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Tacito: Vita e Opere di Cornelio Tacito, Appunti di Latino

Informazioni sulla vita di cornelio tacito, uno dei massimi storici della letteratura latina, e descrive le sue opere principali, tra cui agricola, germania, historiae e annales. Vengono inoltre analizzate le tematiche e le idee esposte nei suoi scritti, come la celebrazione della virtù, la critica del principato di domiziano e la visione pessimistica dell'uomo e della storia.

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 23/05/2024

Isabella_Santucci13
Isabella_Santucci13 🇮🇹

4.5

(2)

10 documenti

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Scarica Tacito: Vita e Opere di Cornelio Tacito e più Appunti in PDF di Latino solo su Docsity! TACITO Le notizie che possediamo sulla vita di Cornelio Tacito sono assai scarse, perlopiù ricavate da qualche raro passo della sua stessa opera o dagli accenni contenuti nelle lettere dell'amico Plinio il Giovane. Il praenomen è incerto, come pure i luoghi e le date di nascita e di morte. Si è però propensi a ritenere che fosse originario delle Gallie. Sulla base di una lettera di Plinio il Giovane, la data di nascita è stata collocata intorno agli anni 55-57. Tacito compì il tradizionale corso degli studi che in Roma veniva seguito dai giovani destinati ai pubblici honores, cioè alla carriera politica. La famiglia era certo agiata e ben introdotta nella vita della capitale. Probabilmente anche grazie all'appoggio del suocero, Giulio Agricola, Tacito potè iniziare dopo il 78 il cursus honorum ed entrare a far parte del Senato romano. Durante gli ultimi anni di Domiziano si ritirò dall'attività pubblica, che riprese solo nel 97 o 98, quando fu consul suffectus sotto Nerva. Considerato da sempre, insieme a Livio, il massimo storico della letteratura Latina, Tacito è autore di due brevi monografie (Agricola e Germania) pubblicate entrambe nel 98, e di due vaste opere annalistiche (Historiae e Annales), giunte gravemente mutile, nelle quali si narravano gli eventi del Principato dalla morte di Augusto a quella di Domiziano (14-96 d.C.). Non pervenute sono invece le orazioni. Dalle testimonianze pliniane apprendiamo che l'eloquenza di Tacito si imponeva per la sua nobile, maestosa solennità. Sul tema dell'oratoria e della sua decadenza è centrato il Dialogus de oratoribus, da secoli oggetto di discussione per quel che riguarda sia l'attribuzione a Tacito (da alcuni studiosi tuttora negata) sia la data di composizione (taluni la considerano un'opera giovanile, altri di poco posteriore alle due monografie). Il dialogus de oratoribus L’attribuzione a Tacito del Dialogus è stata messa in dubbio fin dal XVI secolo: lo stile, palesemente improntato al modello neo-ciceroniano propugnato da Quintiliano, appariva troppo distante da quello aspro, irregolare e asimmetrico delle opere storiche tacitiane. Oggi l'attribuzione viene generalmente accettata: le perplessità sorte in merito allo stile vengono superate inquadrando l'opera entro i confini del genere (il trattato di argomento retorico in forma dialogica), vincolato a un ben preciso codice espressivo e a un modello fondamentale (Cicerone). Continua invece a costituire un problema la data di composizione: alcuni studiosi la collocano intorno all'80, cioè nel periodo in cui il dialogo viene espressamente ambientato (addebitando in tal caso all'età giovanile le scelte stilistiche classicheggianti); altri la spostano al primo decennio del nuovo secolo, basandosi sulla dedica a Fabio Giusto, console nel 102. L'autore, seguendo la tradizione dei dialoghi ciceroniani di argomento filosofico e retorico, afferma di riferire una conversazione cui egli, ancor molto giovane, aveva assistito nella casa di Curiazio Materno, oratore e poeta tragico, correndo il sesto anno del Principato di vespasiano (74-75 d.C.). Interlocutori del dialogo sono, oltre allo stesso Materno, i maggiori oratori dell'epoca: Marco Apro, Giulio Secondo, Vipstano Messalla. Dapprima