città dell’Etruria meridionale (tra cui l’ex alleata Cere), poi anche l’Etruria settentrionale e l’Umbria. Nella marcia verso l’Adriatico, Sabini e Petruzzi furono sconfitti già nel 290, e parte del territorio fu confiscato per la nuova colonia latina di Hadria. L’Adriatico settentrionale, un tempo dei Senoni, fu annesso allo Stato romano col nome di ager Gallicus, e nel 268 fu fondata la colona latina di Rimini. I Piceni, circondati, tentarono una guerra nel 269: pochi anni dopo in parte furono deportati verso Salerno, in parte ricevettero la civitas sine suffragio. Conservarono la propria autonomia Ascoli e Ancona, e la colonia di Fermo fu creata nel 264. In circa 30 anni da Sentino, Roma portò i propri confini lungo la linea dall’Arno a Rimini. I Sanniti e Taranto, ricca città greca, rimanevano indipendenti. Un trattato di fine IV sec. (la datazione è controversa) voleva che Roma s’impegnasse a non oltrepassare con le sue navi Capo Licinio, per non penetrare nel golfo di Taranto. Nel 282, tuttavia, Turi, minacciata dai Lucani, chiese aiuto a Roma, che inviò una flotta davanti a Taranto. Provocata e minacciata, nella città greca prevalse la fazione democratica, quindi attaccò le navi romane per marciare poi verso Turi: la guerra divenne inevitabile. Come già in passato, Taranto chiese aiuto a un condottiero della madrepatria greca, questa volta Pirro, re dei Molossi, che si trovava proprio sulla costa adriatica pugliese. Il re diede alla spedizione il carattere di difesa dei Greci d’Occidente, procurandosi così l’appoggio di tutte le potenze ellenistiche, liete di sbarazzarsi di un possibile contendente ai troni dei regni macedoni. Pirro era imparentato con Alessandro Magno e poteva così rivendicare la ripresa dei progetti di conquista dell’Occidente; inoltre aveva sposato la figlia del re di Siracusa Agatocle, e, con la scomparsa di quest’ultimo, poteva colmare il vuoto di potere generatosi nella Sicilia orientale e nell’Italia del sud. Nel 280 Pirro sbarcò in Italia, e Roma fu costretta ad arruolare per la prima volta i capite censi. Ma nonostante la superiorità numerica, i Romani furono sconfitti a Eraclea, in Lucania, a causa dell’abilità tattica del comandante greco e del devastante effetto psicologico dovuto all’utilizzo di elefanti in battaglia. Le città greche, i Lucani, Bruzi e Sanniti si schierarono dalla parte di Pirro, che tentò di far ribellare gli alleati di Roma e di collegarsi cogli etruschi, fallendo. L’esercito epirota era insufficiente ad assediare Roma, quindi Pirro intavolò trattative di pace, chiedendo libertà e autonomia per le città greche d’Italia e la restituzione dei territori a Lucani, Bruzi e Sanniti: richieste respinte con forza grazie all’intervento di Appio Claudio Cieco. Pirro quindi mosse verso l’Apulia, e vinse di nuovo contro l’esercito mandato per fermarlo ad Ascoli Satriano, sul fiume Ofanto, nel 279: le perdite però furono durissime. Non riuscendo a concludere la guerra, e essendosi i rapporti con i suoi alleati deteriorati, soprattutto a causa delle pesanti richieste finanziare, Pirro accolse le domande di aiuto di Siracusa, non più in grado di sostenere da sola la guerra contro i Cartaginesi, lasciando una forte guarnigione a Taranto: ciò gli consentiva anche di imprimere una svolta decisiva alla guerra contro Roma, accrescendo l’esercito. Nel 279 Roma e Cartagine aveva stipulato una alleanza di mutua collaborazione contro il comune nemico. In Sicilia, di vittoria in vittoria, Pirro costrinse i Cartaginesi a chiudersi a Lilibeo, nell’estremità occidentale dell’isola: l’assedio si rivelò infruttuoso, in quanto la città era costantemente rifornita via mare. Pirro allora immaginò d’invadere l’Africa (come Agatocle) ma il progetto fallì a causa del rifiuto di uomini e denaro da parte dei suoi alleati, stanchi dei suoi modi autoritari. Roma in Italia riconquistò posizioni su posizioni. Pirro rispose all’appello di Sanniti, Lucani e Bruzi, ma nel ritornare in Italia, subì gravi perdite ad opera di una flotta cartaginese. Lo scontro decisivo avvenne nel 275, nella futura Benevento: le truppe di Pirro, in inferiorità numerica, furono messe in fuga dall’esercito del console Mario Curio Dentato. Lasciata una guarnigione a Taranto, Pirro fece ritorno in Epiro, verso nuove imprese dinastiche e militari in Grecia: morì nel 272 per le vie di Argo. In quello stesso anno Taranto si arrese, diventando socia di Roma. 25 63 25 60LA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO Nel 264 Roma controllava tutta l’Italia peninsulare, fino allo stretto di Messina; qui entrò per la prima volta in collisione con la vecchia alleata Cartagine. La situazione precipitò quando i Mamertini – mercenari d’origine italica (da Mamers, in lingua osca Marte) chiamati da Agatocle nella lotta contro Messina, di cui si erano impadroniti – saccheggiarono le città vicine. Ierone, nuovo signore di Siracusa, inflisse loro una dura sconfitta e i Mamertini accolsero l’offerta di aiuto di una flotta cartaginese. Stancati della tutela cartaginese, fecero appello a Roma, dove iniziò un serrato dibattito: -sostenerli poteva apparire incoerente, perché pochi anni prima a Reggio, Roma cacciò dei soldati campani che, imitando i Mamertini, si erano impadroniti della città; inoltre Cartagine era centro di un vasto impero, dalle coste africane fino a quelle della Spagna meridionale, dalla Sardegna alla Sicilia occidentale, forte di grandi eserciti, in parte di mercenari e soprattutto di potenti flotte. Filino, storico filocartaginese, annovera una clausola tra gli accordi Roma-Cartagine che includeva la Sicilia come parte dell’egemonia cartaginese, la penisola italiana di quella romana. Polibio ne negava l’esistenza, non avendone trovato copia tra gli archivi di Roma. Poteva esistere un qualche accordo, forse in termini meno espliciti: lo fa sospettare il fatto che la comparsa di una flotta punica nelle acque di Taranto nel 272 costituì, secondo le fonti romane, una violazione dei patti. -non rispondere all’appello significava lasciare a Cartagine una zona strategica e perdere la ricchissima Sicilia: secondo Polibio fu questa motivazione ciò che indusse l’assemblea popolare, cui il senato aveva demandato la questione, a votare l’invio di un esercito. Ciò, anche se non formalmente, aprì la prima guerra punica (264-241). I primi anni, decisivi, videro i Romani respingere da Messina Cartaginesi e Siracusani; già nel 263 Ierone concluse una pace, lasciando a Roma, con cui si schierò, un ampio territorio della Sicilia orientale e già nel 262 la base cartaginese di Agrigento cadde, dopo un lungo assedio. Roma decise, per la prima volta, la creazione di una grande flotta, contando sull’aiuto dei socii navales (perlopiù le città greche meridionali): nel 262 a Milazzo lo sforzo fu coronato da una clamorosa vittoria del console Caio Duilio. Roma pensò di attaccare direttamente Cartagine, nel 256: la flotta romana sconfisse quella cartaginese a capo Ecnomo, presso Agrigento, e l’esercito sbarcò a capo Bon, in Africa. Nonostante le prime operazioni favorevoli, il console Marco Attilio Regolo fece fallire le trattative di pace e non sfruttò il malcontento degli alleati di Cartagine, venendo battuto nel 255 a Reggio dal mercenario spartano Santippo. La flotta romana superstite perse poi parte delle navi in una tempesta. L’imperizia dei comandanti romani provocò un’altra perdita nella flotta, sconfitta a Trapani nel 249. Contro una Roma priva di forze navali Cartagine non seppe sfruttare la superiorità su mare, mentre su terra si limitò ad azioni di disturbo degli eserciti che assediavano Trapani e Lilibeo, condotte dal nuovo e brillante generale Amilcare Barca. Nel 217 Annibale sorprese e annientò le truppe del console Caio Flaminio, che anche anch’esso come vittima, al lago Trasimeno. L’ex console Quinto Fabio Massimo, forte dell’idea di un’impossibilità di vittoria in campo aperto contro Annibale, fu nominato dittatore: secondo la sua idea, che gli valse il soprannome di Cunctator, era necessario evitare battaglie campali e impedire l’arrivo di aiuti da Cartagine o dalla Spagna, ciò avrebbe costretto Annibale ad arrendersi o ad abbandonare l’Italia Devastando l’Italia, Annibale attraversò incontrastato Piceno, Sannio e Apulia: perciò, scaduti i sei mesi della dittatura di Fabio Massimo, Roma passò all’offensiva; ma nel 216 Annibale annientò gli eserciti congiunti dei consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo nella piana di Canne, in Puglia, nel più riuscito esempio di manovra di accerchiamento degli avversari da parte di un esercito numericamente inferiore. Numerose comunità meridionali defezionarono, tra cui Capua; morì nel 215 il vecchio Ierone, e il suo nipote Ieronimo si schierò con Cartagine, e nello stesso anno, Annibale e Filippo V, che ambiva all’Adriatico meridionale istigato dal consigliere Demetrio, stipularono un’alleanza. Il ritorno alla strategia attendista però fece sì che Roma riguadagnasse le posizioni nel Mezzogiorno; nel 212, quando anche Taranto passò dalla parte di Annibale, un piccolo presidio romano impedì l’invio via mare di rinforzi cartaginesi e nel 211, anche Capua fu riconquistata. In Sicilia le forze romane comandate da Marco Claudio Marcello conquistarono e saccheggiarono Siracusa nel 212, dopo un lungo assedio, e un esercito cartaginese inviato in aiuto ad Agrigento fu decimato da un’epidemia. Nell’Adriatico una flotta bastò per impedire un’invasione dell’Italia da parte di Filippo V: nella prima guerra macedonica Roma paralizzò l’azione del re creando una coalizione di Stati greci a lui ostili, prima tra tutti la Lega etolica: quando apparve che quest’ultima intendesse rinunciare alla lotta, Roma concluse una pace a Fenice (nell’Epiro) nel 205, lasciando immutato il quadro territoriale. Dopo la sconfitta a Trebbia, Publio Cornelio Scipione raggiunse il fratello Cneo in Spagna, ed essi impedirono l’invio di aiuti ad Annibale, ma nel 211 vennero sconfitti e uccisi contro le forze cartaginesi concentrate nella penisola iberica, e i Romani si ritirarono con l’esercito rimasto per difendere la Spagna settentrionale, fino alla nomina di comandante del figlio omonimo di Publio Cornelio Scipione, in futuro noto col cognomen di Africano, che formalmente non aveva titolo per comandare l’esercito (aveva solo ricoperto la carica minore di edile), ma venne scelto dall’assemblea popolare, procedimento senza precedenti. Già nel 209 il giovane Scipione s’impadronì di Nova Carthago, e nel 208 sconfisse il fratello di Annibale, Asdrubale, presso Baecula, che, però, riuscì a ripetere l’impresa del fratello, venendogli in aiuto in Italia. La spedizione fu però distrutta sul fiume Metauro (presso Fano) nel 207 dall’esercito congiunto dei due consoli Marco Livio Salinatore e Caio Claudio Nerone, dove Asdrubale stesso morì. Annibale fu costretto a ritirarsi nel Bruzio. Intanto Scipione sconfisse gli eserciti cartaginesi in Spagna nella battaglia di Ilipa, nel 206, e, tornato in Italia, fu eletto console per il 205, preparandosi per un’invasione dell’Africa, per la quale era importante l’alleanza con Massinissa, re della tribù numida dei Massili, in rivolta contro Cartagine. Sbarcati in Africa nel 204, Scipione e Massinissa vinsero nella battaglia dei Campi Magni (130 km ad est di Cartagine) nel 203. Le trattative di pace fallirono e la battaglia che pose fine al conflitto avvenne nel 202 a Zama: Annibale, che diede comunque prova del suo genio tattico, fu sconfitto dalla cavalleria numida. La pace del 201 prevedeva la consegna di tutta la flotta tranne 10 navi, un ingente indennizzo, la rinuncia di tutti i possedimenti al di fuori dell’Africa per Cartagine e il riconoscimento del regno di Numidia: non era poi concesso loro dichiarare guerra senza il permesso di Roma. La decisione di creare una coalizione di Stati greci contro Filippo V aveva creato una rete di relazioni che finì per coinvolgere Roma nello scenario dell’Oriente ellenistico. L’attivismo di Filippo nell’Egeo e nell’Asia Minore portarono a scontri col Regno di Pergamo e con la Repubblica di Rodi, sfociati in una guerra aperta nel 201: battuto a largo di Chio in una battaglia navale, Filippo inflisse una dura sconfitta alla flotta rodia a Lade, tra Samo e Mileto. Compreso che non ci si poteva rivolgere alle altre due grandi potenze ellenistiche – il re di Siria di Antioco III aveva stabilito un’intesa col macedone e l’Egitto era impegnato ad arginare le ostilità della Siria – Attalo I di Pergamo decise di chiedere aiuto a Roma, da tempo sua amica. Le voci contrarie ad una nuova guerra a Roma furono soverchiate da un complesso di fattori, tra cui i timori di una nuova invasione dell’Italia, il desiderio della classe dirigente romana di trovare nella Macedonia nuovo terreno di gloria e la volontà di vendetta contro un sovrano che si era alleato con Annibale. Si inviò un ultimatum a Filippo di astenersi dall’attaccare gli Stati greci, probabilmente per presentare Roma come protettrice della Grecia, che ignorò, ma che valse il sostegno di altri Stati greci, tra i quali Atene. Nel 200 l’esercito romano sbarcò ad Apollonia, e i primi due anni della seconda guerra macedonica non furono segnati da azioni decisive, anche se la Lega etolica decise di unirsi alla coalizione antimacedone. Nel 198 il console Tito Quinzio Flaminino chiese la liberazione della Tessaglia, e uno ad uno gli Stati greci si schierarono dalla parte dei “Liberatori”, persino la Lega achea, da decenni alleata di Filippo, che decise di intavolare trattative di pace interrotte però da Flaminino, quando seppe che il suo comando in Grecia era stato prorogato per il 197. A Cinoscefale (198), in Tessaglia, l’esercito macedone venne annientato, e il re costretto ad accettare una pace che prevedeva il ritiro delle guarnigioni in Grecia; tuttavia poté conservare il regno, con grave disappunto degli Etoli. Riguardo alla sorte della Grecia, solo nel 196 Flaminino proclamò, durante i Giochi Istmici, la libertà e autonomia degli Stati greci, con obbligo di versare tributi e ospitare guarnigioni. L’esercito evacuò la Grecia nel 194. Negli stessi anni, il re di Siria Antioco III, vista la debolezza dell’Egitto e le difficoltà della Macedonia, estese la sua egemonia sulle città greche dell’Asia Minore, e con un esercito aveva reclamato possedimenti nella costa della Tracia, che il fondatore della monarchia siriaca, Seleuco I, gli aveva strappato un secolo prima durante i conflitti dei successori di Alessandro. Le richieste di Roma riguardo la cessazione degli attacchi contro le città autonome dell’Asia Minore furono respinte. Nonostante Scipione l’Africano consigliasse di lasciare un presidio in Grecia e nonostante proprio nella costa siriaca avesse trovato rifugio Annibale, Flaminino non intervenne; l’esercito si era trattenuto fin troppo in Grecia, impegnato in una guerra contro Sparta che aveva alimentato la propaganda ostile degli Etoli: la Grecia, sostenevano, aveva solo cambiato padrone. Nel 192 la Lega etolica invitò Antioco a liberare la Grecia, e quest’ultimo passò con un piccolo esercito a Demetriade, in Tessaglia, chiedendo sostegno che venne soltanto dagli Etoli. Antico fu battuto nel 191 alle Termopili e fuggì in Asia Minore. Nel 190, Lucio Cornelio Scipione, accompagnato dal fratello Africano, invase l’Asia Minore passando via terra attraverso Grecia, Macedonia e Tracia, forte del sostegno di Filippo V. Intanto la flotta romana, assistita da Pergamo e Rodi, sconfisse ripetutamente i Siriaci nell’Egeo. L’esercito di Antioco, superiore di numero ma mal organizzato, fu completamente disfatto presso Magnesia sul Sipilo, nel 190. La pace di Apamea, siglata solo nel 188, confermò che Roma npn aveva ancora intenzione di impegnarsi nel Mediterraneo orientale, e impose ad Antioco un enorme indennizzo, l’affondo di tutta la sua flotta (tranne 10 navi), la consegna di vecchi nemici di Roma, tra cui Annibale (che riuscì a fuggire in Bitinia, dove si suicidò pochi anni dopo) e lo sgombero dei territori a ovest e a nord dei monti del Tauro, nel centro dell’Asia Minore, che vennero spartiti tra il re di Pergamo Eumene II e la Repubblica di Rodi; le città della costa ottennero l’autonomia. Il repentino ampliamento di orizzonti di Roma portò una ventata di cambiamento anche nell’assetto politico e sociale. Nel 187 dei tribuni della plebe accusarono La Spagna rappresentava ancora una situazione insoluta per Roma, ormai padrona del Mediterraneo. Nel 197, all’indomani della seconda guerra punica, si crearono le nuove provincie della Spagna Citeriore a nord, in cui i Romani si erano saldamente stabiliti nella zona costiera a nord dell’Ebro, e della Spagna Ulteriore, a sud, intorno alla città di Cadice, governate da due nuovi pretori. Le comunità iberiche dovevano a Roma un tributo detto stipendium e truppe ausiliarie. La penetrazione verso l’interno fu lenta e difficile, completata solo con Augusto. La guerriglia su di un territorio vastissimo a nord delle varie tribù celtibere, in particolare i Lusitani, provocò numerose sconfitte per Roma e vittore mai decisive. Il malcontento tra i legionari romani sfociò in episodi di renitenza alla leva, nei cui riguardi i magistrati mostrarono una tale durezza che nel 149 fu istituito un tribunale speciale e permanente per il reato di concussione, la quaestio perpetua de repetundis che estese le competenze su tutti i casi di abuso di potere da parte dei governatori provinciali. Catone, in qualità di console, fu inviato nel 195 nella Spagna Citeriore, e con implacabile energia sottomise delle tribù della valle dell’Ebro, successi che però risultarono essere effimeri: negli anni seguenti Roma dovette impegnare numerose truppe nella provincia. Tiberio Sempronio Gracco, padre dell’omonimo tribuno della plebe, governatore della Spagna Citeriore tra 180 e il 178 cercò piuttosto di rimuovere le ragioni dell’ostilità contro Roma, politica coronata da trattati di pace con tribù celtibere che assicurarono degli anni di respiro. Conclusa la lunga guerra contro i Lusitani, guidati dall’abile Virriato (147-139), la lotta si concentrò attorno alla celtibera Numanzia, nella Spagna del nord. Nel 137 accadde un episodio emblematico delle difficoltà di Roma nella regione: il console Caio Ostilio Mancino, sconfitto, fu costretto a firmare una pace umiliante per Roma: disconosciuto dal senato, la guerra passò a Scipione Emiliano, appositamente eletto per la seconda volta console nel 134, che conquistò e distrusse Numanzia nel 133. 