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Storia romana Geraci-Marcone, Prove d'esame di Storia Romana

Riassunto del manuale Geraci-Marcone

Tipologia: Prove d'esame

2016/2017
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Caricato il 21/06/2017

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Scarica Storia romana Geraci-Marcone e più Prove d'esame in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Storia romana: Geraci-Marcone L’Italia preromana: età del bronzo e età del ferro. In Italia, tra l’età del bronzo medio e la prima età del ferro si passa da una situazione caratterizzata dalla presenza di una miriade di gruppi umani di piccole dimensioni al sorgere di forme complesse di organizzazione protostatale. Viene così a colmarsi il distacco tra la cultura dell’Europa continentale rispetto a quella, di gran lunga più evoluta del Vicino Oriente e dell’Egitto. E’ probabile, in base alle differenze rilevate nella cultura materiale che questo sviluppo abbia subito una cesura importante tra l’ultima età del bronzo (1200-900 a.C.) e la prima del ferro (IX-VIII a.C.). L’Italia nell’età del bronzo si contraddistingue per la sua uniformità: -I siti risultano dislocati in numero prevalente lungo la dorsale montuosa che percorre la penisola da nord a sud: ecco perché tale cultura è stata denominata –appenninica-. -Incremento demografico: il numero di insediamenti si riduce, mentre quelli che sopravvivono si estendono in misura notevole, sfruttando maggiormente le risorse disponibili.  fenomeno evidente nella cultura ‘terramaricola’ a sud del Po. Terramare: tumuli di terra grossa e scura formati dai depositi dei primitivi insediamenti. La cultura ‘terramaricola’ diede vita ad insediamenti di capanne che poggiati su impalcature in legno, avevano lo scopo di creare una zona di difesa. I villaggi avevano forma trapezoidale, erano circondati da un argine e da un fossato ed erano attraversati da due strade perpendicolari tra loro. Nel corso dell’età del bronzo recente… -E’ documentata un’intensa circolazione di prodotti e di persone. I rinvenimenti di merci provenienti dall’area micenea sono stati attestati un po’ ovunque lungo le coste dell’Italia meridionale e delle isole. Tali contatti favorirono il formarsi tra le popolazioni indigene, di aggregazioni più consistenti e poteri politici più forti. Inizio dell’età del ferro: L’Italia presenta un quadro differenziato di culture locali: -Modalità di sepoltura: -Cremazione (Italia settentrionale e costa tirrenica sino alla Campania) o inumazione (nelle restanti regioni), a seconda della popolazione presa in esempio. Tra le culture che assumono tratti distintivi si segnalano: -Golasecca (compresa tra i laghi del Piemonte e della Lombardia). -Cultura di Este (sviluppatasi nelle vicinanze di Padova). -Villanoviana ( in Etruria e in Emilia): la cultura villanoviana, dal nome di una necropoli rinvenuta nell’omonima località nei pressi di Bologna, presenta caratteri vicini a quelli di altre culture sviluppatesi nello stesso periodo in diverse parti d’Europa Hallstatt in Austria. Gli uomini villanoviani erano capaci di fabbricare utensili e armi in ferro ed abitavano in insediamenti ormai paragonabili a villaggi. Le sepolture raccoglievano le ceneri o erano tombe a pozzo. Il fatto che tale cultura si fosse irradiata dall’Appennino settentrionale sino alla Campania ha indotto alcuni studiosi a considerare i Villanoviani come diretti discendenti degli Etruschi. La diversità delle culture presenti in Italia all’inizio del primo millennio a.C. ha un riscontro importante in un quadro linguistico assai variegato. In forma schematica è possibile ricondurre le lingue a due grandi famiglie: indoeuropee e non indoeuropee. -Indoeuropee: Appartenenti al grande gruppo linguistico per il quale si presuppone un comune ceppo di origine. Latino e Falisco (Lazio). All’interno poi di un gruppo designato come parlante della lingua italica si distinguono tre diversi sottogruppi, tutti contraddistinti da vistose variati dialettali: -Umbro- sabino (Centro-Nord): comprendente la Sabina, l’Umbria e il Piceno; -Osco (Centro-Sud): comprendente Sanniti, Lucani e Bretii; -Enotri e Siculi. -Celtico (Pianura Padana). -Messapico (Puglia meridionale). Non indoeuropee: -Etrusco (Toscana). -Ligure. -Retico (alta valle dell’Adige). -Sardo. A partire dalla metà dell’VIII secolo a.C. vennero fondate da coloni greci di varia provenienza le colonie della Magna Grecia nell’Italia meridionale. Sorsero lungo la costa ionica, tirrenica e in Sicilia una serie di città importanti, quali Taranto, Crotone, Sibari, Locri, Reggio, Napoli, Siracusa, Agrigento e molte altre che senza dar vita a entità politiche unitarie, esercitarono un’influenza decisiva sulle popolazioni indigene. In Sicilia giocavano anche un ruolo importante le colonie fenicie (Mozia, Palermo, Solunto). Un posto a parte nel quadro delle culture italiche ha la civiltà dei sardi, che si sviluppò in Sardegna tra l’età del bronzo e quella del ferro. Essa è nota con il nome di civiltà nuragica dalla costruzione tipica che la caratterizza, il –nuraghe- accumulo di ruderi di pietre; la struttura massiccia di queste costruzioni, lasciano presupporre che avessero originariamente una funzione difensiva. Nel corso del tempo i nuraghi dovettero svolgere un ruolo più complesso di organizzazione d controllo delle attività economiche del controllo circostante. La civiltà nuragica, nella parte finale della sua evoluzione fu fortemente influenzata, dagli insediamenti fenici lungo le coste (Tharros, Sulcis, Nora). I primi frequentatori dell’Italia meridionale: Le notizie pervenuteci sulle origini dei popoli italici ci sono fornite da fonti letterarie e storiografiche. Le notizie, si devono soprattutto a storici greci che iniziano a scrivere dell’Italia meridionale solo nel V sec a.C. Lo storico Dionigi di Alicarnasso, che scrive a Roma all’epoca dell’imperatore Augusto (I sec a.C.) dobbiamo una presentazione dei più antichi frequentatori dell’Italia meridionale: Gli Arcadi, primi tra gli Elleni, attraversato l’Adriatico si stanziarono in Italia, condotti da Enotro (figlio di Licaone). Trovate in Italia molte terre adatte sia al pascolo che alle colture agricole, sebbene deserte, né liberò alcune dai barbari, fondando sulle alture piccoli centri abitati vicini gli uni agli altri. La regione occupata prese il nome di Enotria, e Enotrie tutte le genti su cui lui regnò. sono ordinate secondo gerarchie. Il famoso ‘libro di Lino’ di Zagabria consistente in un testo scritto su una pezza di stoffa riutilizzata per avvolgere una mummia, è il più lungo documento a noi scritto in lingua etrusca: esso riporta nella forma di un calendario le prescrizioni rituali dell’anno liturgico, le preghiere e cerimoniali di offerta. Nella religiosità etrusca ha un’importanza particolare la concezione dell’aldilà: 1. Il defunto è immaginato continuare la propria esistenza all’interno della tomba, ed è per questo che viene concepita come un prolungamento della dimora del vivo, nella quale devono trovar posto cibi e bevande e simboli del suo status sociale. 2. In un secondo tempo a quest’immagine dell’aldilà se ne sostituì un’altra che concepiva l’oltretomba come una destinazione alla quale si perveniva dopo un lungo viaggio, che poteva essere effettuato a piedi oppure con il carro o il cavallo. Agli Etruschi premeva molto anche il problema della corretta interpretazione dei segni della volontà divina visibili in terra. Di qui l’importanza attribuita all’arte di interpretare tale volontà: l’aruspicina, definita da Cicerone ‘il sistema scientifico degli Etruschi, attraverso l’analisi delle viscere degli animali sacrificati per scopi religiosi. L’aruspicina si basa sulla concezione di una fondamentale unità cosmica secondo cui negli organi si riprodurrebbe l’ordine dell’universo. Un monumento famoso dell’aruspicina è il ‘fegato di Piacenza’, uno strumento in bronzo che presenta sulle varie facce una serie di nomi divini, corrispondenti alle diverse sezioni dell’organo. Il problema della lingua: L’alfabeto, composto di 26 lettere è un riadattamento di quello greco. La principale difficoltà che si incontra nel conoscere l’etrusco è il fatto che questa non sia una lingua indoeuropea, per la quale non disponiamo di elementi di raffronto con altre lingue a noi note. Inoltre, i testi che ci sono giunti sono costituiti per lo più da brevi formule contenenti spesso gli stessi temi, per questo le parole etrusche a noi note sono circa 8000. Pochi sono i testi di una certa estensione, tra questi ricordiamo il Liber Linteus di Zagabria, la tegola di Capua (riporta un rituale funerario) e la tavola Cortonense che riproduce un documento legale con indicazione dei confini di due proprietà e contiene circa 30 nuovi vocaboli. Mancano poi testi bilingui sufficientemente ampi→ un progresso è stato fatto tramite la scoperta delle lamine di Pyrgi che contengono un testo in fenicio e in etrusco relativo alla dedica della dea Uni (Astarte in fenicio) da parte dello zilath Tafarie Velianas. Tecnica e arte: I siti delle città etrusche hanno lasciato una traccia archeologica relativamente modesta, fatta eccezione per quelli di Marzabotto, nei pressi di Bologna, Volterra, Vetulonia e Tarquinia, e delle necropoli. Queste ultime erano organizzate come abitazioni sotterranee, costruite in pietra o tufo con varie strutture: -nell’VIII secolo a.C.: tombe a pozzo, costruite da semplici pozzetti rivestiti, che accoglievano le custodie delle ceneri dei defunti -tombe a fossa destinate all’inumazione dei cadaveri -Sepolture a camera VII secolo a.C. avevano una struttura architettonica complessa: costruite come veri e propri appartamenti come membri della stessa famiglia erano forniti di numerosi ambienti, celle, corridoi e nicchie. Dal punto di vista della tecnica architettonica è notevole il grado di perfezionamento che gli Eetruschi raggiusero nell’uso della copertura a volta (che si ammira nei tholoi di Vetulonia) e dall’arco (tombe a ‘ogiva’ in Tuscania). Anche le manifestazioni più significative dell’arte etrusca vera e propria sono direttamente collegate all’edilizia sepolcrale. Gli affreschi che decorano le tombe riproducono scene di vita quotidiana, spesso legate a soggetti cerimoniali, conviviali o sportivi, con raffigurazioni di divinità che mostrano una chiara dipendenza dai modelli greci. Tra le tecniche più diffuse tipica è quella del vasellame di bucchero che è portato a somiglianza del metallo. Per quanto riguarda le attività economiche gli Etruschi praticarono con successo, oltre all’agricoltura, la metallurgia e l’artigianato artistico. Il ritrovamento di una varia strumentazione agricola che comprendeva anche l’aratro ha dimostrato la conoscenza di tecniche relative alla coltura dei cereali, all’arboricoltura, alla tenuta dei vigneti. Gli etruschi furono abili e organizzati anche nell’estrazione e nel trattamento dei minerali (sottosuolo dell’isola d’Elba). Testimoni della lavorazione dell’oro e dei metalli nobili sono corredi funebri con reperti d’oro e d’argento: fibule e spilloni di varia tipologia, collane a maglie intrecciate, anelli incastonati con pietre o incisi, orecchini impreziositi da decorazioni di gusto orientale. ROMA: Le origini di Roma: Riguardo alla ricostruzione della storia della Roma arcaica in campo storiografico si realizzò a lungo una sorta di coincidenza tra conservatorismo politico e accettazione acritica (non fondata sulla critica razionale) della tradizione letteraria sulle origini di Roma. Il progresso scientifico liberò via via le ricostruzioni su Roma arcaica dalle implicazioni di carattere religioso e politico. Con l’opera dello storico danese Niebuhr, all’inizio del XIX secolo si pose il problema di una possibile ricostruzione della storia romana arcaica attraverso la critica delle fonti. A partire dalla fine dell’Ottocento, a rivoluzionare prospettive e metodi di ricerca contribuì l’archeologia con nuove scoperte che sembrarono confermare la veridicità del racconto tradizionale di Roma arcaica. A questo punto non parve più accettabile la totale negazione dell’-ipercritica-, caratteristica del positivismo scientista della fine del XIX secolo.--> De Sanctis a tal proposito nel primo volume della Storia dei Romani propose una riconsiderazione meditata alle fonti letterarie più attendibili, contro gli eccessi dell’ipercritica, alla luce delle nuove conoscenze archeologiche. L’archeologia ha accettato la precocità e l’importanza dell’influenza greca e orientale su Roma e sul Lazio. Roma sembra ricevere dei prodotti di importazione greca ancora prima di quelli etruschi. La tradizione letteraria in proposito è muta: non ha conservato ricordo delle importanti rotte commerciali che univano il Lazio alla Grecia e al Vicino Oriente in età monarchica. Le fonti letterarie: Le testimonianze delle fonti letterarie ci offrono un quadro narrativo chiaro, una cronologia ben fondata e una notevole quantità di informazioni di sostanza. Tuttavia sono opere che risalgono ad epoche molto posteriori agli eventi narrati e nelle quali largo spazio hanno elementi leggendari. I primi storici ad occuparsi dell’Italia meridionale furono i Greci, e in greco scrissero i primi storici romani Fabio Pittore e Cincio Alimento alla fine del III sec a.C., dunque a più di cinque secoli di distanza dalle origini di Roma. Per quel che riguarda Roma in quanto tale, le poche iscrizioni che ci sono pervenute(III sec a.C.), o di cui si è conservato il ricordo, non ci danno grandi informazioni. La situazione non muta neppure per la prima parte dell’età repubblicana. I primi storici dei quali possiamo tutt’ora leggere, le narrazioni su Roma arcaica vissero nel I sec. a.C.: -Tito Livio, contemporaneo di Augusto scrisse una grande storia di Roma dalla sua fondazione in 142 libri. -Dionigi di Alicarnasso, anch’egli attivo a Roma in età augustea. Le sue antichità romane in 20 libri coprivano il periodo che andava dalla fondazione di Roma allo scoppio della prima guerra punica 264 a.C. . A contrario di come avveniva, a partire dalla metà del IV sec a.C., a fronte dell’emergere della potenza romana ci si occupò di organizzare le informazioni disponibili. Per Dionigi, scopo principale è quello di dimostrare che i romani erano una popolazione di origine ellenica-→ a tale dimostrazione è dedicata gran parte del primo libro di Antichità romane in cui è spiegato come il popolo romano si sia formato dalla fusione di ondate migratorie. La versione più nota della leggenda inserisce la fondazione di Alba Longa e la dinastia dei re albani tra l’arrivo di Enea nel Lazio e il regno di Romolo. Nel primo libro dell’Eneide, il poeta latino Virgilio si ispira a questa tradizione: Alba Longa è fondata dal figlio di Enea, Ascanio\Iulo trent’anni dopo la fondazione di Lavinium , la città cui il padre dà il nome delle moglie Lavinia. Virgilio mette anche in relazione il nome di Alba Longa con il prodigio della scrofa bianca (alba) che, dando alla luce trenta porcellini, indica ai troiani il numero di anni (trenta) che devono trascorrere per la fondazione della nuova città. Secondo la leggenda il fondatore e primo Re della città di Roma, Romolo, è addirittura figlio di Marte, il dio della guerra e di Rea Silvia, figlia di Numitore, ultimo Re di Alba Longa, illegittimamente privato del trono dal fratello più giovane, Amulio. Enea, durante le sue peregrinazioni dopo la caduta di Troia, era giunto fino a Cartagine, dove aveva conosciuto la regina Didone: quando Enea aveva deciso di ripartire, Didone che si era innamorata di lui, non riuscendo a trattenerlo presso di sé giurò che un odio eterno avrebbe contrapposto Cartagine a quella città che Enea e i suoi discendenti avrebbero dovuto fondare. Il territorio di Alba Longa era dominato dall’alta vetta del monte Cavo (mons Albanus) su cui sorgeva il santuario di Iuppiter Latiaris sede di una delle più antiche leghe Il pomerio e i riti di fondazione: Pag.23. Come si desume dal passo di Varrone, nella fondazione di una città un’importanza fondamentale dal punto di vista religioso era rivestita dal pomerio ( postmoerium che si trova al di là del muro). In origine era la linea sacra che ne delimitava il perimetro in corrispondenza con le mura. In un secondo tempo il nome servì a designare una zona di rispetto che separava le case dalle mura stesse, dove non era permesso fabbricare, né seppellire, né piantare alberi. Il pomerio non sempre coincideva con le mura, in quanto esso era tracciato secondo la procedura religiosa, cioè secondo gli auspici che avevano preso gli àuguri. Le mura rispondevano ad esigenze di difesa in rapporto al territorio. L’area del pomerio era limitata da cippi infissi nel terreno e in caso di ampliamento di tale area i vecchi cippi, in quanto sacri, venivano conservati. Un’antica disposizione prevedeva che fosse necessario aumentare la superficie dello Stato romano con un territorio tolto al nemico. Il pomerio non fu accresciuto sino a Silla (I sec a.C). L’ultimo imperatore che lo ampliò fu Aureliano (III sec d.C.). Lo stato romano arcaico: -Alla base dell’organizzazione sociale dei Latini ci fu una struttura in famiglie, alla cui testa stava il PATER, figura depositaria di un potere assoluto su tutti i suoi componenti, tra i quali anche schiavi e clienti. -Tutte le famiglie che riconoscevano di avere un antenato comune costituivano la GENS, un gruppo organizzato politicamente e religiosamente. -La popolazione dello Stato romano arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari, detti CURIE: le curie comprendevano tutti gli abitanti del territorio, ad esclusione degli schiavi. Rappresentano il fondamento della più antica assemblea politica cittadina, i comizi curiati. In epoca più tarda ai comizi curiati rimasero attribuite determinate funzioni inerenti il diritto civile; ai comizi spettava inoltre il compito di votare la lex de imperio che conferiva il potere al magistrato eletto. La creazione delle TRIBU’ fu invece attribuita, senza fondamento, a Romolo. Esse erano originariamente 3: Tities, Ramnes e Luceres, i loro nomi fecero pensare agli stessi antichi che la loro origine fosse etrusca. Riconducibili all’onomastica etrusca sono i nomi delle ultime due tribù; la prima è invece collegata ad un’origine sabina (Tito Tazio). In epoca più tarda (predominio etrusco) lo Stato romano si organizzò secondo criteri più precisi: ogni tribù fu divisa in 10 CURIE, e da ogni tribù furono scelti cento senatori. Tale struttura è molto importante, perché su questo modello si fondò anche l’organizzazione militare: ogni tribù era tenuta a fornire un contingente di cavalleria e uno di fanteria rispettivamente di 100 e 1000 uomini. La monarchia romana: La monarchia romana era elettiva: l’elezione del re era demandata all’assemblea dei rappresentanti delle famiglie più in vista. Originariamente il re doveva essere affiancato nelle sue funzioni da un consiglio di anziani composto dai capi di quelle più nobili e più ricche (patres), che avrebbero poi rappresentato il senato. Della realtà storica di una fase monarchica a Roma rimangono in età successiva, due testimonianze fondamentali: - esistenza di un sacerdote che porta il nome di Rex sacrorum: aveva il compito di dare realizzazione ai riti prima eseguiti dal re -Interrex: magistrato che subentrava nel caso di indisponibilità di entrambi i consoli. Il re era anche il supremo capo religioso e nella celebrazione del culto veniva affiancato dai collegi dei sacerdoti. Tra questi quello più importante fu quello dei pontefici: depositari e interpreti delle norme giuridiche, fino alla redazione del corpus di leggi scritte. Il collegio degli àuguri aveva invece il compito di interpretare la volontà divina allo scopo di propiziarsela, così da garantire il felice esito di un’impresa. Quello delle vestali era composto da donne votate ad una castità trentennale, il cui compito era di custodire il fuoco sacro che ardeva perpetuamente nel tempio della dea Vesta. Patrizi e Plebei: La massima incertezza regna anche riguardo l’origine della divisione sociale che è alla base di Roma arcaica e che rimarrà viva per quasi tutta la storia della Repubblica, quella tra patrizi e plebei. Per la tradizione i patrizi erano i discendenti dei primi senatori (patres), la cui nomina si faceva risalire a Romolo. • Tra le ipotesi che sono state avanzate che quella che fa dei plebei i clienti dei patrizi. • Un’altra interpretazione riconosce nei patrizi gli abitanti del Palatino e nei plebei i Sabini insediati sul Quirinale ed entrati a far parte della comunità civica in una condizione di inferiorità. • Un’ulteriore ipotesi mette in luce il fattore economico: i patrizi sarebbero stati i grandi proprietari terrieri, mentre i plebei corrisponderebbero alle classi degli artigiani e dei ceti emergenti economicamente, ma tenuti in una condizione di inferiorità rispetto alla rappresentanza politica. La divisione forse non doveva esistere in età arcaica. D’altra parte, i nomi dei primi consoli sono plebei e di derivazione plebea risulta anche il nome di alcuni re, Anco Marcio. L’influenza etrusca: Roma conobbe uno sviluppo notevole nel corso del VI secolo a.C., nel periodo in cui si trovò sotto il controllo etrusco. Il predominio etrusco sulla città ha lasciato segni importanti nella stessa tradizione letteraria, suffragata dalla documentazione archeologica e altre prove. La realtà di tale supremazia etrusca traspare anche nella vicenda relativa all’ascesa al potere di Tarquinio Prisco. Secondo il racconto della tradizione, Tarquinio è il figlio di un greco originario di Corinto; alla morte del padre ne eredita le ricchezze, ma la sua origine straniera gli impedisce di accedere al governo della città. Il giovane decide di trasferirsi a Roma, la città che aveva fama di accogliere generosamente gli stranieri; giunto a Roma il Lucumone si guadagnò il favore di Anco Marcio e, cambiato il suo nome in quello di Lucio Tarquinio, alla morte del re venne eletto suo successore. Una versione simile conserva il ricordi di un’epoca in cui Roma era inserita in un contesto più ampio di quello delle sue origini, in cui l’Italia meridionale era sede di relazioni molto intense tra Greci ed Etruschi. Gli Etruschi avevano manifestato interesse ad assicurarsi il controllo delle vie di accesso alla Campania. Nella tomba Francois ( scopritore) a Vulci sono raffigurati i fratelli Vibenna che lottano insieme ad un personaggio chiamato Mastarna contro un certo Gneo Tarquinio di Roma. Anche l’episodio del signore di Chiusi, Porsenna, che riuscì ad impadronirsi di Roma dopo aver scacciato i Tarquini si inserisce in questo quadro incerto-→ probabilmente Porsenna fu subito dopo allontanato a seguito dell’intervento di Aristodemo di Cuma e dei Latini intervenuti a soccorso dei Tarquini. Servio Tullio e Tarquinio il Superbo: Servio Tullio viene identificato con Mastarna. La figura di questo sovrano la cui fama si mantiene viva nel tempo, è circondata nella tradizione latina di elementi eroici. Nato da una schiava di nome Ocresia, e da un Tullio, Servio, fu educato alla corte del re, del qual sposò una delle figlie. Quando Tarquinio fu assassinato dai figli di Anco Marcio, Servio assunse i poteri regi senza però che la sua successione fosse pienamente legittima in mancanza della nomina da parte dell’interrex. Quanto a Tarquinio il Superbo la sua figura riceve i connotati tipici del tiranno greco. Promotore di grandi opere pubbliche e di una politica espansionistica, era inviso al popolo. Secondo la tradizione fu cacciato da una congiura capeggiata da Publio Valerio <<sostenitore del popolo>> ( Publicola), che avrebbe instaurato il regime repubblicano. La documentazione archeologica: La documentazione archeologica offre problematici riscontri a questa tradizione. La dedica di un calice di bucchero nel santuario di Veio, che presenta incisa l’iscrizione etrusca mine muluv (an) ece Avile