Apro rimprovera Materno di tralasciare l'attività più nobile, piacevole e proficua, cioè l'eloquenza, per dedicarsi alla poesia, che fra i tanti svantaggi non solo comprende il pericolo di «offendere le orecchie dei potenti», ma anche quello di costringere i suoi cultori ad una vita solitaria e appartata. Materno replica con un elogio della poesia: essa sola favorisce la vera libertà dello spirito e concede di trascorrere un'esistenza serena, «lontano dalle inquietudini e dagli affanni» che l'attività forense inevitabilmente comporta. Sopraggiunge Messalla, che sposta la questione sulle cause dell'attuale decadenza dell'oratoria. Apro nega che l'eloquenza moderna sia inferiore a quella degli antichi. Messalla afferma invece la superiorità degli oratori del passato, additando le cause dell'involuzione nell'abbandono dei sistemi educativi di un tempo e nell'incompetenza dei maestri. Segue l'intervento conclusivo di Curiazio Materno, il quale individua le vere cause, a suo dire politiche, della scomparsa della grande eloquenza: quest'ultima non può fiorire se non in tempi di libertà politica, libertà che d'altronde porta con sé, inevitabilmente, la licenza e il disordine e anche il sangue delle discordie civili. In uno stato, viceversa, tranquillo e bene ordinato, quale può garantire soltanto l'istituzione del principato, i cittadini godono i vantaggi della pace: ma la fiamma dell’eloquenza non può far altro che spegnersi, per mancanza di alimento. Le tesi di Curiazio Materno coincidono con quelle esposte da Tacito nelle opere storiche, e rappresentano con ogni evidenza il centro ideologico del dialogo. L'autore accetta la realtà del principato, riconoscendone l'inevitabilità di fronte alla degenerazione dell'antica libertas in licentia; d’altra parte, non nasconde la sua profonda ammirazione per gli uomini, le tradizioni e i valori spirituali della libera repubblica, pur consapevole di guardare a un passato che non potrà mai più ritornare. Tuttavia, come Tacito nell'Agricola, l'autore del Dialogus non rinuncia a delineare un ideale di vita che consenta al magnus vir di salvaguardare la propria dignità e libertà spirituale anche in tempi di servilismo e di adulazione. Viva e attuale, appare l'esigenza di trovare un equilibrio fra gli antichi mores, patrimonio ideale del ceto senatorio, e le nuove forme del potere. L’Agricola Crediamo che l'Agricola fosse concluso entro il 97, negli ultimi mesi dell'impero di Nerva, e pubblicato l'anno successivo. Dopo un proemio di capitale importanza, l'autore rievoca brevemente le origini, la formazione e la carriera del protagonista fino al momento in cui egli assume la carica di governatore della Britannia nel 78 d.C. Si apre un excursus a carattere geografico ed etnografico sull'isola e i suoi abitanti e sulla conquista e la dominazione romana in Britannia. La parte più cospicua dell'opera è dedicata all'attività di Agricola durante i 7 anni della sua permanenza in Britannia. Particolare rilievo viene dato allo scontro con la fiera e valorosa popolazione dei Calèdoni. Ad interrompere l'opera di Agricola viene il richiamo del princeps Domiziano, invidioso dei successi del suo generale. Di ritorno nella capitale il protagonista si ritira a vita privata e rinuncia al proconsolato da Asia cui aveva diritto. La morte, prematura quanto sospetta, lo coglie infine nell'agosto del 93. L'opera non si lascia facilmente inquadrare entro gli schemi di un unico genere letterario: alcuni la considerano una biografia encomiastica, altri una laudatio funebris, altri ancora un libello politico. Non mancano anche elementi tipici della monografia storica.  Tratti caratteristici dell'orazione funebre sono presenti nell'esordio e nella parte conclusiva dell'opera: soprattutto l'epilogo è strutturato come una vera e propria commemorazione del defunto.  