Scarica Tesina finale TFA sostegno e più Tesine universitarie in PDF di TFA Sostegno solo su Docsity! 1 INDICE ………………………………………………………………………………………… INTRODUZIONE ……………………………………………………………………………… Capitolo I: Il PBL come punto di partenza per la didattica partecipativa ……………………… 1.1 Definizione del PBL ………………………………………………………………………... 1.2 I modelli teorici di riferimento ……………………………………………………………... 1.3 Caratteristiche del PBL …………………………………………………………………….. 1.3.1 Definizione del problema ………………………………………………………………… 1.3.2 Il gruppo di lavoro e i ruoli degli studenti ……………………………………………….. 1.3.3 Un nuovo ruolo per il docente-tutor ……………………………………………………... 1.3.4 Le fasi procedurali ……………………………………………………………………….. Capitolo II: Progettare un’attività di PBL nella Secondaria di II grado ……………………….. 2.1 Contesto dell’attività ………………………………………………………………………. 2.2 Proposta dell’attività “A Firenze con Dante e Boccaccio: un percorso tra cultura, arte e sapori” …………………………………………………………. 2.3 Descrizione dell’attività …………………………………………………………………… 2.4 Fasi della situazione problema ……………………………………………………………. 2.5 Valutazione dell’attività …………………………………………………………………... CONCLUSIONI ……………………………………………………………………………… p. 1 p. 2 p. 4 p. 4 p. 6 p. 8 p. 8 p. 9 p. 10 p. 11 p. 13 p. 14 p. 14 p. 15 p. 16 p. 18 p. 20 2 INTRODUZIONE La società moderna nella quale viviamo mostra uno scenario educativo complesso, continuamente in movimento, estremamente variegato e differenziato al suo interno, in bilico tra aperture di stampo universalistico, dovute a fenomeni di globalizzazione delle culture e dei mercati, e ripiegamenti tradizionalistici, conseguenti ad atteggiamenti di difesa della propria identità nazionale, una società in cui l’uomo in quanto tale è chiamato ad affrontare permanenti trasformazioni esistenziali. La necessità di essere in grado di governare in maniera responsabile e complessa un processo liquido e instabile (Bauman, 2002) non può basarsi su condotte di staticità e di rigidità, bensì presuppone la capacità di aprirsi con coraggio ai nuovi orizzonti progettuali e alle nuove costruzioni epistemologiche, acquisendo la capacità di orientamento tra le problematicità e le situazioni multiformi che caratterizzano la società contemporanea, e di conseguenza il processo educativo. Come sostiene Batini, “Nella vita di ogni persona sussiste, come in ogni dimensione naturale della vita, un bisogno di orientamento. Non vi sono infatti possibilità, per ognuno di noi, nell’arco della propria esistenza di eludere delle scelte, scelte che anzi si fanno sempre di più, nel mondo occidentale, cogenti e ricorsive, provocando una sorta di ingorgo decisionale. Per questo diviene importante concentrarsi sulle capacità di scegliere piuttosto che sull’accompagnare alla scelta, per questo le competenze di tipo interpretativo, di attribuire senso e significato a ciò che agiamo e ci accade divengono fondamentali” (in Loiodice, 2009, pp. 146-147). All’interno di una società retta dal paradigma della problematicità e del trasformismo, la capacità orientativa viene a configurarsi certamente come una trebisonda per ogni percorso educativo- didattico, uno strumento necessario per riconoscere e valorizzare un corredo di risorse personali e maturate nel tempo, per promuovere e favorire uno sviluppo ulteriore di progetti personali. Di fronte ad una contemporaneità inficiata da continui cambiamenti, tanto lo studente normodotato, quanto l’alunno diversamente abile, devono essere in grado di attivare in sé una prospettiva di direzionamento che sia caratterizzata da una modalità più che mai attiva e partecipativa, ricercando la strada migliore per individuare il giusto progetto di vita. Saper tradurre attivamente e trasversalmente in competenze i saperi acquisiti durante il momento formativo deve essere un “processo gestito dal soggetto che ne è protagonista, il quale con le proprie risorse (personali e sociali) e con i propri