Vipiennas (mi dedicò Avile Vipienna), attesta un possibile passaggio di Aulo Vibenna in questa città verso la metà del VI secolo a.C. Il nome di Vibenna compare in Etruria su numerosi documenti arcaici. I Vibenna dovevano appartenere a una famiglia potente nel VI sec a.C., probabilmente di Vulci. Essi giocarono un ruolo importante nelle lotte che in quell’anno opposero Vulci alle altre città etrusche, tra cui anche Roma, al punto che due secoli dopo si conservava ancora la memoria delle loro gesta, come provano gli affreschi della tomba Francois. La storicità di Publio Valerio ha avuto un riscontro, almeno a livello onomastico, nel tempio di Mater Matuta, a Satiricum; dal testo si deduce che Valerio fosse il capo di una banda di armati. Rafforzamento della monarchia: Il predominio etrusco su Roma portò ad un rafforzamento dell’istituto monarchico. In questo periodo dovette essere costruisto, nei pressi del Tempio di Vesta, l’edificio sede ufficiale del re, detto regia. Nel frattempo venne definita, l’area riservata all’attività politica del popolo e del senato. In particolare l’indagine archeologica ha dimostrato come, tra il VII e il VI secolo a.C. sia stato creato il comitium, il luogo dove il popolo deliberava, la sede della vita politica; di fronte ad esso fu costruito lo spazio della curia Hostilia, la prima sede per le assemblee del senato. La tradizione attribuisce infatti a Tarquinio Prisco l’aumento del numero di senatori e a In età arcaica il primo diritto di un padre era quello di rifiutare i figli al momento della nascita. Il loro accoglimento o il loro rifiuto veniva palesato dal padre con gesti pubblici, come il prender i maschi tra le braccia o dare ordine alla moglie di allattare le femmine. Tra i vincoli fondamentali della famiglia romana primitiva c’era quello religioso. I riti famigliari si trasmettevano originariamente di padre in figlio e la loro osservanza era ritenuta doverosa. Gli antenati del ramo paterno furono i primi manes (anime dei defunti), oggetto di culto all’interno della famiglia romana. Il capofamiglia si occupava che le cerimonie prescritte venissero eseguite. Tra i diritti che competevano al pater c’era anche quello di diseredare i figli. Si arrivò a concedere, in alcuni casi, l’annullamento del testamento. La procedura da seguire era quella di dimostrare l’insanità mentale del defunto nel momento in cui l’aveva redatto. La vita quotidiana esigeva che un genitore provvedesse al mantenimento economico del figlio (peculium) in proporzione al suo patrimonio e alle sue aspettative. I giovani che non riuscivano a vivere con quanto gli era stato assegnato dai genitori non avevano alternative se non quella di diventare vittime degli usurai. a donna: Se volessimo riassumere con una frase la posizione della donna nel mondo romano, potremmo citare le virtù ricordate dal celebre testo di un’epigrafe latina incisa su un sepolcro: <fu donna casta, si prese cura della casa, lavorò la lana>. In realtà il ruolo della donna aristocratica, ricevente un’educazione intellettuale poteva spaziare dalla letteratura alle arti della musica e della musica e della danza. La moglie accompagnava il marito nella vita pubblica e condivideva con lui il compito dell’educazione dei figli. L’autorità della casa, rimase però sempre e soltanto quella del marito. Il potere del marito sulla moglie che non si chiama potestas ma manus, non conosce limiti: la può punire se ha commesso qualche mancanza, come se ha bevuto vino durante un convivio, o ucciderla in caso di flagrante adulterio. Lo scopo di norme così austere è legato a un concetto di matrimonio finalizzato al solo scopo di avere figli legittimi. La donna, importante a questo scopo, non poteva avere un libero costume. I Romani si sposavano presto, ma le ragazze, secondo la legge, non prima dei dodici anni. Toccava al padre cercare uno sposo per le figlie: questo avveniva con un’apposita cerimonia di fidanzamento ( sponsalia), accompagnata da una serie di riti. Per le donne sterili il destino era quasi sempre il ripudio, con il conseguente ritorno alla casa paterna. Un istituto alternativo fu quello dell’adozione che non serviva solo a garantirsi una discendenza, ma per realizzare precise scelte patrimoniali, o per concretizzare strategie politiche. Il matrimonio in età arcaica era fondamentalmente un’istituzione privata, per certi aspetti una situazione di fatto più che di diritto. Esistevano forme diverse per contrarre un matrimonio: -confarretio: divisione di una focaccia tra i due sposi -mancipatio: atto di compra vendita -usus: ininterrotta convivenza dei coniugi per un anno In mancanza di un atto che sancisse la loro unione, il problema era di stabilire quando una convivenza è matrimoniale. Il divorzio era un atto altrettanto informale. Il ripudio consisteva nella separazione di fatto dei coniugi; di norma avveniva a seguito di una decisione unilaterale dell’uomo. Al divorzio consensuale si arrivò solo nel corso del tempo. Agricoltura ed alimentazione: La riorganizzazione dell’economia pastorale è uno dei caratteri fondamentali delle trasformazioni dell’Italia nella prima età del ferro, per quel salto di qualità che si colloca a cavallo tra X e IX secolo a.C. Questo processo che, può dirsi in larga misura compiuto attorno all’VIII secolo a.C., implica il passaggio da un regime di seminomadismo, con una transumanza disorganizzata, ad uno di regolare trasferimento del bestiame in altura con modalità e spazi meglio definiti. La cosa vale in particolare per i popoli dell’Italia centrale, per le genti umbro-sabelliche che, a partire da quest’epoca, iniziarono a costruire i caratteri distintivi del loro ethnos. Nell’istituto della primavera sacra, vivo presso gli Italici ancora in epoca tarda si conosceva memoria della trasmigrazione verso i pascoli estivi, trasferimento permanente di popolazioni impossibilitate ad avere uno sviluppo idoneo nei luoghi di origine. L’agricoltura di Roma arcaica era limitata dalle condizioni poco favorevoli del terreno, cui si aggiungeva negativamente la bassa qualità delle tecniche agricole. La documentazione paleobotanica mostra come varie specie di cereali, soprattutto farro e orzo fossero associate tra loro anche con leguminose, come la veccia, che i latini chiamavano farrago. Lo scopo della farrago era quello di assicurare un minimo di sopravvivenza in caso di calamità atmosferiche. In un’età più evoluta essa cessò di interessare l’alimentazione umana per essere riservata a quella animale. Tornerà ad essere consumata dall’uomo in età medioevale. Il cereale maggiormente coltivato in età arcaica era il farro, anche se la sua resa era inferiore a quella del grano. Il farro veniva macinato solo dopo che era stato abbrustolito e battuto. La farina di farro sembra essere stata impiegata per la panificazione e per la preparazione di piatti tipici romani. Per Roma arcaica si può parlare di un contesto economico nel quale allevamento e agricoltura sono compresenti. Le due attività dovevano infatti essere complementari: il bestiame serviva a produrre il concime indispensabile per i terreni nel periodo in cui essi non erano lavorati e gli animali da tiro servivano per aiutare gli uomini nel lavoro. Povertà di risorse agricole dell’aria prossima della città. Una circostanza negativa è rappresentata dall’arrivo dei Volsci nel Lazio meridionale, V secolo a.C. L’agro pontino tornerà sotto il controllo di Roma solo dopo un secolo. La calata dei Volsci nell’unico territorio che potesse fornire rifornimenti alimentari adeguati è all’origine di una serie di episodi di carestia e tensione sociale. La proprietà della terra in Roma arcaica: Rispetto a un’originaria proprietà collettiva della terra, la tradizione relativa alla prima assegnazione di lotti in proprietà privata, che risalirebbe addirittura a Romolo, se accettata implica una ricostruzione sul piano storico, delle vicende della proprietà terriera in Roma arcaica di questo tipo: la prima forma di proprietà era limitata solo alla casa e all’orto circostante (heredium), mentre da essa era esclusa la terra arabile e quella al pascolo. La complementarietà tra piccola proprietà individuale e forme di appropriazione collettiva della terra risale, in origine, alle condizioni ambientali delle aree appenniniche e subappenniniche, in contesti prevalentemente silvo-pastorali. I primi due secoli della Repubblica romana( V-IV a.C.) conobbero un sostanziale assestamento interno che fu progressivamente modificato quando, a partire dal IV secolo a.C., iniziarono le assegnazioni di terreno conquistato mentre si sviluppavano le attività artigianali e commerciali. Sino a questo momento i dislivelli di capacità economica all’interno del ceto dirigente romano rimangono modesti. L’ideologia ‘indoeuropea’ nei racconti sull’origine di Roma: <Indoeuropei> è una denominazione convenzionale di una popolazione vissuta in un’epoca molto remota ( addirittura IV millennio a.C.) in una regione che si colloca nella pianura russa. In una data più recente, tra il III-II millennio a.C., questi indoeuropei si spostarono in varie direzioni, allontanandosi dalle loro sedi originarie. In genere imposero la loro lingua ai popoli conquistati, ma ne adottarono la scrittura. Nel corso del II sec. si segnala la presenza di indoeuropei in Anatolia (Ittiti), in Grecia (Micenei) e Italia. Ma indoeuropei sono anche Indiani odierni o discendenti di Iraniani, Celti, Slavi e altri popoli ancora. Uno studioso francese Georges Dumézil, ha cercato di ricostruire, attraverso la comparazione di realtà omogenee, anche il pensiero e l’universo mentale degli indoeuropei. Secondo Dumézil, la loro idea centrale è <<l’ideologia trifunzionale>>. Il presupposto è che, dagli Indoeuropei le cose, il mondo, la società venissero colti e analizzati con riferimento costante a tre funzioni distinte, ma complementari: -la potenza del sovrano che si manifesta secondo due parti: uno magico e l’altro giuridico. -la forza fisica: in particolare quella del guerriero -la fecondità degli uomini, degli animali e della natura, prosperità materiale. Nel caso della Roma arcaica Dumézil ha creduto di potervi rintracciare un’importante eredità indoeuropea in una notevole serie di episodi: -ha accertato che la vicenda del ‘ratto delle Sabine’, è costruito secondo uno schema di origine indoeuropea, come prova un racconto della mitologia scandinava. -anche nella teologia romana si è mantenuta traccia dell’originario sistema indoeuropeo: così si spiega l’associazione, nella tradizione su Roma arcaica, del dio della prima funzione (Giove) a due divinità minori (Terminus, dio tutelare dei confini e Iuventus dio della giovinezza) associazione che trova un parallelo nella religione indo- iranica. Quanto a Servio Tullio, Dumézil ritrovava alcune caratteristiche attribuite dalla tradizione romana alla figura di questo re in un mitico sovrano indiano, soprattutto per quel che riguarda le modalità di acquisizione della regalità e l’opera di organizzazione del censo. In sostanza si tratterebbe di schemi narrativi e di scenari ereditati dal sostrato indoeuropeo, che ciascuna cultura ha poi attualizzato secondo propri parametri. La scoperta del Lapis Niger: La storia di Roma arcaica si è avvalsa del contributo decisivo dell’archeologia. Una stagione di scavi e di ritrovamenti particolarmente importanti si ebbe alla fine del XIX primo anno della Repubblica al 509 a.C. La cronologia varroniana porta a qualche sfasatura con le altre cronologie per gli avvenimenti dei V e VI secolo a.C.: lo dimostra Polibio tra la presa di Roma da parte dei Galli e la conclusione di una pace generale tra le maggiori città greche ( pace di Antalcida). Tale sincronismo porta a datare il sacco gallico non al 390 a.C. come vorrebbe Varrone, ma al 386 a.C., nonostante questo scarto, le datazioni varroniane assunsero nell’antichità un valore quasi canonico. Le incongruenze tra le diverse versioni dei Fasti, l’inserimento di alcuni anni di anarchia in cui non vennero eletti magistrati o nei quali la funzione venne assolta da un dittatore e non dai due consoli, e soprattutto la comparsa fra i consoli eponimi della prima metà del V secolo a.C. di diversi personaggi con i nomi di gentes plebee (la massima magistratura fino al 367 a.C. era riservata ai patrizi) hanno suscitato diversi dubbi sull’attendibilità di tali magistrati, almeno per la fase più antica. Tuttavia nessuno di questi elementi consente di rigettare in blocco la credibilità dei Fasti in particolare riguardo la comparsa di presunti plebei fra i consoli del V secolo a.C. si sono proposte diverse spiegazioni. Si ricorda che a Roma esistevano gentes omonime, l’una patrizia, l’altra plebea: si potrebbe pensare che i consoli della prima fase della Repubblica appartenessero al ramo patrizio, poi estintosi. Altri studiosi ipotizzano che nella prima fase del regime repubblicano i confini tra patrizi e plebei non fossero ancora delineati. La fine della monarchia e la creazione della Repubblica: evento traumatico o passaggio graduale?: La storia della violenza subita da Lucrezia non spiega i motivi profondi della caduta del regime monarchico a Roma. Il ruolo preminente che un ristretto gruppo di aristocratici ebbe nella cacciata dei Tarquini e il dominio che il patriziato sembra aver esercitato sulla prima Repubblica inducono a pensare che la fine della monarchia sia da attribuire a una rivolta del patriziato romano contro un regime che aveva accentuato i suoi caratteri autocratici. Questo odio feroce contro l’istituto monarchico è il risultato di un evento traumatico, di una vera e propria rivoluzione. Alcuni elementi lasciano pensare che alla cacciata di Tarquinio il Superbo sia succeduto un breve periodo in cui Roma appare in balìa di re e condottieri come Porsenna di Chiusi o come Mastarna e i fratelli Vibenna. La sconfitta inflitta dai latini al figlio di Porsenna, presso Aricia, assestò un duro colpo all’influenza politica degli etruschi sul Lazio. Probabilmente grazie a questo evento Roma ebbe occasione di dare sviluppo alle sue nuove istituzioni repubblicane, al riparo dalle velleitàà aspirazioni inattuabili di egemonia etrusca. La data della creazione della Repubblica: Gli antichi avevano fissato una coincidenza tra la storia di Roma e quella di Atene: il 510 era anche l’anno in cui il tiranno Ippia, della famiglia dei Pisistratidi era stato caciato da Atene. Il sospetto che la cronologia sia stata adottata per creare un parallelismo con le vicende della più celebre polis greca non è illegittimo. Per questa ragione diversi studiosi hanno proposto di collocare la nascita della Repubblica qualche decennio più tardi, notando in particolare come intorno al 470-450 a.C. la documentazione archeologica proveniente da Roma dimostri un’interruzione dei contatti culturali con l’Etruria che, in questa prospettiva, sarebbe da ricollegare direttamente con la cacciata dei Tarquini. Alcuni elementi inducono tuttavia a ritenere che la datazione tradizionale della creazione della Repubblica non sia lontana dalla verità: -cerimonia ricordata da Livio: secondo lo storico una legge scritta in caratteri arcaici prescriveva che il massimo magistrato della Repubblica infiggesse un chiodo nel tempio di Giove Capitolino, ogni anno alle idi di Settembre, anniversario della consacrazione del tempio. Il tempio era stato inaugurato nel primo anno della Repubblica: il numero di chiodi conficcati potrebbe datare gli eventi. Così accadde forse nel 304 a.C., quando la consacrazione del tempio di Concordia, poté datare l’evento 204 anni dopo la consacrazione del tempio Capitolino, riportandoci al 508 a.C. Un secondo elemento ci viene dalla documentazione archeologica: l’edificio della Regia, nel Foro romano, presenta verso la fine del VI secolo a.C. una pianta caratteristica di un edificio templare e non di una residenza reale: proprio in questo periodo la Regia sarebbe divenuta la sede del rex sacrorum, il sacerdote delle competenze religiose del monarca. I supremi magistrati della Repubblica, i loro poteri e i loro limiti La tradizione storiografica antica è concorde nell’affermare che i poteri un tempo propri del re sarebbero passati immediatamente in blocco a due consules, o meglio praetores come sarebbero stati chiamati inizialmente. Eletti dai comizi centuriati, ai consoli spettava il comando dell’esercito, il mantenimento dell’ordine all’interno della città, l’esercizio della giurisdizione civile e criminale, il potere di convocare il senato e le assemblee popolari, la cura del censimento e delle liste dei senatori. Solo alcune delle competenze religiose dei precedenti monarchi non sarebbero state trasferite ai consoli, ma a un sacerdote rex sacrorum che non poteva rivestire cariche di natura politica. Nella sfera religiosa rimase comunque sempre di competenza dei consoli il controllo degli auspici, il potere di interpretare la volontà degli dei riguardo le decisioni più importanti della vita pubblica. I poteri autocratici di cui erano dotati i due consoli erano comunque sottoposti a limiti, caratteristici di tutte le magistrature ordinarie dello Stato romano: la durata della loro carica era di un anno, il fatto che ciascuno dei magistrati avesse uguali poteri implicava l’opposizione all’azione del collega qualora la giudicasse dannosa per lo Stato ( collegialità). I cittadini potevano opporsi all’arbitrio dei consoli contro le condanne capitali inflitte: provacatio ad populumà fatta risalire alla legge Valeria di Valerio Publicola del primo anno della Repubblica. Alcuni studiosi ritengono che i poteri del re furono dapprima trasferiti ad un console e in una fase successiva nacque la collegialitàà all’indomani del Decemvirato o delle Leggi Licinie Sestie del 367 a.C. Le altre magistrature: Le crescenti esigenze dello Stato indussero alla progressiva creazione di nuove magistrature, che sollevassero i consoli da alcune delle loro competenze. Anche queste cariche furono caratterizzate dai fondamentali principi dell’annualità e della collegialità. Al periodo regio o al primo anno della Repubblica risalirebbero i questori: originariamente di numero 2, assistevano i consoli nella sfera delle attività finanziari. In un primo tempo furono designati a discrezione dei consoli stessi; in seguito la carica divenne elettiva. Quaestores parricidii, che le leggi delle XII Tavole ricordano incaricati di istruire i processi per i delitti di sangue che coinvolgessero i parenti. Duoviri puerdellionis per i reati di alto tradimento. I consoli secondo la tradizione nel 443 a.C. furono assolti dal compito del censimento e sostituiti dai censori che successivamente dovettero redigere anche le liste del senato. Cura morum conferiva ai censori diversi poteri di intervento su diversi aspetti della vita privata e pubblicaà magistrati eletti ogni 5 anni e con carica che durava 18 mesi. La dittatura: In caso di necessità i poteri della Repubblica potevano essere affidati a un dittatore, dictator. Veniva nominato da un console, da un pretore o da un interrex, su istruzione del senato. Il dittatore non era affiancato da colleghi, ma assistito da un magister equitum (comandante della cavalleria). Questa magistratura venne limitata ad un massimo di 6 mesi, anche se si ci aspettava che il dittatore deponesse la carica quando i problemi erano stati risolti. I sacerdoti e la sfera religiosa: A Roma non si può rintracciare distinzione netta tra cariche politiche e massime cariche religiose. La medesima persona poteva rivestire contemporaneamente una magistratura e un sacerdozio. Costituiscono un’eccezione in questo senso, oltre al rex sacrorum, i flamini i quali più che essere sacerdoti rappresentavano la personificazione del dio stesso. In particolare le tre supreme divinità della prima Roma repubblicana, Giove, Marte e Quirino erano rappresentati dai flamines Dialis, Martialis e Quirinalis. Dodici flamini minori erano poi addetti al culto di altrettante divinità. Al flaminato era connessa una serie di tabù religiosi che limitarono fortemente il diritto dei flamini a rivestire cariche politiche o ad allontanarsi da Roma. I tre più importanti collegi religiosi quelli dei pontefici, degli àuguri e dei duoviri sacris faciundis, avevano poteri che superavano ampiamente la sfera culturale e politica. Il collegio dei pontefici, guidato da un pontefice massimo, costituiva la massima autorità religiosa dello Stato: aveva oltre che il controllo religioso anche quello sull’interpretazione delle norma giuridiche sul calendario. Per tutta la prima e media età repubblicana si definiva pontifex per cooptazione, veniva scelto quindi dagli altri membri del collegio e a vita. Il collegio degli aùguri aveva invece la funzione di assistere i magistrati nel loro compito di trarre gli auspici e di interpretare la volontà degli dèi, affinché un atto pubblico potesse essere considerato valido. Ciò avveniva soprattutto attraverso l’osservazione degli uccelli, ma anche di altri fenomeni naturali. L’autorevole parere degli auguri riguardo a un vizio di forma o a un presagio ritenuto favorevole consentiva al senato o a un magistrato di bloccare ogni procedimento; avevano quindi anche valenza politica. ostilità con i Sabini, che controllavano la Via Salaria. Lo stato quasi permanente di guerra tra Roma e i sui vicini provocò continue razzie e devastazioni dei campi. Al mutato quadro esterno fanno riscontro crescenti difficoltà interne: in particolare le annate di cattivo raccolto che si successero nel corso del V secolo a.C., provocando gravi carestie. La popolazione venne continuamente colpita da epidemie. La crisi economica è dimostrata da prove archeologiche, in particolare dal numero delle ceramiche greche di importazione sembra crollare nel corso del V secolo a.C. La crisi provocata dal progressivo indebitamento di ampi strati della popolazione ha un ruolo centrale nella lotta fra patrizi e plebei. Gli effetti dei cattivi raccolti e delle malattie colpivano in particolare i piccoli agricoltori, che avevano minori possibilità di fronteggiare le temporanee difficoltà e per sopravvivere si trovavano costretti ad indebitarsi nei confronti dei più ricchi proprietari terrieri. Accadeva che il debitore fosse costretto a porsi al servizio del creditore per ripagarlo del prestito e dei forti interessi maturati (nexum). Il debitore poteva anche essere venduto in terra straniera o messo a morte. Davanti alla crisi economica, le richieste della plebe concernevano una mitigazione delle norme sui debiti, e una più equa redistribuzione dell’ager publicus. Il problema politico: Gli strati più ricchi della plebe erano meno interessati dalla crisi economica. Ciò che essi rivendicavano era una parificazione tra i due ordini: se mai la magistratura era stata aperta ai plebei, progressivamente il patriziato ne aveva assunto il monopolio. Una seconda e importante rivendicazione era la presenza di un codice scritto di leggi, che ponesse i cittadini al riparo delle arbitrarie applicazioni delle norme da parte di coloro che, fino a quel momento, erano stati depositari del sapere giuridico, i patrizi riuniti nel collegio dei pontefici. Le strutture militari e la coscienza della plebe: A causare il conflitto fu anche la coscienza della plebe della propria importanza. Nella città antica l’esercizio dei diritti civici da parte del singolo è direttamente connesso alle sue capacità di difendere lo Stato con le armi. Si potrebbe affermare che la relazione tra diritti politici e doveri militari ha un carattere strutturale. A Roma questa circostanza è dimostrata dall’ordinamento centuriato. Le centurie, oltre ad essere unità di voto all’interno dell’assemblea popolare, rimasero per tutta l’età repubblicana, unità di reclutamento dell’esercito. Ciascuna centuria doveva fornire il medesimo numero di reclute per l’esercito. Le centurie della prima classe di censo, comprendendo un numero limitato di cittadini, dovevano sopportare il peso più consistente