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Traduzione del II libro dell'Eneide, Traduzioni di Letteratura latina

Traduzione letterale del II libro dell'Eneide con testo latino a fronte. Utile al conseguimento dell'esame Lingua e Letteratura latina I del corso di Lettere moderne.

Tipologia: Traduzioni

2020/2021
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Caricato il 26/05/2021

alessandramma
alessandramma 🇮🇹

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Scarica Traduzione del II libro dell'Eneide e più Traduzioni in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! Traduzione del II libro dell’Eneide 1-13: Enea racconta a Didone le vicende di Troia, sebbene queste gli rechino dolore Conticuere omnes intentique ora tenebant; inde toro pater Aeneas sic orsus ab alto: “Infandum, regina, iubes renovare dolorem, Troianas ut opes et lamentabile regnum eruerint Danai, quaeque ipse miserrima vidi et quorum pars magna fui. Quis talia fando Myrmidonum Dolopumve aut duri miles Ulixi temperet a lacrimis? et iam nox umida caelo praecipitat suadentque cadentia sidera somnos. Sed si tantus amor casus cognoscere nostros et breviter Troiae supremum audire laborem, quamquam animus meminisse horret luctuque refugit, incipiam. Fracti bello fatisque repulsi Tutti tacquero e attenti volgevano il volto (pendevano dalle labbra di Enea); allora così il padre Enea cominciò a parlare dall’alto del letto conviviale: “O regina, tu mi ordini di rinnovare un dolore inesprimibile, come i Greci abbiano distrutto le ricchezze troiane e il regno degno di essere compatito, quelle cose tristissime (sciagure) alle quali assistetti e di cui fui protagonista. Chi potrebbe trattenersi dalle lacrime raccontando tali cose, fosse pure un Mirmidone, un Dolope o un soldato del duro Ulisse? E già l’umida notte scende dal cielo e le stelle tramontando ci persuadono al sonno. Ma se hai tanto desiderio di conoscere le nostre vicende e di udire l’estrema sciagura di Troia, sebbene l’animo inorridisca nel ricordare e rifugga dal dolore, comincerò. 13-20: Costruzione del cavallo di legno. Fracti bello fatisque repulsi ductores Danaum, tot iam labentibus annis, instar montis equum divina Palladis arte aedificant, sectaque intexunt abiete costas; votum pro reditu simulant; ea fama vagatur. Huc delecta virum sortiti corpora furtim includunt caeco lateri penitusque cavernas ingentis uterumque armato milite complent. Prostrati dalla guerra e respinti dal fato, i comandanti dei Greci, trascorsi ormai molti anni, costruiscono a guisa di monte un cavallo con la divina arte di Pallade e ne connettono i fianchi con abete segato (tavole di abete); simulano un voto per il ritorno (cioè fingono che il cavallo sia un dono a Minerva per il ritorno); questa voce si diffonde. Qui di nascosto rinchiudono nel fianco oscuro una scelta di corpi di guerrieri a sorte e riempiono in profondità le parti interne (profonde vaste caverne) del ventre di uomini armati (singolare poetico in latino). 21-39: i Greci si ritirano a Tenedo: i Troiani escono gioiosi dalla città, visitano il luogo degli accampamenti e guardano con meraviglia il cavallo. Timete consiglia di introdurlo nella città, Capi si oppone ed esorta a distruggerlo. Est in conspectu Tenedos, notissima fama insula, dives opum Priami dum regna manebant, nunc tantum sinus et statio male fida carinis; huc se provecti deserto in litore condunt. Nos abiisse rati et vento petiisse Mycenas. Ergo omnis longo solvit se Teucria luctu. Panduntur portae, iuvat ire et Dorica castra desertosque videre locos litusque relictum. ‘Hic Dolopum manus, hic saevus tendebat Achilles, classibus hic locus, hic acie certare solebant.’ Pars stupet innuptae donum exitiale Minervae et molem mirantur equi; primusque Thymoetes duci intra muros hortatur et arce locari, sive dolo seu iam Troiae sic fata ferebant. At Capys, et quorum melior sententia menti aut pelago Danaum insidias suspectaque dona praecipitare iubent subiectisque urere flammis, aut terebrare cavas uteri et temptare latebras. Scinditur incertum studia in contraria volgus. Di fronte c’è Tenedos, isola di grandissima fama, finché sopravvivevano le abbondanti ricchezze e i regni di Priamo (plurale poetico), ora soltanto un’insenatura e un approdo mal fidato per le navi; qui (anafora vv. 18) i soldati si nascondono sulla spiaggia deserta. Noi pensavamo che se ne fossero andati e si fossero diretti col vento a Micene. Dunque tutta la Troade esce dal lungo lutto (metafora). Le porte vengono spalancate, giova andare e vedere gli accampamenti Dorici, i luoghi deserti e la spiaggia abbandonata. (Da qui sorta di narratore esterno collettivo) ‘Qui c’era l’accampamento dei Dolopi, qui il crudele Achille si accampava, questo era il luogo per la flotta, qui erano soliti combattere in schiera.’ Una parte stupisce e vede il dono fatale di Minerva e la mole del cavallo; e per primo Timete esorta a condurre (il cavallo) dentro le mura e collocarlo sulla rocca, sia per tradirci sia perché già i fati (plurale poetico) di Troia lo volevano. Ma Capi, e quelli dei quali era migliore il giudizio, richiedono/ordinano di gettare al mare quel dono sospetto oppure arso, o squarciare le cavità interne (dell’utero) e sondare le tenebre. (Riferimento al campo semantico del vaticinio). La folla, incerta, si divide in pareri difformi. 40-56: Lacoonte accorre con un grande stuolo di gente e rimprovera i concittadini esortandoli a non fidarsi del cavallo: poi lo colpisce con una lancia, facendone risonare il ventre cavo, ed è sul punto di ottenerne la distruzione. Primus ibi ante omnis, magna comitante caterva, Laocoon ardens summa decurrit ab arce, et procul “O miseri, quae tanta insania, cives? creditis avectos hostis? aut ulla putatis dona carere dolis Danaum? sic notus Ulixes? aut hoc inclusi ligno occultantur Achivi, aut haec in nostros fabricata est machina muros, inspectura domos venturaque desuper urbi, aut aliquis latet error: equo ne credite, Teucri. Per primo, accompagnato da una grande folla davanti a tutti, Lacoonte impetuoso scende dall’alta rocca (o dalla cima più alta della rocca), e dice da lontano “O miseri cittadini, quale follia così grande? (ellisse di est) credete che i nemici siano andati lontano? Oppure non pensate che tutti i doni dei Danai non celino un inganno? Non conoscete Ulisse? O gli Achei si nascondono chiusi in questo legno cavo, o questo meccanismo è stato fatto col fine di spiare entro le nostre mura, le nostre case e per piombare sulla città, o si nasconde un qualche altro inganno: o Troiani, non credete al cavallo. Quidquid id est, timeo Danaos et dona ferentis.” Sic fatus validis ingentem viribus hastam in latus inque feri curvam compagibus alvum contorsit. Stetit illa tremens, uteroque recusso insonuere cavae gemitumque dedere cavernae. Et, si fata deum, si mens non laeva fuisset, impulerat ferro Argolicas foedare latebras Troiaque nunc staret, Priamique arx alta maneres. Tum vero ardemus scitari et quaerere causas, ignari scelerum tantorum artisque Pelasgae. E non si diede pace, finché con l’aiuto di Calcante… ma perché io ricordo/dovrei ricordare queste cose sgradevoli inutilmente? Perché sto indugiando? Se avete in una sola considerazione tutti gli Achei, questo è sufficiente, già mandate al supplizio: questo è ciò che vuole l’Itacense (Ulisse) e gli Atridi pagherebbero a gran prezzo.’ Allora bruciamo (dalla voglia) per interrogarlo e chiedergli le motivazioni, ignari della perfidia così grande e delle arti dei Greci. 107-144: Sinone prosegue il racconto: i Greci, stanchi della guerra, volevano ritornare in patria. Ma le tempeste l’impedivano, infuriando soprattutto dopo la costruzione del cavallo. Allora mandarono Euripilo a interrogare l’oracolo. La risposta fu che bisognava placare gli dei con una nuova vittima greca. Calcante, d’accordo con Ulisse, designò Sinone al sacrificio: ma egli riuscì a fuggire. Ora chiede pietà ai Troiani, legato ad essi dalla comune inimicizia per i Greci Prosequitur pavitans et ficto pectore fatur: 'Saepe fugam Danai Troia cupiere relicta moliri et longo fessi discedere bello; fecissentque utinam! Saepe illos aspera ponti interclusit hiems et terruit Auster euntis. Praecipue cum iam hic trabibus contextus acernis staret equus, toto sonuerunt aethere nimbi. Suspensi Eurypylum scitatum oracula Phoebi mittimus, isque adytis haec tristia dicta reportat: "Sanguine placastis ventos et virgine caesa, cum primum Iliacas, Danai, venistis ad oras: sanguine quaerendi reditus animaque litandum Argolica." Vulgi quae vox ut venit ad auris, obstipuere animi gelidusque per ima cucurrit ossa tremor, cui fata parent, quem poscat Apollo. Hic Ithacus vatem magno Calchanta tumultu protrahit in medios; quae sint ea numina divum, flagitat. Et mihi iam multi crudele canebant artificis scelus, et taciti ventura videbant. Prosegue tremabondo e parla con cuore ingannevole: “I Danai spesso desiderarono la fuga, abbandonata Troia e (desiderarono) allontanarsi, stanchi, dalla lunga guerra; l’avessero fatto! Spesso la tempesta aspra chiuse loro le strade del mare e l’Austro atterrì coloro che stavano andando via/li atterrì quando già stavano per partire. Mentre già il cavallo, fatto di travi d’acero, si ergeva in quel luogo, i nembi risuonarono in tutto il cielo. Mandiamo inquieti Euripilo ad interrogare gli oracoli di Febo, e quello riporta di ritorno questo triste responso: ‘Placaste i venti con il sangue di una vergine uccisa, quando per la prima volta, o Danai, siete venuti alle spiagge di Troia: il ritorno felice deve essere implorato con altro sangue, sacrificando un’anima argolica.’ Quando questa voce venne agli orecchi del volgo, gli animi stupirono e un gelido tremore corse per le ossa profonde/per tutte le ossa, a chi i fati obbediscono, chi Apollo richieda (quale sarà la vittima che vuole Apollo?). Allora Ulisse trascina con grande strepito l’indovino Calcante nel mezzo (della folla): chiede cosa siano questi vaticini degli dei. E già molti mi mettevano in guardia del crudele inganno dell’artefice (colui che usa l’ars) e silenziosi prevedevano il futuro/le cose che sarebbero venute. Bis quinos silet ille dies tectusque recusat prodere voce sua quemquam aut opponere morti. Vix tandem, magnis Ithaci clamoribus actus, composito rumpit vocem et me destinat arae. Adsensere omnes et, quae sibi quisque timebat, unius in miseri exitium conversa tulere. Iamque dies infanda aderat, mihi sacra parari et salsae fruges et circum tempora vittae: eripui, fateor, leto me et vincula rupi, limosoque lacu per noctem obscurus in ulva delitui, dum vela darent, si forte dedissent. Nec mihi iam patriam antiquam spes ulla videndi nec dulcis natos exoptatumque parentem; quos illi fors et poenas ob nostra reposcent effugia, et culpam hanc miserorum morte piabunt. Quod te per superos et conscia numina veri, per si qua est quae restet adhuc mortalibus usquam intemerata fides, oro, miserere laborum tantorum, miserere animi non digna ferentis.' Quello (Calcante) resta in silenzio 10 giorni (2 volte 5), chiuso in sé/tacito/silente, rifiuta di tradire qualcuno con la sua parola o di mandarlo a morte. Alla fine, spinto dalle alte grida dell’Itacense, quasi per forza, emette un suono e indica me per un sacrificio. Tutti acconsentirono e permisero che fosse rivolta verso il sacrificio di un solo sfortunato ciò che ognuno temeva per sé. Già il giorno infausto si avvicinava, venivano preparati per me i sacrifici e le bende intorno alle tempie e il frumento salato: confesso che mi strappai alla morte e ruppi le catene, mi nascosi nella notte fra l’erba e il fango di uno stagno, finché non dessero le vele (non partissero), se la sorte lo avesse concesso/se fosse mai successo. Non ho più alcuna speranza di rivedere l’antica patria, né i dolci figli e il padre tanto invocato; quelli forse vorranno su di loro fare la loro vendetta per la mia fuga ed espieranno questa colpa con la morte di quei miseri. Perciò prego per gli dei celesti e per gli dei che sono consapevoli/che conoscono la verità, e se c’è una qualche fede che sopravvive tra i mortali, abbi pietà delle mie grandi sofferenze e abbi pietà del mio animo che sopporta cose che non ha meritato”. 145-161: I Troiani, che dopo la prima parte del discorso si erano solo incuriositi, ora sono presi da compassione. Priamo ordina che gli siano sciolti i legami e gli chiede informazioni sul cavallo. Sinone riprende a parlare con un giuramento alla divinità. His lacrimis vitam damus et miserescimus ultro. Ipse viro primus manicas atque arta levari vincla iubet Priamus dictisque ita fatur amicis: ‘Quisquis es, amissos hinc iam obliviscere Graios, noster eris. Mihique haec edissere vera roganti: quo molem hanc immanis equi statuere? Quis auctor? quidve petunt? quae religio? aut quae machina belli?' dixerat. Ille, dolis instructus et arte Pelasga, sustulit exutas vinclis ad sidera palmas: Gli doniamo la vita per queste lacrime e lo compatiamo moltissimo. Priamo ordina che vengano levati i legami e le catene e così gli dice con parole amichevoli: “Chiunque tu sia, da ora dimentica i Greci perduti (che ti hanno abbandonato), sarai nostro (ti considereremo un troiano), ma dì il vero a me che ti interrogo: perché lasciarono qui questa mole dell’enorme cavallo? (questo cavallo dalla mole immane) Chi fu l’artefice? Cosa vogliono? È un qualche voto o quale congegno di guerra?”. Così aveva parlato. Quello, istruito agli inganni e all’arte greca, sollevò alle stelle le mani (i palmi delle mani) liberate dalle catene: 'Vos, aeterni ignes, et non violabile vestrum testor numen,' ait, 'vos arae ensesque nefandi, quos fugi, vittaeque deum, quas hostia gessi: fas mihi Graiorum sacrata resolvere iura, fas odisse viros atque omnia ferre sub auras, si qua tegunt; teneor patriae nec legibus ullis. Tu modo promissis maneas servataque serves Troia fidem, si vera feram, si magna rependam. “Voi, fuochi eterni, testimonianza la vostra divinità inviolabile – disse – voi altari e spade pericolose dai quali sono fuggito, bende divine che ho portato da vittima: è lecito per me sciogliere i giuramenti sacri dei greci, è lecito odiare (memini novi) quegli uomini e rivelare alle orecchie tutte le cose, se tengono qualcosa nascosto; non sono trattenuto da alcuna legge della patria. Tu mantieni le tue promesse ora e mantieni la fedeltà e io dirò la verità, salvandoti in cambio. 