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Traduzione 7° libro del De Bello Gallico, Traduzioni di Latino

Traduzione analitica e "alla lettera" dell'intero 7° libro del De Bello Gallico di Cesare. Ottimale sia per versioni liceali che per un corso accademico.

Tipologia: Traduzioni

2019/2020
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Caricato il 31/08/2020

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andrea-raso-3 🇮🇹

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Scarica Traduzione 7° libro del De Bello Gallico e più Traduzioni in PDF di Latino solo su Docsity! DE BELLO GALLICO - LIBRO 7° I Pacificata la Gallia, Cesare parte, come aveva deciso, per l’Italia per tenere sessioni giudiziarie. Qui viene a sapere dell’uccisione di Clodio e (fatto più certo) informato del fatto a proposito del decreto del senato, di chiamare a giuramento tutti i giovani dell’Italia, istruisce la leva militare per tutta la provincia. Tutte queste cose furono riferite velocemente nella Gallia transalpina. I galli stessi aggiungono e con le chiacchere costruiscono, ciò che la situazione sembrava richiedere: cesare era trattenuto da un sconvolgimento urbano e in mezzo a disordini così grandi, non poteva tornare all’esercito. Spinti da questa opportunità, coloro che già da prima si lamentavano di essere stati assoggettati dal potere del popolo romano, questi con più coraggio e libertà iniziano ad entrare in progetti quanto alla guerra. I capi della Gallia, indetti degli incontri fra di loro in luoghi silvestri e remoti, si lamentano della morte di Acconis. Mostrano che questa vicenda possa capitare anche a loro: commiserano la comune sorte della Gallia; con ogni promessa e premio sollecitano persone che facciano l’inizio della guerra e che con il pericolo della propria vita rivendichino alla Gallia la libertà. Dicono che prima di tutto bisogna tenere conto di questa cosa, che prima che i loro progetti clandestini vengano portati fuori (vengano a conoscenza), bisogna che cesare sia tagliato fuori dall’esercito. Tutto questo era facile, perché né le legioni, essendo lontano il capo, osavano uscire dagli accampamenti invernali, né il capo senza aiuto non avrebbe potuto raggiungere le legioni. E infine è meglio essere uccisi in combattimento, piuttosto che non recuperare l’antica gloria di gloria di guerra e la libertà che hanno ricevuto dagli antenati. II Considerate queste cose, i Carnuti dichiarano di non arretrare davanti nessun pericolo per la salvezza comune e promettono che, primi tra tutti, inizieranno la guerra e poiché per il momento non possono cautelarsi tra di loro con lo scambio di ostaggi, per non far trapelare i (loro) piani, almeno chiedono che l’intesa sia sancita con un giuramento e una promessa; radunate tutte le insegne militari – cerimonia che secondo il loro costume è considerata di somma gravità – chiedono anche di non essere abbandonati dagli altri a guerra iniziata. Allora lodati i Carnuti, prestato giuramento da tutti quelli che erano presenti, e deciso il giorno della rivolta, l’assemblea si scioglie. III Quando giunge quel giorno, i Carnuti al comando di Gutuatro e di Conconnetodunno, uomini che non avevano più nulla da perdere, accorrono, ad un segnale dato, a Cenabo, uccidono i cittadini romani, che si erano fermati lì a causa di affari – e tra questi Gaio Fufio Cita, nobile cavaliere romano, che per ordine di Cesare si occupava del rifornimento di grano – e saccheggiano i loro beni. Velocemente la notizia si diffonde in tutte le città della Gallia. Infatti, quando avviene qualcosa di molto grave e importante, (i Galli) si trasmettono (il messaggio) con grida attraverso campi e regioni. Altri poi raccolgono questo (= il messaggio) e lo trasmettono ai vicini, così come accadde (in quella circostanza). Infatti le cose che erano successe a Cenabo, al sorgere del sole, si conobbero, prima che si concludesse il primo turno di guardia, nelle terre degli Arverni, distanti circa 160 miglia. IV Nello stesso modo Vercingetorige, figlio di Celtillo, giovane arverno di grande autorità – suo padre aveva tenuto saldamente la supremazia su tutta la Gallia e a causa di ciò era stato messo a morte dal popolo, perché aspirava alla monarchia – dopo aver riunito i suoi clienti, facilmente ne infiamma (gli animi). Saputo il suo progetto si corre alle armi. È ostacolato da suo zio Gobannizione e dagli altri capi, i quali ritenevano che non si dovesse tentare questa sorte, e viene cacciato dalla città di Gergovia. Tuttavia non si dà per vinto e raduna, nelle campagne, individui miserabili e disperati. Radunato questo manipolo, attira alla sua causa chiunque venga dalla città. (Li) esorta a prendere le armi per la comune libertà, e, raccolto un gran numero di seguaci, caccia fuori dalla città i suoi avversari, dai quali poco tempo prima era stato cacciato (egli stesso). È acclamato re dai suoi. Invia inoltre ambascerie in tutte le direzioni. Scongiura che mantengano (tutti) la parola data. In breve tempo lega a sé i Senoni, i Parisii, i Pittoni, i Cadurci, i Turoni, gli Aulerci, i Lemovici, gli Andi e tutti gli altri (popoli) che si affacciano sull’oceano. Gli è conferito con il consenso di tutti il comando supremo. Offertogli questo potere, comanda a tutte queste popolazioni (la consegna) di ostaggi, ordina che gli sia fornito velocemente un certo numero di soldati, stabilisce quante armi debba accumulare ogni popolazioni in patria ed entro quale tempo. Dapprima si preoccupa della cavalleria. Ad una grande diligenza aggiunge una notevole severità di comando. Con rigorosi castighi costringe gli esitanti. Infatti per un grave delitto condanna al rogo e ad ogni genere di torture, per colpe minori dopo aver tagliato le orecchie o cavato un solo occhio li rimanda a casa, affinché siano d’esempio ai restanti e li spaventino con la gravità della pena (subita). V Raccolto rapidamente un esercito con questi atti di crudeltà, manda contro i Ruteni, Lutterio cadurco, uomo di grande audacia, con una parte delle truppe. Egli stesso parte alla volta dei Biturigi. Al suo arrivo, i Biturigi mandano ambasciatori agli Edui, dei quali erano clienti, per chiedere un aiuto, con il quale poter più facilmente affrontare le truppe dei nemici. Gli Edui, su consiglio dei legati, che Cesare aveva lasciato presso l’esercito, mandano in aiuto ai Biturigi truppe di cavalleria e fanteria. Queste, una volte giunte al fiume Loira, che separa i Biturigi dagli Edui, lì vi sostano pochi giorni e non hanno il coraggio di attraversare il fiume, (quindi) tornano in patria e riferiscono ai nostri ambasciatori di essere tornati indietro, temendo un tradimento dei Biturigi, avevano saputo da quelli quale fosse il loro piano, che, se avessero oltrepassato il fiume, quelli da una parte, e gli Averni dall’altra, li avrebbero circondati. Se abbiano fatto ciò per il motivo che addussero davanti agli ambasciatori, oppure con l’intento di tradire, dal momento che non ci è chiaro nulla, non sembra possibile stabilirlo con certezza. I Biturigi, alla loro partenza (degli Edui) subito si congiungono con gli Arverni. XII Vercingetorige, quando seppe dell’arrivo di Cesare, rinuncia all’assedio e si dirige contro Cesare. Quello aveva deciso di assediare Novioduno, città dei Biturigi posta sulla strada. Essendo giunti a lui ambasciatori dalla città per supplicarlo di avere pietà di loro e di lasciarli in vita, ordina, di finire velocemente l’azione rimanente, con la quale aveva ottenuto molte cose (= successi), di depositare le armi, di portare fuori i cavalli, di consegnare gli ostaggi. Consegnata quindi una parte degli ostaggi, procedendo con il resto, mentre centurioni e pochi soldati erano stati introdotti (in città), per requisire armi e bestiame, si avvistò da lontano la cavalleria dei nemici, che aveva preceduto la schiera di Vercingetorige. Non appena gli abitanti videro quella, ecco che nacque una speranza di aiuto; lavato un grido, incominciarono a prendere le armi, a chiudere le porte, a occupare le mura. I centurioni in città, avendo capito dall’atteggiamento dei Galli, che qualche nuovo piano era intrapreso da quelli, estratte le spade, occuparono le porte e ritirarono incolumi tutti i loro. XIII Cesare ordina che la cavalleria sia condotta fuori dall’accampamento e ingaggia un combattimento equestre. Ai suoi ormai sfiniti manda in sostituzione circa 400 cavalieri Germani, che aveva dall’inizio deciso di tenere con