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Traduzione e analisi IV libro dell'Eneide, Appunti di Letteratura latina

Traduzione e analisi IV libro dell'Eneide

Tipologia: Appunti

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Scarica Traduzione e analisi IV libro dell'Eneide e più Appunti in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! ENEIDE Nel III libro Didone offre ad Enea un grandioso banchetto, questo è il momento in cui scocca la scintilla, e Didone chiede ad Enea di raccontare le sue vicende: il II libro copre la narrazione della caduta di Troia, mentre il III occupa la narrazione dei sette anni passati per mare. Significativa la chiusura del terzo libro: come Enea tace, inizia il libro IV con at. Enea termina il proprio racconto, ma la regina non trova pace: è iniziato il suo tormento, Didone si innamora. Si noti come cura ricorra al termine del v.1, e anche più avanti al v.5. Qui Virgilio, con pausa centrale, ha rimesso in evidenza placidam e quietem, la parola che sta poi in clausola. In questo modo, v.1 e v.5 sono esattamente identici per struttura, c'è un'unità: a sottolinearla vi è il punto dopo quietem, dando quel senso di circolarità di cui abbiamo spesso parlato. A sottolineare il senso di unità e circolarità è anche il fatto che cura (ablativo) sia la clausola del v.1, mentre cura (nominativo) ricorre nella clausola del v.5: da strumentale a soggetto, si mette in evidenza che è una parola forte, importante, che ha un senso. Subito è messo in evidenza il ruolo di Didone, regina, perché in fondo tutto il libro è concentrato su questo conflitto tra il ruolo privato ed il ruolo pubblico, tanto per Didone quanto per Enea. Didone è una regina, e dunque dovrebbe avere un certo comportamento in nome del suo ruolo, comportamento al quale viene meno a causa della passione privata per Enea; lui, sovrano e guida totale del suo gruppo di esuli troiani dopo la morte del padre Anchise, dovrebbe avere un certo comportamento per rispetto dei suoi compagni, mentre invece si scosta da tale comportamento per via di una ragione privata, la passione per Didone. È tutto questo gioco di ruoli ad essere messo in evidenza; ed è curioso che di Didone sia subito messo in evidenza proprio il ruolo, più che la persona. DIDONE E LA CARA SORELLA ANNA, vv.1 - 53 At regina gravi pausa iamdudum saucia cura pausa. Ma la regina ormai ferita da grave affanno La pausa centrale , quella dopo il terzo longum , mette in evidenza gravi e curam. At in fondo è un connettivo che dà inizio alla prosa. Virgilio si compiace dell'uso di questi connettivi, basti pensare che il libro III cominciava proprio con postquam, e l’'utilizzo di questi connettivi è utile per dare consequenzialità alle narrazioni dei vari libri; invita a leggere continuativamente. Volnus alit venis pausa et caeco carpitur igni pausa. alimenta nelle vene la ferita ed è rosa da cieco fuoco. La stessa pausa del v.1 e mette in evidenza il costrutto unitario volnus alit venis (costante suono v), ed et caeco carpitur igni, che inizia con et che, in un certo modo, scandisce l'inizio della seconda metà del verso. Multa viri virtus animo pausa multusque recursat gentis honos pausa Ricorre nel cuore il forte eroismo dell´eroe ed il forte inarcatura al v.4, infatti gentis honos è legato a recursat. Invece, la prima parte del verso – multa viri virtus animo – è un costrutto unitario, tanto è vero che la seconda parte è introdotta dal que posposto. Una donna che parla di vir si riferisce a suo marito; nell’epica vir finisce per significare “eroe guerriero” e virtus è qualità intrinseca nel vir, è quasi un gioco di parole. -que è una congiunzione che coordina gli elementi di un’endiade, indiando che i due elementi indicati sono equivalenti, vengono a costituire un unico concetto Haerent infixi pectore vultus pausa. onore della stirpe; s´attaccan fisse alla mente le fattezze Qui la pausa è strana perché si trova dopo honos, quindi molto dislocata verso sinistra. Ciò che segue è però un costrutto unitario che di per sé ha un senso compiuto. Verbaque nec placidam pausa membris dat cura quietem. e le parole nè l´affanno dà alle membra placida quiete. 5 Qui Virgilio, con pausa centrale, ha rimesso in evidenza placidam e quietem, la parola che sta poi in clausola. In questo modo, v.1 e v.5 sono esattamente identici per struttura, c'è un'unità: a sottolinearla vi è il punto dopo quietem, dando quel senso di circolarità di cui abbiamo spesso parlato. A sottolineare il senso di unità e circolarità è anche il fatto che cura (ablativo) sia la clausola del v.1, mentre cura (nominativo) ricorre nella clausola del v.5: da strumentale a soggetto, si mette in evidenza che è una parola forte, importante, che ha un senso. Subito è messo in evidenza il ruolo di Didone, regina, perché in fondo tutto il libro è concentrato su questo conflitto tra il ruolo privato ed il ruolo pubblico, tanto per Didone quanto per Enea. Didone è una regina, e dunque dovrebbe avere un certo comportamento in nome del suo ruolo, comportamento al quale viene meno a causa della passione privata per Enea; lui, sovrano e guida totale del suo gruppo di esuli troiani dopo la morte del padre Anchise, dovrebbe avere un certo comportamento per rispetto dei suoi compagni, mentre invece si scosta da tale comportamento per via di una ragione privata, la passione per Didone. È tutto questo gioco di ruoli ad essere messo in evidenza; ed è curioso che di Didone sia subito messo in evidenza proprio il ruolo, più che la persona. L´aurora seguente colla lampada febea illuminava le terre e dal cielo aveva cacciato l´umida ombra, quando impazzita così parrla alla sorella amatissima: "Anna, sorella, quali incubi mi atterriscono insonne/ansiosa. Che ospite strano, questo, (che) è giunto alla nostra 10 casa, presentandosì come d´aspetto, di così forte petto e di armi. Lo credo davvero, non è vana certezza che è stirpe di dei. La paura rivela i cuori vili. Ah, da quali fati egli è sbattuto/travolto. Quali guerre compiute cantava/narrava. Se non mi stesse fisso ed immobile in cuore 15 di non volermi unire a nessuno col vincolo coniugale, dopo che il primo amore abbandonò me ingannata con la morte; se non mi fossi disgustata per il letto nuzale e fiaccola nuziale, forse avrei potuto cedere a quest´unica colpa. Anna, lo confesserò, dopo i destini del povero marito 20 Sicheo ed i penati dispersi dalla strage del fratello solo costui piegò i sentimenti e scosse il cuore che vacilla. Conosco i segni dell’antica fiamma. Ma vorrei o che prima la terra si spalanchi a me infima o il padre onnipotente mi cacci col fulmine alle ombre, 25 le pallide ombre nellErebo e la notte profonda, prima che violi, Pudore, o venga meno (alle) tue leggi. Lui, che per primo a sé mi unì,i miei amori conobbe (per primo); lui li tenga con sé e li custodisca nel sepolcro" Dopo aver detto così, riempì il grembo di lacrime copiose. 