vissuti (esistenziali, formativi e lavorativi), conscio delle proprie appartenenze (ambientali e familiari) esercita un ruolo attivo” (Batini & Del Sarto, 2007, p. 8) e d’altra parte come un processo contestualizzato, che si realizza in un tempo e in un luogo personalizzati e rispettosi delle diverse culture educative delle quali il soggetto è portatore. È un 5 affrontare problemi e di lavorare in gruppo. Ne consegue anche un miglioramento delle competenze trasversali, tra le quali il paradigma “dell’imparare a imparare”, ossia del lifelong learning. Un’altra interessante definizione è quella dello psicologo Schmidt (1983), secondo il quale “l’apprendimento basato sui problemi […] è una metodologia didattica che si dice fornisca agli studenti le conoscenze adatte per risolvere problemi. Tutto l’apprendimento, in un curriculum basato sui problemi, comincia con un problema. Un problema di solito descrive alcuni fenomeni o eventi che possono essere osservati nella vita quotidiana, ma può anche consistere nella descrizione di un argomento. Un problema, scritto da un gruppo di docenti, ha lo scopo di guidare gli studenti verso certi argomenti di studio teorico o pratico importanti” (citato da Cappola, 2013, p. 98). Dunque, un dispositivo che deriva le sue fondamenta dai postulati teorici dell’apprendimento cognitivo e attraverso il quale i discenti, in un primo momento, sono allenati a trattare il problema senza conoscere la letteratura al riguardo, ma semplicemente con l’attivazione di conoscenze pregresse disponibili. Queste, unitamente al confronto e allo scambio generati all’interno del gruppo di lavoro, portano ad un arricchimento delle strutture cognitive dei partecipanti, favorendo il nascere del desiderio epistemico che spinge lo studente ad attivarsi in prima persona nella ricerca di una possibile soluzione al problema posto. È chiaro che il PBL inverta così il processo tradizionale di insegnamento, presentando il problema come punto di partenza del processo cognitivo, al contrario della normale modalità di studio centrata sui contenuti generali. È questa un approccio metodologico che trova i suoi natali negli anni ’60, presso l’Università di Mc Master in Canada, in principio come una sperimentazione interna alla facoltà di medicina. Il primo teorico di questa metodologia, il neurologo Howard Burrows, riconobbe la scarsa efficacia dei metodi tradizionali di insegnamento utilizzati nella facoltà in cui insegnava, nella quale gli studenti, pur avendo appreso numerose nozioni scientifiche, mostravano difficoltà nella loro esatta applicazione. Barrows intuì infatti che l’anello mancante per questi studenti fosse il collegamento tra le varie conoscenze e la loro attuazione pratica, ovvero i problemi clinici, ed ipotizzò che, partendo proprio dallo studio di casi clinici, gli studenti avrebbero integrato i contenuti disciplinari e le strutture cognitive venutesi a creare sarebbero state focalizzate sul problema. Successivamente propose quindi le situazioni di sintomatologia che i pazienti erano soliti comunicare ai propri medici, proponendo agli studenti il compito di analizzarli e di stabilire quali fossero le informazioni necessarie alla risoluzione del problema. Suddivisi in piccoli gruppi, moderati da un tutor, questi studenti discutevano di un caso clinico a settimana riuscendo nell’obiettivo di sintetizzare in modo integrato le varie discipline di studio. Inoltre, essendo lo studio autodiretto dagli stessi studenti, esso avrebbe contribuito a formare una metodologia che li aiutasse ad individuare i loro bisogni formativi, ponendo le basi per una futura formazione continua. Questa pratica venne sostenuta dall’allestimento di laboratori didattici, 6 biblioteche, setting simulativi con pazienti reali, di modo che gli studenti potessero avviare uno studio individuale tra un incontro e l’altro. Le classiche lezioni frontali vennero sostituite da momenti