Scarica Traduzione letterale I e IV libro dell'Eneide con commento e più Traduzioni in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! Mariachiara Roma LIBER PRIMUS TRADUZIONE vv. a-18 a) Io (sono) quello che un tempo cantò con un esile flauto b) un carme e, uscito dai boschi, costrinsi le campagne vicine c) a obbedire agli avidi coltivatori per quanto possibile, d) opera apprezzata dagli agricoltori, ora invece canto le 1. le orribili armi di Marte e l’eroe che per primo dalle spiagge di Troia 2. giunse in Italia e ai lidi di Lavinio, fuggiasco per il fato, 3. quello a lungo travagliato per terra e per mare 4. dalla forza (divina) a causa dell’implacabile ira della feroce Giunone, 5. e (che) molte cose soffrì anche in guerra, finché non fondò una città 6. e introdusse (i suoi) dèi nel Lazio, da cui il popolo Latino 7. e gli avi Albani e le mura della superba Roma. 8. O Musa, rammentami le ragioni, per quale volontà offesa 9. o di che dolendosi, la regina degli dèi abbia indotto per pietà 10. l’insigne eroe a trascinare tante sventure e ad affrontare tante fatiche. 11. Forse che (sono) così grandi le ire nei cuori celesti? 12. Vi fu una città antica, (che) i coloni di Tiro occuparono, 13. Cartagine, lontanamente di fronte all’Italia e alle foci 14. del Tevere, ricca di risorse e la più selvaggia per l’amore per la guerra; 15. l’unica, si dice, che Giunone abbia onorato più di tutte le terre, 16. postposta Samo: qui ci furono le sue armi, 17. qui il suo carro; la dea già da allora trama e sostiene che 18. i (suoi) popoli abbiano il regno, se in qualche modo i fati lo permettano. Commento vv. a-d: versi considerati spiri dai moderni. Fanno riferimento alle Bucoliche, opera iniziata nel 42 a.C. e divulgata intorno al 39 a.C. È costituita da una raccolta di dieci egloghe esametriche con trattazione e intonazione pastorali. Virgilio si presenta come l’autore di quell’opera dal contenuto pastorale, il quale sta per intraprendere un lavoro nettamente differente: narrare arma horrentia Martis virumque. Evidente è l’opposizione tra opus agricolis e horrentia (arma in posizione incipitaria Martis). vv. 1-7: La prima sezione del proemio ricalca e fonde il proemio dell’Iliade e quello dell’Odissea, a livello sia lessicale che sintattico, a dichiarare sia l’inevitabile modello che il suo rinnovamento, formale e ideologico. Virgilio presenta ciò di cui parlerà nel I libro. Racconterà delle guerre di Enea, vir qui primus, fuggito dalle spiagge di Troia per volere del Fato (destino), venne in Italia sbarcando sulle rive di Lavinio e in terra e in mare fu soggetto alle violenze degli dèi, in particolare a causa dell’ostilità di Giunone, prima di fondare la sua città e portare nel Lazio i suoi dèi, dai quali sono nati il sangue latino (genus Latinum) e le città di Albalonga e di Roma. vv. 1-2: Arma virumque: l’Odissea inizia: Ανδρα μοι εννεπε, «L’eroe narrami, Musa». Vir è l’esatto equivalente semantico di ‘ανήρ, ma Virgilio non poteva iniziare l’esametro con virum. Premettendo gli arma ha sfruttato questa carenza del latino per alludere anche all’incipit dell’Iliade, che inizia con la menzione del tema («L’ira cantami, dea, del Pelide Achille»), e anticipa così la bipartizione dell’Eneide in una parte iliadica e in una odissiaca. - primus: in apparente contraddizione con il v. 242, in cui Antenore è definito come colui che fondò una città prima dell’arrivo di Enea. In realtà l’Italia, quando vi giunse Enea, si estendeva fino al fiume Rubicone, per cui Antenore giunse non in Italia, ma nell’allora Gallia Cisalpina, in cui si trovava il territorio dei Veneti. Solo successivamente furono ampliati i confini. - Ora Troiae: è la città fondata con il nome di Dardania, dall’eroe trace Dardano, cinta di mura da Apollo e Poseidone su richiesta di Laoedonte e riportata in auge da Priamo prima di essere conquistata dagli Achei nella guerra di Troia. - Italiam: era definita Italia solo la porzione più meridionale della Calabria; i Greci estesero poi il nome all’Italia meridionale; passò poi ad indicare la penisola fino al Rubicone e alla Magra, finché Augusto non vi Mariachiara Roma incluse anche le terre a nord del Po, l’allora Gallia Cisalpina. - Litora Lavinia: Lavinio era un’antica città del Lazio, secondo la tradizione fondata da Enea, cui diede il nome della moglie italica. Era sede del culto di Vesta e di quello ad esso connesso dei Penati di Roma e del popolo latino. vv. 3-7: l’anafora con multa dei vv. 3 e 5 ricalca l’anafora del proemio odissiaco. - Terris ... et alto simboleggia la parte odissiaca dell’Eneide (I-VI), che precede quella iliadica (VII-XII) indicata con bello passus (v.5), invertendo l’ordine cronologico dei poemi omerici. È notevole che le vicende di Enea siano denotate da participi di forma o di senso passivi (come passus), in contrasto con la funesta attività attribuita ad Achille nel proemio iliadico. Enea è l’eroe della sopportazione più che dell’azione, e non ha neppure l’inesauribile curiosità di Ulisse. - Ob iram Iunonis: Giunone, in greco Era, era una tenace avversaria dei troiani a causa del giudizio di Paride, a lei sfavorevole. Ob iram in rilievo in clausola (come al v.11) perché Giunone è l’antagonista divina di Enea e la sua ira è l’elemento ritardante del poema, come l’ira di Apollo nell’Iliade e soprattutto quella di Poseidone nell’Odissea. - urbem (v. 5): Lavinio, accennata già prima. - inferret deos Latio (v. 6): i deos sono Penati, all’VIII libro victos ... penatis / inferre. L’elemento religioso sarà quello che i Troiani, fondendosi coi Latini, trasmetteranno ai Romani, e dai quali sarà generato il popolo latino e le città di Roma e Albalonga. Albanique patres è un’espressione solenne, in cui patres sembra designare la dinastia regale di Alba, come al libro XII, con la stessa successione (Albani reges). Alba Longa è la città fondata da Ascanio, dai cui re discenderà Romolo. - altae: epiteto omerico delle città (αιπύ); alte propriamente sono le mura, ma l’epiteto è trasferito a Romae. vv. 8-11: invocazione alla Musa canonica ed inevitabile, poiché presente in Iliade ed Odissea. La funzione della divinità qui è quella di sostenere il ricordo degli eventi, dal quale scaturisce la poesia. Una domanda concettualmente e formalmente simile a quella del v. 11 ricorrerà quasi alla fine del poema (XII, 503) a chiudere quella che è stata detta «la cornice teologica dell’Eneide». vv. 12-18: è la prima parte della narrazione degli antefatti, che prosegue fino al v. 33. È una descriptio loci, che ricorre spesso all’inizio di una narrazione. Il locus in questione è Cartagine, città fenicia fondata dai Tirii e patria di Didone. Il nome della futura antagonista di Roma è isolato e quindi enfatizzato dalla posizione iniziale (in chiasmo con Romae in clausola del v.7) e dalla pausa sintattica. La valenza locale di contra prefigura connotativamente la futura ostilità. Il grafema K è arcaismo ortografico ricorrente nell’Eneide solo per Cartagine. Il Tevere è simbolo di Roma, come fiume e come divinità. Samo era un’isola in cui era molto vivo il culto di Giunone, e tuttavia era posposta a Cartagine dalla stessa dea, secondo Virgilio. arma…currus: doveva trattarsi di una statua armata su un cocchio, menzionata secondo Servio Danielino in invocazioni alla dea in cerimonie che si celebravano a Tivoli. TRADUZIONE vv. 19-33 19. Ma aveva udito di una progenie che era guidata da sangue 20. Troiano, che un giorno avrebbe distrutto le fortezze di Tiro; 21. di qui un popolo diffusamente sovrano e glorioso in guerra 22. stava per giungere per la distruzione della Libia: così filavano (lett. avvolgevano) le Parche. 23. Saturnia, temendo ciò, e memore dell’antica guerra 24. che per prima aveva sostenuto sotto Troia a favore dei cari Argivi - 25. né ancora le ragioni dell’ira e il terribile dolore 26. erano spariti dal cuore – resta nel profondo dell’anima 27. depositato il giudizio di Paride e il torto per la bellezza disprezzata 28. e l’odiato popolo e gli onori del rapito Ganimede: 29. infiammata oltre a queste (cose), pur sballottati per tutto il mare 30. tratteneva i Troiani avanzi (lett. i resti troiani) dei Greci e dello spietato Achille 31. lontano dal Lazio, e per molti anni 32. vagavano, assoggettati dai fati, in giro/intorno a tutti i mari. 33. Di così grave fatica era fondare la stirpe romana. Mariachiara Roma 69. scatena la tua forza con i venti e distruggi le navi affondate, 70. o conducili lontani e disperdi i loro corpi nel mare. 71. Ho due volte sette ninfe dai corpi eccellenti, 72. delle quali la più bella per l’aspetto, Deiopea, 73. unirò (a te) in stabile matrimonio e consacrerò in tuo possesso, 74. affinché con te tutti gli anni, grazie a tali meriti, 75. trascorra e ti renda genitore con una bella prole.» 76. Di contro, Eolo disse ciò: «o regina, tuo (è) il compito 77. di esaminare ciò che chiedi: ho l’ordine di adempiere i tuoi comandi. 78. Tu a me qualunque cosa di questo regno, tu mi procuri lo scettro e 79. Giove (i favori), tu mi concedi di sedere al banchetto degli dèi 80. e mi rendi in possesso dei temporali e delle tempeste.» 81. Appena detto ciò, con la lancia pulita colpì 82. il monte cavo sul fianco: così i venti, come un esercito istruito 83. dove viene dato l’accesso, si sollevarono e soffiano sulle terre con un turbine. Commento vv. 64-75: Giunone, timorosa del destino che spetta al suo regno (Cartagine) si reca presso la sede del re dei venti, Eolo, e lo convince a intervenire affinché li allontani, promettendo in cambio la più bella delle sue ninfe, Deiopea. Allude ad Enea come colui che portans victos penatis Italiam: i Penati erano divinità collettive dal numero e dai nomi individuali imprecisati, che proteggono la Vesta. Il nome deriva dal latino penas: "tutto quello di cui gli uomini si nutrono", ma può anche dipendere dal fatto che i Penati risiedevano nel penitus, la parte più interna della casa, dove si teneva il cibo. Onorati particolarmente a troia, i Penati divennero anche divinità romane, e si ritrovano insieme con il culto di Vesta anche nel Lazio a Lavinio, Alba e Preneste. La connessione, operata da storici e da teologi, tra la leggenda di Enea e le origini della gente romana ha collegato anche la storia dei Penati di queste città, che da Troia a Lavinio ad Alba a Roma rappresentano la continuità della stirpe di Enea e la continuazione in Roma del fato di Ilio. Pulchra prole: la promessa di Giunone (v.75) viene messa a confronto con la prole malnata che fino ad allora era toccata in sorte ad Eolo. Il figlio Sisifo infatti, colpevole di numerosi misfatti ma soprattutto di aver ingannato ripetutamente Zeus, venne rinchiuso nell’Ade e condannato a un’eterna fatica: trasportare sopra una montagna un masso che inesorabilmente ricade giù appena toccata la cima. Macareo invece si rese figlio infame per il suo amore incestuoso con la sorella Canace. vv. 76-83: replica di Eolo in una sorta di lode alla regina degli dèi. È considerata dal dio come colei a cui deve il suo dominio dei venti e delle tempeste. Giunone, infatti, nella tradizione mitologica è da considerare come l’aere, di contro a Giove che è invece l’etere. Il moto dell’aere, cioè di Giunone, creerebbe i venti ai quali è preposto Eolo. TRADUZIONE vv. 84-101 84. Si distesero sui mari e dalle dimore più profonde 85. all’unisono Euro, Noto e Africo abbondante di tempeste lo abbatterono 86. e riversarono terribili tempeste lungo le coste. 87. Seguono le urla degli uomini e lo stridore delle navi. 88. Immediatamente le nubi sottrassero alla vista dei Teucri 89. il cielo e la luce; un’oscura notte si distese sul mare. 90. I cieli tuonarono e l’aria sfolgora per i continui fulmini, 91. e tutto minaccia sugli uomini una morte imminente. 92. Le membra di Enea all’improvviso vengono infiacchite dal freddo; 93. geme e tendendo entrambe le mani verso le stelle 94. con la voce riferì queste cose: «o beati per tre e quattro volte, cui 95. toccò a sorte di subire la morte davanti agli occhi dei padri 96. sotto le alte mura di Troia! O Tidide (Diomede), il più forte della stirpe 97. dei Danai! Io non poter morire 98. nelle pianure di Ilio e consumare questa anima per mano tua, 99. dove giace il fiero Ettore per la spada dell’Eacide, dove il potente Mariachiara Roma 100. Sarpedonte, dove il Simoenta travolge sotto le sue onde tanti 101. scudi abbattuti di uomini ed elmi, ed i corpi più forti.» Commento Eolo, a seguito della richiesta di Giunone e della sua promessa, scaglia i suoi venti (Euro, Noto e Africo) che colpiscono le navi di Enea, il quale si dispera: egli avrebbe preferito morire durante la guerra di Troia pur di non vedere quella scena. Al v. 92 compare per la prima volta l’esplicita menzione di Enea, ritardata sino ad ora. Il nesso solvontur frigore membra al v. 92 è la prima immagine di Enea, così come sarà l’ultima di Turno morente, nell’estremo finale dell’opera. Evidente è l’intento di racchiudere in un’ideale Ringcomposition la vicenda umana del poema, in parallelo con quella divina che apre il racconto a mo’ di prologo celeste, con le ragioni dell’ira di Giunone ed il suo intrigo con Eolo, per chiuderlo con la scena della conciliazione tra la dea e Giove. Segue il suo lamento (ingemit), una ripresa puntuale del lamento levato da Odisseo nell’analoga situazione di tempesta al V libro dell’Odissea. Enea rivolge le mani verso le stelle, un gesto tipico della preghiera, che sarà presente anche nel proemio del IX libro (duplicisque ad sidera palmas sustulit). Segue l’invocazione a Diomede, indicato con il patronimico Tideide, e ad Ettore. Nel V libro dell’Iliade Enea viene sottratto, grazie all’intervento di Venere, dal mortale scontro con Diomede. Questi eroi sono definiti terque quaterque beati: tutti coloro che morirono durante la guerra di Troia raggiunsero una fine molto più gloriosa, “tre e quattro volte migliore” di quella di Enea e dei suoi amici, che scompariranno a causa della tempesta scatenata da Eolo, istigata da Giunone, ma soprattutto conquistarono l'onore della sepoltura, cui non hanno diritto coloro che sono inghiottiti dal mare. Enea avrebbe preferito morire per mano di Diomede, o per mano di Achille come Ettore, o come Sarpedonte ucciso da Patroclo, o come i guerrieri travolti dal Simoenta, piuttosto che in un naufragio. Il Simois è lo Scamandro/Xanto, in cui si getta il fiume simbolo di Troia, così ribattezzato presso la città di Eleno. TRADUZIONE vv. 102-123 102. Proferendo tali cose, una tempesta che stride da Aquilone (vento del nord) 103. posta davanti colpisce la vela e innalzò le onde verso le stelle. 104. I remi vengono infranti; allora la prua si ribalta e offre 105. il fianco alle onde: sopraggiunge il monte frantumato dalla massa d’acqua. 106. Questi restano sospesi in cima alle onde, il mare aprendosi 107. rivelò a questi la terra tra le onde, la corrente infuria sulle coste. 