162-198: PERCHE’ E’ STATO COSTRUITO IL CAVALLO. Sinone narra che dopo il furto di Palladio, compiuto da Ulisse e Diomede, Pallade, dal cui aiuto principalmente i Greci speravano la vittoria, diede segni della sua indignazione. Calcante allora annunciò che bisognava tornare ad Argo a riprendere gli auspici, portandovi la statua della dea, per riportarla poi nuovamente a Troia. I Greci, prima della partenza, costruirono il cavallo, in espiazione della colpa commessa: e lo fecero di mole così grande, perché non potesse essere introdotto nella città che avrebbe reso inespugnabile. Perciò se i Troiani offenderanno il cavallo si procacceranno la rovina, se lo introdurranno tra le mura, la loro potenza crescerà tanto che andranno ad assediare le città della Grecia. Omnis spes Danaum et coepti fiducia belli Palladis auxiliis semper stetit. Impius ex quo Tydides sed enim scelerumque inventor Ulixes, fatale adgressi sacrato avellere templo Palladium, caesis summae custodibus arcis, corripuere sacram effigiem manibusque cruentis virgineas ausi divae contingere vittas: ex illo fluere ac retro sublapsa referri spes Danaum, fractae vires, aversa deae mens. Nec dubiis ea signa dedit Tritonia monstris. Vix positum castris simulacrum: arsere coruscae luminibus flammae arrectis, salsusque per artus sudor iit, terque ipsa solo (mirabile dictu) emicuit parmamque ferens hastamque trementem. Ogni speranza dei Greci e la fiducia per la guerra intrapresa è sempre stata riposta nell’aiuto di Pallade. Ma l’empio Tidide e Ulisse ingannatore dei delitti entrati con l’intento di strappare dal tempio consacrato il Palladio (questo), dopo aver ucciso i custodi dell’alta rocca, afferrarono la sacra immagine con le mani sporche di sangue e osarono toccare le bende verginali della dea: da allora queste speranze decrebbero/svanirono, le forze indebolite, ostile la mente della dea (rivoltosi altrove il favore). E la Tritonia diede segni non equivocabili con prodigi evidenti. Non appena la statua fu collocata nell’accampamento: nei suoi occhi spalancati bruciarono fiamme inquietanti e un sudore salato scorse attraverso le membra e per tre volte quella balzò da terra (cosa incredibile a dirsi) portando il parma e l’asta oscillante. Extemplo temptanda fuga canit aequora Calchas, nec posse Argolicis exscindi Pergama telis, omina ni repetant Argis numenque reducant, quod pelago et curvis secum avexere carinis. Et nunc quod patrias vento petiere Mycenas, arma deosque parant comites pelagoque remenso improvisi aderunt: ita digerit omina Calchas. Hanc pro Palladio moniti, pro numine laeso effigiem statuere, nefas quae triste piaret. Hanc tamen immensam Calchas attollere molem roboribus textis caeloque educere iussit, ne recipi portis aut duci in moenia possit Allora un nuovo terrore si insinua in tutti i petti (a tutti attraverso i petti, metafora) e dicono che Lacoonte abbia pagato meritatamente perché ha violato con la punta il sacro legno e ha scagliato sul fianco l’asta scellerata. (Relative apparenti con valore causale, congiuntivo perché si esprime una motivazione che è riportata ma non è condivisa da chi la racconta) Gridano che si deve condurre (esse sottinteso, perifrastica passiva + infinitiva) il simulacro alla sede e che si deve pregare la divinità della dea. Dividiamo i muri e squarciamo le mura della città. Tutti si accingono a dare una mano e sottopongono sotto i piedi del cavallo ruote scorrevoli e legano corde di stoppa al collo. La macchina fatale già passa il muro riempita di armi/uomini armati. Intorno i fanciulli e le fanciulle vergini cantano inni sari e sono felici di toccare le funi con le mani/con la mano. Quella (la macchina) entra e scivola minacciosa nel mezzo della città. O patria, o casa troiana degli dei e mura Dardanidi famose per la guerra/che avete resistito a tante guerre! Per quattro volte si fermò sulla stessa soglia della porta e altrettante volte le armi dal ventre emisero un suono: tuttavia andiamo avanti immemori e ciechi nella nostra follia e sistemiamo quel mostro maledetto/destinato a portare l’infelicità nella rocca sacra. (Molti iperbati) Anche Cassandra allora aprì la bocca mai creduta per volontà degli dei e svelò i fati futuri: noi miseri orniamo con fronde festose i templi degli dei in quel giorno, che era destinato a essere ultimo, in tutta la città. 250-267: NELL’OMBRA DELLA NOTTE. Scende la notte e i Troiani si abbandonano al sonno. La flotta greca avanza nel silenzio illuminato dalla luna. Sinone, ad un segnale della nave ammiraglia, apre lo sportello della macchina insidiosa e ne fa uscire i guerrieri che uccidono i guardiani delle porte, e, spalancate queste, accolgono nella città i compagni d’arme. Vertitur interea caelum et ruit Oceano nox involvens umbra magna terramque polumque Myrmidonumque dolos; fusi per moenia Teucri conticuere, sopor fessos complectitur artus. Et iam Argiva phalanx instructis navibus ibat a Tenedo tacitae per amica silentia lunae litora nota petens, flammas cum regia puppis extulerat, fatisque deum defensus iniquis inclusos utero Danaos et pinea furtim laxat claustra Sinon. Illos patefactus ad auras reddit equs, laetique cavo se robore promunt Thessandrus Sthenelusque duces et dirus Ulixes, demissum lapsi per funem, Acamasque Thoasque Pelidesque Neoptolemus primusque Machaon et Menelaus et ipse doli fabricator Epeos. Invadunt urbem somno vinoque sepultam; caeduntur vigiles, portisque patentibus omnis accipiunt socios atque agmina conscia iungunt. Nel frattempo il cielo muta su se stesso e la notte irrompe dall’Oceano, avvolgendo con una grande ombra/fitta tenebra la terra, l’etere e gli inganni dei Mirmidoni; i Troiani esultanti attraverso le mura tacquero, il torpore avvince le stanche membra. E già la falange greca (metonimia per l’esercito) avanzava da Tenedo nell’amico silenzio dirigendosi verso le note spiagge e già la nave (poppa) ammiraglia aveva levato la fiamma, e Sinone, protetto dagli ostili disegni degli dei, libera furtivamente i Greci rinchiusi dal ventre del cavallo aprendo/attraverso i serrami di pino. Spalancata la macchina, restituisce all’aria aperta i guerrieri e si calano con la fune lieti da quel legno (metonimia per il cavallo). Tessandro, Stenelo capi e il feroce Ulisse, discesi giù con una fune, e Acamante, Toante, Neottolemo pelide, per primo Macaone e Menelao e infine Epeo, artefice dell’inganno. Invadono la città sepolta nel sonno e nel vino; le sentinelle sono uccise e vengono aperte tutte le porte e fanno entrare, come d’accordo, i compagni e si riuniscono con loro. 268-297: APPARIZIONE DI ETTORE: Enea si era appena assopito nel primo sonno, quando gli appare Ettore, sporco di polvere e sangue, come quando era stato trascinato dal cocchio di Achille. Enea non ricorda, nel sonno, perché si trovi in quello stato e gli rivolge mestamente la parola e gliene domanda la causa. Ma Ettore annuncia che la patria è precipitata in rovina, gli raccomanda di fuggire e di porre in salvo i Penati di Troia che dovranno avere la loro sede in un’altra città, oltre i mari. E così dicendo gli consegna l’effigie e il fuoco sacro di Vesta. Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegris incipit et dono divum gratissima serpit: in somnis, ecce, ante oculos maestissimus Hector visus adesse mihi largosque effundere fletus, raptatus bigis ut quondam, aterque cruento pulvere perque pedes traiectus lora tumentis. Ei mihi qualis erat, quantum mutatus ab illo Hectore, qui redit exuvias indutus Achilli vel Danaum Phrygios iaculatus puppibus ignis, squalentem barbam et concretos sanguine crinis vulneraque illa gerens, quae circum plurima muros accepit patrios! ultro flens ipse videbar compellare virum et maestas expromere voces: “O lux Dardaniae, spes o fidissima Teucrum, quae tantae tenuere morae? quibus Hector ab oris exspectate venis? ut te post multa tuorum funera, post varios hominumque urbisque labores defessi aspicimus! quae causa indigna serenos foedavit voltus? aut cur haec vulnera cerno?” Ille nihil, nec me quaerentem vana moratur, sed graviter gemitus imo de pectore ducens, “Heu fuge, nate dea, teque his” ait “eripe flammis. Hostis habet muros; ruit alto a culmine Troia. Sat patriae Priamoque datum: si Pergama dextra defendi possent, etiam hac defensa fuissent. Sacra suosque tibi commendat Troia penatis: hos cape fatorum comites, his moenia quaere magna pererrato statues quae denique ponto.” Sic ait et manibus vittas Vestamque potentem aeternumque adytis effert penetralibus ignem. Era il momento (ritmo più rallentato) in cui (2 relative rette da quo) la prima quiete inizia per gli uomini affranti, e scorre come dono degli dei estremamente gradito: nel sogno ecco mi sembrò di vedere davanti agli occhi (visus sottinteso est) Ettore angosciatissimo e che versasse calde lacrime, come quel giorno (anastrofe) (in cui) sporco di sangue e di polvere le bighe lo trascinavano, trafitto i piedi gonfi da cinghie. Ahimé com’era ridotto/qual era e quanto mutato da quell’Ettore che ritornò portando ornato delle spoglie di Achille o quando scagliò i fuochi frigi (metonimia, fiaccole) sulle navi (poppe sineddoche) dei Danai, la barba irta e i capelli impastati di sangue (accusativi di relazione> con la barba e coi capelli), portando quelle ferite che ricevette in gran numero intorno alle mura della patria! (iperbato) io sembravo chiamare per primo piangendo l’eroe ed emettessi mesti richiami/parole: “O luce della Dardania, o speranza sicurissima dei Teucri, (o anastrofe rispetto a spes) quali lunghi indugi ti trattennero? Da quali spiagge vieni o Ettore atteso/invocato? Dopo quanti funerali (metonimia) dei tuoi, dopo quante rovine degli uomini e della città, infiniti, ti rivediamo? Quale causa indegna sporcò il tuo volto sereno (plurale poetico)? Perché io vedo queste ferite?”. MOMENTO DELL’INVESTITURA DELL’EROE DA PARTE DI CHI E’ QUASI UNA DIVINITA’: E quello non indugia su di me che chiedo cose vane, ma emettendo angosciosamente gemiti dal profondo (de pectore imo anastrofe) del petto (aggettivo predicativo) “Ahi fuggi, figlio della dea” dice “e sottraiti dalle fiamme. Il nemico possiede le mura/ha invaso la città, Troia rovina dalle alte torri. Ma abbastanza fu dato a Priamo e alla patria: se fosse stato possibile (periodo ipotetico del terzo tipo) difendere Pergamo con le armi, (hac> correlato a dextra) anche questa mia mano l’avrebbe difesa (mano della spada). Troia affida a te le sue cose sacre e i suoi penati: prendi questi come compagni (predicativo) del destino (plurale poetico), cerca per loro delle mura (sineddoche con significato metaforico per alludere ad un’altra dimora, città), che un giorno alzerai grandi, dopo aver solcato il mare”. Così parlò e sulle mani porta le bende e Vesta potente e il fuoco eterno dalle sedi nascoste. (Cose che erano nella parte della casa riservata ai familiari; anacronismo per la presenza di Vesta perché è divinità solo romana. Epica romanizzata). 298-317: Enea si sveglia per le grida e lo strepito delle armi. Sale sul tetto e osserva dall’alto, come un pastore che vede le campagne devastate dalla furia delle acque e del fuoco. Gli incendi hanno distrutto molte case. Enea afferra le armi e, consapevole che ogni tentativo sia inutile, pensa che sia bello morire combattendo. Diverso interea miscentur moenia luctu, et magis atque magis, quamquam secreta parentis Anchisae domus arboribusque obtecta recessit, clarescunt sonitus armorumque ingruit horror. Excutior somno et summi fastigia tecti ascensu supero atque arrectis auribus adsto: in segetem veluti cum flamma furentibus Austris incidit aut rapidus montano flumine torrens sternit agros, sternit sata laeta boumque labores praecipitisque trahit silvas; stupet inscius alto accipiens sonitum saxi de vertice pastor. Tum vero manifesta fides Danaumque patescunt insidiae. Iam Deiphobi dedit ampla ruinam Volcano superante domus, iam proximus ardet Ucalegon, Sigea igni freta lata relucent. Exoritur clamorque virum clangorque tubarum. Arma amens capio; nec sat rationis in armis, sed glomerare manum bello et concurrere in arcem cum sociis ardent animi; furor iraque mentem praecipitat pulchrumque mori succurrit in armis. Intanto le mura si mescolano per stragi diverse e sempre più, sebbene la casa del padre Anchise (fosse) isolata e protetta dagli alberi, i suoni si fanno chiari e l’orrore delle armi aumenta. Sono destato dal sonno e raggiungo la cima più alta della casa e resto a orecchie tese (in ascolto): (similitudine) come quando tra il grano mentre i venti infuriano cade una scintilla (cum temporale con indicativo) oppure come un violento torrente colpisce i campi cruda rabbia del ventre getta fuori alla cieca e lasciati i cuccioli che aspettano a fauci aperte, ci gettiamo tra le armi, tra i nemici e avanziamo a incontrare una morta non dubbia e facciamo la strada nel mezzo della città. La notte nera ci vola intorno con un’ombra vana. Chi potrebbe spiegare (congiuntivo con valore potenziale) la strage di quella notte, chi potrebbe spiegare a parole la morte e chi potrebbe eguagliare lo strazio col pianto? Una città così antica cadde dopo aver dominato per molti anni; senza numero attraverso le strade giacciono in ogni dove i cadaveri e per le case e per i sacri recinti degli dei. Ma non solo i Teucri pagano col sangue; perché infatti torna spesso anche ai vinti la forza nel cuore e i Danai vincitori cadono. Crudele dappertutto il pianto e dovunque il terrore e l’immagine moltiplicata della morte. 