sé. I Galli non riuscirono a sostenere il loro attacco e costretti alla fuga, si ricongiunsero con molte perdite alla sua schiera. I cittadini nuovamente impauriti, dopo quella sconfitta, catturati quelli che ritenevano, con la (loro) azione, animatori della plebe, (li) condussero davanti a Cesare e si arresero a lui. Concluse queste cose (= operazioni), Cesare partì verso la città di Avarico, che era la più grande e meglio fortificata nel territorio dei Biturigi e in una regione assai fertile, poiché sperava che, una volta sottomessa questa città, avrebbe avuto in suo potere il popolo dei Biturigi. XIV Vercingetorige, dopo tante continue sconfitte, a Vellaunoduno, a Cenabo, a Novioduno, convoca in riunione i suoi alleati. Spiega che la guerra doveva essere portata avanti con un’altra tattica e fosse portata prima. E’ necessario impegnarsi con tutte le forze in questa cosa per impedire ai Romani il rifornimento di viveri e foraggio. Ciò è facile, poiché hanno cavalleria in abbondanza e poiché sono aiutati dalla stagione favorevole. I nemici non potevano tagliare il foraggio, ma erano costretti ad andare a cercarlo nei depositi; (così) tutti questi potevano essere annientati ogni giorno dalla cavalleria. Inoltre per la salvezza (collettiva) era necessario rinunciare ai beni privati. Bisognava incendiare villaggi e case per questo tratto di strada, in cui sembrava possibile andare a fare rifornimento di foraggio. Da parte loro erano provvisti di ogni bene necessario poiché erano sostenuti dalle risorse di quei (popoli), nei confini dei quali si combatteva; i Romani invece non avrebbero sopportato né la mancanza di rifornimento né si sarebbero allontanati troppo dall’accampamento con grave rischio. Non ci sarebbe stata differenza tra ucciderli o privarli dei bagagli, senza i quali non poteva essere condotta una guerra. Inoltre era necessario incendiare le città, che, per fortificazione e posizione geografica, non erano del tutto sicure, perché non fossero rifugi per quelli che volevano sottrarsi al servizio militare o occasioni per i Romani per rifornirsi di viveri in abbondanza e far bottino. Se queste cose sembravano pesanti e crudeli, molto più pesante si doveva ritenere il fatto che i figli e le mogli fossero trascinati in schiavitù e fossero essi stessi messi a morte; cose che necessariamente accadono ai vinti. XV Approvati all’unanimità questi progetti, in un solo giorno sono incendiate più di 20 città dei Biturigi. Questo accade allo stesso modo presso le altre popolazioni: da ogni parte si vedono incendi. Anche se tutti sopportavano con grande dolore, tuttavia trovavano una consolazione in questo, che con una vittoria quasi sicura, confidavano che avrebbero recuperato velocemente le cose perdute. Si delibera, durante un’assemblea generale, sulla sorte di Avarico, se convenga che sia incendiata o difesa. I Biturigi si gettano ai piedi di tutti i Galli, affinché siano persuasi a non incendiare con le loro mani la città forse più bella di tutta la Gallia, la quale è roccaforte e orgoglio del popolo. Dicono che l’avrebbero difesa facilmente per la sua posizione naturale, poiché essendo circondata quasi da ogni parte dal fiume e dalla palude, ha un unico passaggio strettissimo. E’ dato ascolto a coloro che chiedono con le suppliche, benché Vercingetorige fosse in un primo momento contrario, poi si piega alle preghiere di quelli e alla commozione della folla. Sono scelti per la città difensori adeguati. XVI Vercingetorige segue Cesare a tappe più lente e sceglie un luogo per l’accampamento protetta da paludi e boschi, lontano 16 miglia da Avarico. Là, grazie ad esploratori fidati, conosceva in ogni ora del giorno, le cose che avvenivano ad Avarico e comandava ciò che voleva venisse fatto. Osservava tutte le nostre (ricerche) di foraggio e viveri e assaliva quelli che si erano dispersi, quando procedevano più lontano del necessario, e procurava una grande perdita, sebbene da parte dei nostri era adottata più prudenza di quanto potesse essere prevista, tanto che si usciva in intervalli irregolari e con percorsi diversi. XVII Cesare, posto l’accampamento davanti quella parte della città, che, come abbiamo detto sopra, aveva un accesso angusto, essendo circondata da un fiume e dalle paludi, cominciò a preparare un bastione, a costruire le vinee, ad innalzare due torri. Infatti la posizione naturale proibiva di chiudere intorno con un fossato. Non smise di esortare i Boi e gli Edui circa l’approvvigionamento di viveri. Tra quelli alcuni non aiutavano molto, poiché agivano senza alcuno zelo, altri senza grandi risorse, poiché era una popolazione poco numerosa e debole, velocemente consumarono tutto ciò che possedevano. Sebbene l’esercito soffrisse per l’enorme difficoltà dell’approvvigionamento di viveri a causa della povertà dei Boi, dell’indolenza degli Edui, degli incendi delle fattorie, al punto che, per parecchi giorni i soldati rimasero senza grano e placarono l’estrema fame grazie al bestiame tratto dai villaggi più vicini, tuttavia non si sentì da parte loro nessuna parola indegna della grandezza del popolo romano e delle sue precedenti vittorie. Anzi, quando Cesare si rivolgeva alla singole legioni durante i lavori e diceva che avrebbe tolto l’assedio, se sentivano la mancanza di viveri troppo dura, tutti gli chiedevano di non farlo: per molti anni avevano così combattuto sotto il suo comando, senza subire nessuna ignominia, senza lasciare inconclusa nessuna cosa. L’avrebbero considerata una vergogna, se avessero abbandonato l’assedio intrapreso: era preferibile sopportare ogni genere di crudeltà, piuttosto che non vendicare i cittadini romani, che erano stati uccisi a Cenabo, dal tradimento dei Galli. Affidavano queste cose (= confidenze) ai centurioni e ai tribuni militari, affinché le riportassero a Cesare per loro. XVIII Quando già le torri erano state avvicinate al muro, Cesare seppe dai prigionieri che Vercingetorige, consumato il foraggio, aveva spostato l’accampamento più vicino ad Avarico, e che egli stesso con la cavalleria e i fanti armati alla leggera, che erano soliti combattere tra i cavalieri, era partito per tendere un’imboscata, dove credeva che, il giorno dopo, i nostri sarebbero venuti a prendere il foraggio. Apprese queste cose, (Cesare) partito silenziosamente a mezzanotte, giunse nel primo mattino presso l’accampamento dei nemici. Quelli informati velocemente dell’arrivo di Cesare dagli esploratori, nascosero i carri e i loro bagagli nel folto bosco, e schierarono tutte le truppe in un luogo elevato e aperto. Scoperta questa cosa, Cesare velocemente ordinò (a suoi) di deporre i bagagli e di prendere le armi. XIX C’era un colle che si elevava dal basso con lieve pendio. Una palude circondava questo quasi da tutte le parti, (era) difficile da attraversare e impraticabile, larga non più di 50 piedi. I Galli, interrotti i ponti, si mantenevano sul colle con fiducia della (loro) posizione e divisi per stirpe in tribù, sorvegliavano tutti i guadi e i passaggi della palude con posti di guardia fissi, pronti così nell’animo, che, se i Romani avessero tentato di passare attraverso quella palude, avrebbero schiacciato dall’alto coloro che stentavano. Così, chi avesse notato la vicinanza delle posizioni, avrebbe ritenuto che erano pronti a combattere quasi a forze pari, chi invece avesse visto la disparità della condizione, avrebbe capito che si mettevano in mostra con vana finzione. Ai soldati, indignati che i nemici potessero sostenere la loro vista, a così poca distanza, chiedendo il segnale di battaglia, Cesare spiega, quante perdite e quante morti di uomini assai valorosi sarebbe necessariamente costata la vittoria. Vedendo quelli così pronti in animo, a non rifiutare nessun pericolo in nome della sua gloria, avrebbe dovuto essere condannato di estrema ingiustizia, se non avesse avuto a cuore la loro vita più della sua salvezza. Così confortati i soldati li riporta durante il giorno nell’accampamento e inizia a preparare le cose che erano necessarie per l’assedio della città. XX Vercingetorige essendo tornato dai suoi, fu accusato di tradimento, poiché aveva spostato troppo vicino l’accampamento ai Romani, poiché si era allontanato con tutta la cavalleria, poiché aveva abbandonato così tante truppe senza comando, poiché, dopo la sua partenza, i Romani erano giunti con così grande tempestività e velocità; tutte queste cose non erano potute accadere per caso o senza