108. Noto scaglia tre (navi) travolte contro le rocce nascoste 109. (gli scogli che gli Italici chiamano altari in mezzo ai flutti, 110. immenso dorso sulla cima del mare), tre Euro dal mare 111. le sospinge verso i banchi di sabbia di Syrti (miserabile a vedersi) 112. e le scaglia contro i bassifondi e le cinge con un mucchio di sabbia. 113. Una (di queste), che trasportava i Lici ed il fedele Oronte, 114. davanti agli occhi degli stessi un’immensa ondata dalla sommità 115. (la) colpisce sulla poppa: il timoniere viene scosso via e prono 116. viene riversato a capofitto; allora per tre volte proprio lì l’onda 117. la scaglia muovendosi attorno e il travolgente vortice la ingoia con le acque. 118. Appaiono dei naufraghi che nuotano nel vasto vortice, 119. tavolette e armature di uomini e tesori troiani tra le onde. 120. Oramai la robusta nave di Ilioneo, oramai quella forte di Acate e 121. quella da cui Abante è trasportato, e quella da cui (è trasportato) il vecchio Alete, 122. (le) ha sconfitte la tempesta; tutte, con le strutture dei fianchi aperte, 123. accoglievano le acque nemiche e si spaccano per le fessure. Commento Accurata descrizione epica della tempesta che travolse Enea ed i suoi uomini. Si tratta di una situazione ricorrente dell'epica oltre essere un locus horridus. Essa è funzionale: il poema inizia in medias res, con una scena epica e drammatica: la tempesta è uno dei primi labores di Enea, ed è metafora delle difficoltà della vita. L'episodio è fondamentale per comprendere la dinamica del poema: mette Mariachiara Roma in risalto, infatti, la pietas di Enea e la sua capacità di superare gli ostacoli. Al v 113 Oronten è un compagno di Enea, capo dei Licii. Durante il suo viaggio negli inferi, Enea ne incontrerà l’ombra fra quelle il cui corpo attende una sepoltura (VI, 334). Ilioneo, al v. 120, era uno dei più importanti compagni di Enea e sarà capo dei troiani che, persi i contatti con Enea, giungeranno a Cartagine dopo la tempesta. Egli guiderà l’ambasceria troiana al re Latino e assisterò come consigliere di Ascanio mentre suo padre Enea sta a Pallanteo. Acate invece, al medesimo verso, è un guerriero troiano, fidato e inseparabile compagno di Enea, al quale si mostra vicino in tutti i momenti significativi della vicenda, non solo secondo il modello delle amicizie famose, omeriche e non (come Achille e Patroclo, Ulisse e Diomede, Oreste e Pilade), ma svolgendo anche la funzione di “primo ministro” del sovrano. Abante al verso successivo invece compare solo in questo caso del poema, mentre Alete è un anziano e saggio compagno di Enea che comparirà in altre vicende. TRADUZIONE vv. 124-141 124. Nel frattempo, Nettuno si accorse che da gran frastuono il mare 125. era sconvolto ed (era stata) scatenata una tempesta e 126. dalla profondità del mare le acque erano turbate, gravemente turbato; e 127. osservando dall’alto del mare, tirò fuori il placido capo dall’onda. 128. Vede la flotta di Enea sparpagliata per tutto il mare, 129. e i Troiani assaliti dalle onde e dalla rovina del cielo. 130. E le ire e le astuzie di Giunone non erano oscure al fratello. 131. Chiamò a sé Euro e Zefiro, quindi disse queste cose: 132. «Forse che tanta sicurezza della vostra stirpe vi obbliga? 133. O venti, già osate sconvolgere il cielo e la terra senza 134. il mio volere, e alzare così grandi masse? 135. Cosa io…! Ma è preferibile calmare le acque scosse. 136. In seguito, mi pagherete i misfatti con una pena inverosimile. 137. Affrettatevi alla fuga e riferite queste cose al vostro re: 138. non a lui (fu dato) il governo del mare e il terribile tridente, 139. ma a me fu dato per fato. Quello governa gli scogli immensi, 140. vostre dimore, o Euro; Eolo ostenti sé stesso in quella 141. corte e regni con la prigione dei venti chiusa.» Commento Nettuno, il dio del mare, interviene adirato perché Eolo ha osato sollevare i mari sine suo numine, la volontà divina, e per cui il suo consenso. Ribadisce che i mari e il tridente sono spettati in sorte a lui e non ad Eolo: allude, perciò, alla ripartizione dei poteri sui tre elementi costitutivi dell’universo (cielo, mare ed inferi) avvenuta fra Giove, Dite e lo stesso Nettuno, all’indomani della cacciata di Saturno. TRADUZIONE vv. 142-156 142. Così disse e, più veloce di ciò che ebbe detto, placa le acque turbolente, 143. scaccia le nubi raccolte e riporta il sole. 144. Cimotoe e Tritone, sforzandosi insieme, cacciano via 145. le navi dall’acuto scoglio; egli stesso le solleva con il tridente 146. e rivela le vaste Sirti e calma la distesa del mare 147. e scivola sulla cresta delle onde con ruote leggere. 148. E come quando in una gran folla spesso si manifesta una rivolta, 149. e l’umile plebe infuria con ardore, 150. e già volano fiaccole e sassi, la collera procura le armi: 151. e se allora hanno visto un uomo serio per solida pietas e per 152. meriti, tacciono e stanno con le orecchie tese; 153. egli governa gli animi con le cose dette e addolcisce i petti: 154. così tutto il fragore del mare cadde, quando il padre, 155. affacciandosi sui mari e trasportato nel cielo aperto, 156. piega i cavalli (al suo volere) e volando dal favorevole carro dà le cinghie. Mariachiara Roma navigazione negli stretti. Un tempo figlia di Forco e della ninfa Crateide, era una bellissima ninfa amata da Glauco o da Nettuno: per gelosia fu da Circe o da Anfitrite trasformata in un mostro marino, metà donna nella parte superiore e metà pesce in quella inferiore. Rifugiatasi in una grotta sulle coste della Calabria, assaliva i naviganti. La sezione è dunque una parenesi: Enea simula speranza in volto per rincuorare i compagni ed esortarli ad alzarsi, ma nel cuore soffre. È uno dei casi in cui è più evidente la pietas di Enea. TRADUZIONE vv. 210-222 210. Quelli si accingono alla preda e ai banchetti futuri: 211. strappano la pelle dalle costole e li spogliano delle viscere; 212. alcuni li tagliano in pezzetti e li conficcano ancora vibranti con gli spiedi, 213. altri dispongono i calderoni sulla riva e si occupano del fuoco. 214. Allora rinvigoriscono le forze con il cibo e sparpagliati lungo l’erba 215. si saziano del vecchio Baccio e della grassa selvaggina. 216. Dopo che la fame fu soppressa con il cibo e le mense furono rimosse, 217. con un lungo discorso rimpiangono i compagni perduti, 218. dubbiosi tra la speranza e il timore, se credere o che siano vivi 219. o che stiano soffrendo estremi pericoli e non prestino ascolto ormai alle invocazioni. 220. Soprattutto il giusto Enea ora compiange la fine 221. del tenace Oronte tra sé, ora di Amico, e la crudele sorte 222. di Lico e il forte Gias, e il forte Cloanto. Commento vv. 210-213: descrizione della spartizione dei compiti dei compagni, che si accingono a banchettare. Veteris Bacchi è il vino, secondo una trasposizione di impiego molto comune, così come Cerere era il grano. vv. 213-222: dopo il banchetto i troiani rivolgono i loro cuori ai compagni dispersi, dubbiosi se crederli vivi o in pericolo; tra questi soprattutto Enea compiange alcuni di essi. Oronte è un compagno di Enea, capo dei Licii, già menzionato al v. 133; Amico è forse il figlio di Priamo, che qui Enea crede disperso nella tempesta e che invece è sopravvissuto e verrà ucciso da Turno al XII libro. Un omonimo Amico viene ucciso da Turno al IX libro: secondo alcuni è una dimenticanza di Virgilio, che per errore lo fa uccidere due volte. Lico è un altro compagno che Enea crede disperso nella tempesta, ma che evidentemente ritroverà a Cartagine: sarà menzionato come scampato al crollo della torre dell’accampamento di Enea abbattuta da Turno. Anche Gias sarà ritrovato a Cartagine. TRADUZIONE vv. 223-253 223. E già si era alla fine, quando Giove, dalla sommità del cielo, 224. scorgendo il mare coperto di vele e le terre distese 225. e le coste e i popoli sparsi, così sulla cima del cielo 226. si fermò e fissò gli occhi sui regni della Libia. 227. E a quello, (che) nel cuore diffondeva preoccupazioni, 228. molto triste e cosparsa di lacrime gli splendenti occhi, 229. Venere si rivolse: «o tu, che governi le vicende degli uomini e 230. degli dèi con eterno potere, e atterrisci con il fulmine, 231. cosa di sì grave contro di te il mio Enea, cosa hanno potuto 232. commettere i Troiani, ai quali, dopo aver subito tante morti, 233. tutto il mondo si è chiuso a causa dell’Italia? 234. Con certezza, che qui un giorno, con gli anni che passano, 235. i comandati di qui saranno Romani, dal sangue rinnovato di Teucro, 236. che il mare e che tutte le terre con il potere potrebbero possedere, 237. è stato promesso: o padre, quale pensiero ti ha mutato? 238. Con questo certamente il tramonto di Troia e le tristi rovine 239. consolavo, ripagando le sorti contrarie con (altre) sorti; 240. ora per la stessa via la fortuna perseguita tutti gli uomini (già) incalzati 241. dalle disgrazie. O grande re, quale fine delle fatiche offri? Mariachiara Roma 242. Antenore poté, sfuggito di mezzo dagli Achei, 243. penetrare i golfi Illirici e oltrepassare al sicuro gli interni 244. regni dei Liburni e la fonte del Timavo, 245. da dove per nove bocche con il vasto mormorio del monte 246. il mare scorre una volta sgorgato e calpesta i campi con le onde che risuonano. 247. Qui, almeno, egli collocava la città di Padova e la sede 248. dei Teucri e diede il nome al popolo e ripose le armi 249. troiane, ora invece riposa rasserenato dalla placida pace: 250. noi, tua progenie, ai quali destini la fortezza del cielo, 251. perdute le navi (abominevole!) a causa dell’ira di una sola, 252. siamo traditi e siamo divisi lontano dalle spiagge italiche. 253. Questa (è) la ricompensa della virtù? In questo modo tu ci rimetti ai comandi?» Commento La scena si sposta sull’Olimpo, in cielo, dove Venere, la madre di Enea, si rivolge a Giove con un lamento, chiedendo spiegazioni su ciò che era accaduto e ricordando che il distino di Enea era quello di arrivare in Italia e dare origine a Roma e al suo impero. Venere è figlia di Giove e di Dione, per questo lei stessa chiamata Dionea o Dione. In quanto madre di Enea e anche in seguito al giudizio di Paride a lei favorevole, si schierò dalla parte dei troiani, proteggendoli come poté durante la guerra e nelle peregrinazioni che ne seguirono. Il colloquio tra Venere e Giove è funzionale: si tratta della premessa e della giustificazione astrologica degli eventi futuri. Con Giove sull’orizzonte assieme a Venere si intende che potrebbero verificarsi circostanze favorevoli per mezzo di una donna, e puntualmente seguirà che Enea, con la relazione con Didone, sarà reso partecipe del suo potere regale. Che poi Venere si dimostri infelice accanto a Giove, preannuncia il suicidio di Didone. Secondo gli astrologi poi anche l’incontro di Venere con il figlio è significativo: esso preannuncia la benevola disposizione della regina nei confronti di Enea, in quanto con Venere nella Vergine (si presenta al figlio con l’aspetto di una cacciatrice) nasce una donna compassionevole. Al v. 235 Teucro, figlio di Scamandro e della ninfa Idea, fu eponimo dei Teucri e progenitore della casa regnante di Troia, in quanto sua figlia Arisbe andò in sposa a Dardano, avo di Troo. Un’altra versione voleva invece lo stesso Teucro giunto nella Troade da Creta. Ai vv. 242-249: Venere rende efficace la sua argomentazione portando l’esempio di Antenore. Fra gli altri troiani scampati alla distruzione Troia (quali Capi che si stabilì in Campania ma nell’Eneidei è fra i compagni di Enea, o Eleno stabilitosi in Macedonia o Sardegna), viene menzionato questo stesso Antenore come traditore. Caduta Troia infatti, con gli Eneti di Panflagonia Antenore sarebbe giunto sulle rive dell’Adriatico settentrionale, dove avrebbe fondato Padova e denominato Veneto il territorio. In realtà nella versione previrgiliana la sede di Antenore è Abano, una tradizione scartata da Virgilio ma a cui tuttavia fa allusione in modo indiretto: la placida pax in cui Antenore riposa interpreta il valore del toponimo Aponus, che in greco suona come sine labore, “senza pena”. L’esempio di Antenore è funzionale alle argomentazioni di Venere: se regna un traditore, perché un giusto va errando? Lo scopo di Venere è dunque rivendicare le sorti che spettano ad Enea ed ai suoi compagni troiani, come stabilito dal fato. TRADUZIONE vv. 254-296 254. Il padre degli uomini e degli dèi, a lei sorridendo, 255. con quel volto con cui rasserena il cielo e le tempeste, 256. sfiorava le labbra della figlia, e successivamente diceva queste cose: 257. «o Citerea, non avere paura (lett. astieniti dal timore): resta invariato 258. il destino dei tuoi; riconoscerai la città e le mura di Lavinio 259. promesse e condurrai sublime alle stelle del cielo 260. il magnanimo Enea; né alcun parere mi ha mutato. 261. Costui a te (dunque lo dirò, dal momento che queste preoccupazioni ti tormentano, 262. e riflettendo più a lungo manifesterò i misteri dei fati) 263. porterà una grande guerra in Italia e popoli feroci 264. domerà e stabilirà costumi e mura per gli eroi, Mariachiara Roma 265. finché la terza estate lo avrà visto regnare nel Lazio, 266. e tre inverni saranno trascorsi dai Rutili domati. 267. Ma il giovane Ascanio, a cui ora il cognomen Iulo 268. è stato aggiunto (ed era Ilo, finché la supremazia di Ilio restò al potere), 269. con il trascorrere dei mesi, trenta grandi orbite 270. compirà con il potere, ed il regno dalla sede di Lavinio 271. trasferirà e proteggerà Alba Longa con molta forza. 272. Qui ancora per trecento anni interi si regnerà 273. sotto la dinastia di Ettore, finché una sacerdotessa regina 274. Ilia, gravida di Marte, darà con un parto una prole gemellare. 275. Da quel momento il benigno Romolo, con la veste rossa 276. della lupa nutrice, raccoglierà il popolo e fonderà le mura 277. di Marte, e li denominerà Romani dal suo nome. 278. A questi io non stabilisco né termine degli eventi né tempo, 279. ma ho dato un impero senza fine. In verità la crudele Giunone, 280. che ora opprime con il timore il mare, le terre e il cielo, 281. si rivolgerà a miglior consiglio e proteggerà con me 282. i Romani sovrani del mondo e il popolo togato. 283. Così è deciso. Verrà un tempo, con lo scorrere dei lustri, 284. in cui la dimora di Assaraco graverà Ftia e la gloriosa 285. Micene con la schiavitù, e dominerà sulla vinta Argo. 286. Nascerà un Cesare troiano da una bella discendenza, 287. che delimiti l’impero con l’Oceano e la fama con gli astri, 288. Giulio, nome derivato dal grande Iulo. 289. Un giorno tu, nel cielo carico delle spoglie d’Oriente, costui 290. senza timore accoglierai; anche costui sarà invocato con preghiere. 