30 Anna risponde:"Oh più cara della luce, a me sorella, forse sola soffrendo sarai divorata per tutta la giovinezza né conoscerai i dolci nati di Venere nè i suoi regali? Credi forse che questo curi la cenere ed i mani sepolti? Sia pure: un tempo nessun marito piegò (te) afflitta/addolorata, 35 non in Libia, non prima a Tiro: Iarba respinto e gli altri principi, che l´Africa, terra ricca di trionfi, alimenta: forse contrasterai/combatterai un amore gradito? Non ti ricordi (lett. viene in mente) nei campi di chi dimori? Di qui città getule, stirpe insuperabile in guerra, ti cingono e indomiti Numidi e la Sirte inospitale; di là una regione deserta per sete ed i furibondi Barcei. Perché nominare le guerre nascenti da Tiro e le minacce del fratello? Certamente con gli dei favorevoli e Giunone concorde credo/ritengo che le navi di Ilio col venti ha tenuto questa rotta. Quale città, sorella, tu vedrai sorgere, questa, e che regni con tale unione! Alleandosi le armi dei Teucri, la gloria Punica a quali imprese si innalzerà! Tu intanto chiedi aiuto agli dei, celebrati i sacrifici, accorda l´ospitalità ed inventa motivi per fermarsi, mentre sul mare infuria l´inverno ed il piovoso Orione, e le navi sconquassate, mentre il clima è intrattabile." vv.6-12 Costruzione del cum inversum . Normalmente il cum introduce una temporale, quando si devono offrire delle circostanze questa proposizione è perfetta. In poesia, o in una prosa di alto livello, è di effetto invertire i ruoli, ovvero trasformare la subordinata circostanziale in principale, ed introdurre la principale con il cum. Qui è evidente che il soggetto è postera Aurora (“il mattino del giorno dopo”), che lustrabat terras. In questo caso la circostanza che dovrebbe essere resa con il cum è il momento del giorno in cui avviene l'azione, ovvero il mattino (quando l'alba inonda la Terra di luce), mentre la frase principale resa dunque senza il cum dovrebbe essere quella che riguarda Didone. Invece qui accade il contrario: è la temporale circostanziale a non essere introdotta dal cum. Questa inversione ha effetto poetico perché lascia in attesa, e perché le circostanze fanno parte di quelle informazioni utili e necessarie a comprendere il passo, ma non poetiche di per se stesse. Dunque Virgilio innalza a principale la subordinata per darle risalto, mentre abbassa a subordinata l'azione forte perché tanto è appunto forte, e dunque emergerà nella sua forza. È un costrutto di architettura. vv.13-23 = La pausa che segue arguit non è dentro al piede, ma alla fine del piede, che in questo caso è il quarto. Si tratta di una dieresi bucolica, come ad isolare la prima parte del verso contenente una verità assoluta e dare rilievo patetico alla seconda parte. Qui, infatti, la prima parte è una specie di morale: Enea ha dimostrato di non avere paura dello scontro anche con esseri mostruosi, le difficoltà di assenza di beni o la morte di persone care; la paura invece è quella che indica gli animi ignobili che non abbiano possibilità di attingere all’eroismo. La congiunzione si è presente due volte, al v.15 e al v,.18, seguita nel primo caso da un congiuntivo imperfetto, nel secondo caso da un congiuntivo piuccheperfetto non del tutto corretto (in quanto pertaesum viene considerato un aggettivale, collegato a fuisset). Il congiuntivo imperfetto e piuccheperfetto in latino sono sempre relativi al periodo ipotetico dell'irrealtà. La principale invece è potui soccumbere culpae: il perfetto potui è da tradurre in italiano con un condizionale (non presente in latino). Le due ipotesi sono Si mihi non sederet e Si non pertaesum fuisset (questa è un'azione anteriore). Si mette in evidenza che Enea non rientra nella categoria degli animi ignobili, e la dislocazione a sx dà rilievo a “degenris” che è l’elemento più importante. Il poliptoto tra quibus/quae rievocano il destino di Enea e la narrazione dei libri II e III. Nell’inizio del poema Virgilio definisce Enea come un profugo costretto alla fuga dal fato, “iactus” sballottato per terra e per mare (ille fatis iactatus est). LA CACCIA INSIDIOSA vv.129 - 159 Intanto Aurora alzandosi lasciò Oceano. La gioventù scelta, spuntato il raggio, esce dalle porte. Reti rade, lacci, spiedi da caccia ddi ferro largo, cavalieri massili e l´irruenza fiutante dei cani irrompono. I caoi dei Fenici aspettano sulle soglie la regina che si attarda in camera, bello di porpora e d´oro sta lo scalpitante e morde fiero i morsi spumegganti. Finalmente avanza, accalcandosi una grande schiera, avvolta in clamide sidonia con orlo ricamato; ha una faretra d´oro, i capelli si annodan nell´oro, una fibbia d´oro allaccia la veste purpurea. Pure i compagni frigi ed il raggiante Iulo avanzano. Lo stesso Enea il più bello di tutti gli altri si offre come compagno ed unisce le schiere. Quale Apollo quando lascia l´invernale Licia e le onde di Xanto e rivede la materna Delo ed inizia le danze, ed uniti Cretesi e Driopi ed i dipinti Agatirsi s´agitano attorno agli altari; egli avanza sui gioghi del Cinto e blocca la chioma fluente con tenero ramo aggiustandola e l´annoda nell´oro, le frecce risuonano sulle spalle: non più lento di lui andava Enea, sì gran bellezza risalta sul nobile volto. Come si giunse sugli alti monti e le impervie tane, ecco selvatiche capre lanciate dalla cima della rupe corsero giù dai gioghi; da un´altra parte i cervi attraversano le