Scarica Donne e cinema. Immagini del femminile dal fascismo agli anni Settanta e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! Donne nel cinema fascista Il cinema negli anni ‘30 subisce un grande sviluppo dopo la crisi degli anni ‘20, sia grazie all'avvento del sonoro sia grazie alle case di produzione, anche se rimane sempre una second comer rispetto all'America con Hollywood, che diventa internazionale e porta le immagini dei divi americani oltreoceano. Anche se in Italia dominava il fascismo e Mussolini riteneva il cinema l'arma più forte del regime, l'influenza americana era imminente e sovrastava le celebrazioni dei fasti italici. Nella Hollywood degli anni 30 è presente un divismo molto improntato al femminile e la partecipazione emotiva allo spettacolo del cinema gioca molto sull’empatia e l’immedesimazione con i personaggi, il più delle volte stereotipati, incarnati dai divi. «L'attore rappresenta quasi sempre il nucleo primo dell'industria cinematografica. Spesso, anzi, i produttori girano dei film soltanto per sfruttare la popolarità di un attore determinato», si legge ad esempio su «Cinema illustrazione» del 1938; così che anche in italia le dive americane spopolavano (Carole Lombard, di Joan Arthur, di Barbara Stanwyck e di Claudette Colbert, Jean Harlow, Bette Davis e Joan Crawford), la più trasgressiva di tutte è Marlene, in Marocco (1930) ad esempio che le valse un Oscar nel 1931, appare come una donna trasgressiva ma che si dovrà sottoporre ad un finale convenzionale, in ultimi attimi che ripareranno alle sue azioni . Durante questi anni, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, le donne non hanno i loro attributi tipici come la domesticità e l’arrendevolezza, ma al contrario giocano la carta dell’androginia. Un altro esempio potrebbe essere Joan Crawford (o Greta Garbo), aveva impersonato molte volte la donna flapper (spregiudicata e disinibita che mira al successo). Nel 1934 nasce in Italia, Cinecittà, che dà la nascita ad una casa cinematografica fascista, non a caso lo stesso anno entra in vigore il Codice Hays, lanciata da Luigi Freddi, direttore generale per la cinematografia che era un programma improntato sulla produzione di film di ispirazione morale. Nel 1935 viene statalizzata la Mostra di Venezia, per acclamare film e attori per privilegiare il regime. A questa mostra partecipavano anche attori di Hollywood e questo permetteva alla dittatura di esibire i buoni rapporti con Roosvelt. Non a caso sarà dopo che l'Italia avrà eliminato la concorrenza americana che avrà il suo periodo di splendore. Tra il 1938 e 39 ci sarà un'impennata della produzione nazionale e da quel momento si consoliderà una nostra forma di divismo, e a sua volta l'impegno propagandistico si moltiplicherà. Nasce l'istituto LUCE (unione cinematografica educativa), mezzo di propaganda del regime fascista e diffusione cinematografica... erano film di propaganda? Si, ma in maniera indiretta, in linea con la fascistizzazione sottile programmata da Freddi, che si basava sulla proposizione di messaggi esplicitamente politici, sulla valorizzazione di elementi tipici dell'ideologia fascista, ma allo stesso tempo percepiti dalle masse come prepolitici. La solidarietà, l’ordine, l'onestà, la coerenza, l'armonia fra le classi. Negli anni 30 nasce il sottogenere Telefoni bianchi’, commedie caratterizzate dalla presenza di telefoni di colore bianco nelle sequenze dei primi film prodotti in questo periodo, sintomatica di benessere sociale: uno status symbol atto a marcare la differenza dai telefoni popolari neri. Un esempio è Aida Valli, intorno al 1938 (fin dal 1940 simbolo di “femminile virilità” da cartolina: «Donne d’Italia! Ascoltate la voce della patria e arruolatevi nei servizi ausiliari», suona non caso la didascalia sovrapposta alla sua immagine in divisa militare distribuita in migliaia di copie all'indomani dell'entrata in guerra), Luisa Ferida, Paola Barbara, Elsa