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Traduzione completa del IV libro dell'Eneide, Virgilio, Traduzioni di Lingua Latina

Traduzione più possibilmente letterale e allo stesso tempo corretta, e analisi dell'opera di Virgilio per l'esame di latino all'Università di Pisa con la professoressa Piazzi

Tipologia: Traduzioni

2017/2018

In vendita dal 19/04/2018

Mab13_
Mab13_ 🇮🇹

4.5

(46)

35 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Traduzione completa del IV libro dell'Eneide, Virgilio e più Traduzioni in PDF di Lingua Latina solo su Docsity! Virgilio, IV libro dell'Eneide DIDONE E LA CARA SORELLA ANNA vv.1-5 : Didone, dopo aver ascoltato il racconto di Enea, si è ritirata nelle sue stanze, ma non riesce a prendere sonno: già preda della passione, ella rivive continuamente le avventure del suo eroe, l'immagine e le parole di le tornano sempre alla mente. Ma la regina, già da tempo ferita (saucia) da una pesante preoccupazione alimenta una ferita nelle vene ed è consumata da un fuoco invisibile (caeco igni è ablativo di causa efficiente). Sovente (multa) le torna nell'animo la grande virtù dell'uomo e il grande onore della stirpe, le rimangono conficcati nel cuore il suo volto e le sue parole, né la preoccupazione dà placida quiete alle membra. vv. 6-30 : Al sorgere dell'Aurora, Didone si confida con sua sorella Anna. Con apparente fermezza la regina dichiara il proposito di non voler cedere alla passione; ma le lacrime rivelano il sentimento che si è impadronito di lei. L'Aurora del giorno seguente illuminava con la lanterna di Febo le terre ed aveva allontanato dal cielo l'ombra umida (caso di hysteron proteron, che consiste nell'enunciare prima ciò che viene logicamente viene dopo), quando si rivolge, folle, così alla sorella unanime: “Oh sorella Anna, che incubi mi spaventano, tenendomi nell'incertezza (suspensam)! Che ospite straordinario (novos) è questo che è giunto nella nostra dimora, quanto è nobile nell'aspetto (ore è ablativo di limitazione), quanto forte nel cuore e nelle armi (lett. quale mostrandosi nel volto, quale forte nell'aspetto e nelle armi, e pectore e armis sono ablativi di qualità)! Io credo certamente, e non è vana speranza, che appartenga alla stirpe degli dèi. Il timore rivela gli animi non nobili. Ohimè, da quali sorti egli è stato mandato lontano! Quali guerre compiute raccontava (caso di hysteron proteron)! Se (periodo ipotetico dell'irrealtà) il proposito che mi sono data non risiedesse fisso e irremovibile nel mio animo per il quale non voglio legarmi in un vincolo matrimoniale, dopo che il primo amore mi ha ingannato (fefellit) e mi deluse (deceptam) con la morte; se non mi fossi disgustata nei confronti del talamo e delle torce nuziali, forse avrei potuto cedere a quest'unica colpa. Anna, ti confesserò dunque (enim), dopo la morte del povero coniuge Sicheo e (dopo che) la casa (penates) fu insanguinata dal delitto di mio fratello, solo questo ha toccato (inflexit) i miei sensi ed ha colpito (impulit) il mio animo vacillante. Riconosco i segni dell'antica fiamma (verso ripreso da Dante nel XXX canto del Purgatorio in riferimento a Beatrice e alla sua apparizione)! Ma vorrei (optem è congiuntivo ottativo) che prima la terra profonda (tellus ima) mi si aprisse davanti, o che il padre onnipotente (Giove) mi spingesse con un suo fulmine verso le ombre, le ombre del pallido Erebo (è una divinità nominata da Esiodo che lo dice figlio del Caos e successivamente, in quanto dio delle tenebre, è associato e spesso identificato con il regno dei morti) e verso la notte profonda, prima che, oh Pudore, io ti violi o infranga le tue leggi. Colui che, per primo, mi congiunse a sé, ha portato via il mio amore; egli lo tenga con sé e lo conservi nella tomba”. Espressasi in questo modo riempì il lembo della veste (sinum) di lacrime che sgorgavano all'improvviso (obortis). vv. 31-53 : Di fronte al turbamento della sorella, Anna risponde rinfocolando la passione che l'ha avvinta: a che pro – dice – mantenere la fedeltà ad un morto e consumare così in un vano ricordo la giovinezza? Ciò che Didone deve fare, a giudizio di Anna, è cercare di trattenere lo straniero finché la stagione invernale rendere impraticabile la navigazione. Anna risponde: “Oh tu che per tua sorella sei più cara della luce (luce sta per vita ed è ablativo di paragone), forse (ne è avverbio enclitico) ti consumerai (carpere=carperis) da sola piangendo per l'intera giovinezza, e non conoscerai i dolci figli né le gioie di Venere? Credi che si curino di ciò le ceneri o i Mani sepolti? Benché (esto è imperativo futuro di sum, qui con valore concessivo e riferito a quel che segue) nessun pretendente (nulli mariti) ti piegò, un tempo (quondam) addolorata (aegram), non in Libia, non prima a Tiro; fu respinto Iarba (re dei Massitani che aveva concesso ospitalità a Didone esule da Tiro e ne aveva chiesto la mano, ricevendo però un rifiuto) e gli altri condottieri, che la terra d'Africa, ricca di trionfi, alimenta: dunque (ne è avverbio enclitico) resisterai anche ad un amore gradito? Non ti viene in mente nei territori di chi ti sei stabilita? Di qui le città dei Getuli, stirpe insuperabile in guerra, e i Numidi indomabili ci attorniano e l'inospitale Sirti, di qui la regione deserta a causa della siccità e i Barcei che infuriano largamente. Che cosa dire (quid dicam) riguardo le guerre che risorgono da Tiro e le minacce del fratello? Penso che certamente le navi troiane (iliacas carinas) abbiano mantenuto (tenuissent) questa rotta (hunc cursum) grazie al vento, ad auspici divini e al favore di Giunone. Quale (quam) città, oh sorella, vedrai sorgere, che regno, da un tale matrimonio! Con