291. Allora i secoli aspri si attenueranno, una volta deposte le guerre, 292. l’argentea Fede e Vesta, e Quirino con il fratello Remo 293. stabiliranno le leggi; le funeste porte della Guerra saranno chiuse 294. con catene e serrati strumenti; l’empio Furore dentro, 295. sedendo sulle crudeli armi e incatenato da cento nodi di bronzo 296. dietro la schiena, strepiterà selvaggio con bocca sanguinante.» Commento Venere, che ha assistito alla sventura del figlio, si reca da Giove pregandolo di rivelarle se sono mutati i piani del Fato, che, appunto, prevedono l'approdo di Enea in Italia. Giove rassicura la figlia e le rivela la sorte futura di Roma: le conferma la sua promessa secondo cui Enea raggiungerà l'Italia e fonderà una città, Lavinio. Da suo figlio Ascanio, fondatore della città di Alba, discenderà Romolo, fondatore a sua volta di Roma e della stirpe romana che sottometterà la Grecia, vendicando così dopo secoli la sconfitta di Troia. v. 259: secondo una versione non accolta da Virgilio, Enea, giunto nel Lazio e riconosciuto come figlio di Venere, è accolto benevolmente da Latino, dal quale riceve in sposa la figlia Lavinia. La guerra che ne deriva contro Turno, promesso sposo di Lavinia, causa la scomparsa dei personaggi principali: Turno, Latino e lo stesso Enea, ed è portata a termine da Ascanio. Il corpo di Enea disperso nel fiume laziale Numico e perciò assunto in cielo, non viene ritrovato: egli è perciò entrato nel novero degli dèi del luogo. vv. 265-266: trascorsi tre anni (terna hiberna) dalla sconfitta dei Rutuli, popolazione guidata da Turno, Enea regnerà sul Lazio. vv. 267-270: Ascanio, figlio di Enea e Creusa, denominato in ambito romano Iulo per giustificare la dichiarata ascendenza da Enea della gens Iulia. Secondo la tradizione, morto Enea, Ascanio avrebbe assunto il regno, ma trent’anni dopo la fondazione di Lavinium avrebbe fondato Alba Longa. Virgilio dunque avvalora la pretesa di Giulio Cesare, secondo cui la famiglia dei Giulii, originari di Alba, discendesse da Enea, facendo della forma Iulo una modificazione di Ilo, rinviando così all’eroe omonimo, fondatore ed eponimo di Ilio/Troia. Con triginta magnos orbis si intendono i completi percorsi del sole attorno alla terra, e perciò trent’anni. Mariachiara Roma 331. e finalmente, sotto quale cielo, sotto quali zone nel mondo 332. siamo stati scagliati mostraci; noi ignari degli uomini e dei luoghi 333. erriamo, qui spinti dal vento e da vasti flutti. 334. Molte vittime sacrificali cadranno per te davanti all’altare con la nostra destra.» 335. Allora Venere disse «io mi reputo per niente degno di tale onore; 336. le vergini di Tiro usano portare la faretra 337. e cingere le gambe con un alto coturno purpureo. 338. Tu stai vedendo i regni punici, i Tiri e la città di Agenore; 339. ma i confini sono libici, un popolo indomabile in guerra. 340. Didone governa il regno, giunta dalla città di Tiro, 341. fuggendo il fratello. L’offesa è grande, grandi 342. sono gli equivoci; ma seguirò i sommi capi delle vicende. 343. Sicheo era marito di questa, il più ricco di terra 344. tra i Fenici, e apprezzato dal grande amore della misera, 345. a cui il padre l’aveva data vergine e l’aveva unita in matrimonio con il primo 346. tra gli uomini. Ma il regno di Tiro lo possedeva il fratello 347. Pigmalione, il più feroce tra tutti gli altri per natura. 348. La follia giunse tra questi. Quello, empio 349. davanti agli altari e cieco per la brama di ricchezza, 350. segretamente vince con un pugnale l’incauto Sicheo, sicuro dell’amore 351. della sorella; a lungo celò l’accaduto e l’afflitta innamorata 352. il malvagio ingannò con vane speranze, fingendo molte cose. 353. Ma alla stessa giunse in sogno l’ombra del marito 354. insepolto; sollevando il pallido volto in modo mirabile, 355. svelò i crudeli altari ed il petto trafitto dalla spada 356. e rivelò tutto il segreto delitto della famiglia. 357. Allora la esorta ad affrettarsi alla figa e ad allontanarsi dalla patria, 358. e scoprì dal suolo vecchi tesori come aiuto per il viaggio, 359. un’ignota massa di oro e argento. 360. Didone, sconvolta da ciò, stabiliva la fuga e i compagni. 361. Si radunano quanti o avevano odio per la crudeltà del tiranno, 362. o forte paura; le navi, che per caso erano pronte, 363. prendono e le riempiono di oro. Vengono trasportati 364. per mare i beni dell’avaro Pigmalione; guida dell’impresa una donna. 365. Giunsero nei luoghi, dove ora distingui le grandi 366. mura e la fortezza di nuova Cartagine che sorge, 367. e comprarono il terreno, Birsa dal nome del fatto, 368. quanto ne potessero circondare con pelle taurina. 369. Ma voi chi (siete) infine, da quali spiagge siete venuti 370. o dove rivolgete il cammino?» A colei che chiedeva di tali cose quello, 371. sospirando e tirando fuori la voce dal profondo del cuore (disse): Commento Enea si rivolge alla donna, riconoscendo in lei una dea e chiedendo aiuto per le loro imprese, promettendo in cambio sacrifici. Venere continua a fingere di essere una donna mortale, una virgo Tyria che, secondo gli usi, indossa i coturni e la faretra. Il coturno è un calzare greco dalla suola spessa, che avvolgeva la parte posteriore della gamba e veniva allacciato sul davanti da lacci di cuoio, in genere di colore rosso. È la calzatura tipica dei cacciatori e degli attori tragici. Segue poi la presentazione dei luoghi in cui si trovano, e dunque della città di Agenore (figlio di Nettuno e di Libia, fratello del re Belo della Fenicia), e la narrazione della tragica storia di Didone. Al v. 367, la tecnica, tipica soprattutto della letteratura ellenistica, della ricerca dell’aition, della causa dei fenomeni naturali o di prodotti della vicenda umana è applicata ripetutamente nell’Eneide ai toponimi (come Gaeta al VII libro), ai nomi di persona o a usanze romane, anche religiose. Il nome "Byrsa" deriva infatti dal termine greco βυρσα che significa "pelle", quella con cui Didone avrebbe circondato, secondo la leggenda, il territorio che ne assunse il nome. Essendole stata assegnata dagli indigeni tanta terra quanta ne potesse Mariachiara Roma contenere una pelle di toro, lei la tagliò in finissime lamelle e ne fece un lunga striscia di quattro chilometri, che usò per delimitare il perimetro più ampio possibile. TRADUZIONE vv. 372-417 372. «O dea, se mi avviassi riprendendo dalle prime origini 373. e gli annali si propagassero per udire (le storie) delle nostre fatiche, 374. chiuso l’Olimpo, Vespero si metterebbe a riposo prima del tempo. 375. Dall’antica Troia, se per caso il nome di Troia giunse 376. alle vostre orecchie, una tempesta spinse noi, trasportati tra 377. diversi mari per suo caso sulle spiagge Libiche. 378. Sono il giusto Enea, che i Penati, quelli strappati al nemico, 379. porto con me sulla flotta, noto per fama oltre il cielo. 380. Cerco la mia patria Italia e la mia stirpe dal grande Giove. 381. Con venti navi salii il mare Frigio, 382. mentre la dea mia madre mi mostrava la via, seguito dal fato assegnatomi; 383. a stento ne rimangono sette sconvolte dalle onde e da Euro. 384. Io stesso, misero, percorro l’ignoto deserto della Libia, 385. respinto dall’Europa e dall’Asia.» Ma Venere che non sopportava 386. più il sofferente, nel mezzo del suo dolore così lo interruppe: 387. «Chiunque tu sia, non ti credo per niente odiato dai celesti, 388. tu che spezzi i soffi vitali, che avrai raggiunto la città Tiria. 389. Ora prosegui e da qui annunciati alle porte della regina. 390. Io ti riferisco infatti i compagni reduci e la flotta 391. restituita, e sospinta in sicurezza dai venti mutati, 392. se i falsi genitori non hanno inutilmente rivelato il fato. 393. Guarda i dodici cigni in schiera che si rallegrano 394. (i quali l’aquila di Giove, scesa dalla regione celeste, 395. turbava nel cielo aperto, ora sembrano in lunga schiera o conquistare 396. le terre o dominare quelle già prese), 397. come quelli, reduci, si divertono con le ali sibilanti, 398. e hanno circondato il cielo con lo stormo e hanno offerto canti: 399. non altrimenti le tue navi e la gioventù dei tuoi 400. o occupa il porto o si avvicina all’ingresso a vele spiegate. 401. Ora prosegui e volgi il cammino dove la via ti conduce.» 402. Così disse e allontanandosi splendette con il roseo capo 403. e i capelli ambrosi emanarono dalla cima un odore 404. divino; la veste scivolò alla punta dei piedi, 405. e dal portamento vera si manifestò la dea. Quello, quando la madre 406. riconobbe, con tali parole insegui la fuggente: 407. «Perché tutte le volte, anche tu crudele, tuo figlio inganni 408. con falsi aspetti? Perché non è concesso unire la destra con 409. la destra e ascoltare e rispondere vere parole?». 410. Con tali parole la rimprovera e volse il passo verso le mura. 411. Ma Venere circondò coloro che partivano (entrambi) con aria oscura 412. e li disperse con un vasto mantello di nebbia intorno alla dea, 413. così che nessuno li potesse riconoscere né raggiungere 414. o tramare ostacoli o chiedere il motivo della loro venuta. 415. La stessa, sollevata in aria, se ne andò a Pafo, e, felice, 416. rivide la sua sede, dove un tempio e cento altari 417. ardono per lei di incenso sabeo e profumano di ghirlande fresche. Commento Il dialogo tra Enea e Venere continua. Il figlio le parla delle sue origini e delle fatiche sopportate, di come sia giunto in quella terra. Vesper al v. 374 è il dio della sera. È rappresentato dalla stella della sera, e il suo ufficio è di chiudere i portali del cielo, l’Olimpo, quando il sole con il suo carro vi è rientrato; e così, per così dire, mette a riposo la giornata. In questo senso Enea, con una metafora, intende dire che se dovesse Mariachiara Roma raccontare tutta la sua storia si farebbe sera. La genus ab magno Iove (v. 380) è la stirpe troiana, il cui fondatore fu infatti Dardano, figlio di Elettra, sposa del fondatore eponimo della città, e di Giove. Al v. 382: la dea madre indica il cammino ad Enea: secondo Varrone Ratino, ad Enea, allontanatosi da Troia, sarebbe sempre stato visibile il pianeta Venere, scomparso solo al suo arrivo nel Lazio, una sorta di cometa guida. A questa circostanza Virgilio rinvia in maniera allusiva. La dea interrompe il racconto del figlio, non potendo sopportare le sue sofferenze oltremodo, preannuncia a Enea una buona accoglienza da parte della regina Didone. Gli rivela che i suoi compagni sono sopravvissuti e le navi in salvo, sospinte da venti più favorevoli. Ai vv. 393-400 Venere esorta poi Enea a proseguire: gli uomini di Enea sono come gli stormi dei cigni che sono stati gettati allo sbando dall’aquila di Giove, che in questo caso rappresenta l’ira di Giunone. Ora essi si sono raggruppati e stanno tornando sani e salvi, come i cigni si sono ripresi ed hanno circondato le volte del cielo. Dopo questa profezia, Venere si dilegua, rivelando il suo aspetto divino. È raffigurata con i capelli che emanano fragranza d’ambrosia, il nutrimento degli dèi, concesso eccezionalmente agli uomini per renderli immortali. In Omero era un unguento miracoloso che guariva le ferite e preservava i cadaveri dalla corruzione. Enea riconosce in lei la madre, e la insegue chiedendole perché non è concesso a suo figlio di vederla nelle sue vere sembianze e di scambarci vere parole. La dea scompare in un quadro mistico e divino: un mantello di nebbia che avvolge Enea ed il suo compagno, invenzione omerica ed espediente topico messo in atto dalla divinità per sottrarre al pericolo il proprio protetto. In questo modo la dea fa sì che nessuno li veda e faccia domande. Successivamente Venere si reca alla sua sede a Pafo, città con tempio ed altari dedicati alla dea. TRADUZIONE vv. 418-440 418. Intanto percorsero la via dove indica il sentiero. 419. E già salivano il colle, che altissimo sovrasta 420. la città e osserva dall’alto le fortezze opposte. 421. Enea ne ammira la grandezza, un tempo capanne, 422. ammira le porte e il frastuono e i lastrici delle vie. 423. I Tiri si applicano ardenti: una parte a erigere mura 424. e costruire fortezze e a rotolare macigni con le mani, 425. un’altra parte a scegliere il posto per il tetto e a chiuderlo con un solco. 426. Nominano le leggi ed il magistrato ed il santo senato. 427. Qui altri scavano i porti, qui altri collocano 428. le ampie fondamenta del teatro e scavano colonne 429. da grandi rocce, elevati ornamenti per le future sceneggiature. 430. Come il lavoro stimola le api nella nuova estate 431. per campi fioriti sotto il sole, quando fanno uscire 432. la prole cresciuta della famiglia, o quando il liquido idromele 433. ammucchiano e riempiono le celle con il dolce nettare, 434. o ricevono i carichi di coloro che vengono o, creata una schiera, 435. respingono dall’alveare i fuchi, razza ignava; 436. l’opera ferve e l’odoroso idromele profuma di timo. 437. «O fortunati, coloro dei quali le mura già sorgono!» 438. dice Enea e osserva la grandezza della città. 439. Si introduce, circondato dalla nebbia (straordinario a dirsi), 440. nel mezzo e si unì agli uomini e non viene riconosciuto da alcuno. Commento Viene descritta in questa sezione la costruzione di Cartagine. Al v. 427 è probabile che il portus cui si riferisce Virgilio sia quello artificiale che possedeva Cartagine, il Cothon, retrodatandolo all’epoca della fondazione della città. Per quanto riguarda il teatro al v. 428, la presenza di una struttura edile stabile per le rappresentazioni teatrali è chiaramente più tarda dell’età eroica: in età augustea si comincio appunto a prevederne la presenza nei piani di urbanizzazione. Mariachiara Roma 519. supplicando grazia e si recavano al tempio con clamore. Commento È descritto l’arrivo della regina Didone, paragonata a Diana, figlia di Giove e di Latona, divinità della caccia identificata con la divinità greca Artemide. Come sorella di Apollo, fu identificata con la Luna. Come Diana circondata dalle sue Oreadi sulle sponde dell’Eurota e per le giogaie di Cinto, così Didone giunge circondata da una folta schiera di uomini. Questa comparazione di Diana (Luna) con Didone prepara la simmetrica comparazione di Enea con il Sole al IV libro. Tra i tanti uomini al seguito della regina, Enea riconobbe i suoi compagni dispersi che invocavano la benevolenza e l'aiuto di Didone. TRADUZIONE vv. 520-560 520. Una volta entrati e data occasione di parlare pubblicamente, 521. il più autorevole Ilioneo così incomincia, con il cuore placido: 522. «O regina, cui Giove ha concesso di fondare una nuova città 523. e di tenere a freno i popoli superbi con la giustizia, 524. noi, miseri Troiani, trasportati dai venti per tutti i mari, 525. ti imploriamo: allontana gli orribili roghi dalle nostre navi. 526. Risparmia la giusta stirpe e considera più da vicino le nostre vicende. 527. Noi non siamo venuti per distruggere con le armi 528. i penati libici o per indirizzare le prede rubate verso i lidi; 529. il cuore non (ha) quella forza né i vinti tanta superbia. 530. C’è un luogo, che i Grai definiscono Esperia, 531. una terra antica, potente per le armi e per il fertile suolo; 532. la abitarono gli uomini Enotri; ora si dice che i più giovani 533. abbiano definito il popolo “Italia” dal nome del comandante: 534. questa era la rotta, 535. finché all’improvviso il tempestoso Orione, elevandosi dal flutto, 536. ci portò negli oscuri bassifondi e in profondità con venti sfrenati 537. e attraverso le onde in alto mare e per scogli impenetrabili 538. ci disperse; qui in pochi siamo arrivati per mare alle vostre spiagge. 