delle guerre, mentre i capite censi, di regola furono esentati dal servizio militare durante tutta la prima e media età repubblicana. La presa di coscienza da parte della plebe fu anche il risultato di un mutamento nella struttura dell’esercito: proprio nel V secolo si afferma un nuovo modello tattico, secondo il quale gli opliti (fanti con armatura pesante) combattono l’uno a fianco all’altro in una formazione chiusa, la falange. Il nerbo dell’esercito romano sarà d’ora in poi costituito dalla fanteria pesante, reclutata dalle classi di censo in grado di sostenere i costi dell’armamento oplitico, che rimase a lungo a carico dei soldati e non dello Stato. La legione era reclutata su base censitaria, dunque indifferentemente tra aristocratici e gente del popolo. Nelle guerre quasi sempre vittoriose del V e del IV sec a.C. si rinsalda la convinzione che gli uomini decisivi sul campo di battaglia non potessero essere ridotti ad un ruolo di comprimari nella vita politica, sociale ed economica dello Stato. La prima secessione e il tribunato della plebe: Il conflitto tra i due ordini si apre nel 494 a.C. La plebe, esasperata dalla crisi economica, ricorse a quella che si rivelerà essere l’arma più efficace nel confronto tra i due ordini: uno sciopero generale che lascia la città priva della sua forza lavoro e indifesa contro le aggressioni esterne. La plebe si ritirò sull’Aventino, il colle di Roma legato alle tradizioni plebee e prese il nome di secessione. In occasione della prima secessione la plebe si diede propri organismi: un’assemblea generale ( concilia plebis tributa). Il meccanismo di voto assicurava nei concilia plebis la prevalenza dei proprietari terrieri iscritti nelle più numerose tribù rustiche. L’assemblea poteva emanare dei provvedimenti, plebisciti, che avevano valore vincolante per la plebe stessa che li aveva votatià con la legge Ortensia, furono vincolanti per tutti. Vennero poi scelti come rappresentanti ed esecutori della volontà dell’assemblea i tribuni della plebe che da due passarono a dieci. Ai propri tribuni la plebe decise di riconoscere diversi poteri: fondamentale il diritto di venire in soccorso di un cittadino contro l’azione di un magistrato. Per proteggere i diritti dei tribuni della plebe, questa accordò loro l’inviolabilità personale (sacrosantitas). Chi avesse osato commettere violenza contro i tribuni sarebbe diventato sacer, poteva essere messo a morte impunemente e le sue proprietà confiscate a favore del tempio di Cerere, Libero e Libera sull’Aventino, centro principale di culto della plebe. Le offese alla plebe venivano pagate invece con una sanzione pecuniaria. I tribuni ebbero infine il potere di convocare e presiedere l’assemblea della plebe e di sottoporre ad essa le proprie proposte. Nel corso della secessione vennero anche creati 2 edili plebei, che nella tarda età repubblicana si occupavano dei giochi, della sorveglianza sui mercati, del controllo sulle strade, i templi e gli edifici pubblici. Il nome edili deriva da aedes (tempio-casa), è probabile quindi che inizialmente fossero i custodi del tempio. La prima secessione approdò ad un risultato essenzialmente politico, il riconoscimento da parte dello Stato a guida patrizia dell’organizzazione interna della plebe. Il problema economico rimase insoluto. Della crisi economica cerco di approfittare il console del 486 a.C. Spurio Cassio, il quale propose una legge per la ridistribuzione delle terre, ma venne accusato di aspirare alla tirannide ed eliminatoà la plebe voleva riservare il giusto peso a tutte le componenti della cittadinanza. Il Decemvirato e le leggi delle XII tavole: La plebe cominciò a premere perché fosse redatto un codice di leggi scritto. Dopo alcuni anni di agitazioni si giunse a un compromesso: nel 451 a.C. venne nominata una commissione composta da dieci uomini ( Decemvirato) esclusivamente scelti tra il patriziato e incaricati di stendere in forma scritta un nuovo codice giuridico. Anche se la funzione del Decemvirato era primariamente legislativa, il nuovo collegio avrebbe assunto il totale controllo dello Stato: le tradizionali magistrature repubblicane, in particolare il consolato e il tribunato della plebe, vennero sospese per impedire che, con i loro veti incrociati potessero paralizzare l’azione dei decemviri. Nel corso del primo anno di attività i decemviri compilarono un complesso di norme che vennero poi pubblicate su dieci tavole di legno esposte nel Foro. Rimanevano da trattare alcuni punti, per cui nel 450 a.C. venne eletta una seconda commissione in cui sarebbe stata rappresentata anche la plebe. Nel corso di questo anno i decemviri avrebbero aggiunto 2 leggi, portando queste a 12. La commissione tuttavia, sotto la guida del patrizio Appio Claudio cercò di rivoluzionare il suo aspetto, trovando però l’opposizione della plebe e dei patrizi più moderati come Lucio Valerio e Marco Orazio. Anche in questo caso è la violenza di una giovane a far precipitare la situazione: le insidie riportate da Appio Claudio a Virginia, figlia di un centurione impegnato contro gli Equi e i Volsci, provocarono una seconda secessione, a seguito della quale i decemviri furono costretti a deporre i loro poteri. L’anno successivo 449 a.C., i massimi magistrati, Lucio Valerio e Marco Orazio, fanno approvare un pacchetto di legge in cui si proibisce la creazione di magistratura contro le quali non valesse il diritto d’appello e si rendono i plebisciti vincolanti per tutta la cittadinanza. Nel 445 a.C. venne abrogata la legge che proibiva i matrimoni tra patrizi e plebei. Tribuni militari con poteri consolari: Il plebiscito fatto votare da Canuleio, riconoscendo la legittimità dei matrimoni misti tra patrizi e plebei, ebbe come conseguenza di rimuovere la principale obiezione che il patriziato aveva opposto all’accesso dei plebei al consolato. Il sangue delle famiglie plebee poteva quindi mescolarsi con quello delle famiglie patrizie diveniva pertanto difficile escludere un plebeo dagli auspicia e dal consolato. Secondo la tradizione storiografica il patriziato, visto minacciato il suo monopolio sul consolato, ricorre ad un espediente: a partire dal 444 a.C. di anno in anno, il Senato decide se alla testa dello Stato vi debbano essere due consoli, con il diritto di prendere gli auspici e provenienti esclusivamente dal patriziato, oppure un certo numero di tribuni militari con poteri consolari inizialmente tre, poi addirittura sei che possono essere plebei, ma non hanno il potere di trarre gli auspici. Il nuovo ordinamento rimane in vigore fino al 367 a.C. Creando il tribunato consolare accessibile alla plebe, i patrizi perdevano il controllo sulla massima magistratura repubblicana, raggiungendo il risultato opposto a quello che la loro riforma si proponeva di conseguire. Inoltre, se l’istituzione della nuova magistratura fosse stata la conseguenza di una forte pressione della plebe per aver accesso alla suprema carica dello Stato, difficilmente si riesce a comprendere per quale motivo il primo tribuno militare con poteri consolari di condizione plebea sia stato eletto solamente nel 400 a.C., quasi mezzo secolo dopo la riforma. Una delle spiegazioni più lineari ritiene che nel periodo tra il 444 e il 367 a.C., i consoli siano stati affiancati dai tribuni consolari. Ad ogni modo nessuna riforma istituzionale poteva porre rimedio alle difficoltà economiche della plebe povera, tuttora gravi: Spurio Mellio, un ricco plebeo nel 440 a.C. intervenne per rimediare gli effetti di una carestia distribuendo a proprie spese un forte quantitativo di grano ai poveri. Questa misura venne intesa come una mossa Roma a Capua, via Appia, di importanza strategica nel corso della seconda guerra sannitica. La legge Ortensia: Nel 287 a.C. una legge Ortensia stabilì che i plebisciti votati dall’assemblea della plebe avessero valore per tutta la cittadinanza di Roma. A partire dal 287 a.C. i comizi tributi e l’assemblea della plebe, i concilia plebis tributa, erano accumunati da un uguale sistema di voto per tribù e da uguali poteri. Identica era anche la loro composizione, sebbene ai comizi tributi prendessero parte anche i patrizi, che ovviamente erano esclusi dai concilia plebis. Le due assemblee rimasero distinte dai magistrati che avevano il diritto di convocarle e presiederle: consoli e pretorià comizi tributi tribuni e edili della plebe per quanto riguarda i concili plebei La nobilitas patrizio plebea: Dopo le grandi conquiste della plebe al posto del patriziato si venne formando progressivamente una nuova aristocrazia, formata dalle famiglie plebee più ricche e influenti e dalle stirpi patrizie che meglio avevano saputo adattarsi alla nuova situazione. A questa nuova èlite si è soliti dare il nome di nobilitas, e che venne a designare tutti coloro che avevano raggiunto il consolato o che discendevano da un console o pretore. L’accesso alle magistrature superiori era riservato ai membri di poche famiglie, anche se questo monopolio non si basava su norme scritte ma sullo stretto controllo dell’opinione pubblica. Per i pochi personaggi che raggiunsero i vertici della carriera politica, pur non avendo antenati nobili, venne coniata una definizione specifica HOMINES NOVI. Prima di intraprendere la carriera politica, infatti, un giovane romano doveva servire per almeno dieci anni nella cavalleria, che era reclutata nelle 18 centurie dette appunto dei cavalieri. Inizialmente il censo minimo per farvi parte era quello richiesto per la prima classe; in seguito solo chi fosse facoltoso poteva accedere agli equites. Il denaro non era sufficiente: le assemblee elettorali erano controllate dai nobili attraverso i propri clienti; per avere successo nelle elezioni era quindi indispensabile ereditare la rete di clientele paterne o godere del patronato politico di qualche nobile. LA CONQUISTA DELL’ITALIA: La situazione del Lazio alla caduta della monarchia di Roma: Alla caduta della monarchia etrusca Roma, secondo la tradizione letteraria, controllava nell’antico Lazio un territorio che si estendeva dal Tevere alla regione Pontina. Il dato è confermato dal primo trattato romano-cartaginese risalente secondo Polibio, al primo anno della Repubblica. In questo documento i Cartaginesi si impegnavano a non attaccare Ardea, Anzio, Lavinio, Circei e Terracina e ogni città soggetta a Roma; per quanto concerneva le città latine non soggette a Roma, se un esercito punico le avesse conquistate avrebbe dovuto consegnarle all’alleato. Tra la fine del VI e l’inizio del V secolo questa realizzazione rischiò di crollare: buona parte delle città latine approfittarono delle difficoltà interne di Roma per affrancarsi dalla sua egemonia. Le città latine si strinsero in una lega i cui membri condividevano alcuni diritti: -ius connubii, diritto di contrarre matrimoni legittimi con cittadini di altre comunità latine -ius commercii, diritto di siglare contratti aventi valore legale fra cittadini appartenenti a comunità diverse -ius migrationis, un latino poteva assumere i pieni diritti civici in una comunità diversa da quella in cui era nato semplicemente prendendovi residenza. La battaglia del lago Regillo e il foedus Cassianum: La lega latina diede buona prova sul campo di battaglia sconfiggendo insieme ad Aristodemo di Cuma, il figlio di Porsenna, Arrunte, nella battaglia di Aricia. Qualche anno dopo la lega tentò di affermarsi attaccando Roma: secondo la tradizione la guerra sarebbe stata suscitata da Ottavio Mamilio di Tuscolo, con la speranza di ricollocare il suocero Tarquinio il Superbo sul trono di Roma. In una leggendaria battaglia combattuta nel 496 a.C. sul lago Regillo i romani ottennero la vittoria. A seguito di questa Tarquinio il Superbo fu mandato a Cuma e fu concluso un trattato che avrebbe regolato i rapporti tra Roma e i latini per i successivi 150 anni. Il trattato venne siglato nel 493 a.C. da parte romana dal console di quell’anno Spurio Cassio-→ da qui il nome del trattato foedus Cassianum. Il trattato prevedeva un accordo bilaterale tra Roma e la Lega latina: le due parti si impegnavano per mantenere tra di loro la pace e comporre eventuali dispute commerciali, ma anche a prestarsi aiuto nel caso una delle due parti fosse stata attaccata, l’eventuale bottino di guerra sarebbe stato diviso. Tra gli strumenti più efficaci grazie ai quali gli alleati riuscirono a consolidare le proprie vittorie militari è da ricordare la fondazione di colonie sul territorio strappato ai nemici. I cittadini dei nuovi centri provenivano sia da Roma, sia dalle altre comunità latine definendole spesso colonie romane. Si deve più correttamente parlare di colonie latine, dal momento che le nuove città entravano a far parte della Lega latina e godevano dei diritti corrispondenti. Nel 486 a.C. Roma completò il suo sistema di alleanze stringendo un accordo con gli Ernici, una popolazione che abitava in un territorio incuneato tra i due popoli ostili degli Equi e dei Volsci. I termini dell’alleanza con gli Ernici sarebbero stati i medesimi del trattato Cassiano. I conflitti con Sabini, Equi e Volsci: L’alleanza stretta da Roma con la Lega latina e gli Ernici si rivelò particolarmente preziosa per fronteggiare la minaccia proveniente da tre popolazioni che dagli Appennini premevano verso occidente, verso la piana costiera del Lazio: i Sabini, gli Equi e i Volsci. Questo movimento faceva parte di un moto più generale, che coinvolse quasi tutta l’Italia centro-meridionale tra la fine del VI secolo a.C. e gli inizi del secolo seguente e di cui furono protagoniste popolazioni italiche affini dal punto di vista linguistico, definite osco-sabelliche. Le loro sedi originarie, nelle regioni più impervie dell’Appenino centrale e meridionale, non erano in grado di assicurare la sopravvivenza di una popolazione con un forte indice di crescita demografica: l’unica soluzione consisteva nella migrazione verso terre più fertili ‘primavera sacra’. In anni di carestia tutti i prodotti dell’anno venivano consacrati alla divinità: in particolare i bambini nati in quell’anno, una volta raggiunta la maturità avrebbero dovuto migrare in un’altra regione seguendo le indicazioni di un animale. Così i Sanniti, una parte dei quali riuscì ad occupare quasi tutte le città etrusche e greche della costa campana, diedero origine ad un nuovo popolo: i Campani. Le fonti riportano per il V secolo a.C. una serie interminabile di conflitti tra Roma e le popolazioni montanare, in particolare gli Equi e i Volsci. Spesso l’esito fu favorevole a Roma e ai suoi alleati, ma si giunse a una svolta definitiva. Partendo dal meridione, il primo podio che si incontra è quello dei Volsci. Discesa degli Appennini verso la fine del VI secolo a.C. questa popolazione riuscirà ad occupare tutta la pianura Pontina e le città di Terracina, Circei, Anzio e Cora e Velletri, tutta la parte meridionale del Lazio. Nell’area dei colli Albani l’avanzata dei Volsci si saldò con quella di una popolazione a loro affine, gli Equi, avanzarono conquistando la regione dei monti Prenestini e almeno due importanti città latine, Tivoli e Preneste, e minacciando la stessa Tuscolo. Gli alleati Romani, Latini ed Ernici riuscirono a bloccare gli Equi ai colli Albani, in particolare al passo dell’Algido, teatro di un’importante vittoria contro gli eserciti coalizzati di Equi e Volsci nel 431 a.C. Ancora più a nord erano i Sabini a minacciare direttamente Roma. Il processo di integrazione poteva assumere il volto pacifico di una migrazione di massa come quella, già ricordata, della gens sabina dei Claudi, ma anche quello più inquietante di improvvisi attacchi, come quello condotto su Roma, nel 460 a.C. dal sabino Appio Erdonio. Il conflitto con Veio: Roma si trovò a fronteggiare da sola un avversario assai meglio organizzato delle tribù appenniniche, col quale confinava a settentrione: la potente città etrusca di Veio, situata a 15 km da Roma e sua rivale nel controllo delle vie di comunicazione lungo il basso corso del Tevere e delle saline che si trovavano alla foce del fiume. Il contrasto tra Roma e Veio attraversò tutto il V secolo, per concludersi solo all’inizio del secolo seguente, e sfociò in particolare in tre guerre. 1- 487-474 a.C. I Veienti occuparono Fidene. Il tentativo di reazione di Roma finì con una tragedia: un esercito di circa 300 soldati, composto esclusivamente dai membri della gens Fabia e dai loro clienti , venne annientato. A seguito della vittoria, Veio si vide riconoscere il possesso su Fidene. 2- Nella seconda guerra veiente (405-396 a.C.) i Romani riuscirono a vendicare la sconfitta: il romano Aulo Cornelio Cosso uccise in duello quello che le sue fonti chiamano il tiranno di Veio, Lars Tolumnio, Fidene venne conquistata e infine distrutta dai Romani. 3-Nella terza guerra veiante (405-396 a.C.) il teatro delle operazioni si spostò lungo le mura della stessa Veio, assediata per dieci anni dai Romani. In Livio il racconto delle -La Lega latina venne disciolta: alcune delle città vennero incorporate nello Stato romano, in qualità di municipi. Altre conservarono la propria indipendenza formale e i consueti diritti di connubium, commercium e migratio con Roma, ma non poterono intrattenere più relazione tra loro. -Alle vecchie città latine si vennero ad aggiungere le nuove colonie latine, fondate su iniziativa di Roma e composte sia da cittadini romani sia da alleati: costoro, una volta insediati nella nuova comunità, perdevano la propria precedente cittadinanza, per acquistare quella della nuova colonia. Lo status di latino venne semplicemente a designare una connotazione giuridica in rapporto con i cittadini romani. I latini erano obbligati a fornire truppe a Roma in caso di necessità. I Latini ottennero peraltro il diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma nel caso si fossero trovati in città nel momento in cui venivano convocati i comizi. Diventavano socii. Al di fuori dell’antico Lazio, in particolare nelle città dei Volsci e dei Campani, Roma attuò la concessione di una forma parziale di cittadinanza romana, la civitas sine suffragio. I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani, in particolare a prestare il servizio di leva e pagare il tributum, ma non avevano diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma, né potevano essere eletti alle magistrature dello Stato romano; potevano conservare un’autonomia interna. Ad Anzio venne creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono la piena cittadinanza romana. Alla conclusione della guerra latina, Roma aveva dunque legato a sé, tutte le regioni che andavano dalla sponda sinistra del Tevere a nord, al golfo di Napoli a sud, dal Tirreno a ovest, ai contrafforti degli Appennini a est: un territorio non tanto ampio quanto quello controllato dai Sanniti, ma più ricco e densamente popolato. La seconda guerra sannitica: La fondazione di colonie di diritto latino a Cales, nel territorio strappato quattro anni prima agli Aurunici, e soprattutto a Fregelle, sulla sponda del fiume Sacco, che i Sanniti consideravano di propria pertinenza, provocò una nuova crisi nei rapporti tra le due potenze. La causa concreta della seconda guerra sannitica (326-304 a.C.) è da ricercare nelle divisioni interne di Napoli, l’ultima città greca della Campania rimasta indipendente, dove si fronteggiavano le masse popolari, favorevoli ai Sanniti e le classi più agiate. I Romani riuscirono abbastanza rapidamente a sconfiggere la guarnigione che i Sanniti avevano installato a Napoli e a conquistare la città, ma il tentativo di penetrare a fondo nel Sannio si risolse in un fallimento: nel 321 a.C. gli eserciti romani vennero circondati al passo delle Forche Caudine e costretti alla resa. Dopo il disastro delle Forche Caudine per qualche anno vi fu un’interruzione nelle operazioni militari. I Romani approfittarono di questo intervallo per compensare la perdita di Cales e di Fregelle, avvenuta a seguito della sconfitta e rinforzando le proprie posizioni in Campania dove vennero create due nuove trbù. Le ostilità si riaccesero nel 316 a.C. per responsabilità di Romani che attaccarono la località di Saticula ai confini tra la Campania e il Sannio : le prime operazioni furono favorevoli ai Sanniti. Negli anni successivi, tuttavia, Roma iniziò a recuperare il terreno perduto. Saticula fu conquistata nel 315 a.C., Fregelle venne ripresa e le comunicazioni con la Campania ristabilite e migliorate grazie alla costruzione del primo tratto, tra Roma e Capua, della via Appia. In questi anni Roma procedette a preparare il suo esercito al confronto finale con i Sanniti. Il compatto schieramento a falange si era rivelato fallimentare, la legione venne quindi suddivisa in trenta reparti, detti manipoli, risultato della riunione di due centurie (60 per centuria). La legione veniva schierata su tre linee, ciascuna delle quali era composta da 10 manipoli: i primi ad affrontare il nemico erano i princeps, venivano poi gli hastati e infine i triarii. Negli stessi anni cambiò anche l’equipaggiamento dei legionari, che adottarono lo scudo rettangolare e il giavellotto in uso presso gli stessi Sanniti. Roma fu così in grado di affrontare una minaccia su due fronti: a Sud contro i Sanniti e a Nord contro una coalizione di Stati etruschi-→ costretti a siglare una tregua nel 308 a.C. Scongiurato il pericolo etrusco gli eserciti romani conquistarono, nello sforzo contro il Sannio, Boviano. Si ottenne la pace nel 304 a.C., il trattato di alleanza del 354 a.C. venne rinnovato e Roma tornò in possesso di Fragelle e Cales. Gli Ernici vennero inglobati nello Stato romano, gli Equi furono sterminati e le popolazioni minori osco- sabelliche furono costrette a concludere trattati di alleanza con Roma. La terza guerra sannitica: La sconfitta del 304 a.C. era stata grave, ma non aveva indebolito considerevolmente i Sanniti. Lo scontro decisivo con Roma si riaprì nel 298 a.C., quando i Sanniti attaccarono i Lucani, con i quali confinavano a meridione. I Romani accorsero prontamente in aiuto degli aggrediti, con i quali forse conclusero un trattato, ma i destini della guerra si dovevano decidere a nord. Qui il comandante supremo dei Sanniti, Gellio Egnazio, dopo una marcia di centinaia di chilometri con il suo esercito, era riuscito a mettere in piedi una potente coalizione antiromana che comprendeva anche gli Etruschi, i Galli e gli Umbri. Lo scontro decisivo avvenne nel 295 a.C. a Sentino, ai confini tra l’Umbria e le Marche. Gli eserciti riuniti dei due consoli romani, Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure, riuscirono a prevalere su Sanniti e Galli. Tanto grande fu il pericolo corso da Roma, quanto maggiori furono i frutti della vittoria: i Sanniti, battuti in un’altra battaglia ad Aquilonia(293 a.C.), incapaci di reagire alla grande colonia latina di Venosa, si videro obbligati a chiedere la pace nel 290 a.C. A nord l’attacco dei Galli e degli Etruschi fu bloccato nel 283 a.C. nella battaglia del lago Valdimone. Nella marcia verso l’Adriatico, già nel 290 a.C. vennero sconfitti i Sabini e i Pretuzzi (abitanti di una regione dell’Abruzzo settentrionale). Nell’Adriatico settentrionale venne annesso un territorio un tempo appartenuto alla tribù dei Senoni. Nella parte settentrionale di questa regione, nome con il nome di ager Gallicus venne fondata nel 268 a.C. la colonia latina di Rimini, che portò Roma ad affacciarsi alla pianura Padana. I Piceni, vistisi circondare da ogni parte ( abitanti delle Marche) tentarono una disperata guerra contro Roma nel 269 a.C. Pochi anni dopo furono costretti alla resa: in parte vennero deportati nella regione di Salerno, in parte ricevettero la civitas sine suffragio. Conservarono la propria autonomia Ascoli e la città greca di Ancona; la conquista del Piceno venne consolidata con la creazione di una colonia latina a Fermo nel 264 a.C. Il risultato di queste operazioni militari, fu che in circa trent’anni dalla battaglia di