Scarica urbanizzazione e globalizzazione e più Appunti in PDF di Sociologia solo su Docsity! Studi urbani contemporanei Scuola di Mancester Elaborazione metodo della Network analysis (anni 50 /60 del ‘900 migrazioni e realtà urbana in Africa centrale, continuità tra città e campagna, nuove forme di tribalità. Metodo utilizzato in seguito anche in Europa a Londra Elisabeth Both studia le relazioni familiari a maglie strette e a maglie larghe Scuola di Chicago primi decenni del ‘900 Ricerche su: Hobo, migranti, delinquenza giovanile urbana, ghetti ebraici, taxi dance hall. L'antropologia urbana e lo studio delle società complesse La società urbana contemporanea Città marginale Città globali Non luoghi Johannesburg Nairobi Bombay […] i ricercatori dell’Onu stimano in almeno 921 milioni gli individui che abitavano gli slum nel 2001, ormai diventati più di un miliardo nel 2005. Secondo UN-Habitat, le più alte percentuali di abitanti di slum si trovano in Etiopia (la cifra sbalorditiva del 99,4 percento della popolazione urbana), in Ciad (anche qui il 99,4 percento), in Afghanistan (98,5 percento) e in Nepal (92 percento). Bombay, con dieci o dodici milioni di occupanti abusivi e abitanti di casamenti, è la capitale globale dello slum, seguita da Città del Messico e Dhaka (tra i nove e i dieci milioni ciascuna), e poi Lagos, Il Cairo, Karachi, Kinshasa- Brazzaville, San Paolo, Shanghai e Delhi (tra i sei e gli otto milioni ciascuna). Seul Korea San Paolo Brasile New York Certo, non tutti i poveri urbani vivono in slum, né tutti gli abitanti degli slum sono poveri; anzi, e Challenge of Slum evidenzia che in alcune città la maggioranza dei poveri vive in realtà al di fuori degli slum propriamente detti. Anche se le due categorie nella maggioranza dei casi evidentemente si sovrappongono, il numero dei poveri urbani è considerevolmente più alto. Approssimativamente un quarto degli abitanti urbani (secondo un’indagine del 1988), inoltre, vive in uno stato di poverta «assoluta» quasi inimmaginabile – sopravvivendo in qualche modo con un dollaro o meno al giorno. Se i dati Onu sono esatti, il reddito familiare pro capite tra una città ricca come Seattle e una molto povera come Ibadam può arrivare a 739 a 1 una disuguaglianza incredibile. E’ difficile procurarsi dati statistici precisi, perché le popolazioni povere degli slum sono spesso deliberatamente, e talvolta massicciamente, sottostimate dalle autorità. Nei tardi anni Ottanta, per esempio, Bangkok aveva un tasso u ciale di povertà appena del cinque percento, ma le inchieste hanno appurato che quasi un quarto della popolazione (1,16 milioni) viveva disseminato tra mille slum e campi di irregolari. Analogamente, il governo del Messico dichiarava negli anni Novanta che solo uno su dieci abitanti di città era realmente povero, nonostante gli incontestati dati Onu in base ai quali quasi il quaranta percento viveva con meno di due dollari al giorno. Le statistiche indonesiane e malaysiane nascondono anch’esse, notoriamente, la povertà urbana. La cifra uficiale per Giacarta, dove la gran parte di ricercatori stima che un quarto della popolazione sia costituita da abitanti poveri di kampung, è semplicemente inverosimile: meno del cinque percento. In Malaysia, il geografo Jonathan Rigg lamenta che la linea ufficiale della povertà «non tiene conto del costo più alto della vita urbana» e dà deliberatamente cifre inferiori alla realtà riguardo ai cinesi poveri. Il sociologo urbano Erhard Berner, da parte sua, ritiene che le stime sulla povertà relative a Manila vengono offuscate di proposito e che almeno un ottavo della popolazione degli slum non viene inserita nel conteggio. Il SUQ a Torino: Spazio urano e identità marocchina K halid ne parla come di un s u q: «Il punto di incontro che abbiamo qua è Porta Palazzo, il suq. Questo suq, questo mercato, è stato danneggiato da contrabbandieri, ma la persona semplice è qua che viene a raccogliere informazioni. Il migrante in Italia ha scoperto che l’uomo europeo è pieno di informazioni attraverso i media elettronici, l’immigrato viene in questa piazza, nel mercato, non per invaderlo ma per cultura. Noi siamo soggetti all’informazione e alla politica [...] il suq unisce questa gente disperata, spec- chia la nostra faccia e la nostra disperazione. Porta Palazzo non è dello straniero, è di quello che cerca la spesa, i vestiti, le informazioni. Porta Palazzo unisce tutte le periferie di Torino, con le sue chiese, le sue moschee, i suoi odori di Medio Oriente». Saskia Sassen è un'importante studiosa delle metropoli. ('Le città globali', UTET, Torino, 1997) Le citta hanno visto cambiamenti massicci a livello: economico, spaziale e sociale per adattarsi alle loro funzioni