539. Che stirpe di uomini (è) questa? O quale patria tanto barbara 540. garantisce questa usanza? Siamo respinti dall’ospitalità della sabbia; 541. ci muovono guerre e vietano di fermarci sulla prima terra (vicina). 542. Se deplorate la stirpe degli uomini e le armi mortali, 543. sperate almeno gli dèi memori nel giusto e nel male. 544. Avevamo Enea per re, né altri più giusto di lui 545. per pietas ci fu, né maggiore per guerra e armi. 546. Se i fati preservano quell’uomo, se si nutre di aria 547. celeste e non giace ancora nelle ombre crudeli, 548. nessuna paura. E non ti rincresca di aver gareggiato per prima 549. in cortesia; anche le regioni Sicule hanno delle città 550. e pianure e il brillante Aceste dal sangue troiano. 551. Sia permesso tirare in secco la flotta danneggiata dai venti 552. e allestire travi con gli alberi e potare remi, 553. se ci è concesso, recuperati i compagni ed il re, per l’Italia 554. volgersi, per dirigerci lieti in Italia e nel Lazio; 555. se invece la salvezza è dissipata e, o ottimo padre dei Teucri, 556. il mare della Libia ti possiede, e ormai non resta speranza di Iulio, 557. almeno presso i mari Sicani e la dimora allestita, 558. da dove (siamo stati) qui scagliati, e (presso) il re Aceste rechiamoci.» 559. Con tali parole Ilioneo parlò; all’unisono fremevano in volto tutti 560. i Dardanidi. Mariachiara Roma Commento Enea, che la madre Venere ha reso invisibile, può assistere all’incontro della delegazione dei naufraghi Troiani con la regina Didone, che guida un popolo di profughi che stanno costruendo Cartagine, per ricostruire la propria patria. È Ilioneo a prendere la parola. Ilioneo è il più autorevole del gruppo per anzianità, per questo definito maximus al v. 521. Egli si fa portavoce dei naufraghi troiani e ricopre anche altrove il ruolo di ambasciatore. Anche del padre di lui, Forbante, Omero nell’Iliade diceva che “combatté sempre col favore di Mercurio, Dio dell'eloquenza”. In sostanza è un Nestore in miniatura, essendo Nestore nell'Iliade il vecchissimo re di Pilo dal dolcissimo e suadente eloquio, che ne fa il più autorevole consigliere degli Achei. L’articolazione del discorso di Ilioneo risponde a precetti retorici ben precisi, che stabiliscono che ci si può conciliare la benevolenza dell'uditorio in quattro modi: tirando in causa la persona dei giudici, la nostra, quelli degli avversari e il fatto in sé. A tali precetti risponderebbero: l'elogio di Didone (vv. 521-526), il ricordo delle disavventure dei troiani (vv. 527-538), lo sdegno per il comportamento ostile dei cartaginesi e il rimprovero di esser stati scacciati dalla spiaggia, in quanto naufraghi (vv. 539 sgg.). Al v. 530 Esperia fu chiamata dai greci d'Italia, perché collocata a Occidente del loro territorio (da ἑσπέρα, “occidente”). Esperia è anche la Spagna, alla quale meglio si addice la denominazione per essere l'estrema terra del mondo. Enotri invece (v. 532) erano chiamati in origine gli abitanti del versante Tirrenico dell'Appennino a sud della Campania, nel territorio oggi appartenente alla Basilicata e alla Calabria, e indicati degli storici greci appunto come Enotria. Il nome passò poi a designare tutta l'Italia ed Enotri furono detti suoi abitanti. Il v. 534 poi è il primo dei complessivi 58 versi incompleti presenti nell'Eneide, interpretati già dai commentatori antichi come la testimonianza palese dell'incompiutezza del poema, dalla quale sarebbe originato il desiderio di Virgilio che esso non fosse pubblicato. Di più, essi sarebbero prova che la pubblicazione dell'opera voluta da Augusto sarebbe avvenuta nell'assoluto rispetto della disposizione del princeps che su di essa non si operassero che gli interventi indispensabili, tra i quali non dovevano essere comprese integrazioni e aggiunte. Ma i versi incompleti sono di senso compiuto, il che pone non pochi interrogativi sulla loro genesi e la loro funzione, e dunque sulle reali intenzioni di Virgilio circa la loro sorte. Al v. 535 Ilioneo allude ad Orione. Egli fu un cacciatore nato, su preghiera di un re Irieo, dall'urina di Giove, Nettuno e Mercurio, dal re accolti ospitalmente. Avendo recato offesa a Diana o alla Terra, fu ucciso da uno scorpione e trasformato nella omonima costellazione, la quale, tramontando nel tardo autunno, era sinonimo di piogge e tempeste. Alla fine del discorso (v. 558) Ilioneo parla di Aceste come di un re, ma in realtà il suo insediamento assumerà solo successivamente, con il benestare di Enea, le caratteristiche di un regno. Ilioneo, dunque, pare preannunciare ciò che è destinato ad accadere. I troiani sono inoltre definiti Dardanidi (v. 560), in quanto discendenti di Dardano o in quanto abitanti della Dardania, cioè la Troade, così detta dall’omonima città fondatavi dallo stesso Dardano, prima ancora che sorgesse Troia. TRADUZIONE vv. 561-578 561. Allora Didone, abbassato il volto, brevemente parla: 562. «liberate la paura dal cuore, o Teucri, allontanate le preoccupazioni. 563. Le fatiche e la novità del regno mi inducono a fare 564. tali cose e a vigilare i confini con ampia custodia. 565. Chi il popolo degli Eneadi, chi non conosce la città di Troia 566. e le virtù e gli eroi (di Troia) o gli incendi di una guerra così grande? 567. Noi Punici non possediamo cuori stolti fino a tal punto, 568. né il sole aggioga i cavalli così lontano dalla città Tiria. 569. Se voi la grande Esperia e le pianure Saturnie 570. o se i confini di Erice e il re Aceste cercate, 571. vi congederò sicuri per l'aiuto e vi aiuterò con risorse. 572. Volete anche stabilirvi con me in questo regno allo stesso modo, 573. la città che sto erigendo è vostra; tirate in secco le navi; Mariachiara Roma 574. Troiano o Tirio sarà trattato da me senza alcuna discriminazione. 575. E anzi magari lo stesso re Enea, spinto proprio da Noto, 576. si presentasse! Certamente dei fidati sulle spiagge 577. invierò e ordinerò (loro) di esaminare le estremità della Libia, 578. se vaga sbattuto per qualche bosco o città.» Commento La regina risponde favorevolmente alle richieste di Ilioneo. Come già hanno dimostrato i dipinti nel tempio di Giunone, la regina Didone riconferma di conoscere bene la loro storia e la guerra di Troia. Si giustifica pertanto per l’accoglienza non gradita ai troiani, e dimostra che i Punici non sono insensibili, né il Sole aggioga i suoi carri troppo lontano. Al v. 568 perciò, con l’allusione al sole, Didone intende sostenere che i popoli che abitano la nuova città non sono incivili: era infatti ritenuto che i territori più lontani dal percorso del sole, e dunque caratterizzati dal clima più freddo, fossero meno civili. Le pianure di Saturno (v. 569) sono quelle del Lazio, rifugio e regno di Saturno cacciato dall’Olimpo. Il suo regno si faceva coincidere con un’età aurea di serenità e di pace, in contrapposizione con quella ferrea di guerre e ambizioni, inaugurata da Giove, suo figlio e successore. Erice infine, al v. 570, è il figlio di Venere e Nettuno o di Bute, uno degli Argonauti, e fu signore della parte occidentale della Sicilia. Fu ucciso da Ercole e da lui prese il nome l’omonimo monte. Era considerato il fondatore del culto e del tempio di Venere Ericina. Virgilio farà invece Enea il fondatore del santuario. Con l'offerta di asilo poi Didone prospetta un vero e proprio sinecismo tra le due popolazioni, come se i Troiani non abbiano essere, come di fatto sono, altro che un'esigua minoranza. Non solo invita i troiani a restare, ma si prende le responsabilità del ritrovamento di Enea, proponendosi di cercarlo lei stessa. TRADUZIONE vv. 579-612 579. Incoraggiati nell’animo da queste cose dette, sia il forte Acate 580. sia il padre Enea già da tempo ardevano di irrompere 581. dalla nube. Per primo Acate si rivolse ad Enea: 582. «o nato da una dea, quale pensiero ti sorge ora nel cuore? 583. Vedi tutte le cose al sicuro, la flotta e i compagni accolti. 584. Ne manca uno, che noi stessi abbiamo visto in mezzo ai flutti 585. affondato; il resto concorda con le parole di (tua) madre.» 586. Aveva appena detto queste cose, quando di colpo la nebbia 587. sparsa attorno si dissolve e si libera nell’aria aperta. 588. Enea restò fermo e brillò in luce splendente 589. il volto e le spalle simili a un dio; e infatti la stessa 590. madre aveva infuso sul figlio una capigliatura decorosa e 591. la splendente luce della gioventù e piacevole grazia negli occhi: 592. come bellezza le mani aggiungono all’avorio, o come l’argento 593. e il marmo di Pario sono circondati dal biondo oro. 594. Allora così si rivolge alla regina e a tutti all’improvviso, 595. inaspettatamente dice: «Sono qui, colui che cercate, 596. il troiano Enea, sottratto alle onde Libiche. 597. O tu, che sola hai compatito le fatiche orribili di Troia, 598. che noi, avanzi dei Danai, logorati ormai da tutte le sventure 599. della terra e del mare, bisognosi di tutto, 600. associ alla dimora nella tua città, rendere grazie degne 601. non è di nostro potere, o Didone, neppure qualunque cosa che c’è ovunque 602. del popolo Dardanio, ciò che è sparso per il vasto mondo. 603. Gli dèi, se qualche divinità considera i giusti, se da qualche parte 604. c’è qualche giustizia e una intima volontà cosciente del giusto, 605. ti offrano ricompense degne. Quali secoli tanto felici 606. ti generarono? Quali tanto grandi genitori ti concepirono tale? 607. Finché i fiumi correranno nei flutti, finché le ombre rischiariranno 608. le volte alle montagne, finché il cielo alimenterà le stelle, 609. sempre resteranno l’onore e il tuo nome e le lodi, Mariachiara Roma 670. Ora la fenicia Didone lo trattiene e lo ritarda con carezzevoli 671. parole e temo dove possano volgersi le ospitalità 672. giunonie; per niente cesserà in un momento così decisivo (lett. in tanto cardine delle cose). 673. Per questo progetto di afferrarla prima con l’inganno e di circondare la regina 674. con le fiamme, che non si muti per qualche divinità, 675. ma sia obbligata con me per il grande amore di Enea. 676. Come tu possa fare ciò, ora ascolta il nostro piano. 677. Presso la Sidonia città, su invito del caro genitore, 678. si prepara ad andare il regale fanciullo (Ascanio), mia più grande preoccupazione, 679. portando doni dal mare e ciò che resta dalle fiamme di Troia; 680. io, assopitolo nel sonno, sull’alta Citera 681. o sull’Idalio, nella sede (a me) consacrata, lo nasconderò, 682. dove non possa sapere l’inganno o obiettare nel mezzo. 683. Tu, per non più di una notte sola, il suo aspetto 684. simula con un inganno, e da fanciullo rivesti i noti aspetti del fanciullo, 685. così che, quando Didone felicissima ti accoglierà in grembo 686. tra le regali mense e il nettare Lieo, 687. quando ti offrirà l’amplesso/le braccia e ti imprimerà dolci baci, 688. tu inspiri il fuoco occulto e la inganni con il veleno.» 689. Amore obbedisce alle parole della cara madre e sguaina 690. le ali e gioendo avanza con il passo di Iulo. 691. Ma Venere diffonde ad Ascanio una placida calma 692. per le membra e, riscaldatolo in grembo, la dea lo solleva nelle alte 693. foreste dell’Idalia, dove la molle maggiorana spirando 694. lo abbraccia tra i fiori e la dolce ombra. Commento In cambio dell’ospitalità e dei doni offerti dalla regina Didone, Enea invia l’amico Acate presso il figlio Ascanio alle navi, affinché lo informi delle vicende e gli ordini di portare in dono alla regina un manto, un velo ricamato, uno scettro, un monile ed una doppia corona, bottini di guerra delle rovine di Troia. Questi doni offerti da Enea a Didone, appartenuti all’adultera Elena, apportatrice antonomastica di sciagura, e alla sfortunata Iliona, sono un presagio della rovina futura della regina. Venere, intanto, con una solenne invocazione, si rivolge al figlio Cupido, invitandolo ad aiutarla a salvare Enea, facendo in modo che Didone si innamorasse di lui. Secondo il suo piano, Cupido deve trasformarsi nel figlio di Enea, Ascanio, e lanciare le sue frecce a Didone. Amore/Cupido è rappresentato come un fanciullo alato e munito di arco e frecce, con le quali può colpire anche le divinità. Ignoto ad Omero, compare in Esiodo come la divinità teogonica che spinse i numi all’unione. Sotto questa forma era detto nato dal Caos o dal Cielo e dalla Terra, oppure da Cronos. Successivamente prevalse la versione che lo voleva figlio di Venere e Marte. Venere lo definisce come colui che disprezza i dardi tifei (v. 665): sono i fulmini con i quali Tifeo fu ucciso. Si tratta di uno dei giganti, figli del Tartaro e della Terra, che per aver tentato di spodestare Giove, fu colpito dal suo fulmine e sprofondò sotto l'Etna o, secondo altri, sotto l'isola dell'attuale Ischia. Ascanio è invece definito come colui che è al centro dei pensieri della dea (v. 677) in quanto costituisce la certezza del futuro glorioso di Roma. vv. 680-681: Citera è un’isola egea, sacra a Venere la quale, nella versione del mito che la dice nata dal mare, sarebbe emersa dalle acque nelle vicinanze dell’isola. L’Idalio è invece un monte (e una città) nell’interno dell’isola di Cipro, con un tempio ed un bosco anch’essi sacri a Venere. TRADUZIONE vv. 695-722 695. E già Cupido andava obbedendo alla parola e lieto i doni 696. regali portava ai Tiri con Acate da guida. 697. Quando giunse, già la regina tra i sontuosi drappeggi 698. si stese sull’aureo letto e si collocò al centro; 699. già il padre Enea e già la gioventù Troiana Mariachiara Roma 700. si riuniscono e si coricano sul giaciglio color porpora. 701. I servitori offrono acqua alle mani e dispongono Cerere 702. nei canestri e tosati i velli portano i teli. 703. All’interno cinquanta schiave, che hanno il compito di disporre 704. i numerosi viveri in ordine e di alimentare il focolare con le fiamme; 705. altre cento (schiave) e altrettanti servi pari in età, 706. che riempiano le tavole di vivande e offrano bevande. 707. E nemmeno i numerosi Tiri non (si astennero) dal radunarsi 708. nelle allegre sale, invitati a coricarsi sui variopinti triclini. 709. Ammirano i doni di Enea: ammirano Iulo, 710. e lo splendido volto del dio, e le parole simulate 711. e il mantello e la veste dipinta di acanto croco. 712. Soprattutto la sventurata Fenicia, consacrata alla futura rovina, 713. non può soddisfare il suo cuore e si infiamma nel guardarlo 714. ed è commossa in ugual modo dai doni e dal fanciullo. 