piane aperte e formano colla fuga schiere polverose e lasciano i monti. Ma il piccolo Ascanio in mezzo alle valli gode per il fiero cavallo ed ora sorpassa questi, ora quelli al galoppo e brama con voti che si offra tra i timidi branchi uno spumante cinghiale o che scenda dal monte un rosso leone. LE NOZZE SEGRETE, vv.160- 197 Intanto il cielo comincia turbarsi con un gran brontolìo, avanza una nube con mista grandine, ed i compagni tirii e la gioventù troiana ed il dardanio nipote di Venere dappertutto con paura per i campi cercarono diversi ripari; torrenti corron dai monti. Alla stessa spelonca giungono Didone ed il capo troiano. Sia la Terra per prima sia Giunone pronuba danno il segnale; rifulsero vampe e l´etere complice nell´unione e le Ninfe ulularon sulla cime del monte. Quel giorno fu il primo della morte e per primo fu la causa dei mali; infatti non è distolta da decoro o fama Didone, né medita un amore furtivo: lo chiama connubio, con tal nome nascose la colpa. Subito Fama va per le grandi città di Libia, Fama, male di cui nessun altro è più veloce: si rafforza colla mobilità ed acquista forze andando, piccola alla prima paura, poi s´innalza nell´aria, ed avanza sul suolo, ma nasconde il capo tra le nubi. La Madre Terra, irritata dall´ira degli dei, la generò, come raccontano, ultima sorella di Ceo ed Encelado, veloce a piedi e con ali infaticabili, mosro orrendo, enorme, quante ha penne nel corpo, tanti sotto sono gli occhi vigili, mirabile a dirsi, tante le lingue, altrettante bocche risuonano,tante orecchie drizza. Vola di notte nel mezzo di cielo e terra nell´ombra vv.129-159= È un incipit solenne perché sta per succedere il fatto che determinerà la sorte di Didone. Ai vv.138-9 la similitudine che aveva descritto Didone al suo apparire nel libro I era stata quella di Diana, dea della verginità e della giovinezza in mezzo al corteo delle ninfe; la similitudine è famosa perché Diana era già apparsa come oggetto di similitudine in Omero, per Nausicaa (avrà una gran fortuna come similitudine). Al v. 143 Enea è Apollo, dio della bellezza maschile. Attraverso questa corrispondenza espressa sotto forma di climax, Virgilio ribadisce la rispondenza tra i due. Questo è lo splendore che ha negli occhi Didone quando lo guarda. vv. 160-172 = Nel mondo romano il matrimonio più tradizionale prevede che durante la cerimonia gli amici dello sposo rapiscano sul far della sera la sposa, e la portino in casa dello sposo, dove lui la accoglie prendendola fra le braccia, facendole oltrepassare la soglia senza che ci incespichi (segno di malaugurio). Ciò che è importante sono i segnali delle nozze, le false parvenze della cerimonia nuziale causate da Giunone: Didone vuole credere che siano i segnali della cerimonia, e quindi trova nei segnali della tempesta tutta una serie di elementi che la giustificano nel suo cedere ad Enea. Il personaggio legge dunque i segnali come vuole, come ritiene che le siano convenienti. Il narratore può per questo intervenire, parlando di una culpa per il suo venir meno di regina ma anche la colpa di aver interpretato dei segnali in maniera errata, volendo costruire un significato. stridendo, né abbassa gli occhi nel dolce sonno; con la luce sta sentinella o in cima alla sommità del tetto o sull´alte torri, e terrorizza le grandi città, tenace portatrice di falso e di male che di vero. Costei allora riempiva i popoli di molteplice chiacchiera godendo e parimenti decantava cose fatte e non fatte: esser giunto Enea, nato da sangue troiano, cui la bella Didone si degna di unirsi come a marito; ora durante l´inverno, quanto è lungo, si tengon caldi nel lusso imemori dei regni e rapiti da turpe passione. Questo qua e là la sporca dea diffonde sulle bocche degli uomini. Poi storce i passi verso il re Iarba gli incendia cil cuore con le dicerie ed accumula le ire. IL RE IARBA SDEGNATO, vv.198-218 Questi nato da Ammone e dalla ninfa rapita Garamantide creò per Giove cento immensi templi nei vasti regni, cento altari e aveva dedicato il fuoco vigile/inestinguibile, eterne guardie (excubias) degli dei, un suolo ricco di sangue di mandrie ed ingressi fiorenti di varie ghirlande. E lui pazzo in cuore e accesso dall´amara diceria, si dice, avesse pregato molto Giove supplicando con mani alzate davanti agli altari in mezzo alle immagini degli dei: Giove onnipotente, cui ora il popolo marusio banchettando su ricamati letti liba l´offerta lenea, vedi questo? Forse, padre, quando lanci i fulmini, invano ti temiamo, vampe cieche tra le nubi atterriscono gli animi producono vuoti mormorii? Una donna, che errando creò nei nostri paesi una piccola città col danaro, cui concedemmo il litorale da arare, cui pure le leggi del luogo, respinse le nostre nozze ed accolse come signore Enea nei regni. Ed ora quel Paride con un codazzo effeminato, allacciando il mento e la chioma fradicia con mitra meonia, è padrone del furto: noi davvero ai tuoi templi portiamo doni e nutriamo un culto vuoto?" vv.206-219 Iarba subentra nel rapporto tra Enea e Didone andando a formare una sorta di triangolo. Ha pretese sentimentali e politiche su Didone e il suo regno; quindi, quando viene a sapere che Enea e Didone hanno consumato nella grotta e che si stanno comportando come marito e moglie, si accende e invoca suo padre, Giove (Ammone, versione africana di Giove). Stava compiendo sacrifici quando reso furibondo dalla gelosia e dall’orgogli ferito (-> tutte le passioni hanno alla fine lo stesso effetto = perdita della razionalità). ORDINI DI GIOVE AD ENEA, vv.219 -295 Lo sentì che pregava con tali parole e tenendo gli altari l´Onnipotente, storse gli occhi alle mura regali 220 ed agli amanti dimentichi di fama migliore. Allora così parla a Mercurio e questo gli affida: "Su, va´, figlio, chiama gli Zefiri e scendi a volo e parla al capo dardanio, che ora aspetta nella tiria Cartagine e non guarda alle città concesse dai fati 225 e riferisci veloce le mie parole nel cielo. Non ce lo promise tale la bellissima madre e lo protegge perciò due volte dall´armi dei Grai; ma che guidasse l´Italia gravida di potenze e fremente di guerra, che propagasse la stirpe dal grande