25 63 25 60LE RIFORME DEI GRACCHI La tradizione storiografica aristocratica, dominante nelle fonti, in polemica con il tribunato della plebe, vede nell’età dei Gracchi l’origine della generazione dello Stato romano e l’inizio delle guerre civili. Ciò che è indubbio è il fatto che in tale periodo eventi e problemi connessi tra loro affondano le radici negli squilibri creati dall’espansione del dominio romano. La guerra anniballica ferì profondamente l’agricoltura: i Romani e gli alleati, a lungo lontani dalle case e poderi, non godettero delle ricchezze derivate dalle conquiste, ammassate nelle mani di pochi; i mercati si ampliarono esponenzialmente, così come il numero degli schiavi, e nuove idee greche penetrarono a Roma. I bottini di guerra, gli indennizzi imposti ai vinti, fecero affluire a Roma ingenti capitali, modificando una struttura socio-economica rimasta fino ad allora agricola. Romani e italici negotiatores (uomini d’affari) si introdussero nel grande commercio delle nuove province, anche in professioni bancarie. Ciò fece la fortuna di molti senatori (esercitanti il grande commercio sotto prestanome, essendogli loro interdetto dalla lex Claudia del 218) e favorì l’ascesa degli equites, che con un censo di 400.000 sesterzi, comprendevano figli e fratelli dei senatori, ricchi proprietari terrieri, pubblicani e uomini d’affari, anche se erano esclusi dalle cariche pubbliche (tranne la quaestio perpetua de repetundis, creata nel 149, che perseguiva le estorsioni dei magistrati provinciali). Si diffuse l’ellenismo: i rampolli romani erano istruiti abitualmente da precettori di lingua greca, sempre più schiavi greci colti, spesso poi liberati. Lo sviluppo degli scambi modificò la fisionomia dell’agricoltura italica: la manodopera servile, l’importazione di grano (perlopiù dalla Sicilia) e di materie prime e la spinta verso colture più intensive portò i piccoli proprietari terrieri, già impoveriti dalla guerra anniballica, a vendere, spesso, le loro proprietà: la loro unica possibilità era la riconversione delle colture, ma sprovvisti di capitali, molti affluirono, in cerca di occupazione, a Roma, che crebbe di dimensioni. La concentrazione fondiaria che ne era derivata accelerò ancor più la tendenza verso un’agricoltura commerciale e verso il modello di villa rustica (grande azienda agricola) basata sullo sfruttamento intensivo di schiavi diretto da schiavi- manager (villici). Rivolte servili nacquero a causa del moltiplicarsi di queste villae rusticae in Sicilia, dove erano più diffusi latifondi. La prima, scoppiò nel 140 ad Enna, nelle tenute del ricco Damofilo, estendendosi rapidamente in tutta l’isola; a guidarla fu Euno, schiavo siriaco (che assunse il nome del suo re, Antioco): Roma fu costretta ad inviare successivamente tre consoli, e solo l’ultimo di questi, Publio Rupilio domò l’insurrezione nel 132. L’accelerarsi dei mutamenti sociale minacciò la stabilità della classe dirigente. Si delinearono due fazioni, entrambe scaturite dalla nobilitas: -gli optimates, che, autodefinendosi boni, “gente dabbene”, cercavano di ottenere l’approvazione dei benpensanti per sostenere le autorità e le prerogative del senato. -i populares, che si consideravano difensori del popolo, conducente un’esistenza miserevole, e che propugnavano la necessità di ampie riforme politico-sociali. Si approvarono in meno di dieci anni tre leggi tabellarie, concernenti l’espressione scritta del voti: con la lex Gabinia tabellaria (139) la s’introduceva nei comizi elettorali, con la lex Cassia tabellaria (137) nei giudizi popolari (esclusi quelli per perduellio, alto tradimento e attentato all’ordine costituito) e con la lex Papiria tabellaria (131) nei comizi legislativi. Parti dell’ager Publicus, cresciuto a dismisura dopo le guerre di conquista, erano abitualmente concesse ai privati a titolo di occupatio e l’utilizzo era garantito dal pagamento di un canone (vectigal) del tutto irrisorio. La crisi favorì la concentrazione dell’agro pubblico nelle mani dei più ricchi e potenti, ciò portò alla necessità di una serie di norme miranti a restringere l’estensione massima di agro occupata dal privato. L’ultima di queste, proposta forse nel 140, anno del suo consolato, o poco prima, dall’amico di Scipione Emiliano, Caio Lelio, ricevette l’opposizione concorde del senato, tanto che egli preferì ritirarla. Tiberio Sempronio Gracco (figlio maggiore dell’omonimo trionfatore in Spagna e di Cornelia, figlia di Scipione Africano) riprese il tentativo di una riforma agraria nel 133, anno del suo tribunato della plebe, idea che, si dice, sarebbe nata dopo un viaggio in Etruria, un tempo piena di liberi coltivatori, ora di grandi latifondi e pascoli (non si può escludere l’influsso dei suoi precettori greci, soprattutto di Blossio di Cuma propugnatore di uno stoicismo egualitaristico). Il progetto fissava il limite di occupazione a 500 iugeri, più 250 per ogni figlio fino, forse, a un massimo di 1000 per famiglia. Un collegio di triumviri (tresviri agris dandis iudicandis adsgignandis) eletti dal popolo e composti da Tiberio, dal fratello Caio e dal suocero Appio Claudio Pulcro, princeps (presidente) del senato, avrebbe dovuto ripartire i lotti e recuperare i terreni in eccesso, poi distribuiti ai cittadini più poveri in piccoli lotti (forse 30 iugeri). I fondi della riforma sarebbero stati ricavati dal tesoro del re di Pergamo Attalo III, che lo aveva lasciato in eredità allo Stato romano. Scopo della legge era ricostituire e conservare un ceto di piccoli proprietari terrieri, anche per garantire una base stabile al reclutamento dell’esercito (i nullatenenti non potevano essere reclutati). Il progetto era legalmente legittimo, perché dettava norme sulla proprietà demaniale e non su quelle private, tuttavia, alcuni aspetti come il tesoro di Attalo III, toccavano prerogative del senato. I grandi proprietari terrieri si ritennero espropriati di terre che, per abusiva abitudine, sentivano proprie, nonostante si era proposto che quanto veniva loro lasciato divenisse loro proprietà, e, in un primo momento, gli si pagassero indennizzi. La ribellione fu piegata solo nel 129 dal console Manlio Aquilio, che organizzò il nuovo territorio nella provincia d’Asia, compito terminato nel 126: essa era costituita dalle parti più importanti del precedente regno; in questo modo Roma ereditava i problemi logistici, politici e confinari dell’ex regno Attalide. Roma rispose nel 125 a Marsiglia per aiutarla contro le tribù della Gallia meridionale, regione di passaggio verso i domini spagnoli che attirò l’interesse romano: fu inviato prima Flavio Flacco, poi Caio Sestio Calvino, che, ristabilito l’ordine, fondò nel 123 Aquae Sextiae controllando da nord l’entroterra di Marsiglia. Nel 122-121 Gneo Domizio Enobardo e Quinto Fabio Massimo vinsero contro gli Allobrogi e Arverni, ponendo le basi per la nuova provincia narbonese, organizzata attorno la colonia di Narbo Martius dedotta nel 118 e attraversata dalla via Domizia, congiungente Spagna e Italia. Nel 123 furono conquistate anche le Baleari, base di attività piratiche; a Maiorca furono fondate le due colonie romane di Palma e Pollenzia. Micipsa, figlio di Massinissa, morti i fratelli, era divenuto il nuovo re numida. Alla sua morte nel 118, il regno si contese tra tre eredi principali: il più spregiudicato, Giugurta, suo nipote e figlio adottivo (tra l’altro alleato di Scipione Emiliano nell’assedio di Numanzia), si sbarazzò di Iempsale, così Aderbale si rifugiò a Roma. Il senato decise così nel 116 di dividere la Numidia tra i due superstiti, ma nel 112 Giugurta volle anche la porzione di regno di Aderbale e ne assediò la capitale, Cirta. Presa la città trucidò anche i Romani e gli Italici della città, quindi Roma fu costretta a scendere in guerra nel 111, sotto impulso dei cavalieri e con riluttanza del senato. Le operazioni militari furono condotte fiaccamente fino al 109, tra gravi smacchi e sospetti di corruzione, quando fu posto al comando Quinto Cecilio Metello (al cui seguito, come legato, vi era Caio Mario) che sconfisse più volte Giugurta, senza però concludere la campagna. I mercanti del Nordafrica tempestarono i rappresentanti romani di lettere di protesta. A Caio Mario, eletto console nel 107, fu affidato con un plebiscito il comando della guerra, nonostante fosse un homo novus di Arpino, cioè non poteva vantare antenati illustri: incarnava un nuovo tipo di politico, uscito dall’ambiente equestre e militare, già agli ordini di Scipione a Numanzia e poi creatura di Metello, che lo aiutò a diventare tribuno della plebe nel 119; si era legato alla famiglia patrizia ma decaduta del futuro Giulio Cesare, sposando sua zia Giulia. Bisognoso di truppe nuove a lui fedeli, per far fronte alla guerra contro Giugurta e ai massacri subiti da Cimbri e Teutoni, aprì l’arruolamento volontario ai capite censi, metodo che dopo Mario divenne regolare. Col nuovo esercito tornò in Africa, e solo dopo tre anni catturò Giugurta: gli valsero le trattative diplomatiche per rompere l’alleanza tra Giugurta e il suocero Bocco, re di Mauretania, grazie soprattutto a Lucio Cornelio Silla, allora legato di Mario. Bocco consegnò Giugurta nel 105, e la Numidia orientale fu data a un nipote di Massinissa fedele a Roma e il rimanente a Bocco. Rieletto console, Mario celebrò nel 104 il trionfo su Giugurta, prigioniero a Roma, poi giustiziato. Intanto le popolazioni germaniche di Cimbri e Teutoni, probabilmente provenienti dalla Danimarca, iniziarono un movimento migratorio verso sud. Oltrepassato il Danubio e scesi fin nel Norico (attuale Austria), affrontarono il console Cneo Papirio Carbone, inviato per tutelare le ricche miniere d’oro e ferro preso Noreia, ma i Romani subirono una disastrosa sconfitta (113). Intorno al 110 Cimbri e Teutoni comparvero minacciarono la nuova provincia narbonese: i ripetuti tentativi di respingerli si trasformarono in altrettante catastrofi, culminanti nella clamorosa disfatta di Arausio nel 105 a causa di un disaccordo tra il proconsole Quinto Servilio Cepione e il console Cneo Mallio Massimo. Mario, rieletto console per il 104 lo fu per cinque volte di seguito, fino al 100, per fronteggiare la guerra cimbro-teutonica a cui fu affidato il comando. Riorganizzò l’esercito, per cui ogni legione fu articolata non più in trenta manipoli ma in dieci coorti (di ~ 600 uomini), così da operare tatticamente ciascuna con più autonomia. Il suo lavoro fu coadiuvato dai luogotenenti Silla e Quinto Sertorio. I Germani ricomparvero nel 103, ma divisi: i Teutoni avanzavano verso la Gallia meridionale, i Cimbri verso il valico delle Alpi centrali. Mario sterminò prima i Teutoni ad Aquae Sextiae nel 102, nel 103 i Cimbri furono raggiunti e annientati presso i Campi Raudii, o presso Vercelli o nel Veneto. Impegnato sul fronte militare, Mario si appoggiò al nobile Lucio Apuleio Saturnino, ma, in rotta con le fazioni più conservatrici del senato, queste, col pretesto dell’aumento del prezzo del grano, lo sostituirono nel 104 con un proprio membro nell’incarico di quaestor Ostiensis (soprintendente frumentario degli approdi alle foci del Tevere). Mario l’aveva aiutato a diventare tribuno della plebe nel 103, in cambio dell’approvazione di una distribuzione di terre in Africa ai veterani delle campagne africane. Saturnino propose anche una legge frumentaria che riducesse il prezzo del grano fissato da Caio Gracco, e la sua lex de maiestate puniva il reato di lesione di autorità del popolo romano compiuto da magistrati: il collegio giudicante era composto tutto da cavalieri. Mario fu rieletto al sesto consolato nel 100, Saturnino al secondo tribunato della plebe e Caio Servilio Glaucia, suo compagno, pretore. Saturnino presentò una legge agraria che assegnava terre nella Gallia meridionale e fondava colonie in Sicilia, Acaia, Macedonia; per bloccare ogni opposizione aveva fatto approvare una clausola obbligante i senatori a giurare di osservare la legge: solo Cecilio Metello Numidico si rifiutò di giurare, preferendo l’esilio. Rieletto ancora una volta Saturnino come tribuno, Glaucia si candidò al consolato, ma durante le votazioni scoppiarono tumulti e un suo avversario fu assassinato. Il senato, astutamente, proclamò il senatus consultum ultimum, e Mario, come console, dovette applicarlo ai suoi alleati: Saturnino e Glaucia furono uccisi, e Mario preferì allontanarsi da Roma, ufficialmente con l’incarico di una missione diplomatica presso Mitridate IV, re del Ponto. Intanto Roma in Anatolia dovette fronteggiare il problema della pirateria, attiva soprattutto nella Cilicia Tracheia, che minacciava pesantemente l’asse marittimo Egeo-Cipro-Siria/Fenicia. La creazione del porto franco di Delo aveva enormemente incentivato le loro razzie e commercio degli schiavi. Mentre le guerre cimbriche si stavano concludendo, l’azione dei pirati fu avvertita come pericolosa per gli affari dei negotiatores. Così nel 102 s’inviò il pretore Marco Antonio (nonno del famoso omonimo) per distruggere la basi anatoliche dei pirati. Successo dopo successo, dopo un paio di anni, si arrivò alla costituzione della provincia costiera di Cilicia (102-101), corrispondente però alla Panfilia, quindi un incarico ancora aperto. Le guerre cimbriche costrinsero Mario a domandare contingenti agli alleati Italici e d’oltremare, tra cui Nicomede III di Bitinia che declinò. A Roma si pose rimedio con un provvedimento obbligante i governatori provinciali di condurre inchieste in merito. La crescente opposizione dei detentori di schiavi fece sì che la misura restasse lettera morta; ne scaturirono numerose rivolte servili, tra cui quella degli schiavi delle miniere del Laurion in Attica (103) e un grande sommovimento che sconvolse di nuovo la Sicilia (104-100). Nel 96 fu lasciata a Roma, sembra per testamento, la tolemaica Cirenaica, ma al lascito non fu dato seguito e la questione fu ripresa solo nel 75-74, quando circostanze e necessità diverse fecero sì che vi si dedusse una provincia. Un provvedimento del 98 diede ordine alle procedure di presentazione delle leggi rendendo obbligatorio un intervallo di tre nundinae (giorni di mercato a cadenza settimanale) tra l’affissione di una proposta e la sua votazione; inoltre si vietò la formulazione di una lex satura, che includesse cioè più argomenti non connessi. Nel 95 avevano imposto come loro vassallo il re d’Armenia Tigrane. L’Anatolia si stava politicamente sempre più frazionando e Roma, con la provincia d’Asia, aveva favorito la coesistenza di molti piccoli Stati dinastici. Divenuto re del Ponto nel 112, Mitridate IV Eupatore si accordò con la Bitinia per dividersi Paflagonia e Galazia e, impadronitosi della Colchide, estese il suo regno a sud. Dal 104, quando s’impadronì della Cappadocia, Mario si recò presso di lui in una missione diplomatica. Nel 92 toccò a Silla, quale propretore della Cilicia. Approfittando della guerra sociale, Mitridate fece invadere nuovamente la Cappadocia da Tigrane e spodestò dalla Bitinia il nuovo re Nicomede IV. Nel 90 Roma decise quindi di inviare una legazione capeggiata da Manlio Aquilio con l’incarico di rimettere sui troni i legittimi sovrani di Bitinia e Cappadocia: Nicomede si sentì così autorizzato a condurre scorrerie nel territorio del Ponto. Mitridate ne chiese soddisfazione e, non ottenutola, si decise alla guerra, che presentò con una propaganda rivolta al mondo greco, presentandosi come sovrano filelleno vendicatore dei soprusi. Dilagato in Cappadocia, travolte le forze romane e presto padrone di tutta l’Asia, massacrò più di 80mila Romani e Italici. Delo e Atene appoggiarono il nuovo liberatore così come gran parte del mondo greco: Rodi sola rimase fedele a Roma. Nell’88 un esercito pontico invase la Grecia centrale, aderendo Beozia Sparta e Peloponneso, mentre una flotta faceva vela verso l’Attica. Roma quindi reagì sotto il comando di Lucio Cornelio Silla, console dell’88, allora impegnato nell’assedio di Nola, le cui operazioni furono accelerate. Intanto però il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo, amico del defunto Druso, si adoperò per privarlo del comando e riprendeva il problema dell’inserimento dei neocittadini italici nelle tribù romane. L’inserimento nei comizi centuriati non era un problema (la gerarchia sociale- patrimoniale italica riproduceva grosso modo quella romana), ma l’iscrizione nelle tribù produceva mutamenti radicali: il loro numero era in maggioranza in ciascuna tribù, si