l'aiuto delle armi dei troiani a quante grandi imprese si eleverà la gloria cartaginese! Tu chiedi soltanto agli dèi il favore (veniam) e, resi i sacrifici (sacris litatis), compi i doveri di ospitalità e inventa (innecte) pretesti per farlo rimanere, finché sul mare cala l'inverno e il tempestoso Orione, finché le navi sono distrutte, finché il clima è sfavorevole”. L'AMORE DI DIDONE vv. 54-67 : Le parole di Anna hanno incendiato l'animo già ardente di Didone, eliminando in lei ogni ritegno ed esitazione. Ora le due sorelle entrano nei templi e compiono sacrifici propiziatori, allo scopo di procurarsi la benevolenza degli dèi. Con queste parole infiammò l'animo con un amore immenso (inpenso) e diede speranza alla mente dubbiosa e sciolse il pudore (inflammavit, dedit e solvit formano il tricolon). All'inizio si recano nei templi e chiedono il favore (divino) altare per altare; sacrificano (mactant), secondo l'uso rituale (de more), pecore bidenti a Cerere legislatrice, a Febo e al padre Lieo, a Giunone prima di tutti, alla quale sono di cura i vincoli nuziali (cui...curae sottintende sunt ed è costruito con il doppio dativo). La stessa Didone, bellissima, tenendo nella destra la ciotola sacrificale, la versa fra le corna di una candida giumenta o cammina davanti ai monumenti degli dèi (deum = deorum) nelle zone ricche di offerte (ora pinguis); rinnova il giorno con le offerte e, osservando i petti aperti (reclusis pectoribus è dativo dipendente da inhians) delle bestie (pecudum), consulta con ansia le viscere palpitanti. Ahimè, oh menti ignare degli indovini! A che cosa giovane a lei, folle d'amore, le preghiere, a che cosa i templi? Nel frattempo si una fiamma si diffonde nelle molli viscere e sopravvive, in silenzio, la ferita nel cuore. vv. 68-89 : La sventurata regina non trova pace né giorno né notte; e nel frattempo trascura i suoi doveri di sovrana, tanto che giacciono abbandonati anche i grandiosi lavori di costruzione della città. Arde l'infelice Didone e vaga, folle, per tutta la città, come (qualis, con funzione di relativo) una cerva colpita da una freccia, che incauta, da lontano un pastore ha trafitto nei boschi cretesi, inseguendola (agens) con i dardi (telis) e le ha lasciato nella carne, senza saperlo, il ferro alato: quella percorre, nella fuga, le selve e le gole dittee, ma il dardo letale le rimane conficcato nel fianco (lateri). Ora conduce con sé Enea attraverso la città e mostra le ricchezze Sidonie e la città preparata (Cartagine era in costruzione): comincia a parlare e a metà del discorso si ferma; ora, al calar del giorno (labente die), ricerca gli stessi convivi e chiede di nuovo di ascoltare le fatiche dei troiani, folle, e nuovamente (iterum) pende dalla bocca del narratore. Dopo, quando si sono separati e la luna, a sua volta (vicissim) oscura, nasconde la sua luce e le stelle, tramontando, inducono al sonno, sola si tormenta nella casa vuota e giace sulle coperte (stratis) abbandonate. Lei assente, sente e vede lui assente, o tiene in braccio Ascanio, presa dall'immagine del genitore per cercare di ingannare l'amore indicibile (lett. Se possa ingannare l'amore indicibile). Non si alzano più le torri già iniziate, la gioventù non si esercita nelle armi e non prepara porti o fortificazioni (propugnacula) sicure per la guerra: rimangono sospesi i lavori, le grandi mura minacciose e la macchina che si innalza verso il cielo. PATTO FRA GIUNONE E VENERE vv. 90-104 : Giunone, che scorge nei fati il pericolo che la futura stirpe di Enea rappresenterà per la sua città prediletta, persuade Venere a far sì che l'eroe troiano resti a Cartagine e si congiunga con Didone con il sacro vincolo del matrimonio. Non appena (simul) la cara consorte di Giove si accorse che ella (quam si riferisce a Didone) era posseduta da un tale flagello e che l'onore non tratteneva la follia, allora la Saturnia (epiteto di Giunone in quanto figlia di Saturno) si rivolse a Venere con tali parole: “Tu e tuo figlio riportate certamente un grande onore e grandi vittorie, un nome grande e memorabile, se una sola donna fu vinta dall'inganno di due dèi. Non mi sfugge di certo (adeo è rafforzativo di me) che tu, temendo le nostre mura, abbia ritenuto sospette le case dell'alta Cartagine. Ma quale sarà il limite (modus) o in che luogo (quo) andrà a finire ora una così grande contesa? Perché piuttosto non concludiamo una pace legittima e nozze durature (hymenaeos pactos)? Hai ciò che hai desiderato con tutta l'anima: Didone arde amando (d'amore) ed ha assorbito la passione fin nelle ossa. Dunque guidiamo comunemente questo popolo e con pari autorità, sia concesso a Didone di sottostare a un marito frigio e di affidare alla tua destra i Tirii in qualità di dote”. vv. 105.-128 : Venere comprende l'inganno che si cela dietro le parole di Giunone, ma è felice di accettare la proposta che corrisponde anche a quanto ella ha sempre desiderato. La sposa di Giove spiega allora il suo piano: durante una battuta di caccia, scatenando un temporale, farà sì che Didone ed Enea si trovino da soli in una grotta, e lì avverrà l'unione coniugale. Venere annuisce e sorride compiaciuta. A lei (olli è forma arcaica per illi) – si accorse infatti che aveva parlato (locutam, sott. esse Iunonem) con intenzione ingannevole, affinché (quo) deviasse il regno d'Italia sulle coste (oras, sott. ad) libiche, così, a sua volta/ di rimando (contra) cominciò a dire (est ingressa = coept dicere): “Chi, fuori di sé, respingerebbe (abnuat) tali cose/proposte o preferirebbe (abnuat e malit sono congiuntivi potenziali) mettersi in guerra (bello è un ablativo strumentale) contro di te? Purché (si modo) la buona sorte (fortuna) assecondi (sequatur) ciò che dici (memoras). Ma io sono incerta a casa dei fati (fati è ablativo di persona e va ricordato che si tratta di un verbo deponente e la forma non deve essere confusa con l'infinito che è labi) con le ali (pinnis) e parla al capo troiano che ora indugia nella Cartagine tiria e non guarda le città dategli dal fato e porta le mie parole attraverso l'aria veloce. La genitrice bellissima (Venere) non ce lo promise così e non per questo motivo lo ha salvato due volte dalle armi dei Greci; ma (promise che è sottinteso) che sarebbe stato in grado di reggere l'Italia piena di regni e fremente di guerra, che sarebbe stato in grado di diffondere la stirpe dal nobile sangue e di sottomettere tutto il mondo alle sue leggi. Se non lo accende alcuna gloria di così grandi imprese e non muove lui stesso la fatica per la propria fama, forse che (ne avverbio enclitico), come padre, invidia ad Ascanio le rocche romane? Che cosa progetta? O con quale speranza ritarda fra gente nemica e non si volta/pensa a guardare la prole ausonia e le terre lavinie? Navighi (è congiuntivo esortativo); questo è tutto, questo sia (esto è imperativo futuro di sum) il nostro messaggio”. vv. 238-258 : Appena ricevuto l'ordine del padre celeste, Mercurio prende i calzari alati e la verga e si mette in viaggio; dopo aver attraversato la lunga distesa del mare egli si ferma sul monte Atlante e poi, a guisa di uccello marino, si dirige a volo alla volta delle spiagge sabbiose dell'Africa. Aveva sentenziato. Egli si prepara ad obbedire (pareo con il dativo ha il significato di obbedire) all'ordine del grande padre: prima si allaccia i calzari d'oro ai piedi che lo portano, con le ali, in alto o sopra le acque o sopra la terra, insieme al rapido vento. Poi (tum) prende la verga; con questa egli richiama le anime pallide dall'Orco (antica divinità dell'Oltretomba, identificata poi con il greco Ade), altre le manda sotto i tristi Tartari (il Tartaro era, nella tradizione greca, il luogo oltremondano di punizione dei colpevoli), dà i sonni e gli toglie e riapre gli occhi dalla morte. Fiducioso (fretus) in quella spinge (agit) i venti ed attraversa le torbide nuvole. E ormai, volando, vede la vetta ed i pendii ripidi del duro Atlante che con la testa (vertice) sostiene il cielo, di Atlante, al quale la testa ricca di pini, cinta frequentemente da nubi nere, è battuta dal vento e dalla pioggia: la neve diffusa (infusa) gli ricopre le spalle; poi (tum) fiumi precipitano dal mento del vecchio (senis) e la ruvida barba è intirizzita a causa del ghiaccio. Qui (hic ha funzione di avverbio), in un primo momento, il Cillenio (epiteto di Mercurio in quanto generato da Maia sul monte Cillene, in Arcadia) splendente si ferma con entrambe le ali; da qui si lanciò a capofitto con tutto il corpo nelle onde, simile all'uccello che vola basso intorno alle spiagge, intorno agli scogli pescosi, vicino (iuxta) alle acque: non diversamente (haut aliter) la prole cillena, provenendo dall'avo materno, volava fra cielo e terra verso il lido sabbioso di Libia e tagliava i venti (volabat e secabat danno origine all'omoteleuto). vv. 259-278 : Appena giunto a Cartagine, Mercurio scorge Enea che presiede ai lavori di costruzione della città, adorno di gemme preziose e di uno splendido mantello, tutti regali della bella Didone. Senza alcun indugio il dio gli riferisce immediatamente gli ordini ricevuti da Giove, dileguandosi poi nell'aria sottile. Non appena (ut primum) toccò con le piante alate le capanne (magalia)vede Enea intento a costruire le rocche e a ricostruire le case, a lui (illi = Enea) era anche (atque) una spada scintillante (stellatus) di rosso diaspro ed un mantello (laena) che scintillava di porpora tiria, appoggiato sulle spalle, doni che gli aveva fatto la ricca Didone e ne aveva trapunto il tessuto (telas) con sottili fili d'oro. Subito (continuo) lo assale: “Tu ora poni (locas) le fondamenta dell'alta Cartagine e costruisci una bella città, schiavo della moglie, ahimè dimentico del regno e delle tue cose? Lo stesso signore (regnator) degli dèi mi manda da te dal luminoso Olimpo, lui che con la sua potenza divina (numine) smuove cielo e terra; egli stesso mi ha ordinato di portare questi ordini, veloce attraverso il cielo: che cosa progetti? O con quale speranza perdi tempo (teris otia) nelle terre libiche? Se non ti smuove nessuna fama di così grandi imprese [e non affronti tu stesso l'impegno per il tuo onore versi ritenuti spuri]→ guarda ad Ascanio che sta crescendo e alla speranza dell'erede Iulo, al quale è dovuto il regno d'Italia e la terra (tellus) romana”. Il Cillenio, dopo aver parlato con tali parole, abbandonò l'aspetto (visus) mortale in mezzo al discorso e da lontano (procul) si dileguò agli occhi nell'aria leggera. vv. 279-295 : L'inattesa apparizione di Mercurio risveglia in Enea la coscienza di sé e del suo destino, tanto che arde subito dal desiderio di partire. Ma come potrà convincere Didone, o soltanto cominciare con lei un tale discorso? In attesa di trovare il momento migliore per parlarle, Enea chiama i compagni e ordina loro di allestire in gran segreto le navi per la partenza. I troiani eseguono con entusiasmo l'ordine del proprio capo. Ma Enea veramente, delirante, rimase senza parole e i capelli erano dritti per l'agitazione (horrore) e la voce gli rimase in gola. Smania di andarsene in fuga e di lasciare le dolci terre (dicolon abundans), sbalordito da un così grande avvertimento e ordine degli dèi. Ahi, che cosa fare? Con quale discorso (adfatu) ora osa circuire la regina furente? Quali iniziative (exordia) prende per prime (si tratta di un discorso diretto libero)? E rivolge il pensiero veloce ora qui