intenzione; quello preferiva avere il comando della Gallia, per concessione di Cesare, piuttosto che per volontà di quelli. Accusato in questo modo risponde a queste cose: che se aveva notavano che non era facile (per i nostri) uscire allo scoperto per portare aiuto, e da parte loro (truppe) fresche sostituivano sempre quelle stanche, ed erano convinti che in quella frazione di tempo fosse posta tutta salvezza della Gallia. Accadde dinnanzi ai nostri che guardavano, un fatto che ci sembrò degno di ricordo e che abbiamo ritenuto di non dover tacere. Un Gallo davanti alla porta della città, lanciava nel fuoco in direzione della torre pezzi di grasso e pece passati (a lui) di mano in mano; e colpito al fianco destro da uno scorpione cadde a terra morto. Uno dei vicini, scavalcato quello che giaceva (= il cadavere), eseguiva quella stessa mansione. (questo) colpito a morte nello stesso modo da un colpo di scorpione, al secondo si sostituì un terzo e al terzo un quarto; e quel posto non fu lasciato libero da difensori fino a che, spento l’incendio sul bastione e allontanati i nemici da ogni parte, la battaglia non ebbe termine. XXVI I Galli, provata ogni cosa, poiché nulla aveva avuto successo, il giorno dopo presero la decisione di fuggire dalla città, su esortazione e ordine di Vercingetorige. Provando ciò nel silenzio della notte, speravano di farlo senza gravi perdite dei loro, anche per il fatto che l’accampamento di Vercingetorige non era lontano dalla città e la palude, che si frapponeva senza interruzione, tardava i Romani all’inseguimento. E ormai si preparavano per mettere in atto il piano della notte, quando all’improvviso le madri di famiglia accorsero in pubblico (= per le strade) e gettandosi piangendo ai piedi di quelli, (li) pregarono con ogni genere di supplica, di non consegnare alle torture loro e i figli ai nemici: (infatti) la debolezza della natura e delle forze impediva loro di prendere la fuga. Quando videro che quelli persistevano nella (loro) opinione, poiché per lo più il timore, nell’estremo pericolo, non ammette misericordia, incominciarono a gridare e a segnalare ai Romani la fuga. Spaventati da questo timore i Galli, affinché le strade non fossero controllate dalla cavalleria dei Romani, desistettero dal progetto. XXVII Il giorno dopo Cesare, fatta avanzare una torre e completati i lavori, che aveva deciso di fare, e scoppiato un grande temporale, pensò che quella tempesta fosse utile per prendere una decisione; poiché vedeva le sentinelle disposte sul muro con poco cautela, ordinò ai suoi di dedicarsi al lavoro anche con più calma e mostrò (loro) cosa voleva che fosse fatto, e disposte le legioni (fuori dall’accampamento) in segreto, al riparo delle vinee, le esortò a prendere finalmente, dopo così tante fatiche, il frutto della vittoria; a quei soldati, che per primi avessero scalato le mura, promise premi, allora diede il segnale. Quelli immediatamente si lanciarono fuori da ogni parte e velocemente occuparono il muro. XXVIII I nemici, terrorizzati da quell’azione inaspettata, scacciati dal muro e dalle torri, si disposero a cuneo nella piazza e nei luoghi più aperti, con questa intenzione, di combattere con la schiera preparata, se fossero stati attaccati da qualche parte. Quando videro che nessuno si abbassava (allo scontro) in uno spazio aperto, ma (i romani) si distribuivano tutt’intorno al muro, temendo di perdere del tutto la speranza di fuga, gettate le armi, si diressero verso le zone estreme della città, con una corsa ininterrotta, e qui una parte (di loro), essendo schiacciata nello stretto varco delle porte, fu uccisa dai soldati, un’altra parte, oltrepassate le porte, fu uccisa dalla cavalleria. Non ci fu nessuno, che pensò al saccheggio: (erano) così furiosi sia per la strage di Cenabo sia per la fatica dell’assedio, che non risparmiarono né vecchi, né donne, né bambini. Alla fine, di tutto quel numero (di abitanti), che fu circa di 40.000, appena 800, che si erano precipitati fuori dalla città, udite le prime grida, raggiunsero incolumi Vercingetorige. Quello accolse in silenzio, durante la notte, quelli della fuga, temendo che, con l’accorrere di quelli nell’accampamento e la compassione della folla, nascesse una rivolta; disposti lungo la strada, fin da lontano, suoi stretti collaboratori e capi delle città, si preoccupò di dividerli e condurli presso i suoi, nella parte del campo che era toccata in sorte fin dall’inizio ad ogni popolazione. XIX Il giorno dopo, convocata l’assemblea, consolò e incoraggiò (i suoi), a non perdersi molto d’animo e a non affliggersi per la sconfitta. I Romani non avevano vinto né con valore né in campo aperto, ma con una certa astuzia e con l’abilità dell’arte militare, della quale gli stessi erano inesperti. Errava chi in guerra si aspettava tutti eventi favorevoli. Non gli era mai sembrato opportuno (di) difendere Avarico, di ciò riteneva quelli testimoni, ma per la mancanza di senno dei Biturigi e per la loro eccessiva accondiscendenza, in ogni modo aveva accettato questa sconfitta. Tuttavia egli avrebbe compensato velocemente con successi tanto più grandi. Infatti, con questa sua accortezza, avrebbe unito i popoli che dissentivano dai restati Galli e avrebbe formato un unico consiglio per tutta la Gallia, di tale accordo neppure il mondo intero avrebbe potuto resistere. Si trattava di qualcosa ormai quasi realizzato. Nel frattempo era giusto che in nome della salvezza comune, cominciassero a fortificare l’accampamento in modo da poter più facilmente sostenere gli attacchi improvvisi dei nemici. XXX Questo discorso non fu sgradito ai Galli (= non dispiacque), e soprattutto perché egli stesso non si era perso d’animo, dopo aver subito un così grande insuccesso, né si era nascosto, né era fuggito alla vista della folla, e (lo) si riteneva più previdente e lungimirante, poiché, non compromessa ancora la cosa, aveva proposto dapprima di incendiare Avarico e poi di abbandonarla. Allora come gli insuccessi diminuiscono l’autorità dei restanti comandanti, così cresceva di giorno in giorno, al contrario, il proprio prestigio, pur dopo la sconfitta ricevuta. Nello stesso tempo i Galli si lasciavano andare nella speranza della sua garanzia circa la coalizione delle restanti popolazioni; e per la prima volta in quella circostanza, incominciarono a fortificare l’accampamento, e gli uomini non abituati al lavoro, sono così spaventati nell’animo, da ritenere di dover sopportare tutte le cose che sono ordinate. XXXI E non meno di quanto avesse garantito, Vercingetorige si impegnava con ardore, a congiungere le popolazioni rimanenti, e allettava con doni e promesse i loro capi. Sceglieva uomini idonei a questo scopo, ciascuno dei quali potesse sedurre facilmente con un discorso infido o con l’amicizia. Si preoccupa di armare e vestire quelli che erano fuggiti dall’espugnazione di Avarico. Nello stesso tempo, per reintegrare le truppe decimate, ordina un preciso numero di soldati alle popolazioni, questo e il giorno entro il quale vuole che siano condotti nell’accampamento, e ordina che tutti gli arcieri, dei quali in Gallia vi era un numero molto grande, siano arruolati e mandati presso di lui. Con tali provvedimenti compensa velocemente ciò che era andato in rovina ad Avarico. Nel frattempo, Teutomato, figlio di Ollovicone, re dei Niziobrogi, il cui padre era stato proclamato amico dal nostro senato, giunge presso di lui, con un gran numero dei suoi cavalieri, oltre a quelli che aveva condotto dall’Aquitania. XXXII Cesare, trattenendosi parecchi giorni ad Avarico, e trovando qui una gran quantità di grano e di altri viveri, ristora l’esercito dalla fatica e dalla fame. Ormai quasi finito l’inverno, essendo indotto dalla stagione favorevole a far guerra e avendo deciso di andare contro il nemico, potendo o attirarlo dalle paludi e dai boschi, o di stancarlo con l’assedio, giungono a lui come ambasciatori i capi degli Edui, per chiedere che accorra in aiuto del popolo in una situazione estremamente difficile. Erano in un grande pericolo, perché, essendo soliti nei tempi antichi eleggere un solo magistrato che teneva per un anno il potere assoluto, (ora) i magistrati erano due e entrambi affermavano che erano stati eletti secondo le leggi. Uno di questo era Convittolitave, splendido e illustre giovane, l’altro era Coto, nato da antichissima famiglia e uomo anch’egli molto potente e di influente parentela: suo fratello, Valetiaco, aveva