di apprendimento con la presenza di esperti alla fine di ciascuna seduta tutoriale (Barrows & Tamblin, 1980). A partire da questa sperimentazione, il metodo PBL venne introdotto negli anni ’70 in alcune facoltà di medicine negli Stati Uniti, in Australia, in Egitto, in Finlandia, in Svezia e in Olanda (Schmidt, 1983). Dalle facoltà universitarie il passaggio è stato graduale prima verso corsi di formazione per il personale sanitario, successivamente questa metodologia è stata utilizzata nelle scuole superiori tramite ipotesi di applicazione incentrate sulle materie di ambito scientifico-metematico e in seguito, nei decenni successivi, la metodologia venne sperimentata in tutti i gradi scolastici. Più recentemente, invece, nello specifico nell’anno accademico 2004-2005, il Problem Based Learning è stato testato all’interno del corso di laura in Scienze della Formazione continua presso il Dipartimento di Studi Umanisti dell’Università degli studi di Foggia all’interno di un modulo interdisciplinare, per la realizzazione del quale si è attinto a diverse discipline, quali l’antropologia, la letteratura per l’infanzia, la didattica generale, la pedagogia interculturale e le metodologie e le tecniche del lavoro di gruppo (Lotti, 2007). 1.2 I modelli teorici di riferimento L’apprendimento per la risoluzione di problemi guidato da un tutor che pone delle domande ai suoi discenti non è un’invenzione del secolo scorso, bensì affonda le sue radici nella più antica fase della sperimentazione educative. Già Socrate nel 400 a.C. utilizzava questa metodologia con i suoi allievi e agli interlocutori dei suoi dialoghi, ai quali poneva varie domande, come ad esempio nel famoso Menone di Platone, nel quale il filoso ateniese, attraverso il dispositivo delle questio e del metodo induttivo, giungeva alla dimostrazione del teorema di Pitagora da parte di uno semplice schiavo (Coppola, 2013). Come più volte affermava, Socrate era un fervente sostenitore dell’importanza della stimolazione interrogativa e riflessiva nei bambini e nei ragazzi, affinché apprendessero a guardare in maniera problematica i fenomeni del mondo, assumendo nei confronti della realtà un atteggiamento vigile e critico. Più recentemente la didattica per problemi venne teorizzata anche da Dewey all’inizio del ventesimo secolo. Egli mise in evidenza l’idea che le conoscenze non venissero trasferite in maniera diretta e che l’apprendimento reale è fruttifero nel momento in cui vi è una partecipazione attiva da parte di chi deve apprendere. Egli, all’interno dei suoi testi, fa spesso riferimento all’idea che un problema o una situazione problematica possano rappresentare per gli studenti una situazione di stimolo alla riflessione. Però, affinché il problema risulti essere concretamente interessante per gli 7 alunni, è necessario che esso sia connotato da elementi che richiamino verisimilmente la realtà e l’esperienza quotidiana. A questo proposito il pedagogista statunitense afferma che questa mansione “fa parte delle responsabilità dell’educatore di tener presente due cose ad un tempo: in primo luogo, che il problema nasca dalle condizioni dell’esperienza presente e si contenga entro il raggio della capacità degli alunni; in secondo luogo, che esso sia di tal natura da suscitare nell’educando una richiesta attiva di informazioni e da stimolarlo a produrre nuove idee” (Dewey, 2004, pp. 63-64). Assegnare dei problemi, degli interrogativi, è molto importate perché gli studenti possano mettersi alla prova. Dewey opera, tuttavia, una distinzione tra problemi definibili come genuini e altri finti o simulati: i primi fanno riferimento a situazioni concrete ed esperienze di vita reali, i secondi invece sono fuori dalla portata del discente, avulso dal mondo e dal contesto nel quale sono inseriti fino ad apparire profondamente artificiosi. È importante, dunque, che gli allievi vegano continuamente stimolati a