era perciò ricorsi all’espediente di immetterli in un numero limitato di tribù, cosicché i vecchi cittadini continuavano a mantenere la prevalenza. Ma la guerra sociale e le azioni di Mitridate avevano impoverito tanto lo Stato quanto i singoli e molti debitori si trovarono nell’impossibilità di rimborsare i loro creditori, così Sulpicio Rufo propose: -il richiamo all’esilio dei perseguiti per collusioni cogli alleati italici -l’inserimento dei neocittadini in tutte le 35 tribù -un limite di indebitamento di 2000 denari per ogni senatore, oltre al quale sarebbe stato espulso dal senato Silla, appresa la notizia della sua sostituzione, marciò su Roma, dimostrando così i primi esiti della riforma mariana: l’esercito si sentiva più fedele al proprio comandante. Impadronitosi di Roma dichiarò hostes publici: Sulpicio, la cui legislazione fu abrogata, fu eliminato, Mario fuggì verso l’Africa. Approvò quindi norme anticipatrici la sua opera riformatrice dell’81-79: -ogni proposta di legge doveva essere approvata dal senato prima del voto popolare -i comizi centuriati diventarono la sola assemblea legislativa valida Così partì alla volta dell’Oriente, anche se non impedì la votazione nell’87 di consoli a lui sfavorevoli. Sbarcato in Epiro nell’87, assediò Atene, poi presa e saccheggiata; sconfisse le truppe pontiche a Cheronea e Orcomeno (86) e pose fine al predominio di Mitridate in Grecia. Intanto il console Lucio Cornelio Cinna, fautore di Mario, riprese la proposta di iscrivere i neocittadini italici nelle 35 tribù, ma fu cacciato da Roma. In Campani fu raggiunto da Mario che nuovamente marciò su Roma, presa con la forza. Dichiarò Silla hostis publicus e molti suoi sostenitori furono uccisi. Mario fu eletto console per l’ultima volta per l’86 insieme a Cinna: morì poco tempo dopo. Intanto un nuovo corpo di spedizione mariano fu inviato a combattere contro Mitridate e Cinna fu eletto console anno per anno fino all’84, promuovendo un’ampia opera legislativa: -si immisero finalmente i neocittadini i tutte le 35 tribù -si risolse il problema dei debiti riducendone di tre quarti l’ammontare -si fissò un nuovo rapporto tra moneta di bronzo e quella d’argento che stabilizzò il reciproco valore ufficiale Nell’84 alla notizia dell’imminente ritorno di Silla, Cinna ammassò le forze ad Ancona, ma fu ucciso da una rivolta di suoi stessi soldati. Nell’86 due forze armate erano presenti in Grecia, una di Silla l’altra agli ordini di Lucio Valerio Flacco, cui era subentrato, dopo averlo fatto assassinare, il legato Caio Flavio Fimbria. Non si scontrarono mai e agirono in parallelo ricacciando Mitridate in Asia. Silla premeva per chiudere le ostilità, si arrivò quindi a una pace nell’85 a Dardano, nella Troade: Mitridate conservava il regno ma doveva evacuare il resto dell’Asia, pagare un forte indennizzo e consegnare la flotta. Nicomede recuperava la Bitina, Ariobarzane la Cappadocia. Dopo aver incorporato l’esercito di Fimbria (che si suicidò) e dopo essersi trattenuto nell’84 a restaurare l’ordine in Asia e Grecia, Silla sbarcò in Italia a Brindisi nell’83. Lucio Licinio Murena però, lasciato come governatore d’Asia, fece incursioni in territorio pontico e accusò Mitridate di riprendere le armi: il re reagì sconfiggendo Murena e dilagando di nuovo in Cappadocia, finché entrambi i contendenti furono fermati da Silla. Intanto nell’83 la Siria era entrata nell’orbita di Tigrane, che ne aveva fatto una provincia meridionale del suo regno. A Brindisi il giovane Cneo Pompeo, figlio di Strabone, raggiunse Silla, il quale riprese Apulia, Campania e Piceno e nell’82 sconfisse Caio Mario il Giovane (figlio adottivo di Mario) chiudendolo a Preneste. S’impadronì di Roma e grazie a Marco Licinio Crasso, futuro triumviro, distrusse le ultime resistenze avversarie, rinforzate da forti contingenti sanniti, nella battaglia di Porta Collina (82). Nell’eliminazione degli oppositori mariani in Africa e Sicilia Cneo Pompeo conquistò l’epiteto di Magnus. Silla introdusse le liste di proscrizione, elenchi di avversari politici notificati al pubblico: chiunque poteva ucciderli impunemente. La morte di senatori e cavalieri più in vista modificò la composizione dell’aristocrazia romana. Le proscrizioni continuarono per tutto l’81, le comunità italiche che avevano parteggiato per i mariani subirono confische e la deduzione di colonie a favore dei veterani di Silla. Essendo entrambi i consoli dell’82 morti a Porta Collina, il senato nominò interrex il princeps senatus Lucio Valerio Flacco, che presentò la lex Valeria nominante Silla dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae, dittatura a tempo illimitato e non incompatibile col consolato, che Silla rivestì nell’80. Si continuò l’opera riformatrice iniziata nell’88: -il senato, falcidiato dai massacri e dalle proscrizioni, fu portato al numero di 600 membri, immettendo partigiani sillani nonché 300 cavalieri e esponenti dei ceti superiori dei municipi italici -si innalzò a 8 il numero di pretori, per far fronte alla moltiplicazione dei tribunali permanenti, ora di nuovo esclusiva dei senatori: a ciascuno dei pretori spettava uno dei principali reati: (de repetundiis, de maiestate, de peculatu, de ambitu, de sicariis et veneficiis, de falsis, de iniuriis) -si regolamentò di nuovo l’ordine di successione e l’età minima per accedere alle magistrature (30 anni questura – 36 edilità – 39 pretura – 42 consolato): nessuna carica poteva essere iterata prima di un intervallo di dieci anni. Di Nel 72 si inviò un comando speciale di Marco Antonio (padre del futuro triumviro) che concentrò gli sforzi su Creta, che fu fatta provincia come base per combattere i pirati. Le operazioni contro Creta furono poi affidate nel 69 a Quinto Cecilio Metello che riconquistò l’isola (69-67) e ottenne il titolo di Cretico. Intanto, dopo la morte di Nicomede IV la Bitinia fu lasciata in eredità ai Romani nel 74 (testamento molto sospetto), ma Mitridate pensò di invaderla. Contro di lui si inviarono i consoli Aulo Cornelio Cotta, con competenza sulla Bitinia, e Lucio Licinio Lucullo, già agli ordini di Silla, con poteri sulla Cilicia e sulla provincia d’Asia: costui, nel 71, sgomberata la Bitinia, occupò il Ponto. Mitridate si rifugiò nell’Armenia del genero Tigrane, il cui regno si era molto esteso: Lucullo la invase e ne conquistò la nuova capitale Tigranocerta nel 69, e da qui si spinse a nord-est all’inseguimento dei due re verso l’antica capitale di Artaxata (68). I suoi soldati, stanchi, si rifiutarono di proseguire e i finanzieri romani, sdegnati dalle tasse da lui richieste per alleviare la situazione economica dell’Asia, pressarono perché fosse destituito. Ne approfittarono Mitridate e Tigrane che ripresero le ostilità (67). Nel 67 il tribuno Aulo Gabinio propose misure drastiche contro i pirati, che stavano colpendo le forniture di grano a Roma: si approvò – nonostante la violenta opposizione del senato – l’attribuzione per tre anni a Pompeo un imperium infinitum su tutto il Mediterraneo e sull’entroterra fino a 50 miglia dalla costa. Pompeo cacciò rapidamente i pirati dal Mediterraneo occidentale per poi sconfiggerli in Cilicia, dove si erano asserragliati. Nel 66 un altro tribuno, Caio Manilio, propose che anche il comando della guerra contro Mitridate fosse esteso a Pompeo. Egli convinse il re dei Parti, Fraate, a tenere impegnato Tigrane mentre marciava verso il Ponto dove sconfisse e scacciò Mitridate, che, costretto a rifugiarsi a nord (66) nell’odierna Crimea, si suicidò nel 63; Pompeo intanto aveva compiuto nel 65 una spedizione nel Caucaso e aveva confermato a Tigrane l’Armenia, privandolo però della Siria, che fece provincia romana. Passò poi in Palestina, dove s’impadronì di Gerusalemme e del suo Tempio: vi costituì uno Stato autonomo ma tributario, aggregato alla provincia di Siria (63). Nel 62 Pompeo, carico di gloria e di bottino, rientrò a Roma, dove gli venne immediatamente decretato il trionfo. Durante la sua assenza a Roma si verificò una grave crisi: Lucio Sergio Catilina, aristocratico arricchitosi nell’età sillana ma che aveva dilapidato enormi somme per mantenere un certo tenore di vita indispensabile per le sue ambizioni politiche, si vide respinta all’ultimo momento la candidatura al consolato del 65 che gli era costata una fortuna. Prosciolto dall’accusa di concussione, tentò di rifarsi alle elezioni del 63, sostenuto da Crasso, cui era già collegato da un po’ anche il brillante (ma sprovvisto di mezzi) patrizio Caio Giulio Cesare, vicino per scelta al campo popularis e per legami familiari a Caio Mario (marito della zia Giulia) e a Cinna (ne aveva sposato la figlia Cornelia). Vinse però le elezioni l’homo novus di Arpino Marco Tullio Cicerone, sostenitore di Pompeo, che aveva attaccato la corruzione e violenza di Catilina. Quest’ultimo allora mise a punto un programma per le elezioni del 62 basato sulla cancellazione dei debiti (novae tabulae). Abbandonato da Crasso e Cesare, Catilina riuscì di nuovo battuto, allora mise mano a una cospirazione: concentrò un esercito in Etruria in gran parte costituito da veterani sillani. Scoperto da Cicerone, che indusse il senato ad emettere il senatus consultum ultimum, già alla Prima Catilinaria fu costretto ad allontanarsi da Roma e così raggiunse le bande armate a Fiesole. Ottenute le prove scritte della congiura, Cicerone arrestò 5 capi della congiura e il senato, trascinato da Marco Porcio Catone (futuro Uticense, pronipote del Censore), pronunciò la pena di morte (solo Cesare insistette per il carcere a vita). Catilina, affrontato di lì a poco da un esercito consolare a Pistoia, cadde combattendo. La grande distanza e buoni rapporti avevano tenuto il regno tolemaico d’Egitto lontano dalle guerre. I tre suoi nuclei costitutivi – Egitto, Cirenaica, Cipro – a partire dal II sec. ebbero fasi in cui erano uniti sotto un monarca altre sotto differenti sovrani. Le contese tra i successori di Tolemeo VIII Ergete II, morto nel 116, fecero sì che spesso si erano rivolti a Roma come garante del trono e della loro sopravvivenza. Tolemeo X Alessandro I, in lotta col fratello maggiore Tolemeo IX Soter II, legò per testamento (89-87?) l’Egitto a Roma. Suo figlio Tolemeo XI Alessandro II, prigioniero di Mitridate a Cos nell’88, riuscì a fuggire presso Silla. Ritornato in Egitto nell’80 salì al trono sposando la cugina Cleopatra Berenice II, che fece assassinare; venne però braccato e ucciso dagli Alessandrini esasperati: in questa situazione avrebbe redatto il testamento che però si tende ad ascrivere a suo padre. Tra gli unici Tolemei rimasti, i figli di Tolemeo IX, gli Alessandrini proclamarono re d’Egitto Tolemeo XII Aulete, il maggiore e Tolemeo minore re di Cipro. L’Aulete volle farsi riconoscere da una restia Roma tra i suoi alleati e amici, cosa che ottenne solo nel 59, grazie a Cesare. Il problema egiziano divenne attuale per Roma solo nel 64-63: Pompeo, ridotta la Siria a provincia e regolato il territorio palestinese, si affacciò nei confini egiziani. Nel 63 una legge agraria parve includere anche l’Egitto in un progetto di assegnazioni fondiarie: Cicerone però riuscì a farla bloccare. Nel 58 seguì la rivendicazione di Roma su Cipro e la sua conseguente annessione, e Tolemeo XII, cacciato da una sollevazione, si rifugiò a Roma sotto la protezione di Pompeo. Nel 55 Aulo Gabinio, allora governatore di Siria e devoto di Pompeo, corrotto (si disse) dall’Aulete, lo riportò ad Alessandria con la forza. 25 63 25 60LA CONQUISTA DELLA GALLIA E IIª GUERRA CIVILE Nel 62, sbarcato a Brindisi, Pompeo era convinto di ottenere la ratifica del senato su territori e province da lui decisi in Oriente e le concessioni di terre ai suoi veterani, ma i suoi avversari in senato (Metelli, Lucullo e Catone) le rimandarono di giorno in giorno. Deluso, si riavvicinò a Crasso e al suo alleato Cesare, stringendo nel 60 un accordo di reciproco sostegno, chiamato dai moderni primo triumvirato, definizione modellata sull’unico triumvirato esistito come magistratura, quello del 43: il primo fu un accordo privato e segreto, secondo il quale: -Cesare sarebbe stato eletto console nel 59 -egli avrebbe dovuto varare una legge agraria che sistemasse i veterani di Pompeo -Crasso ne avrebbe tratto vantaggio per cavalieri e appaltatori a lui legati L’accordo si cementò anche col matrimonio di Pompeo con la giovane figlia di Cesare, Giulia. Eletto console, Cesare fece votare due leggi agrarie che distribuivano terre ai veterani di Pompeo per il rimanente agro pubblico italico; come fondi si utilizzarono i bottini di guerra di Pompeo, di cui si ratificarono tutte le decisioni prese in Oriente. Infine, com’era desiderio di Crasso, si ridusse d’un terzo il canone d’appalto delle imposte nella provincia d’Asia. La lex Iulia de repetundiis migliorò la legislazione sillana in materia e un altro provvedimento prevedeva la pubblicazione dei verbali delle sedute senatorie e delle assemblee popolari. Infine, il tribuno Publio Vatinio fece votare un provvedimento che dava a Cesare il proconsolato della Gallia Cisalpina e dell’Illirico con tre legioni, e, reso vacante il governo della Gallia Narbonese su proposta di Pompeo, lo si aggiunse alle sue competenze con una quarta legione. estremità per recidere le vele nemiche), ebbe la meglio sui grandi vascelli oceanici nemici, permettendo alle legioni di dominare sulla terraferma. Sul fronte del Reno, due tribù germaniche, Usipeti e Tencteri, attraversato il fiume e giunti nel territorio dei Treveri, furono annientate da Cesare, che compì una spedizione intimidatoria sulla riva destra nel 55. Dopo un’incursione esplorativa nel 55, nel 54 si invase la Britannia con cinque legioni che sottomisero varie tribù della costa fino al Tamigi. Nel 53 si dovette reprimere una grande rivolta delle regioni settentrionali della Gallia. Sotto la guida di Vercingetorige, re degli Arverni, nel 52 cominciò una grande crisi con lo sterminio di Romani e Italici di Cenabum (Orléans), sollevazione che si estese a tutto il territorio tra Loira e Garonna. Cesare, in Cisalpina, si precipitò in Arvernia e pose d’assedio Gergovia, venendo respinto. Gli Edui defezionarono. Si diresse allora nord per congiungersi al legato Tito Labieno, che aveva sconfitto tribù insorte presso Lutetia Parisiorum (Parigi). Vercingetorige, rinchiusosi nella piazzaforte di Alesia, aspettò rinforzi mentre Cesare costruì due linee di fortificazione, una interna e una esterna per sostenere gli assalti dei Galli accorsi in aiuto. Dopo un lungo assedio, la roccaforte capitolò e Vercingetorige, arresosi, fu portato come prigioniero a Roma dove, sei anni dopo, nel 46, fu fatto sfilare nel corteo trionfale di Cesare e poi decapitare sotto il Campidoglio. Frantumati, nel 51, gli ultimi centri di resistenza, Cesare diede di proprio conto un primo ordinamento alla nuova provincia della Gallia Comata. In Siria (54), Crasso cercò d’inserirsi nella contesa dinastica dei Parti: alla morte di Fraate III era sorta una lotta tra i suoi figli, Mitridate e Orode, che divenne re. Crasso decise di appoggiare il fratello e, varcato l’Eufrate, si spinse in Mesopotamia. Nel 53 si rimise in marcia col figlio Publio (inviato da Cesare con un contingente di cavalleria gallica) attraverso le steppe della Mesopotamia, invece di invadere il paese da nord e nonostante il re d’Armenia e i suoi legati glielo sconsigliassero. Venuto in contatto coi Parti, presso la città di Carre, i Romani furono travolti dai catafratti (cavalleria corazzata partica), subendo una delle più gravi sconfitte mai patite: le aquile di sette legioni furono catturate e la provincia di Siria minacciata, inoltre, mentre si ritirava, Crasso fu preso e ucciso. Dopo il consolato del 55, Pompeo, rimasto a Roma, vide venir meno i vincoli politico-familiari che lo univano a Cesare: nel 54 morì di parto Giulia (e Pompeo declinò ulteriori proposte matrimoniali di Cesare, preferendo sposare Cornelia, vedova del figlio di Crasso), nel 53 era scomparso Crasso. Quindi si accostò sempre più alla fazione ottimate più anticesariana. Nel 53 non si era riusciti ad eleggere in tempo i consoli, così si propose, senza successo, la dittatura di Pompeo. Nel 52 sulla via Appia si affrontarono le bande di Clodio, che aspirava alla pretura, e di Milone, candidato al consolato: Clodio rimase ucciso e la curia senatoria data alle fiamme. Pompeo quindi fu nominato console senza collega, e fece subito votare leggi repressive sulla violenza (de vi) e di broglio elettorale (de ambitu), che portarono alla condanna di Milone. I nemici di Cesare volevano che tornasse a Roma senza cariche così da metterlo sotto accusa, da privato cittadino, per come aveva condotto la guerra: assente da Roma dal 58, il suo mandato terminava, in virtù delle proroghe ottenute, secondo Cesare (che computava dieci anni dal 58) alla fine del 49, secondo i suoi nemici (che computavano cinque anni dal rinnovo della carica votato da Pompeo e Crasso nel 55) alla fine del 50. Era necessario per Cesare rivestire di nuovo il consolato congiungendolo al proconsolato e quindi presentare la sua candidatura restando assente da Roma, privilegio concessogli ad personam con una legge fatta votare dai tribuni del 52. Ma sempre nel 52 Pompeo aveva proposto un provvedimento che prescriveva un intervallo di cinque anni tra una magistratura e una promagistratura: una minaccia per Cesare, tanto più che Pompeo si era fatto subito dispensare dalla norma prorogando fino al 47 il