ricoperto l’anno prima la medesima magistratura. Tutta la popolazione era in armi; il senato era diviso; il popolo era diviso e anche le clientele di ciascuno di quelli. Anche se la contesa fosse cresciuta ulteriormente, comunque una fazione sarebbe stata in conflitto con una parte della popolazione. Per non far avvenire ciò, c’era bisogno della sua avvedutezza ed autorità. XXXIII Cesare anche se riteneva che era dannoso allontanarsi dalla guerra e dal nemico, tuttavia non ignorando, quanti svantaggi erano soliti derivare dalle discordie, e per (evitare) che una popolazione tanto numerosa e tanto legata al popolo romano, che egli stesso aveva sempre sostenuto e aveva favorito con ogni genere di cose, si lasciasse andare alla violenza e agli scontri armati, e che quella fazione, che si credeva più debole, chiedesse aiuti a Vercingetorige, allora decise di occuparsi di questa cosa, poiché secondo le leggi degli Edui, non era lecito a coloro che detenevano la somma magistratura di uscire dai confini, (allora) decise di partire egli stesso alla volta degli Edui, per non dare l’impressione di sottovalutare il loro diritto o le loro leggi, e convocò a sé, a Decezia, tutto il senato e chi era in contesa (= le opposte fazioni). Dopo che si radunò là, quasi tutta la popolazione e si apprese che davanti a pochi, convocati di nascosto che era necessario in un altro luogo e tempo, nominato il fratello dal fratello, mentre le leggi non solo proibivano che due di una sola famiglia, entrambi in vita, fossero eletti magistrati, ma vietavano anche che facessero parte del senato; (Cesare) costrinse Coto a deporre la magistratura, e ordinò che Convittolitave, che era stato eletto dai sacerdoti secondo la costituzione, quando la magistratura era sospesa, conservasse la carica. XXIX L’eduo Eporedorige, giovane nato da nobile famiglia e molto potente in patria, e Viridomaro, di uguale età e influenza, ma per stirpe differente, presentato da Diviziaco a Cesare, lo aveva condotto da umile origine a grande dignità, ed erano giunti presto insieme ai cavalieri, chiamati espressamente da quello (= Cesare). Si contendevano fra di loro il principato e nella disputa per le magistrature, l’uno si era battuto con gradi sforzi per Convittolitave, l’altro per Coto. In seguito a queste cose, Eporedorige, conosciuto il piano di Litavicco, intorno a mezzanotte, riferisce la cosa a Cesare. (lo) prega di non permettere che una popolazione venga meno all’amicizia del popolo romano per le decisioni malvage dei giovani. E preveda le cose che sarebbero accadute, se tante migliaia di uomini si fossero unite ai nemici, e sul fatto che né i parenti avrebbero trascurato (la loro) salvezza, né il popola avrebbe potuto considerare la cosa di poca importanza. XL Cesare, provato da grande preoccupazione a questa notizia, poiché era sempre stato benevolo, specialmente verso la popolazione degli Edui, non interposta alcuna incertezza, fa uscire dall’accampamento 4 legioni senza bagagli e tutta la cavalleria. Non ci fu tempo, in quella circostanza, di restringere il campo, poiché era chiaro che l’azione era riposta nella velocità. A difesa dell’accampamento lascia il luogotenente Gaio Fabio con 2 legioni. Aveva ordinato che i fratelli di Litavicco fossero catturati, ma scoprì poco prima che era fuggiti presso i nemici. Incoraggia i soldati a non deprimersi in quel momento di necessità per la fatica della marcia, e avanza con tutti (gli uomini) pieni di ardore per 25 miglia prima di avvistare la schiera degli Edui. Introdotta la cavalleria, rallenta e ferma la marcia di quelli e vieta a tutti di non uccidere nessuno. Ordina a Eporedorige e a Viridomaro, che quelli (= Edui) credevano morti, di aggirarsi tra i cavalieri e di chiamarli per nome. Riconosciuti questi e svelato l’inganno di Litavicco, gli Edui incominciarono ad alzare le mani, in segno di resa e gettate le armi, ad allontanare con preghiere la morte. Litavicco fuggì a Gergovia con i suoi seguaci, per i quali, secondo il costume dei Galli, è un sacrilegio abbandonare i (propri) protettori, anche nella sorte più disperata. XLI Cesare mandati ambasciatori al popolo degli Edui, per far saper (loro), che per sua concessione aveva risparmiato, quelli che, secondo il diritto di guerra, avrebbe potuto uccidere, e concesse 3 ore di notte all’esercito per il riposo, muove dall’accampamento a Gergovia. Quasi a metà strada, i cavalieri mandati da Fabio, (gli) comunicano quale grosso rischio hanno corso. Spiegano che l’accampamento era stato attaccato da ingenti truppe e che mentre (i nemici) sostituivano frequentemente quelli stanchi con quelli freschi, i nostri erano sfiniti dalla grande fatica, dal momento che, a causa della grandezza dell’accampamento, dovevano rimanere gli stessi senza interruzione sul vallo. Molti erano stati feriti da un gran quantità di frecce e dardi di ogni genere. Per sostenere queste cose erano risultate di grande utilità le catapulte. Fabio, con la ritirata di quelli, lasciate due porte aperte, aveva chiuso le altre e aveva aggiunto parapetti al vallo e si preparava ad una simile eventualità per il giorno dopo. Sapute queste cose, Cesare, grazie al grande impegno dei soldati, giunse all’accampamento prima del sorgere del sole. XLII Mentre erano accadute queste cose a Gergovia, gli Edui, ricevuti per primi gli ambasciatori (inviati) da Litavicco, non si lasciano il tempo necessario per comprendere. Alcuni spinti dall’avidità, altri dall’ira e dalla leggerezza – che è innata soprattutto in quella stirpe di uomini – considerano l’ingannevole diceria, per notizia certa. Sottraggono i beni dei cittadini romani, fanno uccisioni, riducono in schiavitù. Convittolitave aiuta a peggiorare la situazione e spinge il popolo alla rivolta, così che, commesso il crimine, si vergognasse di ritornare alla ragione. Fanno uscire dalla città di Cavillono il tribuno militare, Marco Aristio, che era in cammino verso la (sua) legione, munito di salvacondotto. Costringono a fare la medesima cosa anche quelli che risiedevano là per via dei commerci. Subito dopo, assaliti questi sulla strada, (li) spogliano di tutti i bagagli. Quelli resistendo (li) assediano un giorno e una notte. Morti molti da entrambe le parti, (i Galli) spingono una massa di gente ancora più numerosa alle armi. XLIII Nel frattempo riferita la notizia che tutti i cavalieri di quelli (= degli Edui) erano nelle mani di Cesare, corrono in massa verso Aristio, e dichiarano che nulla era avvenuto per decisione dello stato. Stabiliscono un’inchiesta sulle rapine, confiscano i beni di Litavicco e dei fratelli, mandano ambasciatori a Cesare per giustificarsi. Fecero queste cose per riprendersi i loro (soldati). Ma macchiati del delitto e attratti dal profitto delle rapine, dal momento che i proventi spettavano a molti (di loro), e spaventati dalla paura della pena, incominciano a intraprendere di nascosto piani di guerra e agitano con ambascerie le altre popolazioni. Cesare anche se capiva questa cosa, tuttavia, chiama gli ambasciatori, con la maggior cortesia possibile. Egli non giudicava più severamente la popolazione a causa dell’ignoranza e della leggerezza del volgo né diminuiva la sua benevolenza verso gli Edui. Egli stesso aspettandosi una maggiore rivolta della Gallia, per non essere accerchiato da tutte quelle popolazioni, pensava al modo di allontanarsi da Gergovia e di riunire di nuovo tutto l’esercito, affinché la (sua) partenza non sembrasse determinata dal timore del tradimento e simile alla fuga. XLIV Pensando a questa cosa, (gli) sembrò presentarsi un’occasione favorevole. Infatti, essendo giunto nell’accampamento più piccolo per ispezionare i lavori, si accorse che la collina, che era tenuta dai nemici, (era) sguarnita di uomini, e che invece nei giorni precedenti poteva appena essere vista per la (loro) moltitudine. Meravigliato, chiese spiegazione ai disertori, che ogni giorno affluivano a lui in grande numero. Era noto a tutti – ormai anche lo stesso Cesare aveva saputo ciò per mezzo degli esploratori – che il pendio di quel colle era quasi pianeggiante, ma stretto e boscoso, là dove c’era il passaggio all’altra parte della città; e quelli (= i nemici) temevano fortemente per quella zona e sapevano ormai bene che, occupato già un colle dai Romani, se ne avessero perso un altro, sarebbero stati quasi (completamente) circondati e tagliati fuori da ogni uscita e dal rifornimento di foraggio. Per questo