pensare e trovare soluzioni ai problemi ed ai compiti che gli vengono proposti in maniera autonoma, individuando essi stessi una via d’uscita, pur sempre con il costante supporto dell’insegnante curriculare, di quello di sostegno e dei compagni. Dalle teorie deweyane, unitamente a quelle piagetiana, è possibile risalire al modello teorico per eccellenza nello sviluppo della metodologia dell’apprendimento per problemi. Nella fattispecie il riferimento è all’approccio costruttivista degli anni ’50, con il quale si supera l’idea cognitivista centrata sul ruolo del docente come trasmettitore monodirezionale del sapere, fondando il proprio modello sulla costruzione di un significato, contestualizzato al tempo e alla società in cui esso viene costruendosi, direttamente legato all’attività del soggetto che lo definisce attraverso continue negoziazioni e interazioni sociali. (Lotti, 2007). Lo stesso Bruner d’altronde (1997) è d’accordo quando afferma che “una costruzione della conoscenza […] è, tra l’altro, un processo interattivo in cui le persone imparano l’una dall’altra, e non solo attraverso il narrare e il mostrare. È nella natura delle culture umane formare comunità in cui l’apprendimento è frutto di uno scambio reciproco” (citato da Coppola, 2013, p.101) Saper risolvere un problema cooperando con gli altri sviluppa i processi cognitivi e metacognitivi fondati sul ragionamento e sulla riflessione, attivando valide strategie di valutazione delle ipotesi generate e di esplorazione. In aggiunta, la tipologia di problema che può essere proposta a scuola è varia. Dal cercare una risposta ad una domanda precisa, alla risoluzione di un’equazione o di un giallo, fino alla scrittura di un testo. I problemi proposti, quindi, devono essere caratterizzati necessariamente da un momento iniziale di curiosità ed interesse, legandosi il più possibile alla vita reale dei discenti. Gli insegnanti dovrebbero pertanto favorire lo sviluppo di strategie differenti a seconda della tipologia di problemi e ciò può essere realizzato in modo diretto o indiretto. Nel caso in cui si stabilisca un approccio diretto, sarà necessario fornire agli studenti un modello di soluzione del problema, viceversa 10 possibile in primis un’integrazione tra informazioni e conoscenze di diversa derivazione disciplinare, ma soprattutto di migliorare il rapporto di collaborazione fra pari, l’integrazione tra le complessi parti sociali in gioco e la relazione tra il gruppo classe e il tutor. Alcuni ricercatori, che si sono occupati di questa metodologia didattica, hanno messo in evidenza quanto il Problem Based Learning riesca a motivare concretamente gli studenti e a favorire una situazione di apprendimento. Questa modalità d’insegnamento focalizzata sullo studente ha infatti l’obiettivo di sviluppare un pensiero critico, incrementando le abilità di ragionamento unitamente alla creatività, all’indipendenza lavorativa e al senso di responsabilità. Secondo lo psicologo Delisle (1997), il PBL può essere sperimentato efficacemente con tutte le tipologie di studenti, in classi eterogenee dove siano presenti studenti con caratteristiche differenti e che possono condividere le loro capacità in maniera cooperativa per giungere alla soluzione del problema posto durante l’attività. Inoltre, dato che l’approccio utilizzato da questa metodologia è di tipo interdisciplinare, per rispondere ad una domanda o risolvere una situazione problematica, è possibile utilizzare informazioni derivanti da differenti e molteplici ambiti disciplinari. Si avverte, quindi, la sensazione che un’attività di questo tipo riesca a coinvolgere maggiormente gli studenti, che essi siano realmente presenti all’interno del processo di apprendimento e che la dinamica instaurata provochi inoltre un’opportunità di divertimento. Al termine di tutte queste attività, ha luogo la riunione in plenaria di tutti i gruppi, e rappresenta il momento finale in cui ciascun portavoce (o anche più componenti del team) presentano il contenuto delle loro ricerche e le soluzioni ai compagni di classe. Viene richiesto, pertanto, di illustrano di nuovo il problema, il compito iniziale, i dati acquisiti durante la fase di ricerca, l’analisi degli stessi e le strategie utilizzate per arrivare alla soluzione. Lo scopo infatti è di evidenziare non soltanto il risultato ottenuto, bensì l’intera gamma dei processi eseguiti per giungere alla conclusione dell’attività. 