370-401: ANDROGEO. Androgeo, seguito da una numerosa schiera di Greci, si imbatte in Enea e i compagni e rivolge loro parole amichevoli di esortazione, credendoli Greci. Ma, accortosi dell’errore, salta indietro come se avesse calpestato un serpente. Circondato, viene ucciso dai Troiani i quali indossano poi le armi dei caduti e mandano all’Orco molti nemici. Primus se Danaum magna comitante caterva Androgeos offert nobis, socia agmina credens inscius, atque ultro verbis compellat amicis: 'Festinate, viri. Nam quae tam sera moratur segnities? alii rapiunt incensa feruntque Pergama: vos celsis nunc primum a navibus itis?' Dixit et extemplo (neque enim responsa dabantur fida satis) sensit medios delapsus in hostis. Opstipuit retroque pedem cum voce repressit. Improvisum aspris veluti qui sentibus anguem pressit humi nitens trepidusque repente refugit attollentem iras et caerula colla tumentem: haut secus Androgeos visu tremefactus abibat. Inruimus densis et circumfundimur armis, ignarosque loci passim et formidine captos sternimus: aspirat primo Fortuna labori. Atque hic successu exsultans animisque Coroebus 'O socii, qua prima' inquit 'Fortuna salutis monstrat iter, quaque ostendit se dextra, sequamur; mutemus clipeos Danaumque insignia nobis aptemus. Dolus an virtus, quis in hoste requirat? Arma dabunt ipsi.' Sic fatus deinde comantem Androgei galeam clipeique insigne decorum induitur laterique Argivum accommodat ensem. Hoc Rhipeus, hoc ipse Dymas omnisque iuventus laeta facit: spoliis se quisque recentibus armat. Vadimus immixti Danais haud numine nostro multaque per caecam congressi proelia noctem conserimus, multos Danaum dimittimus Orco. Diffugiunt alii ad navis et litora cursu fida petunt, pars ingentem formidine turpi scandunt rursus equum et nota conduntur in alvo. Prima e seguito da una grande schiera di Danai Androgeo ci viene in contro, credendoci forze alleate, inconsapevole, e ci chiama con parole amichevoli: “Affrettatevi, uomini: perché vi ha preso una così lenta indolenza? Altri depredano e saccheggiano Pergamo in fiamme; e voi solo ora venite dalle alte navi?”. Così parlo e a un tratto (poiché non venivano date risposte abbastanza rassicuranti) si rese conto di essere caduto nel mezzo dei nemici. Si stupì e indietreggiò soffocando la voce. Come chi ad un tratto tra rovi aspri schiaccia un serpente posando il piede a terra e trepido rifugge da quello che tirato si erge e gonfia il collo livido: così Androgeo scappava tremante per la visione. Irrompiamo, li circondiamo con armi fitte, e ignari del luogo e presi dalla paura li massacriamo qua e là: la sorte aiuta la prima impresa. E col cuore esaltato dal successo, disse Corebo: “O compagni quale caso ci mostra la strada per la salvezza e si offre fortunato a noi, seguiamolo; scambiamo gli scudi e abbattiamo le insegne dei Danai a noi. Inganno o valore, contro il nemico chi lo chiederà? Loro stessi ci daranno le armi”. Dopo aver parlato così poi prende il comato elmo di Androgeo e il rilievo bellissimo dello scudo e adatta la spada argiva al suo fianco. Questo Rifeo, questo lo stesso Dimante e i tutta la gioventù, fanno lietamente; ciascuno si arma di spoglie recenti. Andiamo avanti mescolati ai Danai ma con i numi contrari e nella notte cieca accendiamo molte mischie, mandiamo nell’aldilà molti Danai. E quelli chi fugge verso le navi e chi di corsa si dirige verso la spiaggia ben conosciuta, una parte con paura vile si arrampica di nuovo sul cavallo e si nasconde nel noto ventre. 402-437: CASSANDRA. Viene trascinata la fanciulla Priamea, con i capelli sciolti e gli occhi verso il cielo. Corebo non ne sopporta la vista e si lancia tra i nemici disposto a morire. Lo seguono gli altri e si attacca una zuffa furibonda. I Greci accorrono e i Troiani cadono uno a uno. Enea sopravvive pur cercando di affrontare la morte. Con lui Ifito e Pelia coi quali si allontana da quel luogo, attirato da un clamore proveniente dalla reggia di Priamo. Heu nihil invitis fas quemquam fidere divis! Ecce trahebatur passis Priameia virgo crinibus a templo Cassandra adytisque Minervae ad caelum tendens ardentia lumina frustra, lumina, nam teneras arcebant vincula palmas. Non tulit hanc speciem furiata mente Coroebus et sese medium iniecit periturus in agmen. Consequimur cuncti et densis incurrimus armis. Hic primum ex alto delubri culmine telis nostrorum obruimur oriturque miserrima caedes armorum facie et Graiarum errore iubarum. Tum Danai gemitu atque ereptae virginis ira undique collecti invadunt, acerrimus Aiax et gemini Atridae Dolopumque exercitus omnis: adversi rupto ceu quondam turbine venti confligunt, Zephyrusque Notusque et laetus Eois Eurus equis; stridunt silvae saevitque tridenti Spumeus atque imo Nereus ciet aequora fundo. Illi etiam, si quos obscura nocte per umbram fudimus insidiis totaque agitavimus urbe, apparent; primi clipeos mentitaque tela agnoscunt atque ora sono discordia signant. Ahimé nessuno creda che accadesse contro il volere degli dei! Ecco Cassandra, figlia di Priamo (virgo fanciulla non sposata per antonomasia), trascinata qua e là a capelli sciolti dal tempio e dai penetrali di Minerva la quale tende frustra invano gli occhi ardenti al cielo, (anadiplosi: figura retorica del finire un verso con una parola iniziando quello successivo con la stessa parola. Coblas capfinidas) le luci (metonimia) poiché le catene legavano le tenere/gracili mani (letteralmente i palmi, metonimia). Non sopportò quella vista, come impazzito, Corebo e si gettò nel mezzo della schiera per morire. Tutti lo seguimmo e ci gettammo tra le fitte armi. E qui dapprima dall’alto tetto del tempio siamo sommersi dai dardi dei nostri e nasce una strage tremenda per l’aspetto delle armi e per l’errore dei cimieri dei Greci. E i Danai per l’ira e il lamento della vergine strappata (virginis genitivo, sarebbe più corretto complemento di causa in ablativo), raccolti da ogni parte, di slanciano, il terribile Aiace, i due Atridi e tutto l’esercito dei Dolopi: così se scoppia una tormenta i venti avversi (iperbato) combattono, e zefiro e noto ed euro esultante sui cavalli orientali; i boschi stridono e impazza schiumoso Nereo con un tridente e sconvolge l’acqua fin dalle profondità (similitudine). E quelli che nell’oscura notte grazie alle tenebre sconfiggemmo e inseguimmo per tutta la città, riappaiono; e per primi riconoscono le armi e gli scudi bugiardi e denunciano la lingua che è difforme nel suono. (Si accorgono che abbiamo le armi dei Greci ma parliamo in Troiano). Ilicet obruimur numero; primusque Coroebus Penelei dextra divae armipotentis ad aram procumbit; cadit et Rhipeus, iustissimus unus qui fuit in Teucris et servantissimus aequi (dis aliter visum); pereunt Hypanisque Dymasque confixi a sociis; nec te tua plurima, Panthu, labentem pietas nec Apollinis infula texit. Iliaci cineres et flamma extrema meorum, testor, in occasu vestro nec tela nec ullas vitavisse vices, Danaum et, si fata fuissent ut caderem, meruisse manu. Divellimur inde, Iphitus et Pelias mecum (quorum Iphitus aevo iam gravior, Pelias et vulnere tardus Ulixi), protinus ad sedes Priami clamore vocati. E dunque siamo schiacciati dal numero; per primo Corebo è atterrato da Peneleo, vicino all’altare della dea guerriera; cade anche Rifeo, il più giusto di tutti quelli che ci furono tra i Teucri e il più fedele al bene (agli dei sembrò diversamente); muoiono anche Ipani e Dimante trafitti dai compagni; né tu, Panto, quando a terra cadevi fosti preservato dalla tua pietà né dalle bende di Apollo. O ceneri di Ilio e ultima fiamma dei miei, vi invoco come testimoni, nel vostro parere non sfuggirono né le armi né nessuna occasione, se solo fosse stato destino che io avessi meritato di morire per mano dei Danai. (Sotteso il bisogno di giustificarsi perché dall’eroe ci si aspetta che sappia morire, mantenendo fede al proprio coraggio. Essendosi salvato, Enea poteva essere accusato di vigliaccheria. Tema dell’eroismo.) Ma ci strappammo da lì, Ifito e Pelia con me (dei quali Ifito già piuttosto carico di età, e Pelia lento a causa di una ferita di Ulisse), e corriamo verso il palazzo di Priamo, attratti dal clamore. 