ora lì e lo trascina in varie direzioni e si volge da ogni parte. A lui, esitante, questa sembrò la soluzione migliore (potior è aggettivo): chiama Mnsteo e Sergesto e il forte Seresto, affinché allestiscano (si tratta di una serie di congiuntivi esortativi) in silenzio la flotta, radunino (cogo deriva da cum+ago) gli alleati sulle coste, preparino le armi e nascondano quale sia il motivo per cambiare i piani (rebus novandis, si tratta del gerundivo dativo con valore finale in luogo del genitivo di uso più comune); nel frattempo egli (sese), dal momento che (quando), la buona Didone è ignara e non teme che un così grande amore possa essere infranto, avrebbe tentato/tenterà le vie (aditus) e quale sia il momento più opportuno (mollissima) per parlarle (fandi), quale la maniera migliore per le circostanze (rebus, dicolon abundans). Al più presto (ocius, si tratta di un avverbio comparativo con valore positivo) tutti, lieti, obbediscono all'ordine ed eseguono (facessunt è intensivo di facio) i comandi. LAMENTO DI DIDONE vv. 296-330 : Nonostante il tentativo di Enea di mantenere segreti i preparativi della partenza Didone ha saputo la verità. Come una baccante invasata dal dio, vaga infuriata per la città; poi parla a Enea, rivolgendogli un lungo e appassionato discorso, nel quale alterna orgoglio e umiltà, preghiere, suppliche e velate minacce. La dignità della regina si mescola con la più istintiva femminilità, quando ella si rammarica della mancanza di un figlio, di un piccolo Enea che, con la sua presenza, avrebbe potuto almeno ricordarle il volto dell'uomo amato. Ma la regina intuì l'inganno (chi può imbrogliare un'innamorata?) e per prima apprese le mosse future, temendo tutte le cose sicure. L'empia Fama riferì a lei furiosa le stesse cose, che si armava la flotta e si preparava il viaggio. Infuria (saevit) con l'animo smarrito e, agitata, delira per tutta la città come una baccante (Thyias) infiammata dai riti iniziati (sacris commotis), quando, udito l'urlo di Bacco, le orge triennali la stimolano e la chiama il notturno Citerone (si tratta di un monte presso Tebe dove si tenevano di notte, quando si credeva che il dio fosse presente, i riti) con il frastuono. Infine spontaneamente (ultro) si rivolge a Enea con queste parole: “Speravi anche, oh delinquente (perfide), di nascondere un piano tanto infame e di poterti allontanare in silenzio dalla mia terra? Non ti trattiene il nostro amore, né la mano destra che un tempo mi hai dato, né Didone destinata a morire con una morte crudele? Anzi (quin etiam) allestisci la flotta anche nella stagione (sidere) invernale e ti affretti (properas) ad andare in alto mare (per altum) in mezzo alle tempeste/aquiloni (si tratta di venti del nord, o boree, che portano comunemente pioggia e tempeste), oh crudele (crudelis)? Che? Se tu non cercassi territori stranieri e case ignote e rimasse l'antica Troia, Troia sarebbe ricercata con le flotte attraverso le acque ondose? Forse fuggi me? Io ti prego per queste lacrime e per la tua destra - dal momento che io stessa non lasciai nient'altro (aliut nihil) a me misera – per la nostra unione, per le nozze iniziate, se ho ben meritato di te in qualcosa/se ho qualche merito nei tuoi confronti (quid è accusativo di relazione), se qualcosa di me ti fu gradito, abbi pietà della casa che cade e, ti prego, se c'è ancora un qualche luogo per le preghiere, abbandona codesto progetto. A causa tua (te propter è anastrofe e anafora) i popoli libici e i tiranni numidi mi odiano, e i Tirii mi sono ostili; a causa tua si è estinto lo stesso pudore e per prima la fama, per la quale sola mi alzavo verso le stelle. A chi mi lasci in procinto di morire, oh straniero? Dal momento che rimane solo questo nome del marito. Che cosa aspetto? Forse che mio fratello Pigmalione distrugga le mura o che il getulo Iarba mi porti via prigioniera? Se almeno (saltem), prima della fuga, mi fosse nato da te un figlio (suboles), se giocasse con me nel palazzo un piccolo Enea, che tuttavia ti ricordasse nel volto, certamente non sembrerei completamente ingannata e abbandonata”. LA RISPOSTA DI ENEA vv. 331-361 : Enea chiude nell'animo un grande dolore. Nella sua risposta emerge la riconoscenza per i meriti di Didone, di cui non si dimenticherà, ma anche la fermezza della sua decisione. Se potesse vivere a modo suo egli ricostruirebbe Troia, ma ora i numi gli impongono di raggiungere l'Italia. Sono ormai inutili i pianti e le preghiere. Aveva parlato. Egli teneva gli occhi immobili a causa degli avvertimenti (monitis è ablativo di causa) di Giove e, risoluto (obnixus), serrava la preoccupazione nel cuore. Alla fine risponde con poche parole: “Io non negherò mai, oh regina, che tu abbia avuto moltissimi meriti, che sei in grado, parlando (fando), di numerare parlando [l'ordine per la traduzione della frase è : Ego, regina, numquam negabo te promeritam (esse) plurima, quae vales (=potes) enumerare fando] e non mi dispiacerà di dovermi ricordare di Elissa (si tratta del nome fenicio di Didone), finché (dum) io stesso sia memore di me, finché lo spirito regge queste membra. Riguardo alla questione parlerò brevemente. Io non ho sperato di nascondere - non supporlo!