1.3.3 Un nuovo ruolo per il docente-tutor Il ruolo rivestito dal docente, come detto, non è più quello di semplice trasmissione del sapere, ma è inquadrato all’interno di una dinamica di facilitazione, che deve supportare gli studenti nella ricerca, senza fornire troppi elementi e schemi predefiniti, per giungere rapidamente ad una conclusione. Determinante è la capacità del docente di stimolare gli allievi con delle domande significative e presentare situazioni-problema in gradi di sollecitare l’individuazione di strategie adatte alla risoluzione. Inoltre, secondo Antonella Lotti (2007), “egli sta nel gruppo con il duplice obiettivo di guidare gli studenti attenendosi ai cosiddetti “Salti” che possono variare a seconda del modello adottato e stando attento anche ai contenuti che gli studenti affrontano. In letteratura si dice che il miglior tutor è quello che ha la competenza di favorire il buon funzionamento del gruppo di PBL, 11 […]. Il docente però non svolge solo il ruolo di tutor del piccolo gruppo di PBL, egli partecipa alla pianificazione del modulo o delle attività, quindi è un pianificatore; poi è anche un valutatore perché costruiste le domande e le prove per la verifica finali che accertino le conoscenze apprese durante il percorso […]; infine è anche un tutor metacognitivo perché spinge gli studenti a riflettere su come stanno ragionando” (p. 42). In sintesi, dunque, il compito del docente-tutor nel PBL non è quello tradizionale di trasmettere conoscenze, ma di facilitare il processo dell’apprendimento, caratterizzandosi come un tutor metacognitivo, pianificatore del modulo, valutatore ed esperto dei contenuti disciplinari. Egli infatti conduce il gruppo degli studenti per l’intero arco dell’attività, ponendo questioni e chiedendo agli studenti di esprimere i processi cognitivi che stanno elaborando. Inoltre fissa gli obiettivi disciplinari da raggiungere, seleziona il problema da sottoporre agli studenti, supportandoli nella ricerca bibliografica e gestendo l’organizzazione dei laboratori didattici, predisponendo al temine le griglie e le prove di valutazione da somministrare. 1.3.4 Le fasi procedurali La procedura di attivazione della situazione problema riprende quella proposta inizialmente da Barrows e Tamblin (Cappola, 2013), che la definiscono come sistema dei “sette salti”: Salto 1 - Chiarire la terminologia: è necessario che il facilitatore chiarisca agli studenti tutti i termini che potrebbero risultare difficili da capire e che tutti li comprendano; Salto 2 – Definizione del problema: si definisce in gruppo quale sia il nucleo centrale del problema; il docente deve chiedere a ciascun membro del gruppo di definire il problema dando spazio alle idee di tutti e cercando di definire insieme l’argomento; Salto 3 – Brainstorming/formulare le ipotesi: in questa fase gli studenti vengono lasciati liberi di esprimere le proprie idee in merito al problema. È questo il momento in cui gli studenti formulano le ipotesi utilizzando le conoscenze pregresse sulla disciplina di studio e confrontandosi. Il facilitatore può utilizzare delle domande come “Cosa sapete di questo argomento”, “Quali possono essere le cause del fenomeno descritto nel problema?”, “Quali sono le vostre opinioni?”, “Siete d’accordo con l’idea del vostro compagno o vorreste aggiungere altro?”, ecc.; Salto 4 – Schematizzare le ipotesi e organizzarle: con l’aiuto del