proconsolato in Spagna, col diritto di restare a Roma. Un’altra legge inoltre obbligò tutti a presentare di persona le candidature, ma era stato aggiunto un codicillo che riprendeva l’eccezione per Cesare. Dal 51 iniziò tra Cesare e i suoi avversari una lotta di cavilli e espedienti giuridici, tesa a raggiungere per Cesare l’estensione del suo comando fino a tutto il 49per potersi candidare al consolato nel 48 “in assenza”, per gli oppositori l’immediata sostituzione di Cesare già dal 50. Con la nuova procedura diveniva facile rimpiazzarlo al governo della sua provincia con uno tra quelli che avevano occupato una magistratura cinque o più anni prima. Con le vecchie norme risalenti a Caio Gracco la provincia avrebbe dovuto essere dichiarata consolare prima dell’elezione a console di chi lo avesse sostituito: costui avrebbe dovuto esercitare a Roma il suo anno consolare e poi assumere il comando della provincia: nel frattempo Cesare avrebbe conservato per proroga il suo posto. Nel 50 il tribuno Caio Scribonio Curione propose di abolire contemporaneamente tutti i comandi straordinari, sia quello di Cesare sia quello di Pompeo, venendo votato a larghissima maggioranza dal Senato. Nel 49, Cesare da Ravenna inviò al senato una lettera dove si dichiarava disposto a deporre il comando se anche Pompeo l’avesse fatto. Minacciato dal veto di due tribuni (tra cui Marco Antonio) il senato votò il senatus consultum ultimum, lasciando ai consoli e a Pompeo il compito di difendere lo Stato. Cesare quindi varcò in armi il Rubicone, che segnava il confine tra Gallia Cisalpina e territorio civico di Roma, dando inizio alla guerra civile. Pompeo, coi consoli e molti senatori, si diresse a Brindisi per imbarcarsi verso l’Oriente. Cesare percorse rapidamente l’Italia, non riuscendo però ad arrivare in tempo per fermare il piano di Pompeo di trasferirsi in Grecia, bloccare con le sue flotte i rifornimenti e affamare l’Italia, per poi tentare rivalsa con l’appoggio dei governatori delle province a lui fedeli. Ritornato brevemente a Roma, Cesare affrontò la minaccia occidentale: contro le forze pompeiane in Spagna mandò le sue truppe concentrate in Gallia, sconfiggendole di persona presso Ilerda (nord dell’Ebro). Tornato a Roma nel 49 rivestì la carica, conferitagli dal pretore Marco Emilio Lepido in sua assenza, di dittatore col solo scopo di convocare i comizi che lo elessero console per il 48. Pompeo pose il suo quartier generale a Tessalonica, mentre le sue navi battevano l’Adriatico per impedire sbarchi di Cesare, il quale, però, compiendo la traversata in pieno inverno (48) traghettò sette legioni e pose d’assedio Durazzo, dove però fu duramente respinto. Avanzò allora verso la Tessaglia, inseguito da Pompeo: a Farsalo (48) avvenne lo scontro decisivo che si tradusse in una disfatta di Pompeo, che, intravista la sconfitta, fuggì in Egitto, pensando di trovare rifugio presso i figli di Tolemeo XII Aulete che aveva aiutato a recuperare il trono. Ma in Egitto, dov’era in corso una contesa dinastica tra Tolemeo XIII e la sorella maggiore Cleopatra VII (che il padre aveva destinato a succedergli), i consiglieri del re lo fecero assassinare appena sbarcato a Pelusio. Arrivato anch’egli ad Alessandria, Cesare vi si trattenne per oltre un anno (48-47) per dirimere le lotte fra i fratelli e assicurarsi l’appoggio del regno. Assediato dai partigiani di Tolemeo, fu costretto ad attendere i rinforzi prima di affrontare in battaglia il re, che trovò la morte nel Nilo: Cleopatra si confermò regina d’Egitto e, partito Cesare, diede alla luce un figlio di lui, Tolemeo Cesare. Nel 47 Farnace, figlio di Mitridate, approfittò della situazione per recuperare i territori paterni: Cesare marciò contro di lui, sconfiggendoli a Zela, nel Ponto. Sostato brevemente a Roma nel 47, ripartì per l’Africa, dove i pompeiani vinti si erano riorganizzati ed si erano assicurati l’appoggio di Giuba, re numida. Dopo possesso delle carte private di Cesare, Antonio abilmente fece passare dei progetti di legge sostenendo di averli lì trovati e ottenendo grande popolarità. Si scoprì che il dittatore aveva nominato erede di tre quarti dei beni e figlio adottivo il giovane Caio Ottavio, suo pronipote (sua nonna era Giulia, la sorella di Cesare), che si trovava ad Apollonia, in Illiria, tra i soldati della campagna partica, in attesa del prozio che lo voleva futuro magister equitum. Ottavio, saputo del testamento, giunse a Roma e entrò in possesso dell’eredità nonostante l’ostruzionismo di Antonio; il giovane si propose politicamente di vendicare la uccisione di Cesare, concentrando su di sé l’appoggio di cesariani e veterani, mentre molti senatori (tra cui Cicerone) lo videro come mezzo per arginare lo strapotere di Antonio. Per controllare meglio l’Italia allo scadere del consolato, Antonio si fece assegnare le due Gallie (Comata e Cisalpina) al posto della Macedonia per cinque anni, ma l’assegnatario originario della Cisalpina, Decimo Bruto, rifiutò di cederla e si rinchiuse a Modena: iniziò una nuova guerra (43). Cicerone attaccò Antonio per la sua condotta prevaricatrice, e il senato ordinò che i due consoli (che morirono nello scontro) Aulo Irzio e Caio Vibio Pansa, cui si associò con un imperium propretorio Ottavio, muovessero soccorso a Bruto: battuto, Antonio si ritirò nella Narbonese, dove voleva unire le sue forze a quelle di Lepido. Ottavio, vista la morte dei consoli, chiese al senato il consolato; al rifiuto, marciò su Roma così da venir eletto console nel 43 assieme al cugino e coerede Quinto Pedio. I due revocarono l’amnistia e istituirono un tribunato speciale per i cesaricidi. Ratificata la sua adozione dai comizi, Ottavio divenne Caio Giulio Cesare Ottaviano. Intanto Antonio, congiuntosi in Gallia con Lepido, attirò dalla sua parte i governatori di Gallia e Spagna, Lucio Munazio Planco e Caio Asinio Pollione. Bruto, isolato e abbandonato dai soldati, fu ucciso mentre fuggiva verso le Alpi per congiungersi agli altri cesaricidi. Si annullò il provvedimento dichiarante Antonio hostis publicus così che poté incontrarsi nel 43 con Ottaviano e Lepido a Bologna: si stipulò un accordo, poi sancito nella lex Titia, istituente un triumvirato rei publicae constituendae, che divenne ora una magistratura ordinaria di cinque anni (quindi fino al 38) conferente il diritto di convocare senato e popolo, promulgare editti e designare i candidati alle magistrature. Antonio avrebbe ottenuto Gallia Cisalpina e Comata, Lepido la Narbonese e le due Spagne, Ottaviano Africa, Sicilia, Sardegna e Corsica, queste ultime tre minacciate dal figlio di Pompeo, Sesto Pompeo, a cui il senato aveva affidato, dopo la guerra di Modena, il comando delle flotte navali, e le cui fila si erano infoltite di sbandati e fuggitivi tanto da mettere in difficoltà il vettovagliamento di Roma. l’Oriente era in mano a Bruto e Cassio. Si riutilizzarono delle liste di proscrizione, col nome dei cesaricidi e dei nemici dei triumviri: centinaia di senatori e cavalieri furono uccisi e i loro beni confiscati, tra cui Cicerone, che pagò a caro prezzo i suoi attacchi contro Antonio. Rimesse così in sesto le finanze, divinizzato Cesare nel 42 (Ottaviano ora era un Divi filius), lasciando Lepido e Munazio a Roma, Antonio e Ottaviano partirono verso la Grecia, per attaccare Bruto e Cassio che, procacciatisi grandi quantità di denaro (con tasse e confische) e un consistente esercito, avevano in Oriente la loro base. Lo scontro decisivo si ebbe a Filippi, nel 42, in due battaglie successive: Ottaviano si trovò subito in difficolta, ma Cassio, battuto da Antonio, credendo anche Bruto sconfitto, si suicidò, cosa che fece anche Bruto quando fu vinto definitivamente. L’opposizione senatoria, decimata da proscrizioni, guerre intestine e Filippi, fu presto sostituita da una nuova aristocrazia, composta da membri delle classi dirigenti municipali italiche e da persone di fiducia dei triumviri, andando a mutare radicalmente composizione e mentalità delle élites d governo, ora assai più inclini a rapporti di dipendenza politica e personale. Antonio, rafforzato il prestigio militare, trattò cogli altri triumviri da una posizione di forza, cumulando a quello sulle Gallie il comando di tutto l’Oriente (e quindi anche della futura spedizione partica). A Lepido fu assegnata l’Africa e a Ottaviano le due Spagne, il compito di sistemare i veterani in Italia e di vedersela con Sesto Pompeo che spadroneggiava in Sicilia dopo che si erano aggiunti a lui i superstiti delle proscrizioni e di Filippi. Questi impegni così gravosi – soprattutto sistemare i veterani perché si trattava di espropriare terreni in 18 città d’Italia destinate allo scopo a cui si dovevano aggiungere altre zone – gli avrebbero assicurato una base politico-militare non meno forte di Antonio e la sua permanenza in Italia comunque lo legava al centro di potere, Roma. Le proteste di piccoli e medi proprietari sfociarono in rivolta nel 41, alimentata da Fulvia e Lucio Antonio, moglie e fratello di Antonio, che se ne misero a capo; Ottaviano affrontò gli insorti chiusi a Perugia. Dopo un assedio perdurato fino al 40, la città fu espugnata e saccheggiata. Lucio fu risparmiato e Fulvia raggiunse Antonio in Grecia, e molti fuggirono andando a ingrossare le fila di Sesto Pompeo, ora padrone anche di Sardegna e Corsica. Al profilarsi di un’alleanza di Antonio con Sesto, Ottaviano sposò nel 40 per avvicinarselo Scribonia, sorella di Lucio Scribonio Libone, suocero di Sesto; quindi, preoccupato, Antonio si mosse dall’Oriente (dove si era legato personalmente con Cleopatra) verso l’Italia. Grazie alla mediazione di amici comuni (come Asinio Pollione e Caio Clinio Mecenate), i due triumviri s’incontrarono a Brindisi (40) per sottoscrivere un accordo, per cui l’Oriente fu assegnato a Antonio e l’Occidente a Ottaviano (tranne l’Africa di Lepido), che fu suggellato dal matrimonio di Antonio, vedovo di Fulvia, con Ottavia, sorella di Ottaviano. Sesto Pompeo, deluso di non essere preso in considerazione, riprese a bloccare le forniture di grano, così da costringere Antonio a tornare di nuovo dalla Grecia per presenziare con Ottaviano all’accordo di Miseno (39): al figlio di Pompeo furono riconosciute Sicilia, Sardegna e Corsica, a cui si aggiunse il Peloponneso, e inoltre gli esuli uniti a lui furono amnistiati. Ma di fronte alle difficoltà di Antonio nella consegna del Peloponneso, Sesto riprese le scorrerie in Italia (38), così Ottaviano ripudiò Scribonia e nel 37 passo a nuove nozze con Livia Drusilla (moglie divorziata di Tiberio Claudio Nerone che aveva già come figlio il futuro imperatore Tiberio ed era incita di Druso). Dopo che un luogotenente di Sesto consegnò Sardegna e Corsica ad Ottaviano, divampò la lotta per il possesso della Sicilia; Ottaviano, dopo una dura sconfitta, chiese di nuovo l’appoggio di Antonio, con cui concluse un accordo a Taranto (37): si promisero rinforzi reciproci (per la lotta contro Sesto e per la spedizione partica) e si rinnovò per altri cinque anni (fino al 32) il triumvirato, scaduto nel 38. Frattanto, Marco Vipsanio Agrippa, console nel 37, amico d’infanzia di Ottaviano, con un’opera di ingegneria collegò i laghi Averno e Lucrino al mare, costruendo così un porto militare a Pozzuoli, dove riunì una flotta consistente. Nel 36 Agrippa inferse una doppia sconfitta a Milazzo e a Nauloco, nella costa nord della Sicilia, a Sesto che fuggì in oriente, dove fu ucciso nel 35. Lepido, che prese parte alle operazioni, rivendicò per se l’isola, ma, abbandonato dalle truppe, fu estromesso dal triumvirato: Ottaviano s’impossessò così dell’Africa. Ottaviano ritornò a Roma, venendo ricolmato di onori, come la sacrosanctitas che, aggiunta all’imperium che deteneva come triumviro, costituì la base per fondare il principato. Si procacciò anche la gloria militare grazie all’aiuto d Agrippa, con due anni (dal 35 al 34) di dure campagne contro gli illiri in Pannonia e Dalmazia. Antonio, negli anni successivi a Filippi, contava di portare a termine i progetti di Cesare contro i Parti e vendicare la morte di Crasso e il disastro di Carre; le prime necessità, finanziare, imposero pesanti tributi all’Asia, poi si procurò l’alleanza di re e principi orientali. L’architettura istituzionale, ispirata alla prudenza e al compromesso con la tradizione senatoriale repubblicana, traeva origine dall’esperienza delle guerre civili: non era più immaginabile che si ponesse in discussione l’opportunità che il potere venisse detenuto da uno solo. Il principe si poneva come punto di riferimento fra le diverse componenti della nuova realtà «imperiale» (esercito, province, senato, plebe urbana); era chiaro che il benessere materiale di Roma dipendeva anche dalla prosperità delle province. Tra 27 e 25 Augusto si recò in Gallia e poi in Spagna del nord, dove combatté Asturi e Cantabri, non ancora sottomessi, dimostrando così di provvedere alla pacificazione dei territori assegnatigli dal senato e rafforzando il contatto con esercito e veterani nelle province. Augusto poi alternerà periodi triennali di permanenza nelle province a periodi biennali a Roma, così che l’assestamento del nuovo ordine si compisse gradualmente e così da rispettare la prassi secondo cui a Roma governavano senato, popolo e magistrati, mentre lui, da promagistrato, si recava nelle province. Nel 23 Augusto in Spagna si era seriamente ammalato, facendo venire alla luce uno dei problemi più delicati del principato augusteo: il regime presupponeva che alla testa dello stato ci fosse una sola persona, ma la mancanza di precedenti e di una prassi per la successione creava i presupposti per un vuoto di potere. Non avendo figli maschi, Augusto pensò al genero Marcello, marito della sua unica figlia Giulia. Ma Marcello morì e Giulia fu data in sposa ad Agrippa, divenendo il nuovo successore designato. Per questo e per altri motivi, s’introdussero delle correzioni riguardo i poteri imperiali. Augusto depose il consolato (che aveva detenuto ininterrottamente dal 31) per ottenere un imperium proconsulare su tutte le province, anche quelle che nel 27 erano state riservate al senato. Questo potere – definito imperium maius – non consentiva però ad Augusto, quando si trovava a Roma, di agire nella vita politica; il problema fu ovviato con l’investitura da parte del senato della tribunicia potestas, rinnovata ogni anno, grazie alla quale poteva convocare comizi, porre il veto e godere della sacrosanctitas, e a cui il senato aggiunse anche il diritto di convocare il senato. Augusto continuava a detenere poteri compatibili con la tradizione repubblicana, ma incompatibile era che fossero detenuti contemporaneamente. Ma la rinuncia al consolato lasciava disponibilità all’aristocrazia senatoria, e con l’introduzione nel 5 d.C. dei consoli suffetti (supplenti) aumentò il numero di posti da ricoprire. Le elezioni inoltre, sin dal 27, erano controllate da Augusto attraverso le procedure della nominatio, accettazione della candidatura da parte di un magistrato soprintendente, e della commendatio, raccomandazione dell’imperatore. Già nel 5 d.C. all’assemblea fu attribuito un ruolo marginale: i comizi ratificano i candidati scelti da 10 apposite centurie di cavalieri e senatori, che li designavano d’accordo con l’imperatore. Nel 22 in seguito a una carestia, Augusto rifiutò la dittatura offertagli dal popolo e assunse la cura annonae; nel 19-18 investì anche la censura, ottenendo i privilegi dei consoli (sella curulis e i 12 littori). Anche Agrippa nel 23 ricevette un imperium proconsulare di 5 anni grazie al quale di recò in Oriente. Tra 22 e 19 Augusto si portò nel confine orientale per sistemare la questione partica e armena. Riuscì con la diplomazia a recuperare le insegne delle legioni di Crasso e Marco Antonio, che furono trasferite a Roma nel tempio di Marte Ultore. Intanto Agrippa, tornato a Roma, sposava Giulia, vedova di Marcello. Nel 18 scadeva il mandato (del 27) di 10 anni sulle province non pacificate di Augusto e quello di 5 anni di Agrippa (del 23), così entrambi si videro rinnovare per altri 5 anni l’imperium proconsulare e Agrippa ricevette anche la tribunicia potestas. Già nel 20 quest’ultimo aveva avuto un figlio da Giulia, Lucio Cesare, e nel 20 Caio. Nel 17 Augusto li adottò entrambi. Nel 12 morì Lepido, che fino ad allora aveva rivestito la carica di pontefice massimo: anche questa fu conferita quindi ad Augusto, che diventò così guida della vita religiosa di Roma. L’ultimo conferimento, il titolo di pater patriae, gli fu attribuito da senato, cavalieri e popolo nel 2 a.C. L’imperium proconsolare e il potere tribunizio, assieme alle altre prerogative, crearono, a fianco dell’ordinamento repubblicano, un potere personale sia nell’iniziativa politica a Roma, sia nel governo dell’Imperno, così che si ebbe una duplice sfera di competenza, quella tradizionale repubblicana e quella specifica del princeps. Il senato, negli ultimi anni della Repubblica, vide un notevole aumento dei membri (da 600 a più di 1000) con l’ingresso dei sostenitori di Cesare e poi dei triumviri; poi Augusto favorì l’accesso delle élites provinciali più romanizzate (es. Gallia meridionale e Spagna). Nel 29-28, da console, si fece conferire la potestà censoria e procedette alla lectio senatus, revisione dei senatori, espellendo le persone indegne, la cui origine e censo non corrispondevano agli standard, poi nel 18 riportò il numero ai 600 previsti da Silla e rese la dignità senatoria una prerogativa