sangue 230 di Teucro e mettesse sotto leggi il mondo intero. Se nessuna gloriadi sì grandi imprese lo accende vv.219-237 = è la suasoria di Anna all'incontrario: se Enea non va nel Lazio, non potrà rendere il figlio il fondatore di Alba Longa. Sta toccando il destino del figlio, lo sta defraudando: questo sarà l'elemento di giustificazione fortemente utilizzato anche da Enea con Didone per motivare la sua fuga. v.200 * fuoco acceso dalle vestali, che non potevano sposarsi e rimanevano vergini, e provvedevano a non far spegnere il fuoco poiché avrebbe significato lo spegnimento anche della città di Roma. Qui Virgilio prende usanze – e lo fa spesso, specialmente per abitudini religiose o militari – della sua epoca e le retrodata all’età epica, o addirittura come in questo caso a popoli non romani. Qui attribuisce agli africani l’usanza del fuoco di vesta, non coincide mai precisamente, in questo caso non è per vesta ma per Giove. né lui si smuove all´impegno per il suo onore, come padre invidia forse ad Ascanio le rocche romane? Che combina? O con quale mira si ferma tra gente nemica 235 e non guarda alla prole ausonia ed ai campi di Lavinio? Navighi! Questa è la conclusione, questo sia il nostro avviso". Aveva sentenziato. Egli si preparava ad ubidire all´ordine del gran padre; e prima si allaccia i calzari d´oro ai piedi, che lo portano altissimo con le ali sia sopra le acque 240 e la terra ugualmente con veloce soffio. Allora prende la verga: con questa egli richiama le anime pallide dall´Orco, altre le invia sotto i tristi Tartari, dà i sonni e li toglie, e (dissuggella) libera gli occhi dalla morte. Munendosi di essa spinge i venti e trapassa le torbide 245 nuvole. Ormai volando vede la vetta ed i fianchi ripidi del duro Atlante che regge col capo il cielo, di Atlante, cui la testa ricca di pini frequentemente è cinta di nere nubi ed è battuta da vento e da pioggia, la neve scesa copre le spalle, poi fiumi precipitano dal mento 250 del vecchio e l´ispida barba s´irrigidisce pel ghiaccio. Qui dapprima il Cillenio splendente si fermò con l´ali appaiate; di qui con tutto il corpo si lanciò capofitto nell´onde simile ad uccello, che attorno alle spiagge, attorno ai pescosi scogli vola basso vicino alle acque. 255 Non diversamente volava tra cielo e terra verso il lido sabbioso di Libia, e la prole cillenia provenendo dall´avomaterno tagliava/passava attraverso i venti. vv. 259-286 Mercurio si presenta a Enea dicendogli che il suo destino non è a Cartagine e non può legarsi a Didone. Appena con le piante alate toccò i sobborghi, vede Enea che fonda le rocche e crea nuove case. 260 Egli aveva pure una spada costellata di rosso diaspro ed un mantello di porpora tiria,che scendeva dalle spalle, splendeva: questo dono l´aveva fatto la ricca Didone e l´aveva trapuntato la stoffa d´oro sottile. Subito l´assale: " Tu adesso poni le fondamenta della grande 265 Cartagine e ligio alla moglie ( uxroius ) costruisci una bella città? Oh, dimentico del regno e delle tue imprese. Lo stesso re degli dei mi invia dallo splendido Olimpo, lui che con potenza volge cielo e terra, lui ordina di recare questi ordini attraverso/nelle aure leggeri: cosa combini? O con che speranza rovini il tempo in terre libiche? Se non ti smuove nessuna fama di tante imprese [né tu affronti l´impegno per la tua gloria,] guarda ad Ascanio che cresce ed alle speranze dell´erede Iulo, cui è dovuto il regno d´Italia e la terra 275 Romana." Dpo aver parlato con tali (bocca, metonimia) parole il Cillenio lasciò le sembianze mortali nel mezzo del discorso (medio sermone) e disparve dagli occhi nell´aria leggera. Ma Enea davvero alla vista ammutolì, fuor di sé, e le chiome dritte e la voce s´attaccò alle fauci. 280 Brucia di andarsene in fuga e lasciare le dolci terre, attonito per sì grande monito e ordinedegli dei. Ahi, che fare? Con quale parola osare avvicinare la regina impazzita? Quali iniziative prender per prime? LA RISPOSTA DI ENEA, vv.331- 361 Aveva detto. Egli teneva gli occhi immobili agli ordini di Giove e sforzandosi premeva il dolore dentro il cuore. Finalmente proferisce poche cose: "Io mai negherò che tu hai meriti, i maggiori che parlando sei in grado di enumerare, o regina, né mi rincrescerà ricordarmi di Elissa, fin che io stesso sia memore di me, fin che lo spirito regga queste membra. Per il fatto dirò poco. Né io sperai nasconder con frode questa fuga, non credere, né mai ho alzato fiaccole di marito o venni a tali patti. Io se i fati permettessero di condurre la vita secondo miei desideri e calmare gli affanni di mia scelta, anzitutto onorerei la città troiana ed i dolci resti dei miei, si manterrebbero le alte regge di Priamo, e con mano ostinata avrei rifatto Pergamo per i vinti. Ma ora Apollo grineo e gli oracoli dei Licia mi han comandato di raggiungere Italia; questo il mio amore, questa è la mia patria. Se le rocche di Cartagine e la vista d´una città libica trattiene te, Fenicia, quale invidia c´è che finalmente i Teucri si fermino su terra ausonia? E´ fato che anche noi cerchiamo regni stranieri. Me terrorizza la sconvolta immagine del padre Anchise e mi mi ammonisce in sogno, quando, piovendo le ombre, quante volte la notte ricopre le terre, quante gli astri ignei sorgono; Mi (ammonisce), pure, il piccolo Ascanio ed il torto del caro volto che defraudo del regno d´Esperia e dei campi fatali. Ora anche l´interprete degli dei mandato dallo stesso Giove, lo giuro sul capo d´entrambi, inviò ordini attraverso i cieli veloci: io stesso vidi il dio in chiara visione che penetrava le mura e ne assorbii la voce con queste orecchie. Smetti di incendiare me e te con le tue lamentele; l´Italia la inseguo non spontaneamente." Non risponde alla domanda sul destino e sul figlio di Didone, ma risponde alla ragione della fretta, cui attribuisce tre ragioni: - il ricordo del padre Anchise, - il pensiero del figlio Ascanio, - l'apparizione di Mercurio. Si apprende delle apparizioni del padre Anchise solo qui; il pensiero del puer Ascanius rientra nella logica latina: in una popolazione di contadini vi è la logica di lasciare al figlio quanto guadagnato; in questo caso, Enea