438-468: L’ASSALTO ALLA REGGIA. I Greci cercano di scalare le mura della reggia e sfondare la porta, i Troiani rovesciano torri, travi, tegole. Enea entra da una porta posteriore, monta sul tetto, aiuta i Troiani a far precipitare una torre sui nemici. Hic vero ingentem pugnam, ceu cetera nusquam bella forent, nulli tota morerentur in urbe, sic Martem indomitum Danaosque ad tecta ruentis cernimus obsessumque acta testudine limen. Haerent parietibus scalae postisque sub ipsos nituntur gradibus clipeosque ad tela sinistris protecti obiciunt, prensant fastigia dextris. Dardanidae contra turris ac tota domorum culmina convellunt (his se, quando ultima cernunt, extrema iam in morte parant defendere telis), auratasque trabes, veterum decora alta parentum, devolvunt; alii strictis mucronibus imas E qui una grande lotta in verità, come se non ci fosse nessuna altra guerra in altro luogo, e nessuno morisse in tutta la città (anastrofe e iperbato). Così vediamo Marte indomito e i Danai che si scagliano contro le case (sineddoche) e la porta assediata dall’ariete scagliato. Alle pareti sono appoggiate scale e proprio intorno ai portoni, si arrampicano sui gradini, all’ombra di un alloro, a cielo scoperto, perché nel tetto si apriva il vano del compluvio. Priamo si arma pronto ad affrontare la morte. Ecuba lo esorta a rifugiarsi all’altare. Nel frattempo che appare Polite dal fondo della reggia, inseguito da Pirro lungo i portici del peristilio. Già ferito, ricorre alla protezione dei Penati ma è di nuovo ferito e quando arriva davanti ai genitori cade morto nel suo sangue. Priamo si accende di dolore e ira e inveisce contro Pirro ricordandogli come il padre Achille fosse stato più benevolo. Prova a lanciargli l’asta, ma invano. Pirro lo afferra e lo sgozza nel sangue del figlio. Forsitan et Priami fuerint quae fata requiras. Urbis uti captae casum convulsaque vidit limina tectorum et medium in penetralibus hostem, arma diu senior desueta trementibus aevo circumdat nequiquam umeris et inutile ferrum cingitur, ac densos fertur moriturus in hostis. Aedibus in mediis nudoque sub aetheris axe ingens ara fuit iuxtaque veterrima laurus, incumbens arae atque umbra complexa penatis. Hic Hecuba et natae nequiquam altaria circum, praecipites atra ceu tempestate columbae, condensae et divum amplexae simulacra sedebant. Ipsum autem sumptis Priamum iuvenalibus armis ut vidit: 'quae mens tam dira, miserrime coniunx, impulit his cingi telis? aut quo ruis?' inquit. 'Non tali auxilio nec defensoribus istis tempus eget; non, si ipse meus nunc adforet Hector. Huc tandem concede; haec ara tuebitur omnis, aut moriere simul.' Sic ore effata recepit ad sese et sacra longaevum in sede locavit. Ecce autem elapsus Pyrrhi de caede Polites, unus natorum Priami, per tela, per hostis porticibus longis fugit et vacua atria lustrat saucius. Illum ardens infesto vulnere Pyrrhus insequitur, iam iamque manu tenet et premit hasta. Forse vuoi sapere anche quali furono i fati di Priamo. Non appena vide la città presa e sconvolta e forzate le soglie del palazzo e il nemico nel mezzo delle stanze segrete, dismesse le armi pur così vecchio riveste invano sulle spalle tremanti per gli anni e cinge l’inutile ferro e si porta con l’intenzione di morire nel mezzo dei nemici. Nel mezzo del palazzo a cielo aperto sorgeva una grande ara e un vecchissimo lauro accanto, che si protendeva sull’ara e con l’ombra abbracciava i penati. Qui Ecuba con le fanciulle nate invano attorno agli altari, come colombe cacciate da una nera tempesta, strette insieme abbracciando le statue degli dei, sedevano. Come vide lui quello stesso Priamo prese le armi dei giovani, disse: “Quale mente (metonimia per pensiero) tanto folle, o marito infelicissimo, ti ha spinto a vestire queste armi? Dove ti dirigi? Il momento non ha bisogno né di un tale aiuto né di codesti difensori, nemmeno se ci fosse il mio stesso Ettore. Avvicinati qui alla fine; quest’ara proteggerà tutti, o morirai insieme a noi.” Così parlando lo trasse a sé e fece sedere il vegliardo nella sede sacra. Ed ecco scampato al massacro di Pirro Polite, uno dei figli di Priamo, fugge attraverso i dardi e i nemici lungo gli ampi portici e ferito si aggira per gli atri vuoti. Pirro ardente lo insegue desideroso di colpire/col colpo del nemico, e già lo tiene con la mano e lo incalza con la lancia. Ut tandem ante oculos evasit et ora parentum, concidit ac multo vitam cum sanguine fudit. Hic Priamus, quamquam in media iam morte tenetur, non tamen abstinuit nec voci iraeque pepercit. 'At tibi pro scelere,' exclamat, 'pro talibus ausis di, si qua est caelo pietas quae talia curet, persolvant grates dignas et praemia reddant debita, qui nati coram me cernere letum fecisti et patrios foedasti funere voltus. At non ille, satum quo te mentiris, Achilles talis in hoste fuit Priamo; sed iura fidemque supplicis erubuit corpusque exsangue sepulcro reddidit Hectoreum meque in mea regna remisit.' Sic fatus senior telumque inbelle sine ictu coniecit, rauco quod protinus aere repulsum, et summo clipei nequiquam umbone pependit. Cui Pyrrhus: 'referes ergo haec et nuntius ibis Pelidae genitori. Illi mea tristia facta degeneremque Neoptolemum narrare memento: nunc morere.' Hoc dicens altaria ad ipsa trementem traxit et in multo lapsantem sanguine nati implicuitque comam laeva dextraque coruscum extulit ac lateri capulo tenus abdidit ensem. Haec finis Priami, fatorum hic exitus illum sorte tulit, Troiam incensam et prolapsa videntem Pergama, tot quondam populis terrisque superbum regnatorem Asiae. Iacet ingens litore truncus avolsumque umeris caput et sine nomine corpus. Non appena arrivò davanti agli occhi e alla vista dei genitori, stramazzò e rese la vita con molto sangue. E Priamo, sebbene già afferrato dalla morte, tuttavia non si trattenne e non si risparmiò né la voce né l’ira. Esclama: “A te per questo delitto, per queste manifestazioni d’audacia gli dei, se c’è in cielo un qualche pietà, che si occupi di queste cose, paghino tutto il dovuto e restituiscano il premio dovuto, a te che mi hai fatto vedere davanti agli occhi lo strazio di un figlio e hai sporcato il volto di un padre con un omicidio. Ma non quell’Achille, da cui tu dici mentendo di essere nato, fu tale nei confronti del nemico Priamo; perché rispetto le leggi e il diritto (endiadi/il sacro diritto) del supplice e rese per il sepolcro il corpo esangue di Ettore e mi rimandò nel mio regno.” Il vecchio dopo aver parlato così senza vigore lanciò l’inutile asta, che fu subito respinta dal bronzo sordo e inutilmente spendette dal colmo dello scudo tondo. A costui Pirro: “Questo dunque riporta e andai come nunzio al padre pelide. Non dimenticare