- questa partenza con l'inganno e non ho mai innalzato fiaccole nuziali e non sono mai venuto a questi patti. Se i fati mi permettessero di condurre la mia vita secondo i miei desideri, e di sistemare di mia iniziativa (sponte) i miei affari, in primo luogo vivrei nella città di Troia e con le dolci reliquie dei miei, sarebbero rimaste le alte abitazioni di Priamo e con le mie mani avrei ricostruito la rinascente Pergamo per i vinti. Ma, ora, Apollo grineo (chiamato così dalla città di Grynium dove il dio aveva un santuario) e gli oracoli (sortes) di Licia mi hanno ordinato di dirigermi verso (capessere) la grande Italia, l'Italia (epanalessi); questo è il mio amore, questa è la mia patria. Se le rocche di Cartagine e la vista della città libica trattengono te che sei fenicia, quale invidia c'è (si tratta di una perifrasi per quid invides?) se finalmente i Teucri si stabiliscono nelle terre ausonie? E ci è concesso di cercare regni stranieri. L'immagine sconvolta (turbida) di mio padre Anchise, ogni volta che la notte ricopre la terra con le ombre umide, ogni volta che sorgono gli astri scintillanti, mi rimprovera nel sonno e mi spaventa. (Mi rimprovera) il figlio Ascanio e l'offesa ad una persona cara (capitisque cari è genitivo oggettivo), io che lo privo (fraudo) del regno di Esperia (epiteto dell'Italia per i Greci) e dei campi del fato. Ora anche il messaggero degli dèi, inviato dallo stesso Giove, - lo giuro sul capo di entrambi – mi ha portato i suoi ordini attraverso l'aria veloce (o veloce attraverso l'aria): io stesso ho visto il dio, in una luce evidente, mentre entrava nelle mura e ne ho udito (hausi) la voce con queste orecchie. Smettila di tormentare me e te con le tue lamentele: io cerco l'Italia non spontaneamente”. LA DISPERAZIONE DI DIDONE vv. 362-392 : Didone guarda Enea con odio, finché prorompe in una violenta invettiva. L'eroe rimane esterrefatto con il cuore gonfio dal dolore. Ella fugge dalla sua vista e poi, vinta dall'angoscia, sviene; le ancelle la riportano nelle sue stanze. Mentre diceva tali cose già da tempo lo guardava in modo ostile, volgendo gli occhi di qua e di là, e lo esamina tutto con occhi silenziosi e parla così accesa: “Non ti fu madre una dèa, né Dardano fu il tuo antenato (auctor), oh crudele, ma ti generò l'orrendo Caucaso dai duri macigni e tigri ircane (si tratta di un aggettivo esornativo e cioè che non aggiunge nulla al contenuto ma ha un'esclusiva funzione ornamentale, comunque l'Ircania è simbolo di inciviltà) ti hanno offerto le mammelle (ubera). Infatti per che cosa dissimulo o per quali situazioni più gravi mi riservo? Si è forse (num) indebolito con il mio pianto? Mi ha forse rivolto lo sguardo? Vinto ha forse pianto o ha compatito l'amante? Che cosa porrò davanti a che cosa? Ormai né la grande Giunone né il padre Saturno guardano ciò con occhi giusti. In nessun luogo la fedeltà è sicura. L'ho accolto, dopo che era stato sbattuto sulla spiaggia, miserabile (egentem), e l'ho posto in una parte del regno, pazza che sono, ho salvato la flotta smarrita ed i suoi compagni dalla morte. Ahimé, sono guidata da una furia ardente! Ora il profeta (augur) Apollo, ora gli oracoli della Licia, ora il messaggero degli dèi mandato dallo stesso Giove porta l'orribile comando attraverso i cieli. È chiaro che (scilicet) è agli dèi del cielo questa fatica, questa situazione turba la loro tranquillità (turba loro precedentemente tranquilli). Io non ti trattengo e non ribatto le tue parole: vai, insegui l'Italia con i venti, cerca un regno attraverso le onde (i, sequere e pete, oltre ad essere imperativi, formano un tricolon); spero certamente che tu raccolga (hausurum è contrazione poetica per hausturum) in mezzo agli scogli (mediis scopulis è ablativo locativo senza la preposizione in), se gli dèi pii possono qualcosa, i supplizi e che tu invochi spesso il nome di Didone. Io ti perseguiterò da lontano (absens) con fuochi oscuri, e quando (cum) la gelida morte avrà separato il corpo dall'anima (anima è ablativo di separazione), sarò presente in tutti i luoghi come uno spettro. Pagherai, oh malvagio! Lo sentirò e questa notizia giungerà (veniet) tra i profondi mani”. Interrompe il discorso a metà con queste parole e fugge, afflitta, la luce (auras) e si sottrae agli sguardi e si allontana lasciandolo (linquens) molto dubbioso per il timore e disposto (parantem) a dirle molte cose. Le ancelle (famulae) la raccolgono e riportano le sue membra svenute nella camera marmorea e la mettono sul letto. I PREPARATIVI PER LA PARTENZA vv. 393-407 : Il pio Enea, benché angosciato e desideroso di consolare l'amante infelice, obbedisce al comando dei numi ed affretta la partenza. I Troiani si prodigano nell'apprestare le navi e partire alla volta dell'Italia. Ma il pio Enea benché (quamquam)desideri calmare l'addolorata confortandola e allontanare (avertere) le preoccupazioni le preoccupazioni con le parole, gemendo molto (multa è avverbiale, = a multum), travolto dal grande amore nell'animo, tuttavia esegue gli ordini degli dèi e torna alla flotta. Allora davvero (tum vero è un'espressione rafforzata) i Teucri si impegnano/si prodigano (sott. Operi) e conducono navi su tutta la spiaggia (litore toto è ablativo di provenienza). Galleggia la nave spalmata (di pece) e dai boschi portano remi (gioco di parole implicito fra remos e ramos) frondosi e legno grezzo (infabricata è un apax virgiliano) per la fretta (studio) di partire. Avresti potuto vederli (cernas) entrare e uscire da tutta la città, come (ac veluti) quando (cum) le formiche saccheggiano (populant), memori dell'inverno, una grande massa di grano e lo portano nel rifugio: il branco nero va per i campi e trasporta (convectant) la preda fra le erbe per uno stretto sentiero (calle angusto, campis e calle sono ablativi di moto per luogo), in parte trascinano i grandi chicchi sforzandosi con le spalle, in parte radunano le schiere e puniscono chi indugia (moras = morantes), tutto il sentiero (monis semita) pullula di lavoro. (quaeque, che crea un'anafora) che abitano estesamente i laghi limpidi, sia quelli che abitano le campagne irte (aspera) di cespugli; raccolti (positae) nel sonno (somno è ablativo