erano stati chiamati tutti da Vercingetorige a difendere questo (= il colle). XLV Saputa questa cosa, Cesare manda in quel luogo numerosi squadroni di cavalieri. Comanda questi intorno a mezzanotte di spargersi in ogni direzione in modo un po’ rumoroso. All’alba fatte uscire dall’accampamento un gran numero di bestie da soma e di muli, e fatti togliere loro indifferentemente i basti, ordina che i mulattieri vadano in giro per i colli, simulando, con gli elmi dei cavalieri. Aggiunge a questi pochi (veri) cavalieri, che si aggirano con un più vasto raggio per farsi notare. Ordina che tutte le direzioni, dopo un ampio giro, convergano verso le stesse. Questi (movimenti) si vedevano di gran lunga dalla città, dal momento che da Gergovia era aperta la vista sull’accampamento (di Cesare), ma, a causa della grande distanza, non si poteva capire, in modo sicuro, ciò che avveniva. (Cesare) allora invia una sola legione sulla stessa collina e avanzata un poco, la schiera al piano e la fa nascondere tra i boschi. Aumenta il sospetto tra i Galli e tutte le truppe sono trasferite in quel punto per fortificarlo. Cesare, visto l’accampamento dei nemici vuoto, nascoste le loro insegne e occultati i distintivi militari, fa uscire a piccoli gruppi i soldati, dall’accampamento maggiore a quello minore, per non essere visti dalla città; e mostra ai luogotenenti, che aveva messo a capo delle singole legioni, le cose che vuole che vengano fatte. Dapprima raccomanda di tenere sotto controllo i soldati, perché non avanzino troppo per la voglia di combattere o per la speranza del bottino. Espone quale svantaggio derivi da una posizione sfavorevole. Questo può essere superato solo con la rapidità, si tratta dell’occasione non della battaglia. Impartiti questi ordini da il segnale d’attacco e nello stesso momento, dalla parte destra, per un’altra salita, manda gli Edui. XLVI Il muro della città dista dalla pianura e dall’inizio della salita 1000 (?1200) passi, in linea retta, se non si considera la tortuosità. I tornanti che si aggiungevano a questa, per smorzare la pendenza, accrescevano la distanza del percorso. I Galli quasi dalla metà del colle avevano costruito con grandi sassi, in lunghezza e seguendo la conformazione del monte, un muro (alto) 6 piedi, al fine di rallentare l’attacco dei nostri, e lasciata vuota tutta la parte bassa, avevano riempito la parte superiore del colle, fino al muro della città, di fittissime postazioni. I soldati, una volta dato il segnale, velocemente raggiungono il bastione e dopo averlo superato, si impadroniscono di 3 postazioni. E fu tanto grande la rapidità dell’occupazione delle postazioni, che Teutomato, re dei Niziobrogi, sorpreso all’improvviso nella (sua) tenda, dove al pomeriggio riposava, a stento (= appena), mezzo nudo e con il cavallo ferito, si salvò dalle mani dei soldati avidi di bottino. XLVII Conseguito ciò che si era proposto in cuor suo, Cesare comandò che fosse suonata la ritirata e subito dopo le insegne della decima legione, con la quale (lui) era, si arrestarono. Ma i soldati delle restanti legioni, non avendo sentito il suono della tromba, poiché c’era di mezzo una valle abbastanza ampia, tuttavia erano trattenuti dai tribuni militari e dai luogotenenti, così come era stato comandato da Cesare. Ma esaltati dalla speranza di una rapida vittoria, dalla fuga dei nemici e dai successi precedenti, pensavano che niente potesse essere troppo ardito per il loro valore, e non cessarono l’inseguimento prima che si fossero avvicinato al muro e alle porte della città. inseguiti neanche allora i nemici, al terzo giorno, essendo tornato al fiume Allier, fece riparare il ponte e fece passare l’esercito dall’altra parte. LIV Qui, informato dagli Edui Viridomaro e Eporedorige, viene a sapere che Litavicco era partito con tutta la cavalleria per sollevare gli Edui; ed era necessario che essi (lo) precedessero per tenere unita la popolazione. Sebbene (Cesare) avesse già in molte occasioni sperimentato la falsità degli Edui e ritenesse che la loro partenza (dei due) avrebbe accelerato la defezione della popolazione, tuttavia decise di non trattenerli, affinché non sembrasse di arrecare (loro) un’offesa, né di dare un qualche sospetto di paura. Alla loro partenza espose brevemente i suoi titoli di merito verso gli Edui: chi (fossero) e quanto umili li avesse accolti, respinti nelle città, confiscati i campi, privati di tutti gli alleati, soggetti a tribuno, costretti con affronto a (cedere) una enorme quantità di ostaggi; e (invece) a quale benessere e splendore li aveva portati, tanto che non solo erano tornati all’antico stato, ma sembrava che avessero superato la dignità e il prestigio di tutti i tempi. Affidato loro questo messaggio li lasciò. LV Novioduno era una città degli Edui situata in una posizione favorevole sulle rive della Loira. Cesare aveva radunato qui tutti gli ostaggi della Gallia, il frumento, il denaro pubblico, gran parte dei suoi bagagli e di quelli dell’esercito. Qui aveva inviato un gran numero di cavalli, comprati in Italia e Spagna, per questa guerra. Essendo giunti lì Eporedorige e Viridomaro ed essendo venuti a sapere della situazione del (loro) popolo, - che Litavicco era stato accolto dagli Edui a Bibratte, che è una città per loro di enorme prestigio, che il (supremo) magistrato Convittolitave e una grande parte del senato lo avevano raggiunto, che in maniera ufficiale erano stati inviati ambasciatori a Vercingetorige per concludere una pace e un’alleanza -, ritennero che non ci si doveva lasciare sfuggire un tanto grande vantaggio. E così dopo aver ucciso le sentinelle di Novioduno, e coloro che erano giunti lì per commerciare o per viaggio, si divisero tra di loro il denaro e i cavalli, e si occuparono di ricondurre gli ostaggi delle popolazioni presso il magistrato (supremo) a Bibratte; la città, che ritenevano di non poter difendere, la incendiarono, perché non fosse di alcuna utilità ai Romani; quanto al frumento, caricarono sulle imbarcazioni quello che velocemente poterono, il rimanente lo guastarono (= gettare) nel fiume e con il fuoco. Quelli cominciarono a radunare truppe dalle regioni vicine, a disporre presidi e difese lungo le rive della Loira e a mostrare in ogni luogo la cavalleria per incutere paura; avrebbero potuto escludere i Romani dall’approvvigionamento di viveri o cacciarli in (un’altra) provincia, spinti dalla mancanza di cibo. Alimentava molto la (loro) speranza il fatto, che la Loira era in piena per il disgelo, e non sembrava potesse essere passata in nessun guado. LVI Informato di queste cose, Cesare pensò di doversi affrettare, se doveva correre il rischio nel ricostruire i ponti, in modo da combattere prima che le truppe lì radunate (dal nemico) diventassero più consistenti. Infatti a fargli cambiare direzione verso la provincia, mutato il piano, come qualcuno riteneva che allora fosse necessario da fare per (paura), si opponeva sia la vergogna e il disonore del gesto, e l’opposizione del monte Cevenna e l’impraticabilità delle strade; sia soprattutto si temeva fortemente per Labieno che era isolato e per quelle legioni, che aveva mandato da sole. E così completate molte tappe di giorno e di notte, contro l’opinione di tutti, (Cesare) giunse alla Loira e scoperto un guado grazie ai cavalieri, adatto per la necessità della situazione, tale che le braccia e le spalle (dei soldati) potessero restare libere (fuori) dall’acqua per reggere le armi; disposta la cavalleria, in modo tale da contrastare la forza della corrente, e spaventati i nemici a prima vista, fede passare incolume l’esercito e trovato nei campi del frumento e molto bestiame, rifornito l’esercito di queste cose, decise di dirigersi verso i Senoni. LVII Mentre accadevano queste cose presso Cesare, Labieno, lasciato ad Agedinco, quel rinforzo (militare), che era giunto recentemente dall’Italia, affinché fosse a presidio dei bagagli, partì per Lutezia con 4 legioni. Questa è una città dei Parisi, posta su un’isola del fiume Senna. Saputo del suo arrivo dai nemici, si radunarono grandi truppe dalle regioni vicine. Il comando supremo fu dato all’Aulerco Camulogeno, che quasi consumato dall’età, tuttavia per la (sua) eccezionale competenza nell’arte militare fu chiamato fu chiamato a (questo) onore. Egli rendendosi conto che c’era una palude ininterrotta, che si riversava nella Senna e bloccava grandemente tutto quel luogo, si stabilì qui e decise di ostacolare