deve conquistare l'Italia e lasciarla al figlio. Le apparizioni notturne reiterate del padre Anchise sono importanti e forse le più interessanti: dal punto di vista narrativo non è mai stato raccontato di questi incubi notturni del padre che lo viene a rimproverare; dal punto di vista psicologico in fondo è evidentemente il senso di rimorso, generato dal fatto che tra i due vi è sempre stato accordo nelle decisioni. Generalmente è sempre stato Anchise a dettare le decisioni, anche quando i segnali divini lasciavano presagire altro (come nel momento della partenza da Troia, quando Anchise vuole rimanere mentre Enea ha già ricevuto indicazioni divine per la partenza; tuttavia, l'eroe troiano, ascoltando le parole paterne, è disposto a sottomettersi alla volontà paterna). Dunque, Enea ed Anchise sono due persone distinte ma con un'unica volontà, visto che il figlio si sottomette sempre alla volontà paterna, ma questa è l'unica volta in cui il volere dei due non è concorde. Anchise resta fermo all'idea della missione, e il figlio sente attraverso il ricordo del padre che sta tradendo questa idea, ha qualcosa sulla coscienza a rimanere a Cartagine. v.345 Il santuario grineo è un tempio dedicato ad Apollo in Asia Minore, dove si andava a chiedere la legittimazione per fondare nuove colonie e come riconoscere i territori adatti alla fondazione (secondo un meccanismo tipico dei greci). Nella tradizione precedente a quella virgiliana, queste informazioni sono fornite ad Enea dalla sibilla di Cime, in Asia Minore. Virgilio sostituisce qui (e lo fa solo lui) la fonte della sibilla con il santuario Grineo, ma sappiamo bene che nell'Eneide tali indicazioni Enea le ha ricevute al santuario di Delo. La strana costruzione antivirgiliana dei primi tre versi: Virgilio è sempre abbastanza liscio nella costruzione della frase, ma qui mette me all'inizio, oggetto del verbo admonet e terret che stanno due versi sotto; il soggetto vv.331-361 Questa risposta di Enea è costruita secondo la retorica, è una risposta tra l'altro data per la fretta di partire. Egli sa che Didone ha ragione e che a lui stesso piacerebbe rimanere in queste dolci terre, ma deve andare. L'exordium deve rendere benevolo l'ascoltatore, ma qui l'eroe sa che non è possibile: deve quantomeno rendere Didone il più possibile docile alle sue parole. Didone ed Enea non verranno mai nominati in questo passo, saranno sempre lasciati sottintesi sia come soggetti che come complementi. Didone utilizza in fondo tutti gli argomenti presenti nella suasoria di Anna. Nei primi versi Enea risponde all'accusa di non ricordarsi dei meriti di Didone; Enea afferma di ricordarsene, ma dice anche che non si può fondare una città sulla gratitudine. L'eroe troiano sottolinea come non si sia mai definito coniunx, come non abbia mai preso parte ad alcuna cerimonia nuziale con Didone: è un ruolo che gli ha attribuito lei. Enea sta ribadendo il v.172, in cui Didone chiama il rapporto coniugium nascondendo il difetto di tale relazione. Enea sta insomma affermando che il matrimonio non vi è mai stato. di tali verbi è alla fine del terzo verso, imago. Questa imago è quella del patris Anchisae (si trovano in vv. diversi), elemento fortemente dislocato (si trova all'inizio) rispetto al sostantivo cui si riferisce, ma significativamente allocato vicino a me, altro termine della contesa. v.361 verso interrotto, ed è la prova del lavoro che Virgilio fa “a blocchi”: finito il discorso di un personaggio, Virgilio doveva mettere la forma epica che indicava appunto la fine di tale discorso, in mancanza della punteggiatura e delle virgolette di chiusura. La risposta è stata quindi scritta dopo le battute di Didone, e solo in un secondo momento ha scritto quella di Enea. Dovendo creare il legame tra le due battute ma avendo già inserito di fatto un segnale di “chiuse le virgolette” in questi versi, ha lasciato il v.361 interrotto in attesa di riprendere il lavoro. È significativo che Virgilio abbia scritto le battute di Didone prima, significa infatti che gli sono venute più facili; in fondo questa è la morale del racconto dei XII libri dell'Eneide: nella sua giustificazione di Enea ci sono delle buone argomentazioni perché non gli si può controbattere, ma allo stesso tempo esse fanno difficoltà perché la scelta virgiliana è stata quella di dare pienamente ragione a Didone, che in fondo non ha torti. Questa è la scelta che rende Didone un'eroina tragica secondo la filosofia di Aristotele, tornato in auge allora da poco tempo (era stato Silla poco prima a portare tali appunti a Roma); negli appunti di Aristotele il personaggio tragico è quello che cade non per sua colpa, ed è tragico perché è proprio questo ciò che terrorizza tutti: ci si può comportare nel migliore dei modi, ma questo non è garanzia di nulla. Prendendo in considerazione la tradizione del dramma, quando ci sono colloqui, colui che parla per ultimo ha sempre ragione. Il fatto che qui Didone ritorni a parlare, le attribuisce la ragione: ciò conferma che Virgilio ha completamente aderito al punto di vista della regina, che ha poco da rimproverarsi. Il problema è che il colloquio è finito, perché dopo la sua ultima battuta, Didone esce di scena. DISPERAZIONE DI DIDONE, vv.362 -392 Girata ormai lo guarda dir tali cose girando qua e là con gli occhi e tutto lo squadra con sguardi muti e così accesa prorompe: "Né una dea ti fu genitrice né Dardano capostipite, perfido, ma ti generò da duri macigni l´orrendo Caucaso e tigri ircane offriron le mammelle. Ma che dissimulo o a quali cose maggiori mi riservo? Forse che gemette al nostro pianto? Forse chinò gli sguardi? Forse, vinto, versò lacrime o commiserò l´amante? Cosa opporrò acosa? Ormai neppure la massima Giunone né il padre saturnio guarda questo con occhi giusti. In nessun luogo lealtà sicura. L´ho accolto buttato sul lido, bisognoso ed io pazza lo misi a parte del regno. Riportai la flotta perduta ed i compagni da morte. Ahi, incendiata dalle furie son portata..: ora Apollo augure, ora i responsi di Licia, ora anche l´interprete degli dei mandato dallo stesso Giove porta per i cieli i comandi. Senz´altro questa è la