715. Egli, quando si appese alle braccia e al collo di Enea 716. e saziò il grande amore del falso genitore, 717. si recò dalla regina. Costei con gli occhi, costei con tutto il petto 718. gli si unisce e nel frattempo lo riscalda al grembo, Didone ignara 719. quale grande dio posi sulla misera. Ma quello, memore 720. della madre Acidalia, a poco a poco Sicheo comincia 721. a cancellare e tenta di conquistare con vivo amore 722. gli animi già da tempo inerti e il cuore fuori uso. Commento Cupido, il quale ha assunto l’aspetto di Ascanio, si incammina insieme all’eroe Acate verso la reggia di Didone, portando con sé i doni che il re (Enea) intende offrire alla regina e ai suoi nobili sudditi cartaginesi. Viene descritto il banchetto ed il via vai di schiavi che servono i convitati. Giunto Ascanio (qui chiamato con il suo secondo nome, Iulo), i convitati mostrano la loro ammirazione per il suo volto splendente di divina bellezza e per le sue parole definite simulata, in quanto non è Ascanio a proferirle, ma il dio Cupido, che ne ha assunto l’aspetto. Al v. 712 Didone è definita devota futurae pesti, in quanto destinata al suicidio. È un’anticipazione di quanto sarà oggetto di narrazione nel libro IV del poema, dove Didone, abbandonata da Enea, si uccide. La regina, destinata a morire vittima della sua infelice passione (infelix Phoenissa), non si stanca mai di guardare il fanciullo e i doni di Enea, ugualmente turbata dalla bellezza divina dell’uno e dallo splendore degli altri. Ai vv. 715-715, il puer il fanciullo che, con le sue carezze, appaga il grande amore di Enea, non è Ascanio, bensì Cupido; dunque, l’eroe non è il suo vero padre, come lui non è il suo vero figlio (falsi genitoris). Cupido poi si lascia vezzeggiare da Didone, che però non sa di tenere nel proprio grembo un dio terribile, che con la sua potenza farà nascere in lei la passione per Enea. Al v. 720 Venere è definita mater Acidalia, epiteto derivante da una fonte della Beozia a lei sacra. Cupido, memore delle istruzioni fornitegli da sua madre Venere a poco a poco cancella dal cuore di Didone il ricordo del marito Sicheo, che le era stato ucciso dal fratello Pigmalione e al quale la regina aveva deciso di consacrare la sua esistenza; instillando a poco a poco nel cuore di lei l’amore per il vivo Enea, il dio cerca di sconvolgere i sensi della regina, da molto tempo assopiti, e di far breccia nel suo cuore, ormai non più abituato alle passioni amorose. TRADUZIONE vv. 723-756 723. Dopo una prima pausa al banchetto e le mense rimosse, 724. dispongono grandi vasi e coronano i vini. 725. Lo schiamazzo giunge alle volte e fanno risuonare la voce per i grandi 726. atri; i lumi ardenti pendono dagli aurei soffitti 727. e le fiaccole sconfiggono la notte con le fiamme. 728. Qui la regina chiese una coppa pesante di gemme e Mariachiara Roma 729. con il vino la riempì, come Belo e tutti quelli 730. da Belo (erano) soliti; allora, ottenuto il silenzio nelle volte, (disse): 731. «O Giove (infatti dicono che tu dia diritti agli ospiti), 732. che tu voglia che questo giorno sia felice per i Tiri e per quelli giunti 733. da Troia e che i nostri posteri si ricordino di ciò. 734. Bacco datore di gioia sia presente e la benevola Giunone; 735. e voi, o Tiri, celebrate il convito con favore». 736. Così disse e consacrò la lode dei vini sulla mensa 737. e, consacrato, per prima lo toccò appena con la punta delle labbra; 738. allora la diede a Bitias, esortandolo; quello zelante attinse 739. la coppa schiumante e si inondò con la piena aurea (coppa); 740. poi gli altri nobili. Con una cetra dorata suona 741. il chiomato Iopas, che l’eccelso Atrante istruì. 742. Costui canta la luna errante e le fatiche del sole, 743. da dove la stirpe degli uomini e gli animali, da dove la pioggia e il fuoco, 744. Arcturo e le Iadi pluviali e i due Carri (dell’Orsa), 745. perché tanto si affrettino ad immergersi nell’Oceano i giorni 746. d’inverno o quale attesa si opponga alle tarde notti. 747. I Tiri aumentano nell’applauso e i Troiani li seguono. 748. E l’infelice Didone ritardava la notte 749. con diversi discorsi e beveva il lungo amore, 750. chiedendo molte cose su Priamo, molte cose su Ettore, 751. ora con quali armi fosse giunto il figlio di Aurora, 752. ora quali (fossero) i cavalli di Diomede, ora quanto forte (fosse) Achille. 753. «Ma anzi, o ospite, avanti, e raccontaci dall’origine 754. le astuzie» disse «dei Danai e le sventure dei tuoi 755. e i tuoi viaggi; infatti, ormai la settima estate ti porta 756. errante per tutte le terre e (per tutti) i flutti». Commento Ha inizio il cosiddetto simposio, tra sermones e canti. Al v. 728 la patera è una tazza in metallo prezioso oppure d’argilla, usata per servire il vino. Didone la riempie con il vino, come erano soliti Belus et omnes a Belo: si tratta di una nota storica su un’usanza, secondo cui sia Belo, il fondatore della dinastia alla quale appartiene la regina (ma lo stesso nome indica anche il padre di lei), sia i suoi discendenti, erano soliti bere il vino in questa coppa. Didone a questo punto rivolge una preghiera a Giove, definito dator iuris hospitibus: fra i vari attributi di questo dio, infatti, vi è quello di «protettore degli ospiti», considerati sacri, in quanto posti sotto la sua tutela. Non si deve dimenticare che la violazione delle leggi dell’ospitalità è, nel mondo antico, un reato gravissimo. Invoca poi la presenza di Bacco, definito datori laetitiae per gli effetti piacevoli provocati dall’assunzione moderata di vino, e di Giunone. Così offre libagioni agli dèi e si bagna le labbra con il vino, per poi passare la patera agli altri. Si tratta di un rito previsto dall’offerta agli dèi, con cui aveva inizio il simposio. Al v. 740 viene presentato Iopas, cantore esperto di astronomia, che allieta il banchetto offerto da Didone ai Troiani; egli sostituisce Demodoco che alla corte dei Feaci, trattando dell’impresa di Ilio, aveva provocato lo svelamento dell’incognito Ulisse. Giacché alla memoria delle scene della guerra di Troia sono già state dedicate delle pitture, Virgilio, con un espediente metaletterario, ne cambia l’argomento e riflette in lui se stesso in quanto autore delle Georgiche, in una parte delle quali erano toccati gli stessi temi. Iopa venne istruito nella sua arte dal Titano Atlante, re di Mauritania (che, secondo il mito greco, era stato condannato da Zeus a reggere il mondo sulle spalle, come punizione per essersi ribellato al dio supremo insieme agli altri Titani), considerato molto esperto nella scienza astronomica. E infatti le storie raccontate da Iopa avranno come argomento gli astri e i loro movimenti, nonché i due Carri dell’Orsa e la stella della costellazione di Boote (Arcturum) e del gruppo di stelle della costellazione del Toro (Hyadas), le quali sorgono in maggio e perciò considerate apportatrici di pioggia. I versi di Iopa inoltre spiegano perché d’inverno il sole tramonti tanto presto e le notti siano così lunghe. Mariachiara Roma 53. e le navi (sono) sconquassate, e mentre il cielo non (è) favorevole.» Commento - DIDONE E LA CARA SORELLA ANNA Il libro IV è dedicato totalmente all’amore dell’infelice Didone per Enea. Amore come furor, al quale si contrappone la pietas di Enea, che accetta il destino che gli dèi hanno voluto per lui e abbandona al suo tragico destino la donna che lo ama. Nei due libri precedenti, Enea ha raccontato, su invito di Didone, le sue peripezie, dalla guerra di Troia alla fuga e alle avventure sofferte nei precedenti 7 anni. E mentre Enea racconta, si accende la passione della regina, stimolata anche da Cupido, che si è celato sotto le apparenze del piccolo Ascanio, figlio del capo troiano. Il libro III si chiude con Enea che, terminato il suo racconto, si concedeva al ristoro del sonno. Il libro successivo si apre nel segno della contrapposizione: at regina gravi…carpitur igni (vv. 1-2). At è una congiunzione che indica il passaggio da un pensiero a un altro, e, posto al principio, crea una contrapposizione tra lo stato in cui versa la regina e la serenità di Enea. Già nei due versi iniziali Virgilio ha condensato il destino di Didone e ci prepara alla sua conclusione: ella è piagata nell’animo (saucia) da un tormento che si rivela subito grave, mortale (gravi); nutre la ferita nelle sue viscere (venis) ed è divorata da un fuoco cieco nella sua forza distruttiva. La passione amorosa è come subita da Didone, che trascorre la notte in preda a un sentimento violento che non le concede pace. L’amore è descritto da metafore di fuoco, che divora la regina e non le dà via di scampo. Allora, per trovare conforto, la donna, “fuori di sé” (e si notino i continui riferimenti al furor). Trascorsa la notte (Postera Aurora, vv. 6-7), può confidarsi con la sorella Anna. [Secondo una diversa leggenda è Anna, e non Didone, ad uccidersi per amore di Enea. Nella poesia latina postvirgiliana si parla di un suo passaggio in Italia, dove sarebbe stata accolta da Enea. La gelosia di Lavinia l’avrebbe però spinta a gettarsi nel fiume Numico. Sarebbe stata quindi venerata come ninfa di quel fiume e come tale identificata con Anna Perenna, ma anche la dea dell’anno e delle fasi della luna.] Didone è certa che Enea sia figlio di qualche divinità. Non sa, facendo riferimento all’origine divina di Enea, di indicare l’origine dell’amore che sta per travolgerla. Eppure, esita ad abbandonarsi. Ancora l’animo di Didone è titubante, resiste a quel sentimento, restando legato al ricordo del primo marito, ucciso dal fratello di lei per brama di potere. Ella vuole resistere a quest’amore che sente crescere in lei perché vuole rimanere fedele alla memoria del defunto marito Sicheo. Si augura per questo di finire tre le profondità della terra (v. 24) e che Giove la scagli nelle ombre dell’Erebo, sede dei morti e del dio Erebo figlio del Caos, sposo della Notte, piuttosto che tradire Pudor e le sue leggi (vv. 24-27). Ma l’amore-fuoco è inarrestabile. La risposta della sorella Anna è improntata al più sano epicureismo, e forse sotto le sue spoglie femminili Virgilio ha voluto ritrarre il suo caro amico Orazio. Tale risposta manifesta le ragioni dell’amore, della giovinezza e della vita, ma tragicamente tende a spingere Didone in direzione opposta, verso la morte e la disperazione. Anna nega che si tratti di un amore empio, fa appello all’istinto materno della sorella (v. 33), adduce le ragioni politiche che potrebbero portarla a ricercare le nozze con il nobile troiano (vv. 47-49) e, infine, conclude che non solo non si tratta di un sentimento empio, ma che addirittura esso si può considerare propiziato dagli dèi stessi e soprattutto da Giunone, che è la protettrice dei Punici, ma anche dea dei contratti nuziali (v. 45). Al lettore il riferimento a Giunone rivela il totale fraintendimento in cui Didone e Anna stanno per essere irretite. Enea è sì giunto in Africa per volontà di Giunone, ma non per i suoi favorevoli auspici, piuttosto per il suo malanimo, giacché era stata la dea a scagliare una tempesta contro la flotta troiana giunta in prossimità delle coste italiche. Al v. 36, Iarba è un mitico re dell’Africa settentrionale, dal quale Didone ottenne il territorio per il suo popolo. Figura come pretendente respinto da Didone. Anna si riferisce a quei pretendenti che non sono riusciti a flexere aegram, Didone stessa. Poiché altri principi africani ambivano a sposarla, dietro queste pallide figure si cela un’allusione allo stato di Itaca in assenza di Ulisse, con la casta Penelope che nell’Odissea rifiuta ogni proposta di matrimonio da parte dei principi delle isole Ionie. Mariachiara Roma TRADUZIONE vv. 54-89 54. Con queste parole infiammò l’animo di immenso amore 55. e diede speranza al cuore incerto e liberò il pudore. 56. In primo luogo, si recano al tempio e tra gli altari chiedono 57. la pace; sacrificano i bidenti scelti secondo l’uso 58. alla legislatrice Cerere e a Febo e al padre Lieo, 59. a Giunone prima di tutti, che si occupa dei vincoli matrimoniali. 60. La stessa bellissima Didone, tenendo con la mano destra una coppa, 61. la versa in mezzo alle corna della candida vacca, 62. o cammina verso i pingui altari davanti alle statue degli dèi; 63. e celebra il giorno con offerte e, contemplando nei cuori 64. squarciati delle bestie, consulta le viscere palpitanti. 65. Ahimè, cuori ignari degli indovini! Che (giovano) le offerte, 66. che giovano i santuari ad una furiosa? La fiamma divora le molli midolla 67. frattanto, e la ferita sussiste tacita sotto il petto. 68. L’infelice Didone viene infiammata e vaga per tutta 69. la città furiosa, come una cerva colpita da una freccia, 70. che, incauta, da lontano, tra le foreste Cretesi, ha colpito 71. un pastore ignaro, inseguendola con le frecce, e vi ha lasciato il ferro 72. alato: quella percorre le selve e i boschi Dittei in fuga, 73. e la freccia mortale resta nel fianco. 74. Ora conduce Enea con sé in mezzo alle mura 75. e ostenta le opere Sidonie e la città pronta; 76. inizia a parlare e si arresta nel mezzo del discorso; 77. ora, mentre il giorno cala, desidera gli stessi banchetti 78. e, folle, supplica di (poter) ascoltare di nuovo le fatiche 79. Iliache e nuovamente pende dalla bocca del narratore. 80. Successivamente, quando (si furono) separati e la luna oscurata, a sua volta, 81. opprime la sua luce e le stelle che tramontano persuadono i sogni, 82. sola piange nella vuota dimora e giace sui letti abbandonati. 83. Pur lontana, ascolta e vede colui che è lontano, 84. o Ascanio in grembo, presa dall’immagine del padre, 85. trattiene, se mai potesse illudere l’indicibile amore. 86. Le torri iniziate non si elevano, la gioventù non dirige 87. le armi o (non) preparano il porto o difese sicure 88. per la guerra: restano in sospeso i lavori interrotti e le vaste 89. sporgenze dei muri e la macchina schierata al cielo. Commento - L'AMORE DI DIDONE Le parole di Anna hanno l’effetto di accendere l’animo della sorella verso l’amore contro cui combatteva. Didone inizia a fare sacrifici per propiziarsi gli dèi e prima tra tutti Giunone, cui spetta di tutelare i vincoli nuziali. Anche nel I libro la regina svolgeva un ufficio religioso, ma quello che la vede impegnata adesso è estraneo al suo compito di guida della cittadinanza, e si manifesta come follia, lontana da qualsiasi pietà religiosa. Ai vv. 65-66 infatti Virgilio con un’esclamazione ribadisce la natura malata e letale dell’amore di Didone, tale da rivolgersi a numi e sacrifici che pure non gioveranno. Ai vv. 68-73 Didone è ferita, divorata in profondità dall’amore, e vaga come impazzita per la città. È perciò paragonata ad una cerva incauta, ferita da una freccia che ora trascina con sé mentre va per i boschi, senza potersene liberare, piagata da una ferita che incancrenendosi le consuma la vita giorno per giorno. Il poeta ci regala una serie di immagini, che incalzandosi ci lasciano l’impressione di una donna totalmente stravolta, determinata ormai solo dal suo sentimento d’amore: Didone accompagna Enea attraverso le mura, gli mostra le sue ricchezze e la sua grandezza, gli chiede di narrare le sue avventure e pende dalle labbra del narratore, e si tormenta appena resta da sola e prende in braccio il piccolo Ascanio, rivedendo nel suo volto quello del padre (vv. 75-85). Mariachiara Roma La follia della regina non può che riverberarsi sulla collettività che ella guida. Quella città prospera, fiorente, impegnata nel costruire il proprio splendore, che si era mostrata a Enea nel I libro, ora langue: le torri cominciate non crescono, i giovani non si esercitano con le armi, la costruzione delle opere difensive viene abbandonata. Tutto ciò è il riflesso dell’afflizione della regina che guida questa città. Didone dunque non è da condannare perché si è sottratta al voto fatto alle ceneri di Sicheo, bensì perché è venuta meno al suo dovere di capo politico e morale, abbandonando i suoi sudditi all’inerzia e all’anarchia. Al v. 58 Cerere è definita lefigera, un epiteto che traduce l’equivalente greco thesmofòros. Prima che Cerere introducesse nella vita dell’uomo il frumento, infatti, gli uomini erano senza legge; questo stato selvaggio fu interrotto quando si apprese l’uso dei cereali. Didone, intenzionata a sposare Enea, tenta di conciliarsi importanti divinità altrimenti ostili alle nozze: Cerere, infatti, a causa del rapimento della figlia, maledice le donne che stanno per sposarsi; Apollo invece non ha moglie; Lieo non poté che avere come sposa una donna rapita. TRADUZIONE vv. 90-128 90. E non appena la cara moglie di Giove percepì che da tale 91. morbo era posseduta e non opponeva la reputazione al furore, 92. la Saturnia si avvicinò a Venere con tali parole: 93. «Davvero onorevole gloria e grandi bottini riportate 94. tu e il tuo fanciullo, grande e memorabile fama, 95. se una donna è stata sconfitta dall’inganno di due dèi. 96. E non mi inganna a tal punto che tu, intimorita dalle nostre mura, 97. consideri sospette le dimore della grande Cartagine. 