ereditaria. Il cursum honorum (successione delle cariche pubbliche riservate al massimo ordine dello Stato) senatorio, in età imperiale, così si sviluppava: 1 - esercitare il vigintivirato (XXvir), denominazione collettiva di diversi collegi magistraturali (Xvir stilitibus iudicandis, IIIvir capitalis, IIIvir monetalis, IIIIvir viarum curandum: 10+3+3+4=20) 2 -un anno di servizio militare come tribunus militum laticlavius, rivestito dagli appartenenti all’ordine senatorio che si distinguevano per la toga che aveva una banda purpurea larga, mentre i tribuni equestri avevano una banda più stretta (angusticlavius). Non era raro che i giovani predestinati a una brillante carriera fossero nominati Seviri equitorum romanorum, comandanti di uno dei sei squadroni dei cavalieri romani 3 - Quaestor (urbanus, tesoriere dello stato, propraetore provinciae, amministratore finanziario delle province con poteri pari al pretore, principis, portavoce dell’imperatore nel senato, consulis, portavoce del console nel senato) 4 - Tribunus plebis/Aedilis, magistrature sullo stesso piano, cioè era indifferente rivestire una delle due per passare al grado successivo. L’aedilis era o plebis, carica riservata ai plebei, o curulis, unica carica di questo grado ricoperta anche da patrizi, che però potevano saltare questa tappa per passare direttamente alla successiva 5 – Praetor (urbanus, amministratore di cause giudiziarie coinvolgenti due cittadini romani, peregrinus, se almeno una delle due parti non era cittadino romano, aerarii, sovrintendente della cassa statale). Gli ex pretori erano chiamati a rivestire funzioni del proprio rango svincolati dalla norma dell’annualità: legatus legionis, comandante di una legione, legatus Augusti pro praetore provinciae, governatore di provincie imperiali di minor importanza e proconsul, governatore di province del senato e popolo romano di minor importanza) 6 – Consul, o ordinari (in carica dal 1° gennaio, con funzione eponima), o suffetti (in carica nel corso dell’anno, sostituenti gli ordinari). Anche gli ex consoli erano chiamati a rivestire funzioni proprie del loro rango: le grandi curatele (come il curator operum publicorum), il legatus Augusti pro praetore, governatore di una provincia imperiale importante, proconsul, governatore di un’importante provincia del senato e popolo romano (Africa o Asia) e, infine, praefectus Urbi. Durante la Repubblica, chi aveva censo pari a 400.000 sesterzi (ed era nato libero e non esercitava professioni disonorevoli) era del ceto equestre, quindi anche i figli dei senatori, fino alla questura. I senatori si distinguevano dagli equites per la carriera politica, che gli assicurava l’ingresso al senato e l’acquisizione del laticlavio. Nell’ultima fase della Repubblica, figli di cavalieri e senatori portavano il laticlavio senza essere membri del senato, quindi Augusto ne proibì l’uso ai figli dei cavalieri, ma non ai figli dei senatori (che però rimanevano cavalieri), così da distinguerli; inoltre innalzò il censo minimo per entrare in senato a un milione di sesterzi. Augusto poteva concedere il diritto ad entrare in senato a persone non appartenenti ad una famiglia senatoria: egli designava a una carica magistratuale I costi della liquidazione dei veterani furono sostenuti in un primo tempo col bottino di guerra e col patrimonio di Augusto: ne furono congedati in più fasi ~ 300.000, all’inizio col la retribuzione di terre, in Italia e alcune province, poi perlopiù con denaro: la creazione dell’erario militare del 6 d.C.. finanziato dalla tassa apposita sulle eredita (la vicesima hereditatium) garantì al soldato che avesse ottenuto l’honesta missio (certificato di servizio onorevole) un premio di congedo. Con Augusto il servizio militare fu riservato ai volontari, perlopiù italici (ma incominciava ad essere apprezzabile il contributo dei provinciali): l’esercito era formato da professionisti, in servizio per 20 e più anni, con 225 denari l’anno. Si costituì una forza permanente, composta da 25 legioni. Fu istituita una guardia pretoriana permanente, affidata a un prefetto equestre: un corpo militare d’élite composto da 9 coorti (~9.000 uomini), prevalentemente cittadini romani residenti in Italia, col soldo più elevato e migliori condizioni di servizio, essendo stanziato a Roma. Durante il regno di Augusto le acquisizioni territoriali furono limitate: compì nel 29 (dopo Azio), nel 25 (dopo la guerra cantabrica) e nel 10 a.C. (dopo la spedizione in Arabia) la chiusura del tempio di Giano, gesto propagandistico indicante una stagione di pace. Le questioni orientali furono affidate alla diplomazia: in Egitto si estesero i confini meridionali grazie al primo prefetto Caio Cornelio Gallo, che si accordò cogli Etiopi (29-27), il successore condusse una spedizione fino allo Yemen per assicurare le vie commerciali con l’Oriente (25-24). Il rapporto col regno partico si stabilizzò grazie a diplomazia e accordi cogli Stati vicini ai territori provinciali: coi sovrani di tali regni (Erode in Giudea, Archelao in Cappadocia, Polemone in Ponto) dei trattati di amicizia sancivano un rapporto di patronato-clientela con l’imperatore (i cosiddetti «regni clienti»). Aldilà dell’Eufrate zona critica era l’Armenia, dove gli interessi di Roma si scontravano con quelli dei Parti: nel 20, Augusto con trattative diplomatiche riottenne le insegne di Crasso e Antonio e Tiberio, figlio di primo letto di Livia, incoronò re d’Armenia Tigrane II, re cliente di Roma. Teatro di scontri militari fu invece l’Occidente: la penisola iberica fu finalmente pacificata (27-25 fino al 19), e nelle Alpi, nel 25, furono sottomessi i Salassi della Val d’Aosta e fu fondata la colonia di Augusta Praetoria (attuale Aosta). Nel 21-20 il proconsole di origine spagnola Lucio Cornelio Balbo estese il controllo nell’Africa meridionale contro le tribù dei Garamanti: fu l’ultimo generale romano a celebrare un trionfo. Sul confine renano e danubiano, gli eserciti furono impegnati per lungo tempo e i confini ampliati con la conquista dell’arco alpino centrale fino all’alto corso del Danubio, realizzata nel 16-15 dai figliastri di Augusto, Tiberio e Druso. Tra 14 e 9 a.C. fu occupata la Pannonia (attuale Ungheria) e con anche l’acquisizione della Mesia si consolidò definitivamente la frontiera danubiana. La propaganda di Augusto non riuscì però a mascherare il grande insuccesso della mancata sottomissione della Germania. L’obiettivo era la linea del fiume Elba, dove i Romani con Druso arrivarono nel 9 a.C.: il territorio germanico a oriente del Reno non fu però mai stabilmente sottomesso. Nel 6 d.C. scoppiò una grande rivolta delle tribù germaniche, unite contro il comune invasore. Nel 9 d.C. nella foresta di Teutoburgo Quintilio Varo fu sconfitto da Arminio e tre legioni annientate. La frontiera, si comprese meglio in seguito, doveva rimanere il Reno. I particolari poteri che Augusto aveva via via ricevuto dal senato non potevano essere trasmessi, secondo un principio dinastico, senza ledere le prerogative dell’ordinamento repubblicano. Augusto non aveva figli maschi (solo una femmina, Giulia), ma voleva che il suo potere rimanesse alla morte nella sua famiglia, così integrò quest’ultima nel sistema politico e nella propaganda ideologica, celebrandone l’ascendenza divina, riprendendo la consuetudine di nobilitazione degli antenati propria degli aristocratici romani. Il ruolo di primo piano assunto dalla domus principis gli consentiva di trasferire all’erede le clientele e il prestigio (basi del suo potere), appartenenti secondo la tradizione al patrimonio di una famiglia gentilizia. L’erede scelto avrebbe ricevuto anche un prestigio che gli garantiva un accesso privilegiato alla carriera politico- militare e un ruolo singolare nella res publica. Attraverso il matrimonio di Giulia col nipote Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, nel 23, Augusto cercò d’inserire un discendente maschio nella famiglia, dotandolo già da giovanissimo di prerogative come l’ammissione al senato e il consolato prima dell’età prevista, visto che si sentiva vicino alla morte per la grave malattia che lo colpì in Spagna: ma mentre Augusto recuperò la salute, Marcello morì lo stesso anno. Agrippa, che divorziò dalla prima moglie e sposò la vedova Giulia, ricevette quindi l’imperium proconsulare e la tribunicia potestas; nel 17 Augusto adottò i suoi due figli Caio e Lucio Cesari: quando nel 12 Agrippa morì, visto che erano minorenni, Augusto si rivolse ai figli della terza moglie Livia, nati dal primo matrimonio di questa con Tiberio Claudio Nerone: Tiberio e Druso. Tiberio, che aveva sposato Vipsania, figlia del primo matrimonio di Agrippa, dovette divorziare e sposare Giulia nell’11 a.C.: ricoprì due volte il consolato, celebrò un trionfo per le campagne germaniche del 7 a.C., ricevette nel 6 a.C. la potestà tribunizia, ma poi si ritirò dalla vita politica autoesiliandosi a Rodi, forse a causa della predilezione di Augusto per i figli di Agrippa. Caio e Lucio Cesare morirono giovanissimi nel 2 e nel 4 d.C. e già nel 2 d.C. Tiberio tornò a Roma e divorziò con Giulia, condannata all’esilio dal padre a causa dei suoi amanti: Augusto aveva proposto leggi moralizzatrici che applicò anche a sua figlia, come esempio della sua sottomissione allo Stato. Augusto quindi pretese che Tiberio adottasse Germanico nel 4 d.C., figlio di suo fratello Druso e di Antonia, figlia di Marco Antonio e di Ottavia, sorella di Augusto (anche se Tiberio aveva un proprio figlio di nome Druso), e sempre nel 4 d.C. Augusto adottò lo stesso Tiberio, cui furono poi attribuiti tribunicia potestas e imperium proconsulare: nel 13 d.C., celebrando il trionfo sui Germani, gli fu conferito imperium pari a quello di Augusto. La politica culturale si manifestò (oltre che nelle arti figurative e nella trasformazione architettonica di Roma) in pubbliche cerimonie, nella monetazione, nella letteratura e nel coinvolgimento degli intellettuali nella promozione di una restaurazione morale all’interno dello Stato e pacificazione all’esterno. La sua autobiografia, le Res Gestae, ripercorrendo le tappe del proprio operato costituzionale e militare, illustra come Augusto interpretasse la propria opera; anche attraverso le opere di Tito Livio o dei grandi poeti di questo tempo, Orazio, Properzio, Ovidio e Virgilio, che nelle Ecloghe e Georgiche canta la pace e il ritorno alla tradizionale vita nei campi e nell’Eneide celebra Enea come antenato di Augusto. L’adesione degli intellettuali al programma del principe si doveva in gran parte a Mecenate che, con un’opera di persuasione e di aiuto economico verso personaggi come Orazio o Virgilio, che si trovavano in situazioni critiche a seguito delle guerre civili. Sappiamo però con certezza di voci dissidenti, come l’antoniano Asinio Pollione o lo storico greco Timagene; anche Ovidio, parte del circolo di Mecenate, verso la fine del principato augusteo fu relegato a Tomi nel Ponto, accusato di aver scritto carmi non consoni alla riforma dei costumi introdotta da Augusto. 25 63 25 60LA DINASTIA GIULIO-CLAUDIA Augusto morì in Campania nel 14 d.C., il suo corpo fu trasportato a Roma e le ceneri tumulate nel mausoleo in Campo Marzio. Tiberio, in senato, facendo presente le difficoltà di assumere la somma dei poteri del padre, suggerì di affidare la cura dello Stato a più persone, ma il senato lo spinse ad accettare i poteri e alla fine Tiberio acconsentì. Si rivelò così l’impossibilità del senato di concepire un ritorno alla Repubblica, senza la presenza di una parallela autorità che era stata di Augusto. Tra 14 e 68 Più freddo era l’atteggiamento del Senato, riflesso nel ritratto di Gaio come un folle tiranno, preoccupato solamente di rafforzare il suo potere personale. Nella storiografia attuale, si tende a mettere in luce la tradizione familiare gentilizia dell’imperatore, che ereditava la linea di Antonio e di Germanico e faceva propri elementi della concezione “orientale”, monarchica. Forse in questo contesto si colloca la decisione di far uccidere nel 40 il re mauritano Tolemeo, ultimo discendente di Antonio (era figlio di Cleopatra Selene, figlia di Antonio e Cleopatra), cosa che diede inizio a una guerra che si concluse solo sotto Claudio, con l’annessione della Mauretania a Roma. In politica estera, ripristinò in Oriente dei Stati cuscinetto, con i cui sovrani aveva relazioni di amicizia ereditate da Marco Antonio, attraverso la nonna Antonia, come il caso della Commagene, ridotta a provincia da Tiberio e poi restituita a un sovrano cliente, oppure la concessione di territori della Galilea all’amico Erode Agrippa. Con gli Ebrei, l’imperatore, per affermare la propria divinità, richiese di porre una sua statua nel Tempio di Gerusalemme, suscitando proteste della popolazione che sfociarono in violenti conflitti tra Ebrei e Greci nelle città della Giudea e Oriente. Nel 41 Caligola cadde vittima di una congiura dei pretoriani, e la sua morte evitò il conflitto in Giudea: tutto ci viene dettagliatamente descritto nella narrazione dello storico di origini ebraiche Flavio Giuseppe. CLAUDIO (41-54), zio di Caligola, ci viene presentato dalle fonti antiche come uno sciocco ed inetto, dedito a manie erudite. Malgrado il rispetto per il senato, la necessità di razionalizzare il governo dell’Impero indusse Claudio a una significativa riforma: l’amministrazione centrale fu divisa in quattro grandi uffici, un segretariato generale, uno per le finanze (a patrimonio), per le suppliche e (ab epistulis) e per l’istruzione dei processi da tenere davanti all’imperatore (a libellis), al capo dei quali furono chiamati dei liberti. Per i problemi di approvvigionamento granario e idrico, costruì il porto di Ostia (prima le grandi navi granarie approdavano a Pozzuoli) e riammodernò le distribuzioni granarie, togliendo la responsabilità al senato e assegnandola al prefetto dell’annona. Una sua orazione per la concessione ai notabili della Gallia Comata del diritto di accesso al senato, contenuta in una tavola bronzea scoperta a Lione, ci mostra il suo interesse per le province, attestato anche da altri provvedimenti: intensificò l’opera di fondazione di colonie (soprattutto in Britannia, Germania e Mauretania) e concesse la cittadinanza a delle popolazioni alpine (ciò ci è noto grazie alla Tabula Clesiana, trovata a Cles, presso Trento). Nella prima parte del suo principato dovette risolvere le questioni lasciate aperte da Caligola: affrontò la guerra in Mauretania, ponendovi fine con l’organizzazione del regno in due province, affidate a procuratori equestri, e in Oriente modificò l’assetto dei regni clienti istituiti da Caligola. Ristabilì i privilegi delle comunità ebraiche nelle città orientali, tutelando nel contempo le istituzioni delle poleis greche, per prevenire disordini; sempre per questo motivo espulse gli Ebrei da Roma nel 49. Nel 43 conquistò la Britannia meridionale che ridusse a provincia. Sposò in terze nozze la dissoluta Messalina, da cui ebbe un figlio, Britannico (così chiamato per la felice campagna in Britannia). Accusata di intrigare contro il marito, la donna fu messa a morte nel 48; così Claudio sposò la nipote Agrippina, che riuscì a far adottare dall’imperatore il figlio avuto da un precedente matrimonio: nel 54 ella avvelenò Claudio pur di assicurare la successione al figlio. NERONE (54-68) impostò il suo principato su premesse del tutto diverse da quelle augustee. Il De Clementia (del 55) del filosofo e suo precettore Lucio Anneo Seneca, ne è manifesto teorico e programma di governo: ora la res publica è nelle mani di una sola personalità, e il potere e la ricchezza implicano per il principe la responsabilità di porre virtus e clementia alla base delle proprie azioni. In un primo tempo Nerone assecondò l’autorevole influenza di Seneca e di Afranio Burro, prefetto del pretorio, cercando una collaborazione col senato, ma se ne distaccò via via per inclinare verso un’idea teocratica e assoluta del potere, influenzata dalla sua grande ammirazione per la Grecia, per l’Oriente e per l’Egitto; ciò provocò l’opposizione dei senatori tradizionalisti e delle antiche famiglie repubblicane. Fu capace di compiere anche gesti propagandistici, come la concessioni di esenzioni fiscali alla Grecia e per questo fu sempre considerato un imperatore vicino alla plebe. Nerone però assassinò il fratellastro Britannico e uccise nel 59 la madre Agrippina, che ostacolava la sua relazione con Poppea Sabina e il suo divorzio da Ottavia, figlia di Claudio, cosa che accade nel 62, seguita dal nuovo matrimonio. Da quell’anno iniziarono i processi di lesa maestà verso alcuni senatori a lui ostili. Il suo dispotismo culminò nell’incendio di Roma del 64, di cui furono incolpati i cristiani e che fece tante vittime anche tra i senatori. Non si sa se la colpevolezza di Nerone additata dalle fonti corrisponda a verità, ma certo la situazione che dovette affrontare fu molto grave, e i costi furono così alti che crebbero le tensioni sia col senato e la plebe sia nelle province e ci fu una forte perdita di consenso. Egli cercò di rimediare alla crisi finanziaria con un’importante riforma monetale. Nel 64 ridusse di peso e di fino la moneta d’argento, il denario, cosa che si spiega, forse, con la necessità di moneta legata al grande programma edilizio che doveva finanziare, soprattutto la costruzione della sua residenza, la domus aurea, in pieno centro di Roma, liberato dalle costruzioni precedenti dalle devastazioni dell’incendio. Nelle province, in particolare in Britannia, già nel 60 le popolazioni si ribellarono, forse causa di ciò fu anche il duro comportamento dei procuratori imperiali nelle esazioni fiscali. In Giudea, la requisizione nel 66 di parte del tesoro del Tempio fu una delle cause di una violenta ribellione contro i Romani. Per rimpinguare le casse statali Nerone utilizzò inoltre processi e confische, rendendosi sempre più inviso alla nobiltà senatoria. Nel 65 fu minacciato dalla grave congiura dei Pisoni: Caio Calpurnio Pisone ne fu l’ispiratore, ma essa coinvolse vasti strati dell’élite dirigente, senatori e cavalieri. Seneca e il prefetto del pretorio Fenio Rufo furono le principali vittime, ma anche l’anno dopo Nerone proseguì nell’eliminazione degli avversari. Intanto il valoroso generale Domizio Corbulone, in Oriente, ebbe la meglio sui Parti e riportò l’Armenia sotto l’influenza romana. Il re-cliente Tiridate fu incoronato da Nerone a Roma nel 66 mentre fu chiuso il tempio di Giano e si proclamò la pacificazione dell’Impero. Nerone quindi partì per la Grecia per una tournée artistica e agonistica partecipando ai festival e ai tradizionali agoni periodici delle varie poleis, eccezionalmente tenuti in gran parte in quell’anno. L’imperatore vinse premi in tutti gli agoni e ai giochi di Corinto proclamò la libertà delle città greche. In Giudea scoppiò un’altra gravissima ribellione, contro cui fu mandato Muciano, legato di Siria, e Vespasiano, comandate delle truppe in loco: mentre quest’ultimo riportò sotto controllo la situazione in Palestina (67-68), a Roma giunse la notizia della ribellione del legato della Gallia Lugdunensis Caio Giulio Vindice, che fu rapidamente domata. A questa però seguirono le sollevazioni del governatore spagnolo Caio Sulpicio Galba, di quello dell’Africa e delle truppe del Reno. Anche i pretoriani abbandonarono Nerone, che fu dichiarato nemico pubblico dal senato, riconoscendo Galba come nuovo princeps: fu così costretto a suicidarsi. 