pena per i celesti, tale affanno affatica i tranquilli. Né ti trattengo né ribatto le parole: Va, insegui coi venti l´Italia, cerca regni attraverso le onde. Spero davvero che in mezzo a scogli, se le pie preghiere posson qualcosa, berrai i supplizi e spesso chiamerai per nome "Didone!". Assente t´inseguirò con neri fuochi e, quando la morte separerà le membra dall´anima, io, ombra sarò in tutti i luoghi. Pagherai, malvagio, il fio. Sentirò anche sotto i profondi Mani verrà tale notizia". Con queste parole ruppe a metà il discorso ed i cieli fugge, malata, e si fira e si toglie dagli occhi, lasciandolo molto tentennante di paura e preparandosi a dire molto: la sorreggono le ancelle e riportano le membra crollate sul letto di marmo e le ripongono sui cuscini. Manes: in latino significa buono, buon comportamento; qui sono le anime dei morti che naturalmente sono oggetto di spavento in tutte le civiltà, quindi definirli i buoni, i Manes era una forma apotropaica, per renderli vv.362-7 Questo è l'ultimo colloquio nel IV libro in presenza di lui. I due si rincontreranno nell'Oltretomba, lui le parlerà ma lei volterà le spalle andandosene, eliminando qualsiasi possibilità di risposta, come qui. La modalità di andarsene ricorda quella di Mercurio nei vv. precedenti. Le parole di Didone richiamano un'idea ricorrente nel mondo antico, e cioè che noi siamo fatti del clima del territorio in cui viviamo e in cui siamo cresciuti, che ci indurisce (freddo) o ci ammollisce (caldo); gli Arabes sono sempre molles perché vivono in aree calde, mentre le popolazioni del Nord e gli iperborei sono sempre duri. L'altro topos ricorrente è che il carattere si trasmette anche attraverso il latte della balia, della nutrice se non della madre. vv.368-372 La seconda argomentazione, dunque, è l'insensibilità delle reazioni di Enea. In questi versi si sottolinea come non vi sia alcuna sympatheia tra Didone ed Enea. vv.373-387 risposta di Didone enuncia i suoi meriti. vv.388-392 finisce il discorso ed esce di scena piacevoli, per trasformarle da ombre minacciose nella compagnia dei nostri cari che ci stiano vicini in modo piacevole. PREPARATIVI PER LA PARTENZA, vv.393 – 407 vv. 393-6 Pius Aeneas: formulare, così come Achille piè veloce anche quando non sta correndo o Ulisse lo scaltro anche quando non si comporta in modo avveduto. Allo stesso modo Enea è pius per tradizione e definizione dal quel giorno in cui ha portato sulle spalle fuori da Troia il padre e i penati, salvando la memoria della città natale. Nel IV libro non è mai stato definito pius fino a questo momento però: fin quando sta a Cartagine e gode di questa sosta Enea non è pius poiché ha accantonato la sua missione, è fuori dalla rotta verso l’Italia. Ora che ha deciso di partire e lo ha comunicato a Didone – anche se male – torna pius e pater: non di Ascanio, quello lo è sempre, ma dei suoi uomini, torna ad occuparsene. vv.397-407 Segue la famosa similitudine degli uomini di Enea che si preparano a partire. Ma il pio Enea, benchè brami lenire la dolente consolandola e allontanare con parole gli affanni, molto gemendo travolto nell´animo dal grande amore esegue tuttavia i comandi degli dei e rivisita la flotta. Allora davvero i Teucri lavorano e portan le alte navi su tutto il lido. Galleggia la carena unta, e portano remi frondosi dai boschi e tavole non lavorateper la smania di fuga. Li vedresti migrare e correre da tutta la città: e come quando le formiche saccheggiano un gran mucchio di farro memori dell´inverno e lo ripongono in casa, va per i campi la nera schiera e trascinano la preda tra l´erbe per angusto sentiero; parte spingono enormi grani portandoli sulle spalle, parte spingono le schiere e sgridano le pigre, tutta la strada ferve di lavoro. ULTIMO TENTATIVO DI DIDONE, vv.408- 454 Quale sensazione allora per te, Didone, che osservavi tali cose che gemiti mandavi, spiando dall´alto della rocca attorno animarsi i lidi e vedendo davanti agli occhi tutto il mare sconvolgersi di così alte grida. Malvagio Amore, a cosa non spingi i cuori mortali? Ancora è costretta a gettarsi in lacrime, ancora a tentare supplice, pregando, di soggiogare all´amore i sentimenti, per non lasciare invano qualcosa destinata a morire. "Anna, vedi che ci si affretta attorno a tutto il lido: si son radunati da ogni parte; ormai la vela invoca i venti, e allegri i marinai misero sulle poppe le corone. Se io potei immaginare questo sì gran dolore, sorella, potrò pure sopportarlo. Per me misera tuttavia, Anna, esegui solo questo: quel perfido infatti te sola onorava, a te pure affidava arcani sentimenti; tu sola conoscevi le tenere vie ed i momenti dell´uomo. Va, sorella, e supplice parla al superbo nemico: non io giurai con i Danai di sterminare il popolo troiani in Aulide o mandai a Pergamo la flotta, né violai il cenere o i Mani del padre Anchise: perché rifiuta di accogliere nelle dure orecchie i miei detti? Dove scappa? Dia questo ultimo dono alla misera amante: aspetti una fuga facile e venti che aiutano. Non chiedo più l´antica unione, che tradì, né che si privi del bel Lazio e abbandoni il regno. Chiedo un tempo vuoto, quiete e spazio al furore, fin che la mia sorte mi insegni a soffrire, vinta. (a soffrire= a elaborare il dolore) Questa ultima grazia prego, abbi pietà della sorella, vv.408-415 Tutta la reazione dei soldati viene enfatizzata da colei che guarda, Didone, di cui ci vengono descritte le reazioni. Virgilio appella, eccezionalmente, il suo personaggio (nell'epica non ci si rivolge ai personaggi, il narratore è esterno: queste apostrofi sono una caratteristica tipicamente virgiliana). Allusione ad un episodio dell’Iliade (anche se narra di una storia avvenuta prima rispetto alla guerra di Troia), in cui si racconta che la flotta greca in partenza per Troia si raduna nella località di Aulide, dove i contingenti partono e giurano di ritornare solo quando la città di Troia sarà distrutta. Il senso è ovviamente questo: Didone non capisce perché Enea debba trattarla con la stessa crudeltà con la quale si tratta un nemico, visto che lei non ha mai agito contro di lui. Didone sta insomma riprendendo l’argomento di