di narrare a quello le mie malvagie imprese e il degenere Neottolemo (la degenerazione di): ora muori.” Dicendo queste cose lo trascinò tremante verso gli stessi altari e poi, scivolante nel molto sangue del figlio, afferrò la chioma con la sinistra e con la destra alzò la lancia scintillante e gliela conficcò fino in fondo nel fianco. Questa fu la fine di Priamo, questa morte voluta dal fato, lo travolse mentre vedeva Troia in fiamme e crollata Pergamo, colui che un tempo era stato re dell’Asia, di tanti popoli e superbo per le terre. Giace dunque sulla spiaggia grande il busto sul fianco, una testa staccata dalle spalle e un corpo senza nome. 559-566: L’IMMAGINE DEL PADRE. Enea si ricorda di Anchise, della moglie Creusa e del piccolo Julo. Si rende conto di essere solo. At me tum primum saevus circumstetit horror. obstipui: subiit cari genitoris imago, ut regem aequaeuum crudeli vulnere vidi vitam exhalantem; subiit deserta Creusa et direpta domus et parvi casus Iuli. Respicio et, quae sit me circum copia, lustro. Deseruere omnes defessi et corpora saltu ad terram misere aut ignibus aegra dedere. Mi vinse allora per la prima volta l’orrore crudele. Rimasi intontito: l’immagine del caro padre arrivò agli occhi, non appena vidi il re pari di anni/coetaneo esalare la vita per una crudele ferita; mi venne in mente (iterazioni) Creusa abbandonata e la casa saccheggiata e il dolore del piccolo Iulio. Mi volto e cerco le forze che ho ancora con me. Sfiniti tutti (mi) avevano abbandonato lanciandosi a terra o lanciando il corpo disperati nel fuoco. 567-588: ELENA. Enea vede seduta nel tempio di Vesta Elena che vi si era rifugiata. Preso dal furore e volendo vendicare i suoi si slancia per ucciderla > VV. CHE MANCANO NEI MSS. TRAMANDATI DA SERVIO. DANIELINO ATTESTA CHE FURONO CANCELLATI DA TUCCA E VARIO. SONO IN CONTRADDIZIONE CON LA SCENA SEGUENTE PERCHE’ ENEA DOVEVA ESSERE ANCORA SUL TETTO PER ABBRACCIARE CON LO SGUARDO LA DISTRUZIONE DI TROIA E COI VV. 511-527 DEL VI LIBRO IN CUI DEIFOBO RAPPRESENTA DIVERSAMENTE IL CONTEGNO DI ELENA. INOLTRE, ENEA NON SI ACCANIREBBE VS UNA DONNA E PRESENTANO ESPRESSIONI ESTRANEE ALL’USO VIRGILIANO, OLTRE CHE UN DISCORSO DIRETTO CHE E’ L’UNICO DI TUTTO IL LIBRO, CONTRARIO ALLA TECNICA DI VIRGILIO E OMERO DI NARRARE TUTTO IN PRIMA PERSONA. [Iamque adeo super unus eram, cum limina Vestae servantem et tacitam secreta in sede latentem Tyndarida aspicio; dant claram incendia lucem erranti passimque oculos per cuncta ferenti. Illa sibi infestos eversa ob Pergama Teucros et Danaum poenam et deserti coniugis iras praemetuens, Troiae et patriae communis Erinys, abdiderat sese atque aris invisa sedebat. Exarsere ignes animo; subit ira cadentem ulcisci patriam et sceleratas sumere poenas. 'Scilicet haec Spartam incolumis patriasque Mycenas aspiciet, partoque ibit regina triumpho coniugiumque domumque, patris natosque videbit, Iliadum turba et Phrygiis comitata ministris? Occiderit ferro Priamus? Troia arserit igni? Dardanium totiens sudarit sanguine litus? E dunque ero solo quando vedo la figlia di Tindaro (Elena) che stava sulla soglia del tempio di Vesta e si nascondeva silenziosa in un luogo apparato; gli incendi che illuminano danno luce a me che erro e che porto gli occhi ovunque. Quella temendo l’odio terribile dei Teucri a causa del crollo di Pergamo e le pene dei Danai e le ire del marito abbandonato, si era nascosta, lei maledizione comune (metonimia molto alta) di Troia e della pace, là presso gli altari, odiata da tutti se ne stava seduta. I fuochi arsero nell’animo; l’ira di vendicare la patria che cadeva e di infliggere pene scellerate subentrò. “Certamente questa incolume rivedrà la patria Micene e Sparta e se ne andrà come regina in trionfo, rivedrà lo sposo, la casa, i padri e i suoi figli, tra una folla di Troiani e scortata da schiavi frigi? E Priamo sarà morto di ferro (metonimia per spada)? E Troia sarà arsa per il fuoco? Il lido dardano tante volte si sarà imbevuto di sangue? Non ita. Namque etsi nullum memorabile nomen feminea in poena est, habet haec victoria laudem, exstinxisse nefas tamen et sumpsisse merentis laudabor poenas, animumque explesse iuvabit ultricis ? famam et cineres satiasse meorum.' Talia iactabam et furiata mente ferebar,] Non così. Anche se non c’è nessun memorabile vanto per l’assassinio di una donna e non è una vittoria degna di lode, tuttavia sarò lodato per aver finito tale mostro e aver fatto giustizia e godrò di riempire il mio cuore di una fama vendicatrice e di aver saziato le ossa dei miei.” Meditavo queste cose e mi scagliavo con mente infuriata, Nam quod consilium aut quae iam fortuna dabatur? 'Mene efferre pedem, genitor, te posse relicto sperasti tantumque nefas patrio excidit ore? E così quando già ero giunto sulla soglia della casa paterna, il padre, che volevo porre in salvo sugli alti monti per primo e per primo cercavo, non vuole restare in vita essendo stata distrutta Troia (e non vuole) patire l’esilio. Dice: “Voi che avete il vigore del sangue intatto per gli anni, voi scegliete la fuga. Io se gli abitanti del cielo avessero voluto mantenermi in vita, avrebbero dovuto salvaguardare la patria. Vidi una volta e anche troppo la distruzione e sopravvissi la presa della città. (excidia solitamente riferito a creature animate, metonimia riferita agli uomini troiani uccisi) Così, così partite dando l’estremo saluto al mio corpo. Io stesso con la mia mano troverò la morte: il nemico avrà compassione e si impadronirà delle spoglie, non avere il sepolcro è cosa semplice. È molto che in odio agli dei e inutilmente trascino gli anni, da quando il padre degli dei e il re degli uomini mi sfiorò con la vampa del fulmine e mi toccò col fuoco.” Così stava fisso e ricordando rimaneva fisso. Noi di rimando lo pregavamo con pianti e la (mia) moglie Creusa e Ascanio e tutta la casa pregavamo che il padre non volesse travolgere tutto con sé e abbandonarci all’incombente destino. Ma quello risponde di no e rimane fisso/ostinato nella sua postazione e nel proposito. Di nuovo io mi getto tra le armi e miserrimo desidero la morte. Infatti quale partito o quale fortuna mi era concessa? “Sperasti o padre che io potessi portare il mio piede fuori lasciandoti qui, e quest’empia parola uscì dalla bocca paterna? Si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui, et sedet hoc animo perituraeque addere Troiae teque tuosque iuvat, patet isti ianua leto, iamque aderit multo Priami de sanguine Pyrrhus, natum ante ora patris, patrem qui obtruncat ad aras. Hoc erat, alma parens, quod me per tela, per ignis, eripis, ut mediis hostem in penetralibus utque Ascanium patremque meum iuxtaque Creusam alterum in alterius mactatos sanguine cernam? Arma, viri, ferte arma; vocat lux ultima victos. Reddite me Danais, sinite instaurata revisam proelia. Numquam omnes hodie moriemur inulti.' Hinc ferro accingor rursus clipeoque sinistram insertabam aptans meque extra tecta ferebam. Ecce autem complexa pedes in limine coniunx haerebat, paruumque patri tendebat Iulum: 'Si periturus abis, et nos rape in omnia tecum; sin aliquam expertus sumptis spem ponis