Sentino Roma era riuscita a portare i confini settentrionali del territorio sotto il suo controllo lungo la linea che andava dall’Arno a Rimini. La guerra contro Taranto e Pirro: Nel mezzogiorno d’Italia la situazione rimaneva più fluida. I Sanniti non erano definitivamente domati, alcune popolazioni a loro affini come i Lucani e i Bruzi, conservavano la loro indipendenza, così come Taranto. Secondo un trattato risalente agli ultimi decenni del IV secolo a.C., Roma si era impegnata a non oltrepassare con le sue navi da guerra il capo Licinio e quindi a non penetrare nel golfo di Taranto. Nel 282 a.C., tuttavia, una città greca che sorgeva sulle rive calabresi del golfo, Turi, minacciata dai Lucani, richiese l’aiuto di Roma. Nelle successive operazioni in difesa di Turi, i Romani inviarono una flotta davanti alle acque di Taranto. Di fronte a questa minaccia, a Taranto prevalse la fazione democratica ostile a Roma, sull’aristocrazia. I Tarantini quindi attaccarono le navi romane, poi marciarono su Turi espellendo la guarnigione romana e gli aristocratici che la sostenevano. La guerra divenne inevitabile. Taranto decise di ricorrere al soccorso di un condottiero della madre patria greca. La scelta di Pirro, re dei Molossi e comandante della Lega epirotica, era del tutto logica: l’Epiro, corrispondente alla Grecia nord-occidentale e all’Albania meridionale, si trovava sulla costa adriatica antistante la Puglia. Con abile mossa politica, il re diede alla sua spedizione diede il carattere di una sorta di crociata in difesa dei Greci d’Occidente, minacciati dai barbari romani e cartaginesi, procurandosi l’appoggio di tutte le potenze ellenistiche. Nel 280 a.C. Pirro sbarcò in Italia con un esercito di 22.000 fanti, 3.000 cavalieri e 20 elefanti da guerra, contando le truppe che gli sarebbero state fornite in Italia. Per affrontare questo terribile schieramento Roma si vide costretta ad arruolare per la prima volta i capite censi i nullatenenti fino ad allora esentati dal servizio militare. Nonostante la superiorità, i Romani subirono una sanguinosa sconfitta ad Eraclea, in Lucania, dovuta tanto all’abilità tattica di Pirro quanto al devastante effetto che gli elefanti ebbero sui soldati romani: la battaglia causò tutta via gravissime perdite anche all’esercito epirota. La battaglia di Eraclea mise gravemente a pericolo le posizioni romane nell’Italia meridionale: le città greche, i Lucani e i Bruzi si schierarono dalla parte di Pirro, seguiti dai Sanniti che, presero le armi contro i romani. Ciò nonostante Pirro non seppe cogliere i frutti del proprio successo: il suo tentativo di suscitare una ribellione tra gli alleati di Roma nell’Italia centrale e di collegarsi con gli Etruschi fallì. Per questo motivo Pirro decise di intavolare trattative di pace , inviando a Roma l’eloquente tessalo Cinea. L’epirota chiedeva libertà e autonomia per le città greche dell’Italia meridionale e la restituzione dei territori strappati ai Lucani, Bruzi e Sanniti: richieste che vennero prese in seria considerazione dal senato e furono respinte dopo l’intervento del vecchio Appio Claudio Cieco. In risposta al trattamento delle trattative Pirro, mosse verso l’Apulia, minacciando le La prima provincia romana: Roma a seguito della prima guerra punica era venuta in possesso di un ampio territorio al di fuori della penisola italiana, costituite dalle regioni della Sicilia centro- occidentale un tempo parte del dominio cartaginese. Nella penisola città e popolazioni erano state direttamente incorporate nello Stato romano oppure legate da trattati che prevedevano l’invio di truppe in aiuto della potenza egemone ma non il pagamento di un’imposizione in denaro e lasciavano alle comunità sociae una larga autonomia interna. In Sicilia alle comunità un tempo soggette a Cartagine venne invece imposto il pagamento di un tributo annuale. Il tributo siciliano consisteva nel versamento di un decimo della produzione di cereali. L’amministrazione della giustizia, il mantenimento dell’ordine interno e la difesa dalle aggressioni esterne dei nuovi possedimenti siciliani vennero affidati ad un magistrato romano inviato nell’isola, nel primo anno probabilmente uno dei quattro questori della flotta. A partire dal 227 a.C. vennero eletti due nuovi pretori, uno dei due nuovi magistrati venne inviato in Sicilia, l’altro in Sardegna da poco caduta nel potere di Roma. Da questo momento il termine provincia viene ad assumere il significato di territorio soggetto all’autorità di un magistrato romano. La prima provincia romana non si estendeva sull’intera isola: esistevano ancora alcuni Stati indipendenti, tra i quali il regno siracusano di Ierone e la città alleata di Messina. Tra le due guerre: Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta furono drammatici, spossata dal punto di vista finanziario, non era in grado di assicurare il pagamento delle numerose truppe mercenarie che avevano combattuto contro i Romani. I mercenari, stanchi di attendere, si ribellarono. La rivolta fu soffocata solo a caro prezzo da Amilcare Barca. Quando i Cartaginesi allestirono una spedizione per recuperare la Sardegna dovettero affrontare i Romani. I Cartaginesi non avevano alcuna possibilità di combattere quindi furono costretti a pagare un indennizzo supplementare e cedere la Sardegna, che insieme alla Corsica andò a formare la seconda provincia romana dopo la Sicilia (237 a.C.). Pochi anni dopo questa impresa nel Tirreno, Roma intervenne direttamente anche nell’Adriatico. Dopo la morte di Pirro, iniziarono le scorrerie dei pirati illiri. Le scorrerie arrecavano danni considerevoli alle città greche della costa orientale dell’Adriatico e ai numerosi mercanti italici che frequentavano quei porti. In risposta alle loro richieste di aiuto, il senato inviò energiche proposte alla regina degli illiri, Teuta e, davanti al rifiuto della Regina, decise di dichiarare guerra (229 a.C.). La prima guerra illirica si risolse a favore di Roma. Qualche anno dopo Roma intervenne nuovamente in Illiria, a seguito degli atti ostili intrapresi da Demetrio di Faro (un collaboratore di Teuta), di cui si temeva anche l’alleanza con il re di Macedonia Filippo V. Anche la seconda guerra Illirica si risolse in poco tempo: Demetrio fuggì presso Filippo V, Faro entrò nel protettorato romano. In tal modo si gettarono le premesse per un’ostilità tra Roma e la Macedonia. Maggiori sforzi richiese la conquista dell’Italia settentrionale, avviata tra gli anni delle due guerre puniche, ma conclusasi solo nel II sec a.C. Nello scontro le due popolazioni della Gallia Cisalpina, i Boi e gli Insubri, ottennero l’appoggio di truppe provenienti dalla Transalpina, i Gasati; mentre i Galli Cenomani e i Veneti si schierarono con Roma. I Galli riuscirono a penetrare in Etruria ed ottennero qualche successo, ma nel 225 a.C. vennero annientati a Telamone. La vittoria venne celebrata con la conquista di Mediolanum . All’indomani della vittoria nella seconda guerra punica , Roma procedette all’effettiva sottomissione della Pianura Padana, nella quale si fondarono colonie, tra le quali Aquileia. Fondamentale per l’organizzazione della conquista si rivelò la costruzione di una rete stradale: -nel 220 a.C. la via Flaminia, da Roma a Rimini -nel 187 a.C. la via Emilia, da Rimini a Piacenza -nel 148 a.C. la via Postumia, da Genova ad Aquileia Cartagine, ripresasi dalla guerra dei mercenari , cercava di costruire una nuova base per la sua potenza in Spagna. Mentre Roma guadagnava posizioni nell’Adriatico e nell’Italia settentrionale, Cartagine, ripresasi dalla guerra dei mercenari, cercava di costruire una nuova base per la sua potenza in Spagna. La conquista della Spagna potrebbe apparire quasi un affare privato della famiglia Barca: in effetti le operazioni furono condotte prima da Amilcare, poi dai genero Asdrubale, infine da Annibale, il figlio di Amilcare. L’avanzata dei Barca destò l’allarme della città greca di Marsiglia, che nella Spagna settentrionale aveva interessi economici e di Roma, di cui Marsiglia era fedele alleata. Nel 226 a.C. un’ambasceria del senato concluse con Asdrubale un trattato secondo il quale gli eserciti cartaginesi non potevano oltrepassare a nord il fiume Ebro; un potenziale elemento di contrasto tra Roma e Cartagine era costituito dal trattato di alleanza, stretto d Roma con la città iberica di Sagunto, che si trovava a Sud dell’Ebro. La seconda guerra punica: Cartagine nutriva un forte desiderio di rivincita contro Roma, che trovava espressione nella famiglia dei Barca. La questione di Sagunto venne sfruttata da Annibale per far esplodere il conflitto. Alle prime minacce di un attacco cartaginese i Saguntini chiesero l’aiuto di Roma, ma la risposta del senato non fu pronta. Roma si preparò concretamente alla guerra solo quando Annibale aveva già espugnato Sagunto e si avviava a realizzare il suo disegno strategico. Dal momento che a seguito del trattato di pace i Cartaginesi avevano un’assoluta inferiorità delle forze navali, l’invasione dell’Italia poteva avvenire solo via terra, attraverso le sue frontiere settentrionali, dove Annibale sperava di guadagnare l’appoggio delle tribù galliche . Annibale partì nella primavera del 218 a.C. dalla base di Nova Carthago con un importante esercito. Valicati i Pirenei Annibale riuscì ad evitare lo scontro con l’esercito romano al comando di Publio Cornelio Scipione, inviato in Spagna per intercettarlo. L’esercito cartaginese superò le Alpi e riuscì, sul fiume Ticino a prevalere sulle forze di cavalleria romane. Il primo grande scontro si ebbe sul fiume Trebbia. Nell’anno seguente il generale cartaginese riuscì ad eludere gli eserciti romani che tentavano di impedirgli il passaggio degli Appennini e a sorprendere le truppe del console Caio Flaminio al lago Trasimeno. L’esercito romano venne annientato, lo stesso Flaminio fu tra le vittime. A Roma iniziò a farsi strada l’idea di farsi strada l’idea che fosse impossibile sconfiggere Annibale in campo aperto, secondo quanto sosteneva Quinto Fabio Massimo che venne immediatamente nominato dittatore. Secondo la strategia di Fabio Massimo era necessario evitare le battaglie campali e limitarsi a controllare le mosse di Annibale e ad impedire che da Cartagine e dalla Spagna gli giungessero degli aiuti: prima o poi la scarsità di mezzi e di uomini a sua disposizione lo avrebbe costretto ad arrendersi alle superiori forze romane o ad abbandonare l’Italiaà Quinto Fabio Massimo fu detto il Cunctatorà ‘il temporeggiatore. La strategia di Quinto Fabio Massimo alla lunga avrebbe portato alla vittoria, ma a breve durata significava che Roma avrebbe dovuto assistere impotente alla devastazione dell’Italia da parte dell’esercito cartaginese, che attraversò incontrastati le regioni del Piceno, del Sannio e dell’Apulia. Per questi motivo, scaduti i sei mesi della dittatura di Fabio Massimo, a Roma si decise di passare nuovamente all’offensiva, sperando di poter schiacciare Annibale con la semplice superiorità numerica : nel 216 a.C. Annibale riuscì però ad annientare gli eserciti congiunti dei consoli Marco Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo di Canne, presso Canosa di Puglia. Il più riuscito esempio di manovra di accerchiamento compiuta da un esercito numericamente inferiore agli avversari. La guerra pareva ormai perduta per Roma. Ieronimo, alla morte di Ierone di Siracusa decise di schierarsi dalla parte di Cartagine. Nel 212 a.C. anche Taranto si schierò dalla parte dei Cartaginesi, ma un piccolo presidio romano continuò ad occupare la cittadella e a sorvegliare il porto. Nel 211 a.C. Capua venne riconquistata dai Romani. Nel frattempo in Sicilia le forze romane, riuscirono a saccheggiare e conquistare Siracusa; Roma si affrettò a chiedere a Filippo V, che voleva allearsi con Annibale, una pace. La svolta decisiva della guerra si ebbe in Spagna. Dopo la sconfitta subita sul fiume Trebbia, Publio Cornelio Scipione aveva raggiunto nella penisola iberica il fratello Cneo. I due Scipione riuscirono ad impedire che Annibale ricevesse aiuti dalla Spagna. Nel 211 a.C. i due fratelli vennero uccisi per la superiorità delle forze cartaginesi. I Romani riuscirono a ritirarsi con quanto rimaneva del loro esercito e a difendere la Spagna settentrionale fino a quando a capo dell’esrcito ci fu Publio Cornelio Scipione (Scipione l’Africano). Scipione venne eletto dall’assemblea popolare, quindi con un procedimento mai attuato in passato. Diede subito prova della sua bravura conquistando la base cartaginese nella penisola iberica, Nova Carthago e sconfiggendo il fratello di Annibale, Asdrubale. Asdrubale tentò di aiutare il fratello, ma cadde in battaglia. Tornato in Italia Scipione fu eletto console nel 205 a.C. ed iniziò i preparativi per l’invasione dell’Africa. Lo sbarco in Africa avvenne nel 204 a.C. e la battaglia finale si svolse nel 202 a.C. nei pressi di Zama: nonostante Annibale avesse dato prova del suo genio tattico, la cavalleria numida di Massinissa diede la vittoria ai Romani. Il trattato di pace venne siglato nel 201 a.C., prevedeva la consegna di tutta la flotta cartaginese, tranne dieci navi e il pagamento di una fortissima indennità. Cartagine doveva rinunciare inoltre a tutti i suoi possedimenti al di fuori dell’Africa e riconoscere ai suoi confini un potente regno di Numidia governato da Massinissa; ai Cartaginesi non era concesso dichiarare guerra senza l’autorizzazione di Roma. La terza guerra macedonica: La pace di Apamea aveva espulso il regno di Siria dallo scacchiere dell’Egeo. Nell’area vi era tuttavia ancora uno Stato abbastanza potente da coltivare qualche ambizione di riscossa contro Roma, la Macedonia di Filippo V. Si è detto come il re macedone avesse sostenuto con lealtà Roma nella guerra siriaca. Un’ombra nei rapporti tra le due potenze si era già addensata all’indomani di Apamea, quando le ambizioni di Filippo sulle città della costa trace vennero frustrate da Roma. Per il momento Filippo dovette cedere, rinunciando alla Tracia ed inviando il figlio minore Demetrio, che già godeva di molte amicizie a Roma, a perorare la sua causa. Segretamente tuttavia, avrebbe iniziato a preparare la rivincita. Nei medesimi anni la situazione di Roma in Grecia si fece delicata: sempre più spesso giungevano in senato le ambascerie a sostenere le rispettive ragioni nelle infinite controversie che opponevano le une alle altre città greche. Nel 179 a.C. la morte aveva messo fine al lunghissimo regno di Filippo V: gli era succeduto il figlio maggiore Perseo, che precedentemente era riuscito a sbarazzarsi del fratello, il filoromano Demetrio. L’elemento democratico all’interno di molte città greche, sempre più insofferente nei confronti delle ingerenze dei romani, cominciò a volgersi con crescente favore, verso Perseo. In un crescendo polemico, spesso ingiustificato, ogni mossa diplomatica di Perseo e ogni azione militare, vennero interpretate come gesti di sfida, probabilmente al di là dei motivi reali del sovrano macedone. Se mai ve ne fosse stato bisogno, questi sospetti furono alimentati da Eumene di Pergamo, che nel 172 a.C. si presentò a Roma con un lunghissimo elenco di accuse contro Perseo. I preparativi di guerra iniziarono in quello stesso anno, ma le prime operazioni si ebbero solo nel 171 a.C., dopo che le trattative per raggiungere un accordo fallirono. -Nel primo anno di guerra i comandanti romani si distinsero più che per il loro genio strategico, per le rapine commesse ai danni di molte città greche. Qualche medesimo successo militare di Perseo venne dunque salutato con enorme entusiasmo dai democraticià ottenne un aiuto concreto solo dalla popolazione epirota dei Molossi e dal re d’Illiria Genzio. - La svolta si ebbe nel 168 a.C.: Genzio venne sconfitto in una fulminea campagna, mentre l’esercito macedone venne sconfitto a Pidna. Il re fu portato prigioniero in Italia e la monarchia abolita in Macedonia. La macedonia venne infatti divisa in quattro repubbliche e i Molossi furono puniti con la totale devastazione del territorio e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di abitanti. La maggior parte delle rotte commerciali vennero inviate su Delo e Rodi perse una quota significativa delle sue notevoli entrate doganali. La quarta guerra macedonica e la guerra arcaica: In appena vent’anni divenne evidente che la sistemazione data da Roma all’area greca era inadeguata. Tesi erano i rapporti con la Lega Achea, dopo la deportazione di 1000 Achei a Roma. I tentativi di secessione di Sparta dalla Lega coincisero con una rivolta in Macedonia. Qui, un tale Andrisco, facendosi passare per il figlio di Perseo, riuscì a prevalere sulle deboli milizie repubblicane e a riunire le forze macedoni sotto la bandiera monarchica. Dopo qualche successo, Andrisco venne eliminato nel 148 a.C. dalle forze del pretore Quinto Cecelio Metello. Il senato si occupò delle questioni concernenti gli Achei, ordinando che fosse staccata dalla Lega non solo Sparta, ma anche altre importanti città, tra le quali Argo e Corinto. L’assemblea della Lega, decise la guerra, che fu brevissima. Gli Achei non poterono impedire l’invasione del Peloponneso da parte di Metello. Corinto venne distrutta. A Roma si convenne che ormai un impegno diretto nell’area greca era inevitabile. La Macedonia viene ridotta a provincia romana. Il suo governatore, nel caso, poteva intervenire per regolare le questioni della Grecia. La terza guerra punica: Nel medesimo anno in cui Corinto venne data alle fiamme 146 a.C., veniva distrutta anche un’altra città simbolo del mondo antico, Cartagine. Dopo la sconfitta nella seconda guerra punica, Cartagine si era ripresa con rapidità, almeno dal punto di vista economico, riuscendo a saldare il pagamento della fortissima indennità di guerra e fornendo costantemente grandi quantità di cereali per gli eserciti romani e la stessa città di Roma. Nonostante Annibale si fosse concentrato su una riforma interna, in senso democratico, della costituzione cartaginese, un’ambasceria giunta da Roma lo accusò di preparare un’alleanza con Antioco III di Siria: Annibale fu costretto alla fuga in Oriente, mentre il nuovo governo cartaginese si profuse in assicurazioni di lealtà nei confronti di Roma. Un elemento che poteva turbare la situazione dell’Africa settentrionale era costituito dalle dispute di confine tra la Numidia di Massinissa e Cartagine. Nel 151 a.C. Massinissa aveva da poco inglobato alcuni territori più ricchi dello Stato cartaginese, a Cartagine ( non poteva dichiarare guerra senza il consenso di Roma) prevalse il partito della guerra: i non pochi sostenitori di una politica di accordo con il re numida vennero banditi e un esercito fu inviato contro Massinissa. L’esercito di Cartagine venne fatto a pezzi. Nel 149 a.C. un imponente esercito sbarcò in Africa. Nel disperato tentativo di evitare una guerra perduta in partenza, i Cartaginesi, che avevano già consegnato ostaggi, acconsentirono a cedere una notevole quantità di armamenti. Quando i consoli che comandavano l’esercito romano chiesero loro di abbandonare la città, decisero di resistere ad oltranza. Il conflitto si risolse solo nel 146 a.C. sotto il comando di Publio Cornelio Scipione Emiliano. La città fu saccheggiata e rasa al suolo, il suo territorio trasformato nella nuova provincia d’Africa. La Spagna: All’indomani della seconda guerra punica i Romani si erano saldamente stabiliti in due zone distinte della penisola iberica: nel meridione intorno all’importante città di Cadice e alla vallata del Guadalquivir, a settentrione nella zona costiera a nord dell’Ebro. Nel 197 a.C. le due aree vennero stabilmente organizzate nelle nuove province di Spagna Citeriore a nord e Spagna Ulteriore a sud, governate da due nuovi pretori appositamente eletti. Le comunità spagnole soggette a Roma dovevano pagare uno stipendium, e fornire truppe ausiliarie. La penetrazione verso l’interno si rivelò lenta e difficile, tanto che la sottomissione della penisola iberica venne completata solo con Augusto. L’atteggiamento assunto da due grandi figure di governatori delle province spagnole, M. Porcio Catone e Ti. Sempronio Gracco padre, è esemplificativo della varietà di approcci tentati da Roma nella regione. Catone, venne inviato nella Spagna Citeriore nel 195 a.C., in qualità di console. Procedette al capo di un esercito sottomettendo tribù della valle dell’Ebro. Gracco, dopo aver ottenuto significativi successi militari, cercò di rimuovere le ragioni dell’ostilità verso Roma. La sua strategia fu coronata da trattati di pace. DAI GRACCHI ALLA GUERRA SOCIALE: L’età dei Gracchi (133-121 a.C.): una svolta epocale? La tradizione storiografica aristocratica ha canonicamente identificato nell’età dei Gracchi l’origine della degenerazione dello Stato romano, non più fondato sulla solidarietà civica e sul rispetto della tradizione e l’inizio del tempo delle guerre civili. E’ indubbio che in tale periodo siano drammaticamente venuti a maturazione e in piena evidenza fenomeni e problemi tra loro connessi che affondavano le loro radici negli squilibri creati dall’espansione stessa del dominio romano. Mutamento degli equilibri sociali: La guerra annibalica aveva percorso l’Italia e inferto profonde ferite alla sua agricoltura. Le continue campagne belliche oltremare avevano tenuto i Romani e gli alleati a lungo lontano dalle loro case e dai loro poderi. Le conquiste esterne avevano però comportato anche un consistente afflusso di ricchezze nelle mani di pochi, un ampliamento delle occasioni e degli orizzonti di mercato, un’enorme massa di schiavi. Erano caduti in possesso di Roma, bottini di guerra molto consistenti. I Romani e gli Italici si erano introdotti nel grande commercio, i negotiatores, uomini d’affari spesso organizzati in società avevano iniziato ad installarsi nelle province di recente acquisite, questi esercitavano professioni bancarie. Tali attività avevano fatto fare fortuna a molti senatori e avevano favorito la discesa degli equites, la cui ricchezza era ad un tempo fondiaria, finanziaria e mobiliare. Organizzati sulla base di censo di 400.000 sesterzi essi comprendevano figli e fratelli di senatori, ricchi proprietari terrieri, pubblicani, uomini d’affari. Esclusi dalle cariche pubbliche essi erano comunque interessati a difendere i propri interessi e ad entrare a far parte del tribunale permanente che perseguiva le estorsioni che i magistrati delle province avessero perpetrato ai danni della comunità e dei singoli. I Rampolli dei Romani più ricchi erano cresciuti, educati ed istruiti abitualmente da più nutrici e precettori di natura cultura greca e schiavi colti amministravano con competenza case, proprietà e patrimoni dei loro padroni. Crisi della piccola proprietà fondiaria e inurbamento: Lo sviluppo degli scambi commerciali aveva modificato progressivamente la fisionomia dell’agricoltura italica. I piccoli proprietari, già impoveriti in certe zone dagli effetti della seconda guerra punica, si erano spesso trovati nella necessità di vendere le loro proprietà. La Caio Gracco: Nel 123 a.C. fu eletto tribuno della plebe Caio Gracco, fratello minore di Tiberio e componente della commissione agraria fin dalla sua costituzione. Nel corso di due mandati costitutivi egli riprese ed ampliò l’opera riformatrice del fratello. La legge agraria fu ritoccata e perfezionata e aumentati i poteri della commissione triumvirale. Poiché gran parte delle terre era già stata distribuita, Caio propose l’istituzione di nuove colonie di cittadini romani, sia in Italia, sia nel territorio della distrutta Cartagine. Una legge frumentaria, mirante a calmierare il mercato e ad evitare fenomeni speculativi da parte dei detentori di frumento, assicurò ad ogni cittadino residente a Roma una quota mensile di grano a prezzo agevolato. Grandi granai pubblici dovevano custodire le grandi quantità per le distribuzioni. (horrea Sempronia). Con una legge giudiziaria