Merlini, Clara Calamai, Doris Duranti, Maria Denis, Isa Miranda, Vivi Gioi, sono solo alcuni fra i nomi più ricorrenti sulle locandine di regime. E ad ognuna viene appiccicata un'etichetta, sulla base di una standardizzazione dei ruoli, regola inderogabile di Cinecittà. Il tema del maschilismo nel cinema fascista: In realtà la declinazione di genere della cinematografia fascista appare tutt'altro che monolitica. Soprattutto si rivela assolutamente incoerente con le parole d'ordine tipiche della politica demografica mussoliniana, intrisa di toni ruralistici. Fin dagli esordi, al contrario, quello che gli schermi propongono è un abbinamento inconfondibile dell'immagine della donna alla «modernizzazione», la self- made woman. A differenza di quanto sarebbe avvenuto nel dopoguerra, quando mogli e mamme avrebbero conquistato la scena. L'uomo nei film di regime viene identificato molto spesso in colui che parte per fare il militare e viene elogiato e incoraggiato, spesso nel caso dovesse morire rimaneva un martire nell’ideale di tutti. Le protagoniste dei film di regime non sono quasi mai sposate e, se hanno dei figli, spesso sono illegittimi.94 Soprattutto non hanno una madre alle spalle, e nella stragrande maggioranza dei casi, come le loro colleghe d'oltreoceano, lavorano in città. Sono telefoniste, impiegate, segretarie, commesse, in linea peraltro con i risultati delle statistiche sull'occupazione. Basti pensare a ‘Gli uomini che mascalzoni’, il primo grande successo di Camerini, uscito nel 1932 all'insegna della celebrazione delle Fiera di Milano e dell'imprinting modernizzatore del regime, nel quale Mariù, commessa in una lussuosa profumeria del centro e poi addetta ad uno stand della fiera, non solo viene rappresentata come un’impiegata cui si prospettano tutta una serie di occasioni mondane, ma le si attribuisce persino la capacità - privato a quello culturale. Per comprendere al meglio la produzione cinematografica del periodo è necessario dunque tener conto di queste trasformazioni, in particolare di quelle destinate a lasciare un'impronta significativa nella mentalità collettiva. Dopo il ventennio fascista che — pur con le infinite contraddizioni implicite nella costruzione di diversi modelli di comportamento destinati alle donne delle diverse classi sociali - aveva dato un’apparenza di stabilità alle relazioni fra i sessi, negli anni dopo la guerra emergono nelle nuove generazioni segnali di un cambiamento nelle dinamiche del rapporto uomo/donna. Si passa così da un iniziale recupero dei tratti più tradizionali dei connotati della femminilità del dopoguerra al profilarsi di nuove identità di genere, soprattutto nella seconda metà degli anni Cinquanta; e in questo contesto il cinema svolge un ruolo tutt'altro che secondario. Si pone come modello che anticipa e favorisce le trasformazioni sociali, fornisce delle ipotesi di comportamento, propone delle soluzioni possibili e nuove ai problemi reali e dell'immaginario degli italiani. Avvengono inoltre delle rivoluzioni nel campo dei mass media con la nascita della televisione, l'influenza delle pubblicità nei consumi, la crescita delle città, l'emigrazione e l’avvio dell'industrializzazione... Dopo la conquista del voto nel 1946, la scena politica resta caratterizzata da una serie di piccoli passi, in realtà piuttosto timidi, verso l'applicazione di quelle norme, presenti nella Costituzione ma spesso ignorate nella pratica, che vanno nella direzione di una sostanziale parità tra uomini e donne. Così, se da un lato si assiste alla conquista di una piena cittadinanza, dall'altro si registra un calo dell'occupazione femminile e una scarsa partecipazione alla vita politica. Il cinema come luogo fisico diventa un luogo piacevole, che consentiva alle donne di uscire di casa e incontrare gli altri, infatti dal secondo dopoguerra si può iniziare a parlare di cinema di massa, gli affezionati al grande schermo raggiungono il