Dice che ai suoi tempi sono noncuranti delle glorie ma ogni volta che spunta una Virtus di cui valga la pena parlare, se ne parla. Lui si considera uno dei suoi tempi. Ora c’è Nerva, finalmente ritorna il coraggio di parlare ma è come se il suo animo si fosse bloccato dopo anni di silenzio, ancora dovevano rendersi conto di essere liberi. Con Nerva si conciliano due elementi inconciliabili: libertà e Principato. Sta per parlare di un uomo illustre, il suocero Agricola. (2) Ma presso i nostri padri, come il compiere azioni degne di essere ricordate era facile e più accessibile a tutti, così tutti gli uomini di più chiaro ingegno erano indotti a tramandare la vittoria della virtù, non per favoritismo o per ambizione (mire personali), ma soltanto per il compenso di una buona coscienza. Ora inizia a parlare dell’autobiografia.  Chi scriveva queste biografie non lo faceva per acquisire meriti e favori o per mire personali, ma aveva la coscienza di compiere una buona azione. (3) Anzi, più di uno ritenne che narrare la sua stessa vita fosse più indice di fiducia nella propria moralità (fiduciam morum) piuttosto che di immodestia (arrogantia) e ciò non fu per Rutilio e Scauro oltre la fiducia ( motivo di perdita di credibilità) o di denigrazione: a tal punto le virtù sono meglio apprezzate/di più in quei tempi nei quali più facilmente attecchiscono/vengono generate.  sta parlando dei tempi di Mario e dell'antica Repubblica, non dei suoi tempi. (4) Ora invece avrei avuto bisogno (opus + ABL), accingendomi a narrare la vita di un uomo defunto, di chiedere perdono/permesso, che non avrei chiesto se invece di un elogio avessi mosso un'accusa: così feroci sono i tempi, e avversi alla virtù.  Erano tempi in cui era molto più semplice accusare che elogiare, la civitas e il principe erano pieni di invidia. Usa il presente pensa ancora ai tempi di Domiziano. Agricola era stato eliminato da Domiziano. racconterà una biografia. (2.1) Abbiamo letto che quando Aruleno Rustico ed Erennio Senecione furono eliminati (perché avevano scritto biografie non accettate dal potere), il primo per aver lodato Peto Trasea, il secondo Prisco Elvidio, questo fu punito con la morte; e che si infierì (sottinteso esse) non solo contro gli autori stessi ma anche contro i loro libri, essendo stato dato il mandato ai triumviri di bruciare nei comizi e nel foro le testimonianze di quegli altissimi ingegneri.  C’è una vena ironica. (2.2) Evidentemente da quel fuoco pensavano che venissero eliminate la voce del popolo romano e la libertà del Senato e la coscienza del genere umano, avendo espulso per di più i maestri di filosofia e mandato in esilio ogni attività virtuosa (finale negativa) perché in nessun luogo si parasse loro davanti alcunché di onesto. (2.3) Abbiamo offerto certamente un esempio di pazienza/una grande prova di sopportazione, e come l'antica età (repubblicana) vide qual era l'ultimo grido/elemento/eccesso di libertà/quale fosse l'ultimo esito della libertà (guerre civili sotto Cicerone, la Libertas era diventata licentia), così noi abbiamo toccato il fondo della servitù (con Domiziano che detiene un potere assolutistico) essendo stata tolta per mezzo delle spie la comunicazione con le parole e con l'ascolto (la facoltà di parlarci e di ascoltarci a vicenda). Avremmo perso, insieme alla libertà di parola, la stessa memoria/ricordo se fosse in nostro potere dimenticare così come tacere (periodo ipotetico di terzo tipo).  Per fortuna è rimasta la memoria e hanno potuto raccontare la storia di quegli anni di oppressione. Dice che persino la sua età (fino al 96), che non ha a cuore il ricordo delle persone perbene, non ha trascurato di scrivere biografie, riconoscendo che i due vitia più grandi del suo tempo sono ignorantia recti et invidia. Un male dei tempi imperialo era l’adulatio. L'autore del dialogo aveva detto che la Libertas si era trasformata in licentia già in età cesariana. Sallustio, modello di Tacito, già stigmatizza la corruzione del Senato. (3.1) Ora finalmente ritorna il coraggio; e sebbene al primo sorgere del suo Regno felicissimo/fin dall'inizio di un'età felicissima (Nerva sale al potere nel 96) Nerva Cesare ha combinato