Caio volle limitare il potere del senato in questo campo, riservando ai cavalieri il controllo dei tribunali permanenti cui erano affidati i processi di concussione e che perseguivano le malversazioni e le estorsioni dei magistrati ai danni dei provinciali. Allo stesso monopolio dei cavalieri furono affidati anche gli appalti della riscossione delle tasse nella nuova provincia d’Asia. Un provvedimento che sopravvisse per tutta l’età repubblicana, prevedeva che il senato dovesse decidere prima delle elezioni consolari, quali tra le province dovessero essere classificate consolari (da assegnare ai futuri consoli). Al problema degli alleati Caio propose di concedere ai Latini la cittadinanza romana e la cittadinanza di diritto latino agli Italici. Anche questo provvedimento per le proteste non poté essere approvato. L’oligarchia senatoria, i cui privilegi venivano minati da questi e altri progetti di Caio, per contrastarli si servì nuovamente di un altro tribuno, Marco Livio Druso. Al suo ritorno a Roma Caio si rese conto che la situazione politica era profondamente mutata e la sua popolarità in grave declino. Candidatosi ancora per il tribunato del 121 a.C. non venne rieletto. Caio e Fulvio Flacco tentarono di opporsi alla votazione del provvedimento, ma scoppiarono gravi disordini, in conseguenza dei quali il senato fece ricorso alla procedura del senatus consultum ultimum, con cui veniva sospesa ogni garanzia istituzionale e affidato ai consoli il compito di tutelare la sicurezza dello Stato con i mezzi che ritenessero necessari. Caio Gracco si fece uccidere da un suo schiavo. Smantellamento della riforma agraria: Poiché le riforme dei Gracchi rispondevano a problemi reali, gli ottimati non osarono abolirle, ma ne ridussero gli effetti, soprattutto quelli della legge agraria. I lotti attribuiti furono dichiarati alienabili, sicché riprese la loro migrazione nelle mani dei più ricchi. I possessi furono lasciati agli attuali detentori, prima in concessione e poi in proprietà, fu abolita la commissione agraria. Province, espansionismo e nuovi mercati: Asia, Gallia, Baleari, Dalmazia danubiana Prima del 133 a.C. Roma aveva dedotto sei province: Sicilia, Sardegna e Corsica, Spagna Citeriore, Spagna Ulteriore, Macedonia e Africa. La deduzione di una provincia non è da considerare come un <<atto di annessione>>, ma di guerra. Per Roma, difatti, si trattava di assumere la gestione diretta di un territorio talora solo in piccola parte assoggettato e larghe zone del quale erano comunque ancora al di fuori del suo controllo, spesso perfino di una sua presenza. In un lasso di tempo ragionevole il magistrato, fissava le linee generali di riferimento: questioni territoriali, statuto delle singole città e comunità, determinazione dell’ ager publicus , regolamenti e condizioni fiscali. Tali deliberazioni di riferimento sono definite impropriamente (mai nella terminologia ufficiale) lex provinciaeà una delle leggi più note è la lex Rupilia relativa alla Sicilia 132 a.C. Nel 133 a.C. il re di Pergamo Attalo III aveva lasciato il suo regno ai Romani fatta eccezione per le città dichiarate libere ed i loro territori. Aristonico, forse figlio del padre di Attalo, si pose a capo di una rivolta che tenne testa per tre anni (fino al 129 a.C.) alle rivendicazioni di Roma. Solo dopo il 129 a.C. e dopo ripetuti tentativi la ribellione poté essere piegata e il console Manio Aquilio con alcuni senatori, poté organizzare quanto restava del nuovo territorio. Il corpo della provincia risultò costituito dalle parti più importanti del precedente regno. Il questo modo Roma poneva stabilmente piede nella Penisola Anatolica ereditando in essa i problemi logistici, politici e confinari che erano stati nel regno di Attalide. La Gallia meridionale attirò poi l’attenzione e l’impegno romano. Rispondendo a una richiesta d’aiuto dell’alleata Marsiglia contro tribù celto-liguri e galliche, fu inviato prima Fulvio Flacco poi Caio Sestio Calvino che fondò il centro di Aquae Sextiae ( Aix en provence), controllando da nord l’entroterra di Marsiglia. Vennero anche poste le basi per la provincia narbonese. Furono anche conquistate le Baleari. Nel contempo ripetute campagne militari contro le tribù illiriche della Dalmazia avevano portato le armi e i mercati romani a contato con i paesi danubiani che si estendevano in Macedonia. I commercianti italici e l’Africa: Scipione Emiliano aveva regolato le questioni africane dopo la terza guerra punica, tramite la costituzione di una piccola ma ricca provincia e rapporti di buon vicinato con le città libere e i figli di Massinissa, il re di Numidia alleato tradizionalmente dei Romani. Tra essi si era imposto Micipsa, che era divenuto unico re di Numidia. La politica filoromana sua e del padre aveva attirato in Africa commercianti ed uomini d’affari romani e italici, allettati dalle grandi potenzialità economiche della regione e della produttività di grano e olio. Morto nel 118 a.C. Micipsa, il regno numidico fu conteso tra i suoi tre eredi principali. Il più spregiudicato dei tre Giugurta, suo nipote e figlio adottivo, si sbarazzo di uno di essi, Iempsale, assassinandolo. L’altro, Aderbale, fu costretto a rifugiarsi a Roma e a chiedere l’arbitrato del senato che optò per la divisione della Numidia tra i due superstiti. Ad Aderbale la parte più ricca, a Giugurta quella occidentale più vasta. Nel 112 a.C. Giugurta volle impossessarsi della porzione di territorio di Aderbale e ne assediò la capitale Cirta. Compiendo un errore fatale Giugurta fece assassinare anche gli Italici e Romani che vi svolgevano le loro attività. Roma si vide costretta a scendere in guerra nel 111 a.C. Le operazioni militari furono condotte molto fiaccamente fino al 109 a.C. tra gravi smacchi per le armi romane, accuse di incapacità e sospetti di corruzione, quando a capo della guerra fu posto il console Quinto Cecilio Metello, del cui seguito faceva parte come legato Caio Mario. Metello riprese le redini del conflitto e sconfisse Giugurta, ma in un clima di polemica. Caio Mario venne eletto console nel 107 a.C. e, gli venne affidato il comando della guerra contro Giugurta. Mario era un homus novus originario del territorio di Arpino, non poteva vantare alcun antenato illustre ed era il primo della sua famiglia ad arrivare ai sommi vertici dello Stato. Egli incarnava un nuovo tipo di politico, si era imparentato con un antica, anche se decaduta, famiglia patrizia sposando Giulia, zia del futuro Giulio Cesare. L’arruolamento dei nullatenenti e la fine della guerra giugurtina: Già al tempo delle guerre spagnole si erano riscontrate gravi difficoltà nel reclutamento legionario, che era limitato ai soli cittadini iscritti nelle cinque classi censitarie. Per ovviare al problema si era via via diminuito il censo minimo per l’attribuzione ai cittadini alla quinta classe, sì che molti degli appartenenti agli strati più poveri della popolazione potessero essere coscritti, amati ed equipaggiati a spese dello Stato. Mario, bisognoso di nuove truppe a lui fedeli e per far fronte ai gravi vuoti determinati nella guerra contro Giugurta e dai massacri subiti a opera dei Cimbri e dei Teutoni, aprì l’arruolamento volontario ai capite censi, coloro che erano iscritti ai registri di censo per la sola persona, dunque nullatenenti. Dopo Mario il metodo divenne pratica regolare. Mario con il suo nuovo esercito ritornò in Africa, ma gli occorsero quasi tre anni per porre fine al conflitto e catturare Giugurta. Grazie all’opera di Silla, legato di Mario, Bocco (suocero di Giugurta) lo catturò e lo consegnò ai Romani (105 a.C.). La Numidia orientale fu assegnata ad un nipote di Massinissa fedele a Roma e la parte rimanente a Bocco, con cui venne stipulato un trattato di amicizia e alleanza. Giugurta fu trascinato prigioniero a Roma e dopo la rielezione di Mario al consolato, venne giustiziato. Cimbri e Teutoni; ulteriori trasformazioni nell’esercito: Nel frattempo due popolazioni germaniche: i Cimbri, probabilmente provenienti dalla penisola dello Jutland (Danimarca) e i Teutoni, avevano iniziato un movimento migratorio verso sud, spinti da problemi di sovrappopolamento o da maree rovinose, che avevano reso in parte inabiltabili le loro sedi originarie. Oltrepassato il Danubio, scesi fino nel Norico (Austria), furono affrontati al di là delle Alpi dal console Carbone, incaricato di proteggere i confini dell’Italia e soprattutto a tutelare una zona commerciale di miniere d’oro e ferro: - presso Noreia i Romani subirono una disastrosa sconfitta (113 a.C.). Continuando il loro cammino verso Occidente comparvero in Gallia, minacciando la nuova provincia narbonese. I ripetuti tentativi di respingerli si risolsero in altrettante catastrofi, che culminarono nella disfatta di Arausio (Orange). Mentre a Roma cresceva la polemica verso l’incapacità dei generali di origine nobiliare e aumentava il terrore che i Cimbri e i Teutoni potessero invadere l’Italia, Mario venne rieletto console in assenza per il 104 a.C. e gli fu affidato il comando della guerra. La differenza di stato giuridico tra i cittadini di Roma e gli alleati latini e italici non aveva suscitato grandi contestazioni agli inizi del II secolo a.C., quando essa trovava riscontro in differenze etniche e culturali e quando l’orizzonte della maggioranza di tali comunità era limitato a un quadro politico locale o regionale. Essa aveva perso la sua ragion d’essere via via che l’Italia era penetrata in uno spazio mediterraneo, che le conquiste e gli scambi commerciali avevano sempre più unificato e nel quale le aristocrazie sia romane che italiche tendevano a perdere le loro ancestrali particolarità. La condizione di cittadino romano era divenuta sempre più vantaggiosa e ciò aumentava l’irritazione e le rivendicazioni degli Italici, consci di aver ampiamente contribuito ai successi militari di Roma. -delle distribuzioni agrarie beneficiavano solo i cittadini romani: gli Italici vedevano riassegnati ai cittadini terreni da loro a lungo utilizzati e messi a coltura. -non avevano parte alle decisioni economiche, politiche, militari, che pur vedevano largamente coinvolti anche i loro interessi. -ricevevano una parte meno importante del bottino e punizioni più gravi; non potevano condividere in alcun modo le funzioni di comando. L’assassinio di Druso fu il segnale per gli alleati italici che non vi era altra possibilità di difendere le proprie rivendicazioni che la rivolta armata (guerra sociale, dei socii) contro Roma. Il segnale delle ostilità partì da Ascoli, nel Piceno, dove un pretore e tutti i romani residenti nella città vennero massacrati. L’insurrezione si estese sul versante adriatico presso Piceni, Vestini Marrucni, nell’appennino centrale (Marsi e Peligni), nell’Appenino merdionale (Sanniti, Irpini e Lucani). Apuli e Campani si aggiunsero in un secondo momento. Non aderirono Etruschi e Umbri, al pari delle città latine e della Magna Grecia. La guerra fu lunga e sanguinosa, i Romani dovettero combattere con persone addestrate allo stesso modo. Gli insorti si erano dati nel frattempo istituzioni federali comuni, una capitale, Corfinium, con una monetazione propria. In alcuni ambienti prevaleva l’esigenza di conseguire la cittadinanza, in altri dominava lo spirito di rivalsa contro Roma. Furono messe in campo tutte le forze migliori e si spartirono tra i due consoli del 90 a.C. i due principali settori d’operazione. L’incerto andamento delle operazioni fece maturare a Roma, già nel 90 a.C., una soluzione politica del conflitto, con lo scopo di limitarne l’estensione. Con un primo provvedimento si erano già autorizzati i comandanti militari ad accordare la cittadinanza agli alleati che combattevano ai loro ordini. Venne poi approvata una legge che concedeva la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli a Roma e alle comunità che avessero deposto o deponessero rapidamente le armi. A questa si aggiunge una legge che estendeva la cittadinanza a quanti degli italici si fossero registrati presso il potere di Roma entro sessanta giorni. Nel medesimo anno 89 a.C. Cneo Pompeo Strabone, divenuto console, faceva attribuire il diritto agli abitanti dei centri urbani a nord del Po. Ai magistrati di queste comunità veniva così aperto l’accesso alla cittadinanza romana. Con la concessione della cittadinanza a tutta l’Italia fino alla Transpadana si inaugurava sia un processo di unificazione politica dell’Italia sia una nuova fase nella storia delle istituzioni di Roma, con ripercussioni importanti nella costituzione del corpo civico e nella vita stessa della città. Le aristocrazie italiche erano riuscite a fondare i presupposti per un loro accesso alle magistrature e un successivo ingresso in senato. Per esercitare i loro diritti i neocittadini dovevano assolutamente recarsi a Roma, per partecipare alle assemblee. La città si avviò ad assumere sempre più i caratteri di una grande metropoli cosmopolita. I PRIMI GRANDI SCONTRI TRA FAZIONI IN ARMI: Mitridate VI Eurpatore: Mentre Romani e Italici si affrontavano nella guerra sociale, una situazione sempre più allarmante era venuta a determinarsi in Oriente, a partire dalle coste meridionali del Mar Nero. Ma ancor più ad Est molti scenari erano mutati nel tempo. I Parti si erano che si erano via via insediati nell’altopiano iranico, avevano sistematicamente sottratto possedimenti orientali al regno seleucide, fino ad occupare la Mesopotamia e la Babilonia e facendo così dell’Eufrate la frontiera tra essi e la Siria. Nel 95 a.C. avevano imposto come loro vassallo quale re d’Armenia Tigrane. Nella penisola anatolica era costantemente in atto un forte frazionamento politico e Roma, installatasi sul territorio degli Attalidi con la costituzione della provincia d’Asia, vi aveva favorito la coesistenza di molti piccoli Stati dinastici, gelosi gli uni degli altri, limitandosi a vegliare che nessuno ne realizzasse l’unità. Ma, divenuto re del Ponto a pieno titolo intorno al 112 a.C., Mitridate VI era riuscito a stabilire accordi con la vicina Bitinia aveva esteso il suo regno a sud, a est, a nord del Ponte Eusino. A partire dal 104 a.C. il senato romano era divenuto molto attento alle sue mosse. Mitridate si impossessò anche della Cappadocia. Nel 92 a.C. era toccato a Silla, come propretore della Cilicia, intervenire per ripristinare sul trono di Cappadocia un re più gradito ai Romani. Approfittando della guerra sociale, Mitridate aveva ripreso la sua politica espansionistica, facendo invadere nuovamente la Cappadocia da Tigrane, re d’Armenia diventato suo genero. A questo punto verso la fine del 90 a.C., Roma decise di inviare in Oriente una legazione, capeggiata da Manio Aquilio, con il compito di rimettere sul trono i legittimi sovrani di Bitinia (spodestato Nicomede IV figlio di Nicomede III, ex alleato di Mitridate) e di Cappadocia. Dopo scorrerie nel territorio del ponto da parte di Nicomede IV, Mitridate si decise alla guerra contro i Romani, nella posizione di vittima di un’ingiustizia. La sua azione si fondò su un’opera efficacissima di propaganda rivolta al mondo greco, presso il quale si presentò come benefattore che dovunque ripristinava le autonomie locali e concedeva immunità da tributi, sfruttando il malcontento verso i Romani che serpeggiava in Oriente. Dilagato in Cappadocia fu presto padrone di tutta l’Asia. Per suo ordine più di 80.000 tra Romani e Italici furono assassinati. La sola Rodi rimase fedele a Roma. Verso la fine dell’ 88 a.C. un esercito pontico invadeva la Grecia centrale, mentre una flotta faceva vela verso l’Attica. Roma decise allora di reagire, affidando il comando della guerra a Lucio Cornelio Silla, uno dei consoli dell’88 a.C. Il tribunato di Publio Sulpicio Rufo e il ritorno di Mario; Silla marcia su Roma: Mentre Silla accelerava le operazioni intorno a Nola per poter marciare al più presto contro Mitridate, a Roma il tribuno della plebe Rufo, si adoperava per privarlo del comando della guerra e contemporaneamente riprendeva il problema dell’inserimento dei nuovi cittadini italici nelle tribù romane. Costretto a trasformare larghe masse di alleati in cittadini romani, il governo nobiliare aveva cercato di evitare che essi potessero sconvolgere i preesistenti equilibri politici. Nessun problema pareva suscitare il loro inserimento nella gerarchia sociale. Ma il fatto che essi, al pari di tutti gli altri cittadini, dovessero venire iscritti nelle tribù poteva produrre mutamenti radicali. Il loro numero era tale che se fossero stati ripartiti tra tutte e trentacinque le tribù e si fossero recati in massa a Roma per votare, sarebbero stati in maggioranza in ciascuna tribù. Si era perciò ricorsi all’espediente di immetterli in un numero limitato di tribù, in questo modo i neocittadini avrebbero potuto influire soltanto sul voto di poche tribù. Quindi i vecchi cittadini avrebbero continuato a mantenere la prevalenza complessiva nell’organismo. Ma la guerra sociale e le azioni di Mitridate avevano avuto come conseguenza immediata anche un impoverimento complessivo tanto dello Stato romano che dei singoli. Razzie, massacri e devastazioni avevano comportato la perdita dei capitali investiti nelle zone che ne erano state interessate. Molti debitori si erano trovati impossibilitati nel rimborsare i propri creditori che, colpiti anch’essi dalla crisi, esigevano con crescente accanimento quanto era loro dovuto. Per far fronte a tutti questi problemi Rufo propose una serie di provvedimenti : il richiamo dall’esilio di quanti erano stati perseguiti per collusioni con gli alleati italici l’inserimento dei neocittadini in tutte le trentacinque tribù un limite massimo di indebitamento di duemila denari per ciascun senatore, oltre al quale sarebbe stata decretata l’espulsione dal senato. Fece approvare il trasferimento della guerra conto Mitridate da Silla a Mario, dopo un lungo periodo di eclissi politica di quest’ultimo. Silla, appresa la notizia della sua sostituzione non esitò a marciare su Roma alla testa dei suoi soldati. Erano così divenuti palesi i primi esiti della riforma mariana dell’esercito: la truppa si sentiva legata al proprio comandante, con cui condivideva campagne e bottini rispetto che allo Stato che reputava dominato da una fazione ostile. Impadronitosi di Roma, Mario fece dichiarare i suoi avversari nemici pubblici: Sulpicio fu subito eliminato, Mario riuscì a stento a fuggire alla volta dell’Africa, dove poteva contare su protezioni e clientele fidate. Prima di recarsi in Oriente Silla fece approvare alcune norme che anticipavano la sua opera riformatrice degli anni 81-79 a.C.: ogni proposta di legge avrebbe dovuto prima di essere approvata dal senato essere sottoposta al voto popolare; i comizi centuriati dovevano divenire la sola assemblea legislativa legittima. Ciò ottenuto partì alla volta dell’Oriente. Nell’87 a.C. non era riuscito tuttavia ad impedire che venissero eletti consoli a lui non favorevoli. Silla e la prima fase della guerra mitridatica: Silla nell’87 a.C. cinse d’assedio Atene, che venne presa e saccheggiata. Direttosi nuovamente verso la Grecia centrale, dove attraverso la Macedonia si era concentrato un esercito di rinforzo inviato da Mitridate, sconfisse nuovamente le truppe pontiche. Era la fine del predominio delle armate mitridatiche in Grecia. Lucio Cornelio Cinna e l’ultimo consolato di Mario: Uno dei consoli dell’87 a.C., Lucio Cornelio Cinna, fautore di Mario, aveva nel frattempo ripreso la proposta di iscrivere i neocittadini italici in tutte le trentacinque tribù. Cacciato da Roma, si era rifugiato in Campania dove venne raggiunto da Mario mariano in esilio, coagulando altri esuli della sua fazione, Romani e Italici residenti in Spagna e perfino gran parte dei notabili delle popolazioni indigene. Tutti i tentativi di abbatterlo si erano rivelati vani. Verso la fine del 77 a.C. si erano aggiunte a Sertorio, anche le truppe superstiti di Lepido al comando di Marco Peperna. Questa consistenza di profughi gli aveva permesso di istituire a Osca un senato di trecento membri, a imitazione di quello romano, e una scuola. La rivolta servile di Spartaco: Nel 73 a.C. era frattanto scoppiata la terza grande rivolta di schiavi. Questa volta la scintilla era scoccata a Capua in una scuola per gladiatori, una settantina dei quali, si erano asserragliati sul Vesuvio. Là furono raggiunti da altri gladiatori e schiavi confluiti da ogni parte dell’Italia meridionale, soprattutto Traci, Galli, Germani, Orientali. A differenza delle altre rivolte servili non fu insignificante l’adesione di uomini di condizione libera ridotti in miseria, sbandati, espropriati. Se ne posero a capo due gladiatori, Spartaco, un trace, e Crisso, un gallo, che ebbero ben presto ai loro ordini un considerevole esercito. La rivolta si estese rapidamente a tutto il sud Italia dove gli insorti riuscirono a tenere in scacco alcuni pretori e i due consoli del 72 a.C. inviati contro di loro. Mancava totalmente tra i ribelli un piano preciso e unitario: Spartaco intendeva condurli rapidamente al di là delle Alpi, ciascuno a raggiungere il loro paese d’origine; altri preferivano abbandonarsi alla razzia e al saccheggio. Il senato decise allora di affidare un comando eccezionale e un considerevole esercito a Marco Licinio Crasso, allora pretore. Crasso riuscì a isolare Spartaco e i suoi in Calabria. Essi tentarono di passare in Sicilia per fomentare là una rivolta ma, traditi dai pirati che non li traghettarono furono sconfitti da Crasso in Lucania: lo stesso Spartaco cadde in battaglia (71 a.C.). Migliaia di prigionieri furono fatti crocefiggere, tra Roma e Capua. Una schiera di superstiti tentò la fuga, ma venne annientata. Il consolato di Pompeo e Crasso e lo smantellamento dell’ordinamento sillano (70 a.C.): Pompeo ne fece ulteriore merito per ottenere il trionfo e anche per poter presentare la propria candidatura al consolato per il 70 a.C., pur non possedendo i requisiti di carriera. Anche Crasso si presentò al consolato e venne eletto. Fu allora portato a compimento lo smantellamento dell’ordinamento sillano. Già nel 75 a.C. su proposta di Cotta, era stato abolito il divieto a chi era stato tribuno della plebe di ricoprire cariche successive. Nel 73 a.C. i consoli avevano fatto approvare una legge frumentaria, che ripristinava le distribuzioni a prezzo politico del grano, che gli eventi bellici avevano reso costoso. Pompeo e Crasso restaurarono nella loro pienezza i poteri dei tribuni della plebe. Pompeo in Oriente; operazioni contro i pirati, nuova guerra mitridatica: Negli anni tra l’80 e il 70 a.C. in Oriente erano riemerse due gravi minacce, Mitridate e i pirati. La pirateria aveva ripreso forza, i Romani che l’avevano estirpata dai mari circostanti l’Italia, avevano tollerato che essa continuasse in Oriente perché trovavano un forte tornaconto nel mantenimento di un’ attività che alimentava i traffici di mano d’opera schiavile verso la penisola. Le basi principali erano disseminate lungo le coste dell’Asia minore, il litorale africano e Creta. Attaccavano le lente navi commerciali, depredandole dei loro carichi. Di conseguenza il trasporto di merci era più difficile. Dopo tentativi infruttuosi per combattere i pirati nel 74 a.C. fu inviato con un comando speciale Marco Antonio che riportò un’umiliante sconfitta sull’isola di Creta. Le operazioni contro Creta furono poi affidate a Metello che le condusse fino alla completa riconquista dell’isola nel 68-67 a.C. che divenne provincia romana. Nel frattempo era divenuta inevitabile una nuova guerra contro Mitridate. Dopo la pace di Dardano era aveva continuato a covare desideri di rivincita e l’occasione si era ripresentata nel 74 a.C., quando, alla morte d Nicomede IV di Bitinia, risultò con un testamento apparentemente falso la cessione del suo regno ai Romani. La Bitinia dava ai Romani la possibilità di controllare il Mar Nero, quindi Asia Minore. Per questo motivo Mitridate decise di