98. Ma quale o dove sarà il (tuo) limite, ora, con tanta rivalità? 99. Perché piuttosto non coltiviamo pace eterna e accordi 100. nuziali? Tu possiedi ciò che hai bramato con tutto il cuore: 101. Didone arde innamorata e la follia trascina nelle ossa. 102. Dunque, governeremmo questo popolo in comune e 103. con pari favori, le sia concesso di servire ad un marito Frigio 104. e di consegnare alla tua destra i Tiri in dote.» 105. A quella (infatti s’accorse che aveva parlato con falso cuore, 106. per volgere le spiagge Libiche al regno d’Italia) 107. Venere così si rivolse di contro: «Quale folle rifiuterebbe 108. queste cose, o preferirebbe rivaleggiare con te in guerra? 109. Purché la fortuna segua l’evento che tu ricordi. 110. Ma sono portata incerta dai fati, se Giove voglia che i Tiri 111. e gli esuli da Troia abbiano una sola città 112. o ritenga giusto che i popoli siano mischiati o legati da accordi. 113. Tu consorte, facile è per te sedurre il (suo) cuore supplicandolo. 114. Va: ti seguirò.» Allora così incominciò la regina Giunone: 115. «Questo impegno sarà con me, ora in quale maniera ciò che incombe 116. possa essere concluso, ascolta, te lo dirò con poche parole. 117. Enea, e insieme l’infelicissima Didone, si preparano 118. per andare a caccia nel bosco, quando il Sole di domani avrà dato vita 119. ai primi inizi e avrà illuminato la città con i raggi. 120. Io una torbida tempesta con grandine commista, 121. mentre gli squadroni si affannano e circondano le gole con la rete, 122. rovescerò dall’alto e scuoterò il cielo con tutti i tuoni. 123. I compagni si disperderanno e saranno coperti da un’oscura notte: 124. Didone ed il capo Troiano raggiungeranno la stessa 125. vedetta. Io ci sarò e, se la tua volontà mi è garantita, 126. li unirò in stabile matrimonio e la dichiarerò sua; 127. questo sarà il rito nuziale.» Non contraria a colei che bramava, 128. Citerea acconsentì e rise degli inganni scoperti. Mariachiara Roma Commento - LE NOZZE SEGRETE Come preannunciato, scoppia la tempesta scatenata dall’accordo delle due dee, e Giunone disperde i loro compagni. Didone ed Enea trovano rifugio nella stessa grotta, e qui avviene l’incontro amoroso, tratteggiato in due castissimi versi, che descrivono “lampi nell’aria” e l’ululare delle Ninfe. Da notare la ripetizione del v. 165, che riprende il v. 124, tale e quale alla narrazione del piano di Giunone. In questo modo Virgilio sottolinea che ciò che era stato deciso dalla dea si sta verificando tale e quale. Quello che, finché gli eventi erano incerti, era stato un presagio di morte, ora diviene una certezza: Ille dies primus leti, quello fu il primo giorno di morte (v. 169). È certamente un giorno felice per Didone, che ormai non nasconde più a nessuno il suo amore; ma è anche l’inizio della sua fine, del destino da cui è segnata. Rimane fissa una colpa che l’intervento di Giunone non può cancellare, la colpa di un amor furtivus che ora Didone non lo considera più tale, ma un coniugium, e definisce con un diverso nome la medesima colpa (v. 172). Didone oramai non si preoccupa più di tenere segreto il suo amore, la cui notizia va, si diffonde tra i Punici e i popoli confinanti. Ai vv. 165-168 la situazione dell’unione tra Enea e Didone presenta, in una chiave sinistra, tutti gli elementi di un cerimoniale di matrimonio: Giunone è la matrona, la madre di famiglia chiamata appunto pronuba, che accompagna la sposa alle nozze e la consegna al marito; la Terra ha il luogo del pane, prodotto dei suoi frutti, sebbene possa essere citata anche per il suo carattere di dea della fertilità o, in opposizione, come potenza ctonia, la cui presenza è di cattivo auspicio; il posto delle torce nuziali è assunto dai lampi, e i gridi delle ninfe sostituiscono i canti. La Fama è la personificazione della voce pubblica, che rapidamente si diffonde. È allegoricamente descritta da Virgilio come un mostro enorme che acquisisce forza e vigore incedendo tra le genti, col corpo coperto di piume che nascondono altrettanti infaticabili occhi (vv.173-188), con innumerevoli bocche che parlano e orecchie drizzate. La raffigurazione della voce pubblica come mostro alato pare una creazione virgiliana, ma per la sua strutturazione antropomorfa si basa sulla figura omerica di Eris/Discordia. La Fama, e dunque la voce del popolo, giunge ai pretendenti di Didone un tempo respinti. Tra costoro il re dei Getuli Iarba, cui Didone si era negata. Ovviamente questa diceria non gli fa piacere. TRADUZIONE vv. 198-218 198. Questi, generato da Ammone, rapita una ninfa Garamantide, 199. cento immensi tempi nei vasti regni, cento altari 200. dedicò a Giove e aveva consacrato un fuoco sempre acceso, 201. custode eterno degli dèi; un terreno ricco del sangue 202. degli animali ed ingressi fiorenti di varie ghirlande. 203. Ed egli, delirante nell’animo e infiammato dalla sgradevole notizia 204. si dice che davanti agli altari, in mezzo ai numi degli dèi, 205. abbia implorato, supplichevole, molte cose a Giove, con le mani rivolte verso l’alto: 206. «O Giove onnipotente, a cui il popolo Mauritano, avendo 207. banchettato sui variopinti triclini, ora offre sacrifici, 208. osservi questo? Forse che, o genitore, quando scagli fulmini, 209. ti temiamo invano, e ciechi fulmini nelle nubi 210. terrorizzano i nostri cuori e inutili frastuoni li sconvolgono? 211. La donna che, errando nei nostri confini, ha eretto 212. una piccola città con il denaro, a cui una costa da arare 213. e le leggi del posto abbiamo offerto, il nostro matrimonio 214. ha rifiutato ed ha accolto Enea come padrone nei regni. 215. E adesso quel Paride, con la schiera di effemminati, 216. dopo aver allacciato il mento ed i capelli madidi con un turbante 217. della Meonia, si impadronisce del bottino: noi nei tuoi templi 218. certamente portiamo offerte e alimentiamo la vana fama.» Commento Iarba, sdegnato dal nuovo connubio, leva le braccia a Giove implorando una giustizia che lo risarcisca dell’offesa subita. E lo fa rivolgendosi al dio, chiedendo se per caso i suoi fulmini, ed il timore degli uomini siano vani. È un motivo provocatorio per indurre il dio ad intervenire. Mariachiara Roma Iarba è definito come satus Hammone, divinità egiziana identificata dai Greci e dai Romani con Giove. È infatti figlio di Giove Ammone e della ninfa Garamantide. Iarba, nella richiesta al dio-genitor, cita Paride come modello della mollezza orientale (per questo accompagnato, a detta sua, da comitatus semivirum), ma anche per aver sottratto una donna al suo legittimo sposo. La mitra che compare poco dopo era una lunga striscia di stoffa, cuoio o metallo, che poteva essere usata come cintura o arrotolata intorno al capo, come ornamento della capigliatura, con il tempo arricchita di ornamenti. A Roma fu sempre vista come elemento di abbigliamento esclusivamente femminile, qualificando i popoli che la riconoscevano anche come accessorio maschile molli ed effemminati. A Paride è paragonato dunque Enea come uomo effemminato e come colui che gli ha sottratto la regina Didone. TRADUZIONE vv. 219-237 219. Colui che implorava con tali parole e che abbracciava gli altari 220. udì l’onnipotente e volse gli occhi verso le mura 221. reali e verso gli amanti dimentichi della miglior fama. 222. Allora così si rivolse a Mercurio e gli affidò tali cose: 223. «Avanti, va’, o figliolo, chiama gli zefiri e scendi con le ali, 224. e al comandante Dardanio, che ora nella Tiria Cartagine 225. attende e non si preoccupa delle città offerte dai fati, 226. rivolgiti e, veloce, trasporta le mie parole tra le brezze. 227. La bellissima genitrice non ce lo ha promesso tale 228. e perciò lo protegge per due volte dalle armi dei Grai; 229. ma per essere colui che l’Italia, gravida di potere e fremente 230. per la guerra, porterà indietro, affinché generi un popolo dal nobile 231. sangue di Teucro e ponga sotto le leggi l’intero mondo. 232. Se alcuna gloria di così grandi imprese lo infiamma, 233. né muove sforzi per la sua stessa gloria, 234. forse che il padre invidia ad Ascanio le fortezze Romane? 235. Cosa trama? O per quale speranza si attarda nel popolo nemico 236. e non si cura della prole Ausonia e delle campagne Lavinie? 237. Che viaggi per mare; questo è il comando, questo sia il nostro avviso.» Commento Giove, udite le parole di Iarba, evidentemente ignaro dell’accordo di Giunone e Venere, diversamente di quanto aveva promesso la prima alla seconda, interviene non già per esaudire le sue preghiere, ma per ricondurre Enea al destino che è chiamato a compiere. Entrambi gli amanti sono venuti meno al dovere per loro fissato dal fato. Chiama, dunque, il messaggero degli dèi Mercurio e lo incarica di volare immediatamente da Enea per rammentargli che, non per regnare sui Punici fu salvato dalle armi achee (per due volte, contro Diomede e durante il sacco di Troia, v. 228), ma affinché reggesse l’Italia gravida di imperi e fremente di guerra (vv. 227-231). Enea ha scordato la sua missione, e l’intervento di Giove ne ribadisce l’altissima investitura. Lo stesso padre degli dèi si cura della sorte di Roma, poiché la sua non è solo una profezia, ma una promessa. Il senso del viaggio non si esaurisce al solo Enea, ma ha una prospettiva futura che gli impone di guardare al bene del figlio e a quello del Lazio e dell’Italia dopo di lui. Al v. 219 Iarba è raffigurato come tenente maras: il gesto di abbracciare gli altari è tipico di chi si rivolge alla divinità, per conferire maggior efficacia alla preghiera. Al v. 235 la città è definita inimica perché destinata ad essere rivale di Roma pdf il controllo dei traffici nel Mediterraneo. Mariachiara Roma TRADUZIONE vv. 238-258 238. Così aveva detto. Quello si accingeva ad obbedire all’ordine 239. del gran padre: e prima di tutto lega gli aurei talari ai piedi, 240. che sollevatolo con le ali o sulle acque dei mari, 241. o sulla terra ugualmente lo portano, con veloce soffio. 242. Allora afferra la verga; con questa egli evoca dall’Orco le anime 243. pallide, altre ne invia nel triste Tartaro, 244. dà e toglie sonni e apre gli occhi alla morte. 245. Contando su quella, muove i venti e attraversa le tempestose 246. nubi. E volando, già riconosce la cima e gli aridi fianchi 247. del robusto Atlante, che sostiene il cielo con la sua vetta, 248. di Atlante a cui il capo pinifero è costantemente cinto 249. dalle oscure nubi ed è percosso dal vento e dalla pioggia; 250. la neve caduta ne copre le spalle; allora i fiumi 251. precipitano dal mento del vecchio e l’incolta barba si irrigidisce per il ghiaccio. 252. Qui dapprima il Cillenio, splendente, con le ali appaiate 253. si fermò; da qui si lanciò a testa in giù con tutto il corpo 254. verso le onde, come un uccello che attorno alle coste, 255. attorno ai pescosi promontori vola dappresso alle vicine acque: 256. non altrimenti, volava tra il cielo e la terra 257. verso il litorale sabbioso della Libia (e scalfiva i venti) 258. giungendo la Cillenia prole dall’avo materno. Commento Mercurio si appresta sollecito ad adempiere al comando. Il suo movimento, ad ali tese giù dal cielo attraverso il corpo del duro Atlante che ne reca il peso, introduce una nuova pausa descrittiva dopo quella della Fama, ma il movimento di Mercurio è contrapposto a quello minaccioso della Fama, è un tenue librarsi, simile al volo di un uccello a fior d’acqua. Mercurio, dio latino del commercio e del guadagno, fu identificato con Ermes, di cui gli si attribuirono vicende mitologiche e qualità. Egli nacque sul monte Cillene, e per questo è chiamato Cyllenius (v. 252). Appena nato, secondo il mito, si fabbricò una lira con il guscio di una tartaruga e rubò gli armenti, che Apollo pascolava in Tessaglia e che egli nascose in una caverna di Pilo. Apollo, scopertolo, gli concesse di tenersi gli armenti un cambio della lira e più tardi cedette a Mercurio anche il la verga citata al v. 242 in funzione di scettro, con avvoltolati a un’estremità due serpenti. Gli offrì inoltre l’arte della divinazione inferiore, in cambio del flauto da lui inventato. Per questo Giove ne fece il proprio araldo, in grado di condurre con la sua abilità ogni cosa a buon fine. Come tale è il dio dell’eloquenza, ma anche colui che accompagna i defunti nell’oltretomba e che conduce i sogni inviati da Giove, il signore del sonno (vv. 242- 244). Viene poi descritto il monte Atlante, personificato con l’omonimo mito di Atlante, che reggeva il cielo. La descrizione è perciò allegorica, il monte è munito di una testa, delle spalle e di un mento (vv. 246-251). L’immagine dei torrenti che precipitano dal mento al seno (v. 251) riprende quella del v. 164 con amnes ruunt de montibus. TRADUZIONE vv. 259-295 259. Non appena toccò le casupole con i piedi alati, 260. nota Enea che erige fortezze e rinnova le abitazioni; 261. e aveva una spada costellata di fulvo quarzo 262. e il mantello di porpora Tiria ardeva 263. calato dalle spalle, doni che la ricca Didone 264. gli aveva fatto e ne aveva distinto il tessuto con sottile oro. 265. Immediatamente irrompe: «Tu ora disponi le fondamenta 266. dell’alta Cartagine e, sottomesso a tua moglie, una bella città 267. erigi, ahimè, dimentico del regno e delle tue imprese? 268. Lo stesso signore degli dèi per te mi ha calato dal celeste Mariachiara Roma Il dialogo che segue tra i due amanti è il confronto di ragioni antitetiche; perciò, l’agire dei due personaggi può leggersi in parallelo: Enea nolente si adegua al volere di Giove, Didone infuria e si oppone ai fati. Ai vv. 302-303 Virgilio allude alle feste che la città di Tebe celebrava periodicamente in onore di Bacco; il Cithaeron è poi un sistema montuoso tra Attica e Beozia, sede del culto di Bacco, che le donne festeggiavano con feste orgiastiche ogni tre anni. TRADUZIONE vv. 331-361 331. Così aveva detto. Quello teneva gli occhi immobili sugli ammonimenti 332. di Giove e ostinato premeva la preoccupazione sotto il petto. 