insieme (due) cose un tempo inconciliabili, il Principato e la libertà, e sebbene Nerva Traiano (Traiano, adottato da Nerva nel 97, ne aveva assunto il cognomen) accresca ogni giorno la felicità dei tempi/presente, e la sicurezza pubblica non ha accolto non solo la speranza e il voto, ma proprio una solida/sicura fiducia del voto (endiadi), tuttavia per la natura dell'umana debolezza i rimedi sono più lenti/operano meno prontamente dei mali; e come i nostri corpi lentamente crescono, a un tratto si estinguono (asindeto), così riesce più facile/potresti opprimere le intelligenze e le inclinazioni (congiuntivo potenziale, tu impersonale) che richiamarle in vita: infatti (quippe causale) subentra una dolcezza della stessa inerzia e l'inazione/indolenza prima odiosa finisce per essere amata.  Spiega perché essendoci già Nerva il suo sentire era rimasto a quando non si poteva parlare. Forse gli anni più importanti sono passati nel silenzio. Con il paragrafo tre si conclude questo proemio molto esteso. AGRICOLA, 42 Siamo verso la fine dell'opera. Tacito parla della morte di Agricola: siamo nel 90 quando torna dalla sua campagna in Britannia. Quel ruolo ad Agricola spettava per diritto.  Il successo militare di Agricola in Britannia suscita le gelosie di Domiziano. Conoscendo l'animo dell'imperatore, Agricola evita di dar troppo rilievo alla sua vittoria, conduce una vita appartata e tranquilla, priva di ostentazione. Non può tuttavia sottrarsi alle lodi maligne dei cortigiani. Posti l'uno di fronte all'altro, il tiranno che non tollera l'altrui gloria e il funzionario onesto disposto a rinunciare al proconsolato che pure, formalmente, gli spetta, sembrano sostare sulla soglia di una tragedia del potere. Ma Agricola si sottrae alla tentazione di un eroismo plateale e compiaciuto. Egli appare allo storico come un esempio di moderazione, di prudenza e di disciplina: si pone al servizio dell'impero, non del tiranno, e conserva la propria dignità senza sottrarsi ai doveri civici. Secondo gli antichi mores, infatti, un cittadino di Roma doveva servire lo stato e non le proprie ambizioni di gloria personale. (3) È proprio della natura umana odiare colui che tu hai offeso: però il temperamento di Domiziano, proclive all'ira e tanto più implacabile quanto più impenetrabile, veniva mitigato dalla moderazione (moderatio) e dalla prudenza (prudentia) di Agricola, perché questi non provocava la fama e il destino con l'ostinata arroganza né con la vana ostentazione di libertà. (4) Coloro che hanno per uso di ammirare gli atti di ribellione sappiano che anche sotto cattivi imperatori possono esservi uomini grandi (basta saper mantenere il proprio ruolo e rimanere leali allo Stato); e che l'ubbidienza (obsequium) e il riserbo (modestia), ove non manchino operosità ed energia, possono salire a tanta gloria, quanta ne raggiunsero molti venuti illustri con una morte ambiziosa, per vie difficili, ma senza alcun vantaggio dello Stato.  Dà un giudizio su quelli che avevano battuto le mani a personaggi come Trasea Peto e Catone il Censore, che hanno ostentato la loro libertà. Definisce la loro morte come un'ambitiosa mors. ANNALES I, 7-12 Dopo il proemio, Tacito inizia a narrare gli eventi dell'età Giulio-Claudia: la morte del vecchio princeps (Ottaviano Augusto); le sue esequie; l'assunzione del potere da parte di Tiberio. Tacito rivela immediatamente le proprie qualità narrative fondendo potenza di rappresentazione ed acutezza nell'indagine storiografica. Il tema politico è quello dei rapporti fra principe e Senato; ma il centro dell'ispirazione narrativa è la rovina di un'intera classe che aveva retto per secoli la vita civile e istituzionale della città. Da una parte Tiberio, sigillato per sempre nei suoi tortuosi e ambigui atteggiamenti; dall'altra, compatti, i rappresentanti dell'antico potere politico finanziario che si precipitano a lusingare e servire. (1) Intanto (a Roma) i consoli, i senatori e i cavalieri si precipitavano (infinito narrativo) a