25 63 25 60LA SOCIETÀ IMPERIALE La base della concezione antica della società era un’articolazione e differenza al suo interno riconosciuta formalmente dallo status giuridico delle persone. Augusto provvide a differenziare condizioni e prerogative di senatori e equites, introdusse elementi distintivi per i ceti dirigenti dei municipi e si occupò di potessero arrivare a sostenere Otone, che si suicidò. Riconosciuto imperatore in Gallia, ebbe difficoltà a controllare gli ex soldati di Otone e i propri. I pretoriani furono congedati in gran numero e rimpiazzati con soldati delle legioni renane, a quel punto le legioni orientali e danubiane si ribellarono e proclamarono imperatore Vespasiano. TITO FLAVIO VESPASIANO, di famiglia equestre reatina, senatore solo dal principato di Tiberio, era stato mandato da Nerone, che ne riconosceva l’abilità militare, a sedare la rivolta in Giudea del 66 con tre legioni. Nel luglio 69 il prefetto d’Egitto organizzò la sua proclamazione a imperatore da parte delle truppe di Alessandria, seguì poi quella degli eserciti in Giudea, poi di quelle della Siria di Caio Licinio Muciano, infine di quelle danubiane. Mentre si recava in Egitto, le legioni danubiane e siriane marciarono in Italia e sconfissero i Vitelliani nella seconda battaglia di Bedriaco; la lotta continuò anche a Roma (fu incendiato anche il Campidoglio), finché nel dicembre 69 Vitellio fu ucciso. Vespasiano fu riconosciuto imperatore dal senato grazie a Muciano, che governò Roma in un primo tempo assieme a Domiziano, figlio minore di Vespasiano. Con Vespasiano inizia la dinastia dei Flavi che continuerà con il governo dei suoi due figli, Tito e Domiziano. I tre ebbero tutti un’indole diversa, ma si contraddistinsero tutti per un rigido impegno nell’amministrazione imperiale. Avere due figli fu un fattore del successo di Vespasiano, anche se l’idea della trasmissione dinastica, celebrata attraverso l’esaltazione della aeternitas imperii, ovvero la stabilità dell’istituzione imperiale, era stata già introdotta in età tiberiana: riemerge ora in un momento – scosso da guerre civili – in cui è necessario infondere sicurezza. VESPASIANO (69-79) operò per una progressiva razionalizzazione dei poteri dell’imperatore e per il definitivo consolidamento dell’Impero come istituzione. Già nel 71 il figlio Tito gli si associò col titolo di Cesare, e l’autorità del nuovo princeps fu definita dalla lex de imperio Vespasiani, decreto del senato, approvata dai comizi, semplice ricapitolazione e formalizzazione di tutte le prerogative via via acquisite da Augusto e dai Giulio Claudi. Fronteggiò il grave deficit nel bilancio provocato da Nerone e dalla guerra civile, e i provvedimenti presi gli diedero nelle fonti la fama di tirchio: in realtà si rivelò un ottimo amministratore. Estese ai cavalieri alcuni uffici della burocrazia, togliendoli ai liberti, fece fronte alla crisi di reclutamento favorendo l’estensione della cittadinanza ai provinciali e reclutando più spesso i legionari dalle province. Concedette il diritto latino alle città peregrine della Spagna e immise in senato vari esponenti delle élites delle province occidentali (soprattutto colonie spagnole già possedenti la cittadinanza romana). Ricostruì il Campidoglio e incominciò la costruzione di Colosseo e Foro della Pace anche col bottino di guerra, specialmente quella Giudaica: nel 70 Tito s’impadronì di Gerusalemme e ne distrusse il Tempio. Gli ultimi focolai di resistenza furono annientati nel 73/74 con la distruzione delle ultime fortezze come Masada. I particolari della guerra ci vengono raccontati da Flavio Giuseppe, prima uno tra i capi della rivolta, poi prigioniero, infine cittadino romano, per concessione dell’imperatore. Agli inizi del regno fu stroncata anche la rivolta del capo batavo Giulio Civile, che nel 70 aveva dato vita a un impero gallico lungo la valle del Reno. Vespasiano ristabilì definitivamente l’ordine nelle zone di confine, sguarnite di truppe a causa delle guerre civili, così sul Danubio e in Britannia. In Britannia riprese una politica di estensione dei confini, portata a termine da Giulio Agricola sotto il regno di Domiziano; anche in Germania annesse l’area degli agri decumates (corso superiore di Reno e Danubio), che servirono poi a Domiziano come base per la fortificazione del limes germanico. In Oriente abbandonò la politica dei regni clienti, aggregandone i territori alle province esistenti o creandone delle nuove. Complessivamente Vespasiano godette di un certo consenso e abbiamo notizia di un solo episodio di opposizione da parte di alcuni senatori appartenenti al circolo dei filosofi cinici e stoici, che reclamavano maggiore considerazione delle prerogative senatorie: l’imperatore mise a morte lo stoico Elvidio Prisco e bandì alcuni filosofi da Roma. TITO (79-81), seguendo il sistema avviato da Augusto per la successione, ricoprì insieme al padre consolato e censura (e altre magistrature), ed eccezionalmente anche prefetto del pretorio (pur non essendo cavaliere). Già nel 71 ricevette l’imperium proconsolare e la tribunicia potestas, ma anche i titoli di Augusto e di pater patriae. Nel 79, alla morte del padre, gli succedette. Il breve regno di Tito fu funestato da gravi calamità naturali, tra cui l’eruzione del Vesuvio nel corso della quale morì Plinio il Vecchio e che provocò la distruzione di Pompei e di Ercolano. La popolarità di Tito, invero, era legata a una politica di munificenza, giustificata, in parte, da questi eventi catastrofici. DOMIZIANO (81-96) ha risentito dell’ostilità storiografica per il suo stile di governo autocratico, inviso al senato, anche se la sua azione politica fu efficace e benefica. Si preoccupò dell’amministrazione delle province, di reprimere gli abusi dei governatori e di promuovere i compiti burocratici del ceto equestre, assegnando loro uffici dei liberti di Claudio. La scelta di rinunciare a ulteriori conquiste militari a favore di operazioni di consolidamento della frontiera, sul Reno, sul Danubio e in Britannia, risultò realistica e lungimirante. Dopo una campagna nell’83 in Germania contro i Chatti, il territorio conquistato fu controllato attraverso l’impianto di accampamenti fortificati, collegati da una rete di strade e forti presidiati dai soldati ausiliari sul limes, il confine dell’Impero. Fu infatti segnata la linea esterna di confine oltre il Reno, lungo la catena dell’Alto Tauno, attraverso la costruzione di imponenti opere difensive costituite da torri di guardia. Questo sistema dei confini da Adriano fu adattato e impiegato in tutto l’Impero: la parola limes, che nel I secolo designava le strade dei territori non ancora conquistati, dotate di posti fortificati e destinate a facilitare la penetrazione romana, passò ad assumere il significato di frontiera artificiale, linea di separazione tra l’Impero e i territori esterni. Nel caso del vallo di Adriano e di Antonino in Britannia, il limes fu costituito da una linea di castra fortificati, difesi a nord da un vero e proprio muro di pietra. Nell’85 si profilò il problema della Dacia, la regione transdanubiana, nella quale il re Decebalo era riuscito a unificare le varie tribù e a guidarle in incursioni contro il territorio romano. Dopo una prima campagna senza successo, una seconda guidata dallo stesso Domiziano non portò a risultati definitivi a causa della rivolta di Lucio Antonio Saturnino, governatore della Germania Superiore, proclamato imperator dalle sue legioni, che costrinse l’imperatore a una pace provvisoria. Decebalo doveva solo concludere un foedus in cui accettava di dipendere dall’Impero in cambio di una corresponsione in denaro. La rivolta di Saturnino fu domata dal legato della Germania Inferiore, e Domiziano punì severamente i rivoltosi; l’episodio ebbe pesanti ripercussioni sulla politica di Domiziano, che, anche nel periodo successivo, continuò a sentirsi minacciato, inaugurando così un periodo di persecuzione e eliminazione di persone sospette. Si autoproclamò censore a vita e si fece chiamare «signore e Dio». Dopo una serie di processi contro senatori e presunti simpatizzanti delle religioni ebraica e cristiana – culti contrari a quelli ufficiali – nel 96 cadde vittima di una congiura, e il senato proclamò subito dopo la damnatio memoriae: cioè l’abbattimento di tutte le sue statue, la cancellazione del suo nome dalle iscrizioni e di ogni suo ricordo. 25 63 25 60IL SORGERE DEL CRISTIANESIMO I cristiani intanto fecero circolare le testimonianze del sacrificio delle vite dai martiri, contribuendo a diffondere la fede cristiana. Il II secolo vide la nascita anche di intellettuali che scrissero a favore del cristianesimo, come Tertulliano. ╣ 2560IL II SECOLO d.C. Il II secolo, l’età più prospera dell’Impero, sicuro nei suoi confini, godette di un notevole sviluppo economico e culturale. Questa visione ottimistica trova conferma nelle fonti: innanzitutto una rinnovata stabilità col regime successivo a Nerva, per cui al consanguineo è preferito colui che dà maggiori garanzie di saper governare. A questa soluzione ci si arrivò però non in modo indolore: l’adozione di Traiano da parte di Nerva avvenne in stato di necessità, quando la dichiarata fedeltà dei pretoriani a Domiziano sembrava far sì che nel 97 si ripetessero i giorni delle guerre civili del 69. L’adozione fu subito accolta favorevolmente dall’aristocrazia senatoria, come dimostra il Panegirico di Plinio il Giovane pronunciato nel 100. NERVA (96-98), il cui principato durò due anni, restaurò le prerogative del senato e tentò di riassettare gli equilibri istituzionali interni. Per questo periodo le fonti sono limitate, non disponendo più della Vita dei dodici cesari di Svetonio, che si ferma ai Flavi, ma principalmente della narrazione del greco, di età severiana, Cassio Dione. Disponiamo però di altre fonti, come monete, contenenti messaggi propagandistici, talvolta unica documentazione per i provvedimenti presi da Nerva. Per prima cosa si occupò di controllare le reazioni all’uccisione di Domiziano e scongiurare l’anarchia; poi ottenne i giuramenti di fedeltà dalle truppe provinciali e abolì le misure più impopolari del predecessore, richiamando gli esiliati e avvallando la damnatio memoriae di quest’ultimo. L’accusa di lesa maestà fu sospesa e i delatori che avevano provocato processi e condanne sotto Domiziano furono messi a morte. Si votò una legge agraria per assegnare i lotti di terreno ai cittadini nullatenenti e probabilmente fu sotto Nerva che si varò il programma delle istituzioni alimentari di cui abbiamo le prime attestazioni sotto Traiano: essenzialmente erano prestiti concessi dallo Stato agli agricoltori, che ne beneficiavano accettando di ipotecare i propri terreni; l’ipoteca veniva poi versata ai municipi locali e serviva per sostentare i bambini bisognosi. Per alleggerire l’onere finanziario delle comunità dell’Italia, Nerva trasferì alla cassa imperiale il costo del cursus publicus, cioè del mantenimento delle strade e delle stazioni di cambio per i messaggeri imperiali. Nel 97 alcuni sintomi di crisi minacciarono questa politica di buon governo e di restaurazione delle prerogative senatorie: gli sgravi fiscali e la politica sociale accentuarono le difficoltà economiche a cui Nerva non poteva trovare agevolmente rimedio. I pretoriani chiesero poi la punizione degli assassini di Domiziano, che fu acconsentita da Nerva, andando però così a punire coloro che l’avevano portato al potere. Per impedire una disgregazione dell’Impero, designò un successore in grado di affermarsi anche militarmente contro i pretoriani: così Nerva adottò e associò al potere il senatore spagnolo Marco Ulpio Traiano, governatore della Germania Superiore, uomo di grande esperienza politico-militare. TRAIANO (98-117) si recò a Roma solo nel 99, preferendo completare il lavoro di consolidamento del confine renano. Unì l’esperienza militare e il senso di appartenenza al senato, caratteristiche proprie della tradizione repubblicana, incarnate da Augusto, e che perciò lo resero agli occhi dell’opinione pubblica l’optimus princeps, il sovrano ideale. Le fonti che ce lo descrivono provengono da un ambiente a lui favorevoli. Una narrazione continuativa si trova nei frammenti di Cassio Dione, e altre notizie ci sono trasmette dal Panegirico e dall’epistolario di Plinio il Giovane, nelle lettere ufficiali che scambiò come governatore della Bitinia (111-113) a Traiano stesso. Plinio lo definisce «uno di noi», esprimendo così la popolarità che il princeps godeva tra la classe senatoria, ma anche l’ossequio e il rispetto che Traiano manifestò verso il senato. Il Panegirico, orazione che Plinio pronunciò in senato nel 100, per la sua prima elezione a console, è un manifesto che illustra le aspettative del senato riguardo al Principato, che auspicava lontano dalla dominatio di Domiziano. Attraverso le lodi di Traiano, l’orazione delinea il modello del buon princeps: -stabilire un clima di concordia tra aristocrazia e ceto equestre -soprattutto dimostrare le qualità politico-militari che giustificavano il suo potere Traiano a ragione è stato paragonato a un generale della Repubblica, in quanto tra i suoi programmi grande rilievo è dato dall’espansione territoriale, soprattutto nelle campagne daciche (101-102 e 105-106) che hanno il riscontro più significativo nella colonna eretta nel nuovo Foro nel 112 dal princeps. Non vi è certezza che le imprese in una regione ricca d’oro, la Dacia, e sul confine orientale, contro i Parti e in Arabia, abbiano la loro causa prima in una soluzione militare dei problemi finanziari lasciati dal regno di Nerva. Decebalo era innanzitutto una minaccia per il confine danubiano, così la Dacia fu ridotta a provincia, provocando una forte immigrazione di coloni da tutto l’Impero per lo sfruttamento delle risorse della regione. L’enorme bottino e l’oro delle miniere daciche contribuì inoltre ad avvicinare il valore reale del denario d’argento al suo valore nominale in rapporto con l’oro, e, dunque, a favorire la stabilità di questa moneta. L’imperatore si interessò anche per la frontiera orientale: contemporaneamente alla fine delle campagne daciche si ebbe l’annessione del territorio dei Nabatei, dove sorgevano città carovaniere come Petra e dove si istituì la provincia d’Arabia. Roma acquisiva anche il controllo della via commerciale di mare per l’India. Nel 114 Traiano inoltre organizzò una grande campagna contro i Parti, durante la quale furono occupate Armenia, Assiria e Mesopotamia. Fu presa anche Ctesifonte, la capitale partica. Nessuna di queste conquiste, tranne la Dacia, ebbe fortuna. Traiano, chiamato a fronteggiare una rivolta degli Ebrei in Mesopotamia, decise di abbandonare le nuove conquiste, morendo in seguito in Cilicia. Le truppe acclamarono imperatore il governatore della Siria Publio Elio Adriano, parente spagnolo dell’imperatore. Secondo alcune fonti Traiano lo adottò sul letto di morte, secondo altri l’atto di adozione sarebbe stato completato dalla moglie di Traiano, Plotina. Il regno traianeo si caratterizzò anche per la piena attuazione del programma di sussidi alimentari ideato forse già da Nerva: due testi epigrafici, uno di Veleia a nord di Piacenza e l’altro di Benevento, testimoniano che l’imperatore stesso si prese cura dei ragazzi bisognosi dei comuni italici, ma anche le difficoltà che l’agricoltura stava incontrando. ADRIANO (117-138), del cui regno non disponiamo un’adeguata opera storiografica (oltre all’epitome