il passaggio ai nostri. LVIII Labieno dapprima tentava di far avanzare le vinee, di riempire la palude con graticci e terriccio e di assicurarsi il passaggio. Quando comprese che ciò era troppo difficile da realizzare, uscito silenziosamente dall’accampamento dopo la mezzanotte, giunse a Metlosedo, per la (stessa) strada, da cui era venuto. Questa è una città dei Senoni, posta su un’isola della Senna, come abbiamo detto come prima circa Lutezia. Catturate circa 50 navi, collegate rapidamente, fatti salire lì i soldati e gli abitanti spaventati dalla novità dell’azione – una gran parte di quelli era stata chiamata alla guerra -, si impadronisce della città senza fatica. Ricostruito il ponte, che i nemici avevano tagliato nei giorni precedenti, (Labieno) fa passare l’esercito e comincia a marciare per la seconda volta, lungo il fiume, verso Lutezia. I nemici, saputo l’accaduto da quelli che erano fuggito da Metlosedo, comandano di bruciare Lutezia e di tagliare i ponti di quella città. Questi partiti dalla palude sulla riva delle Senna, davanti a Lutezia, si insediano di fronte all’accampamento di Labieno. LIX Già si sentiva dire che Cesare era partito da Gergovia; già circolavano voci sulla defezione degli Edui e sulla seconda rivolta della Gallia; inoltre i Galli, nei (loro) colloqui, assicuravano che Cesare, bloccato dalle strade e dalla Loira e oppresso dalla mancanza di grano, si dirigeva verso la provincia. Ma i Bellovaci, che già prima erano infedeli, venuti a conoscenza della defezione degli Edui, cominciarono a raccogliere truppe e a preparare apertamente la guerra. Allora Labieno, di fronte ad un tale mutamento della situazione, capiva che doveva prendere una decisione diversa, da quella che aveva pensato prima, né pensava ormai, di inseguire altri (successi) e sfidare nemici in battaglia, ma (solo) di riportare l’esercito incolume ad Agedinco. Infatti da una parte (del fiume) incombevano i Bellovaci, popolazione che per il suo valore godeva in Gallia della più grande considerazione, e dall’altra parte c’era Camulogeno con l’esercito pronto e schierato. Inoltre un fiume grandissimo separava le legioni, bloccate dal presidio e dai bagagli. Di fronte a tante e improvvise difficoltà, egli sapeva che l’aiuto doveva venire (solo) dalla (propria) forza d’animo. LX E così convocata un’assemblea verso sera, esortando ad eseguire diligentemente e scrupolosamente le cose che aveva ordinato, distribuisce le singole navi, che aveva condotto da Metlosedo, ai cavalieri Romani e finito il primo turno di guardia, ordina di avanzare in silenzio per 4000 passi (= 4000 miglia) lungo il fiume e di aspettarlo lì. Lascia a presidio dell’accampamento5 coorti, che riteneva non fossero valide a combattere. Alle rimanenti 5 della stessa legione comanda di partire, verso mezzanotte, con tutti i bagagli, con grande rumore, in direzione opposta al fiume. Requisisce anche zattere. Queste, spinte con un gran rumore di remi, le manda nella medesima direzione. Egli, poco dopo, uscito in silenzio con 3 legioni, raggiunge quel luogo, dal quale aveva ordinato che le navi approdassero. LXI Appena fu giunto lì, gli esploratori dei nemici, dato che erano disposti in ogni parte del fiume, colti di sorpresa, poiché era scoppiata improvvisamente una grande tempesta, furono sopraffatti dai nostri. L’esercito e la cavalleria, organizzate (tutte le cose) i cavalieri romani, che aveva messo a capo di quell’incarico, velocemente sono fatti passare. Quasi nello stesso momento, all’alba, ai nemici viene annunciato che nell’accampamento dei Romani c’era un trambusto fuori dall’ordinario, che una grande schiera andava in senso opposto al fiume, che si sentiva un rumore di remi nella stessa parte e che poco più sotto i soldati erano trasportati sulle navi. Sentite queste notizie, poiché pensavano che le legioni passassero (il fiume) in 3 punti e che tutti, preoccupati dalla defezione degli Edui, si preparassero alla fuga, allora distribuirono anche le loro truppe in 3 parti. Infatti lasciato un presidio di fronte al luogo dell’accampamento e inviato un piccolo contingente verso Metlosedo, che avanzava tanto quanto sarebbero avanzate le navi, condussero il resto delle truppe contro Labieno. LXII All’alba, sia tutti i nostri erano stati trasportati, sia si vedeva lo schieramento dei nemici. Labieno, esortati i soldati, affinché conservassero il ricordo del loro antico valore e dei tanti scontri assai favorevoli e (affinché) pensassero che lo stesso Cesare, sotto la cui guida avevano vinto tante volte i nemici, fosse presente, dà il segnale di battaglia. Al primo scontro, dall’ala destra, dove si era attestata la 7° legione, i nemici sono respinti e messi in fuga. Dalla sinistra, luogo che occupava la 12° legione, essendo cadute le prime linee dei nemici, colpite dai giavellotti, tuttavia i rimanenti resistevano accanitamente e nessuno dava l’impressione della fuga. Lo stesso comandante dei nemici – Calumogeno era accanto ai suoi e li esortava. Ma essendo ancora incerto l’esito della rivolta la schiera, cosa che sia rallentava l’inseguimento dei nemici, sia rafforzava i nostri nella speranza di un aiuto. Tuttavia i Germani, raggiunta dal lato destro la cima della collina, cacciano dalla postazione i nemici e fuggiti fino al fiume, dove Vercingetorige si era fermato con le truppe di fanteria, li inseguono e ne uccidono molti. Compreso ciò, gli altri temendo di essere circondati, si danno alla fuga. Avviene in ogni luogo una strage. Catturati 3 nobilissimi Edui sono condotti a Cesare: Coto, comandante della cavalleria, che aveva avuto una contesa con Convittolitave nelle recenti elezioni; Cavarillo, che dopo il tradimento di Litavicco era stato a capo della fanteria, e Eporodorige, sotto il cui comando gli Edui, prima dell’arrivo di Cesare, avevano la guerra contro i Sequani. LXVIII Messa in fuga tutta la cavalleria, Vercingetorige ritirò le sue truppe, che aveva collocato davanti all’accampamento, e subito si mise in marcia verso Alesia, città che è dei Mandubi; e ordinò che rapidamente i bagagli fossero portati fuori dall’accampamento e che fossero avviati a sé. Cesare, trasferiti i bagagli su una collina vicina e lasciate due legioni a presidio, inseguiti i nemici, per quanto tempo del giorno gli rimaneva, uccisi circa 3000 mila della retroguardia, il giorno dopo si accampò ad Alesia. Controllata la posizione della città e atterriti e nemici, poiché erano stati sconfitti dalla cavalleria, grande parte dell’esercito su cui contavano, esortati i soldati al lavoro, incominciò a circondare Alesia con un vallo. LXIX Quella città si trovava sulla cima di un colle, in una posizione abbastanza elevata, di modo che sembrasse, che non potesse essere espugnata, se non con un assedio. Le pendici di questo colle, da due lati, erano bagnate da due fiumi. Davanti a questa città si estendeva una pianura, per la lunghezza di circa 3 milia; su tutti gli altri lati, a poca distanza, (la) cingevano colli di pari altezza. Lungo la parte del colle che guardava ad oriente, le truppe dei Galli avevano occupato tutto questo spazio sotto le mura e avevano costruito un fossato e un terrapieno alto sei piedi; il perimetro di questa fortificazione, che era stata cominciata dai Romani, era di 10 milia. L’accampamento era situato in una posizione favorevole, e qui erano stati costruiti 23 fortini, e in questi fortini di giorno erano poste guarnigioni, in modo che non avvenisse un attacco improvviso. Queste stesse (postazioni) erano affidate di notte a sentinelle e a valide guarnigioni. LXX Cominciati i lavori (= sing.), avviene uno scontro di cavalleria in quella pianura, che, come abbiamo già detto, frapposta fra i colli, si stendeva in lunghezza per 3 milia. Si combatte da entrambe le parti con grandissima forza. Essendo in nostri in difficoltà, Cesare manda i Germani e schiera le legioni davanti l’accampamento, per evitare un attacco improvviso da parte della fanteria dei nemici. Aggiunto l’aiuto delle legioni è accresciuto il coraggio dei nostri. Messi in fuga i nemici, per il loro grande numero, si ostacolano e si accalcano davanti alle restanti porte troppo strette. I Germani li inseguono con grande ardore fino alle fortificazioni. Avviene una grande carneficina. Alcuni, abbandonati i cavalli, tentano di attraversare il fossato e di scalare il muro. (Intanto) Cesare ordina che siano fatte avanzare un poco le legioni, che aveva disposto davanti al