333. Finalmente risponde con poche (parole): «Io mai negherò 334. che meriti la maggior parte delle cose che tu sei in grado 335. di enumerare a parole, o regina, né mi vergognerò di rammentarmi di Elissa, 336. finché sarò memore di me stesso, finché la forza vitale regge questi arti. 337. Dirò poche cose per la questione. Ed io non ho sperato di nascondere 338. ciò furtivamente (non supporre una fuga), né mai ho proteso 339. fiaccole di marito o giunsi in questi vincoli. 340. Se i fati mi avessero concesso di condurre la vita con i miei 341. auspici e di riporre le preoccupazioni di mia volontà, 342. prima di tutto la città Troiana ed i dolci resti dei miei 343. avrei onorato, le alte dimore di Priamo sarebbero sopravvissute 344. e per i vinti avrei eretto di mia mano una Pergamo rinascente. 345. Ma ora la grande Italia (mi ha ordinato) il Grineo Apollo, 346. gli oracoli della Licia mi hanno ordinato di raggiungere l’Italia; 347. questo è il mio amore, questa è la patria. Se te, Fenicia, le rocche 348. di Cartagine e la vista della città Libica meritano, 349. quale invidia c’è che i Teucri finalmente si fermino 350. su terra Ausonia? E ci sia concesso di cercare regni esteri. 351. Ogni volta che la notte nasconde le terre con umide ombre, 352. ogni volta che sorgono le stelle ardenti, la tempestosa immagine 353. di mio padre Anchise mi ammonisce in sogno e mi atterrisce; 354. me (ammonisce e atterrisce) il piccolo Ascanio e il torto del caro volto, 355. che privo del regno di Esperia e delle terre predestinate. 356. Ora anche l’intermediario degli dèi, inviato dallo stesso Giove, 357. (lo giuro su entrambi i capi) i comandi attraverso le celeri brezze 358. mi ha consegnato; io stesso ho visto il dio in una luce splendente 359. che entrava le mura e con queste orecchie ne ho udito la voce. 360. Smetti di irritare me e te stessa con i tuoi lamenti: 361. io seguo l’Italia non per mia volontà.» Commento – LA RISPOSTA DI ENEA La regina non si avvede che, nonostante tutto, Enea le è legato. Le ragioni che scuotono Didone sono ben altre che quelle di Enea: egli tiene lo sguardo fisso ai moniti di Giove, mentre lei sogna di potere almeno stringere tra le braccia un figlio nato dall’amore per lui. Enea continuamente ribadisce di non agire spontaneamente, ma spinto dal destino (non sponte, v. 361). Egli non segue l’Italia di sua volontà: lo fa perché lo vogliono gli dèi, e perché lo deve al suo popolo, che è orfano della patria; e lo deve alla memoria di suo padre, e soprattutto ad Ascanio, che merita di avere il dominio dell’Esperia che gli è destinata. Importante è poi il verso in cui, di sfuggita, Enea ribadisce di non aver mai promesso di sposarla, di non averlo mai deciso di sua iniziativa: è per la madre Venere e la regina Giunone, per la volontà degli dèi – anche in questo caso – che ha dovuto sposarla. Apollo, al v. 345, è definito Gryneus, epiteto che gli deriva dalla Grinea, città sede di uno dei suoi santuari. I responsi della Licia al verso successivo alludono al santuario di Apollo a Patara, città della Licia. Tuttavia nel poema Enea non consulta questo santuario: si tratta perciò di una mera variazione formale. Mariachiara Roma TRADUZIONE vv. 362-392 362. Già da tempo, ostile osserva colui che diceva certe cose 363. volgendo qua e là gli occhi e lo esamina tutto 364. con tacito sguardo e così infuriata gli parla: 365. «Non hai una madre divina, né Dardano è il creatore del tuo popolo, 366. traditore, ma ti ha generato su scogli duri il terribile 367. Caucaso e le tigri ircane ti hanno accostato le mammelle. 368. Dunque che nascondo, o a quali migliori cose mi riservo? 369. Forse che gemette al nostro pianto? Forse che ha abbassato lo sguardo? 370. Forse che, vinto, ha offerto le sue lacrime, o ha avuto pena di una innamorata? 371. Cosa anteporrò a cosa? Ormai nemmeno la sovrana Giunone, 372. né il padre Saturnio guarda queste cose con occhi favorevoli/imparziali. 373. Da nessuna parte è certa la fiducia. Esiliato sul lido, 374. ho accolto il misero e folle l’ho collocato a parte del mio regno, 375. e (gli) ho riportato la flotta perduta ed i compagni dalla morte. 376. Ahimè, infiammata vengo portata dalle furie! Ora l’augure Apollo, 377. ora gli oracoli della Licia, ora anche l’intermediario degli dèi inviato 378. dallo stesso Giove porta orrendi comandi attraverso le brezze. 379. È chiaro che i celesti hanno questo impegno, tale affanno 380. tormenta i tranquilli. E non ti trattengo, né smentisco quanto detto: 381. va’, segui l’Italia con i venti, cerca i regni tra le onde; 382. spero davvero che, se i giusti numi possono qualcosa, 383. in mezzo agli scogli subirai i supplizi e spesso per nome 384. “Didone” chiamerai. Io, pur lontana, ti seguirò con le oscure fiamme 385. e, quando la gelida morte avrà diviso le membra dall’anima, 386. come ombra sarò presente in ogni luogo. Sconterai le tue colpe, o disonesto; 387. io ascolterò e questa notizia verrà a me nei profondi Mani.» 388. Con queste parole interrompe il discorso a metà e, malata, 389. fugge i cieli e si allontana e si sottrae dai suoi occhi, 390. lasciandolo esitante da molta paura e che voleva dire 391. molte cose. Le ancelle la supportano e riportano le sue membra 392. svenute al marmoreo talamo e la ripongono sulle coltri. Commento – DISPERAZIONE DI DIDONE Didone non comprende il senso delle sue parole, l’ideologia di Enea non le appartiene, ella appartiene al furor e perciò stravolge il reale, agisce e pensa in base ad un impulso passionale. Nulla le importano le “scuse” (dal suo punto di vista) accampate da Enea, e lo travolge con una serie di accuse di “durezza”, insensibilità e anche ingratitudine, considerando che in fondo il profugo Enea, assieme al suo popolo, era stato accolto con molta ospitalità dalla regina. Lo rimprovera di non essere figlio di una divinità, ma del Caucaso, e di esser stato allevato dalle tigri ircane: il Caucaso è una nota catena montuosa asiatica, fra il Mar Nero ed il Mar Caspio, mentre l’Ircania è la vasta regione selvaggia oltre la Media e la Persia. Sono dunque due iperbolici riferimenti ai margini incivili del mondo, e con ciò Didone lo accusa di non essere un nobile discendente divino, ma di esser nato in questi luoghi incivili, e perciò di essere egli stesso un incivile e selvaggio. Giunge addirittura a definire horrida iussa (v. 378) gli ordini portati da Mercurio e invoca pii Numi contro Enea, quando in realtà empio è il suo atteggiamento. Forse la regina ha già stabilito di togliersi la vita, poiché i neri fuochi, con cui afferma che, anche se lontana, inseguirà Enea (v. 384), sembrano preannunziarne la morte. Ella, infatti, si augura che la notizia della morte di Enea, avvenuta dopo infinite sofferenze, la raggiunga tra i Mani sottoterra, ossia le anime dei defunti che dimorano nell’inferno. Mariachiara Roma TRADUZIONE vv. 393-449 393. Ma il giusto Enea, sebbene desideri lenire la sofferente 394. consolandola e respingere gli affanni con le parole, 395. dolendosi molto ed (avendo) il cuore scosso da tanto amore, 396. esegue tuttavia gli ordini degli dèi e torna alla flotta. 397. Allor sì che i Teucri si adoperano e conducono le nobili 398. navi lungo tutta la costa. Galleggia la sontuosa nave 399. e portano i remi frondosi e le travi dei boschi non lavorate 400. per l’ansia della fuga. 401. Li scorgeresti migrare e correre per tutta la città, 402. come le formiche quando saccheggiano una ingente quantità 403. di farro, memori dell’inverno, e lo ripongono nella tana: 404. la nera schiera va per i campi e insieme trasportano il bottino 405. tra le erbe per l’angusto sentiero, in parte trascinano i più cospicui 406. raccolti sostenuti sulle spalle, parte radunano le schiere 407. e limitano gli indugi, ogni sentiero arde per l’impresa. 408. Quale sentimento avevi allora, o Didone, osservando queste cose, 409. e quali gemiti emettevi, quando osservavi dall’alto della rocca 410. le coste ardere d’intorno e vedevi tutto il mare che veniva 411. sconvolto da tanto clamore dinanzi ai tuoi occhi! 412. O malvagio Amore, a cosa non obblighi i cuori mortali! 413. È obbligata di nuovo ad andare via in lacrime, a tentare di nuovo 414. con le preghiere, e a piegare, supplice, gli animi all’amore, 415. per non lasciare invano, destinata alla morte, qualcosa di intentato. 416. «O Anna, lo vedi affrettarsi attorno a tutto il lido; 417. si sono radunati da tutte le parti; già la vela richiama le brezze, 418. ed i marinai felici pongono le ghirlande sulle poppe. 419. Se ho potuto aspettarmi questo dolore così grande, 420. potrò anche sopportarlo, o sorella. Tuttavia, per me misera, o Anna, 421. esegui questa sola cosa; giacché quel perfido te sola 422. rispettava, anzi a te (sola) confidava i segreti nascosti; 423. tu sola avevi conosciuto i teneri tempi e le occasioni dell’eroe. 424. Vai, o sorella, e da supplice parla all’insolente nemico. 425. Non io giurai con i Danai nell’Aulide di demolire 426. il popolo troiano, né ho inviato la flotta a Pergamo, 427. né ho violato le ceneri o l’anima del padre Anchise: 428. perché si rifiuta di ficcarsi nelle dure orecchie le mie parole? 429. Dove corre? Dia quest’ultimo regalo alla misera amante: 430. che aspetti (almeno) una facile fuga ed i venti che li trasportino. 431. Ormai non imploro più l’antica unione, che egli ha tradito, 432. né che si privi del bel Lazio e rinunci al regno; 433. io chiedo del tempo vacuo, quiete e spazio dal furore, 434. finché la mia sorte insegni, a me sconfitta, a soffrire. 435. Io imploro quest’ultima grazia (compatisci tua sorella), 436. che quando me l’avrà data, restituirò accresciuta alla mia morte.» 437. Implorava per tali cose, e la miserissima sorella porta e riporta 438. tali pianti. Ma egli non è commosso da alcun 439. pianto o non ode alcune voci docili: 440. i fati glielo impedivano e il dio ostruiva le placide orecchie dell’eroe. 441. E come le boree Alpine, quando una robusta quercia 442. dall’annoso legno, con le raffiche ora qui ora lì, gareggiano 443. tra loro per sradicarla; e va lo stridore e le alte 444. fronde ricoprono il terreno, una volta abbattuto il tronco; 445. la stessa (quercia) si avvinghia alle rocce, e quanto (tende) verso 446. le brezze eteree con la cima, tanto tende verso il Tartaro con la radice: Mariachiara Roma Commento – PREPARAZIONE DELLA MORTE Quando Didone decide di togliersi la vita, stabilisce accuratamente come e quando e, celando le sue reali intenzioni, si rivolge ancora una volta alla sorella Anna. Le rivela di avere trovato il modo di liberarsi dall’amore per l’eroe troiano: affidandosi ai riti di una maga potrà allontanare da lei il pensiero di lui. Le chiede poi di preparare all’interno della reggia un rogo, sul quale porre il loro talamo e le armi e ogni ricordo di Enea. Dopo aver detto queste cose tacque. Un pallore immediatamente le invade il volto (v. 499): oramai la morte l’avvince. Al v. 481 gli Etiopi sono i “facce bruciate”, i negri, gli abitanti della parte del continente africano che si estende a sud del Nilo. Al v. 486 i commentatori hanno contestato l’interpretazione secondo cui il papavero soporifero viene dato in cibo al serpente, in quanto il suo compito doveva essere di vigile sorveglianza. È probabile che si possa intendere, con il miele, come allusivo ad un cibo dolce e prelibato, in accordo con le testimonianze antiche; in alternativa, il serpente potrebbe essere di quando in quando addormentato dalla sacerdotessa, forse per poter ella stessa accostarsi ai frutti di cui esso era a guardia. È stato inoltre osservato che il papavero è fra gli elementi ritornanti nel contesto magico, in particolare ove questo preveda esseri mostruosi con compito di guardiani, che può risultare necessario ammansire per tenere sotto controllo. Al v. 489 poi, nella tradizione letteraria la capacità di fermare il corso dei fiumi e di invertire il corso degli astri è la manifestazione per eccellenza del potere magico. TRADUZIONE vv. 504-521 504. Ma la regina, eretta la pira nella dimora interna sotto 505. all’aperto (sotto il cielo lett.) con numerosi rami di pino e con leccio tagliato, 506. riveste il luogo di ghirlande e lo incorona con fogliame 507. funereo; le spoglie e una spada abbandonata e la sua 508. effigie pone sul letto, per niente ignara del futuro. 509. D’intorno si ergono gli altari e la sacerdotessa, sciolti i capelli, 510. con gran voce invoca trecento volte gli dèi, l’Erebo ed il Caos, 511. la trigemina Acate, i tre aspetti della vergine Diana. 512. Lei stessa aveva anche sparso le linfe simili alle fonti dell’Averno 513. (e mietute con le falci bronzee in vista della luna, 514. vengono cercate le erbe lanuginose con latte di nero veleno; 515. e viene cercato l’amore strappato dalla fronte di un cavallo 516. che nasce e sottratto alla madre), 517. e (aveva sparso) la macina; e con le devote mani presso gli altari, 518. tolto un piede dai calzari, in una veste sciolta, 519. la moritura chiama a testimoni gli dèi e le stelle complici 520. del fato; allora prega se ci sia qualche nume giusto e memore 521. che abbia a cuore gli amanti dal patto non corrisposto. Commento – RITI SEGRETI E MAGIA Virgilio descrive minuziosamente i rituali condotti da Didone, la sua meticolosa preparazione alla morte che ne amplifica la profonda tristezza. La precisione dei gesti cozza contro il vuoto verso cui tali riti sono diretti. I versi sono così intrisi di rituali e magia che al v. 510 la sacerdotessa invoca ter decem gli dèi, trecento volte, un numero probabilmente suggerito dalla valenza magica attribuita al numero tre e ai suoi multipli: vale dunque per un appello globale ai demoni, conosciuti e sconosciuti al celebrante. La valenza simbolica del numero tre torna al v. 512 con tergemina Hecate e tria ora. Ecate era la dea della magia e degli incroci ed era la potente signora dell'oscurità, regnava sui demoni malvagi, sulla notte, la luna, i fantasmi, i morti. Era invocata da chi praticava la magia nera e la necromanzia. Dea degli incantesimi, degli spettri e protettrice degli incroci di tre strade, in quest'ultimo aspetto essa è raffigurata come triforme appunto, e le sue statue venivano poste negli incroci a protezione dei viandanti: per questo dai romani era chiamata Trivia. Ecate veniva associata anche ai cicli lunari, così come avveniva con altre divinità femminili: Perseide rappresentava la luna nuova, Artemide/Diana la luna crescente, Selene la luna piena ed Ecate la luna calante. Per questo motivo i suoi tre aspetti sono detti da Virgilio tria ora virginis Dianae. Mariachiara Roma l triplice aspetto di Ecate, terrestre, lunare e ctonia, si riflette nell’iconografia, dove spesso era raffigurata con 3 teste o 3 corpi. Quanto alla procedura secondo cui Didone utilizza latices simulatos fontis Averni (v. 512), l’efficacia magica dell’acqua scaturita da fonti infere poteva essere acquisita da un’acqua originata da una sorgente comune, purché questa fosse stata assunta come equivalente di quella. Si tratta di un procedimento analogo a quello che permette l’utilizzazione di effigies in luogo di persone reali, come per il v. 508. Ai vv. 515-516 si fa riferimento all’ippomane (in greco), un’escrescenza carnosa che sarebbe stata sulla fronte del puledro appena nato, e che la madre si affrettava a divorare. Era ritenuto di grande efficacia nei riti magici aventi a oggetto la passione amorosa. Quanto alla procedura secondo cui Didone sparge macina (molam, v. 517), la vittima sacrificale, prima di essere uccisa, veniva “immolata”, e cioè il suo capo era cosparso di mola salsa, un miscuglio di sale e di farro, tostato e macinato. Quanto alla descrizione dell’abbigliamento di Didone al v. 518, i piedi scalzi caratterizzavano i riti magici, perché assicuravano un contatto immediato con la terra e le forze infernali. Conservando un solo calzare però, Didone avrebbe avvinto Enea mentre liberava sé stessa: si suppone perciò che il piede scalzo fosse il sinistro. Quanto alla veste sciolta, secondo quanto spiega Servio, nel sistema rituale la condizione dell’anima e del corpo è pari: ciò che non può esser fatto direttamente con l’anima, viene fatto con il corpo: in questo senso Didone scioglie ogni legame con il corpo, per non accostarsi alle divinità con l’animo legato in qualche sua parte. TRADUZIONE vv. 522-553 522. Era notte e i corpi stanchi coglievano un placido 523. sopore per le terre e le selve e le indomite acque 524. si erano acquietate, quando le stelle si volgono a metà del corso, 525. quando tace ogni terra, e le pecore e gli uccelli variopinti, 526. quelli che occupano i larghi stanghi limpidi e le campagne 527. irte dai cespugli, adagiati nel sonno sotto la silente notte. 