di Cassio Dione, una biografia nella Historia Augusta), discendeva da italici emigrati in Spagna all’epoca degli Scipioni che si erano affermati nella città di Betica, in Andalusia. Percorse la carriera senatoriale a Roma probabilmente grazie a Traiano, che lo associò a sé già nella prima guerra dacica come questore; in seguito gli assegnò l’incarico di governare la provincia di Siria e, una volta ammalatosi, anche il comando dell’esercito mandato in Mesopotamia per la grande rivolta degli Ebrei. Marco Aurelio e Lucio Vero erano allora prevalentemente impegnati nella difesa della frontiera danubiana. Come risposta a quest’emergenza si creò la praetentura Italiae et Alpium, la ‘difesa avanzata dell’Italia e delle Alpi’. Morto Lucio Vero, mentre tornava dall’Illirico (169), Marco Aurelio respinse i barbari a nord del Danubio solo nel 175. Altro sintomo del malessere dell’Impero fu la rivolta del governatore siriano Avidio Cassio: nel 175 si autoproclamò imperatore, ma il fatto che fu ucciso dalle sue stesse truppe prevenì il conflitto. Marco Aurelio, seguace della dottrina stoica e autore di un’opera di riflessione morale (A se stesso), è passato alla storia come l’imperatore-filosofo, con un’alta concezione del proprio dovere verso i sudditi. Con lui si ritornò alla prassi della successione dinastica, al posto della cooptazione della persona ritenuta più idonea, anche se ciò risultò che la nomina di coreggente, sin dal 177, al figlio Commodo risultasse del tutto indegna. Nel 177 a Lione avvenne un episodio di cruenta persecuzione contro i cristiani: in occasione di giochi gladiatori, i magistrati locali, sotto pressione popolare, inflissero la condanna a una lotta contro belve feroci ad alcuni cristiani. COMMODO (180-192), imperatore a soli 19 anni, si dimostrò la perfetta antitesi del padre. Il suo primo atto fu concludere la pace con le popolazioni che premevano sul Danubio, rinunciando al progetto del padre di controllare anche regioni a nord del fiume. Le sue inclinazioni dispotiche, le sue stesse innovazioni in campo religioso (si faceva chiamare Ercole e pretese di rifondare Roma col nome di Colonia Commodiana), determinarono la rottura col senato. Dal 182 al 185 il governo fu di fatto in mano al prefetto del pretorio Tigidio Perenne. Quando questo fu ucciso, nel 185, il suo ruolo fu preso dal liberto Cleandro, che nel 189 si fece nominare prefetto del pretorio senza le precedenti tappe della carriera equestre. Cleandro approfittò del disinteresse di Commodo per le istituzioni per vendere i titoli di console e altre magistrature e per promuovere anche dei liberti al senato. Per rimpinguare le casse dell’imperatore, prodigo di lussi e di giochi offerti alla plebe, ci furono processi di tradimento, con confisca di beni di senatori e cavalieri, e furono inoltre sospese le istituzioni alimentari e i donativi dei soldati. Una grave carestia nel 190 fece cadere il potere di Cleandro, offerto come capro espiatorio alle ire della plebe. Tra 190 e la sua morte nel 192 l’imperatore lasciò il governo ancora in mano a un suo cortigiano, Eclecto, e al prefetto del pretorio Leto, che ordirono una congiura che mise fine al regime nel 192. Il consenso interno era con Commodo fondato sulla plebe di Roma e sui pretoriani, piuttosto che sull’aristocrazia e sul senato, e nemmeno nella domus principis vi era completa adesione alla linea del principe. Tuttavia, sotto Commodo, vi furono importanti fenomeni di integrazione della cultura provinciale, con l’accoglimento di molte divinità straniere: la Magna Mater nel 188, celebrata come protettrice dell’Impero, Serapide ora protettore della flotta granaria e così il dio siriano del sole Iuppiter Dolichenus, Mitra e altre divinità furono invocate a proteggere il principe. Si creò così una sorta di carisma divino intorno a Commodo, che decise di proporsi come divinità in terra egli stesso, un atteggiamento, questo, contrario alla tradizione augustea e romana, e un ulteriore elemento di dissenso del senato. La tradizione filosenatoria dipinse dunque Comodo come il peggiore dei tiranni, tanto che alla sua morte la sua memoria fu condannata e il suo nome cancellato da ogni monumento. ╣ 2560STATUTO DELLE CITTÀ E ECONOMIA IMPERIALE L’orazione di Elio Aristide sottolinea l’importanza di due elemento nell’Impero: -il processo di integrazione dei ceti dirigenti provinciali attraverso il conferimento della cittadinanza romana -il valore attribuito alla vita cittadina nella quale la cultura greca trovava la sua più compiuta espressione La città era, nel mondo antico, il segno distintivo della civiltà; ovunque ci fossero delle istituzioni cittadine i Romani vi si affidarono per il controllo amministrativo; dove non esistevano essi crearono comunità civiche attraverso la colonizzazione. Vi era grande varietà di tipologie e statuti cittadini. Civitates in Occidente e poleis in Oriente, organizzate secondo tre tipologie, a seconda del loro grado di integrazione nello Stato: 1 – le città peregrine, preesistenti alla conquista e al cui interno si distinguono in base al loro status giuridico nei confronti di roma: a. le città stipendiarie, le più diffuse, che pagano un tributo b. le città libere, con diritti speciali concessi unilateralmente da Roma c. le città libere federate, che hanno concluso un trattato con Roma su un piede di eguaglianza 2 – i municipi, città cui Roma ha concesso di elevare lo status di città peregrina e ai cui abitanti è accordato il diritto latino o quello romano 3 – le colonie, in origine città di nuova fondazione con apporto di coloni cittadini romani; la colonia adotta il pieno diritto romano ed è organizzata a immagine di Roma. Con Claudio le città potevano ricevere lo status di colonia come privilegio onorario, sena un effettivo trasferimento di nuovi coloni, ma come riconoscimento del grado di romanizzazione della comunità Una gerarchia tale da favorire lo spirito di emulazione, dato che le città peregrine aspiravano a diventare municipi di diritto latino e questi ultimi ottenere il diritto romano. L’evoluzione comportava l’integrazione dei provinciali nell’Impero, per gradi, privilegiando i ceti dirigenti oppure attraverso il riconoscimento di uno statuto superiore a singole città o ad intere regioni, come quando Vespasiano concesse il diritto latino a tutte le città peregrine della penisola Iberica. Laddove non vi era cultura di tipo urbano, come in Germania, la penetrazione romana risultava più difficoltosa. L’assimilazione di aspetti del diritto e il riconoscimento della autorità romana non significarono automaticamente un livellamento di tutti gli aspetti socio-culturali; le città fungevano da raccordo tra Roma e le disperse realtà locali dell’Impero. Roma, diffondendo la cultura urbana e l’ascesi economico-sociale delle élites, si assicurava il controllo dell’ordine e della stabilità su tutto l’Impero. Fattore stabile della storia economica dell’Impero è rappresentato dall’eccezionale fabbisogno alimentare di Roma. Il milione d’abitanti è un dato smisuratamente alto, una città media come Pompei superava difficilmente i 25.000. È verosimile che un sesto della popolazione italica si trovasse a Roma. È anche vero che nessuna circolazione di prodotti nel Mediterraneo antico è stata più rilevante del servizio annonario per la capitale. La gestione del complesso della prefettura dell’annona, riservata a un cavaliere, una delle cariche più importanti dell’amministrazione imperiale, si occupava del rifornimento e conservazione dei viveri essenziali alla sussistenza della città (ciò significa annona): soprattutto grano, fatto affluire da Egitto e anche Africa, poi pane, olio (dalla Betica, sud della Spagna), vino e carne suina. Per il fabbisogno di grano di Roma stime accreditate e credibili ipotizzano un consumo di cereali l’anno pro capite di 200 kg: Roma doveva importare almeno 200.000 tonnellate di grano ogni anno. Una domanda molto forte era alla base di un commercio su larga scala che doveva sollecitare la produzione provinciale: le rotte marittime erano particolarmente utilizzate. In relazione col successo sui Parti prese forma il suo progetto dinastico: l’esercito proclamò Augusto il figlio maggiore, Antonino detto Caracalla, e il figlio minore, Geta, fu proclamato Cesare. Negli anni successivi Settimio rimase a lungo a Roma ad amministrare nel miglior modo il nuovo regime, fino al 208 quando intraprese una spedizione in Britannia, per fronteggiare incursioni delle tribù dei Caledoni. Le operazioni di rinforzo del vallo di Adriano non si erano ancora concluse quando nel 211 Settimio morì a York. Prima di morire, raccomandò ai figli di «andare d’accordo, arricchire i soldati, e di non preoccuparsi degli altri»: sotto di lui era cresciuto il «soldo», la paga dei soldati, ed era stato loro abolito di non contrarre matrimonio sino a quando erano in servizio. Il carattere assolutistico del regime viene confermato dall’enorme estensione di beni personali dell’imperatore, che finirono per non essere più distinguili da quelli dello Stato. Marco Aurelio Antonino detto CARACALLA (211-217) (soprannome dal cappuccio sopra la tunica) succedette al padre, e Geta fu elevato ad Augusto. Questa nuova diarchia, dopo quella di Marco Aurelio e Lucio Vero, durò poco: Caracalla fece assassinare suo fratello. Come logica conseguenza della politica del padre, Caracalla dispose la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell’Impero tranne i dediticii, ‘coloro che si sono arresi’, forse da riferire ai barbari non assimilati. Alla base di questa Constitutio Antoniniana ci furono di certo la legalizzazione di una trasformazione di fatto nella società romana, ma anche l’aumento del numero dei contribuenti. La politica di forti concessioni ai legionari e pretoriani richiedeva sempre più risorse, e ciò è dimostrato anche da un altro provvedimento: per fronteggiare la forte inflazione incominciò la coniazione dell’«antoniniano», moneta che aveva valore nominale di due denari pur avendo il valore effettivo di un denario e mezzo. In una nuova campagna contro i Parti, nel 217, Caracalla fu assassinato, a Carre, durante una congiura militare, il cui capo - il prefetto del pretorio – fu acclamato imperatore. MACRINO (217-218), primo imperatore di ordine equestre, vide l’opposizione sia del senato che del suo stesso esercito, insoddisfatto della pace da lui stipulata coi Parti, e ciò fece sì che il suo regno durò solo un anno. Giulia Mesa, zia di Caracalla e sorella di Giulia Domna, moglie di Settimio, riuscì a far sì che l’esercito, ucciso Macrino, acclamasse nel 218 suo nipote (era sua nonna), Vario Avito Bassiano, meglio noto come Elagabalo. ELAGABALO (218-222), 14enne sul trono imperiale, è ricordato per le sue innumerevoli stranezze, che comportarono lo sperpero di ingenti risorse, e per il suo intenso misticismo, che portò al tentativo di imporre come religione di Stato il culto del dio Sole venerato a Emesa, in Siria (Elagabalo deriva proprio da Helios). Fu la stessa Giulia Mesa a imporre al nipote, così irresponsabile, di associare al potere il cugino Bassiano, che poi gli successe col nome di Alessandro Severo. Ma questo compromesso non impedì una congiura dei pretoriani nel 222 che portò alla morte di Elagabalo. ALESSANDRO SEVERO (222-235) era ancora un ragazzino nel 222, perciò l’azione di governo fu in mano, nei primi anni, al grande giurista Ulpiano, allora prefetto del pretorio. A quest’ultimo si deve il ritorno ad una collaborazione tra imperatore e senato. Nel 224, in Persia, alla dinastia partica degli Arsacidi era succeduta quella dei Sasanidi, che pretendeva di discendere dai gloriosi Achemenidi. Animati da uno spirito nazionalistico, i Persiani attaccarono la Mesopotamia romana, minacciando anche la Siria. Alessandro riuscì a bloccare l’offensiva, ma non appena rientrato a Roma fu chiamato in Gallia, minacciata da incursioni di popolazioni barbariche. Nel 235 fu assassinato a Magonza insieme alla madre, Giulia Mamea, durante una nuova congiura dei militari che lo accusavano di trattare coi barbari. La dinastia dei Severi aveva indebolito la classe dirigente tradizionale e accentuato la forza dell’esercito: aveva inizio un cinquantennio di lotte militari e civili, che avrebbero condotto l’Impero sull’orlo del dissolvimento. ╣ 2560L’ANARCHIA MILITARE E GLI IMPERATORI ILLIRICI L’esercito proclamò al posto di Alessandro un ufficiale tracio, Massimino. Col suo regno incomincia l’epoca di massima crisi, chiamata fase dell’anarchia militare (235-284), nella quale si succedono circa 20 imperatori. MASSIMINO, detto IL TRACE, (235-238) ottenne successi nelle sue campagne contro i barbari, in particolare gli Alamanni. La durezza del suo regime impose una fortissima pressione fiscale per far fronte alla grave situazione militare. Il senato ritrovò coesione e lo dichiarò hostis publicus, aderendo alla proclamazione dell’anziano proconsole d’Africa, Gordiano, cui si associò il figlio. La rivolta fu repressa dai soldati di Massimino e i due Gordiani furono uccisi. Il senato allora affidò il governo a venti consolari al cui interno furono nominati Augusti Pupieno e Balbino. Nel 238 Massimino mosse verso l’Italia ma cadde assassinato dai suoi stessi soldati ad Aquileia, che stava assediando perché si era rifiutata di farlo transitare: fu quindi il primo imperatore a non recarsi mai a Roma. Pupieno e Balbino furono uccisi dai pretoriani, che proclamarono Augusto GORDIANO III (235-244), nipote del primo. L’Impero fu retto fino al 243 per conto del giovane dal prefetto del pretorio Timisteo, suo suocero. Alla morte di Gordiano III nel 244 in una campagna contro la Persia, fu acclamato FILIPPO, detto L’ARABO (244-248), che aveva sostituito Timisteo come prefetto, il quale si affrettò di stipulare una pace col re dei Persiani Sapore. Malgrado successi conseguiti nelle frontiere, anche il regno di Filippo finì in modo cruento. L’esercitò acclamò al suo posto il suo prefetto urbano, il senatore Decio, inviato a combattere lungo il Danubio. MESSIO DECIO (249-251), tradizionalista ed energico, si sentì investito del dovere primario di difendere le frontiere, e volle rafforzare l’osservanza dei culti tradizionali, tra cui quello dell’imperatore, come strumenti di coesione interna. Ciò significò per i cristiani una forte discriminazione, come dimostra una disposizione che obbligava gli abitanti dell’Impero a dimostrare la fedeltà ai culti imposti con una dichiarazione. Chi non accettava di sacrificare agli dèi e al Genio dell’imperatore veniva condannato a morte. Per questo Decio fu responsabile di una violenta persecuzione dei cristiani nel 250-251. Egli morì nel 251, combattendo contro i Goti, mentre l’Impero era minacciato su più fronti: sul confine gallico e germanico premevano gli Alamanni e Franchi, sul basso Danubio i Goti e in Oriente i Persiani, guidati da Sapore, che si stavano impadronendo della Siria. VALERIANO (253-260), anziano senatore, arrivò sul trono imperiale dopo una serie di effimeri imperatori militari, imposti e poi deposti dagli eserciti nel 251-253. Ebbe l’accortezza di associare immediatamente il figlio Gallieno e di decentrare il governo: affidò a Gallieno il compito di difendere le province occidentali. La sua campagna contro i Persiani, padroni di Antiochia, finì però tragicamente, venendo sconfitto, dopo successi iniziali, ad Edessa e fatto prigioniero dal re Sapore. GALLIENO (260-268) bloccò l’avanzata di Alamanni e Goti, ma fu costretto ad arretrare tutta la linea di frontiera al Danubio, perdendo di fatto la Dacia. Di fronte alle ribellioni di usurpatori, Gallieno dovette tollerare la formazione all’interno dell’Impero di due regni separatisti: quello delle Gallie retto da Lo sforzo di Diocleziano nel riordino dell’amministrazione fece crescere la burocrazia statale, gli uomini al diretto servizio del sovrano, le cui funzioni erano distinte da quelle militari. L’esercito fu potenziato e le truppe migliori furono messe a disposizione dei tetrarchi. Anche il numero delle province aumentò, ma si riduceva la loro estensione: si voleva evitare che i vari governatori diventassero troppo influenti o potenti. Introdusse anche una nuova forma di tassazione che gravava sul reddito agricolo. Il calcolo si fondava su una base imponibile che teneva conto del rapporto tra terra coltivabile (iugum) e numero dei coltivatori (caput). Per semplificare il calcolo dei tributi, realizzabile solo grazie a un censimento dei terreni e dei sudditi, l’Impero fu diviso in dodici diocesi, unità regionali, tra cui anche l’Italia, che perse l’antico privilegio di non far parte del sistema provinciale. Poiché il denario, la moneta maggiormente usata, era di fatto ormai di bronzo appena rivestito d’argento e il suo valore era imposto per legge, Diocleziano coniò monete d’oro e d’argento di ottima qualità, ma queste scomparvero presto perché la gente preferiva tesaurizzarle. Per bloccare così l’ascesa dei prezzi delle merci e dei servizi, impose con l’Edictum de pretiis, nel 301, un calmiere col quale si indicava, voce per voce, il prezzo massimo che non era consentito superare. Il suo spirito conservatore si manifesta bene anche in due altri editti, uno sulla tutela del matrimonio, e l’altro sulla messa al bando della setta dei Manichei, religione d’origine persiana. In campo militare, i successi più significativi furono la soppressione di una serie di rivolte scoppiate in Britannia e Egitto e, nel 298, l’imposizione ai Persiani di una