picco più alto e il 1955 è l’anno in cui si vendono il maggior numero di biglietti. Negli stessi anni si affermerà la televisione facendo distogliere l’attenzione dalle sale cinematografiche. Dal momento che questo fenomeno era diffuso soprattutto dalle donne nasce il cinema ‘rosa’ in cui il personaggio femminile è il motore della storia, ma anche qui, il nuovo non rinnega la tradizione: ammodernati ma rassicuranti, i modelli di mascolinità e femminilità non mettono in discussione il ruolo pubblico /protettivo dell’uomo né la componente sacrificale/perdonante della donna. Proprio per le sue condizioni di paese da ricostruire, l’Italia del dopoguerra è stato dunque il paese europeo più recettivo nei confronti dei messaggi culturali americani, del resto già ampiamente diffusi negli anni Trenta. 172 E come allora il grande schermo rappresenta il mezzo di trasmissione più efficace della cosiddetta «americanizzazione»:173 il cinema hollywoodiano finisce con l’incarnare, in altre parole, «lo specchio della modernità» e il veicolo di nuove tendenze comportamentali.174 Non per niente il numero di film americani distribuiti in Italia dal dopoguerra in poi è davvero imponente, tanto che per tutto il decennio le percentuali degli incassi dei film made in USA sono quasi sempre il doppio di quelli italiani. Quegli anni hanno rappresentato insomma un periodo di evoluzione e di cambiamento della mentalità collettiva, e innegabilmente la cultura statunitense ha influenzato i comportamenti, l'immagine e l'immaginario delle donne italiane, che spesso consideravano i traguardi raggiunti dalla società americana un esempio a cui ispirarsi. Per incentivare la ripresa dell'industria cinematografica dopo gli anni della guerra, per conquistare platee più vaste e contrastare lo strapotere dei film americani, fino alla metà degli anni Cinquanta vengono messe in atto diverse strategie, e in primo luogo si punta sul consolidamento di un sistema di generi che rispecchino i gusti del pubblico in base alle appartenenze sociali e geografiche. I film cosiddetti “d’autore” sono destinati al pubblico borghese dei centri urbani e delle sale di prima visione; i film comici e quelli musicali, i melodrammi, i drammi storici ai ceti popolari che affollano le seconde e le terze visioni delle periferie e dei centri minori. Va aggiunto poi il mercato locale, soprattutto meridionale, con il successo del filone napoletano, ricco di film musicali e melodrammi. Il sistema dei generi dura fino alla metà del decennio, quando inizia ad affermarsi un prodotto “medio”, la commedia. Se nei film drammatici le figure femminili sembrano tutte abbastanza simili, nelle commedie c'è una maggiore varietà di tipologie: emergono modelli di corpo e di comportamento a volte anche antitetici, sempre caratterizzati dalla compresenza di elementi tradizionali e tratti più innovativi. La ragazza “semplice”, la contadina, la cameriera, la ballerina, l'attrice, la mannequin, la prostituta e, nella seconda parte del periodo, anche la giovane ribelle, la donna che lavora e la casalinga rappresentano le figure di donna che più spesso si incontrano nelle commedie. Dopo la guerra, in un’epoca di collasso e rinascita della nazione, gli italiani si trovarono di fronte al compito di inventare una nuova identità collettiva, e proprio la bellezza femminile fu spesso utilizzata come simbolo dell’identità nazionale. Già in occasione della proclamazione della repubblica nel 1946, il settimanale «Tempo» propose come emblema della Repubblica italiana il volto sorridente di una giovane donna e, da quel momento in poi, durante tutto il secondo dopoguerra, si sarebbe assistito alla promozione simbolica in chiave nazionalista della bellezza comune. Non era un caso dunque che le nuove dive del cinema italiano provenissero dalla passerella di «Miss Italia»: Silvana Pampanini (seconda classificata nella prima edizione del 1946), Lucia Bosè (vincitrice nel 1947), Gina