servire. Quanto più ciascuno era illustre tanto più falsi e zelanti e con l'espressione affettata per non sembrare (sott. videntur) contenti per la morte del vecchio principe né troppo affranti per l'avvento (del nuovo principato), mescolavano le lacrime con il godimento, il compianto con l'adulazione. (2) I Consoli Sesto Pompeo e Sesto Apuleio giurarono fedeltà per primi nelle parole a Tiberio Cesare, e dopo di loro Seio Strabone e Gaio Turranio, quello prefetto delle coorti pretorie e questo dell'annona (si occupava dell'approvvigionamento alimentare della capitale), poi il Senato, l'esercito il popolo. (3) Infatti, Tiberio avviava tutte le iniziative per mezzo/per mano dei consoli, come se fosse incerto di comandare e (come se) ancora esistesse la vecchia Repubblica; neppure l'editto con cui convocava i senatori nella curia, lo pubblicò se non con l'intestazione dalla potestà tribunizia ricevuta sotto Augusto. (Di fatto a Roma, sempre in armi, c’erano le coorti pretorie, la flotta a capo Miseno. Con Augusto ebbero grande importanza  erano preposte alla difesa personale del principe. Erano 9 legioni ed erano più di 6000 uomini, tra tutti il più importante era il prefectus , che in età Giulio Claudia assumerà un potere enorme, perché la figura del prefectus doveva essere di assoluta fedeltà. Tiberio era prefectus, poi lascia l'incarico a Seiano e va a vivere nella sua villa a Capri.) (4) Le parole dell'editto furono poche e di tono molto sobrio (oratio obliqua  proposizione enunciativa che diventa infinitiva): avrebbe chiesto di discutere sulle onoranze del genitore, e (nel frattempo) non si allontanava dalla sua salma e solo questo, fra i compiti dello Stato, evocava a sé.  C'è un senso di modestia, di rispetto filiale di Tiberio nei confronti del padre, e lo dimostra stando vicino al suo corpo. (5) Ma, morto Augusto/svoltisi i funerali di Augusto, aveva dato la parola d'ordine alle coorti pretorie come (imperatore) comandante in capo. Aveva guardie del corpo, armati e tutto il resto che è proprio di una coorte; soldati nel foro, soldati nella curia lo accompagnavano. (Gli antichi magistrati non si facevano di certo accompagnare dai soldati, ma dai littori  una speciale classe di impiegati dello Stato che avevano il compito di proteggere i magistrati) Inviò lettere circolari/proclami all'esercito comportandosi come chi ha assunto il Principato, in nessuna situazione esitante se non quando parlava in Senato. (6) La causa principale discendeva dalla paura che Germanico, nelle cui mani vi erano le (otto) legioni (sul Reno), immense truppe ausiliarie un mirabile favore popolare, preferisse ottenere (subito) l'impero piuttosto che aspettare. (Germanico era stato adottato da Tiberio per volere di Augusto e ora cominciava ad essere oggetto di preoccupazione e di sospetto) (7) Inoltre, concedeva all'opinione pubblica il fatto di volere apparire chiamato ed eletto dalla collettività piuttosto che intrufolato con l'intrigo da una donna e per l’adozione di un vecchio. In seguito, si conobbe che aveva messo la veste dell'indecisione (LETT. che era stata utilizzata da lui l'indecisione) per scrutare anche le intenzioni dei cittadini eminenti; infatti, parole ed espressioni, distorcendoli a scopo di accusa, memorizzava. (Tiberio studia gli uomini che lo circondano e dentro di sé li condanna e li giudica). aggettivi che ne sottolineano l'aspetto sgradevole, il clima aspro e inclemente, la scarsa e limitata produttività del suolo; neppure il bestiame, unica ricchezza degli abitanti, possiede la florida bellezza che può vantare sotto altri cieli. Tacito costruisce qui, come del resto in tutta l'opera, un discorso allusivamente antifrastico, in cui il termine di confronto sottinteso è il mondo romano. Quando poi tratta dell'assenza di oro e argento in Germania, coglie uno spunto adatto ad innestare più esplicite considerazioni moralistiche e polemiche, improntate alla tradizionale deprecazione delle divitiae come strumento di corruzione delle virtù dei popoli, rovina