vallo. Quelli che erano dentro le mura non erano meno spaventati. I Galli pensando di essere improvvisamente attaccati, chiamano alle armi. Alcuni spaventati si precipitano in città. Vercingetorige allora ordina che le porte fossero chiuse, per non lasciare indifeso l’accampamento. I Germini, dopo aver ucciso molti e aver catturato numerosi cavalli, si ritirano. LXXI Vercingetorige, prima che siano completate le fortificazioni dai Romani, prende la decisione di far partire tutta la cavalleria di notte. A coloro che partono raccomanda, che ciascuno raggiunga la propria popolazione e che raccolgano per la guerra tutti quelli che per l’età possano portare le armi. Espone i propri meriti nei loro confronti e (li) supplica di tenere conto della sua vita, di non consegnarlo alle torture dei nemici, lui che (aveva) tanto merito perla comune libertà. Spiega (loro) che fossero stati negligenti, sarebbero morti insieme a lui 80mila uomini scelti. Secondo i (suoi) calcoli egli aveva grano appena per 30 giorni, ma razionandolo si poteva resistere anche un poco più a lungo. Dati questi ordini, fa uscire la cavalleria silenziosamente durante il secondo turno di guardia, dove il lavoro dei nostri interrotto. Ordina che sia portato a lui tutto il grano, stabilisce la pena di morte per quelli, che non avessero obbedito. Distribuisce a ciascuno il bestiame, che era stato radunato in grande quantità dai Mandubi, e dispone che il grano sia assegnato con parsimonia e poco per volta. Accoglie in città tutte le truppe che erano state schierate a difesa della fortificazione. Con queste misure si prepara ad attendere gli aiuti della Gallia e a dirigere la guerra. LXXII Sapute queste cose, dai disertori e dai prigionieri, Cesare decise queste opere d’assedio. Scavò un fossato di 20 piedi a pareti verticali, in modo che la base di quel fosso fosse tanto larga, quanto era distante dagli orli della sommità del fossato. Realizzò tutte le altre opere difensive a 400 piedi da quel fossato, con questo scopo, poiché si era reso necessario recintare uno spazio tanto grande e (poiché) non era facilmente possibile difenderlo interamente con una corona di soldati, (voleva impedire) che all’improvviso o di notte una massa di nemici si precipitasse ad assalire le linee le linee di fortificazione o che di giorno potesse scagliare dardi contro i nostri che erano impegnati nei lavori (di fortificazione). Lasciato questo spazio, fece scavare due fossati larghi 15 piedi e della stessa altezza. Di questi riempì il più interno, in punti pianeggianti e bassi, di acqua fatta affluire dal fiume. Dietro quelli innalzò un terrapieno e un vallo di 12 piedi, a cui aggiunse un parapetto e merli con grandi pali sporgenti, per congiungere i parapetti e i terrapieni, così che ostacolassero la scalata dei nemici, e circondò tutta l’opera (di fortificazione) con torri, che distavano tra loro 80 piedi. LXXIII Nello stesso momento si doveva sia provvedere al legname e al grano sia costruire tanto grandi fortificazioni, essendo ridotte le nostre truppe, poiché si allontanavano sempre più dall’accampamento. E talvolta i Galli mettevano alla prova le nostre opere (di fortificazione) e tentavano di fare sortite con grande violenza, da più di una porta della città. Perciò Cesare ritenne di dover aggiungere a queste, altre difese, affinché le fortificazioni potessero essere difese con un numero minore di soldati. Allora, tagliati tronchi d’albero, con rami molto robusti, tolta la corteccia di questi e rese aguzze le punte, erano scavate continui fossati profondi 5 piedi. Qui quei pali piantati e legati in basso, in modo da non poter essere divelti, sporgevano dalla (parte) dei rami. C’erano 5 file (di pali) uniti e legati tra di loro: quelli che vi erano entrati, si infilzavano con gli acutissimi pali. Questi li chiamavano cippi. Davanti a questi, in file oblique disposte come i 5 punti di un dado, erano scavate buche di tre piedi di profondità, con la parte in basso a poco a poco più stretta verso il fondo. Qui erano piantati pali rotondi, della grossezza di una coscia, appuntiti all’estremità e bruciati in punta, così che non sporgessero da terra più di 4 dita. Contemporaneamente per rafforzarli e stabilizzarli, erano rimboccati con terra dal basso per un’altezza di un solo piede. La parte restante della fossa era ricoperta da vimini e arbusti per nascondere la trappola. Tracciate otto file di questo tipo (di fosse), distavano tra loro 3 piedi. Lo chiamavano giglio per la somiglianza con il fiore. Davanti a questi erano interrati pioli lunghi un piede, tutti in terra, con un uncino di ferro all’estremità ed erano distribuiti in tutti i luoghi a distanze intervallate, i quali si chiamavano pungoli. LXXIV Terminate tali opere, assecondando per quanto (gli) era possibile i terreni più favorevoli per conformazione naturale, predispose, abbracciando un’estensione di 14 miglia, una linea difensiva dello stesso genere della precedente, ma in direzione opposta, contro un nemico proveniente dall’esterno; (fece questo) perché i difensori delle fortificazioni non potessero essere circondati da una grande massa (di nemici), cosa che poteva accadere qualora si fosse allontanato. Ma per non essere costretti ad uscire dall’accampamento con pericolo, ordina a tutti di avere una riserva di frumento e foraggio per 30 giorni. LXXV Mentre si compiono davanti ad Alesia queste cose, i Galli, indetta un’assemblea di capi, decidono che non si debbano convocare tutti quelli che potevano portare le armi – come pensò Vercingetorige -, ma che si dovesse ordinare un numero preciso ad ogni popolazione, perché essendo mescolata insieme una così grande moltitudine, non potessero controllarla né distinguere i propri, né provvedere alla razione di frumento. Comandano agli Edui e ai loro alleati, cioè ai Segusiavi, agli Ambivareti, agli Aulerci Brannovici, e ai Blannovii 35 mila (uomini); lo stesso numero agli Arverni, insieme agli Eleuteti, ai Cadurci, ai Gabali, ai Vellavi, che erano soliti essere sotto il potere degli Arverni; ai Sequani, ai Senoni, ai Biturigi, ai Santoni, ai Ruteni, ai Carnuti 12 mila (uomini); ai Bellovaci 10 mila (uomini); altrettanti ai Lemovici; 8 mila ai Pictoni, ai Turoni, ai Parisi, agli Elvezi; 5 mila ai Suessioni, agli Ambiani, ai Mediomatrici, ai Petrocori, ai Nervi, ai Morini, ai Niziobrogi; altrettanto agli Aulerci Cenomani; 4 mila agli Atrebati; 3 mila ai Veliocassi, ai Lessovi, agli Aulerci Eburovici; 30 mila ai Rauraci e ai Boi e a tutti gli altri popoli, che toccano l’oceano e che per consuetudine sono chiamati Armorici, nel cui numero ci sono i Coriosoliti, i Redoni, gli Ambibari, i Caleti, gli Osismi, i Veneti, i Lemovici, i Venelli. Tra questi i Bellovaci portarono il loro numero, poiché dicevano che avrebbero combattuto la guerra contro i Romani a proprio nome e LXXX Cesare, schierato tutto l’esercito su entrambi i fronti della fortificazione, in modo che ognuno, se ce ne sia bisogno, occupi la sua posizione e la conosca; ordina che esca la cavalleria dall’accampamento e che si incominci la battaglia. Si vedeva da tutti gli alloggiamenti, che da ogni parte occupavano la cima del colle, e tutti i soldati, con lo sguardo fisso, aspettavano l’esito dello scontro. I Galli avevano schierato, in mezzo ai cavalieri, pochi arcieri e fanti di armatura leggera, che ritirandosi i loro, accorressero in aiuto e sostenessero l’attacco dei nostri cavalieri. Parecchi colpiti all’improvviso da questi si ritiravano dal combattimento. Confidando i Galli che i loro fossero superiori in guerra e vedendo che i nostri erano sopraffatti dalla moltitudine (di nemici), da tutte le parti, sia quelli che erano contenuti nelle fortificazioni, sia quelli che erano giunti in aiuto, rinvigorivano gli animi dei loro con grida e urla. Poiché la cosa si svolgeva al cospetto di tutti (= poiché si combatteva davanti agli occhi di tutti) e nessuna azione, gloriosa o vile, poteva essere celata, sia il desiderio di lode sia il timore d’infamia, invitava al valore gli uni e gli altri. Poiché si combatteva da mezzogiorno, quasi al tramonto del sole, con dubbia vittoria, i Germani, radunati in un solo punto i plotoni, fecero un attacco contro i nemici e li cacciarono indietro. Messi in fuga questi, (anche) gli arcieri furono circondati e uccisi. Ugualmente, dagli altri lati, i nostri, inseguendo quelli che si ritiravano fino all’accampamento, non diedero loro la possibilità di riorganizzarsi. Ma