invaderla. Contro di lui furono mandati due consoli. L’essenziale delle operazioni fu condotto fino al 67 a.C. da Lucullo che, sgomberata la Bitinia occupò il Ponto facendo rifugiare Mitridate in Armenia dal suocero. Lucullo invase quindi l’Armenia assediandone la capitale. Di qui si spinse all’inseguimento di Mitridate e Tigrane. La sua marcia fu però fermata dalla stanchezza del suo esercito e per le pressioni dei finanzieri romani. Nel 67 a.C. un tribuno della plebe Aulo Gabinio, propose che si assumessero misure drastiche contro i pirati, le cui incursioni stavano colpendo le forniture stesse del grano a Roma. Nonostante la violenta opposizione senatoria contro un provvedimento che concentrava nelle mani di un solo uomo poteri e risorse ingentissimi. Pompeo cacciò rapidamente i pirati dal Mediterraneo occidentale, costringendoli ad asserragliarsi e sconfiggendoli in Cilicia. I pirati fatti prigionieri furono stanziati in varie località orientali che avevano subito devastazioni. Nel 66 a.C., mentre egli era ancora impegnato nella guerra piratica, un altro tribuno della plebe Caio Manilio propose che Pompeo si occupasse anche della guerra contro Mitridate. Pompeo riuscì a convincere il re dei Parti a tenere impegnato Tigrane mentre egli marciava indisturbato verso il Ponto. Mitridate si fece quindi essendo stato sconfitto trafiggere per non cadere in mano ai Romani. Confermato a Tigrane il trono dell’Armenia lo privò però di quello della Siria, nei cui affari egli intervenne direttamente, esautorando definitivamente gli ultimi esponenti seleucidi, e di cui fece una provincia romana. Poi passò in Palestina dove si impadronì di Gerusalemme e costituì uno Stato autonomo. Là fu raggiunto dalla notizia della morte di Mitridate. Riorganizzate le sue conquiste dalle coste occidentali dell’Asia Minore fino al fiume Eufrate, riuniti la Bitinia e il Ponto in un’unica provincia, ampliata la Cilicia fino ai confini con la Siria, nel 62 a.C. Pompeo rientrò a Roma e gli venne immediatamente decretato il trionfo. Il consolato di Cicerone e la congiura di Catilina: Durante l’assenza di Pompeo a Roma si era verificata una grave crisi. Lucio Sergio Catilina, discendente di una famiglia aristocratica decaduta, si era molto arricchito durante gli eccidi dell’età sillana, ma aveva dilapidato somme enormi per mantenere un elevato stile di vita, indispensabile alle esigenze di immagine che le sue ambizioni di vita richiedevano. La sua campagna per ottenere il consolato nel 65 a.C. gli era costata una fortuna, ma la sua candidatura fu poi respinta per indegnità. Prosciolto dall’accusa di concussione tentò di rifarsi, sostenuto da Crasso, al quale si trovava già da tempo collegato un brillante patrizio, Caio Giulio Cesare, ma sprovvisto dei mezzi necessari per contendere con gli altri suoi pari rango nella gara per gli onori pubblici. Riuscì invece eletto console un homo novus di Arpino, Marco Tullio Cicerone, il vittorioso accusatore di Verre e sostenitore di Pompeo, che nella campagna elettorale aveva attaccato la corruzione, la violenza e le collusioni politiche di Catilina. Catilina non demorse e durante l’anno mise a punto un programma elettorale che pensava lo avrebbe condotto ad ottenere il consolato nel 62 a.C., basato sulla cancellazione dei debiti e rivolto agli aristocratici rovinati dalle dissipazioni, dalle campagne elettorali e dalle speculazioni sbagliate, ai coloni sillani. Abbandonato dai suoi antichi sostenitori (Crasso e Cesare), Catilina fu di nuovo battuto nelle elezioni. Mise allora mano ad un’ampia cospirazione che mirava a sopprimere i consoli, terrorizzare la città, impadronirsi del potere; venne concentrato in Etruria l’esercito composto da molti veterani sillani. Il piano fu scoperto da Cicerone che con un attacco durissimo (prima Catilinaria) costrinse Catilina ad allontanarsi da Roma e raggiungere a Fiesole le bande armate che vi si erano apprestate. Acquisite le prove scritte della congiura, Cicerone potè arrestare cinque fra i capi della cospirazione e consultare sul da farsi il senato che, trascinato da Catone (Uticense) si pronunziò per la pena di morte. Cesare restò il solo ad insistere sul carcere a vita. Catilina, perse la vita combattendo valorosamente, Cicerone menò vanto tutta la vita di aver salvato la patria da un pericolo mortale. Egitto; Cipro; Cirenaica: I buoni rapporti di armonia e collaborazione avevano tenuto il regno tolemaico d’Egitto lontano dalle mire di Roma. I tre nuclei principali costitutivi del regno (Egitto, Cirenaica,Cipro) a partire dal II sec a.C. avevano avuto fasi in cui si erano trovati uniti sotto un unico sovrano e altre in cui erano stati retti da differenti monarchi. Alla morte di Tolemaico VIII Evergete II (116 a.C.) le contese tra i successori fecero sì che si rivolgesse ripetutamente ai Romani come garanti del trono. Nel 96 a.C. sarebbe stata così a Roma la Cirenaica. Anche Tolomeo X Alessandro I in lotta con il fratello maggiore Tolomeo IX Soter II, in circostanze belliche e finanziarie difficili, legò per testamento l’Egitto ai Romani. Il problema egiziano ridivenne attuale per Roma solo nel 64-63 a.C., quando Pompeo ebbe ridotto la Siria a provincia romana e regolato il territorio palestinese, donde si era affacciato ai confini dell’Egitto e sulle zone del Mar Rosso. Dopo un non primo chiaro tentativo, probabilmente voluto da Crasso, nel 63 a.C. una legge agraria proposta dal tribuno Publio Servilio Rullo, parve includere anche l’Egitto in un vasto progetto di assegnazioni fondiarie. Nel 58 a.C. seguì la rivendicazione di Roma su Cipro e la conseguente annessione. Nel medesimo 58 a.C. Tolomeo XII, si rifugiò a Roma, ponendosi sotto la protezione di Pompeo. DAL PRIMO TRIUMVIRATO ALLE IDI DI MARZO: rialzarono il capo per imporre il ritorno di Cicerone e si intesero con il tribuno della plebe, Milone. Uno dei bersagli preferiti di Clodio divenne ben presto Pompeo che, pentitosi di non aver fatto nulla per evitare l’esilio dell’oratore e preoccupato per i crescenti successi di Cesare in Gallia, aveva appoggiato i fautori del richiamo; nel 57 a.C. Cicerone era così potuto rientrare a Roma. Pompeo si trovò allora in una situazione di grave stallo politico. Prigioniero della sua fama non osava impegnarsi apertamente nei conflitti e negli scontri delle fazioni per timore di offrire il fianco alle critiche e agli sbeffeggiamenti che Clodio e le sue bande di fedeli non gli risparmiavano in nessuna occasione. Venire allo scoperto significava infatti esporsi al pericolo di fallire e di veder diminuita un’autorità che i suoi avversari si auguravano iniziasse a logorarsi. Il non far nulla rischiava di usurargli un capitale di prestigio che nessun nuovo incarico veniva ad arricchire, mentre quello di Cesare era in rapida ascesa. Egli fu pertanto ben lieto di accettare l’incarico, che gli conferiva poteri straordinari della durata di cinque anni, per provvedere all’approvvigionamento della città (cura annonae): tale mandato era reso necessario dal fatto che la popolazione di Roma era raddoppiata. Pompeo svolse il lavoro procurandosi popolarità. Contro Cesare, veniva chiesto che si revocasse la legge sull’agro campano e uno dei candidati per le elezioni consolari del 55 a.C. Lucio Domizio Enobarbo lasciò intendere che se eletto, avrebbe proposto la revoca del proconsolato di Cesare in Gallia. A questo punto Cesare, dopo aver incontrato Crasso a Ravenna, si riunì con lui e Pompeo a Lucca dove i tre si accordarono su questo progetto: -il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prorogato per altri cinque anni, con un aumento del numero delle legioni a sua diposizione. -i tre si sarebbero impegnati, a far eleggere Pompeo e Crasso consoli per il 55 a.C.; dopo il consolato questi ultimi avrebbero ricevuto come province per cinque anni rispettivamente Pompeo le due Spagne e Crasso la Siria. Tutto si svolse esattamente come i tre avevano programmato. Tornato in Gallia, Cesare trovò la Bretagna in aperta rivolta: le popolazioni costiere, che svolgevano traffici marittimi attraverso la Manica, potevano contare anche sull’appoggio della loro flotta. Cesare fece anche costruire sulla Loira un’armata di piccoli e leggeri battelli che, grazie all’ingegno del suo legato Decimo Bruto, ebbe la meglio sui vascelli oceanici avversari, permettendo così alle legioni di dominare sulla terraferma. Egli poté allora rivolgere la loro attenzione sul fronte del Reno. Qui due tribù germaniche avevano attraversato il fiume, spingendo le loro scorrerie nel territorio dei Treviri. Cesare li annientò. L’anno successivo 54 a.C. ebbe luogo in Britannia una vera e propria campagna militare. La grande crisi si verificò nel 52 a.C. nella Gallia centro-occidentale sotto la guida di Vercingetorìge, re degli Arverni. Cesare, che si trovava nella Gallia Cisalpina, si precipitò in pieno inverno in Arvernia dove pose l’assedio. Tento di espugnare la città e fu respinto. A questo punto anche gli Edui defezionarono. Con le forze del legato Tito Labieno, Cesare si mise ad inseguire Vercingetorige che preferì rinchiudersi nella roccaforte di Alesia in attesa di rinforzi. Cesare fece cingere la città con due linee di fortificazione, una interna per bloccare gli assediati e una esterna per sostenere gli assalti dei Galli occorsi in loro aiuto. Vercingetorige si arrese e fu inviato prigioniero a Roma dove, sei anni dopo fu fatto sfilare dinanzi al carro trionfale di Cesare e poi decapitare. Dopo aver ristabilito una condizione pacifica, Cesare diede un primo ordinamento alla nuova provincia romana (Gallia Comata). Crasso e i Parti: Giunto in Siria (54 a.C.), Crasso aveva cercato di inserirsi nella contesa dinastica allora in atto nel regno dei Parti sia per i tradizionali problemi confinanti sia per potersi distinguere in una campagna militare capace di dare anche a lui quella fama di cui godevano Cesare e Pompeo. Alla morte dei re Fraate III era sorta una lotta per il trono dei Parti tra i due figli di lui, Orode e Mitridate. Divenuto re Orode II, Crasso aveva deciso di appoggiarne il fratello rivale e, varcato l’Eufrate, si era spinto in Mesopotamia senza incontrare grandi resistenze. L’anno successivo (53 a.C.), accompagnato dal figlio Publio, che Cesare gli aveva inviato con un contingente di cavalleria gallica, invece di invadere il paese da nord si rimise in marca attraverso le steppe della Mesopotamia. Venuti in contatto con i Parti in una vasta pianura della Mesopotamia nord-occidentale, nei pressi della città di Carre, i Romani furono massacrati dalle frecce scagliate dagli arcieri a cavallo; lo stesso figlio di Crasso cadde sul campo di battaglia. Fu una delle sconfitte più gravi mai patite da Roma. Mentre si ritirava, Crasso fu ucciso, l’accordo a tre prevedeva così uno dei protagonisti. Pompeo console unico; guerra civile tra Cesare e Pompeo: Trascorso l’anno del consolato comune, mentre Crasso era partito per la Siria, Pompeo era rimasto nei dintorni di Roma, adducendo la necessità e gli obblighi connessi al suo incarico di curatore del rifornimento granario di Roma e amministrando le sue province tramite luogotenenti. Nel 54 a.C. cominciarono a venir meno i vincoli e gli obblighi politici e famigliari che univano Pompeo a Cesare: nel 54 a.C. era morta di parto Giulia, la moglie figlia di Cesare, a cui Pompeo era legato; l’anno seguente 53 a.C. era scomparso Crasso. A partire da questo momento Pompeo iniziò ad avvicinarsi alla fazione ottimate, anticesariana. Nel 53 a.C., non si era riusciti a eleggere in tempo i consoli e fu proposto di nominare Pompeo dittatore. All’inizio del 52 a.C. l’anarchia giunse al colmo e Clodio, che aspirava alla pretura e Milone, che aspirava al consolato entrarono in conflitto. Clodio venne ucciso e Pompeo nominato console senza collega. Egli fece votare immediatamente leggi repressive in materia di violenza e di broglio elettorale, che consentivano la condanna di Milone e il ristabilimento di un equilibrio precario. Approfittando dell’occasione i nemici di Cesare vollero rimuoverlo in anticipo dalla sua carica e farlo tornare a Roma da privato cittadino, sicuri di poterlo mettere sotto accusa per il metodo con cui aveva condotto la guerra. Cesare, come proconsole, era stato ininterrottamente assente da Roma dal 58 a.C. e il suo mandato alla fine del 49 a.C. Cesare si trovava nella necessità di rivestire di nuovo il consolato congiungendolo senza interruzioni al proconsolato. Oltre a conservare il suo comando fino al termine stabilito, gli era dunque indispensabile il suo comando fino al termine stabilito, gli era dunque indispensabile poter presentare la sua candidatura restando assente da Roma, e tale privilegio gli era stato attribuito ad personam. Nel 52 a.C. Pompeo aveva proposto un provvedimento che prescriveva che dovesse trascorrere un intervallo di cinque anni tra una magistratura e una promagistratura. La norma mirava a scoraggiare la corruzione e gli attivisti, che si indebitavano per raggiungere la pretura o il consolato, sicuri di potersi rifare l’anno successivo; ma costituiva in pratica una minaccia anche per Cesare che, quand’anche fosse riuscito a diventare console, allo spirare della carica sarebbe divenuto privato cittadino. Tanto più che Pompeo si era fatto immediatamente dispensare da questa regola e prorogare per altri cinque anni, cioè fino al 47 a.C., il proconsolato di Spagna con il diritto di restare a Roma. Gli era stato allora associato un collega ed era ripresa la nomina di coppie consolari. Una seconda legge aveva poi fatto obbligo a tutti di presentare le proprie candidature di persona. A partire dal 51 a.C. ebbero perciò inizio le discussioni sul termine dei poteri di Cesare. Nel 50 a.C. per cercare di mettere fine a un moltiplicarsi di colpi di mano e di contese interpretative, un tribuno della plebe, Curione, propose che per uscire dalla crisi si dovessero abolire tutti i comandi straordinari, sia quello di Cesare che quello di Pompeo. Il primo Dicembre del 50 a.C. il senato si pronunciò in maggioranza nel senso che ambedue i proconsoli dovessero deporre le loro cariche. Del resto, intorno a quegli anni Cicerone aveva propugnato, nel De republica e nel De legibus, la necessità di un’intesa civica, fondata sull’equilibrio dei diritti e dei doveri e garantita da un moderatore sopra le parti, la cui indiscussa autorità lo avrebbe fatto accettare come tutore dell’intero Stato, primo (princeps) tra tutti i cittadini. All’inizio del 49 a.C. Cesare, inoltrò una lettera al senato nella quale si dichiarava disposto a deporre il comando se anche Pompeo l’avesse fatto, ma i suoi avversari ottennero invece che si ingiungesse a Cesare di por fine unilateralmente alle sue cariche. Vennero nominati i successori di Cesare al governo delle province assegnategli. Appresa questa decisione, Cesare varcò in armi il torrente Rubicone, che segnava il confine tra la Gallia Cisalpina e il territorio civico di Roma, dando così inizio alla guerra civile. Pompeo, con i consoli e buona parte dei senatori, abbandonò la città diretto verso Brindisi per imbarcarsi verso l’Oriente. Cesare, percorse rapidamente l’Italia, ma non riuscì ad arrivare in tempo per fermare il piano di Pompeo di trasferirsi in Grecia di trasferirsi in Grecia, bloccare con le sue flotte i rifornimenti e affamare l’Italia, per poi tentare la rivalsa con l’appoggio dei governatori e degli eserciti delle province a lui fedeli. Ritornato a Roma, Cesare cominciò ad affrontare la minaccia occidentale, rivolgendosi contro le forze pompeiane in Spagna con le sue truppe concentrate in Gallia. Cesare assalì e sconfisse i pompeiani spagnoli. I comizi lo elessero console per il successivo anno 48 a.C. Nel frattempo Pompeo aveva posto il suo quartier generale a Tessalonica, mentre le navi battevano l’Adriatico per impedire eventuali sbarchi di Cesare. Quest’ultimo compiendo la traversata in pieno inverso (gennaio 48 a.C.), riuscì a porre Agonia della Repubblica: Abbattuto Cesare, i cesaricidi non si erano preoccupati di eliminare anche i suoi principali collaboratori, Marco Emilio Lepido e il collega di consolato di Cesare per il 44 a.C. Marco Antonio, uno dei suoi più fidati luogotenenti. Dopo un primo sbandamento, questi ultimi cominciarono a riorganizzarsi, mentre i cesaricidi dimostrarono la totale mancanza di un programma che andasse al di là dell’assassinio di Cesare. I congiurati trovarono a Roma un’accoglienza così fredda che preferirono ritirarsi sul Campidoglio per discutere il da farsi. Antonio riuscì ad imporre una politica di compromesso, che venne ratificata dal senato: da un lato l’amnistia per i congiurati, dall’altro la convalida degli atti dl defunto dittatore e il consenso ai suoi funerali di Stato. Publio Cornelio Dolabella, sarebbe stato console assieme a Marco Antonio dopo la partenza di Cesare per la spedizione partica. Fu stabilito che dopo il consolato ad Antonio sarebbe toccata la Macedonia, dove si stavano concentrando le truppe per l’impresa partica, e a Dolabella la Siria. Fattosi consegnare dalla vedova i documenti e il testamento di Cesare, Antonio seppe trasformarne le esequie in una manifestazione di Roma. Fu tuttavia ABOLITA LA DITTATURA dalle cariche dello Stato. Alla lettura del testamento di Cesare ( morto senza altri figli maschi che Tolomeo Cesare) ai scoprì che Cesare aveva nominato suo erede effettivo per i tre quarti dei beni, Caio Ottavio, suo pronipote (Giulia, sorella di Cesare era sua nonna). Il resto del patrimonio andava ad altri due parenti Quinto Pedio e Lucio Pinario. Alle idi di Marzo il giovane Ottavio si trovava in Apollonia, tra i soldati che vi stavano affluendo per la campagna partica, per completare la propria istruzione e attendere l’arrivo del prozio che intendeva averlo come magister equitum. Appena saputo del testamento, Ottavio si diresse verso l’Italia e giunse a Roma, accompagnato da manifestazioni di simpatia dei veterani del padre adottivo. Quivi reclamò ufficialmente l’eredità. Entratone in possesso, nonostante l’ostruzionismo di Antonio, pose come principale caposaldo del suo impegno politico la tutela e la celebrazione della memoria del padre adottivo e la vendetta ad ogni costo della sua uccisione. In tal modo, concentrò su di sé l’appoggio dei cesariani più accesi e cominciò a scorrere in lui un mezzo per arginare lo strapotere di Antonio. Questi, per controllare più da vicino l’Italia si era fatto assegnare dai comizi, al posto della Macedonia le due province della Gallia Cisalpina e della Gallia Comata per la durata di cinque anni. Quando Antonio mosse verso la Cisalpina, il governatore originariamente designato, Decimo Bruto, rifiutò di cedergliela e si rinchiuse a Modena, assediato da Antonio. Ebbe inizio la guerra di Modena 43 a.C. I due consoli per ordine del senato dovettero aiutare Decimo Bruto. Vicino a Modena Antonio fu battuto e fu costretto a ritirarsi verso la Narbonese, dove contava di unire le sue forze a quelle di Lepido. I consoli morirono per le ferite riportate nello scontro. AUGUSTO: Azio e la cesura tra storia repubblicana e storia del Principato: Nel 31 a.C. Ottaviano, grazie alla vittoria conseguita ad Azio contro Antonio e Cleopatra si trovò ad essere padrone assoluto dello Stato romano. La soluzione adottata da Ottaviano, restauratrice nella forma, ma rivoluzionaria nella sostanza, segna una cesura fondamentale nella storia romana. Convenzionalmente con il 31 a.C. si fa iniziare il Principato, vale a dire il regime istituzionale incentrato sulla figura di un reggitore unico del potere, il princeps. Arriva così a compimento il processo di personalizzazione della politica che aveva visto, come effetto della crisi sociale e della spinta espansionistica, l’emergere nella tarda politica, di figure e generali che avevano affermato il proprio potere personale, grazie alla disponibilità di eserciti fedeli, alle guerre di espansione, allo sfruttamento economico delle province. La razionalizzazione dell’amministrazione attuata da Augusto e dai suoi successori, la progressiva integrazione in senato delle èlites delle diverse regioni dell’impero e il ruolo politico e sociale degli eserciti dislocati nelle province, faranno sì che la storia romana, a partire da Augusto, divenga sempre più <<storia dell’impero>>, intesa come storia del rapporto e dell’integrazione di territori e popolazioni rispetto al centro del potere. Rapporto con gli organismi repubblicani, potere del principe: Il ritorno in Italia di Ottaviano nel mese di agosto del 29 a.C., fu segnato dalla celebrazione di tre trionfi: campagne dalmatiche, vittoria di Azio e vittoria sulle Egitto. All’inizio del 27 a.C., Ottaviano entrò nel suo settimo consolato, avendo come collega l’amico e fedele collaboratore Agrippa. In una fedele seduta del senato, Ottaviano rinunciò formalmente a tutti i suoi poteri straordinari, accettando solo un imperium proconsolare per dieci anni sulle province non pacificate: Spagna, Gallia, Siria, Cilicia, Cipro e l’Egitto. Qualche giorno dopo il senato lo proclamò <<Augusto>> per proiettarlo ad una dimensione sacrale, religiosaà Il termine deriva dal verbo latino augure, ‘innalzare’. Per comprendere i fondamenti del potere di Ottaviano Augusto dopo il 27 a.C. conviene riportare quanto scritto da lui stesso in un documento di eccezionale interesse che va sotto il nome di Res Gestae testamento politico che egli redasse verso la fine della sua esistenza e fece affiggere in varie città dell’Impero: <<Fui superiore a tutti per autorità>>, diviene il primo uomo dello Stato. La nuova organizzazione dello Stato rappresentava il definitivo superamento delle istituzioni, della città-stato. Il principe si poneva come punto di riferimento e di equilibrio fra le diverse componenti della nuova realtà che, poteva dirsi <<imperiale>>: l’esercito, le province, il senato, la plebe urbana. La crisi del 23 a.C.: Tra il 27 a.C. e il 25 a.C., a regime non ancora stabilizzato, Augusto si recò in Gallia e poi nella Spagna settentrionale, dove combatté contro gli Asturi e i Cantabri che non si erano sottomessi al dominio romano. In questo modo dimostrava di provvedere alla pacificazione dei territori provinciali che gli erano stati assegnati dal senato, rafforzava il contatto con l’esercito e con i veterani insediati nelle province. Anche negli anni successivi Augusto alternerà dei periodi di permanenza nelle province a periodi di permanenza a Roma, in modo che l’assestamento del nuovo ordine potesse compiersi gradualmente e in modo da rispettare l’usuale prassi secondo la quale a Roma governavano il senato, il popolo e i magistrati, mentre lui, come protomagistrato, si recava nelle province da pacificare. Nel 23 a.C. si verificò una grave crisi. In Spagna Augusto si era seriamente ammalato e si sentì in fin di vita. Uno degli aspetti più delicati del principato augusteo, riguardava la successione del principe. Il regime presupponeva che alla testa dello Stato ci fosse una sola persona, di fatto un monarca, ma la mancanza di precedenti e di una prassi per la successione creava i presupposti per un vuoto di potere. Nel 23 a.C. la scomparsa prematura di Augusto avrebbe potuto riaprire il flagello delle guerre civili. In mancanza di figli maschi egli pensò al genero Marcello, che aveva sposato la sua unica figlia, Giulia, e agli eventuali nipoti. Marcello morì e Giulia fu data in moglie ad Agrippa, che divenne così il successore designato. Per questa ragione e per altri motivi nel nuovo regime furono introdotte delle correzioni che definirono in modo definitivo la sostanza dei poteri imperiali. Augusto depose il consolato e ottenne un imperium proconsolare che gli consentiva di agire con i poteri di protomagistrato su tutte le province. Questo potere, imperius maius, non consentiva però ad Augusto, quando si trovava a Roma, di agire nella vita politica. Per ovviare a questo provvedimento il principe ricevette dal senato il potere di tribuno della