degli individui e delle città, motivo topico nella cultura e nella letteratura di Roma. Dunque, l'indifferenza dei Germani nei confronti dell'argento e dell'oro, e più in generale del lusso e delle ricchezze, assume agli occhi dello storico romano un valore emblematico, quale prova della primigenia integrità dei loro costumi (esaltazione della simplicitas). Vediamo qui intrecciarsi da una parte l'idealizzazione dei barbari quali depositari di quelle virtù che i Romani hanno ormai perduto e, dall'altra, l'inequivocabile disprezzo di chi appartiene a una civiltà incomparabilmente più evoluta e raffinata nei confronti di una mentalità e usanze tanto rozze e primitive. GERMANIA, 13 L'esordio di questo capitolo si riallaccia a un passo precedente dove è detto che i Germani in assemblea “considunt armati”. Non è meraviglia dunque se, presso un popolo che conferisce tale importanza alle armi, considerate il massimo, irrinunciabile segno di distinzione e di onore, il rito di iniziazione dei giovani al mondo degli adulti, ossia il loro ingresso a pieno titolo nella comunità, consista nella solenne cerimonia di consegna delle armi stesse, che l'autore presenta come l'equivalente dell'assunzione della toga virile per i Romani. Tacito passa poi ad introdurre direttamente il tema del comitatus, cioè la schiera di guerrieri scelti e fedeli che forma il seguito personale del capo o princeps. GERMANIA, 14 Tacito entra a parlare dei rapporti tra i guerrieri del seguito e il princeps, fondati su un legame personale volontariamente contratto che assume il carattere di un sacro impegno giurato (sacramentum); venir meno a questo patto di fedeltà significa macchiarsi di perpetua infamia. Già Cesare aveva rapidamente accennato all'istituto del comitatus presso i Germani e in particolare al discredito in cui cade il mancato, che viene considerato disertore e traditore. Vengono dettagliatamente specificati anche gli obblighi del princeps, ma il motivo di maggiore spicco in questo capitolo è la violenta ed esclusiva passione dei Germani per la guerra. Assetati di gloria e avidi di bottino, rifuggono dal lavoro lento e paziente dei campi. GERMANIA, 18-19 Venendo ora a parlare dei costumi germanici relativi al matrimonio e alla famiglia, l'autore torna sull'argomento riguardante il ruolo delle donne in un brano denso di implicazioni ideologiche e costantemente teso a creare un raffronto moralistico con le donne romane. Come in un mondo capovolto, le donne germaniche appaiono monogame, frugali, fedeli e coraggiose; soprattutto, non fanno ciò che invece è divenuto consuetudine presso le donne romane: sposarsi più volte, avere amanti, limitare il numero dei figli, abbigliarsi in modo sfarzoso e raffinato. Le Historiae Nel proemio dell'Agricola Tacito aveva annunciato un articolato programma storiografico: narrare gli eventi infausti del Principato di Domiziano e quelli più felici dell'età di Nerva e di Traiano. Il progetto era destinato in breve a modificarsi: nelle Historiae, cui Tacito lavora nel decennio successivo, l'autore concentra infatti lo sguardo esclusivamente sul passato, ampliando l'arco cronologico della narrazione fino a comprendere l'intera età Flavia e la guerra civile seguita alla morte di Nerone (69-96 d.C.). Lo storico si premura tuttavia di avvertire i lettori, nel proemio dell'opera, che il compito di trattare del Principato di Nerva e di Traiano è stato solo rinviato a un'età più matura. Concluse intorno al 110 le Historiae, Tacito rinuncia tuttavia, per la seconda volta, a narrare dell'età presente, volgendosi a ricostruire dalle origini la storia del Principato: dagli ultimi giorni di Augusto, attraverso gli imperatori della dinastia Giulio-Claudia, fino alla morte di Nerone (14-68 d.C.). Il racconto degli Annales veniva così a ricongiungersi all'inizio delle Historiae, saldandosi, fra l'altro, con gli ultimi libri delle Storie di Livio. Sia le Historiae che gli Annales ci sono giunti ampiamente incompleti. La composizione delle Historiae