di «postazione di comando» dal punto di vista del mercato, della finanza e della tecnologia informatica, ma sono diventate anche siti di produzione e innovazione culturale. Le città globali sostiene la Sassen sono la più grande novità della globalizzazione esse tendono a sostituire gli Stati, creando una nuova politica urbana, nuove classi, nuovi conflitti. Queste hanno due aspetti da prendere in considerazione l’uno economico e l’altro politico. Dal punto di vista dell’economia, una città globale ha tutte le capacità, le risorse per maneggiare le operazioni globali delle imprese e dei mercati nazionali e internazionali, ma mancano nuove norme che regolino il diffondersi dell’economia globale. (Oggi il numero di città globali si è allargato a circa 40). L'aspetto politico è rappresentato dalla competizione conflittuale per lo spazio urbano. Vi saranno più ricchi e più poveri, e una maggior quota di classe media impoverita, scompariranno le piccole attività economiche che una volta erano la presenza dominante in queste città. Il conflitto sarà un elemento, secondo la studiosa in continuo aumento, ad esempio studi nella città di New York e di Los Angeles hanno dimostrato lo sviluppo di una forma di criminalità piccola e diffusa come la violenza dello svantaggiato sullo svantaggiato. Nuovi tipi di razzismo e di guerra urbana sporadica e parziale, che comprende anche lo spazio delle prigioni. La città globale secondo la sociologa é una nuova zona di frontiera: dove vi si incontrano protagonisti di operazioni economiche globali dove vi si incontrano quelli che non hanno potere, gli svantaggiati, gli outsiders, le minoranze discriminate. Tokyo tra globalizzazione, tradizione e natura L. Urru, Il fantasma tra i ciliegi. Topogra e di primavera a Tokyo, Liguori, Napoli 2007. “Gli anni Ottanta e Novanta hanno visto il dibattito politico porre un’enfasi sulla così detta internazio- nalizzazione del paese, e del paese attraverso la capitale. Ciò tuttavia non ha a atto prodotto l’apertura cosmopolita osservabile altrove. Tokyo potrà anche essere con Londra e New York una delle Città globali come vuole Saskia Sassen ma certamente «resta molto insulare» nell’atteggiamento verso l’alterità, tutt’altro che magnanimo. La visibile occidentalizzazione del paesaggio urbano tokioita è un altro risultato di strate- gie di appropriazione del diverso che molto hanno caratterizzato della storia giapponese, e ben prima della revoca del volontario isolamento nazionale nella seconda metà del XIX secolo. L’auspicio recente di una internazionalizzazione anziché portare una ventata di pluralità è apparso a molti osservatori, giapponesi e non, l’espressione di una politica conservatrice basata su un rinnovato orgoglio nazionale: di fatto l’invito ad assimilare la diversità in modi integrali (perciò eliminandola) e a consolidare la presenza della cultura giapponese nel mondo. L’avvolgimento dello spazio metropolitano in forme occidentali, dunque, mentre soddisfa le preoccupazioni riguardo il prestigio internazionale della città, costituisce anche un attento pat- tugliamento dei con ni tra ciò che è presumibilmente indigeno e ciò che non lo è; nel momento stesso in cui il diverso viene adottato come proprio, la pericolosità che lo distingue viene ridotta entro un ordine simbolico familiare, sollievo alle ansie sulla propria identità. Salvate le apparenze di una città aperta agli in ussi esterni, la vita a Tokyo avrebbe ribadito in modi alle volte perentori che «nell’architettura giappo- nese ciò che si vede spesso non c’è, mentre è di gran lunga più presente ciò che in realtà non si vede». [...] Esistono città globali in Italia? A questa domanda risponde la sociologa Antonietta Mazzette, sociologa del Centro Studi Urbani – Università di Sassari. La studiosa italiana sostiene che l'Italia non ha città globali perché non ci sono i grandi centri della finanza, non c'é l’alta tecnologia, non ci sono i grandi flussi di persone che abbandonano le campagne per rinchiudersi nelle periferie, come ad esempio Shangai, e non c'é neanche il numero di abitanti di altre megalopoli. Le città italiane hanno una identità forte e una lunga storia alle spalle, rispetto alle altre città del mondo. Nelle città italiane possiamo osservare alcuni attori politici informali di cui parla la Sassen che hanno grandi poteri, ad esempio alcune imprese multinazionali: se Carrefour o Auchan vogliono aprire un ipermercato non hanno bisogno di rispettare piani regolatori o di partecipare a negoziazioni con attori politici riconosciuti. Ci sono poi attori non formali che però nelle città italiane non riescono ancora ad avere un ruolo importante: ad esempio le comunità dei migranti, che sono un universo