locativo) sotto la notte silenziosa, acquietavano gli affanni e i cuori (corda), dimentichi delle fatiche. Ma non (fa) così, nell'animo (animi è genitivo di relazione), l'infelice Fenicia, che non si abbandona al sonno, né accoglie la notte (noctem indica per metonimia la quiete notturna) negli occhi o nel cuore: si moltiplicano le preoccupazioni e, sorgendo di nuovo, l'amore infuria ed è agitata (fluctuat) dal grande tripudio di rabbia. Perciò (adeo) persiste con sé stessa (sott. consilio suo, cioè l'idea del suicidio) e riflette (volutat) così nel suo animo (corde): “Ecco, che cosa faccio? Forse (ne enclitico) esaminerò, a mia volta (rursus), i pretendenti precedenti dopo essere stata derisa (sott. da Enea) e chiederò, supplice, le nozze con i Nomadi, i quali io ho già molte volte disdegnato come mariti? Allora seguirò le flotte di Ilio (cioè troiane) e gli ordini infimi (ultima inteso non in senso temporale, ma riferito alla qualità degli ordini) dei Teucri? Forse perché è loro gradito di essere stati precedentemente soccorsi con l'aiuto (da parte mia) e rimane la riconoscenza (gratia) presso chi ricorda, per l'antica benevolenza (bene veteris)? Inoltre, immagina che io lo voglia (fac velle), chi mi (me fa da soggetto sia all'infinitiva retta da sinet, che sottintende sequi, sia all'inciso fac velle) permetterà (sinet) ciò, e chi mi accoglierà, detestata, sulle navi superbe? Ahimè, rovinata (perdita), tu non sai, non senti ancora gli spergiuri della stirpe di Laomedonte? Poi che (farò, sott. faciam )? Accompagnerò da sola, nell'esilio, i marinai che gioiscono; o mi muoverò (inferar ha valore mediale ed equivale a ibo) circondata (stipata) dai Tirii e da tutta la schiera dei miei e quelli che a fatica (vix) ho strappato dalla città sidonia, per la seconda volta (rursus) li condurrò in mare (pelago è ablativo di luogo) e ordinerò di dare le vele ai venti? Piuttosto (quin + imperativo, il quin assume un valore confermativo in seguito all'imperativo) muori, come ti sei meritata, e allontana il dolore con la spada. Tu, oh sorella, vinta dalle mie lacrime, tu per prima mi opprimi, impazzita, con questi mali e mi offri al nemico. Non mi è stato concesso di trascorrere la vita priva di nozze in modo innocente, come una bestia selvaggia (more ferae), né di toccare tali preoccupazioni. Non ho mantenuto (servata sottintende est) la fedeltà promessa al cenere di Sicheo”. Così forti erano i lamenti che emetteva dal cuore (si tratta di un versus argenteus in cui l'ordine è a,b verbo B, A esiste anche un → versus aureus con l'ordine a,b verbo A,B). IMPROVVISA PARTENZA DI ENEA vv. 554- 583 : La scena si sposta sulla spiaggia di Cartagine. A Enea, che sta dormendo a bordo della sua nave, appare in sogno Mercurio che lo avverte del pericolo: se indugia ancora in quei luoghi, potrebbe incorrere nella vendetta di Didone che, furiosa per l'imminente abbandono, medita contro di lui inganni e violenze. L'eroe troiano, destatosi, lancia immediatamente l'allarme e con la spada taglia gli ormeggi. I Troiani, con grande ardore, si mettono ai remi e la nave parte. Enea, sull'alta poppa, ormai sicuro di partire, prendeva sonno ormai dopo aver preparato tutte le cose (rebus paratis è ablativo assoluto) a dovere (rite). A questo si presentò (obtulit) l'immagine (forma), nel sogno, del dio che ritornava con lo stesso aspetto e gli sembrò che per la seconda volta lo ammonisse così, in tutto simile a Mercurio, nella voce, nel colorito, nei capelli biondi e nelle membra adorne di giovinezza. “Oh nato dalla dèa, puoi prendere sonno in questa circostanza e non vedi i pericoli che ti stanno ancora (deinde) intorno (te circum è anastrofe), folle, e non senti spirare gli zefiri favorevoli? Nel cuore di quella è presente un inganno e un delitto funesto (nefas dirum), decisa a morire, ed eccita varie tempeste d'ira. Non fuggi in fretta (praeceps, inoltre praeceps praecipitare è una figura etimologica e presenzia anche l'allitterazione della p) da qui finché c'è la possibilità di affrettarsi? Ben presto (nunc) vedrai il mare essere turbato da navi, e risplendere di fiaccole crudeli, ben presto vedrai i litorali ribollire nelle fiamme, se l'Aurora tu avrà raggiunto mentre indugi in queste terre. Suvvia (heia è un'interiezione di origine greca) agisci, rompi gli indugi; la donna è sempre una cosa incostante e volubile”. Parlato così Enea si mescolò nella notte nera. Allora certamente Enea , atterrito dall'improvvisa apparenza, scuote il corpo dal sonno (corripit corpus è paronomasia) e incalza i compagni: “Svegliatevi veloci, uomini e prendete posto ai remi, sciogliete veloci le vele (vigilate, considite e solvite oltre ad essere un tricolon formano ascendente anche un climax). Ecco che il dio, mandato dall'alto cielo ci stimola di nuovo ad affrettare la partenza e a tagliare le funi intricate. Noi ti seguiamo, santo fra gli dèi, chiunque tu sia e di nuovo obbediamo (paremus, da pareo + dativo), felici, al tuo comando. Oh, assistici, aiutaci, benevolo, e fai sorgere in cielo (caelo è dativo poetico di moto a luogo) stelle propizie” (dextra). Disse ed estrae dal fodero la spada (ensem) fulminea (fulmineum è epiteto esornativo ed enfatico) e, dopo averla impugnata (stricto), taglia il cordame e lo stesso ardore prende allo stesso tempo tutti, si affrettano e corrono: abbandonano le spiagge, il mare rimane nascosto sotto le navi, travolgendo la schiuma, sforzandosi (adnixi) e solcano il mare azzurro (caerula è aggettivo sostantivato neutro plurale). PAROLE DI MALEDIZIONE CONTRO ENEA vv. 584-629 : Didone vede la spiaggia vuota e le navi troiane allontanarsi sulla distesa del mare. Presa da un violento eccesso d'ira, a quella