quanto ella possa vantare meriti nei confronti di Enea, mettendo ora in evidenza ciò che non ha fatto contro i troiani, il fatto che non sia responsabile dei guai di Troia. l´empio, e tutte le spoglie ed il letto coniugale, per cui morii, metti sopra: piace cancellare tutti i ricordi dell´uomo nefando e lo dichiara la sacerdotessa" Ciò detto, tace, intanto il pallore occupa il volto. Tuttavia Anna non crede nasconda coi riti strani la morte, né con la mente concepisce sì grandi pazzie o teme cose più gravi della morte di Sicheo. Perciò esegue gli ordini. Didone si dedica alla magia a malincuore, nel caso eccezionale di volersi liberare del ricordo di Enea. Anna dovrebbe essere rassicurata da questa doppia affermazione: Didone ricorrerà ad uno strumento eccezionale in grado di fare tutto ciò che ella stessa ha elencato, ma lo farà solo per questa occasione, motivata da una causa davvero importante; in seguito, abbandonerà le arti magiche. RITI SEGRETI E MAGIA, vv.504 -521 Ma la regina, eretto il grande rogo nella parte interna sotto i cieli con rami di pino e leccio tagliato, riveste il luogo di ghirlande e l´incorona di fronda funerea; pone sul letto le spoglie e la spada lasciata l´effigie non ignara del futuro. Gli altari stanno attorno e la sacerdotessa, sciolta i capelli, trecento volte grida gli dei, Erebo e Caos e la triplice Ecate, i tre volti della vergine Diana. Aveva pure sparso le acque simulate della fonte d´Averno, si cercano erbe rigonfie con latte di nero veleno mietute sotto la luna con falci di bronzo ; si cerca anche l´amore strappato dalla fronte d´un cavallo nascente rubato alla madre. Lei stessa con ffarina e mani pie presso gli altari, toltasi un piede dai calzari in veste discinta, destinata amorire invoca gli dei e le stelle consce del fato; poi se c´è una qualche potenza, giusta e benevola, ha a cuore gli amanti con sorte ingiusta, la prega. L´ULTIMA VEGLIA DI DIDONE, vv.522 - 552 Era notte ed i corpi stanchi prendevan placido riposo sulle terre, le selve ed i mari crudeli eran quieti, quando le stelle volgono a metà del giro, quando ogni campo tace, le mandrie e gli uccelli variopinti, che occupano attorno i limpidi laghi e campagne aspre di spini, riposti nel sonno sotto notte silenziosa. [addolcivano gli affanni ed i cuori dimentichi delle fatiche] ma non la Fenicia infelice nel cuore, né mai si scioglie nel sonno o coglie negli occhi e nel cuore la notte: si raddoppiano gli affanni e di nuovo risorgenso incrudelisce amore e vacilla nella gran vampa delle ire. Così di più insiste e tra sé così medita in cuore: " Ecco, che faccio? Forse di nuovo derisa affronterò i vecchi pretendenti, supplice cercherò le nozze dei Nomadi, quei mariti che ormai tante volte ho sdegnato? Inseguirò dunque le flotte iliache e gli ultimi ordini dei Teucri? Forse perché serve sian stati prima alleviato da aiuto e sta bene la riconoscenza presso i memori d´un vecchio fatto? Chi poi, ammetti di volerlo, permetterà o accoglirà me odiata sulle superbe barche? Ahimè, non sai, disperata e non capisci i tradimenti del popolo laomedonteo? Chè dunque? Da sola in fuga accompagnerò marinai festanti? O attorniata dai Tirri e da ogni schiera dei miei mi trascinerò e, qelli che a stento portai dalla città sidonia, di nuovo porterò per il mare e ordinerò di dare la vele ai venti? Muori piuttosto come hai meritato, cancella con la spada il dolore. Tu vinta dalle mie lacrime, sorella, tu per prima mi aggravi di questi mali e butti me pazza davanti al nemico. Non fu lecito passar la vita priva di nozze senza colpa come una fiera, e non toccare tali affanni; non fu salvata la fede promessa alla cenere di Sicheo". IMPROVVISA PARTENZA DI ENEA, vv.553- 583 Ella prorompeva dal suo cuore così grandi lamenti: Enea sull´alta poppa ormai sicuro di andare prendeva sonno, già ben preparate le cose. A lui si offrì nei sogni l´immagine del dio che tornava con lo stesso volto e di nuovo parve ammonire così: in tutto simile a Mercurio, e voce e colore e biondi capelli e membra belle di giovinezza: "Figlio di dea, puoi continuare il sonno in questa situazione, né vedi quali pericoli poi stiano attorno a te, pazzo, né senti gli Zefiri spirare favorevoli? Lei macchina tranelli incuore e crudele delitto, sicura di morire, ed eccita varie tempeste di ire. Non fuggi di qui di fretta, mentre c´è possibilità di affrettarsi? Ormai vedrai il mare scuotersi di legni e brillare fiamme crudeli, ormai i lidi ribollire di fiamme, se Aurora ti coglierà ad indugiare su queste terre Orsù vai, rompi gli indugi. E´ sempre un essere vario e mutevole la donna". Detto così, si confuse nella nera notte. Allora Enea atterrito dalle ombre improvvise strappa il corpo dal sonno e sprona i compagni rapidi: "Vigilate, uomini, e sedete ai remi; svelti sciogliete le vele. Un dio inviato dall´alto cielo ecco di nuovo ci stimola ad affrettare la fuga e taglaire le corde attorcigliate. Ti seguiamo, santo tra gli dei, chiunque sia, e di nuovo festanti obbediamo al comando. Oh, assistici, aiutaci benevolo e porta dal cielo stelle propizie." Disse ed estrae dal fodero la spada fulminea e, impugnata l´arma, taglia gli ormeggi. Insieme lo stesso ardore prende tutti, si buttano e corrono; lasciarono i lidi, il mare è nascosto sotto le flotte, sforzandosi taglian le spume e spazzan l´azzurro. PAROLE DI MALEDIZIONE CONTRO ENEA, vv.584- 629 E gia la prima Aurora lasciando giaciglio di croco di Titone spruzzava le terre di nuova luce. 585 La regina dalle vedette come vide biancheggiare la prima luce e la flotta procedere a vele spiegate, e s´accorse dei lidi e dei porti vuoti senza un rematore, percuotendo il bel petto con la mano e tre e quattro volte e sciolta nelle biondeggianti chiome " Oh Giove. Andrà 590 costui, dice, e lo straniero si befferà dei nostri regni? Gli altri non prenderanno le armi e inseguiranno da tutta la città e strapperanno le barche dagli arsenali? Andate, rapidi portate fiamme, date armi, spingete i remi. Che dico? O dove sono? Che pazzia cambia lla mente? 