plebe, vitalizio. In virtù di esso, Augusto diventava protettore della plebe di Roma. Le elezioni furono controllate da Augusto attraverso due procedure: la nominatio accettazione della candidatura da parte del magistrato che sovraintendeva all’elezione, e la commendatio, la raccomandazione da parte dell’imperatore stesso. All’assemblea generale venne affidato un ruolo del tutto marginale, mentre si perseguiva una sorta di equilibrio tra principe e senato. Il perfezionamento della posizione di preminenza: Negli anni successivi si aggiunsero altre prerogative. Nel 22 a.C., in seguito a una carestia, Augusto rifiutò la dittatura offertagli dal popolo e assunse la cura annonae l’incarico di provvedere all’approvvigionamento di Roma. Nel 19-18 a.C. esercitò i poteri di censore. Anche Agrippa nel 23 a.C. aveva ricevuto un imperium proconsulare di 5 anni, grazie al quale si recò in Oriente, mentre Augusto si trovava a Roma. Tra il 22- 19 a.C. Augusto si portò sul confine orientale, dove era necessario sistemare la questione partica e armena. Intanto Agrippa, ritornato a Roma, sposava la figlia di Augusto, Giulia, vedova di Marcello. Nel 12 a.C., quando morì Lepido, che con Augusto e Antonio aveva costituito il triumvirato ed era sopravvissuto fino a quel momento rivestendo la carica di pontefice massimo. Fu allora che ad Augusto fu conferita anche questa carica, che lo poneva alla guida della vita religiosa di Roma. L’ultima espressione di riconoscimento ufficiale alla sua posizione di preminenza fu il conferimento del titolo di padre della patria, che il senato, i cavalieri e il popolo gli attribuirono nel 2 a.C. I ceti dirigenti, senatori e equites: Durante la Repubblica chi possedeva un censo pari al 400.000 sesterzi e rispondeva ad alcune caratteristiche che ne definivano la dignità apparteneva al ceto equestre. Quindi anche i figli dei senatori, fino al momento in cui non accedevano alla questura, erano semplici cavalieri. I senatori si distinguevano dagli equites solo per aver intrapreso una carriera politica, che assicurava loro l’ingresso in senato, e avevano la possibilità di mostrarlo esteriormente portando il laticavio, una larga striscia color porpora sulla toga. Nell’ultima fase della Repubblica numerosi figli di cavalieri e senatori avevano usurpato questo diritto, portando il laticlavio senza essere realmente membri del senato. Augusto proibì l’uso del laticlavio ai figli dei cavalieri, mentre lo consentì ai figli dei senatori, che rimanevano cavalieri, ma potevano così segnalare la loro condizione. Infine innalzò il censo minimo per entrare in senato a un milione di sesterzi. In taluni casi Augusto stesso poteva concedere il diritto ad entrare in senato a chi non apparteneva a una famiglia senatoria. Naturalmente era necessario rivestire una magistratura. Addirittura poteva direttamente cooptare delle persone inserendole in senato tra le fila di coloro che avevano rivestito una determinata magistratura, attraverso la procedura dell’adlectio. In questo modo Augusto realizzò una distinzione tra ordo equester e senatus, creando un vero ordo senatorius formato dalle famiglie senatorie. I senatori detenevano tutte le più importanti magistrature a Roma e le maggiori posizioni di comando civile e militare in provincia. Roma, l’Italia, le province: Come veniva dunque governato lo Stato e amministrata la compagine imperiale a seguito delle innovazioni introdotte da Augusto. L’azione di Augusto si può valutare su due piani: quello monumentale e quello della razionalizzazione dei servizi. Augusto non diede alcun rilievo particolare alla propria residenza e il fatto che, con la sua elezione a pontefice massimo, una parte di essa era divenuta un edificio pubblico, ospitandovi il focolare di Vesta, di cui sua moglie Livia divenne sacerdotessa. Sempre accanto alla sua casa sul Palatino fece costruire anche un tempio ad Apollo, la sua divinità tutelare. Ma egli concentrò la sua attività edilizia soprattutto nel Foro romano, dove completò i programmi edilizi di Cesare. Restaurò poi la sede del senato ed eresse in seguito una basilica in nome di Caio e Lucio Cesari, i figli di Agrippa e Giulia prematuramente scomparsi. Costruì un nuovo Foro, Forum Augusti. Trasformò poi l’aspetto del Campo Marzio, edificandovi tra l’altro il Pantheon e il suo mausoleo, un complesso architettonico che occupava tutta la parte settentrionale del Campo Marzio. Davanti al mausoleo erano incise su pilastri di bronzo le Res Gestae, biografia di Augusto. L’originale di questa importante iscrizione è andato perduto ma possediamo ancora oggi una copia proveniente dall’odierna Ankara, che ci consente anche di sapere che il testo fu trasmesso dopo la morte di Augusto in tutte le province dell’impero. Durante il principato di Augusto, soprattutto per opera di Agrippa, furono costruiti e restaurati anche molti edifici pubblici, acquedotti, terme, teatri e ci si preoccupò dell’organizzazione di servizi importanti per l’approvvigionamento alimentare. Furono adottate disposizioni legislative e furono creati appositi servizi, man mano che le circostanze dimostravano le lacune del sistema precedente. La carestia che colpì Roma nel 22 a.C. indusse Augusto ad assumere la cura annonae, e con i propri mezzi finanziari riuscì a fronteggiare l’emergenza. Solo diversi anni dopo, 8 d.C. in seguito ad un’altra grave crisi, Augusto istituì un servizio stabile che doveva provvedere al rifornimento granario dalle province, il praefectus annonae, che disponeva di un gran potere. Alla morte di Agrippa, la cura dell’approvvigionamento idrico, il mantenimento degli edifici pubblici e sacri passò ai senatori. Dopo la guerra sociale e la legislazione cesariana tutti gli abitanti dell’Italia erano diventati cittadini romani. Le circa 400 città italiche godevano di autonomia interna, erano dotate di un proprio governo municipale e non erano soggette all’imposta fondiaria. Augusto divise l’Italia in 11 regioni per il censimento delle persone e delle proprietà, ma non vi erano funzionari amministrativi. Vi furono inoltre numerose iniziative di rinnovamento edilizio nelle città dell’Italia. L’amministrazione delle province invece, pur rimanendo essenzialmente fondata sul sistema repubblicano, vide un cambiamento di natura soprattutto politica, che rifletteva la duplicità di sfere delle competenze che si era determinata nello Stato tra princeps da un lato e senato e popolo dall’altro. Le province non pacificate, di frontiera o di recente conquista crebbero dalle iniziali cinque fino a raggiungere il numero di tredici alla fine del suo principato. Tali province venivano governate da appositi legati scelti tra ex consoli o ex pretori. I legati avevano il governo della provincia e il comando delle legioni, ma non il potere di riscuotere le tasse, la cui organizzazione era affidata a procuratori di rango equestre, che si occupavano anche del controllo dei beni fondiari imperiali, delle miniere e delle cave. Nelle altre province, quelle di competenza del popolo romano, i governatori, seguendo la prassi repubblicana, erano sempre senatori, ma in questo caso erano scelti a sorte tra i magistrati che avevano ricoperto la pretura o il consolato. Un’eccezione a questo ordinamento era costituita dall’Egitto che, dopo la vittoria su Antonio e Cleopatra, era stato assegnato a un prefetto di rango equestre assegnato da La seconda personalità a cui Augusto pensò di poter trasferire alcune delle sue prerogative fu Agrippa, il quale divorziò dalla prima moglie e sposò Giulia e ricevette l’imperium proconsolare e la potestà tribunizia. Nel 17 a.C. Augusto adottò i due figli di Giulia e Agrippa, Caio e Lucio Cesari, preparandoli ad un eventuale successione al padre, ma Agrippa morì nel 12 a.C. I due ragazzi erano ancora minorenni, Augusto si rivolse ai figli della sua terza moglie Livia: Tiberio e Druso. Tiberio dovette divorziare e sposare Giulia, ma dopo due anni di consolato si ritirò dalla vita politica andando sull’isola di Rodi. Già nel 2 d.C. Tiberio era tornato a Roma e aveva sciolto il matrimonio con Giulia, colpita da uno scandalo a causa dei suoi amanti e condannata all’esilio dal padre stesso; Augusto aveva proposto a Roma una serie di leggi moralizzatrici che non esitò ad applicare anche alla figlia. Augusto pretese allora da Tiberio che adottasse Germanico, il figlio di suo fratello Druso. Tiberio adottò germanico nel 4 d.C. e Augusto adottò contemporaneamente Tiberio. Nel 13 d.C. celebrò il trionfo sui Germani e gli venne conferito un imperium uguale a quello di Augusto. L’organizzazione della cultura: Il programma edilizio di Augusto mirava a completare i progetti di Giulio Cesare e a celebrare propagandisticamente il ritorno della tradizione repubblicana. Uno specifico programma figurativo esaltava la pacificazione e una fittizia discendenza da una progenitrice divina, Venere, e un mitico progenitore, Enea. Ma la politica culturale di Augusto non trovò espressione solo nelle arti figurative e nella trasformazione architettonica di Roma. La celebrazione della pace e della figura provvidenziale di Augusto si manifestò anche in pubbliche cerimonie, nella monetazione, nella letteratura e, in generale, nel coinvolgimento degli intellettuali nella promozione del consenso al suo programma di restaurazione morale all’interno dello Stato e di pacificazione all’esterno. Nel Res Gestae Augusto ripercorre tutte le tappe del proprio operato, illustrando in che modo abbia reso soggetto il mondo al potere del popolo romano e abbia portato pace e prosperità estendendo i confini del potere romano. Anche attraverso le opere di storici come Tito Livio possiamo intendere quali fossero i messaggi, le idee e la politica culturale dell’epoca. Sebbene del tutto fuorviante pensare a un’adesione totale degli intellettuali al programma augusteo. Dobbiamo, infatti, tener conto anche di quanto non ci è pervenuto e che ha subito un processo di cancellazione. Altri momenti importanti di esaltazione della figura di Augusto e di diffusione a Roma e nelle province dell’ideologia provvidenzialistica furono le celebrazioni di particolari ricorrenze e l’istituzione di un vero e proprio culto della sua persona. Ludi saeculares, tenuti a Roma nel 17 a.C. secondo gli antichi riti, per proclamare la rigenerazione di Roma. Per quanto riguarda la celebrazione della persona di Augusto, il suo nome era inserito nelle preghiere del collegio sacerdotale dei Salii, il suo compleanno era celebrato pubblicamente ed era prescritto che al suo Genio dovesse essere reso omaggio anche privatamente. A ciò si aggiunse, nelle province orientali, l’istituzione di un vero e proprio culto all’imperatore. In Occidente il culto di Roma era affiancato a quello di Cesare divinizzato, oppure venivano dedicati altari o templi al Genio di Augusto, ma non direttamente alla sua persona. Fa eccezione la creazione di un altare del culto di Roma e Augusto nell’attuale Lione e di altri altari in Germania. I GIULIO CLAUDI: Una dinastia? La morte di Augusto avvenne in Campania nel 14 d.C., il suo corpo fu trasportato a Roma e le ceneri furono tumulate nel monumentale mausoleo fatti costruire in Campo Marzio. Fu allora che Tiberio in senato fece presente come per lui, chiamato da Augusto a condividere l’onere del governo, sarebbe stato difficile assumere la somma dei poteri del padre e suggerì piuttosto al senato di affidare la cura dello Stato a più persone. Il senato lo spinse ad accettare i poteri e le prerogative che erano state di Augusto. Tiberio alla fine acconsentì, esprimendo l’augurio che si trattasse di un incarico temporaneo. In questo momento si rivelò l’impossibilità da parte del senato di concepire un ritorno alla Repubblica, senza la presenza di una parallela autorità di un singolo che ereditasse l’auctoritas e l’iniziativa politica di Augusto. Tra il 14 e il 68 d.C. per circa mezzo secolo il potere rimase all’interno della famiglia Giulio-Claudia, cioè di discendenti della famiglia degli Iulii cui Augusto apparteneva dal momento in cui era stato adottato da Giulio Cesare e di quella dei Claudii cioè della famiglia di Tiberio Claudio Nerone, il primo marito di Livia, ultima moglie di Augusto, la quale aveva portato nel matrimonio con il princeps i due figli avuti da Nerone, Tiberio e Druso. Alla morte di Tiberio non poté avverarsi quanto aveva previsto da Augusto, che aveva predestinato alla successione Germanico, figlio di Druso maggiore. Germanico infatti morì nel 19 d.C. e quindi la successione andò a favore di Gaio, detto Caligola, il figlio di Germanico e Agrippina. Caligola non era stato adottato da Tiberio e non aveva condiviso con lui né imperium proconsolare né potestà tribunizia. Era una designazione che si basava solo sulla linea famigliare, attingendo dal ramo della famiglia di Germanico, piuttosto che da Tiberio. Caligola discendeva per linea femminile da Augusto e per linea maschile dai Claudi. Alla morte di Caligola il potere rimase nella famiglia di Germanico, passando a un membro della generazione precedente, cioè a Claudio, fratello di Germanico, primo princeps completamente estraneo alla casa Giulia. Infine, l’ultimo esponente della dinastia fu Nerone, con cui entrò nella storia della domus princips una famiglia nobiliare diversa, quella dei Domizi. Nerone infatti era figlio di un aristocratico estraneo alla famiglia di Augusto, Cneo Domizio Enobarbo; fu erede della famiglia Claudia e Giulia solo per parte di madre, figlio di Agrippina minore (figlia di Germanico) e per adozione fu adottato da Claudio che aveva sposato la madre Agrippina. Tiberio: 14-37 d.C. Il suo governo fu sostanzialmente una positiva prosecuzione di quello augusteo. Dalle fonti in nostro possesso, di matrice senatoria tradizionalista e nostalgica della Repubblica, emerge in modo evidente uno dei problemi che si ritroverà in tutta la storia imperiale: quello dei rapporti tra principe e senato. Ma l’ostilità delle fonti, in particolare Tacito (II sec d.C.) non deve ingannare. I tratti negativi del carattere di Tiberio, oscurano il fatto fondamentale della sua volontà di rispettare le forme di governo repubblicano già valorizzate da Augusto. In particolare, il rifiuto di onori divini dimostra il suo spirito tradizionalista. Gli studi recenti, hanno messo in luce il valore di Tiberio sia come militare, sia come uomo di governo, nonché la sua attenta gestione dello Stato, sia per quanto riguarda la libertà dei magistrati a Roma, sia nel vegliare le province non venissero sfruttate dai governatori. Tiberio fu un amministratore accorto dello Stato, capace anche di fronteggiare in modo adeguato delicate congiunture economiche. Durante il suo principato ha definitivo compimento la modifica del sistema elettorale. Durante tutto il suo periodo di governo Tiberio si trovò a fronteggiare una opposizione che rivendicava l’autonomia decisionale e la libertas del senato. All’inizio del suo regno si ebbe la stabilizzazione della frontiera renana e Tiberio non proseguì ampliamenti territoriali in Germania. La morte di Germanico può essere considerata un caso di delitto politico: Tiberio per impedirgli di proseguire il suo disegno di conquiste in Germania, lo mandò in Siria, dove dovette condividere il comando dell’esercito con il proconsole Calpurnio Pisone. Tra i due insorsero gravi contrasti, così che, quando Germanico morì improvvisamente presentando sintomi di avvelenamento, si sospettò fosse stato ucciso su istigazione di Pisone. Per prevenire la condanna, il proconsole si suicidò. Morto Germanico, si aprì a Roma un contrasto politico tra Tiberio e Agrippina, che in un primo tempo riuscì a riunire intorno a sé un partito di sostenitori. Si trattava di affrontare, tra l’altro, il problema della successione, alla quale erano candidati il figlio di Tiberio, Druso minore che morì già nel 23 d.C. e uno dei tre figli di Germanico (figlio del fratello di Tiberio, Druso e Agrippina). La svolta nel regno di Tiberio si ebbe a partire dal 23 d.C., quando il prefetto del pretorio Seiano iniziò a crearsi un forte potere personale. Discendente di una famiglia di potenti cavalieri, Seiano accrebbe il suo potere concentrando le truppe pretoriane a Roma, delle città del Lazio, dove Augusto le aveva stanziare, e guadagnandosi la fiducia di Tiberio, di cui fu collaboratore efficiente e fedele. La posizione di particolare rilievo di cui godeva era dovuta al fatto che Tiberio, nel 26 d.C. aveva deciso di lasciare Roma per rifugiarsi a Capri. Probabilmente aspirò anche alla successione. Certamente gli ultimi anni del regno di Tiberio, che continuava a rimanere a Capri, non furono felici: scoppiò una grave crisi finanziaria e si acuirono i contrasti con il senato. Si aprì un periodo di terrore segnato da suicidi, condanne per lesa maestà a carico di numerosi senatori, di sostenitori di Seiano, ma anche di oppositori del regime. Agrippina si suicidò e i suoi figli maggiori vennero uccisi. Il senato riconobbe come unico erede Caligola, unico sopravvissuto dei figli di Germanico. Caligola: (37-41 d.C.) ceto economicamente più attivo in vari settori dell’economia. Potevano raggiungere forme di promozione sociale ricoprendo cariche all’interno delle associazioni professionali e dei collegi costituiti per il culto imperiale nei municipi. Un altro gruppo molto rilevante all’interno della società romana eri costituito dai provinciali liberi, una categoria molto articolata, che comprendeva gli abitanti delle poleis greche così come quelli dei villaggi dei Britanni o i nomadi del deserto. Una volta ottenuta la cittadinanza, anche per i provinciali il passo successivo di promozione sociale era l’accesso ai due ceti dirigenti, l’ordo senatorius e il ceto equestre. L’intervento dell’imperatore era di norma indispensabile per dare l’avvio all’integrazione nel senato e l’accesso alla carriera equestre. I cittadini romani delle province, in genere appartenenti ai ceti dirigenti delle città, potevano infatti raggiungere importanti posizioni nella carriera equestre grazie al patronato e alle raccomandazioni di ufficiali superiori che segnalavano all’imperatore i meriti e i talenti dei loro sottoposti. L’esercito fu dunque uno dei fattori più importanti di promozione sociale nel corso dell’età imperiale. Nerone 54-68 d.C. Il principato di Nerone fu impostato su premesse del tutto diverse da quelle augustee. Il mutamento nella concezione del potere del princeps è evidente già nel De Clementia, un’opera composta nel 55 d.C. dal filosofo e precettore di Nerone, Lucio Anneo Seneca. Si tratta di un manifesto teorico e di un programma di governo per Nerone: l’ideologia augustea, che sottolineava il permanere della responsabilità di governo a popolo e senato, appare completamente superata; da Augusto in poi infatti, secondo Seneca, la res publica è nelle mani di una sola personalità, il potere e la ricchezza sono assoluti e dono dagli dei: implicano per il principe la responsabilità di porre virtus e clementia in base alle proprie azioni. In un primo tempo Nerone assecondò l’autorevole influenza che esercitavano su di lui Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro cercando una forma di collaborazione con il senato, ma se ne distaccò a favore di un’idea teocratica e assoluta del potere imperiale. La vena artistica e gli interessi culturali e gli interessi culturali che lo portavano ad essere un grande ammiratore della Grecia, dell’Oriente e dell’Egitto, trasformarono in senso assolutistico e monarchico il potere imperiale. Nerone, capace di compiere gesti anche spettacolarmente propagandistici, come la concessione di esenzioni fiscali alla Grecia, fu sempre considerato un imperatore vicino alla plebe. Nerone si macchiò comunque di gravi delitti. Dopo aver fatto assassinare il fratello Britannico, nel 59 d.C. fece uccidere anche la madre Agrippina. Nel 62 d.C. divorziò da Ottavia e sposò Poppea. Il dispotismo di Nerone, che culminò nell’incendio di Roma del 64 d.C., di cui furono incolpati i cristiani e che fece tante vittime anche tra i senatori, propiziò le condizioni per una sua eliminazione. La situazione che egli dovette affrontare dopo l’incendio fu molto grave, i costi per la ricostruzione furono tanto alti da esacerbare alcune situazioni di tensione sia con il senato e la plebe di Roma sia nelle province e da provocare una forte perdita di consenso. Nerone cercò di rimediare alla crisi finanziaria con un’importante riforma monetale. Al 64 d.C. risale infatti un provvedimento di grande rilevanza, la riduzione di peso e di fino della moneta d’argento, il denario. Tale provvedimento si spiega forse con la necessità di moneta legata al programma edilizio che Nerone doveva finanziare, a cominciare dalla costruzione della sua residenza, la domus aurea. Nelle province, in particolare in Britannia, già nel 60 d.C. vi era stata una grave ribellione delle popolazioni locali che ebbe tra le varie cause anche il duro comportamento dei procuratori imperiali impegnati nelle esazioni fiscali. Per rimpinguare le casse dello Stato Nerone avrebbe inoltre utilizzato lo strumento dei processi e delle confische, rendendosi sempre più inviso alla nobiltà senatoria, tanto che nel 65 d.C. fu minacciato da una grave congiura <<congiura dei Pisoni>>-→ Pisone, uno dei cospiratori. Seneca e Rufo, prefetto del pretorio furono tra le principali vittime, ma anche nell’anno successivo Nerone proseguì nell’eliminazione degli avversari, tra cui molti esponenti della nobiltà senatoria di spiriti repubblicani accusati di tramare contro il princeps. Assicurata la situazione a Roma, Nerone partì per la Grecia, dove intendeva compiere una tournee artistica e agonistica. In Giudea era scoppiata una gravissima ribellione. La ribellione fu presto domata, ma era solo l’inizio di una catena di sollevazioni. Anche i pretoriani abbandonarono Nerone e il senato lo dichiarò nemico pubblico, riconoscendo come nuovo princeps Galba. A Nerone non restava altro che il suicidio. La sua fine segna anche quella della dinastia giulio-claudia. La mancanza di una soluzione preordinata per la successione fu la causa di una grave crisi che fece rivivere per breve tempo all’impero lo spettro delle guerre civili. L’anno dei quattro imperatori e i Flavi: Si erano così create le condizioni per una nuova guerra civile, che vide contrapporsi senatori, governatori di provincia o comandanti militari che, forti del sostegno dei loro eserciti, assunsero il titolo di imperatore. L’esito finale, con la proclamazione di Vespasiano, mostrò come il principato potesse essere rivestito anche da un uomo di origini modeste, entrato solo recentemente nell’ordine senatorio. La crisi del 69d.C., con quattro imperatori : Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano, esponenti il primo dell’aristocrazia senatoria, il secondo dei pretoriani e gli ultimi due dell’esercito, che si combatterono l’uno contro l’altro, mostra come l’asse dell’impero si fosse spostato lontano da Roma e come le legioni fossero in grado di imporre il loro volere. E’ chiaro che l’impero non poteva più essere appannaggio di una sola famiglia, ma soluzioni ispirate al tradizionalismo senatorio non si rivelano realistiche. Discorso che Tacito immagina essere di Galba al momento dell’adozione di Pisone: l’adozione sceglierà i migliori, nella scelta dell’adozione vi è come aiuto il pubblico consenso. Tu dovrai governare uomini che non sopportano né una totale servitù, né una totale libertà. Servio Sulpicio Galba: Era un anziano senatore, governatore della Spagna Tarraconense. Alla notizia della ribellione delle truppe galliche, i suoi soldati lo proclamarono Cesare ma egli rifiutò il titolo imperiale ritenendo che i militari non avessero alcun diritto a conferirlo. Ciò nonostante si diede da fare per acquisire il sostegno di altri oppositori di Nerone e sopratutto ottenere l’appoggio dei pretoriani. Galba fu poi riconosciuto imperatore e accettò il titolo da una delegazione di