pace gravosa a seguito di una campagna vittoriosa condotta dal Cesare Galerio. Come previsto dal sistema tetrarchico, nel 305 Diocleziano e Massimiano abdicarono e al loro posto subentrarono Costanzo Cloro per l’Occidente e Galerio per l’Oriente. Essi nominarono a loro volta come Cesari rispettivamente Severo e Massimino Daia. Il sistema però entrò subito in crisi. Già nel 306, alla morte di Costanzo Cloro a York, l’esercito proclamò imperatore il figlio Costantino: era la rivincita del principio dinastico, infatti, non a caso, anche il figlio di Massimiano, Massenzio, rivendicò per sé il potere imperiale. Avendo promosso un’intensificazione del culto imperiale, Diocleziano (che si faceva chiamare Iovius, figlio di Giove) scatenò una violenta persecuzione contro i cristiani (303-304), le cui motivazioni sembrano riconducibili alla volontà di rafforzare l’unità dell’Impero anche sul piano religioso. Essa avvenne a fine regno, quando la Chiesa aveva consolidato le proprie struttura. In Occidente, specialmente nelle regioni sotto il governo di Costanzo Cloro, cessò quasi subito, in Oriente fu cruenta e durò diversi anni. La fine delle persecuzioni fu ordinata da Galerio nel 311, anche se proseguirono ancora nelle regioni sotto il governo di Massimino Daia e poterono dirsi concluse solo con la vittoria conseguita su di lui da Licinio nel 313. ╣ 2560DA COSTANTINO A TEODOSIO MAGNO Il periodo che va da Costantino a Giustiniano ha caratteristiche diverse da quelle precedenti. È oggi inaccettabile definirlo come periodo di inarrestabile decadenza, e proprio per fare valore agli aspetti originali di questa lunga età di transizione, al termine «Basso Impero» la storiografia moderna preferisce oggi «Tarda Antichità». Due concetti sembravano caratterizzarla in senso negativo, quello di Dominato, con riferimento alla posizione dell’imperatore rispetto al sistema, e quello di Stato coercitivo, in riferimento a una società in cui la divisione tra poche categorie privilegiate, gli honestiores, e la grande massa dei deboli, gli humiliores, è sempre più netta. Le implicazioni di queste definizioni sono eccessive, soprattutto se impiegate meccanicamente e se ne sottintendono altre, come quelle di ‘dirigismo’ e ‘assolutismo’. Oggi si è imposta la coscienza della vitalità e ricchezza culturali e artistiche di questo periodo, al cui interno si distingue una fase particolarmente significativa, dal regno di Costantino (306) alla morte di Teodosio I (395), che coincide grosso modo col IV secolo e col definitivo affermarsi del cristianesimo come religione ufficiale. In generale, l’Impero romano nel IV secolo presenta una relativa stabilità internamente. Fino alla morte di Teodosio nel 395 l’unità fu preservata: l’unico episodio veramente grave, la proclamazione di Giuliano in Gallia nel 360 si risolse per la morte di Costanzo l’anno dopo. Anche il problema barbarico fu tenuto sotto controllo. L’Impero uscito dalle riforme di Diocleziano e Costantino è diverso rispetto al passato: le esigenze dello Stato imposero una più forte pressone sulla società, e l’irrigidimento che ne scaturisce investe ogni settore, a cominciare dalla corte, che si organizzò secondo un preciso cerimoniale attorno alla persona dell’imperatore. Anche se è esagerato parlare del senato del IV secolo come del «consiglio municipale» di Roma, evidenti situazioni di tensioni con la burocrazia di corte sono sintomatiche: in questo periodo si assiste, tra l’altro, alla scomparsa dell’ordine dei cavalieri, assorbito da quello senatorio. I rapporti di forza sono cambiati: l’aristocrazia è impegnata a difendere la propria identità di ceto e i propri interessi, in special modo nell’Italia meridionale. In senato non ha più potere reale, vi si accede dopo che si è rivestita la questura, ma le tappe della carriera rimangono magistrature senza alcuna capacità decisionale. Ai questori e pretori è fondamentalmente delegato l’onere di organizzare giochi per la plebe di Roma, e il consolato si è ridotto a titolo onorifico, conferito dall’imperatore. Il rapporto con la plebe di Roma è delicato: l’organizzazione di giochi e gli approvvigionamenti alimentari ricadevano sulle principali famiglie senatorie; la carica chiave è la prefettura urbana, appannaggio dell’aristocrazia senatoria. La legislazione, che vuole vincolare alla loro condizione ampie categorie di persone, è un monumento importante per la sopravvivenza dell’Impero, la cui situazione economica aveva rilevanti differenziazioni regionali, ma la pressione fiscale era certamente un fattore negativo. Si era affermato il colonato come forma di immobilizzazione della forza-lavoro agricola, anche se vi era il patrocinium, il patronato rurale di grandi proprietari sui lavoratori alle loro dipendenze. Vi era comunque possibilità di ascesa sociale, fornita dalle necessità dello Stato, nell’amministrazione e nell’esercito, e la cultura e la scuola, le componenti più vitali del IV secolo, erano canali notevoli in questo senso: da parte imperiale si mostra un grande interesse per le possibilità di reclutamento di collaboratori di questo settore. COSTANTINO (306-337), dopo la sua proclamazione assieme con quella di Massenzio (rispettivamente figli di Costanzo Cloro e Massimiano), condusse una politica prudente, che ebbe una svolta nel 310. In quel anno abbandonò ogni legame coi presupposti ideologici della tetrarchia e mostrò di propendere per una religione di tipo solare, monoteistica. Galerio morì nel 311, dopo aver fatto cessare le persecuzioni contro i cristiani, e Costantino ebbe la meglio su Massenzio nella battaglia del ponte Milvio, potendo così impadronirsi di Roma. Questa vittoria fu ottenuta nel segno di Cristo, da un imperatore che dichiarava di aver abbandonato in quella circostanza il paganesimo per il cristianesimo. Costantino non affrontò il problema della successione: a livello di pura ipotesi, con la creazione di più prefetture del pretorio, ognuna comprendente all’incirca i medesimi territori che nella tetrarchia ricadevano sotto i tetrarchi, forse aveva previsto per ciascuna il governo di uno dei suoi figli o dei due nipoti (Dalmazio nel 335 era stato nominato Cesare e Annibaliano il titolo di «re dei re»). Le nostre fonti attestano un clima di reale incertezza. La partecipazione dei figli alla dignità imperiale fa intravvedere il possibile ritorno a un potere retto da una pluralità di sovrani. Ma non è chiaro quale forma l’Impero dovesse assumere. Probabilmente il ruolo di Primo Augusto doveva essere riservato a Costantino II, il secondogenito tra i figli dell’imperatore. I soldati però non si dimostrarono sensibili alle sottigliezze della politica, alla morte di Costantino, Dalmazio e Annibaliano, nipoti del defunto sovrano, che potevano rappresentare un’alternativa alla successione, furono eliminati. Costantino II (cui si attribuì il governo di Gallie, Britannia e Spagna), Costante (cui si attribuì Italia e Spagna) e Costanzo II (cui toccò l’Oriente), tutti figli di Costantino, si accordarono per il governo congiunto dell’Impero, che si rivelò assai precario. Già nel 340 Costantino II pagava con la vita la sua incursione nei territori di Costante, e quest’ultimo moriva a sua volta nel 350 per mano di un usurpatore, Magnenzio. Costanzo II, rimasto unico imperatore, trovò il collega cui affidare l’Occidente nell’unico sopravvissuto (per la sua tenera età) alla strage del 337: il cugino Giuliano, che nominato Cesare nel 355, garantì la sicurezza delle Gallie grazie a un successo sugli Alamanni ottenuto a Strasburgo nel 357. La proclamazione imperiale di Giuliano nel 360 da parte dell’esercito gallico sembrò minacciare un nuovo conflitto fratricida, ma esso fu prevenuto solo dalla repentina morte di Costanzo II nel 361. GIULIANO (361-363), detto L’APOSTATA (il ‘rinnegato’), regnò due anni, perché nel 363 perì durante una campagna contro i Persiani. Egli tentò, invano, di reintrodurre la religione pagana, come suggerisce l’epiteto affibbiatogli dai cristiani. Aveva inoltre elaborato un programma i cui capisaldi erano un’amministrazione efficiente e onesta e una rivitalizzazione delle città, tuttavia ciò si scontro con due difficoltà contingenti. Anzitutto la guerra contro i Persiani, già preparata da Costanzo, e poi le tensioni nate dal suo progetto di restaurare il paganesimo, che si tradusse nell’abrogazione dei privilegi fiscali che da Costanzo in poi erano stati concessi alla Chiesa. Egli non incontrò un’accoglienza del tutto favorevole neppure tra gli stessi pagani, e il periodo trascorso da lui ad Antiochia (362-363) prima della campagna persiana ne è indicativo: la città soffriva di una crisi economica determinata dalle speculazioni dei proprietari terrieri aggravata dalla concentrazione dei soldati. Lo stile austero di Giuliano non seppe accogliere le esigenze degli abitanti, indifferenti ai suoi ideali religiosi: ciò provocò una grave crisi tra lui e gli Antiocheni. La vicenda ci è narrata da Giuliano stesso in una satira apparentemente indirizzata contro se stesso (L’odiatore della barba). La morte di Giuliano in territorio persiano richiese un successore e una rapida soluzione del conflitto. Dopo il breve regno di transizione di Gioviano, che stipulò una pace poco onorevole coi Persiani, nel 364 fu acclamato imperatore un ufficiale di origine pannonica. VALENTINIANO (364-375) si associò subito nel potere il fratello Valente, cui affidò il governo dell’Oriente, determinando un passo importante per la separazione della parte occidentale da quella orientale. Per fronteggiare meglio il pericolo barbarico, grave lungo il Reno, scelse di risiedere a Treviri mentre a Valente a Costantinopoli. Valentiniano si segnala per una politica di tolleranza religiosa e di sostegno delle classi più umili. Tra 365 e 375 riuscì a difendere il confine renano-danubiano contro Alamanni, Franchi e Burgundi, e a stabilizzare le frontiere con un articolato sistema di fortificazione. Morì per cause naturali nel 375, e gli successe il figlio Graziano, benché ancora molto giovane, e fu proclamato Augusto anche il fratello minore Valentiniano II, di quattro anni. Valente, intanto, affrontò una situazione molto difficile: l’Europa centro-orientale era sconvolta dall’incursione dalla popolazione nomade degli Unni, che avevano abbandonato le loro sedi in Asia e premevano sui Goti, che a loro volta premevano sulla frontiera danubiana. I Goti irruppero in Tracia e Valente fu sconfitto ad Adrianopoli nel 378, morendovi: questo fu uno degli episodi che annunciarono la fine dell’Impero romano d’Occidente. Alla consapevolezza del declino delle capacità dell’esercito di fronteggiare la situazione fa da riscontro la sua progressiva barbarizzazione, che provocò reazioni fortemente negative soprattutto negli ambienti più conservatori. Dopo Adrianopoli, la convivenza coi barbari divenne tema centrale di dibattito, soprattutto in Oriente. L’inesperto Graziano, rimasto solo col piccolo Valentiniano II, chiamò il generale TEODOSIO (378-395), spagnolo, a condividere con lui il governo. Il suo compito era far fronte alla drammatica situazione in Oriente. Consapevole dell’impossibilità di ricacciare i Goti al di là del Danubio, concluse nel 382 un accordo col loro capo Fritigerno. Primo del genere mai stipulato dai Romani, il trattato prevedeva che i Goti ricevessero terre all’interno dell’Impero come popolazione autonoma e che fossero tenuti a fornire soldati in caso di necessità: essi erano detti foederati, in quanto vincolati da un foedus, In Occidente, intanto, le cose si complicavano. Nel 383 la Britannia era stata usurpata dall’ufficiale spagnolo Magno Massimo, che invase la Gallia: Graziano, abbandonato dall’esercito, si suicidò. Dopo qualche anno, Massimo invase anche l’Italia, dove governava Giustina per conto del figlio Valentiniano II: ciò provoco la risposta di Teodosio, che lo sconfisse nel 388. La situazione degenerò di nuovo nel 382, quando il generale franco Abrogaste fece assassinare Valentiniano II, che era stato affidato alla sua tutela, nominando imperatore il retore Eugenio. Teodosio di nuovo intervenne in Italia nel 394 e presso il fiume Frigido, in Carnia, sconfisse Eugenio. Fondamentale, per il problema religioso, fu l’editto del 380, col quale la religione cristiana diventava religione ufficiale dell’Impero. Nel 381 Teodosio convocò un concilio ecumenico a Costantinopoli, che ribadì il credo niceno e promulgò una legislazione più severa per i seguaci del paganesimo, malgrado un tentativo di reazione del senato di Roma. Protagonista degli ultimi decenni del IV secolo e del regno di Teodosio fu sant’Ambrogio, vescovo di Milano, la cui carriera fu emblematica dell’intreccio tra religione cristiana e vita politica. Figlio di un prefetto del pretorio, fu acclamato vescovo di Milano nel 374, mentre deteneva la carica di governatore dell’Emilia. Egli affrontò con successo i tentativi dell’ariana Giustina di ottenere riconoscimenti per la sua confessione. Quando l’imperatore punì un vescovo della Mesopotamia per aver incendiato una sinagoga, egli lo costrinse a ritornare sulla decisione minacciandolo di sanzioni spirituali. Nel natale 390, Ambrogio impose a Teodosio una penitenza pubblica per riammetterlo nella comunità cristiana, per la strage che l’imperatore aveva ordinato a Tessalonica a seguito di una sommossa popolare. ╣ 2560LA FINE DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE Dopo il saccheggio, Alarico si diresse verso il sud dell’Italia, portando con sé come ostaggio la sorella dell’imperatore Onorio, Galla Placidia. Morì d’improvviso però in Calabria, e ciò significò la ritirata dei Goti nella Gallia meridionale, dove dettero vita a uno Stato con capitale Tolosa. Il successore e cognato di Alarico, Ataulfo, sposò Galla Placidia, che così divenne regina dei Visigoti, ma per poco tempo: Ataulfo fu costretto a trovare per il proprio popolo una sede oltre i Pirenei e nel 415 fu assassinato. Flavio Costanzo, capace generale, nel 417 sposò così Galla Placidia e nel 421 si fece proclamare imperatori, per poi morire però nell’autunno dello stesso anno. VALENTINANO III, suo figlio, fu insediato nel 425 alla testa dell’Impero d’Occidente, dopo il regno di un usurpatore seguito alla morte di Onorio, nel 423. La dinastia teodosiana riusciva così a ristabilire la sua sovranità su entrambe le parti dell’Impero; in realtà Valentiniano, si soli sei anni, era stato portato a Costantinopoli dalla madre Galla Placidia, che reggeva le sorti dell’Occidente attraverso un capace generale, Ezio, che proseguiva la politica di utilizzazione dei barbari per la difesa già tentata da Stilicone. Nei primi decenni del V secolo i Vandali posero fine alla storia dell’Africa romana: nel 429 vi passarono dalla Spagna attraverso lo stretto di Gibilterra, e occuparono un lungo tratto di costa. Nel 430, mentre assediavano Ippona, in Algeria, morì il vescovo della città, Sant’Agostino. Nel 439 cadde anche Cartagine e il re vandalo Genserico ottenne il riconoscimento del suo regno dalla corte ravennate, che però fu, a differenza di quello visigoto e burgundo, dove le strutture amministrative imperiali furono assorbite e ci fu collaborazione con l’aristocrazia romana, non riuscì mai a organizzarsi stabilmente, venendo conquistato nel 534 da Giustiniano e inglobato nell’Impero d’Oriente. In Pannonia intanto gli Unni, guidati da Attila, si diressero prima in Oriente fino in Grecia, poi si mossero verso l’Occidente regnato dal debole Valentiniano III. Invasero la Gallia, ma furono poi sconfitti da Ezio nel 451 ai Campi Catalaunici. Quando poi mossero nel 452 verso l’Italia, forse perché minacciati alle spalle dall’imperatore di Bisanzio Marciano, lasciarono improvvisamente la penisola dopo aver incontrato presso il Mincio una delegazione guidata da papa Leone I. la morte di Attila nel 453 provocò poi la rapida dissoluzione del suo regno. Ma anche Ezio, come Stilicone, fu ucciso nel 454 dopo essere caduto in disgrazia presso Valentiniano III: quest’ultimo fu assassinato nel 455, senza che il mandante dell’omicidio, il senatore Petronio Massimo, riuscisse a consolidare il potere. Lo stesso anno Roma fu saccheggiata nuovamente, ad opera del re vandalo Genserico a cui, nel 435, Valentiniano III aveva riconosciuto il diritto di stabilirsi nell’Africa settentrionale. Petronio fu ucciso dalla folla, e Eparchio Avito, senatore gallico eletto imperatore al suo posto, fu anche lui deposto dopo. Maggiorano, imperatore dal 457 al 461, tentò un’ultima riscossa militare, oltre ad avviare delle riforme per alleviare la grave crisi socio-economica. Ma dopo di lui si succedettero imperatori sempre più effimeri e privi di potere, in balìa dei contingenti barbarici che li proclamavano imperatori. Nel 461 Maggiorano fu eliminato dal generale barbaro Ricimero, che assediò poi nel 472 Antemio, l’imperatore voluto da Costantinopoli a Roma, assieme a un altro candidato da lui sostenuto, Olibrio. Scomparsi Ricimero e Olibrio, dopo un periodo di vacanza sul trono, nel 474 l’imperatore d’Oriente Zenone nominò imperatore Giulio Nepote, contro cui si ribellò un altro generale, Oreste. La fine dell’Impero si ebbe nel 476, quando Romolo, detto per la giovane età Augustolo, figlio di Oreste insediato sul trono, fu scacciato dal capo barbarico Odoacre, il quale però non rivendicò il titolo di imperatore, rimettendo le insegne del potere a Zenone e accontentandosi del titolo di re del suo popolo. Cadde così, «senza rumore» l’Impero d’Occidente.