528. [lenivano le pene e i cuori erano dimentichi delle fatiche] 529. Ma non la Fenicia, infelice nell’animo, né mai 530. si libera al sonno, o accoglie la notte con il cuore 531. o con gli occhi: le ansie aumentano e l’amore infuria 532. risollevandosi nuovamente e oscilla nel grande ardore delle passioni. 533. Così prosegue fino a tal punto e così tra sé nel cuore riflette: 534. «Ecco, che faccio? Forse che di nuovo derisa affronterò i vecchi 535. pretendenti, e supplice chiederò le nozze dei Nomadi, 536. che io già tante volte ho disdegnato come mariti? 537. Dunque seguirò le flotte Iliache e gli infimi ordini 538. dei Teucri? Forse perché è utile (a loro) esser stati confortati prima dal mio aiuto 539. e resta ben salda la riconoscenza di un vecchio evento nei memori! 540. Ma chi, fa’ che lo voglia, permetterà o accoglierà me, odiata, 541. nelle superbe navi? Ahimè, non sai tu, infelice, né ancora 542. ti accorgi degli spergiuri del popolo di Laomedonte? 543. Cosa dunque? Sola accompagnerò i marinai che gioiscono per la fuga 544. O attorniata da ogni Tiro e dalla schiera dei miei 545. mi precipiterò, e coloro che a stento ho strappato dalla città Sidonia 546. spingerò di nuovo in mare ed ordinerò di dare le vele ai venti? 547. Suvvia, muori, come meriti, e respingi il dolore con il ferro. 548. Tu, vinta dalle mie lacrime, tu per prima con questi mali, 549. o sorella, aggravi (me) furente e mi offri al nemico. 550. Non mi fu concesso di trascorrere la vita priva di nozze 551. senza colpa, all’uso delle fiere, e di non toccare tali affanni. 552. Non è stata custodita la fiducia promessa alle ceneri di Sicheo.» 553. Quella irrompeva nel cuore con sì grandi domande. Mariachiara Roma Commento – L’ULTIMA VEGLIA DI DIDONE L’agitazione della regina fa da contrasto con il placido sonno che avvolge i Troiani e tutte le creature (vv. 522-528); ella però si è posta al di fuori della natura e del mondo, è oltre, al di là, in un luogo dove domina solo la sua disperata rabbia e il suo amore deluso. Al v. 542 è citato il re Laomedonte, che si era reso colpevole di un doppio spergiuro nei confronti di Apollo e Poseidone e di Ercole: ricordare dunque la discendenza dei troiani da Laomedonte era dunque accusarli di appartenere a una stirpe di fedifraghi. La genealogia omerica, infatti, permetteva di disgiungere la vicenda dei discendenti di Enea, discendente dal secondogenito di Troo, dai discendenti del primogenito Ilo, e dunque dal figlio di lui, lo spergiuro Laomedonte. TRADUZIONE vv. 554-583 554. Enea sull’alta poppa, già sicuro di partire, 555. coglieva il sonno, già ben disposte le cose. 556. A costui si mostra in sogno l’immagine di un dio 557. che ritorna con lo stesso volto e nuovamente così pareva ammonirlo, 558. ogni cosa simile a Mercurio, la voce e il colore 559. e i capelli biondi e le membra bellissime per la giovinezza: 560. «O figlio di una dea, puoi prolungare il sonno in questa situazione, 561. e non vedi i pericoli che poi ti stanno attorno, 562. folle, né senti i favorevoli zefiri spirare? 563. Quella medita inganni ed una empietà oscura nel cuore, 564. pronta a morire, e agita i vari ardori delle passioni. 565. Non fuggi da qui veloce, finché c’è l’occasione per affrettarsi? 566. Presto vedrai il mare venir sconvolto dalle navi ed i selvaggi 567. volti risplendere, e le coste ardere per le fiamme, 568. se Aurora avrà toccato te che t’attardi con queste terre. 569. Suvvia, va’, tronca gli indugi; la femmina è cosa sempre 570. mutabile e varia». Così detto, si mischiò con l’oscura notte. 571. Allora in verità Enea atterrito dalle improvvise ombre 572. rapisce il corpo dal sonno e sprona i compagni: 573. «O uomini, svegliatevi in fretta, e sedetevi sulle travi; 574. liberate le vele in fretta. Un dio mandato dall’alto dei cieli 575. ecco di nuovo mi sprona ad affrettare la fuga e ad incidere 576. le contorte funi. Noi ti seguiamo, o beato degli dèi, 577. chiunque tu sia, e di nuovo ci prepariamo gioendo ai tuoi ordini. 578. O mite, assistici e aiutaci, e porta le stelle propizie 579. nel cielo». Così disse e fulmineo estrae la spada 580. dalla guaina e, stretta la lama, colpisce le corde. 581. Nel contempo tutti hanno lo stesso ardore, si precipitano e corrono: 582. hanno abbandonato la costa, il mare si nasconde sotto le navi, 583. affaticati agitano le schiume e spazzano via il mare. Commento – IMPROVVISA PARTENZA DI ENEA Come al principio del libro, all’inquietudine notturna di Didone si oppone la quiete di Enea. Gli dèi temono che il gesto estremo che si prepara a compiere Didone possa dissuadere Enea dal partire: Mercurio gli appare perciò in sogno, e lo incita a non tergiversare più, a partire subito, nel cuore della notte, a guardarsi dalla regina stravolta dall’ira. Il pius Enea, atterrito, strappa i compagni dal riposo e ordina loro di salpare immediatamente da Cartagine, di affrettarsi ai remi e di dare le vele ai venti (vv. 571-580). Mariachiara Roma 654. ed ora la mia grande immagine andrà sotto terra. 655. Ho fondato una splendida città, ho visto le mie mura, 656. dopo aver vendicato il marito, ho garantito fatiche al fratello nemico: 657. felice, oh troppo felice (sarei), se soltanto le navi 658. Dardanie mai avessero toccato le nostre coste» 659. Così disse, e premuto il volto sul letto «moriremo non vendicati, 660. ma moriamo» continuò «così, così giova andare nelle ombre; 661. il crudele Dardano beva con gli occhi questo fuoco 662. dall’alto, e porti con sé i nostri auguri di morte». 663. Aveva parlato, e le compagne in vezzo a tali parole 664. la vedono crollata sulla lama, e (vedono) la spada 665. sputante e le mani sparse dal sangue. Le urla giungono agli alti 666. palazzi; la Fama infuria per la città sconvolta. Commento – MORTE DELLA REGINA DIDONE Con la scusa di andare a chiamare Anna per compiere il rito che si erano proposte, Didone allontana da sé la nutrice (vv. 634-340). Da sola, invasata, percorre le stanze del palazzo sino a dove la pira per il rogo è stata eretta. Indugia un poco Didone, si distende sul letto e si abbandona ai dolci ricordi che quegli oggetti ammucchiati recano con sé. Il suo pensiero rimane, tuttavia, fisso nel suo proposito di morte, anzi le giova pensare che, da lontano, Enea potrà scorgere il funesto presagio del suo rogo (vv. 661-662). Quindi, mentre le ancelle assistono inermi, dopo un lungo e straziante lamento con il quale si congeda dalla vita e dal mondo, si getta sulla spada di cui aveva fatto dono all’amante, a suo tempo. La Fama – ancora lei – corre veloce attraverso la regia e per la città. Didone consuma il suicidio sull’altare preposto al rogo per fuggire il dolore maledicendo l’intera stirpe di Enea e per ricongiungersi infine con il primo amore nell’aldilà. Al v. 632, il nome della nutrice di Sicheo, Barce, ricorda, non a caso, quello della famiglia di Annibale. Al v. 635 Didone istruisce la nutrice ad affrettare Anna a cospargersi il corpo di lympha fluviali, in quanto l’accostarsi ai sacrifici richiedeva una preventiva purificazione e abluzioni. Quando all’ordine alla stessa nutrice di coprirsi le tempie con una benda, Virgilio trasferisce al mondo omerico la pratica sacrificale romana, secondo la quale la vittima sacrificale aveva il capo ornato di una benda attorno alla fronte, la vitta. Il Iovi Stigio al v. 638 è Dite, figlio di Cronos/Saturno e quindi fratello di Giove, signore degli inferi e delle ricchezze sotterranee, al pari del suo equivalente greco Plutone, il cui nome allude proprio a questa ricchezza. In quanto signore degli inferi è connotato da un epiteto derivato dalla celebre palude Stigia. TRADUZIONE vv. 667-705 667. Di lamenti e gemiti e di un femmineo urlo 668. tremano i tetti, il cielo rimbomba per i grandi lamenti, 669. non diversamente che, entrati i nemici, tutta Cartagine 670. precipitasse o l’antica Tiro, e le fiamme furenti 671. ruotassero per i tetti degli uomini e degli dèi. 672. La sorella atterrita ascoltò e terrorizzata in una corsa affannosa, 673. rovinandosi il volto con le unghie e il petto con i pugni, 674. corre tra la folla e chiama la morente con il suo nome: 675. «O sorella, era questo quel (tuo disegno)? Mi ferivi con l’inganno? 676. Questo preparavano per me questo rogo, questo fuoco e questi altari? 677. Abbandonata, di che mi lamenterò prima? Forse che, morendo, 678. hai disprezzato tua sorella come compagna? M’avessi chiamata al medesimo fato: 679. lo stesso dolore e la stessa ora avrebbe preso entrambe con la lama. 680. Anzi, con queste mani l’ho disposto e con la mia voce ho invocato 681. gli dèi patrii, così che, crudele, fossi posta lontana da te. 682. Hai ucciso, sorella, te e me, ed il popolo e i padri 683. Sidonii e la tua città. Concedetemi che con le acque le ferite Mariachiara Roma 684. lavi via e, se qualche ultimo respiro erra ancora, 685. che lo colga con la mia bocca». Così detto aveva scalato gli alti gradini 686. e scaldava con un abbraccio la sorella mezza morta al petto 687. con un gemito e asciugava il fosco sangue con la veste. 688. Ella, tentando ancora una volta a sollevare gli occhi pesanti, 689. muore; la ferita piantata sotto il petto stride. 690. Per tre volte, sollevandosi e poggiata su un gomito si levò, 691. per tre volte si riversò sul letto e con gli occhi che vagano verso l’alto 692. cielo chiese la luce e, trovatala, gemette. 693. Allora l’onnipotente Giunone, impietosita dal lungo dolore 694. e dall’ardua morte, manda già dall’Olimpo Iride, 695. affinché liberasse la sua anima che combatteva e le membra incatenate. 696. Infatti, poiché non per il fato, né per morte meritata periva, 697. ma da disgraziata prima del tempo e infiammata da immediato furore, 698. Proserpina non le aveva ancora strappato il capello biondo 699. dal capo e aveva condannato la sua testa all’Orco Stigio. 700. Dunque la rugiadosa Iride con le ali crocee, trascinando 701. per il cielo mille diversi colori verso il sole, 702. discese in volo e si fermò sul suo capo: «Io, comandata, questo 703. sacro a Dite porto e ti libero da questo corpo». 704. Così disse e con la destra le recide un capello: e insieme tutto 705. il calore si dissolse e la sua vita si dileguò nei venti. Commento – DISPERAZIONE DELLA SORELLA ANNA Le grida delle compagne che hanno assistito alla morte disperata di Didone, nonché la stessa Fama, annunciarono il fatto e rimbombarono per tutto il regno, di casa in casa fino alla lontana Tiro che i natali donò a Didone, richiamando attorno al suo corpo i sudditi e la fedele sorella Anna. Questa accorre fremente battendosi il petto, e non riesce a darsi pace per non aver compreso le reali intenzioni della sorella. Mentre Didone giace in una lenta agonia, Giunone, commiserandola, invia Iride a scioglierla dal suo corpo mortale, a recidere l’ultimo capello che ancora la ancorava alla vita terrena (v. 704), liberandola così definitivamente dal profondo dolore scaturito da questo sfortunato e maledetto amore. Sull’ultimo respiro di Didone morente si chiude il IV libro. Le preghiere della regina saranno accolte dagli dèi, ma i travagli, che ha augurato a Enea e ai suoi discendenti, non faranno che contribuire alla gloria di Roma e del Lazio. La scena costituisce l’ultimo atto della tragedia: l’eroina, avendo scombussolato l’ordine delle cose, i fati stabiliti per Enea, deve uscire di scena, e l’unica conclusione dignitosa che le resta è il suicidio. La morte della regina contiene significati simbolici, perché avviene tra i ricordi di Enea, ed è provocata dalla spada dell’eroe. La regina si dà così la morte in modo virile, avendo coltivato però un sentimento tutto femminile; abbandona la vita tra la pietà degli dèi e la commiserazione del suo popolo, che accompagna l’evento nel pianto, come fa il coro di una tragedia. Con il sacrificio di Didone si ristabilisce l’ordine e il destino di Enea si può compiere. Nella storia di Didone l’amore diventa forza vitale, ma anche elemento che distrugge e genera furore e follia. La scena chiude la parentesi di Cartagine, e nella maledizione finale della regina “exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor” si svela l’origine dell’odio fra Romani e Cartaginesi, come se tutto fosse generato dalla sofferenza e dal dolore della regina. L’”ultor”, il vendicatore, è Annibale, il condottiero dei Cartaginesi che, giunto in Italia, metterà in seria difficoltà Roma e infliggerà durissime sconfitte. Il dolore delle donne, le loro urla e i loro gemiti per la morte della regina, riecheggiano sì tanto per le città che vengono paragonate (ai vv. 669-671) alla distruzione di Cartagine o di Tiro ed agli incendi dei tetti hominum et deorum. Iride svolge un ruolo fondamentale nella morte di Didone: figlia di Taumante e dell’oceanina Elettra, è la personificazione dell’arcobaleno, che unisce il cielo e la terra. Funge dunque da messaggera occasionale degli dèi, in particolare di Zeus e Giunone. Costei, come intermediaria tra cielo e terra appunto, è chiamata a svolgere l’importante compito di tagliare il capello che teneva ancorata Didone alla terra. Mariachiara Roma Alla vittima destinata al sacrificio, infatti, si recideva un ciuffo di peli sulla testa, ed a colui che stava per morire compiuto il suo tempo, quasi fosse una vittima sacrificata alle divinità dell’oltretomba, la stessa Proserpina recideva questa piccola ciocca.