vista si sfoga lanciando contro il troiano una terribile maledizione, che coinvolgerà anche la sua stirpe per tutti i secoli futuri. Mai vi sarà pace fra i Cartaginesi e i discendenti di Enea, sempre divisi da un odio eterno. E già l'Aurora (prima), lasciando il letto dorato di Titone (figlio del re troiano Laomedonte, fu amato da Aurora che lo rapì e lo fece suo sposo. La dèa ottenne per lui, da Giove, l'immortalità ma non l'eterna giovinezza e Titone invecchiò fino a consumarsi e di lui rimase solo la voce), gettava nuova luce sulla terra. (terras è plurale intensivo) La regina, non appena (ut) vide dalla cima (speculis) risplendere la luce e la flotta avanzare con le vele spiegate e si accorse che le spiagge e il porto erano vuoti, senza rematori (sine remige è plurale collettivo), percossasi il bel (decorum) petto tre, quattro volte con la mano e strappatasi i biondi capelli (pectus e comas sono accusativi di relazione), gridò: “Per Giove! Se ne andrà questo straniero (hic advena) dopo essersi beffato (inluserit è futuro anteriore e quindi passato rispetto all'azione principale data dal futuro semplice) dei nostri regni? Non prepareranno le armi e non correranno da tutta la città e altri non strapperanno le navi dagli arsenali? Andate, portate veloci le fiamme, date le armi, percuotete i remi! Che cosa dico, e dove sono? Quale pazzia mi sconvolge la mente? Oh Didone infelice, ora ti toccano (ora ti accorgi delle) le tue azioni empie? Allora andò bene (decuit) quando gli affidavi lo scettro. Ecco (en) la destra e la lealtà! (sottinteso en = ecco) Colui che, dicono, abbia recato con sé i patrii penati, colui (quem = en ille quem, nesso relativo in accusativo perché dipendente da aiunt) che (dicono) si sia sobbarcato sulle spalle il padre consumato dall'età! Non avrei forse (non=nonne) potuto dilaniare il suo corpo, strappato, e scagliarlo fra le onde, uccidere (absumere) con la spada i compagni e lo stesso Ascanio e servirli come cibo (epulandum, gerundivo con valore finale) alla mensa del padre (probabile allusione al mito di Atreo che imbandì al fratello Tieste le carni dei suoi figli)? Ma (verum) l'esito (fortuna) della battaglia sarebbe stato incerto (anceps). (Magari) Lo fosse stato (fuisset è congiuntivo concessivo): chi avrei dovuto temere, ormai destinata a morire? Avrei portato le fiaccole nella flotta/accampamento (castra sottintende nautica) e avrei colmato i ponti (foros) con le fiamme, ed avrei annientato il figlio e il padre con tutta la stirpe, e mi sarei gettata (tulissem, implessem, extinxem e dedissem sono congiuntivi irreali che sottintendono una protasi) sullo stesso (pyram è sottinteso). Oh sole, che illumini con le tue fiamme tutto quello che avviene sulla terra, e tu Giunone intermediaria e consapevole di questi affanni, e tu Ecate invocata (ululata) con urla nella notte nei trivi per le città, e le Furie vendicatrici e dèi di Elissa che muore, ascoltate queste parole e rivolgete giustamente (meritum) la divina potenza (numen) contro i mali ed ascoltate le mie preghiere. Se è inevitabile (necessest) che quell'uomo orribile (caput nefandum, caput indica per metonimia l'uomo) tocchi i porti e arrivi per mare (adnare + dativo) in terra, e se così esigono (poscunt) i destini di Giove, questa conclusione rimane: ma, tormentato dalla guerra e dalle armi di un popolo coraggioso, cacciato dalle sue terre, strappato dall'abbraccio di Iulo, implori aiuto e veda la morte indegna dei suoi; e quando (cum) si sarà sottoposto alle leggi di una pace iniqua, non goda del regno, né della desiderata luce (luce=vita), ma cada (fruatur e cadat sono congiuntivi ottativi) prima del tempo e (giaccia) insepolto (inhumatus) in mezzo alla sabbia (mediaque harena è ablativo di stato in luogo, retto da un implicito congiuntivo ottattivo iaceat). Queste cose chiedo e verso quest'ultima preghiera con il sangue. Allora voi, oh Tirii, tormentate (exercete) con l'odio (odiis è plurale intensivo) la sua stirpe e tutta la futura generazione e concedete (mittite) questo regalo alle mie ceneri. Non ci sia (sunto, si trattata dell'imperativo futuro di sum) nessun amore fra i nostri popoli, né patti. E tu sorgi (exoriare), oh vendicatore (ultor), chiunque tu sia (aliquis) dalle nostre ossa e perseguita con il ferro e il fuoco (face) i coloni dardani, ora, in futuro (olim), in qualsiasi momento (quocumque tempore) si offriranno le forze. Spero che si scontrino (contraria) i lidi con i lidi, le onde con le onde, le armi con le armi: combattano loro e i discendenti”. MORTE DI DIDONE vv. 630-641: Ora Didone è desiderosa di terminare al più presto una vita diventata per lei intollerabile; così, per poter restare sola, allontana la vecchia nutrice di Sicheo mandandola a dire alla sorella Anna di venire solo dopo aver concluso la preparazione del sacrificio. Disse queste cose e rivolgeva l'animo da ogni parte, cercando quanto prima di squarciare l'odiata luce (lucem=vitam). Allora si rivolse con poche parole (breviter) a Barce, la nutrice di Sicheo, infatti la sua (nutrice) la teneva nella patria antica una cenere nera (la nutrice di Didone era morta ed era stata sepolta a Tiro): “Cara nutrice fa venire (siste) qui (huc) mia sorella Anna; dille di sbrigarsi ad aspergere il corpo con acqua corrente e che porti con sé le bestie sacrificali e le vittime scelte (piacula monstrata). Così venga e tu stessa ricopri le tempie (tempora) con le bende sacre (vitta). È nell'animo di portare a termine (perficere) il sacrificio (sacra) a Giove stigio che ho preparato ed iniziato (incepta paravi= paravi et incepi) secondo il rito (rite), e porre una fine alle sofferenze e di affidare (permittere) alla fiamma il rogo della