595 Infelice Didone, ora fatti sacrileghi ti colpiscono? Allora andò bene, quando davi lo scettro. Ecco destra e lealtà, quello che dicono portare con sé i sacri penati, che dicono aver sostenuto sulle spalle il padre logorato dall´età. Non ho potuto strappare il corpo maciullato e spargerlo 600 v.607 Sol: inizia con questa invocazione la maledizione che Didone scaglia sopra Enea e la sua discendenza. Rendendosi conto che la vendetta fisica e immediata è impossibile da realizzare, la regina lascia agli dei il compito di riportare giustizia. Il Sole veniva spesso invocato nei giuramenti, perché trovandosi in cielo era capace di vedere tutte le azioni compiute sulla Terra. v.607 lustras: il verbo lustro, lustras, lustravi, lustratum, lustrare indicava inizialmente l’atto della purificazione, la lustratio. Dal momento che prima della battaglia l’esercito schierato veniva purificato mediante un sacrificio, il termine andò a indicare anche la rassegna dei soldati e più in generale l’esame di qualcosa. v.609 Hecate: Ecate (fa parte della triade di dee) veniva considerata la dea della magia e veniva invocata dalle streghe, soprattutto in Tessaglia. Per la sua vicinanza col regno dei morti viene invocata dalla Sibilla cumana prima dell’ingresso nell’Ade nel VI libro dell’Eneide. Ululata: I cani neri erano considerati sacri a Ecate e spesso i loro ululati preannunciavano la sua venuta. sulle onde? Non branare i compagni, lo stesso Ascanio con la spada e metterlo da mangiare sulle mense paterne? Davvero era dubbia la sorte della battaglia. Lo fosse stata: chi temetti, destinata a morire? Avrei portato le fiamme nell´accampamento,  605 riempito di fuochi le tolde, estinto il figlio ed il padre con la stirpe, e posto me stessa su quelli. Sole, che illumini di raggi tutte le opere delle terre, tu pure mediatrice e consapevole di questi affanni, Ecate ululata nelle città nei trivi notturni e Dire vendicatrici e dei della morente Elissa, accettate questo, volgete ai malvagi la giusta vendetta e ascoltate le nostre preghiere. Se è necessario cle l´infame persona tocchi i porti e navighi su terre e così chiedono i fati di Giove, questo traguardo è fisso, però oppresso dalla guerra d´un popolo fiero e dalle armi, esule dai territori, strappato dall´abbraccio di Iulo implori aiuto e veda le indegne morti dei suoi; né, consegnatosi sotto leggi di iniqua pace, goda del regno o della luce desiderata, ma cada prima del tempo ed insepolto in mezzo alla sabbia. Questo prego, verso questa ultima frase col sangue. Poi, voi, o Tirii, trattate con odio la stirpe e tutto il popolo futuro, ed inviate alla nostra cenere questi regali. Per i popoli non ci siano alcun amore e patti. Sorgi tu, un vendicatore, dalle nostre ossa sì, insegui i coloni dardanii col ferro e col fuoco, ora, dopo, in qualunque tempo si daranno le forze. Prego lidi opposti a lidi, onde a flutti, armi ad armi: combattano sia loro, sia i nipoti." v.619 fruatur: il verbo deponente fruor, frueris, fructus sum, frueri è uno dei cinque verbi che reggono l’ablativo (gli altri verbi sono utor, vescor, potior, fungor). v.620 La prima parte della maledizione di Didone si realizza in parte all’interno e in parte all’esterno del poema. A partire dal libro VII dell’Eneide l’eroe raggiunge infatti il Lazio, ma viene costretto a combattere contro le popolazioni locali guidate da Turno, re dei Rutuli. Costretto a chiedere l’aiuto dell’arcade Evandro, rimane per un certo tempo separato dai suoi uomini e molti troiani cadono in battaglia. Invece, la morte di Enea non viene descritta dal poema. Secondo alcune fonti l’eroe sarebbe morto combattendo contro popolazioni ostili nel letto di un fiume appena pochi anni dopo il suo arrivo nel Lazio. v.621 cum sanguine: versare il proprio sangue era un modo per rendere sicuro l’avverarsi della maledizione. v.629 Con la seconda parte della maledizione Didone condanna il suo popolo a combattere una guerra spietata contro i romani. Il “vendicatore” destinato a sorgere dalle sue ossa non è altri che Annibale Barca, il famoso condottiero che sconfisse più volte i romani durante la seconda guerra punica. Si racconta che Annibale, ancora bambino, fosse stato convinto dal padre Amilcare a prestare un giuramento di odio eterno nei confronti dei romani molto simile a quello espresso nella maledizione della regina morente. L’intero racconto della permanenza di Enea a Cartagine assume così i connotati di una etiologia, ovvero un racconto che serve a spiegare le lontane origini del conflitto tra romani e punici. Il genere eziologico aveva avuto un notevole successo in età ellenistica; il poeta Callimaco, ad esempio, aveva composto gli Aitita, un’intera collezione di racconti di questo tipo (purtroppo andata persa quasi del tutto). MORTE DELLA REGINA DIDONE, vv.630-666 Questo disse, e volgeva la mente in tutte le parti, cercando troncare l´odiata luce al più presto. Poi brevemente si rivolse a Barce, nutrice di Sicheo, (infatti la nera cenere teneva la sua nell´antica patria): " Nutrice a me cara, chiama qui la sorella Anna: di´ che s´affretti a cospargersi il corpo di acqua fluviale, e porti con sé gli animali ed i sacrifici indicati. v.607 Sol: inizia con questa invocazione la maledizione che Didone scaglia sopra Enea e la sua discendenza. Rendendosi conto che la vendetta fisica e immediata è impossibile da realizzare, la regina lascia agli dei il compito di riportare giustizia. Il Sole veniva spesso invocato nei giuramenti, perché trovandosi in cielo era capace di vedere tutte le azioni compiute sulla Terra. v.607 lustras: il verbo lustro, lustras, lustravi, lustratum, lustrare indicava inizialmente l’atto della purificazione, la lustratio. Dal momento che prima della battaglia l’esercito schierato veniva purificato mediante un sacrificio, il termine andò a indicare anche la rassegna dei soldati e più in generale l’esame di qualcosa. v.609 Hecate: Ecate (fa parte della triade di dee) veniva considerata la dea della magia e veniva invocata dalle streghe, soprattutto in Tessaglia. Per la sua vicinanza col regno dei morti viene invocata dalla Sibilla cumana prima dell’ingresso nell’Ade nel VI libro dell’Eneide. Ululata: I cani neri erano considerati sacri a Ecate e spesso i loro ululati preannunciavano la sua venuta.