facilitatore si deve organizzare in maniera sistematica tutto ciò che è emerse dalla discussione di gruppo, ponendo attenzione ai concetti chiave e riassumendoli per tutti in maniera chiara. Sarà utile creare mappe concettuali e schemi che fungano da supporto per fissare la definizione degli obiettivi di apprendimento, gli argomenti da approfondire e il materiale da ricercare; 12 Salto 5 – Individuare gli argomenti di studio: si definiscono in questa fase gli argomenti di studio, si pianificano esperienze laboratoriali o incontri con esperti del settore; Salto 6 – Studio indipendente: l’insegnante tiene lezioni sugli argomenti chiave e gli alunni approfondiscono individualmente gli argomenti avvalendosi di tutti quei metodi che ritengono opportuni (ricerche sul web, biblioteche, esperti, esperimenti in laboratorio); Salto 7 – Sintesi delle informazioni e risoluzione: gli studenti forniscono soluzioni individuali che vanno discusse all’interno del proprio gruppo per giungere ad una risoluzione che sia valida per tutti. Questa soluzione andrà presentata in plenaria a tutti gli altri gruppi. In questa fase il facilitatore può stimolare il gruppo a presentare le conclusioni con un media in particolare o si possono lasciare gli studenti liberi di scegliere la presentazione da eseguire. 15 ricercando le informazioni che hanno consentito loro di optare per una scelta consapevole e accurata, rendendo il prodotto finale il più accattivate possibile. 2.3 Descrizione dell’attività La classe è stata suddivisa in cinque piccoli gruppi di quattro allievi ciascuno e supervisionata dal docente di italiano e di sostegno nel ruolo di tutor. Ad ogni gruppo è stato consegnato un campionario di richieste di gruppi studenteschi, circa un possibile viaggio didattico presso la città di Firenze, e il compito era quello di presentare il plico informativo da consegnare durante i viaggi di istruzione e la scelta delle pietanze che avrebbero potuto assaggiare durante la permanenza nel capoluogo toscano. La finalità di questo approccio è di analizzare e interpretare le esigenze di potenziali clienti, stimolando un pensiero di tipo riflessivo e critico, e sollecitando quelle conoscenze apprese nella risoluzione della situazione problema presentata. All’interno di ogni gruppo, inoltre, si è deciso di specificare ulteriormente i ruoli dei membri per conferire a ciascuno la percezione di maggiore responsabilità, prevendendo quindi: un Moderatore – la figura che dà a ciascuno la possibilità di parlare, anima la discussione e porta il gruppo a chiarire le idee; un Verbalista – la figura che prende appunti dalla discussione emersa nel gruppo e compila la scheda dell’attività. un Portavoce – la figura che presenta alla classe il lavoro svolto dal gruppo. un Coordinatore – la figura che interagisce con gli altri gruppi e con i docenti-tutor per eventuali domande o richieste. La suddivisione dei gruppi è stata una scelta didattica condivisa dal docente curriculare e da quello di sostegno, poiché si è cercato di includere in ogni gruppo gli studenti più brillanti con quelli che hanno le maggiori difficoltà sia a livello linguistico, che a livello sociale e cognitivo, in un’ottica quindi di lavoro per bisogni educativi speciali. La scelta dei ruoli, invece, è ricaduta sugli studenti, che hanno avuto in tal modo la possibilità di autoregolarsi, essendo ogni discente libero di apportare il proprio contributo in base alle possibilità individuali. Come già specificato precedentemente, nel gruppo classe c’erano cinque allievi con disturbi specifici dell’apprendimento (la maggior parte di essi con dislessia più o meno lieve) e due studenti con lieve difficoltà cognitive (F70 – B117.1), i quali sono stati affiancati da compagni di classe “collaboratori” per la facilitazione dello svolgimento del compito e degli incarichi previsti. Una volta definiti e assegnati i ruoli, è stata distribuita la consegna con una particolare attenzione alla valutazione che il compito da svolgere fosse chiaro a ciascun gruppo, evitando incomprensioni e timori dovuti ad un’attività didattica insolita per la classe. 