molto plurale per storie, lingue e culture e, salvo il caso dei cinesi a Milano (Milano è l’unica che si avvicina alle «città globali» individuate da Saskia Sassen) , dove si sono appropriati di grandi spazi urbani, non sono ancora un attore riconoscibile. Nel 1992 Marc Augè pubblica “nonluoghi”, L’autore, etnologo francese, in questo libro ha inaugurato l’interesse per lo studio antropologico delle “società complesse”, quelle società in cui vive l’occidente ed il cosiddetto occidentale. In particolare si è rivolto a determinati luoghi di “transito” in cui l'occidentale si trova a stare, essi sono sempre più presenti nelle nostre società, e caratterizzano sempre più le nostre vite tutti quei posti in cui mancano queste caratteristiche, spesso identificati con luoghi di passaggio come aeroporti, autostrade, svincoli, ipermercati, ma anche i mezzi di trasporti, i campi profughi, le grandi fiere campionarie. Chi passa per il non luogo sa che l’esperienza in quel particolare posto è precaria, provvisoria, senza alcuna possibilità di mettere radici, assolutamente asettico ed impersonale. Hanno un passato e un futuro Sono costruiti su un’idea di spazio standard comune a tutto il “mondo commercializzato”, uno spazio che sembra disordinato, ma non è così, perché se lo si osserva con attenzione si vede che è calcolato con precisione maniacale in ogni suo aspetto, dai volumi alle luci, alla lunghezza dei percorsi, dall’intensità dei suoni ai luoghi di sosta, ai sistemi informativi che orientano il visitatore. Sono spazi efficienti, moderni e coerenti dal punto di vista ergonomico, dalle porte automatiche, al condizionamento del clima, addirittura alle aree odorose che identificano i vari comparti. Sono anche spazi omogeneizzati che offrono – con la formula del franchising – la ripetizione infinita di strutture commerciali simili tra di loro che devono creare l’illusione di poter scegliere. Nei nonluoghi, si comunica con una neolingua, si “parla” attraverso i simboli, vale a dire, la segnaletica unificata, le parole d’ordine, vietato fumare, non superare la striscia bianca, svoltare a destra, vietato sostare, eccetera. Le voci preregistrate, suadenti e femminili specialmente quando contengono inviti, nella lingua del luogo che contiene il nonluogo e sempre più spesso in un inglese basico. In questo modo nei nonluoghi non c’è spazio per i ruoli personali. Tutto si organizza sulla triade utenti, consumatori o fruitori e servizi. Questi utenti sono l’uomo medio, l’uomo generico o se volete, l’uomo senza qualità e distinzione o, che accetta di essere considerato tale. Un altro carattere dei nonluoghi è legato al tempo sono concentrati esclusivamente sul presente. Essi non conoscono nessun altra dimensione temporale. Riflettono la precarietà che domina la modernità, abituandoci ad essa. Non per caso nei nonluoghi si transita ma non si abita. Tra i non luoghi spiccano per la loro importanza i cosiddetti centri commerciali e più in generale i mall. Vale a dire quelle aree pedonalizzate in cui troviamo uno o più luoghi di commercio o shopping mall. Tecnicamente i centri commerciali sono uno o più edifici in cui si concentrano numerose attività commerciali, dai negozi di merci, ai cinema, alle piscine, ai ristoranti, alle sale gioco. Sorgono in genere nelle periferie ed hanno lo scopo di concentrare in un unico spazio un considerevole numero di attività diverse. Quasi tutti sono pensati per essere penetrati con l’automobile, hanno un’ampia accessibilità e grandi parcheggi. Il cuore dei centri commerciali classici, quelli che cominciarono a sorgere in Italia verso gli anni ’80, è costituito da un ipermercato che fa da traino alle altre attività di commercio. Quando aprì al pubblico nel 1990 il centro commerciale Le Piramidi vicino Vicenza, considerato il più grande, aveva circa centocinquanta negozi. Oggi Le Gru di Torino, l’Oriocenter ad Orio, Euroma a Roma, per citare i più popolari, hanno circa trecento negozi ciascuno. C’è poi da osservare che per ragioni di politica del territorio i centri commerciali oggi sorgono soprattutto nelle cosiddette aree dismesse industriali. “Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo. L’ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità baudeleriana, non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati e promossi «luoghi della memoria», vi occupano un posto circoscritto e specifico. Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze, i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una tta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio «muto», un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’e mero, propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguar- do sia passibile.