quelli che erano venuti fuori da Alesia, addolorati, essendo la vittoria quasi senza speranza, si recarono (di nuovo) nella città. LXXXI I Galli, trascorso un giorno, e preparato, in questo tempo un gran numero di graticci, scale e arpioni, usciti a mezzanotte in silenzio dall’accampamento, si avvicinano alle fortificazioni della pianura. All’improvviso lanciato un grido – con questo segnale, coloro che erano assediati in città, avrebbero saputo del loro arrivo –, si preparano a gettare i graticci, a sbaragliare i nostri dalla trincea con fionde, frecce e pietre, e ad organizzare le restanti cose, che servivano per l’assedio. Nello stesso tempo Vercingetorige, udito il grido, con la tromba dà il segnale ai suoi e (li) porta fuori dalla città. I nostri, poiché nei giorni precedenti era stato assegnato a ciascuno il proprio posto, accorrono alle linee difensive. Con fionde da una libra e con pali, che avevano disposto sul vallo e con proiettili di piombo mettono in fuga spaventando i Galli. Quando le tenebre tolsero la possibilità di vedere, ci furono molti feriti da entrambe le parti. E furono lanciati molti dardi con le catapulte. Ma i legati Marco Antonio e Gaio Trebonio, i quali avevano il compito di dover difendere queste posizioni, dalla parte nella quale aveva capito che i nostri erano sopraffatti, a questi mandavano in aiuto contingenti provenienti dai fortini più lontani. LXXXII Finché i Galli erano abbastanza lontani dalla fortificazione, si avvantaggiavano di più della moltitudine di dardi. Ma quando si avvicinarono maggiormente, o rimanevano impigliati, senza accorgersene, negli uncini, o scivolati nelle buche rimanevano infilzati o morivano, trafitti da giavellotti murali (provenienti) dal vallo e dalle torri. Subite da ogni parte molte perdite, senza aver sfondato nessuna fortificazione, sul far del giorno, temendo di essere accerchiati con una sortita sul fianco aperto dagli accampamenti superiori, si ritirarono presso i loro. Ma gli assediati, mentre portano fuori le cose che erano state preparate da Vercingetorige per l’assedio, riempiono i fossati più vicini, e fermatisi troppo a lungo nel sistemare queste cose, si accorsero che i loro si erano allontanati prima di avvicinarsi alle fortificazioni. Così incompiuta la cosa, si ritirarono in città. LXXXIII Per due volte respinti con grandi perdite, i Galli si consultavano sul da farsi. Si rivolgono a gente esperta dei luoghi. Da questi apprendono le postazioni degli accampamenti superiori e le fortificazioni. A settentrione c’era un colle che i nostri non avevano potuto includere nell’opera di fortificazione a causa dell’estensione del perimetro, e necessariamente avevano allestito l’accampamento su una posizione non proprio favorevole e leggermente in pendenza. Mantenevano (= a difesa) queste cose i legati Gaio Antistio Regina e Gaio Caninio Rebilo con due legioni. Conosciute le zone per mezzo degli esploratori, i comandanti dei nemici scelgono da tutto il numero 60 mila (uomini) di quelle popolazioni, che avevano la massima fama di valore. Segretamente decidono fra di loro, cosa e in che misura si decida di agire. Fissano il momento di attaccare, quando sembra all’incirca mezzogiorno. A queste truppe mettono a capo l’arverno Vercassivellauno, uno dei 4 comandanti, cugino di Vercingetorige. Quello uscito dall’accampamento durante il primo turno di guardia, quasi terminata la marcia all’alba, si nascose dietro al monte e ordinò che i soldati si riposassero dalla fatica notturna. Quando sembrò ormai arrivare mezzogiorno, si diresse verso l’accampamento, di cui abbiamo parlato. E nello stesso tempo cominciarono la cavalleria ad avvicinarsi alle fortificazioni della pianura e le altre truppe a mostrarsi davanti all’accampamento. LXXXIV Vercingetorige avendo visto dalla rocca di Alesia i suoi (uomini), esce dalla città. Porta fuori graticci, pali, gallerie mobili, falci e le altre cose che aveva preparato per la sortita. Si combatte nello stesso tempo in tutti i luoghi e sono tentate tutte le cose. La parte che è sembrata per nulla sicura, là si accorre. La schiera dei romani è distribuita lungo fortificazioni tanto estese e non si oppone facilmente in più luoghi. Le grida contribuiscono a spaventare molto i nostri, queste si levano dietro le spalle ai combattenti, poiché vedono che il proprio pericolo consiste nel valore altrui (= capivano che la loro vita era legata al valore degli altri). infatti tutte le cose che sono per lo più assenti, turbano più fortemente le menti degli uomini. LXXXV Cesare raggiunto un luogo adatto, si rende conto di ciò che avviene in ogni parte. Manda rinforzi a quelli che sono in difficoltà. Da entrambe le parti si ha la convinzione che quello sia il momento unico, in cui convenga che ci sia batta al massimo: i Galli se non sfondavano le fortificazioni, perdevano ogni speranza di salvezza; i Romani se mantenevano la posizione, si attendevano la fine di tutte le fatiche. Ci si sforza al massimo presso le fortificazioni superiori, dove, come abbiamo detto, era stato mandato Vercassivellauno. La pendenza sfavorevole del luogo ha grande importanza. Alcuni lanciano dardi, altri, fatta una testuggine, avanzano. Forze fresche subentrano a quelle esauste. La terra gettata da tutti (i Galli) contro la fortificazione, permette la scalata ai Galli e copre le cose che i Romani avevano nascosto sotto terra. Ormai ai nostri non bastano né le armi né le forze. LXXXVI Sapute queste cose, Cesare invia Labieno con 6 coorti in aiuto di quelli in difficoltà. (Gli) comanda, che se non si può resistere, di combattere con una sortita, dopo aver portato fuori le coorti. Non doveva farlo, se non fosse stato necessario. Egli si avvicina a quelli restanti e (gli) esorta a non lasciarsi sopraffare dalla fatica. Spiega (loro) che il frutto di tutti gli scontri precedenti, dipende da quel giorno, anzi da quell’ora. Gli assediati, non sperando più nei luoghi della pianura, a causa della grandezza delle fortificazioni, tentano la salita di luoghi scoscesi; qua radunano le cose che avevano preparato. Con una moltitudine di proiettili scacciano dalle torri i difensori, riempiono i fossati con terra e graticci, e tagliano con le falci la trincea e il parapetto. LXXXVII Cesare invia dapprima il giovane Bruto con (alcune) coorti, poi il legato Gaio Fabio con altre. Infine egli stesso, mentre si combatteva più violentemente, porta truppe fresche in aiuto. Ripreso lo scontro e respinti i nemici, si dirige là dove aveva mandato Labieno. Fa uscire 4 coorti dalla fortificazione più vicina; ordina che una parte della cavalleria lo segua, e che l’altra aggiri le difese esterne e attacchi i nemici alle spalle. Labieno, dopo che né i terrapieni né i fossati potevano sostenere l’impeto dei nemici, radunate 39 coorti, che fatte venire dai vicini presidi, gli offrì il caso, rende più sicuro Cesare per mezzo di messaggeri, su cosa riteneva di dover fare. Cesare si affretta per partecipare alla battaglia. LXXXVIII Essendosi accorti del suo arrivo dal colore del mantello, che era solito indossare in battaglia come segno di riconoscimento, e dopo aver visto schiere di cavalieri e coorti, alle quali aveva ordinato di seguirlo, i nemici, che osservavano dai luoghi superiori (= colli), le cose nella valle e sul pendio, attaccavano battaglia. Levatosi da entrambe le parti un grido, segue per la seconda volta un clamore dal vallo e da tutte le fortificazioni. I nostri lanciati i giavellotti, combattono con le spade. All’improvviso alle spalle si scorge la cavalleria. Altre coorti si avvicinano. I nemici voltano le spalle. I cavalieri corrono incontro a quelli che fuggono. Avviene una grande strage. Sedullo, comandante e principe dei Lemovici viene ucciso. L’arverno Vercassivellauno è catturato vivo in fuga. Sono riportate a Cesare 74 insegne militari. Pochi, di un così grande numero, si ritirano incolumi nell’accampamento. Scorgendo dalla città la strage e la fuga dei loro, persa ogni speranza di salvezza, ritirano le truppe dalle fortificazioni. Sentita questa notizia, avviene subito la fuga dei Galli dall’accampamento. Se i (nostri) soldati non fossero stati stremati dai continui interventi e dalla fatica di tutta la giornata, tutte le truppe dei nemici sarebbero state distrutte. Verso mezzanotte, inviata la cavalleria, raggiunge la retroguardia. Un gran numero (di nemici) viene preso e ucciso. I restanti si dirigono in fuga verso le (loro) nazioni.