va collocata fra il 100 e il 110; quella degli Annales nel periodo successivo, probabilmente a partire dal 111. Le Historiae si aprono con un ampio proemio: dopo aver risposto l'argomento dell'opera e le ragioni che lo hanno indotto a scrivere, l'autore illustra la situazione di Roma, dell'esercito e delle province al 1° gennaio 69. La trattazione ha inizio con il breve Regno di Galba, proclamato imperatore nel giugno del 68. Ben presto Galba viene assassinato e Otone eletto al suo posto dai pretoriani; contemporaneamente, in Germania le legioni proclamano imperatore Vitellio. Il II e III libro sono occupati dalle lotte dapprima fra Otone e Vitellio, poi, dopo la sconfitta e il suicidio di Otone, fra Vitellio e Vespasiano. Il popolo di Roma assiste indifferente a questi sanguinosi scontri, e Vitellio verrà snodato dal palazzo imperiale e trucidato. Nel IV libro campeggiano le terribili scene del saccheggio di Roma ad opera dei flaviani; intanto in Gallia e in Germania si accendono focolai di rivolta contro Vespasiano. Quanto resta del libro V è dedicato all'assedio posto da Tito a Gerusalemme, e contiene un excursus sulla Giudea e sulle origini, la storia e i costumi del popolo ebraico. La scena si sposta quindi in Germania, dove sono in corso le operazioni contro i ribelli, che cominciano a mostrare segni di cedimento. Periodo storico delle Historiae = dal 69 al 96 d.C., dall’anno dei 4 imperatori. Proemio delle Historiae  Com'era tradizione della storiografia antica, prima di accingersi a narrare gli eventi l'autore espone il proprio metodo di lavoro e illustra l'argomento. Il proposito di trattare la materia in modo oggettivo e imparziale è preceduto da un'interessante riflessione sugli storici dell'età del Principato, messi a confronto con quelli dell'età repubblicana; lo spartiacque è la battaglia di Azio. Diversamente dai tempi felici che precedettero l'avvento di Augusto, quando ancora era possibile coniugare la libertà di parola con l'energia e l'eleganza dello stile (pari eloquentia ac libertate), nell'età del Principato gli storici si sono rivelati incapaci di narrare i fatti secondo verità: per inesperienza politica; per cortigianeria; per malevolenza. Segue l’argomentum, strutturato rigorosamente in due parti: dapprima il quadro delle atrocità, poi quello delle virtù. L'impressionante enumerazione della prima parte immerge di colpo il lettore nel dramma della storia recente di Roma, sulla quale gravano cumuli di orrori e di violenze. Ma anche i bona exempla della seconda parte appaiono irrimediabilmente segnati dal lutto e dalla rovina; le forze della natura e le divinità si sono rese ostili, né più sembrano avere a cuore la securitas dello Stato romano. HISTORIAE III, 83  Tacito parla di quanti si contendevano il potere, tra Vitellio e Vespasiano. Nel dicembre del 69 la guerra civile si avvia alla sua conclusione con i cruenti scontri fra vitelliani e flaviani. Lo sguardo di Tacito si sposta all'improvviso sulla folla di Roma, che segue gli atroci avvenimenti come se assistesse ai giochi del circo, complice l'atmosfera ludica dei Saturnali. Alla forza drammatica della rappresentazione Tacito unisce l'acutezza del giudizio storico: già al tempo di Mario e Silla la città aveva conosciuto stragi ed empietà; ma non si era mai vista tanta inhumana securitas, segno di un degrado istituzionale e sociale ormai da tempo in atto. Quelle masse che non distinguono più tra realtà e finzione sono il risultato di una politica demagogica, intesa a dispensare, secondo la celebre espressione di Giovenale, panem et circenses. Avvenivano massacri, ma la vita continuava ad andare avanti come sempre, la vita licenziosa continuava a scorrere tranquillamente insieme a queste lotte per la successione. Immagine desolante che ci dà Tacito, che ha questa visione pessimista del passato. Disumana sicurezza = mostruosa indifferenza. Qui evidenzia il degrado del popolo romano mentre negli Annales parlava del degrado del Senato rispetto all'arrivo di Tiberio.