16 2.4 Fasi della situazione problema P R O B L E M A FASE 1 Esplorazione Termini da chiarire: Gli studenti dovevano sottolineare i termini o i concetti presenti che non conoscevano all’interno dei questionari. Concetti principali /info del problema Gli studenti dovevano evidenziare i concetti principali emersi nella situazione problema presentata. FASE 2 Brainstorming e definizione del problema Elementi essenziali da considerare: Attraverso una riflessione e discussione nel gruppo, gli allievi dovevano considerare gli aspetti principali emersi dalle richieste: in questo caso i vantaggi di un itinerario turistico e di un menu ben definiti. R IF L E S S IO N E FASE 3 Ipotesi e pianificazione della ricerca Ipotesi di problematiche emerse: Oltre agli aspetti positivi, gli studenti dovevano riflettere sulle problematiche possibili e porsi degli interrogativi a cui avrebbero cercato di rispondere nelle fasi successive. Finita l’analisi dei questionari, ogni gruppo ha definito gli argomenti di studio da approfondire per comprendere meglio la situazione. Esempi sono stati: - l’analisi delle vicende biografiche e dei luoghi di Firenze legati alle figure di Dante e Boccaccio da visitare all’interno dell’itinerario turistico; - il contesto storico, sociale e artistico di Firenze tra XII e XIV s. con particolare attenzione alle attività commeciali e all’evoluzione degli stili architettonici; 17 - la conoscenza dei sistemi di cottura e di conservazione dei cibi dal Medioevo a oggi, ecc. Inoltre dovevano ricercare i termini che non conoscevano e che hanno evidenziato nella fase 1. FASE 4 Schematizza zione delle ipotesi Con l’aiuto dei tutor gli studeni hanno raccolto tutte le ipotesi emerse dalla discussione, cercando di rendere chiare le idee proposte a tutti i componenti del gruppo. Per facilitare questo compito sono stati preparati degli schemi riassuntivi e delle mappe concettuali, utili a tenere sempre a mente i concetti e le ipotesi formulate. FASE 5 Ricerca delle informazioni Per la ricerca il gruppo decide, insieme ai tutor, dove trovare l’informazione: biblioteche (scolastiche e comunali), internet, libri personali. Sono stati organizzati laboratori con esperti di marketing ed editing pubblicitario e con guide turistiche abilitate. R IS O L U Z IO N E FASE 6 Studio individuale I docenti della materie curriculari hanno organizzato in questa fase delle lezioni di didattica frontale, orientate sullo studio delle figure dei due autori della letteratura italiana, sulla conoscenza della microlingua inglese, sull’esplorazione delle opere d’arte e sui monumenti dello specifico periodo storico e stilistico, sull’apprendimento delle caratteristiche specifiche delle strutture e delle figure professionali correlate alla filiera dell’enogastronomia e dell’ospitalità alberghiera, sulle forme comportamentali di prevenzione del rishio e dei protocolli relativi all’igiene e alla sicurezza, sui criteri di selezione delle materie prime in relazione alle esigenze del cliente, della stagionalità e dell’impatto ambientale. Dopo un breve periodo di ricerca hanno verificato se le informazioni ricercate erano credibili e sufficienti per comprendere meglio la situazione. 