senatori,che lo incontrò nel suo viaggio di Ritorno a Roma. Galba non seppe tuttavia guadagnarsi la popolarità e gli appoggi necessari per mantenere il potere: si rese impopolare alla plebe e ai soldati per i tagli alle spese con cui cercò di rimediare alla crisi finanziaria creatasi sotto Nerone. Inoltre decise di adottare come suo successore Lucio Calpurnio Pisone, un esponente dell’ordine senatorio, la cui nomina era sgradita ai soldati e soprattutto a Otone che lo aveva aiutato nella sua ascesa al potere. Marco Salvio Otone: Amico di infanzia di Nerone e primo marito di Poppea, era popolare soprattutto fra i pretoriani e l’ordine equestre . Dopo che i pretoriani ebbero linciato Galba nel Foro fu proclamato imperatore il 15 gennaio del 69 d.C. Contemporaneamente però le legioni sul Reno non riconoscendo la sua autorità, proclamarono imperatore il proprio comandante; il legato della Germania superiore Aulo Vitellio. Aulo Vitellio: Era un senatore di rango consolare che aveva rivestito incarichi importanti sotto tutti i Giulio-Claudi: ebbe presto il sostegno degli eserciti della Germania inferiore, della Rezia, della Gallia e della Spagna. I suoi legati riuscirono a raggiungere l’Italia attraverso le Alpi prima della fine dell’inverno e sconfissero Otone nel 69 d.C. prima che le legioni danubiane potessero in suo sostegno. Vitellio, riconosciuto imperatore mentre si trovava ancora in Gallia ebbe grandi difficoltà a frenare i soldati di Otone e anche a controllare la disciplina dei propri. I pretoriani furono congedati in gran numero e rimpiazzati con soldati provenienti dalle legioni renane. Fu a questo punto che le legioni orientali e quelle danubiane si ribellarono a Vitellio proclamando come imperatore Vespasiano. Tito Flavio Vespasiano: Apparteneva a una famiglia italica di Rieti. Egli era entrato in senato solo sotto Nerone, che ne riconosceva l’abilità militare e allo stesso tempo non aveva da temere della sua fedeltà. Nel 69 d.C. il prefetto d’Egitto organizzò la sua proclamazione a imperatore da parte delle truppe stazionate ad Alessandria. Seguì l’acclamazione degli eserciti presenti in Giudea, dove si trovava, poi dalle regioni della Siria, infine da quelle danubiane. Mentre Vespasiano si recava in Egitto per rendersi arbitro del rifornimento granaio di Roma, le legioni danubiane e quelle siriane marciarono verso l’Italia e sconfissero i Vitelliani. La lotta tra Vitellio e i sostenitori di Vespasiano continuò anche a Roma con scontri violenti che provocarono l’incendio del Campidoglio, finché Vitellio non fu ucciso. Mentre si trovava ancora in Egitto Vitellio fu riconosciuto imperatore dal senato. La dinastia Flavia 69-96 d.C. Con Vespasiano inizia la dinastia dei Flavi,che comprende il periodo di impero di Vespasiano stesso e dei suoi due figli Tito e Domiziano. Il fatto di avere due figli e di Decebalo non dovette cedere nessuna parte del suo territorio ma concludere un foedus (trattato), in cui accettava di dipendere dall’Impero romano, ricevendo in cambio denaro. Durante la seconda campagna, Saturnino, governatore della Germania Superiore, si rivoltò e la propria rivolta fu domata dal legato della Germania Inferiore, ma Domiziano, prima di procedere contro gli Iazigi che minacciavano la Pannonia, si recò in Germania per punire severamente i rivoltosi, usando ogni mezzo per identificare i colpevoli. La rivolta di Saturnino ebbe pesanti ripercussioni sulla politica di Domiziano, che, sentendosi minacciato, inaugurò un periodo di persecuzione ed eliminazione di persone di persone sospettate di tramare contro di lui o semplicemente in posizione tale da costituire un rischio potenziale. Lo stile autocratico costò chiaro a Domiziano. Dopo una serie di processi intentati contro i senatori e contro presunti simpatizzanti delle religioni ebraica e cristiana, Domiziano nel 96 d.C. cadde vittima di una congiura. Il senato dopo la sua morte giunse a proclamarne la damnatio memoriae, decretando che fossero abbattute tutte le sue statue, cancellato il suo nome dalle iscrizioni e distrutto ogni suo ricordo. Di conseguenza la storiografia senatoria ci lascia di lui l’immagine di un sovrano dispotico e un pessimo imperatore. Il sorgere del cristianesimo: Il cristianesimo, che nasce dall’ebraismo, viene formandosi come religione strutturata nel corso del I e del II secolo, scaturita dalla predicazione del suo fondatore, Gesù Cristo, originario di Nazareth, in Galilea, al tempo di Augusto e morto in croce sotto Tiberio, riconosciuto dai cristiani professanti come il figlio del Dio creatore, venuto in terra a portare un messaggio universale di salvezza. Le prime comunità cristiane sorsero, infatti, in seguito alla predicazione di Gesù, alla diffusione del suo messaggio (l’ evangelio, ‘la buona novella’) e dell’annuncio della sua risurrezione dai morti, da parte degli apostoli. Il cristianesimo primitivo iniziò come un movimento all’interno del giudaismo, in un periodo in cui gli Ebrei già da tempo si trovavano sotto la dominazione straniera. Tra i diversi gruppi religiosi nei quali il giudaismo era articolato tra la fine del I secolo a.C. e l’inizio del I secolo d.C. si distinguevano gli aristocratici e conservatori (sadducei) e i più popolari e liberali (farisei). A queste ‘sette’ venne poi ad aggiungersi la singolare comunità degli esseni, un gruppo che conduceva un’esistenza rigorosa, vivendo isolato dal resto della società ebraica; si deve a questa setta la produzione di quei testi sacri di cui ci resta testimonianza nei famosi manoscritti noti come <<rotoli del Mar Morto>>, scoperti a Qumran e nel deserto di Giuda verso la metà del 1900. Le condizioni sociali e politiche dell’epoca non potevano riservare un grande futuro alle prospettive religiose dei sadducei e nemmeno degli zeloti, un partito di aggressivi rivoluzionari che cercavano l’indipendenza da Roma, i cui tentativi di autonomia non fecero altro che accelerare l’annientamento della Giudea in occasione delle due grandi rivolte ebraiche contro i Romani degli anni 66-70 d.C. con la caduta del Tempio di Gerusalemme e del 132-135 d.C., quando fu rasa al suolo Gerusalemme. Per la maggior parte degli Ebrei si trattava dunque di decidere se scegliere i farisei o il cristianesimo. Mentre i primi si dedicavano alla meticolosa osservanza della Legge di Mosè, il secondo proponeva la religione che aveva il suo fondamento nella fede in Cristo come valida per tutta l’umanità. Il piccolo gruppo dei testimoni e seguaci dell’insegnamento di Gesù si dedicò presto alla predicazione della sua parola e all’annuncio della sua morte e resurrezione tra le comunità ebraiche in Palestina e tra quelle presenti nelle grandi città dell’Impero: ad Antiochia, Efeso, Alessandria, Cartagine, Roma e nelle regioni orientali, dove il dominio romano cedeva a quello partico. Nel I secolo d.C. la figura che si impone è quella di Paolo di Tarso. Saulo era stato uno zelante fariseo molto impegnato nella persecuzione della primitiva ecclesia, comunità di fedeli. Paolo si convertì alla fede cristiana proprio mentre stava intraprendendo una di queste missioni di persecuzione, divenendo la figura della necessità di diffondere il Vangelo tra i non Ebrei, i <<gentili>>. Delle sue lettere pastorali, inviate alle comunità di varie città orientali e di Roma, emerge la consapevolezza che l’idea di una missione universale della Chiesa implicava una rottura radicale con il conservatorismo giudaico. Le comunità cristiane si organizzarono in un primo tempo in forme diverse nelle singole città, ma vi sono poche notizie sull’assetto primitivo del culto. Dall’inizio del II secolo prevalse la struttura di comunità guidate da un singolo responsabile detto episcopus. L’autorità romana imperiale aveva affrontato la questione giudaica, senza distinguere tra i vari momenti, considerandola un problema di ‘nazionalità’ piuttosto che di religione. Augusto aveva infatti garantito a tutte le comunità ebraiche dell’Impero la possibilità di conservare i propri costumi ancestrali, di praticare il proprio culto e di mantenere i legami con il centro di riferimento che era il Tempio di Gerusalemme. In questo modo le comunità giudaiche nelle città dell’Impero , a partire da Roma, non erano assimilate al resto della cittadinanza, ma avevano un profilo ben distinto. In diverse occasioni le comunità ebraiche furono avvertite come elemento estraneo. Sotto Tiberio gli Ebrei furono espulsi da Roma insieme ai seguaci dei culti egizi, perché i culti stranieri erano visti in contrasto con il mos maiorum. Anche Caligola e Claudio espulsero gli Ebrei da Roma. A partire da Nerone diviene evidente il contrasto tra l’autorità imperiale e la nuova religione cristiana. Anche l’opinione pubblica riteneva che i seguaci della nuova ‘setta’ fossero dediti a pratiche mostruose e riprovevoli. Nerone approfittò di questo clima di sospetto per incolpare i cristiani del grande incendio di Roma del 64 d.C. I membri delle comunità vennero accusati di aver appiccato il fuoco e si iniziò contro di loro una cruenta persecuzione in cui trovarono la morte di apostoli Pietro e Paolo. Gli ultimi anni di Nerone videro anche la rivolta degli Ebrei in Palestina. Dopo che Vespasiano e Tito ebbero stroncato la rivolta, distrutti il Tempio di Gerusalemme e annientato gli ultimi focolai di resistenza, non furono poste limitazioni al culto che continuò sia in Palestina che nella diaspora. Ebrei e cristiani subirono invece l’ostilità di Domiziano, che per attuare una politica di legittimazione religiosa colle promuovere la figura del principe come rappresentante di Giove sulla terra e legarla ad un’idea di elezione divina. Egli forse utilizzò a fini politici l’accusa di ateismo, per fronteggiare a Roma l’opposizione che serpeggiava anche tra i senatori e i membri della corte colpiti da lesa maestà. Nel corso del II secolo il cristianesimo mise radici in tutto l’Impero, diventando un fenomeno che non poteva essere ignorato dall’autorità. Nonostante l’atteggiamento moderato degli imperatori Antonini, le denunce, i processi e le persecuzioni contro i singoli o comunità continuarono → anche sotto Marco Aurelio. Allo stesso tempo i cristiani iniziarono a registrare e far circolare le testimonianze del sacrificio delle vite dei martiri, contribuendo a diffondere e consolidare la fede cristiana. Il II secolo vide inoltre la nascita di scritti in difesa del cristianesimo, con cui gli intellettuali cristiani, Tertulliano, miravano e accettare la propria fede all’opinione pubblica e ai circoli culturali dell’Impero. IL II SECOLO: Il II secolo d.C. è tradizionalmente considerato come l’età più prospera dell’impero romano che, sicuro nei suoi confini, potè godere di un notevole sviluppo economico e culturale. Questa visione ottimistica, trova nelle fonti una sostanziale conferma. Innanzitutto la rinnovata stabilità conseguita con il regime successorio instauratosi a partire da Nerva, per cui al consanguineo è preferito colui che dà le maggiori garanzie di saper meglio governare, contribuì alla ordinata amministrazione dell’impero. A questa soluzione non si era arrivati in modo indolore. L’adozione di Traiano da parte di Nerva avvenne in uno stato di grave necessità, quando la dichiarata fedeltà dei pretoriani a Domiziano sembrava far sì che nel 97 d.C. si ripetessero per Roma i giorni delle guerre civili nel 69 d.C. Nerva: 96-98 d.C. Il breve principato di Nerva vide la restaurazione delle prerogative del senato e un tentativo di riassetto degli equilibri istituzionali interni. La prima preoccupazione di Nerva fu quella di controllare le reazioni all’uccisione di Domiziano e di scongiurare il pericolo dell’anarchia. Fece in modo di ottenere i giuramenti di fedeltà delle truppe provinciali e si preoccupò di abolire le misure più impopolari di Domiziano, richiamando gli esiliati e avvallando in senato la damnatio memoriae del tiranno. Garantito l’ordine interno Nerva si volse a un’opera di politica finanziaria e sociale a favore di Roma e dell’Italia: fu votata una legge agraria per assegnare lotti di terreno ai cittadini nullatenenti e probabilmente fu durante lo stesso regno di Nerva che venne varato il programma delle cosiddette <<istituzioni alimentari>>. Tale programma consisteva in prestiti concessi dallo Stato agli agricoltori, che ne beneficiavano accettando di ipotecare i propri terreni. L’interesse dell’ipoteca veniva versato ai municipi locali o ad appositi funzionari e serviva per sostenere i bambini bisognosi: si realizzava sia un incentivo al miglioramento della produttività dei fondi sia un sostegno alle famiglie per contrastare la tendenza in atto al calo demografico. Sempre per alleggerire l’onere finanziario delle comunità dell’Italia, Nerva trasferì alla cassa imperiale il costo del cursus publicus, del mantenimento delle strade e delle stazioni di cambio per i messaggeri imperiali. Nel 97 d.C. si manifestarono tuttavia alcuni sintomi di crisi che minacciarono questa politica di buon governo e di restaurazione delle prerogative senatorie. Si trattava sia di problemi economici che politico militari. Sul versante politico i pretoriani, che in un primo momento erano stati tranquilli, chiesero la punizione degli assassini di Domiziano, Nerva acconsentì, ma in questo modo puniva coloro che l’avevano portato al potere, compromettendo la propria immagine e il proprio prestigio. L’unico sistema per impedire una nuova disgregazione dell’Impero era quello di designare un successore che fosse in grado di affermarsi anche militarmente contro i pretoriani. Fu così che Nerva adottò e associò immediatamente al potere il senatore di origine spagnola M.Ulpio Traiano, in quel momento governatore della Germania superiore, uomo di grande esperienza politica e militare. Nerva visse ancora solo tre mesi e nel gennaio del 98 d.C., alla sua morte, Traiano gli succedette come imperatore. Traiano: 98-117 Traiano ricevette la notizia della sua adozione da parte di Nerva mentre svolgeva la funzione di governatore di provincia in Germania meridionale. divinizzare il suo predecessore; fu inoltre, soprattutto un coscienzioso e parsimonioso amministratore. Durante il regno di Antonino non furono recate minacce alla sicurezza dell’Impero. Solo in Mauretania ci fu una ribellione. Per sua volontà il Vallo di Adriano in Britannia fu avanzato nella Scozia meridionale (vallo di Antonino) Lo statuto delle città: Nell’età di Antonino Pio l’impero raggiunse l’apogeo del proprio sviluppo e del consenso presso le èlites delle province e delle città. L’orazione a Roma di Elio Aristide sottolinea l’importanza di due elementi che caratterizzavano la natura dell’Impero romano: 1-il processo di integrazione dei ceti dirigenti provinciali attraverso il conferimento della cittadinanza romana; 2-il valore attribuito alla vita cittadina nella quale la cultura greca trovava la più compiuta espressione. La città, con le sue strutture e l’agio che offriva, rappresentava nel mondo antico il segno della civiltà rispetto alla rozzezza e alla barbarie, ovunque ci fossero delle istituzioni cittadine i Romani vi si affidarono per controllo amministrativo; dove non esisteva questa forma associativa della vita pubblica, essi crearono comunità civiche attraverso un’opera di colonizzazione. Nell’Impero romano vi era dunque una grande varietà di tipologie cittadine e soprattutto una grande diversità di statuti. Civitates in Occidente e poleis in Oriente erano organizzate secondo tre tipologie fondamentali, a seconda del loro grado di integrazione nello Stato romano: 1.Le città peregrine: preesistenti alla conquista e alla riorganizzazione all’interno dell’Impero. All’interno dim questo gruppo si distinguono in base al loro status giuridico nei confronti di Roma: a) città stipendiarie che, sottomesse a Roma, pagano un tributo. b)città libere, con diritti speciali concessi unilateralmente da Roma. c) città libere federate, sono le città libere che hanno concluso un trattato con Roma su un piede di eguaglianza. 2. I municipi: città a cui Roma ha concesso di elevare il suo status precedente di città peregrina e ai cui abitanti è accordato o il diritto latino o quello romano. 3. Le colonie: in origine città di nuova fondazione con apporto di coloni che godono della cittadinanza romana su terre sottratte a città o a popoli vinti. La colonia adotta il pieno diritto romano ed è organizzata a immagine di Roma. A partire da Claudio, le città potevano ricevere lo status di colonia anche come privilegio onorario, senza che ci fosse un effettivo trasferimento nelle città di nuovi coloni, ma come riconoscimento del grado di romanizzazione raggiunto dalla comunità. Si generava così una gerarchia tra le città tale da favorire lo spirito di emulazione, dato che le città peregrine aspiravano a diventare municipi di diritto latino e questi ultimi desideravano ottenere il diritto romano. L’evoluzione dello statuto delle singole comunità comportava, attraverso l’estensione del diritto latino o della cittadinanza romana, l’integrazione dei provinciali dell’Impero. Le città costituivano inoltre il punto di rifermento delle attività economiche e i nuclei della vita culturale, anche se bisogna considerare che l’evoluzione era diversa da provincia a provincia. . Nell’Oriente ellenistico l’esperienza cittadina si basava sulla tradizione della polis, mentre in Spagna, Africa e Sicilia le tradizioni greche si mescolavano a quelle fenicie e puniche. Nell’Europa continentale alcune zone potevano vantare di tradizioni celtiche, ma altrove, per esempio in Germania, non vi era alcuna cultura di tipo urbano. L’assimilazione di aspetti del diritto e il riconoscimento della autorità e dell’amministrazione romana non significava un livellamento di tutti gli aspetti sociali e culturali. Le città fungevano infatti da raccordo tra Roma e le disperse realtà locali dell’Impero, dove esisteva una varietà di tradizioni, istruzioni, attività produttive, lingue, religioni. Roma, diffondendo la cultura urbana e promuovendo la collaborazione e l’ascesa economica e sociale delle élites, perno della struttura cittadina, si assicurava in primo luogo il controllo dell’ordine e della stabilità su tutto l’Impero e sulle popolazioni comprese nel suo sistema di potere. Marco Aurelio 161-180 d.C.: Marco Aurelio succedette ad Antonino secondo quanto era stato preordinato. Non sembra invece che fosse stato previsto che, salito al trono, dividesse il potere con il fratello adottivo Lucio Vero. Si tratta del primo caso di ‘doppio Principato’ nella storia imperiale romana, vale a dire della piena condivisione collegiale del potere da parte di due imperatori, posti su di un piano di perfetta uguaglianza. All’inizio del regno di Marco si riaprì la questione orientale con il potente vicino partico. La guerra, condotta da Vero, si concluse vittoriosamente nel 166 d.C., ma fu causa indiretta della crisi che travagliò l’Impero negli anni successivi. Infatti l’esercito tornato dall’Oriente portò con sé la peste, che causò lutti e devastazioni in molte regioni con gravi conseguenze demografiche ed economiche. Inoltre lo sguarnimento della frontiera settentrionale creò le condizioni perché i barbari del Nord, soprattutto Marcommani e Quadi, si facessero pericolosi. Superato il Danubio essi invasero la Pannonia, la Rezia e il Norico e giunsero persino a minacciare l’Italia, arrivando ad assediare Aquileia. Quindi Marco Aurelio e Lucio Vero furono impegnati per molto tempo nella difesa della frontiera danubiana e crearono la ‘difesa avanzata dell’Italia e delle Alpi’. Morto Lucio Vero 169 d.C., Marco Aurelio riuscì a ristabilire la situazione preesistente e a respingere i barbari a Nord del Danubio solo nel 175 d.C.-→ imprese illustrate su fregi in piazza della Colonna a Roma. Un sintomo di malessere che l’impero stava conoscendo è dato anche dalla rivolta del governatore di Siria Avido Cassio, che si autoproclamò imperatore, ma fu ucciso dalle sue stesse truppe. Marco Aurelio è passato alla storia come l’imperatore filosofo, con un’alta concezione del proprio dovere verso i suoi sudditi. Con lui si ritorna alla pratica della successione e si interrompe quella dell’adozione. Durante il regno di Marco Aurelio nel 177 d.C. avvenne a Lione un episodio di cruenta persecuzione contro i cristiani ‘Martiri di Lione’. Commodo 180-192 d.C. Commodo divenne imperatore a soli 19 anni e si dimostrò la perfetta antitesi del padre. Il suo primo atto fu quello di concludere definitivamente la pace con le popolazioni che premevano sul Danubio, rinunciando al progetto del padre di controllare anche regioni a nord del fiume. Le sue inclinazioni dispotiche e la sua stravaganza determinarono la rottura con il senato di cui egli perseguitò numerosi membri. Dal 182 al 185 d.C. il governo fu di fatto in mano al prefetto del pretorio Tigidio Perenne. Quando questi fu ucciso, il suo ruolo fu preso da un liberto, Cleandro che rappresentava il nuovo potere di palazzo rispetto allo Stato e conseguentemente approfittò del disinteresse di Commodo per le istituzioni e dell’arbitrio con cui poteva esercitare il potere per vendere i titoli di console e altre magistrature, per promuovere persino dei liberti al senato e per rovesciare le decisioni dei tribunali in cambio di denaro. La necessità di rimpinguare le casse dell’imperatore, fu alla base di processi di tradimento con conseguente confisca dei beni di illustri senatori e cavalieri. Furono sospese inoltre le somme per i sussidi delle istituzioni alimentari e per i donativi ai soldati. Una grave carestia,che colpì Roma nel 190 d.C., fece cadere il potere di Cleandro. Tra il 190 e la sua morte, l’imperatore lasciò il governo in mano ad un cortigiano e ad un prefetto del pretorio, che completarono il dissesto delle finanze e ordirono la congiura che mise fine al regime nel 192 d.C. Commodo non dimostrò cura assidua per le province come i suoi successori, tuttavia sotto il suo principato vi furono importanti fenomeni di integrazione della cultura principale,con l’accoglimento di molte divinità straniere, che entrarono alla pari nel Pantheon romano. Questo suo atteggiamento contrario alla tradizione augustea e romana fu un ulteriore elemento di dissenso del senato nei suoi confronti. La tradizione filosenatoria che giudicava gli imperatori sulla base dell’ideale di Augusto, dipinse dunque Commodo come il maggiore dei tiranni, sprezzante nei confronti del senato e di Roma, propugnatore di un regime sangunario, tanto che alla sua morte la sua memoria fu condannata e il suo nome cancellato da tutti i monumenti. L’economia romana in età imperiale: Uno dei fattori che caratterizzano in modo stabile la storia economica dell’Impero romano è rappresentato dall’eccezionale fabbisogno alimentare di Roma, <<megalopoli>>. Questo dato punto di partenza obbligato per qualsiasi riflessione sugli sviluppi dell’agricoltura italica in età imperiale. Nessuna circolazione di prodotti nel Mediterraneo antico è stata più rilevante, qualitativamente e quantitativamente, di quella determinata dal servizio annonario per la capitale. La gestione del complesso dei servizi finalizzati al vettovagliamento di Roma era affidata a una magistratura apposita, la prefettura dell’annona, riservata a un personale di rango equestre. <<Annona>> significa propriamente il rifornimento e la conservazione di viveri essenziali necessari alla sussistenza della città, in un primo tempo soprattutto di grano e successivamente pane, olio di oliva, vino, carne di maiale. Il servizio annonario coinvolgeva nelle sue disposizioni varie province e comportava un regolare afflusso di merci dal mare. E’ opportuno prescindere dalla distinzione tra consumi di base e consumi di lusso e considerare, piuttosto, la vasta gamma dei beni di cui vi era necessità in una città antica tanto popolata. Una domanda molto forte era alla base di un commercio su larga scala che necessariamente doveva sollecitare la produzione provinciale.