Lollobrigida, Eleonora Rossi Drago e Gianna Maria Canale (finaliste nell’edizione vinta dalla Bosè) e Sophia Loren (per la quale fu coniato nel 1950 il titolo di «Miss Eleganza»). Il corpo femminile finisce insomma con l’incarnare, il luogo in cui inscrivere la nuova rappresentazione di un'identità nazionale ostinatamente ricercata, i cui connotati più elementari si riallacciassero a immagini di bellezza, fecondità e “naturalezza. Si enfatizza in questo periodo il bisogno dello spettatore di immedesimarsi in quelle figure che incarnavano una ‘finta’ perfezione dettata dalla cultura e società di quel tempo. Tutti personaggi femminili caratterizzati da un aspetto fisico prorompente, che incarnano l’idea di una sessualità istintiva e spontanea, esplicita ma allo stesso tempo priva di perversione, simbolo piuttosto di prosperità, salute, fertilità e semplicità. Sono state fatte varie ipotesi sulle ragioni del successo di un tipo di corpo femminile così florido: da una parte il desiderio degli italiani di dimenticare le ristrettezze della guerra e dell’immediato dopoguerra, dall’altra il mammismo che affliggerebbe la cultura nazionale. Il primo modello, rassicurante, di corpo che si incontra nel dopoguerra e nei primi anni Cinquanta è quello delle cosiddette “maggiorate fisiche”, dall'espressione che Vittorio De Sica usa per definire Gina Lollobrigida nell’episodio Il processo di Frine del film Altri tempi di Alessandro Blasetti (1952). Nella seconda metà degli anni Cinquanta, insomma, le attrici e le giovani donne presenti sugli schermi cinematografici e sui giornali non sono più solo “bersagliere” o maggiorate, e prefigurano un modello di corporeità che non appare più legato all'Italia o al piccolo paese d'origine, ma si collega a codici estetici sempre più urbani o transnazionali...questo perché le star riflettono i rinnovati ruoli delle donne nella società. Spesso gli stereotipi femminili erano realizzati esclusivamente per la soddisfazione maschile. Nel decennio successivo i film che preponevano immagini del femminile o del maschile o dei rapporti tra essi furono sottoposti ad una serie di censure o controlli : -1947 normativa variata da quella del 1923 di Mussoli, in cui tutti i film prima di essere proposti al pubblico dovevano essere revisionati e nel caso tagliati o modificati dall'Ufficio centrale della cinematografia che doveva concedere il nulla osta. -1962, si stabiliscono i divieti ai minori di 14 e 18 anni La sua appare una carriera di tutto rispetto, costellata da ruoli importanti, a prescindere dalla presenza di partner maschili più celebri. Soprattutto risultò una delle attrici più premiate dagli incassi dei botteghini, e divenne quindi la più contesa come protagonista dei “cinepanettoni” di Adriano Celentano, Renato Pozzetto e Francesco Nuti. Molti dei film della Muti, privi della benché minima aspirazione a cavalcare le tematiche delle battaglie civili in corso, sono piuttosto caratterizzati da una tensione erotica a volte persino imbarazzante, come in Romanzo popolare (1974) e Primo amore (1978), la cui trama è incentrata sull’ossessione che il suo corpo così conturbante provoca in un Tognazzi ormai maturo. Non faceva parte né della generazione che aveva conosciuto le privazioni della guerra, né di quella che aveva sperimentato le avversità del periodo postbellico; apparteneva piuttosto alla prima generazione cresciuta nell’era del consumismo e della prosperità. Per dirla con Pasolini, la Muti rappresentava la tipica personificazione di una tolleranza liberaleggiante, di puro stampo americano. Laura Antonelli come la Melato e la Muti, Laura Antonelli ha recitato in film di diverso genere: commedie, drammi, film d'autore e filmetti commerciali. Aveva debuttato nel 1966 a venticinque anni, e dunque delle attrici prese in esame era stata la prima ad assurgere alle luci della ribalta, e anche la prima star del nascente cinema erotico italiano, le cui fortune