20 CONCLUSIONI La didattica per problemi è una metodologia che sta vedendo un utilizzo sempre maggiore nelle scuole italiane, specialmente nella Secondaria di II grado e negli Istituti Professionali. Nell’ambito di una didattica trasversale alle differenti discipline curriculari è possibile affermare come lo stesso orientamento istituzionale si stia muovendo in questa direzione, con la presentazione di testi e materiali scolastici che prevedono ed inglobano al loro interno UDA strutturate su attività di situazioni-problema, ma che ciononostante necessitano della presenza e della sapiente traduzione pratica da parte del corpo docente. Sperimentare in classe una situazione problema autentica offre una serie di numerosi elementi di riflessione e si connota di una dinamica educativa molto positiva. Attraverso l’elaborazione di questo lavoro sono emersi alcuni aspetti interessanti, nello specifico la motivazione all’apprendimento derivata direttamente dagli studenti, entusiasti di partecipare ad un’attività di questo tipo e progressivamente coinvolti sempre più nella risoluzione di un problema di vita reale. Centrare l’apprendimento sullo studente, anziché sui contenuti, ha valorizzato e determinato inoltre un maggiore impegno tanto nella ricerca di possibili soluzioni che nell’auto-apprendimento. Infine, la consapevolezza di poter prendere delle decisioni ponderate e valide ha affermato un senso di responsabilità negli studenti, mostrando anche come i problemi della vita reale non hanno sempre una comprensione facile, né la loro risoluzione porta necessariamente benefici a tutti. Il compito della scuola, quindi, è quello di accompagnare i ragazzi nell’analisi della realtà, nell’individuazione dei problemi, nell’acquisizione delle informazioni utili e delle strategie di risoluzione, affinché tutti gli studenti siano in grado di affrontare le sfide che gli si presenteranno. Visti i risultati ottenuti è possibile confermare che l’utilizzo di questa metodologia didattica ha numerosi vantaggi e porta al conseguimento del traguardo educativo e agli obiettivi prefissati. La finalità di questo lavoro era quella di proporre un’analisi di tipo comparativo tra quanto descritto nella letteratura sulla didattica per problemi e l’attività vissuta in aula. L’insegnamento fondato sulla situazione problema è una sfida tanto per i docenti curriculari che per quelli di sostegno. La consapevolezza attuale è quella di essere soltanto nelle fasi inziali per l’utilizzo di questo dispositivo e che l’auspicio futuro sia quello di un continuo processo formativo in questo ambito sia per il corpo docente, sia in favore degli studenti. 21 Bibliografia Monografie Barrows, H.S. & Tamblin, R.M. (1980). Problem-based learning in medical education. Springer New York: Springer Publishing Company. Batini, F., & Del Sarto, G. (2007). Raccontare storia. Politiche del lavoro e orientamento narrativo. Roma: Carocci. Bauman, Z. (2002). Modernità liquida. Roma – Bari: Laterza. Delisle, R. (1997). How to use problem-based learning in the classroom. Alexandria, VA: Assn for Supervision & Curriculum. Dewey, J. (2004). Democrazia e educazione. Firenze: Sansoni. Jones, B. F., Rasmussen, C. M., & Moffitt, M. C. (1999). Didattica per problemi reali, Rendere significativi gli apprendimenti. Trento: Erickson. Lotti, A. (2007). Apprendere per problemi. Bari: Progedit. Curatele Loiodice, I. (a cura di). (2009). Orientamenti. Bari: Progedit. Articoli in rivista Barrows, H.S. (1986). A taxonomy of Problem Based Learning. Medical education, 20, pp. 481-486. Schmidt, H.G. (1983). Problem-based learning: rationale and description. Medical Education, 17, pp. 11-16. Saggio in volume Schmidt, H.G., & Moust, J.H.C. (2000). Process that shape small group tutorial learning: a rewiew of research. In D.H.Evense, & C.E. Hmelo (Eds.), Problems-based learning; a researcj perspective on learning interactios (pp. 19-51). Mahwah, NJ: Lawrence Erlbaum Associates. Articoli tratti da internet Cappola, P. (2013). Problem Base Learning. Science & Philosophy, 1(2), pp. 97-118. In http://eiris.it/ojs/index.php/scienceandphilosophy/article/view/309 Mansolillo, F. (2012). Metodologie didattiche innovative nell’orientamento lifelong. L’apprendimento per problemi come strumenti di orientamento. Journal of Educational, Cultural and Phychological Studies, 5, pp. 151-166. In https://www.ledonline.it/index.php/ECPS-Journal/article/view/502/480