in armis, Hanc primum tutare domum. Cui parvus Iulus, cui pater et coniunx quondam tua dicta relinquor?' Se agli dei piace che nulla resti di una così grande città e questo è fisso nell’animo e ti sembra giusto aggiungere a Troia che sta morendo te e i tuoi (poliptoto), aperta è la porta a questa fine e Pirro sarà di sicuro qui dall’abbondante sangue di Priamo, che (uccise) il figlio infatti davanti agli occhi del padre, abbattè il padre all’altare. (climax) Perciò o dea generatrice/madre, per questo tra le armi e le fiamme, mi salvi, affinché nelle stanze io veda il nemico e Ascanio e mio padre e accanto a loro Creusa, svenati l’uno nel sangue dell’altro? Afferrate o uomini le armi, l’ultima luce chiama i vinti. Rendetemi ai Danai, lasciatemi riprendere la rinnovata battaglia. E così mi riallaccio il ferro/la spada (metonimia) inserendo la sinistra allo scudo e correvo fuori di casa. Ma ecco mia moglie abbracciandomi i piedi sulla soglia mi si avvinghiava e tendeva al padre il piccolo Iulio: “Se te ne andrai a morire, prendi anche noi con te per qualunque sorte; se hai qualche speranza nelle armi tu che sei esperto, difendi questa casa per prima. A chi posso lasciare il piccolo Iulo, il padre ed io che un tempo fui tua sposa?”. 679-704: IL PRODIGIO. Si manifesta un prodigio: un’aureola cinge il capo di Iulio. I genitori tentano di spegnere la fiamma. Anchise, lieto, rivolge gli occhi al cielo e supplica Fiove di confermargli il presagio. La volta celeste risuona con un tuono e una stella cadente, traendosi dietro una scia luminosa. Anchise adora la sacra stella e gli dei e acconsente a partire con Enea. Talia vociferans gemitu tectum omne replebat, cum subitum dictuque oritur mirabile monstrum. Namque manus inter maestorumque ora parentum, ecce levis summo de vertice visus Iuli fundere lumen apex, tactuque innoxia mollis lambere flamma comas et circum tempora pasci. Dicendo queste cose riempiva di singhiozzi tutta la casa, quando improvvisamente apparve un prodigio mirabile a dirsi. Infatti tra le carezze tra i baci dei genitori miserrimi, ecco sembrò che dal capo di Iulio si effondesse un bagliore e innoqua al tatto una dolce fiamma gli lambisse le chiome e si collocasse intorno alle tempie. Nos pavidi trepidare metu crinemque flagrantem excutere et sanctos restinguere fontibus ignis. At pater Anchises oculos ad sidera laetus extulit et caelo palmas cum voce tetendit: 'Iuppiter omnipotens, precibus si flecteris ullis, aspice nos! hoc tantum, et, si pietate meremur, da deinde auxilium, pater, atque haec omina firma.' Vix ea fatus erat senior, subitoque fragore intonuit laevum et de caelo lapsa per umbras stella facem ducens multa cum luce cucurrit. Illam, summa super labentem culmina tecti, cernimus Idaea claram se condere silva signantemque vias; tum longo limite sulcus dat lucem et late circum loca sulphure fumant. Hic vero victus genitor se tollit ad auras adfaturque deos et sanctum sidus adorat. 'Iam iam nulla mora est; sequor et qua ducitis adsum. Di patrii; servate domum, servate nepotem. Vestrum hoc augurium, vestroque in numine Troiast (Troia est). Cedo equidem nec, nate, tibi comes ire recuso.' Noi tremanti di paura squotiamo i capelli con la fiamma e cerchiamo di istinguere con l’acqua le fiamme divine. Ma il padre Anchise lieto sollevò gli occhi alle stelle e tese al cielo i palmi (sineddoche per le mani) con questo grido/parole: “O Giove onnipotente se qualche preghiera ti abbia mai piegato, guardaci! Solo questo; e, se meritiamo grazie alla nostra pietas, dacci dunque un presagio, padre, e conferma questo segnale”. Aveva appena parlato il vecchio, e con fragore improvviso tuonò a sinistra e giù dal cielo staccandosi attraverso le ombre una stella portando con sé molta luce fece scendere la fiamma. Vediamo quella che trascorre sulle cime dei tetti, abbagliante e nascondersi nelle selve dell’Ida, segnando la via; allora per un grande tratto quel solco dà la luce e tutto intorno i luoghi fumano di zolfo. Allora vinto il padre si alzò volto al cielo e parla agli dei e adora la stella divina. “Ecco non c’è più nessun indugio; seguo dove voi volete. O dei della patria salvate la casa, salvate il nipote. Questo segno è vostro e nelle vostre mani è ancora Troia. Cedo, figlio, non rifiuto più di venire con te/di essere compagno a te.” 705-729: LA FUGA NELLA NOTTE: Si sentono gli incendi. Enea prende il padre sulle spalle e tiene con la destra il piccolo Iulio, mentre Creusa lo segue a distanza. I servi devono raggiungerli per vie diverse al tempio di Cerere, fuori dalla città. Enea è impaurito. Dixerat ille, et iam per moenia clarior ignis auditur propiusque aestus incendia volvunt. 'Ergo age, care pater, cervici imponere nostrae; ipse subibo umeris nec me labor iste gravabit. Quo res cumque cadent, unum et commune periclum, una salus ambobus erit. Mihi parvus Iulus sit comes, et longe servet vestigia coniunx. Vos, famuli, quae dicam animis advertite vestris. Quello aveva parlato, e già attraverso le mura l’incendio più chiaro (sinestesia) si ode e più vicino la vampa avvolge le fiamme. “Su dunque, o caro padre, Sali sulle mie spalle; io ti porterò sulle spalle e questa fatica non mi peserà. Comunque vadano le cose, insieme avremo un solo pericolo, una sola salvezza per entrambi. Il piccolo Iulio mi accompagni, e discosta segua i miei passi la mia sposa. Voi, o servi, state bene attenti alle cose che dirò. Est urbe egressis tumulus templumque vetustum desertae Cereris iuxtaque antiqua cupressus religione patrum multos servata per annos: hanc ex diverso sedem veniemus in unam. Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penates: me, bello e tanto digressum et caede recenti, attrectare nefas, donec me flumine vivo abluero.' Haec fatus latos umeros subiectaque colla veste super fulvique insternor pelle leonis, succedoque oneri; dextrae se parvus Iulus implicuit sequiturque patrem non passibus aequis; pone subit coniunx. Ferimur per opaca locorum; et me, quem dudum non ulla iniecta movebant tela neque adverso glomerati examine Grai, nunc omnes terrent aurae, sonus excitat omnis suspensum et pariter comitique onerique timentem. C’è usciti dalla città un’altura e un vecchio tempio dell’abbandonata Cerere (ipallage perché è il tempio abbandonato), vicino a un antichissimo cipresso, conservato per molti anni dalla devozione dei padri: andremo verso quell’unica meta da diverse provenienze. Tu, o padre, prendi con mano pura i padri penati: io, scampato da una guerra così gande e dal recente massacro, non posso toccarli, finché non mi sarò lavato nell’acqua corrente di un fiume/in un fiume che scorre.” Detto ciò curvandomi vesto di un panno e poi della pelle di un leone fulvo le vaste mie spalle e la schiena, e accolgo il mio peso; il piccolo Iulo mi stringe la destra e segue il padre non a passi uguali; la sposa segue dietro. E andiamo attraverso i nascondigli dei luoghi (strade segrete); e a me, che non muovevano né i dardi scagliati né la folla dei Greci stretti a combattere, ora tutti i venti atteriscono, mi scuote ogni suono in ansia e in timore per il compagno e per il carico.