testa dardania (cioè bruciare l'effigies, la statuetta di cera rappresentante Enea)”. Così disse. Quella affrettava il passo (gradum) con l'impegno tipico dei vecchi (anili). vv. 642-671 : Didone si getta sulla spada di Enea. Grida di dolore e di sgomento si levano nel palazzo reale, quasi come se l'intera città crollasse o bruciasse per un assalto nemico. Ma Didone, impaurita (trepida) e stravolta (effera) dai suoi atroci propositi, girando le pupille (aciem) piene di sangue e cosparsa (interfusa) di macchie sulle guance (genas è accusativo di relazione dipendente da interfusa) e pallida a causa della morte imminente (morte futura è ablativo di causa), irrompe all'interno del palazzo e sale, folle, gli alti gradini e sguaina la spada dardania, un dono non richiesto per questo scopo. Qui (hic può avere sia valore locale che temporale), dopo che vide le vesti troiane e il noto letto nuziale, dopo aver indugiato un poco nelle lacrime e nel pensiero, giacque sul letto e disse queste estreme parole: “Oh dolci spoglie (exuviae), finché un dio e i fati lo permettevano, accogliete quest'anima e liberatemi da questi affanni. Ho vissuto ed ho terminato (peregi) il cammino che la Fortuna mi aveva concesso e ora la grande immagine di me andrà sottoterra. Ho fondato una città nobile, ho visto sorgere le mie mura, dopo aver vendicato (ulta, da ulciscor, participio con valore temporale) il marito ho punito il fratello nemico (recipere gli ha il senso di punire): felice, ohimé troppo felice (felix...felix è epanalessi), se solamente le navi Dardanie non avessero mai toccato le nostre spiagge”. Così disse e dopo aver premuto la bocca sul letto disse: “Morirò invendicata (inultae) ma morirò, così, così mi piace andare fra le ombre; il crudele troiano (perifrasi per indicare Enea) veda (hauriat letteralmente significa beva) dall'alto con gli occhi questo fuoco e porti con sé i presagi (omina) della nostra morte”. Aveva parlato e, in mezzo a tali parole (media inter talia), le ancelle la vedono rovesciata sulla spada, e la spada spumante di sangue e le mani che ne sono cosparse. Il clamore si alza nelle alte stanze; la Fama imperversa per la città sconvolta. Le case risuonano (fremunt) di lamenti e pianti, di grida femminili, il cielo risuona con grandi pianti, non diversamente da quanto se tutta Cartagine, penetrati i nemici, crollasse (ruat) o l'antica Tiro e le fiamme furiose avvolgessero (volvantur) le case degli uomini e i templi degli dèi. DISPERAZIONE DELLA SORELLA ANNA vv. 672-692: Anna abbraccia la sorella morente nel tentativo di raccoglierne l'ultimo respiro. Didone tenta tre volte di sollevarsi, ma per tre volte ricade, cercando con gli occhi la luce. La sorella sbigottita (exanimis) e atterrita udì (la notizia) e, in una corsa affannata, massacrandosi (foedans) il volto con le unghie ed il petto con i pugni, corre in mezzo alla gente ed evoca il nome della morente: “Questo era quello che (volevi fare, espressione sottintesa da hoc illud) sorella? Mi hai chiesto aiuto con l'inganno? Mi preparava questo codesto rogo, questo i fuochi e gli altari? Di che cosa mi lamenterò come prima cosa? Morendo hai disprezzato (sprevisti) tua sorella come compagna? Se mi avessi chiamato ad uno stesso destino: lo stesso dolore, la stessa ora ci avrebbe portato via entrambe con il ferro (ferro è ablativo strumentale). Con queste mani ho costruito il rogo (sott.pyram), ho invocato a gran voce gli dèi patrii in modo da (ut) essere lontana, oh crudele, mentre tu giacevi morta (posita) così (sic va con te posita, ed è un ablativo di separazione dipendente da abessem)? Hai ucciso te e me, oh sorella, e il popolo, e i padri sidoni, e la tua città. Lasciate (date) che io lavi le ferite con l'acqua (lymphis), se rimane (errat) un qualche ultimo respiro in lei (super, avverbio nel senso di ancora) che io (possa) raccoglierlo con la bocca (ore)”. Espressasi così, saliti gli alti gradini, stringeva al petto con un abbraccio (amplexa) la sorella morente, piangendo (cum gemitu), le asciugava con la veste il sangue scuro. Ella, dopo aver tentato (conata) di alzare gli occhi pesanti, di nuovo viene meno (deficit); nel petto risuona (stridit) la profonda ferita. Per tre volte, alzandosi appoggiata sul gomito (adnixa cubito), si sollevò, per tre volte ricadde sul letto (toro è dativo di moto) e cercava con gli occhi smarriti (errantibus) la luce dall'alto cielo e gemette dopo averla trovata (reperta, sottinteso luce ed è ablativo assoluto). vv. 693-705 : Giunone, impietosita dalla lunga agonia della regina, manda Iride a staccarle il capello fatale. Allora Giunone onnipotente, dopo aver commiserato il lungo dolore e la morte difficile e le strazianti agonie (plurale intensivo), manda Iride dall'Olimpo, la quale sciogliesse (relativa impropria con valore finale) l'anima combattente (luctantem) e le membra (a lei) incatenate (nexos). Infatti, poiché non moriva né per destino, né per una morte meritata, ma tragicamente (misera, aggettivo con valore avverbiale) prima del momento stabilito, repentinamente (subito) accesa dal furore, Proserpina non le aveva ancora strappato dalla testa (vertice) il biondo capello, né aveva ancora destinato il suo capo all'Orco stigio. Dunque Iride rugiadosa (roscida), trascinando con le sue ali dorate nel cielo mille colori cangianti (varios) a causa del riflesso del sole (ablativo di causa in dipendenza da varios), volò giù e le si pose sul capo: “Io questo porto a Dite dopo che è stato consacrato, secondo gli ordini, e ti libero da codesto corpo”. Così dice e taglia con la destra il capello: in un momento (una) si dissolse (dilapsus sottinteso est) tutto il calore e la vita volò via nell'aria (ventos).