sarebbero lievitate col tempo. Di origine istriana, si era trasferita giovanissima a Roma, dove si sarebbe stabilita. Aveva capelli castani, un corpo dalle curve sinuose e un'espressione un po’ malinconica, che la distingueva dalle attrici del dopoguerra. Come nel caso della Muti, la bellezza giocò un ruolo chiave nella sua scalata al successo, benché la notorietà sarebbe arrivata per lei solo dopo i trent'anni, quando nel 1973 interpretò Malizia di Salvatore Samperi. Recitò in molte commedie italiane come quelle di Dino Risi e in vari film francesi. Affermò: Non mi dà fastidio né mi turba [essere una sex symbol]. Anzi, in un certo senso ne sono compiaciuta: essere bella non è un peccato mortale. Anche perché non faccio della bellezza lo scopo finale e assoluto della mia vita. Soprattutto, non mi sento per niente uno strumento sessuale: al contrario, sono la padrona assoluta di me stessa, nessuno mi strumentalizza. Non rinnego nemmeno uno dei film che ho fatto. Mi hanno dato la fama di sex-symbol? Tanto meglio. Però mi preoccupo di esserlo solo sul set. Dopo, finito il film, dimentico la mia immagine erotica, proprio come ci si toglie un abito. Per quanto è possibile, cerco anche di scordarmi dell'attrice: non voglio essere condizionata né da quel ruolo, né dalla professione. Nel senso che cerco di vivere anche come donna, senza farmi stritolare dall’ingranaggio del successo, senza cadere nella trappola della camera come unico scopo dell’esistenza. Molti studi individuano nella “strategia dell’erotizzazione” una semplice risposta alla crisi da parte del cinema italiano del tempo. Al ruolo delle attrici e delle star, ridotte a corpi attorno ai quali erano costruite trame incentrate su scene di nudo destinate al piacere degli spettatori maschi, viene quindi riservata un’attenzione del tutto marginale, se non addirittura nulla. Il mio saggio invece, distaccandosi in maniera radicale da analisi di questo tipo, prospetta una lettura dell’erotizzazione del cinema come un fenomeno complesso: una risposta alle profonde trasformazioni in atto nelle relazioni dei genere, destinata ad assumere accenti diversi, irriducibili al semplice paradigma della mercificazione del corpo femminile. Melato, Muti e Antonelli sono dunque prospettate come l'incarnazione di differenti percezioni della femminilità in un momento di radicali cambiamenti del ruolo delle donne all'interno della società italiana. Appaiono insomma come figure conflittuali: volti e corpi attraverso i quali viene espressa una moltitudine di desideri, aspirazioni e fantasie. E in questo contesto ognuna ha svolto ruoli diversi. La Melato ha rappresentato una voce dell'emancipazione femminile: un'attrice di talento che sceglieva attentamente i copioni e manteneva nella vita privata un comportamento coerente con l'immagine di sé che offriva sullo schermo. La Muti, sulla cui immagine più di ogni altra doveva cristallizzarsi il conflitto generazionale, soprattutto ma non solo nelle sue implicazioni sul piano sessuale, è apparsa una figura di transizione, destinata a indirizzare una serie di impulsi innovativi verso nuove forme di consenso. La Antonelli infine è riuscita a fondere e forse persino a riconciliare all’interno del proprio personaggio pulsioni apparentemente contraddittorie, liberatorie e allo stesso tempo conservatrici. Nonostante le molte differenze, non possiamo poi ignorare il fatto che ogni attrice abbia mostrato comunque un grado di autonomia nella gestione della propria carriera sconosciuto sia alle star di Hollywood al tempo degli studios che alle attrici italiane del periodo postbellico, sebbene solo la Melato possa vantare un curriculum del tutto esente da compromessi. Per questo, in fin dei conti, tutte e tre le star italiane — è l'assunto fondamentale della mia tesi — meritano di essere considerate parte attiva del processo di profondo cambiamento in atto nell'Italia del tempo, e non come un suo mero riflesso.